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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di MAGGIO 2012

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aggiornamento al 30.05.2012

aggiornamento al 28.05.2012

aggiornamento al 23.05.2012

aggiornamento al 21.05.2012

aggiornamento al 16.05.2012

aggiornamento al 14.05.2012

aggiornamento al 07.05.2012

aggiornamento al 02.05.2012

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 30.05.2012

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S.O.S. TERREMOTO EMILIA ROMAGNA:
e se capitasse a te ??

     E’ attivo dalle 19.00 di ieri martedì 29 maggio e fino al 26 giugno il numero solidale 45500 per la Campagna di raccolta fondi straordinaria a favore delle popolazioni della Regione Emilia Romagna duramente colpite dagli eventi sismici, il cui ricavato verrà versato sul Fondo della Protezione Civile.
     Il valore della donazione sarà di:
Þ 2 euro per ciascun SMS inviato da cellulari: TIM, Vodafone, WIND, 3, Poste Mobile, CoopVoce, Tiscali e Noverca;
Þ 2 euro per ciascuna chiamata fatta allo stesso numero da rete fissa di: Telecom Italia, Infostrada, Fastweb, TeleTu e Tiscali.

     Quindi, non perdere tempo: telefona oppure invia un SMS al 45500 e fai la Tua generosa offerta per quella povera gente che ha perso tutto ... non restare indifferente perché l'indifferenza uccide più del terremoto !!

E non dire: "Sì, un attimo ... lo faccio dopo ...".
Telefona ora, adesso, subito !!
30.05.2012 - LA SEGRETERIA PTPL

* * * * *

 

IN EVIDENZA

URBANISTICA: Libertà di stabilimento – Restrizioni allo stabilimento di esercizi di commercio al dettaglio di grandi dimensioni.
Le restrizioni alla libertà di stabilimento che siano applicabili senza discriminazioni basate sulla cittadinanza possono essere giustificate da motivi imperativi di interesse generale, a condizione che siano atte a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito e non vadano oltre quanto necessario al raggiungimento dello stesso.
Fra tali motivi imperativi riconosciuti dalla Corte figurano, tra gli altri, la protezione dell’ambiente, la razionale gestione del territorio nonché la tutela dei consumatori. Per contro, finalità di natura puramente economica non possono costituire un motivo imperativo di interesse generale.

73 - Secondo una giurisprudenza costante, le restrizioni alla libertà di stabilimento che siano applicabili senza discriminazioni basate sulla cittadinanza possono essere giustificate da motivi imperativi di interesse generale, a condizione che siano atte a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito e non vadano oltre quanto necessario al raggiungimento dello stesso (v. sentenze 10.03.2009, causa C‑169/07, Hartlauer, Racc. pag. I‑1721, punto 44; 19.05.2009, cause riunite C‑171/07 e C‑172/07, Apothekerkammer des Saarlandes e a., Racc. pag. I‑4171, punto 25, nonché Blanco Pérez e Chao Gómez, cit., punto 61).
74 - Fra tali motivi imperativi riconosciuti dalla Corte figurano, tra gli altri, la protezione dell’ambiente (v., in particolare, sentenza 11.03.2010, causa C‑384/08, Attanasio Group, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 50 e giurisprudenza ivi citata), la razionale gestione del territorio (v., per analogia, sentenza 01.10.2009, causa C‑567/07, Woningstichting Sint Servatius, Racc. pag. I‑9021, punto 29 e giurisprudenza ivi citata) nonché la tutela dei consumatori (v., in particolare, sentenza 13.09.2007, causa C‑260/04, Commissione/Italia, Racc. pag. I‑7083, punto 27 e giurisprudenza ivi citata).
Per contro, finalità di natura puramente economica non possono costituire un motivo imperativo di interesse generale (v., in tal senso, in particolare, sentenza 15.04.2010, causa C‑96/08, CIBA, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 48 e giurisprudenza ivi citata).
...
Per questi motivi,
la Corte (Seconda Sezione) dichiara e statuisce:
1)
Il Regno di Spagna è venuto meno agli obblighi ad esso incombenti ai sensi dell’art. 43 CE avendo adottato e/o mantenendo in vigore le seguenti disposizioni:
– l’art. 4, n. 1, della legge 27.12.2005, n. 18/2005, relativa alle strutture commerciali (Ley 18/2005 de equipamientos comerciales),
nella parte in cui vieta l’insediamento di grandi esercizi commerciali al di fuori dell’agglomerato urbano di un numero limitato di comuni;
– gli artt. 7 e 10, n. 2, dell’allegato al decreto 10.10.2006, n. 379/2006, recante approvazione del piano territoriale settoriale delle strutture commerciali (Decreto 379/2006 por el que se aprueba el Plan territorial sectorial de equipamientos comerciales), nonché l’allegato 1 del medesimo allegato,
nella parte in cui dette disposizioni limitano l’insediamento di nuovi ipermercati ad un numero ristretto di province e impongono che tali nuovi ipermercati non assorbano oltre il 9% della spesa per beni di largo consumo o oltre il 7% della spesa per beni non di uso corrente;
– l’art. 6, n. 2, primo comma, della legge 15.01.1996, n. 7/1996, recante disciplina della vendita al dettaglio (Ley 7/1996, de ordenación del comercio minorista), l’art. 8 della legge n. 18/2005, relativa alle strutture commerciali, e gli artt. 31, n. 4, e 33, n. 2, del decreto 10.10.2006, n. 378/2006, recante attuazione della legge n. 18/2005 (Decreto 378/2006 por el que se desarolla la Ley 18/2005),
nella parte in cui tali disposizioni richiedono l’applicazione di soglie massime attinenti al livello d’insediamento e all’incidenza sugli esercizi commerciali al dettaglio preesistenti, al di là delle quali è impossibile aprire nuovi grandi esercizi commerciali e/o nuovi esercizi commerciali di medie dimensioni, e
– l’art. 26 del decreto 10.10.2006, n. 378/2006, recante attuazione della legge n. 18/2005, nella parte in cui disciplina la composizione della Comisión de Equipamientos Comerciales (Comitato per le strutture commerciali) in modo tale che risulta garantita la rappresentanza degli interessi del commercio al dettaglio preesistente mentre non è prevista la rappresentanza di associazioni attive nel settore della protezione dell’ambiente e dei gruppi d’interesse per la tutela dei consumatori (Corte di Giustizia UE, Sez. II, sentenza 24.03.2011 n. C-408/08 - link a http://curia.europa.eu).
---------------
     La sopra riportata sentenza, ancorché di un anno fa, "capita a fagiuolo" (come si sul dire) per quanto dispone la recentissima L.R. 18.04.2012 n. 7 (Misure per la crescita, lo sviluppo e l’occupazione) e, nella fattispecie, l'art. 18 che di seguito riportiamo per comodità di lettura:
"Art. 18. (Modifica all'articolo 51 della l.r. 12/2005)
1. Il comma 1-bis dell'articolo 51 della l.r. 12/2005, è sostituito con il seguente:
«1-bis. Relativamente agli ambiti di cui all'articolo 10, comma 2, i comuni definiscono i criteri per l'individuazione delle destinazioni d'uso escluse, al fine di evitare possibili danni alla salute, al patrimonio artistico e culturale, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, all'ambiente ed al paesaggio, ivi incluse la tutela del decoro, del contesto sociale e architettonico, nonché alla salvaguardia e promozione dell'identità e della cultura locale.»".

     Quando fu presentato il 13.02.2012 al Consiglio Regionale il PROGETTO DI LEGGE N. 0146 di iniziativa del Presidente della Giunta regionale il testo non ricomprendeva l'art. 18 nell'attuale formulazione pubblicata sul BURL e tale disposizione è stata introdotta nel testo approvato dalla Commissione Consiliare nella seduta del 28.03.2012 la cui relazione di accompagnamento così spiega la ratio dell'art. 18 in questione:
"Art. 18
(Modifica dell’articolo 51 della l.r. 12/2005)
L’articolo, introdotto in fase istruttoria dalla Commissione referente, sostituisce il comma 1-bis dell’articolo 51 della l.r. 12/2005, prevedendo che i comuni definiscano i criteri per l’individuazione delle destinazioni d’uso escluse, al fine di evitare possibili danni alla salute, al patrimonio artistico e culturale, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, all’ambiente ed al paesaggio, ivi incluse la tutela del decoro, del contesto sociale e architettonico, nonché alla salvaguardia e promozione dell’identità e della cultura locale."

     Ebbene,
qualcuno ci vuole spiegare l'effettivo significato di tale disposizione normativa?? Una relazione di accompagnamento che riporti, a mo' di spiegazione dell'intento del legislatore, le medesime parole dell'articolato che razza di spiegazione è ?? Con tutta franchezza, non ci sembra il massimo della chiarezza .... Invero, un'idea ce la siamo fatta anche perché un illustre personaggio politico (vivente) tempo fa disse che "A pensar male degli altri si fa peccato ma spesso ci si indovina".
     Ora,
vuoi vedere che presto o tardi la Regione Lombardia avrà l'ennesima "bastonata" istituzionale per una norma che contrasta (nel caso di specie) col diritto comunitario ?? Non ci resta altro da fare che essere spettatori dell'inesorabile trascorrere del tempo ...

30.05.2012 - LA SEGRETERIA PTPL

DOTTRINA E CONTRIBUTI

URBANISTICA: M. Mazzoleni, Ancora sulla VAS, «alla prova» davanti ai giudici italiani (nota a C.d.S. n. 133/2011) (link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G. Amendola, IL TRASPORTO DI RIFIUTI PERICOLOSI SENZA FORMULARIO E’ REATO (link a www.lexambiente.it).

QUESITI & PARERI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Il contributo degli pneumatici fuori uso è parte del corrispettivo di vendita? È assoggettato ad IVA? (28.05.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: In tema di bonifica vale la regola del “più probabile che non”? (28.05.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Come può essere l’organizzazione territoriale del servizio di gestione integrata dei rifiuti? (28.05.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Al momento che si conferiscono rifiuti per il trattamento può essere riconosciuto per il riciclo un prezzo inferiore che per il recupero energetico? (28.05.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Come vanno smaltiti i pannelli fotovoltaici usati? (28.05.2012 - link a www.ambientelegale.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALIAssunzioni bloccate nei mini-enti. Gli effetti della delibera della Corte dei conti che impone il rispetto del turn-over. L'interpretazione supera la regola che imponeva solo di non aumentare la spesa ai Comuni sotto i 5mila abitanti.
CONFINE INCERTO/ Prevista una deroga all'obbligo di dimezzare i contratti flessibili nelle amministrazioni con «strutture ridotte».

Un nuovo duro colpo per i Comuni medio-piccoli, e soprattutto per quelli non soggetti al Patto di stabilità, è arrivato dalla
delibera 17.04.2012 n. 11 della Corte dei Conti, che in queste settimane ha acceso un vivace dibattito interpretativo. Con la pronuncia, gli enti piccoli vedono limitarsi le assunzioni a tempo indeterminato nel limite turn-over. Forti, di conseguenza, le proteste dell'Anci. In compenso, le stesse amministrazioni possono derogare dal vincolo del 50% della spesa 2009 per quanto riguarda il lavoro flessibile, ma solo in presenza di apposita regolamentazione. Si possono così riassumere le ultime puntate della telenovela che ha per oggetto le assunzioni di personale. Ma andiamo con ordine.
Il quadro sembrava assodato sul fronte della provvista di personale a tempo indeterminato da parte degli enti non soggetti al Patto: in caso di rapporto tra spesa di personale e spesa corrente inferiore al 50%, il riferimento restava l'articolo 1, comma 562, della legge 296/2006, che prevede il contenimento della spesa di personale rispetto all'ammontare del 2004 (oggi sostituito con il 2008) e la sostituzione integrale delle cessazioni avvenute nell'anno precedente.
Anche dopo le modifiche introdotte con la manovra estiva 2010 all'articolo 76, comma 7, del Dl 112/2008, la Corte dei conti, Sezioni riunite, con le deliberazioni 3 e 4 del 2011, ha ritenuto ancora applicabile il comma 562, e gli enti hanno operato di conseguenza. Poi le stesse Sezioni Riunite, nella delibera 11/2012, scrivono che l'articolo 14, comma 9 del Dl 78/2010 «ha introdotto per tutti gli enti, sia quelli sottoposti al Patto sia quelli esclusi, una restrizione alle assunzioni di personale che possono essere effettuate nel limite del 20 (oggi 40) per cento della spesa corrispondente alle cessazioni dell'anno precedente».
Sono evidenti le ricadute di questa nuova posizione sulle amministrazioni non soggette al Patto: in pratica vuol dire divieto di assunzione. E in più, che ne sarà delle assunzioni effettuate nel 2011 o nel 2012 per sostituire completamente le cessazioni dell'anno precedente? Almeno non potrà ravvisarsi il dolo o la colpa grave del soggetto che le ha disposte.
Ma qualcosa di buono c'è. La stessa Corte, sempre nella delibera 11, evidenzia come la disposizione che impone il limite del 50% della spesa del 2009 per il lavoro flessibile (articolo 9, comma 28, del Dl 78/2010, come modificato dall'articolo 4, comma 102, della legge 183/2011) assuma, per gli enti locali, carattere di norma di principio volta, da un lato, a limitare il ricorso ad incarichi a termine a favore dei contratti a tempo indeterminato e, dall'altro, ad evitare che il lavoro flessibile consenta di aggirare i limiti del tempo indeterminato.
Per l'applicazione concreta, i magistrati contabili distinguono gli enti più grandi dalle amministrazioni che hanno una struttura organizzativa minima. I primi hanno a disposizione un ampio ventaglio di possibilità per soddisfare le temporanee esigenze di personale e, quindi, non necessitano di adattamenti del principio contenuto nella norma.
Le seconde, invece, nella loro autonomia ordinamentale, devono adottare un regolamento per adeguare la disciplina alla propria realtà. Nel regolamento, possono prevedere la deroga al limite del 50%, se richiesta per garantire le funzioni fondamentali e non è possibile trovare la soluzione al problema attraverso una riorganizzazione del lavoro.
In ogni caso, però, si deve rispettare la progressiva riduzione della spesa per lavoro flessibile. La domanda, a questo punto, sorge spontanea: dove è il confine che distingue gli enti di dimensioni non ridotte da quelli che hanno una struttura organizzativa minima?
---------------
Che cosa cambia
01 | PRIMA DELLA DELIBERA
Gli enti non soggetti al Patto di stabilità (cioè, fino al 2013, i Comuni fino a 5mila abitanti) erano soggetti al vincolo che impediva di superare la spesa di personale registrata nel 2004 (oggi aggiornata al 2008) e di sforare il tetto del 40% (oggi 50%) nel rapporto fra spesa di personale e uscite correnti
02 | DOPO LA DELIBERA
Secondo le sezioni riunite della Corte dei conti anche gli enti non soggetti al Patto sono tenuti a rispettare i vincoli del turn-over, che limitano le assunzioni al 20% (ora alzato al 40%) delle cessazioni dell'anno precedente (articolo Il Sole 24 Ore del 28.05.2012 - tratto da www.corteconti.it).

NEWS

ENTI LOCALIPAGAMENTI P.A. - Procedura semplificata: il riconoscimento dei crediti verso la p.a. avviene tramite moduli. La certificazione è standardizzata.
Certificazione semplificata per i crediti relativi a somministrazioni, forniture e appalti vantati dalle imprese nei confronti di amministrazioni statali, regioni, enti locali ed enti del Servizio sanitario nazionale da utilizzare per compensare debiti contributivi, assistenziali, previdenziali e assicurativi iscritti a ruolo alla data del 30.04.2012, o per ottenere un'anticipazione bancaria (eventualmente anche assistita dalla garanzia del Fondo centrale di garanzia), o per cedere il proprio credito.
Sono le novità del pacchetto di misure annunciato dal governo il 22 maggio scorso, che si compone di quattro decreti ministeriali e un accordo Abi-Imprese. Si tratta di un primo tassello di un progetto riformatore del governo.
Le prossime fasi, stando alle dichiarazioni dei giorni scorsi, riguarderanno l'obiettivo di trovare spazio nel bilancio per pagare i debiti pregressi (fase 2) e la necessità di dare completa attuazione alla direttiva sui ritardi dei pagamenti nelle transazioni commerciali (fase 3).
La certificazione. La novità della standardizzazione del procedimento consiste in questo: la certificazione si ottiene mandando un semplice modulo standard all'ente debitore. Con tale istanza, il creditore fornisce fatture ed estremi della prestazione, precisando se intende utilizzare il credito in compensazione con somme iscritte a ruolo e si impegna a non attivare procedimenti in sede giurisdizionale fino alla data indicata per il pagamento (o 12 mesi se la data non è indicata).
L'ente ha 60 giorni di tempo per rispondere, riconoscendo il debito oppure argomentandone l'inesigibilità totale o parziale. Per rispondere utilizza anche in questo caso un modulo standard. Se la p.a. non risponde in tempo, viene nominato un commissario ad acta che nei successivi 60 giorni risponderà al debitore, utilizzando un altro modulo standard. La semplificazione che si ottiene tramite l'utilizzo delle modalità elettroniche è di rilevante importanza per i soggetti interessati, in quanto si evitano così gli obblighi di redazione di atto pubblico e di notificazione nel caso di cessione.
La compensazione. Con la certificazione l'amministrazione debitrice accetta preventivamente la possibilità che il credito venga ceduto a banche o intermediari finanziari abilitati. In alternativa alla cessione, una volta seguito il procedimento della certificazione, il fornitore potrà scegliere di optare per l'istituto della compensazione avvalendosi di un processo semplice e rapido (con comunicazioni in Pec e termini molto stretti).
La compensazione può essere operata solo in caso di imposte iscritte a ruolo entro il 30/04/2012 sia erariali sia locali, anche per crediti verso gli enti del Servizio sanitario nazionale, nonché per contributi sociali e premi assicurativi Inail. L'estensione ad altre entrate riscosse mediante ruolo potrà essere estesa con successivo decreto del Mef.
Il procedimento è il seguente:
1. Il creditore presenta la certificazione del credito all'agente di riscossione e indica le posizioni debitorie che intende estinguere;
2. L'agente (entro 3 gg. con Pec) invia richiesta all'ente debitore per verificare la veridicità della certificazione;
3. L'ente debitore risponde entro dieci gg.;
4. In caso di esito positivo, il debito si compensa con il credito e l'agente comunica all'ente entro cinque gg. con Pec l'avvenuta compensazione. L'ente debitore è tenuto al pagamento dell'importo compensato entro 12 mesi dalla certificazione. In caso di mancato pagamento spontaneo da parte dell'ente debitore dell'importo certificato utilizzato in compensazione, questo viene recuperato mediante riduzione delle somme dovute dallo stato all'ente territoriale a qualsiasi titolo (eccezione per le risorse destinate al finanziamento corrente del Ssn).
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Cessione con procedura semplificata.
Il pacchetto di decreti presentato dal governo in tema di certificazione dei crediti commerciali promette di semplificare e favorire l'accelerazione dei pagamenti dei fornitori di beni e servizi della pubblica amministrazione. Ciò potrà avvenire in modi e forme diversi, a scelta del creditore, che potrà optare per la compensazione dei propri crediti con debiti iscritti a ruolo, per l'assegnazione di titoli di stato in luogo dell'adempimento del proprio credito da parte della p.a. ovvero per l'anticipazione o la cessione dei crediti a banche o intermediari finanziari.
Ciascuna di queste opzioni presuppone che il credito sia stato certificato attraverso la procedura prevista nei decreti. I crediti oggetto della certificazione sono crediti connessi a transazioni commerciali vantati per l'acquisizione di servizi, forniture, che siano certi, liquidi ed esigibili. La certificazione sarà, tra l'altro, funzionale alla cessione del credito a istituti bancari o finanziari e prevederà modalità semplificate di stipula e notifica della cessione, per cui verrebbe meno il requisito della forma dell'atto pubblico o scrittura autenticata per la cessione, e quello della notifica sarebbe assolto attraverso la piattaforma telematica.
Con la certificazione, inoltre, la cessione del credito sarebbe preventivamente accettata dall'amministrazione. Occorrerà attendere la formalizzazione degli accordi tra l'Abi e le associazioni imprenditoriali per comprendere meglio le modalità di attuazione per lo smobilizzo dei crediti delle imprese. Al momento della certificazione di crediti superiori a 10 mila euro verrà effettuata anche la verifica di eventuali inadempienze all'obbligo di versamento derivanti da cartelle di pagamento ai sensi dell'art. 48-bis del dpr 602/1973.
Non è chiaro, allo stato, se una volta che il credito sia stato ceduto, e la cessione accettata nelle forme semplificate, tale verifica non verrà poi più ripetuta dall'amministrazione sul cedente/fornitore, ma soltanto sul cessionario del credito, al momento del pagamento. Con l'istanza di certificazione, si richiederà al creditore di impegnarsi a non attivare procedimenti in sede giurisdizionale per un certo periodo di tempo, fino a un massimo di 12 mesi. La certificazione tuttavia, non dovrebbe pregiudicare i diritti dei creditori a percepire gli interessi dovuti in relazione ai crediti certificati.
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Compensazione, i sette step.
La compensazione tra crediti commerciali verso stato, regioni ed enti locali e debiti iscritti a ruolo non è di per sé una novità.
Chi ha rapporti commerciali con gli enti pubblici ben conosce l'operatività dell'art. 48-bis del dpr 602/1973 che prevede già oggi l'obbligo per ogni debitore pubblico di verificare, prima di procedere al pagamento di importi eccedenti 10 mila euro, che non vi siano iscrizioni a ruolo a carico del beneficiario, ciò al fine di consentire a Equitalia la compensazione del credito con il debito d'imposta iscritto a ruolo.
Con i decreti ministeriali alla firma di Monti si introduce tuttavia un'importante novità: si consente cioè anche all'imprenditore/creditore dello stato di prendere l'iniziativa e di anticipare il pagamento del proprio credito commerciale attraverso la compensazione con un debito iscritto a ruolo relativamente a imposte o contributi previdenziali e assistenziali. Prima di attivare la compensazione è necessario avere ben presente sia lo stato dei debiti iscritti a ruolo che alcuni elementi della procedura, che possiamo così riassumere:
1) sarà opportuno chiedere all'ufficio di Equitalia una visura aggiornata delle iscrizioni a ruolo;
2) individuare l'ammontare delle iscrizioni a ruolo relative ai tributi erariali, locali e ai contributi previdenziali e assistenziali comprensive di sanzioni e interessi. Non tutti gli importi iscritti a ruolo sembrano oggetto di compensazione;
3) verificare con il proprio consulente fiscale lo stato di eventuali contenziosi fiscali, l'eventuale iscrizione di ipoteca su immobili o fermo amministrativo su mezzi di trasporto a garanzia di specifiche cartelle esattoriali o l'inizio di procedure esecutive, ciò al fine di compensare per primi i debiti iscritti a ruolo potenzialmente più onerosi;
4) acquisire dal creditore pubblico la certificazione del credito che potrebbe non costituire riconoscimento di debito, ma esclusivamente un'attestazione dell'esistenza del credito ai soli fini di consentire la compensazione;
5) recarsi con la certificazione del credito presso Equitalia con la lista dei debiti iscritti a ruolo che si vuole compensare con il credito commerciale;
6) ottenere (in 2/3 settimane) la comunicazione di Equitalia di avvenuta compensazione del credito a seguito dei controlli con l'ente pubblico debitore;
7) ritirare l'attestazione di avvenuta compensazione (articolo ItaliaOggi Sette del 28.05.2012).

ENTI LOCALI - VARIIl notaio non si può considerare organo della p.a..
Lo
studio 16.02.2012 n. 21-2012/C del Consiglio nazionale del notariato dedicato alle novità introdotte dalla legge numero 183 del 2011 ha limitato l'applicazione delle legge 183 nell'attività dei notai.
Nel dettaglio lo studio del Cnn arriva alla conclusione che non è possibile estendere l'autocertificazione anche nei rapporti che si svolgono tra il privato e il notaio. Non si può, infatti, considerare il notaio come un organo della pubblica amministrazione. La conseguenza di questa impostazione è che non devono essere sostituiti dalle dichiarazioni sostitutive sia i certificati da prodursi al notaio e sia i certificati allegati agli atti notarili, come ad esempio l'estratto dell'atto di morte di cui all'articolo 620, comma 3, codice civile, necessario per la pubblicazione di un testamento olografo. Il notaio, anzi, per ragioni di opportunità, deve controllare che i certificati che gli sono presentati, contengano la dicitura sulla inutilizzabilità dello stesso presso organi della pubblica amministrazione. Si potrebbe sostenere che la mancanza della dicitura sia un vizio solo formale, ma questa interpretazione non è pacifica, e quindi è meglio essere prudenti.
Inoltre l'articolo 40 citato non riguarda tutti i certificati rilasciati dalla Pubblica amministrazione, ma solo quelli che si riferiscono a stati, qualità personali e fatti: è escluso, quindi, il certificato di destinazione urbanistica di cui all'articolo 30 del Testo unico per l'edilizia, dpr n. 380/2001. Altro aspetto è se la normativa sia applicabile alle certificazioni che i notai debbono utilizzare nei rapporti con organi della pubblica amministrazione. La risposta dello studio è affermativa. In seguito alle novità, pertanto, non si possono più presentare i certificati: alla dichiarazione di successione sicuramente potrà essere allegata la dichiarazione sostitutiva di certificazione (come peraltro già previsto dall'articolo 30, comma 3, del dlgs 346/1990).
Tuttavia va ricordato che l'articolo 6, comma 5, del dl 16/2012, in tema di attività e certificazioni in materia catastale, ha stabilito una deroga all'articolo 40: le disposizioni sulla decertificazione non si applicano ai certificati e alle attestazioni da produrre al conservatore dei registri immobiliari per l'esecuzione di formalità ipotecarie, nonché ai certificati ipotecari e catastali rilasciati dall'Agenzia del territorio.
In conclusione i certificati continuano a essere utilizzabili nei confronti dei notai, del resto così come nei confronti dei tribunali (articolo ItaliaOggi Sette del 28.05.2012).

PUBBLICO IMPIEGO - VARILavoratori invalidi con più tutele. Un mese di congedo se la disabilità è superiore al 50%. La novità introdotta dal dlgs 119/2011. Ecco tutte le mosse per avvalersi delle prerogative.
Un mese di congedo ai lavoratori invalidi. Se superiore al 50%, infatti, l'invalidità dà diritto a un congedo di 30 giorni all'anno per cure mediche connesse con lo stato d'invalidità, da fruire anche in maniera frazionata.
La novità, introdotta dalla riforma dei congedi dello scorso anno (articolo 7 del dlgs n. 119/2011) è una delle prerogative offerte ai lavoratori in caso di disabilità.
Ecco quelle principali e i passi da fare per avvalersene, sulla base delle indicazioni del ministero del lavoro.
Il congedo per cura. Il lavoratore a cui venga riconosciuta un'invalidità civile superiore al 50% hai diritto a un periodo di congedo retribuito per cure mediche connesse con lo stato d'invalidità della durata massima di 30 giorni all'anno, da fruire anche in maniera frazionata. Il datore di lavoro riconosce il congedo dietro domanda del lavoratore interessato, accompagnata dalla richiesta del medico convenzionato con il servizio sanitario nazionale o appartenente a una struttura sanitaria pubblica, dalla quale risulti la necessità della cura in relazione all'infermità invalidante riconosciuta.
Il congedo è retribuito e il relativo onere, calcolato secondo il regime delle assenze per malattia, è a carico del datore di lavoro. Qualora si tratti di trattamenti terapeutici continuativi, il lavoratore può produrre un'unica domanda e giustificazione dell'assenza, valevole come attestazione cumulativa.
I permessi. Il lavoratore che abbia ottenuto il riconoscimento dello «stato di handicap in situazione di gravità», ha diritto a usufruire, a sua scelta, di un permesso retribuito di due ore al giorno oppure di tre giorni mensili (articolo 33, comma 6, legge n. 104/1992). A tal fine è tenuto a presentare un'apposita domanda all'Inps che rilascerà una copia timbrata e firmata da consegnare al tuo datore di lavoro.
La disciplina nei contratti collettivi. Ogni contratto collettivo nazionale di lavoro (Ccnl) fissa la durata massima del periodo di malattia. È questo il «periodo di comporto» durante il quale il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto di lavoro. Nelle ipotesi di specifiche malattia invalidanti (come, per esempio, per le patologie oncologiche), oltre al prolungamento del periodo di comporto alcuni contratti prevedono ulteriori agevolazioni come ad esempio, sul passaggio al lavoro part-time o sui periodi di aspettativa non retribuita.
Altri contratti collettivi escludono dal calcolo del periodo di comporto i giorni di ricovero ospedaliero o di day-hospital e i giorni di assenza dovuti alle conseguenze delle terapie antitumorali, purché debitamente certificati.
La conversione a part-time. In caso di patologia oncologica, il lavoratore ha diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in lavoro a tempo parziale verticale o orizzontale, qualora residui una ridotta capacità lavorativa, anche a causa degli effetti invalidanti delle terapie salvavita.
Successivamente, inoltre, il lavoratore ha diritto a trasformare nuovamente il rapporto di lavoro a tempo parziale in rapporto di lavoro a tempo pieno. Infine, il lavoratore ha diritto, ove possibile, a scegliere la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio; inoltre, in caso di necessità del suo trasferimento in un'altra sede, ciò può avvenire solamente previo il suo consenso.
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Malattie professionali, come dimostrarle.
La patologia oncologica può rappresentare anche una «malattia professionale», cioè connessa al proprio lavoro e come tale assicurata presso l'Inail. A tal fine, esistono tabelle dell'Inail, approvate con decreto ministeriale, che contengono l'elenco di malattia professionali contratte nell'esercizio e/o a causa di alcune specifiche lavorazioni. Se la malattia professionale e il proprio lavoro rientrano in queste tabelle, si può attivare con il proprio medico anche la procedura per richiedere il riconoscimento di prestazioni economiche a carico dell'Inail. Se, invece, la patologia non rientra tra quelle contemplate nelle tabelle, ma si è comunque convinti che possa esserci un nesso, allora si rende necessario dimostrare l'origine lavorativa mediante idonea documentazione sanitaria.
In ogni caso, bisogna comunicare al proprio datore di lavoro il sospeso carattere professionale della malattia mediante produzione di un certificato medico, entro 15 giorni dall'avvenuta conoscenza o prima manifestazione della patologia; se il termine non viene rispettato, si decade dal diritto all'indennizzo per il periodo precedente la denuncia (trascorsi 15 giorni, in altre parole, l'eventuale indennizzo a carico Inail decorrerà dalla data di presentazione della denuncia). Il datore di lavoro di conseguenza è tenuto a denunciare all'Inail la malattia professionale del proprio dipendente entro cinque giorni dalla data di ricevimento del certificato medico.
Le ultime «tabelle delle malattia professionali nell'industria e nell'agricoltura» sono state approvate con dm 09.04.2008, pubblicato in gazzetta ufficiale n. 169 del 21.07.2008, e sono entrate in vigore il giorno seguente. Le tabelle sono state oggetto di revisione delle precedenti, il cui ultimo aggiornamento risaliva al 1994.
Le nuove tabelle prevedono 85 voci per l'industria (prima erano 58) e 24 per l'agricoltura (in precedenza 27) essendo stati esclusi alcuni agenti chimici per i quali vige ormai da tempo espresso divieto di utilizzo.
Conservano la stessa struttura delle precedenti con suddivisione in tre colonne (malattie, lavorazioni e periodo massimo di indennizzabilità) e, in ordine, sono elencate le malattie da agenti chimici, quelle dell'apparato respiratorio, della pelle non descritte in altre voci e quelle da agenti fisici. Per ciascuna voce di tabella è stata inserita l'indicazione nosologica delle malattie correlate ai diversi agenti, con la relativa codifica Icd10. Tra le diverse patologie hanno trovato collocazione numerose forme neoplastiche con l'indicazione dell'organo bersaglio.
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Permessi di tre giorni per i familiari.
I familiari di disabili hanno diritto a un permesso retribuito di tre giorni mensili a condizione che la persona da assistere non sia ricoverata a tempo pieno. Inoltre hanno diritto: a un permesso retribuito di tre giorni lavorativi all'anno (articolo 4, comma 1, della legge n. 53/2000); alla priorità della trasformazione del contratto di lavoro a tempo pieno in lavoro a tempo parziale in caso di patologie oncologiche riguardanti il coniuge, i figli o i genitori della/del lavoratrice/tore, nonché nel caso in cui la lavoratrice o il lavoratore assista una persona convivente con totale e permanente inabilità lavorativa, che assuma connotazione di gravità; a un periodo di congedo straordinario retribuito, continuativo o frazionato, fino a un massimo di due anni, a condizione che la persona da assistere non sia ricoverata a tempo pieno, salvo che, in tal caso, sia richiesta dai sanitari la presenza di colui che presta assistenza.
Quest'ultimo congedo può essere usufruito dai familiari secondo il seguente ordine di preferenza: coniuge convivente del malato (non ricoverato) portatore di handicap in situazione di gravità; genitori (naturali, adottivi e affidatari) anche non conviventi, in caso di mancanza o decesso del coniuge o in presenza di altre cause impeditive; figlio convivente, sempre che gli altri familiari siano impossibilitati a fruire del congedo per fornire assistenza; fratello o sorella conviventi con il portatore di handicap grave, in caso di decesso o di impossibilità delle altre categorie di familiari sopra indicate (articolo ItaliaOggi Sette del 28.05.2012).

ATTI AMMINISTRATIVISemplificazione. Senza regolamento. Il Dg o il segretario tagliano i tempi.
L'OBBLIGO/ I vertici apicali sono le figure chiamate a commissariare gli uffici che ritardano nella risposta alle istanze dei cittadini.

Il direttore generale e, negli enti locali che ne sono sprovvisti, il segretario, da aprile (e fino a quando l'amministrazione non si sarà data una norma regolamentare) sostituiscono gli uffici in caso di mancata risposta entro i termini alle istanze presentate dai cittadini.
È il principale e immediato effetto dell'entrata in vigore della legge 35/2012, di conversione del Dl 5/2012 sulla semplificazione. Con questa norma il legislatore offre ai privati uno strumento aggiuntivo di tutela nei casi di silenzio-rigetto delle amministrazioni che si aggiunge alla possibilità di ricorso al Tar.
La nuova regola chiede alle amministrazioni di individuare il dirigente, o i dirigenti, che si sostituiscono a quelli competenti nel caso di mancata risposta. Fino a quel momento la norma si applica comunque e prevede l'automatica individuazione del dirigente-sostituto nel dirigente generale o, in mancanza, nel dirigente competente o, in mancanza, nel funzionario più elevato. Negli enti locali, in cui la dirigenza non è articolata su due ruoli, i compiti di coordinamento affidati a direttori generali e segretari possono essere considerati per molti versi analoghi a quelli affidati nelle amministrazioni statali al dirigente generale. Questa opportunità si applica a tutti i procedimenti avviati a istanza di parte, salvo quelli tributari o relativi ai giochi. Occorre chiarire se questa esclusione si può estendere anche ai procedimenti che riguardano entrate extra tributarie, quali ad esempio i canoni e le tariffe.
Per attivare il nuovo istituto occorre una richiesta proveniente dal privato interessato. Il dirigente-sostituto deve garantire la risposta entro un termine massimo pari alla metà della scadenza ordinaria: manca una specifica sanzione in caso di suo inadempimento. Egli può provvedere direttamente, avvalersi degli uffici o nominare un commissario ad acta.
La norma determina un trasferimento di competenza e individua una sorta di organo straordinario. La possibilità di nomina di un commissario ad acta è una previsione inedita. Solleva qualche perplessità, quanto meno in termini di opportunità e di costi aggiuntivi, la possibilità di individuare come commissario ad acta un soggetto esterno all'ente. Il dirigente individuato come sostituto deve inoltre annualmente informare l'ente dei procedimenti in cui si è sostituito: ovviamente se ne deve tener conto nella valutazione dei dirigenti.
La norma prevede due vincoli ulteriori. In tutti i provvedimenti adottati occorre indicare il termine previsto dall'ordinamento e quello effettivo, e le sentenze che condannano le Pa in caso di silenzio rigetto devono essere trasmesse telematicamente alla Corte dei Conti: non è individuato il destinatario, ma si deve ritenere che sia la Procura in quanto la comunicazione serve a verificare l'esistenza di possibili profili di responsabilità amministrativa (articolo Il Sole 24 Ore del 28.05.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALII debiti della Pa. Con il decreto la liquidazione dei debiti dovrebbe superare il rischio che la cessione sia «elusiva».
Pagamenti ancora legati dal Patto. Il meccanismo della certificazione non aggira i vincoli di finanza pubblica.

I decreti sulla certificazione dei crediti delle imprese non alleggeriscono i vincoli di finanza pubblica.
Il decreto ministeriale sugli enti locali –che dovrà passare al vaglio della Conferenza Stato-Regioni prima di concludere l'iter- stabilisce infatti (articolo 2) che i pagamenti in conto capitale degli enti locali conseguenti alle certificazioni concorrono al perseguimento degli obiettivi del Patto. I pagamenti degli investimenti continuano dunque a rappresentare uscite rilevanti (si veda il Sole 24 Ore di lunedì 21 maggio).
La regolamentazione del procedimento di certificazione, e il commissariamento in caso di inerzia degli enti, consentono semmai un'accelerazione della fase propedeutica alla cessione del credito alle banche, a cui spetta tuttavia la sottoscrizione degli atti di cessione. La certificazione non pregiudica inoltre il diritto del creditore agli interessi sulle somme dovute.
Il ritardo nel pagamento di somme certificate comporta dunque il potenziale sostenimento di oneri aggiuntivi per la finanza pubblica, con evidenti ripercussioni anche in tema di responsabilità amministrativa ed erariale.
Secondo l'articolo 3, comma 3, del Dm, la certificazione non può essere rilasciata in caso di procedimenti giurisdizionali pendenti per la medesima ragione di credito. La norma poco aggiunge alle disposizioni precedenti, secondo le quali la certificazione è dovuta solo in caso di certezza, liquidità ed esigibilità del credito.
La liquidazione infatti (articolo 184 Tuel) è la fase del procedimento di spesa attraverso la quale, in base ai documenti e ai titoli atti a comprovare il diritto, il responsabile del procedimento determina la somma certa e liquida da pagare nei limiti dell'impegno definitivo assunto. Poiché il decreto stabilisce l'obbligo a carico della Pa di accettare sin dal momento della certificazione la possibile cessione del credito a banche o intermediari finanziari, è necessario che si proceda alla verifica di eventuali debiti fiscali (articolo 48-bis del Dpr 602/1973). Questa indagine non mette però al sicuro da potenziali situazioni moratorie che potrebbero sussistere in data successiva, cioè al momento della formalizzazione dell'atto di cessione.
Come chiarito dall'Economia anche con circolari 22/2008 e 29/2009, la Pa è infatti tenuta a operare all'atto della cessione la verifica a carico del cedente per tutti i pagamenti superiori a 10mila euro.
Per evitare l'insorgere di casi potenzialmente idonei a integrare la fattispecie elusiva del Patto, il modello di certificazione allegato al decreto prevede la possibilità di rinviare il pagamento a carico della Pa per un periodo non superiore ai 12 mesi dalla data dell'istanza di certificazione.
La norma, in linea con le decisioni Eurostat sulla durata dei debiti di funzionamento, contribuisce a chiarire alcune perplessità sorte da interpretazioni della giurisprudenza contabile, secondo cui le operazioni finanziarie per esternalizzare a terzi (compresi gli istituti finanziari) la procedura di pagamento, rinviandone l'imputazione a bilancio, potrebbero configurare ipotesi elusive. Con la cessione del credito, sostengono infatti alcuni magistrati, la liquidità di tesoreria non sarebbe rappresentativa delle reali condizioni dell'ente locale.
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I punti controversi
1 - Patto di stabilità
I versamenti relativi a impegni in conto capitale continuano a essere considerati rilevanti ai fini del Patto, per cui non possono in ogni caso portare allo sforamento degli obiettivi di saldo dell'ente
2 - Cessioni
La cessione va accettata fin dal momento della certificazione.
La verifica ex articolo 48-bis effettuata al momento della cessione non mette quindi al sicuro dalle situazioni successive
3 - Elusioni
Alcuni magistrati contabili hanno considerato «elusive» alcune forme di cessione del credito. Il decreto permette un rinvio di 12 mesi dalla certificazione al pagamento per evitare problemi
4 - Contenzioso
Non sono certificabili (e quindi cedibili) crediti oggetti di contenzioso. Questo era già previsto dalla normativa precedente, perché mancano i requisiti di certezza ed esigibilità (articolo Il Sole 24 Ore del 28.05.2012 - tratto da www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

PUBBLICO IMPIEGOEsami professionali con sindacato del Tar. Se il giudizio travisa il fatto.
Il Tar può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l'accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da da evidente illogicità e da travisamento del fatto.
Lo precisano le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione con la sentenza 28.05.2012 n. 8412.
La pronuncia ha così respinto il ricorso presentato dal ministero della Giustizia contro la decisione del Tar Calabria, poi confermata dal Consiglio di Stato, con la quale era stato ammesso all'esame di abilitazione alla professione di avvocato un candidato bocciato dalla commissione esaminatrice.
Il ministero aveva sostenuto che i giudici amministrativi si sarebbero "macchiati" di un eccesso di potere giurisdizionale: avrebbero cioè sostituito la propria volontà a quella della commissione, e in contrasto con la giurisprudenza della stessa Cassazione, avrebbero contestato valutazioni magari «opinabili», ma, in ogni caso, attendibili.
Tuttavia, per la Cassazione, i giudici del Tar sono stati in grado di smontare correttamente i punti chiave che avevano condotto alla bocciatura del candidato. In particolare, avevamo riscontrato sia l'assenza di errori grammaticali sia l'assenza di incoerenze di forma in rapporto alla tipologia dell'atto giudiziario oggetto dell'esame. La Corte ricorda che la valutazione della commissione è comunque priva di discrezionalità perché deve piuttosto accertare il possesso di requisiti di tipo attitudinale-culturale in chi partecipa alla selezione. L'esistenza o meno di questi requisiti va poi tradotta in un punteggio o in un altro tipo di giudizio finale.
«Il giudizio –sottolinea la Cassazione– circa l'idoneità del candidato avviene dunque, secondo regimi selettivi di volta in volta scelti dal legislatore, che non precludono in alcun modo la piena tutela davanti al giudice amministrativo». Una tutela che si concretizza sotto il profilo del vizio di eccesso di potere e, senza sconfinamenti nel merito da parte del giudice amministrativo «ma attraverso la verifica della logicità, della coerenza, e della ragionevolezza delle basi argomentative concernenti l'analisi dell'elaborato». Nel caso approdato in Cassazione, i giudici hanno accertato l'infondatezza dei presupposti della valutazione (articolo Il Sole 24 Ore del 29.05.2012).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il potere di ordinanza del sindaco presuppone necessariamente situazioni non tipizzate dalla legge di pericolo effettivo, la cui sussistenza deve essere suffragata da istruttoria adeguata e congrua motivazione, ed in ragione delle quali si giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina vigente, stante la configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale tipologia provvedimentale.
Il potere d’ordinanza ex art. 54 t.u.e.l. è legittimamente emanabile anche per rimuovere situazioni risalenti nel tempo ed in relazione alle quali non si era intervenuti in precedenza, essendo a tale riguardo sufficiente la permanenza al momento dell’emanazione dell’atto della situazione di pericolo.

Va innanzitutto ricordato che con sentenza in data 07.04.2011, n. 115, la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittime le modifiche apportate all’art. 54 cit. dal d.l. n. 92/2008, espungendo dalla disposizione novellata, per quanto qui di interesse, la congiunzione “anche” prima delle parole “contingibili e urgenti”, in tal modo riconducendo il potere di ordinanza del sindaco quale ufficiale di governo nei confini entro i quali lo stesso era stato da sempre inteso e cioè nei limiti, entro i quali non è altrimenti consentita la deroga a norme giuridiche, in cui detto potere si ponga come strumento indispensabile per contrastare situazioni eccezionali di pericolo non altrimenti fronteggiabili.
Ne consegue che è integralmente applicabile il consolidato indirizzo della giurisprudenza amministrativa, recentemente espresso da questa Sezione, secondo cui il potere di ordinanza presuppone necessariamente situazioni non tipizzate dalla legge di pericolo effettivo, la cui sussistenza deve essere suffragata da istruttoria adeguata e congrua motivazione, ed in ragione delle quali si giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina vigente, stante la configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale tipologia provvedimentale (da ultimo: Sez. V, 20.02.2012, n. 904; in termini non dissimili Sez. VI, 05.09.2005, n. 4525, citata anche dall’appellante).
Questa Sezione ha anche precisato le caratteristiche che sostanziano il potere di ordinanza: nelle decisioni 28.03.2008, n. 1322 e 10.02.2010, n. 670 si è affermato che il potere d’ordinanza ex art. 54 t.u.e.l. è legittimamente emanabile anche per rimuovere situazioni risalenti nel tempo ed in relazione alle quali non si era intervenuti in precedenza, essendo a tale riguardo sufficiente la permanenza al momento dell’emanazione dell’atto della situazione di pericolo (nello stesso senso anche Sez. IV, 25.09.2006, n. 5639).
Va ancora soggiunto che nei citati precedenti le ordinanze contingibili in contestazione erano volte a fronteggiare situazioni di pericolo per l’incolumità fisica, inevitabilmente destinato ad aggravarsi in difetto di interventi di messa in sicurezza (rischio di frana nel primo caso; inquinamento acustico; pericolo di crollo di locali scolastici nella pronuncia della IV Sezione sopra menzionata) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 25.05.2012 n. 3077 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’arresto di proprietari o di dirigenti di una società –o a maggior ragione la sola pendenza di procedimenti penali- non può costituire causa di esclusione da una gara, visto che l’art. 38, lett. c), D.Lgs. 163/2006 stabilisce che essa deve ricorrere allorché, nel caso di una s.r.l., sia stata pronunciata sentenza di condanna passata in giudicato o emesso decreto penale di condanna divenuto irrevocabile, oppure sentenza di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale, per reati di grave danno dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità professionale nei confronti degli amministratori muniti di poteri di rappresentanza o del direttore tecnico o del socio unico persona fisica, ovvero del socio di maggioranza in caso di società con meno di quattro soci.
Altrettanto stabilisce lo stesso D.Lgs. 163/2006 nel caso di avvenuta stipulazione di contratti, per i quali solo l’avvenuto accertamento di una serie di reati mediante sentenza passata in giudicato permette la risoluzione del contratto sottostante l’aggiudicazione.
Residuano solamente la pendenza di procedimenti per l’applicazione di una delle misure di prevenzione di cui all’art. 3 L. 27.12.1956 n. 1423, art. 38, lett. b), D.Lgs. 163/2006.

Si deve infatti concordare con le conclusioni della sentenza del TAR della Campania n. 600/2011 impugnata, per cui l’arresto di proprietari o di dirigenti di una società –o a maggior ragione la sola pendenza di procedimenti penali- non può costituire causa di esclusione da una gara, visto che l’art. 38, lett. c), D.Lgs. 163/2006 stabilisce che essa deve ricorrere allorché, nel caso di una s.r.l., sia stata pronunciata sentenza di condanna passata in giudicato o emesso decreto penale di condanna divenuto irrevocabile, oppure sentenza di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale, per reati di grave danno dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità professionale nei confronti degli amministratori muniti di poteri di rappresentanza o del direttore tecnico o del socio unico persona fisica, ovvero del socio di maggioranza in caso di società con meno di quattro soci.
Altrettanto stabilisce lo stesso D.Lgs. 163/2006 nel caso di avvenuta stipulazione di contratti, per i quali solo l’avvenuto accertamento di una serie di reati mediante sentenza passata in giudicato permette la risoluzione del contratto sottostante l’aggiudicazione.
Residuano solamente la pendenza di procedimenti per l’applicazione di una delle misure di prevenzione di cui all’art. 3 L. 27.12.1956 n. 1423, art. 38, lett. b), D.Lgs. 163/2006, caso che non riguarda i fatti in esame.
Dunque, come osservato nella sentenza di primo grado e nelle difese di parte, la stretta applicazione dell’art. 27, co. 2, della Costituzione non consente di rinvenire nella censura alcun profilo di fondatezza (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 25.05.2012 n. 3063 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Il principio della previa fissazione dei criteri e delle modalità delle prove concorsuali che devono essere stabiliti dalla commissione nella sua prima riunione (o tutt’al più prima della correzione delle prove scritte), deve essere inquadrato nell’ottica della trasparenza dell’attività amministrativa perseguita dal legislatore, che pone l’accento sulla necessità della determinazione e verbalizzazione dei criteri stessi in un momento nel quale non possa sorgere il sospetto che questi ultimi siano volti a favorire o sfavorire alcuni concorrenti, con la conseguenza che è legittima la determinazione dei predetti criteri di valutazione delle prove concorsuali, anche dopo la loro effettuazione, purché prima della loro concreta valutazione.
In altri termini, la predeterminazione dei criteri di valutazione delle prove scritte costituisce lo strumento indispensabile per poter apprezzare poi il giudizio della commissione esaminatrice ed il corretto esercizio del suo potere tecnico–discrezionale, sintetizzato dal voto numerico.

Nel merito si osserva quanto segue.
L’articolo 12 del D.P.R. 09.05.1994, n. 487 (“Regolamento recante norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi”), al primo comma stabilisce che “Le commissioni esaminatrici, alla prima riunione, stabiliscono i criteri e le modalità di valutazione delle prove concorsuali, da formalizzare nei relativi verbali, al fine di assegnare i punteggi attribuire alle singole prove. Esse, immediatamente prima dell’inizio di ciascuna prova orale, determinano i quesiti da porre ai singoli candidati per ciascuna delle materie di esame. Tali quesiti sono proposti a ciascun candidato previa estrazione a sorte”.
E’ stato rilevato che il principio della previa fissazione dei criteri e delle modalità delle prove concorsuali che, secondo la previsione del ricordato articolo, devono essere stabiliti dalla commissione nella sua prima riunione (o tutt’al più prima della correzione delle prove scritte), deve essere inquadrato nell’ottica della trasparenza dell’attività amministrativa perseguita dal legislatore, che pone l’accento sulla necessità della determinazione e verbalizzazione dei criteri stessi in un momento nel quale non possa sorgere il sospetto che questi ultimi siano volti a favorire o sfavorire alcuni concorrenti, con la conseguenza che è legittima la determinazione dei predetti criteri di valutazione delle prove concorsuali, anche dopo la loro effettuazione, purché prima della loro concreta valutazione (C.d.S., sez. IV, 22.09.2005, n. 4989).
In altri termini, la predeterminazione dei criteri di valutazione delle prove scritte costituisce lo strumento indispensabile per poter apprezzare poi il giudizio della commissione esaminatrice ed il corretto esercizio del suo potere tecnico–discrezionale, sintetizzato dal voto numerico (Cons. Stato, V, 04.03.2011 n. 8439).
Nel caso in esame è pacifico che la commissione di esame non ha provveduto alla predeterminazione dei criteri di valutazione delle prove scritte, essendosi limitata, come si ricava dalla lettura del già menzionato verbale n. 2 del 10.11.2008, a stabilire l’ammontare dei punteggi delle prove scritte ed orale, i punteggi per titoli di studio, di servizio e curriculari in generale ed infine a fissare il punteggio minimo che i concorrenti avrebbero dovuto conseguire per essere ammessi alla prova orale.
Quindi è stata del tutto omessa la reale predeterminazione dei criteri riguardanti la necessità dei contenuti richiesti agli elaborati scritti e le modalità della loro valutazione e si deve perciò concludere per l’illegittima disapplicazione da parte del Comune di Burcei del dettato dell’art. 12, co. 1, del d.P.R. 09.05.1994 n. 487.
Le considerazioni svolte nella sentenza impugnata circa l’effetto caducante che l’annullamento di approvazione degli atti del concorso comporta sulla nomina dell’unica vincitrice Tania Atzeni appaiono infine corrette, poiché la nomina non può più ritenersi valida, in quanto dipendente da un unico presupposto, la procedura concorsuale, la cui conformità a legge è stata appunto esclusa (Cons. Stato, V, 09.02.2010 n. 622; id., 17.12.2008 n. 6289; id., 17.09.2008 n. 4400) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 25.05.2012 n. 3062 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl provvedimento di demolizione, in quanto atto vincolato -al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia- non richiede una specifica motivazione, posto che ai fini dell’accertamento della sua legittimità sono indifferenti le ragioni in virtù delle quali l’amministrazione è giunta alle determinazioni finali, in quanto ciò che rileva e che può essere verificato senza preclusioni è se tali determinazioni, in presenza dei necessari presupposti, siano conformi o meno alle norme applicate; né una valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati.
Né alcuna violazione delle garanzie partecipative può esser qui predicata, stante la già evidenziata natura assolutamente vincolata del provvedimento.

Infondati sono, inoltre, gli ulteriori profili di censura, con i quali si lamenta la violazione dell’art. 3 L. 241/1990 s.m.i. e la mancata comparazione dell’interesse privato con quello pubblico, nonché l’illegittima omissione della comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art 7 della citata legge n. 241/1990, giacché il provvedimento di demolizione, in quanto atto vincolato -al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia- non richiede una specifica motivazione, posto che ai fini dell’accertamento della sua legittimità sono indifferenti le ragioni in virtù delle quali l’amministrazione è giunta alle determinazioni finali, in quanto ciò che rileva e che può essere verificato senza preclusioni è se tali determinazioni, in presenza dei necessari presupposti, siano conformi o meno alle norme applicate; né una valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati (ex multis TAR Campania Napoli, sez. VIII, 29.01.2009, n. 501); né alcuna violazione delle garanzie partecipative può esser qui predicata, stante la già evidenziata natura assolutamente vincolata del provvedimento (cfr., ex multis, Tar Campania, questa sesta sezione, 28.04.2011, n. 2382; 15.03.2010, n. 1464 e 09.11.2009, n. 7077; sezione terza, 01.03.2011, n. 1259; sezione settima, 15.12.2010, n. 27377; sezione ottava 01.04.2010, n. 1762) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 24.05.2012 n. 2427 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANel provvedimento di demolizione non si richiede una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, senza che sussista alcuna violazione dell'art. 3, l. n. 241 del 1990, dato che, ricorrendo i predetti requisiti, il provvedimento deve intendersi sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione.
Anche qualora intercorra un lungo periodo di tempo tra la realizzazione dell'opera abusiva ed il provvedimento sanzionatorio, tale circostanza non rileva ai fini della legittimità di quest'ultimo, sia in rapporto al preteso affidamento circa la legittimità dell'opera, che il protrarsi del comportamento inerte del comune avrebbe ingenerato nel responsabile dell'abuso edilizio, sia in relazione ad un presunto ulteriore obbligo, per l'amministrazione procedente, di motivare specificamente il provvedimento in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico attuale a far demolire il manufatto, poiché la lunga durata nel tempo dell'opera priva del necessario titolo edilizio ne rafforza il carattere abusivo (trattandosi di illecito permanente), il che preserva il potere-dovere dell'amministrazione di intervenire nell'esercizio dei suoi poteri sanzionatori, tanto più che il provvedimento demolitorio non richiede una congrua motivazione in ordine all'attualità dell'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso, che è in re ipsa.

Nel provvedimento di demolizione non si richiede una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, senza che sussista alcuna violazione dell'art. 3, l. n. 241 del 1990, dato che, ricorrendo i predetti requisiti, il provvedimento deve intendersi sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (cfr., ex plurimis, Consiglio Stato , sez. IV, 31.08.2010 , n. 3955).
Anche qualora intercorra un lungo periodo di tempo tra la realizzazione dell'opera abusiva ed il provvedimento sanzionatorio, tale circostanza non rileva ai fini della legittimità di quest'ultimo, sia in rapporto al preteso affidamento circa la legittimità dell'opera, che il protrarsi del comportamento inerte del comune avrebbe ingenerato nel responsabile dell'abuso edilizio, sia in relazione ad un presunto ulteriore obbligo, per l'amministrazione procedente, di motivare specificamente il provvedimento in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico attuale a far demolire il manufatto, poiché la lunga durata nel tempo dell'opera priva del necessario titolo edilizio ne rafforza il carattere abusivo (trattandosi di illecito permanente), il che preserva il potere-dovere dell'amministrazione di intervenire nell'esercizio dei suoi poteri sanzionatori, tanto più che il provvedimento demolitorio non richiede una congrua motivazione in ordine all'attualità dell'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso, che è in re ipsa (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 23.05.2012 n. 2390 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn pendenza della domanda di sanatoria, è preclusa l'adozione di provvedimenti repressivi dell'abuso edilizio, atteso che nell'ipotesi di diniego della domanda di sanatoria, l'Amministrazione dovrà adottare nuova ingiunzione di demolizione, con fissazione di nuovi termini per la spontanea esecuzione.
Infatti, ai sensi degli artt. 38 e 44 della legge n. 47/1985, contenuti nel capo IV della legge medesima, in pendenza della domanda di sanatoria, è preclusa l'adozione di provvedimenti repressivi dell'abuso edilizio, atteso che nell'ipotesi di diniego della domanda di sanatoria, l'Amministrazione dovrà adottare nuova ingiunzione di demolizione, con fissazione di nuovi termini per la spontanea esecuzione (ex multis, TAR Campania Napoli, sez. VII, 21.03.2008, n. 1472) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 23.05.2012 n. 2374 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - EDILIZIA PRIVATALa competenza all'emanazione di sanzioni demolitorie rese sino all'anno 1998 deve reputarsi appartenente al Sindaco e non all'organo dirigenziale, essendo stata detta competenza trasferita ai dirigenti solo ai sensi dell'art. 2, comma 12, l. 16.06.1998, n. 191.
Deve per contro osservarsi come secondo la costante giurisprudenza della sezione “... la competenza all'emanazione di sanzioni demolitorie rese sino all'anno 1998 deve reputarsi appartenente al Sindaco e non all'organo dirigenziale, essendo stata detta competenza trasferita ai dirigenti solo ai sensi dell'art. 2, comma 12, l. 16.06.1998, n. 191” (cfr., ex multis, TAR Napoli Campania sez. VI, 30.04.2008, n. 3072 e 03.04.2008, n. 1832, nello stesso senso TAR Toscana, Firenze, sez. III, 26.11.2010, n. 6627)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 23.05.2012 n. 2373 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPresupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi.
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In sede di emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive su area vincolata non è necessario acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal momento che l'ordine di ripristino discende direttamente dall'applicazione della disciplina edilizia vigente e non costituisce affatto irrogazione di sanzioni discendenti dalla violazione di disposizioni a tutela del paesaggio.
In sede di emanazione di ordinanza di demolizione delle opere edilizie abusive su area vincolata non è necessario acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal momento che l'ordine di ripristino discende direttamente dall'applicazione della disciplina edilizia vigente ... e in quanto non vi è alcun obbligo di far luogo ad accertamenti di danni ambientali, ovvero di applicazione di sanzioni pecuniarie alternative.
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A seguito dell'entrata in vigore della l. 28.01.1977 n. 10, la quale ha previsto la vincolante obbligatorietà dell'ordine di demolizione degli edifici abusivi, non è più necessaria l'acquisizione del parere della Commissione edilizia comunale ai sensi dell'art. 32, comma 3, l. 17.08.1942 n. 1150, il quale era giustificato, nel previgente ordinamento, appunto dalla natura discrezionale di detto ordine.

Ed, infatti, come costantemente affermato in giurisprudenza “... presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi” (ex multis, TAR Campania Napoli, sez. VII, 08.04.2011, n. 1999).
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Ed infatti, come costantemente ribadito in giurisprudenza, “... in sede di emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive su area vincolata non è necessario acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal momento che l'ordine di ripristino discende direttamente dall'applicazione della disciplina edilizia vigente e non costituisce affatto irrogazione di sanzioni discendenti dalla violazione di disposizioni a tutela del paesaggio” (così, da ultimo, TAR Liguria, Genova, sez. I, 21.09.2011, n. 1393, nello stesso senso vedi pure TAR Campania, Napoli sez. VI, 05.03.2012, secondo cui “... in sede di emanazione di ordinanza di demolizione delle opere edilizie abusive su area vincolata non è necessario acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal momento che l'ordine di ripristino discende direttamente dall'applicazione della disciplina edilizia vigente ... e in quanto non vi è alcun obbligo di far luogo ad accertamenti di danni ambientali, ovvero di applicazione di sanzioni pecuniarie alternative”).
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Infatti, a seguito dell'entrata in vigore della l. 28.01.1977 n. 10, la quale ha previsto la vincolante obbligatorietà dell'ordine di demolizione degli edifici abusivi, non è più necessaria l'acquisizione del parere della Commissione edilizia comunale ai sensi dell'art. 32, comma 3, l. 17.08.1942 n. 1150, il quale era giustificato, nel previgente ordinamento, appunto dalla natura discrezionale di detto ordine (cfr., TAR Campania Napoli, sez. VI, 24.09.2009, n. 5071 e sez. III, 05.06.2008, n. 5255, TAR Lazio Roma, sez. II, 11.09.2009, n. 8644)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 23.05.2012 n. 2373 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANel senso di una rigorosa applicazione del canone della c.d. doppia conformità degli interventi abusivi rispetto alla disciplina urbanistico-edilizia vigente, sia al momento della loro esecuzione sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria, militano i seguenti argomenti interpretativi: a) Argomento letterale; b) Argomento storico; c) Argomento logico-sistematico; d) Argomento teleologico.
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Predicare l’operatività della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, e cioè consentire la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significherebbe tradire:
- il principio di legalità, riveniente dagli artt. 23, 24, 97, 101 e 113 Cost., oltre che dall’art. 1, comma 1, della l. n. 241/1990 (secondo cui “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge”), sia in quanto si svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante la disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l’ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36 del d.p.r. n. 380/2001) alle sole violazioni di ordine formale;
- il principio di imparzialità, riveniente dall’art. 97 Cost., oltre che dall’art. 1, comma 1, della l. n. 241/1990 (secondo cui “l’attività amministrativa è retta da criteri … di imparzialità”), in quanto si finirebbe per premiare gli autori di abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate;
- i principi di buon andamento e di efficacia, rivenienti dall’art. 97 Cost., oltre che dall’art. 1, comma 1, della l. n. 241/1990 (secondo cui “l’attività amministrativa è retta da criteri … di efficacia”), in quanto, premiando – come detto – gli autori degli abusi edilizi sostanziali, risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell’apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio;
- i principi di proporzionalità e di ragionevolezza, rivenienti, rispettivamente, dall’ordinamento comunitario e dagli artt. 3 e 97 Cost., in quanto si estenderebbe l’ambito oggettivo di applicazione di un istituto (permesso di costruire in sanatoria) al di là della fenomenologia (abusi edilizi meramente formali) in rapporto alla quale quest’ultimo è stato enucleato e commisurato dal legislatore.

Innanzitutto, il Collegio, pur non ignorando l’esistenza di un autorevole orientamento giurisprudenziale di segno contrario (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 06.02.2003, n. 592; sez. V, 21.10.2003, n. 6498; 28.05.2004, n. 3431; 19.04.2005, n. 1796; sez. VI, 12.11.2008, n. 5646; sez. VI, 07.05.2009, n. 2835; TAR Abruzzo, Pescara, 11.05.2007, n. 534; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 31.01.2008, n. 137; TAR Sardegna, Cagliari, sez. II, 17.03.2010, n. 314; Cass. pen., sez. III, 15.02.2008, n. 11132; 28.05.2008, n. 21208), ritiene di dover escludere che la regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, recepita nell’art. 31 delle n.t.a. del p.u.c. di Villa Literno, sia compatibile col dettato normativo dell’art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, tanto da trovare ingresso nell’ordinamento (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26.04.2006, n. 2306; 17.09.2007, n. 4838; sez. V, 25.02.2009, n. 1126; sez. IV, 02.11.2009, n. 6784; TAR Lombardia, Brescia, 23.06.2003, n. 870; Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352; TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 15.01.2004, n. 16; Parma, 13.12.2007, n. 620; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 18.10.2004, n. 2506; 20.04.2005, n. 1094; TAR Liguria, Genova, sez. I, 23.02.2007, n. 364; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 09.01.2009, n. 5; TAR Campania, Napoli, sez, VII, 07.05.2008, n. 3501; sez. VI, 04.08.2008, n. 9723; sez. III, 19.11.2008, n. 19875; sez. VIII, 10.09.2010, n. 17398; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 09.12.2010, n. 2816; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 11.02.2011, n. 263; 13.05.2011, n. 837; Cass. pen., sez. III, 26.04.2007, n. 24451; 21.10.2008, n. 42526; 21.09.2009, n. 36350; 21.01.2010, n. 9446).
Nel senso di una rigorosa applicazione del canone della c.d. doppia conformità degli interventi abusivi rispetto alla disciplina urbanistico-edilizia vigente sia al momento della loro esecuzione sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria, militano i seguenti argomenti interpretativi, già illustrati dalla Sezione nella sentenza n. 17398 del 10.09.2010.
a) Argomento letterale.
Ai sensi dell’art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, “in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, fino alla scadenza dei termini di cui agli artt. 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
Il tenore letterale della norma è del tutto perspicuo e inequivoco nel riferire il requisito della conformità urbanistico-edilizia dell’opera (formalmente abusiva) “sia” al momento della sua realizzazione “sia” al momento della presentazione della domanda di sanatoria.
Di fronte a siffatto dettato normativo, non appare al Collegio condivisibile l’approccio ermeneutico elaborato da Cons. Stato, sez. VI, 07.05.2009, n. 2835.
Stando a tale pronuncia, il canone della doppia conformità sarebbe preordinato a garantire il richiedente dalla possibile variazione in peius della disciplina urbanistico-edilizia, a seguito di adozione di strumenti che riducano o escludano, appunto, il ius aedificandi sussistente al momento dell'istanza, mentre non potrebbe ritenersi diretto a disciplinare l'ipotesi inversa del ius superveniens favorevole, rispetto al momento ultimativo della proposizione dell'istanza.
La regola in parola sarebbe, dunque, enucleata “contro l'inerzia dell'amministrazione”, e starebbe a indicare “che, se sussiste la doppia conformità, a colui che ha richiesto la sanatoria non può essere opposta una modificazione della normativa urbanistica successiva alla presentazione della domanda. Tale regola non preclude il diritto ad ottenere la concessione in sanatoria di opere che, realizzate senza concessione o in difformità dalla concessione, siano conformi alla normativa urbanistica vigente al momento in cui l'autorità comunale provvede sulla domanda in sanatoria” (Cons. Stato, sez. V, 21.10.2003, n. 6498).
Una simile interpretazione si rivela inammissibilmente abrogatrice dell’inciso “sia al momento della realizzazione dello stesso” (e cioè dell’immobile abusivo) e, quindi, contra legem: se, infatti, l’art. 36, comma 1, cit. fosse unicamente volto a salvaguardare il privato istante dalle conseguenze sfavorevoli (nel senso di una sopravvenuta modifica in peius del ius aedificandi) dell’inerzia dell’amministrazione nel concludere l’avviato procedimento di sanatoria, sarebbe stato sufficiente il riferimento testuale “al momento della presentazione della domanda”.
In realtà, il legislatore, con l’espressione “sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”, ha individuato l’intero arco temporale lungo il quale si sia protratto l’abuso edilizio commesso, senza che il relativo responsabile si sia attivato per regolarizzarlo, ed entro il quale gli effetti peggiorativi del ius superveniens non possono non ricadere su costui, ma anche oltre il quale gli stessi effetti restano imputabili all’inerzia dell’amministrazione nel provvedere e non sono più su di lui riversabili.
b) Argomento storico.
Nell’emanare il nuovo art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, in luogo del previgente art. 13, comma 1, della l. 28.02.1985, n. 47, il legislatore delegato, discostandosi dalla linea suggerita di Cons. Stato, ad. gen., sez. atti norm., 29.03.2001, n. 52, nel senso di codificare la regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, ha preferito “non inserire una tale previsione, sia perché la giurisprudenza sul punto non è pacifica (sicché non può dirsi formato quel diritto vivente che avrebbe consentito la modifica del dato testuale), sia, soprattutto, per le considerazioni in senso nettamente contrario contenute nel parere espresso dalla Camera” (relazione illustrativa al testo unico dell’edilizia).
Un simile antefatto storico dell’iter legislativo denota, vieppiù, la resistenza dell’ordinamento al recepimento della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’.
c) Argomento logico-sistematico.
L'istituto dell’accertamento di conformità è stato introdotto, nell'ambito di una revisione complessiva del regime sanzionatorio degli illeciti edilizi, orientata nel senso di una maggiore severità, con l'intento di consentire la sanatoria dei soli abusi meramente formali, vale a dire di quelle costruzioni per le quali, sussistendo ogni altro requisito di legge e regolamento, manchi soltanto il necessario titolo abilitativo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 29.05.2006, n. 3267). Il rilascio di quest’ultimo in esito ad accertamento di conformità presuppone, pertanto, in capo al responsabile dell'abuso, una situazione giuridica del tutto equiparabile a quella di chi richieda un ordinario permesso di costruire, ivi compresa la sussistenza ab origine della conformità urbanistico-edilizia dell’opera.
Del resto, alla sanabilità degli abusi sostanziali è dedicato non già l’istituto dell'accertamento di conformità, bensì quello diverso del condono edilizio (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352), nei limiti, segnatamente temporali, in cui quest'ultimo sia applicabile alla fattispecie concreta considerata.
Ciò posto, ammettere la ‘sanatoria giurisprudenziale’ significherebbe anche introdurre surrettiziamente nell’ordinamento una sorta di condono atipico, affrancato dai predetti limiti, mediante il quale il responsabile di un abuso sostanziale potrebbe trovarsi a beneficiare degli effetti indirettamente sananti di un più favorevole ius superveniens, anziché di un’apposita disciplina legislativa condonistica.
Nel delineato contesto sistematico, l’art. 36 del d.p.r. n. 380/2001, in quanto norma, da un lato, circoscritta alle ipotesi di abusi meramente formali e, d’altro lato, derogatoria al principio per il quale i lavori realizzati sine titulo sono sottoposti alle prescritte misure ripristinatorie e sanzionatorie, non è, dunque, suscettibile di applicazione analogica né di una interpretazione riduttiva, secondo cui, in contrasto col suo tenore letterale, basterebbe la conformità delle opere con lo strumento urbanistico vigente all’epoca in cui sia proposta l’istanza di accertamento.
Viceversa, stante l’evidenziata portata speciale e derogatoria della norma in esame, la sanabilità da essa prevista postula sempre la conformità urbanistico-edilizia dell'intervento sine titulo alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione sia alla data della presentazione della domanda (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 17.09.2007, n. 4838; 02.11.2009, n. 6784).
d) Argomento teleologico.
Il denominatore comune delle argomentazioni addotte in favore della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’ è precipuamente rappresentato dalla pretesa esigenza di ispirare l'esercizio del potere di controllo sull'attività edificatoria dei privati al buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost.
Tale canone costituzionale imporrebbe, in sede di accertamento di conformità ex art. 36 del d.p.r. n. 380/2001, di accogliere l'istanza di sanatoria per quei manufatti che potrebbero ben essere realizzati sulla base della disciplina urbanistica vigente al momento della proposizione della predetta istanza, sebbene non conformi alla disciplina vigente al momento della loro realizzazione. Si eviterebbe, così, uno spreco di attività inutili, sia dell'amministrazione (il successivo procedimento amministrativo preordinato alla demolizione dell'opera abusiva), sia del privato (la nuova edificazione), sia ancora dell'amministrazione (il rilascio del titolo per la nuova edificazione).
A ben vedere, invece, quella sorta di antinomia adombrata nel propugnare la ‘sanatoria giurisprudenziale’ –e, quindi, nel ripudiare l'esigenza della doppia conformità– tra i principi di legalità e di buon andamento della pubblica amministrazione, con assegnazione della prevalenza a quest'ultimo, in nome di una presunta logica ‘efficientista’, si rivela artificiosa (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352).
Va, innanzitutto, rimarcato che l'agire della pubblica amministrazione deve essere in ogni sua fase retto dal principio di legalità, inteso quale regola fondamentale cui è informata l'attività amministrativa e che trova un fondamento positivo in varie disposizioni costituzionali (artt. 23, 24, 97, 101 e 113 Cost.). In altri termini, lungi dall'esservi antinomia fra efficienza e legalità, non può esservi rispetto del buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost., se non vi è, nel contempo, rispetto del principio di legalità. Il punto di equilibrio fra efficienza e legalità, è stato, nella materia de qua, individuato dal legislatore nel consentire –come già detto– la sanatoria dei c.d. abusi formali, sottraendo alla demolizione le opere che risultino rispettose della disciplina sostanziale sull'utilizzo del territorio, e non solo di quella vigente al momento dell'istanza di sanatoria, ma anche di quella vigente all'epoca della loro realizzazione (e ciò in applicazione del principio di legalità), e quindi evitando un sacrificio degli interessi dei privati che abbiano violato le sole norme disciplinanti il procedimento da osservare nell'attività edificatoria (e ciò in applicazione dei principi di efficienza e buon andamento, che sarebbero violati ove agli aspetti solo formali si desse un peso preponderante rispetto a quelli dell’osservanza sostanziale delle disposizioni generali e locali in materia di uso del territorio) (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 09.06.2009, n. 5).
La vera insanabile contraddizione risiederebbe, da un lato, nell'imporre alle autorità comunali di reprimere e sanzionare gli abusi edilizi, dall'altro, nel consentire violazioni sostanziali della normativa del settore, quali rimangono –sul piano urbanistico– quelle connesse ad opere per cui non esista la doppia conformità, dovendosi aver riguardo al momento della realizzazione dell'opera per valutare la sussistenza dell'abuso (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352).
Ciò, in quanto sarebbe davvero contrario al principio di buon andamento ex art. 97 Cost. ammettere che l'amministrazione, una volta emanata la disciplina sull'uso del territorio, di fronte ad interventi difformi dalla stessa, sia indotta –anziché a provvedere a sanzionarli– a modificare la disciplina stessa. Si finirebbe, così, per incoraggiare, anziché impedire, gli abusi, perché ogni interessato si sentirebbe incitato alla realizzazione di manufatti difformi, confidando sulla loro acquisizione di conformità ex post, a mezzo di modifiche della disciplina del settore. E si finirebbe per alterare l’essenza stessa dell’accertamento di (doppia) conformità, che risiede (anche) nello sterilizzare e nel disancorare l’attività pianificatoria degli enti locali dalla tentazione di ‘legalizzare’ surrettiziamente l’illecita trasformazione del territorio da parte dei privati tramite varianti ‘pilotate’ agli strumenti urbanistici.
In definitiva, predicare l’operatività della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, e cioè consentire la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significherebbe tradire:
- il principio di legalità, riveniente dagli artt. 23, 24, 97, 101 e 113 Cost., oltre che dall’art. 1, comma 1, della l. n. 241/1990 (secondo cui “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge”), sia in quanto si svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante la disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l’ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36 del d.p.r. n. 380/2001) alle sole violazioni di ordine formale;
- il principio di imparzialità, riveniente dall’art. 97 Cost., oltre che dall’art. 1, comma 1, della l. n. 241/1990 (secondo cui “l’attività amministrativa è retta da criteri … di imparzialità”), in quanto si finirebbe per premiare gli autori di abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate;
- i principi di buon andamento e di efficacia, rivenienti dall’art. 97 Cost., oltre che dall’art. 1, comma 1, della l. n. 241/1990 (secondo cui “l’attività amministrativa è retta da criteri … di efficacia”), in quanto, premiando – come detto – gli autori degli abusi edilizi sostanziali, risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell’apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio;
- i principi di proporzionalità e di ragionevolezza, rivenienti, rispettivamente, dall’ordinamento comunitario e dagli artt. 3 e 97 Cost., in quanto si estenderebbe l’ambito oggettivo di applicazione di un istituto (permesso di costruire in sanatoria) al di là della fenomenologia (abusi edilizi meramente formali) in rapporto alla quale quest’ultimo è stato enucleato e commisurato dal legislatore.
Alla stregua delle superiori considerazioni, la regola della ‘sanatoria giurisprudenziale’, recepita nell’art. 31 delle n.t.a. del p.u.c. di Villa Literno, risulta porsi in rapporto di antinomia col canone della doppia conformità, del quale si è dianzi predicata l’immanenza all’art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001.
La disposizione regolamentare di cui al citato art. 31 delle n.t.a. del p.u.c. di Villa Literno (sulla valenza regolamentare degli strumenti di pianificazione urbanistica, nella parte incidente in via generale e astratta sul governo del territorio, cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 08.09.2009, n. 5258; sez. IV, 28.03.2011, n. 1868; sez. VI, 30.06.2011, n. 3888; TAR Toscana, Firenze, sez. I, 10.11.2008, n. 2439; TAR Marche, Ancona, 03.06.2009, n. 458; TAR Trentino Alto Adige, Trento, 17.06.2009, n. 186; TAR Liguria, Genova, sez. I, 20.07.2011, n. 1148) va, pertanto, disapplicata dall’adito giudice amministrativo, alla stregua di un consolidato orientamento giurisprudenziale, nonché in omaggio al principio di gerarchia delle fonti (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26.01.1992, n. 154; sez. VI, 29.04.2005, n. 2034; 02.03.2009, n. 1169; sez. IV, 16.02.2012, n. 812, secondo si tratterebbe non già di una disapplicazione in senso proprio, bensì “del risultato conseguente alla ricerca della normativa applicabile al caso concreto, in naturale applicazione dei principi che regolano i rapporti tra le fonti del diritto”), in quanto contrastante con la previsione di rango legislativo di cui all’art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001 (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 22.05.2012 n. 2369 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’ingiunzione di demolizione, per la sua natura di atto urgente dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un presupposto di fatto rientrante nella sfera di controllo dell’interessato, non richiede apporti partecipativi di quest’ultimo, il quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi, contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene, in ogni caso, posto in condizione di interloquire con l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive; tanto più che, in relazione ad una simile tipologia provvedimentale, può trovare applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990, che statuisce la non annullabilità dell’atto adottato in violazione delle norme sul procedimento, qualora, per la sua natura vincolata, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente enucleato.
Ed invero, per giurisprudenza ampiamente consolidata, l’ingiunzione di demolizione, per la sua natura di atto urgente dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un presupposto di fatto rientrante nella sfera di controllo dell’interessato, non richiede apporti partecipativi di quest’ultimo, il quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi, contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene, in ogni caso, posto in condizione di interloquire con l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive; tanto più che, in relazione ad una simile tipologia provvedimentale, può trovare applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990, che statuisce la non annullabilità dell’atto adottato in violazione delle norme sul procedimento, qualora, per la sua natura vincolata, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente enucleato (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 03.03.2007, n. 1021; sez. IV, 01.10.2007, n. 5050; TAR Lazio, Roma, sez. II, 03.07.2007, n. 5968; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 17.01.2007, n. 357; sez. VI, 08.02.2007, n. 961; sez. IV, 22.03.2007, n. 2725; sez. VII, 09.05.2007, n. 4859; 08.06.2007, n. 6038; Salerno, sez. II, 13.08.2007, n. 900; Napoli, sez. IV, 06.11.2007, n. 10676; 06.11.2007, n. 10679; sez. VII, 12.12.2007, n. 16226; sez. IV, 17.12.2007, n. 16316; sez. VII, 28.12.2007, n. 16550; sez. IV, 24.01.2008, n. 367; 21.03.2008, n. 1460; sez. VII, 21.03.2008, n. 1474; 04.04.2008, n. 1883; sez. III, 16.04.2008, n. 2207; sez. IV, 18.04.2008, n. 2344; sez. VI 18.06.2008, n. 5973; TAR Umbria, Perugia, 26.01.2007, n. 44; TAR Trentino Alto Adige, Bolzano, 08.02.2007, n. 52; TAR Molise, Campobasso, 20.03.2007, n. 178; TAR Sardegna, Cagliari, sez. I, 20.04.2007, n. 709; sez. VII, 09.05.2007, n. 4859; TAR Basilicata, Potenza, sez. I, 16.02.2008, n. 33; TAR Veneto, Venezia, sez. II, 26.02.2008, n. 454; 13.03.2008, n. 605; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 20.09.2008, n. 2651) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 22.05.2012 n. 2365 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’istanza di proroga motivata sulla sussistenza di fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare deve essere in ogni caso presentata prima che il titolo edilizio venga a scadere.
Si aggiunga che la tesi della sospensione automatica del permesso di costruire in presenza di fatti impeditivi non imputabili all’avente diritto si infrange contro il prevalente orientamento espresso dal Consiglio di Stato.
Difatti, posto che l’eventuale pronuncia di decadenza del permesso di costruire è espressione di un potere strettamente vincolato con natura ricognitiva e con decorrenza ex tunc (giacché accerta il venir meno degli effetti del titolo edilizio in conseguenza dell'inerzia del titolare ovvero della sopravvenienza di contrastanti previsioni urbanistiche), si è condivisibilmente osservato che il termine di durata non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un provvedimento da parte della stessa amministrazione che ha rilasciato l’atto concessorio che accerti l’impossibilità del rispetto del termine nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un “factum principis” ovvero l’insorgenza di una causa di forza maggiore.
Tali “fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso” (che possono consistere nel factum principis o in altri casi di forza maggiore) non hanno un rilievo automatico, ma possono costituire oggetto di valutazione in sede amministrativa quando l’interessato proponga tempestiva domanda di proroga, il cui accoglimento è indefettibile perché non vi sia la pronuncia di decadenza.

La prima doglianza espressa dalla ricorrente si infrange avverso il chiaro contenuto dell’art. 15 D.P.R. 380/2001 ed il prevalente orientamento espresso dalla giurisprudenza amministrativa con riferimento alla questione della prorogabilità del permesso di costruire.
Difatti, ai sensi dell’art. 15, primo e secondo comma, del D.P.R. 380/2001 “1. Nel permesso di costruire sono indicati i termini di inizio e di ultimazione dei lavori. 2. Il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere completata non può superare i tre anni dall'inizio dei lavori. Entrambi i termini possono essere prorogati, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza venga richiesta una proroga …”.
Dall’esame della richiamata disposizione emerge quindi incontestabilmente che l’istanza di proroga motivata sulla sussistenza di fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare deve essere in ogni caso presentata prima che il titolo edilizio venga a scadere: viceversa, nel caso in esame, non vi è contestazione sulla circostanza che detta richiesta sia stata avanzata a termini scaduti.
Si aggiunga che la tesi della sospensione automatica del permesso di costruire in presenza di fatti impeditivi non imputabili all’avente diritto si infrange contro il prevalente orientamento espresso dal Consiglio di Stato (Sez. IV, 23.02.2012 n. 974; 18.06.2008 n. 3030; 10.08.2007 n. 4423).
Difatti, posto che l’eventuale pronuncia di decadenza del permesso di costruire è espressione di un potere strettamente vincolato con natura ricognitiva e con decorrenza ex tunc (giacché accerta il venir meno degli effetti del titolo edilizio in conseguenza dell'inerzia del titolare ovvero della sopravvenienza di contrastanti previsioni urbanistiche), si è condivisibilmente osservato che il termine di durata non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un provvedimento da parte della stessa amministrazione che ha rilasciato l’atto concessorio che accerti l’impossibilità del rispetto del termine nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un “factum principis” ovvero l’insorgenza di una causa di forza maggiore.
Nello stesso solco si colloca l’indirizzo espresso dalla giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. IV, 10.08.2007 n. 4423) secondo cui tali “fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso” (che possono consistere nel factum principis o in altri casi di forza maggiore) non hanno un rilievo automatico, ma possono costituire oggetto di valutazione in sede amministrativa quando l’interessato proponga tempestiva domanda di proroga, il cui accoglimento è indefettibile perché non vi sia la pronuncia di decadenza
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 22.05.2012 n. 2363 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl Collegio non ignora quel filone giurisprudenziale secondo cui, con la novella apportata alla L. 07.08.1990 n. 241 dalle L. 11.02.2005 n. 15 e 14.05.2005 n. 80, quello che era in precedenza un principio consolidato della giurisprudenza, vale a dire che la comunicazione non fosse necessaria per i procedimenti ad istanza di parte, sia stato oggetto di ripensamento.
Il tradizionale orientamento che nega l'obbligo della comunicazione per i procedimenti ad istanza di parte non merita di essere abbandonato pure a seguito dell'introduzione delle suindicate modifiche normative ed, in particolare, della norma di cui alla lett. c)-ter, dell’art. 8, secondo comma, della L. 241/1990, in base alla quale, per i procedimenti ad iniziativa di parte, nella comunicazione di avvio deve essere indicata la data di presentazione della relativa istanza.
Tale previsione, che a parere di alcuni ha definitivamente consacrato l'obbligo di avvio della comunicazione di avvio anche nei procedimenti ad istanza di parte, ben può essere riferita, ad altri soggetti diversi dall'istante che, in tale categoria di procedimenti, devono essere destinatari della comunicazione di avvio, a norma dell'art. 7 della L. 241/1990.
La norma in discorso non toglie solidità all'argomento per il quale la comunicazione nei confronti dell'istante costituisce un inutile aggravamento del procedimento, atteso che l'interessato ha certamente conoscenza dell'esistenza dello stesso, di talché l'avviso di avvio sarebbe una mera duplicazione di formalità.

Orbene, il Collegio non ignora quel filone giurisprudenziale secondo cui, con la novella apportata alla L. 07.08.1990 n. 241 dalle L. 11.02.2005 n. 15 e 14.05.2005 n. 80, quello che era in precedenza un principio consolidato della giurisprudenza, vale a dire che la comunicazione non fosse necessaria per i procedimenti ad istanza di parte, sia stato oggetto di ripensamento (TAR Puglia, Bari, 07.06.2010 n. 2255).
Nondimeno, la Sezione ritiene che il tradizionale orientamento che nega l'obbligo della comunicazione per i procedimenti ad istanza di parte (Consiglio di Stato, Sez. IV, 21.02.2011 n. 1085; Consiglio di Stato, Sez. IV, 21.02.2011 n. 1085; Consiglio di Stato, Sez. IV, 07.04.2010 n. 1986; TAR Sardegna, 14.12.2010 n. 2686; TAR Sardegna, 27.10.2010 n. 2338) non meriti di essere abbandonato pure a seguito dell'introduzione delle suindicate modifiche normative ed, in particolare, della norma di cui alla lett. c)-ter, dell’art. 8, secondo comma, della L. 241/1990, in base alla quale, per i procedimenti ad iniziativa di parte, nella comunicazione di avvio deve essere indicata la data di presentazione della relativa istanza.
Tale previsione, che a parere di alcuni ha definitivamente consacrato l'obbligo di avvio della comunicazione di avvio anche nei procedimenti ad istanza di parte, ben può essere riferita, ad altri soggetti diversi dall'istante che, in tale categoria di procedimenti, devono essere destinatari della comunicazione di avvio, a norma dell'art. 7 della L. 241/1990.
La norma in discorso non toglie solidità all'argomento per il quale la comunicazione nei confronti dell'istante costituisce un inutile aggravamento del procedimento, atteso che l'interessato ha certamente conoscenza dell'esistenza dello stesso, di talché l'avviso di avvio sarebbe una mera duplicazione di formalità (TAR Calabria, Catanzaro, 20.05.2010 n. 796).
Fermo quanto indicato, il Collegio evidenzia altresì che, in considerazione di quanto sopra indicato, in ogni caso troverebbe applicazione il disposto dell'art. 21-octies della L. 241/1990, atteso che, per le ragioni illustrate, l’amministrazione non avrebbe potuto accogliere l’istanza di proroga di efficacia del permesso di costruire
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 22.05.2012 n. 2363 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione è costituito soltanto dalla constatata esecuzione dell'opera in totale difformità dal titolo edilizio o in assenza del medesimo, con la conseguenza che tale provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione.
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Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27.07.1978 n. 392, della parte dell'opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale.
Il ricorrente avrebbe dovuto fornire almeno un principio di prova circa la presunta impossibilità di demolire l'abuso senza danneggiare altri corpi di fabbrica, ciò che non risulta in alcun modo dimostrato in sede di gravame.

Quanto all’ordinanza demolitoria, si richiama il granitico orientamento giurisprudenziale, dal quale non vi è ragione per discostarsi, secondo cui il presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione è costituito soltanto dalla constatata esecuzione dell'opera in totale difformità dal titolo edilizio o in assenza del medesimo, con la conseguenza che tale provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione (Consiglio di Stato, Sez. VI, 14.11.2011 n. 5997 e Sez. IV, 27.04.2004 n. 2529; TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 06.02.2012 n. 693; TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 02.12.2004 n. 18085).
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Ai sensi dell’art. 34 D.P.R. 380/2001 (che riprende la formulazione dell’abrogato art. 12 L. 47/1985), “quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27.07.1978 n. 392, della parte dell'opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale”.
Secondo la costante giurisprudenza amministrativa di questo Tribunale (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 12.01.2009 n. 501; Sez. VII, 04.04.2008 n. 1883), il ricorrente avrebbe dovuto fornire almeno un principio di prova circa la presunta impossibilità di demolire l'abuso senza danneggiare altri corpi di fabbrica, ciò che non risulta in alcun modo dimostrato in sede di gravame
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 22.05.2012 n. 2362 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' illegittima l'ordinanza di demolizione:
a- in riferimento agli impianti elettrico ed idrico senza essersi tenuto conto dell’irrilevanza del “renderli funzionanti” sotto i profili edilizio/urbanistico/paesaggistico;
b- in riferimento alla “pavimentazione del terrazzino antistante il fabbricato”: che, di per sé sola, in pacifica evidenza, incidendo su un terrazzino già esistente, non sostanzia modifiche dello stato dei luoghi passibili di una sanzione demolitoria.
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La costruzione di una tettoia (“a doppia profondità, di circa mt. 7,10 x 4,60 e mt. 9.90 x 2,60”) rileva sotto i profili edilizio/urbanistico e paesaggistico.
Ed invero, in presenza delle descritte dimensioni e struttura, cui consegue una modifica della sagoma del fabbricato cui inerisce, la tettoia deve essere ricondotta fra quegli interventi “di entità tale da arrecare una visibile alterazione all'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite…” che, in un territorio assoggettato a vincolo paesaggistico, quale quello qui dato, giustificano la sanzione demolitoria senza necessità di motivare specificamente sull’interesse pubblico sotteso: in re ipsa.

... per l'annullamento dell’ordinanza sindacale n. 101 del 06.06.1996, notificata il successivo giorno 27 dello stesso mese, recante l’ordine di demolizione di quanto in essa indicato, abusivamente realizzato a servizio di un manufatto a sua volta abusivo sequestrato in data 25.07.1994;
...
Il ricorso si appalesa fondato nella parte in cui denuncia l’illegittimità della sanzione irrogata:
a- in riferimento agli impianti elettrico ed idrico senza essersi tenuto conto dell’irrilevanza del “renderli funzionanti” sotto i profili edilizio/urbanistico/paesaggistico; beninteso, stante l’assenza di ogni riferimento diretto o indiretto all’esecuzione di opere edilizie o comunque modificative dello stato dei luoghi cui si fosse fatto luogo per rendere funzionanti gli impianti;
b- in riferimento alla “pavimentazione del terrazzino antistante il fabbricato”: che, di per sé sola, (anche qui) in mancanza di ogni altra indicazione, in pacifica evidenza, incidendo su un terrazzino già esistente, non sostanzia modifiche dello stato dei luoghi passibili di una sanzione demolitoria.
A diversa conclusione deve invece pervenirsi in riferimento alla sanzione ripristinatoria comminata in relazione alla tettoia della quale, invece, vi è descrizione particolareggiata (“a doppia profondità, di circa mt. 7,10 x 4,60 e mt. 9.90 x 2,60”), che ne dimostra la rilevanza sotto i profili edilizio/urbanistico e paesaggistico.
Ed invero, in presenza delle descritte dimensioni e struttura, cui consegue una modifica della sagoma del fabbricato cui inerisce, la tettoia deve essere ricondotta fra quegli interventi “di entità tale da arrecare una visibile alterazione all'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite…” che, in un territorio assoggettato a vincolo paesaggistico, quale quello qui dato, giustificano la sanzione demolitoria senza necessità di motivare specificamente sull’interesse pubblico sotteso: in re ipsa (cfr., ex multis, Tar Campania Napoli, questa sesta sezione, n. 24047 del 12.11.2010, n. 2814 del 06.05.2010; 07.09.2009, n. 4899, sezione terza, 19.01.2010, n. 195; sezione seconda, 29.01.2009, n. 492, id. 06.11.2008, n. 19292; sezione quarta, 04.08.2011, n. 4195; Tar Calabria, Reggio Calabria, sezione prima, 23.08.2010, n. 915) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 18.05.2012 n. 2295 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAlcuna violazione delle garanzie partecipative può esser predicato, stante la doverosità di intervenire irrogando la sanzione demolitoria, quale prevista dalla legge in presenza di interventi, aventi la natura di cui si dirà in avanti, eseguiti in assenza dei dovuti titoli abilitativi.
Va infatti rigettato la denuncia (di cui al primo mezzo) di violazione dell’art. 7 della l. 241 del 1990.
Ed invero, per (ormai) consolidato orientamento giurisprudenziale, dal quale non sono state offerte ragioni per discostarsi, alcuna violazione delle garanzie partecipative può esser predicato, stante la doverosità di intervenire irrogando la sanzione demolitoria, quale prevista dalla legge in presenza di interventi, aventi la natura di cui si dirà in avanti, eseguiti in assenza dei dovuti titoli abilitativi (cfr., per tutte, Cons. Stato, sezione quinta, sentenza 07.04.2011, n. 2159, sezione quarta, 05.03.2010, n. 1277 e Tar Campania, questa sesta sezione, sentenze n. 1107 del 05.03.2012, n. 5805 del 14.12.2011 e nn. 2074 e 2076 del 21.04.2010) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 18.05.2012 n. 2293 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione di interventi edilizi in assenza dei prescritti titoli abilitativi costituisce presupposto necessario e sufficiente per l'esercizio del potere sanzionatorio volto all'immediato ripristino dello stato dei luoghi.
Pertanto, trattandosi di attività doverosa e vincolata, l'adozione dell'ordine di demolizione non necessita di una motivazione ulteriore rispetto all'indicazione delle norme violate e al riferimento ai presupposti di fatto contenuti nei verbali di accertamento dell'abuso.

A differenza di quanto sostenuto in seno all’unico, generico, mezzo di impugnazione i due provvedimenti impugnati sono sorretti da giustificazione del tutto adeguata alla bisogna laddove impongono di demolire, previa sospensione delle lavorazioni in corso, le opere innanzi descritte, aventi le pure descritte notevoli dimensioni (superfici e volumi), realizzate in assenza sia di titolo edilizio che di autorizzazione paesistica nel territorio comunale “dichiarato di notevole interesse pubblico con d. m. del 20.03.1951”.
Ed invero, per univoco e consolidato orientamento giurisprudenziale, in applicazione delle previsioni del T.U. sull’edilizia (art. 27 del d.P.R. 380 del 2001) e di quelle del T.U. dei beni culturali e paesaggistici (art. 146 e ss. del d.l.vo n. 42 del 2004), specificamente richiamate nei provvedimenti qui all’esame, “la realizzazione di interventi edilizi in assenza dei prescritti titoli abilitativi costituisce presupposto necessario e sufficiente per l'esercizio del potere sanzionatorio volto all'immediato ripristino dello stato dei luoghi. Pertanto, trattandosi di attività doverosa e vincolata, l'adozione dell'ordine di demolizione non necessita di una motivazione ulteriore rispetto all'indicazione delle norme violate e al riferimento ai presupposti di fatto contenuti nei verbali di accertamento dell'abuso” (cfr., ex multis, da ultimo, Cons. Stato, sezione quarta, 14.02.2012, n. 703, sezione quinta, 11.01.2011, n. 79; Tar Campania, questa sesta sezione, 07.12.2011, n. 5716, sezione settima, 22.02.2012, n. 885; Tar Lazio, Roma, sezione prima, 10.02.2012, n. 1358), sicché, in definitiva: “una volta accertata la violazione, la sanzione va doverosamente applicata” (Cons. Stato, sezione quinta, sentenza 07.04.2011 n. 2159) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 18.05.2012 n. 2286 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’atto di autotutela deve sempre poggiare su ragioni di pubblico interesse.
E' possibile, in materia di contratti della P.A., non procedere alla aggiudicazione (definitiva o provvisoria) di una gara ma tale potere deve trovare fondamento, in via generale, in specifiche ragioni di pubblico interesse. Occorre quindi che nell'atto dell'amministrazione siano chiaramente indicate (e non risultino manifestamente irragionevoli) le ragioni di pubblico interesse (attuale e concreto) che hanno determinato l'adozione dell'atto di autotutela e che tali ragioni siano prevalenti rispetto agli altri interessi militanti in favore della conservazione degli atti oggetto del provvedimento di revoca.
Ne consegue che, in questa occasione, secondo i giudici del Consiglio di Stato l'azienda non poteva limitarsi ad evocare generiche difficoltà finanziarie per giustificare (dopo l'aggiudicazione provvisoria) l'annullamento/revoca della gara in questione ma doveva anche dimostrare che tali difficoltà erano tali da non consentire nemmeno l'esecuzione dei servizi di gestione e manutenzione oggetto della gara che non appaiono meno importanti di altri servizi che la stessa azienda comunque assicura ed intende assicurare.
Nella vicenda in commento, inoltre, l’atto di autotutela in questione (che in parte può essere qualificato come atto di annullamento per vizi di legittimità ed in parte come atto di revoca per ragioni di opportunità) risultava comunque viziato anche per il mancato rispetto delle garanzie procedimentali previste dalla legge n. 241 del 1990.
Infatti, l'esercizio dell'autotutela da parte della Pubblica amministrazione richiede il previo avviso di avvio del procedimento, perché l'interessato deve essere messo in condizione di argomentare, in contraddittorio con l'Amministrazione, sulla insussistenza di un prevalente interesse alla rimozione dell'atto ritenuto illegittimo o inopportuno (fra le più recenti: Consiglio di Stato, sez. IV, n. 1112 del 28.02.2012) (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it -
Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 15.05.2012 n. 2805 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi fini del rilascio della concessione in sanatoria, le opere possono considerarsi “completate funzionalmente” allorquando siano state realizzate le tramezzature divisorie, le aperture delle relative finestrature e la predisposizione degli allacci agli impianti tecnologici di servizio, che sole possono definire la tipologia edilizia e d'uso per le quali è stato richiesto il condono, cosa che nella specie –come detto- manca del tutto.
Ulteriore conseguenza di tale stato di fatto è che, in assenza di completamento funzionale, nessun silenzio-assenso si forma, alla scadenza del biennio, sulla domanda di condono.

Inoltre rileva il Collegio che, ai fini del rilascio della concessione in sanatoria, le opere possono considerarsi “completate funzionalmente” allorquando siano state realizzate le tramezzature divisorie, le aperture delle relative finestrature e la predisposizione degli allacci agli impianti tecnologici di servizio, che sole possono definire la tipologia edilizia e d'uso per le quali è stato richiesto il condono (Consiglio Stato sez. V, 23.05.2005, n. 2578), cosa che nella specie –come detto- manca del tutto.
Ulteriore conseguenza di tale stato di fatto è che, in assenza di completamento funzionale, nessun silenzio-assenso si forma, alla scadenza del biennio, sulla domanda di condono (TAR Campania Napoli, sez. IV, 06.04.2011 n. 1928; Consiglio Stato sez. V 04.10.2007 n. 5153) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 14.05.2012 n. 2236 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento, perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime.
Inoltre, seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento … qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata data ai ricorrenti comunicazione dell’avvio del procedimento.
La comunicazione ex art. 27, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 è funzionale esclusivamente alle Amministrazioni interessate alla tutela dei luoghi di pregio paesaggistico e dalla sua effettuazione deriva l'ulteriore possibilità di intervento delle predette ai fini demolitori; pertanto, la sua omissione è ininfluente sulla legittimità dell'ordinanza di demolizione degli abusi edilizi realizzati.
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La natura interamente vincolata del provvedimento di demolizione esclude la necessaria ponderazione di interessi diversi da quelli pubblici tutelati e non richiede motivazione ulteriore rispetto alla dichiarata abusività. Anche la pretesa urbanizzazione dell’area è del tutto irrilevante e non rende legittimo l’abuso. Né occorre l’indicazione specifica delle norme urbanistiche violate, una volta chiarito –in base alla natura delle opere– che occorreva il permesso di costruire e che questo non è stato concesso.

Risulta infondata la censura incentrata dell’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento in quanto i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV, 12.04.2005, n. 3780; 13.01.2006, n. 651), perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime.
Inoltre, seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento … qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata data ai ricorrenti comunicazione dell’avvio del procedimento.
La comunicazione ex art. 27, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 è funzionale esclusivamente alle Amministrazioni interessate alla tutela dei luoghi di pregio paesaggistico e dalla sua effettuazione deriva l'ulteriore possibilità di intervento delle predette ai fini demolitori; pertanto, la sua omissione è ininfluente sulla legittimità dell'ordinanza di demolizione degli abusi edilizi realizzati (Tar Campania, Napoli, III, n. 3418/2010).
Non può trovare accoglimento neppure il motivo incentrato sull’omessa ponderazione dell’interesse pubblico con l’interesse del ricorrente, che risulta irrimediabilmente vulnerato dall’adozione del provvedimento impugnato. Infatti, secondo la giurisprudenza (TAR Campania Napoli, Sez. VI, 05.04.2005, n. 3312 Cons. Stato, Sez. IV, 27.04.2004, n. 2529) la natura interamente vincolata del provvedimento di demolizione esclude la necessaria ponderazione di interessi diversi da quelli pubblici tutelati e non richiede motivazione ulteriore rispetto alla dichiarata abusività. Anche la pretesa urbanizzazione dell’area è del tutto irrilevante e non rende legittimo l’abuso. Né occorre l’indicazione specifica delle norme urbanistiche violate, una volta chiarito –in base alla natura delle opere– che occorreva il permesso di costruire e che questo non è stato concesso (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 14.05.2012 n. 2230 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAOccorre distinguere il concetto di pertinenza previsto dal diritto civile dal più ristretto concetto di pertinenza inteso in senso urbanistico, che non trova applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime del permesso di costruire.
Ne consegue che, tenuto conto delle caratteristiche dell’intervento abusivo realizzato dalla ricorrente risultanti dalla motivazione dell’ordine di demolizione, il predetto intervento -non essendo coessenziale ad un bene principale e potendo essere successivamente utilizzato anche in modo autonomo e separato- non può ritenersi pertinenza ai fini urbanistici, sì da escludere che lo stesso sia sottoposto al preventivo rilascio del permesso di costruire.
Allo stesso modo, è del tutto irrilevante la pretesa modestia delle opere realizzate, una volta accertato che per la realizzazione delle stesse occorreva il permesso di costruire

Risulta infondata la censura incentrata sulla natura pertinenziale delle opere abusive in questione. Infatti secondo una consolidata giurisprudenza (ex multis TAR Lombardia Milano, Sez. II, 11.02.2005, n. 365; TAR Lazio, Sez. II, 04.02.2005, n. 1036) occorre distinguere il concetto di pertinenza previsto dal diritto civile dal più ristretto concetto di pertinenza inteso in senso urbanistico, che non trova applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime del permesso di costruire.
Ne consegue che, tenuto conto delle caratteristiche dell’intervento abusivo realizzato dalla ricorrente risultanti dalla motivazione dell’ordine di demolizione, il predetto intervento -non essendo coessenziale ad un bene principale e potendo essere successivamente utilizzato anche in modo autonomo e separato- non può ritenersi pertinenza ai fini urbanistici, sì da escludere che lo stesso sia sottoposto al preventivo rilascio del permesso di costruire.
Allo stesso modo, è del tutto irrilevante la pretesa modestia delle opere realizzate, una volta accertato che per la realizzazione delle stesse occorreva il permesso di costruire (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 14.05.2012 n. 2230 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento, perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime. Inoltre, seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento … qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata data ai ricorrenti comunicazione dell’avvio del procedimento.
La comunicazione ex art. 27, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 è funzionale esclusivamente alle Amministrazioni interessate alla tutela dei luoghi di pregio paesaggistico e dalla sua effettuazione deriva l'ulteriore possibilità di intervento delle predette ai fini demolitori; pertanto, la sua omissione è ininfluente sulla legittimità dell'ordinanza di demolizione degli abusi edilizi realizzati.
L’Amministrazione non è tenuta a valutare, d’ufficio, la legittimità urbanistica delle opere realizzate, in mancanza di una richiesta di permesso di costruire in sanatoria da parte del ricorrente.
La natura interamente vincolata del provvedimento di demolizione esclude la necessaria ponderazione di interessi diversi da quelli pubblici tutelati e non richiede motivazione ulteriore rispetto alla dichiarata abusività.

È infondata la prima censura: i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV, 12.04.2005, n. 3780; 13.01.2006, n. 651), perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime. Inoltre, seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento … qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata data ai ricorrenti comunicazione dell’avvio del procedimento.
La comunicazione ex art. 27, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 è funzionale esclusivamente alle Amministrazioni interessate alla tutela dei luoghi di pregio paesaggistico e dalla sua effettuazione deriva l'ulteriore possibilità di intervento delle predette ai fini demolitori; pertanto, la sua omissione è ininfluente sulla legittimità dell'ordinanza di demolizione degli abusi edilizi realizzati (Tar Campania, Napoli, III, n. 3418/2010).
Altrettanto pacifico è che l’Amministrazione non sia tenuta a valutare, d’ufficio, la legittimità urbanistica delle opere realizzate, in mancanza di una richiesta di permesso di costruire in sanatoria da parte del ricorrente (TAR Lazio, Roma. Sez. II, n. 13652/2006).
Non può trovare accoglimento neppure il motivo incentrato sull’omessa ponderazione dell’interesse pubblico con l’interesse del ricorrente, che risulta irrimediabilmente vulnerato dall’adozione del provvedimento impugnato. Infatti, secondo la giurisprudenza (TAR Campania Napoli, Sez. VI, 05.04.2005, n. 3312 Cons. Stato, Sez. IV, 27.04.2004, n. 2529) la natura interamente vincolata del provvedimento di demolizione esclude la necessaria ponderazione di interessi diversi da quelli pubblici tutelati e non richiede motivazione ulteriore rispetto alla dichiarata abusività (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 14.05.2012 n. 2229 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 15, co. 2, d.P.R. n. 380/2001, “Il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo”. Dunque, non è previsto un termine “minimo” a favore del privato per l’inizio dei lavori; la legge prevede solo un termine “massimo”, nel senso che l’Amministrazione non può, nel permesso di costruire, fissare un termine superiore ad un anno per l’inizio dei lavori.
Il "cantieramento" dell'intervento deve concretarsi nell'effettivo inizio dei lavori tramite impianto del cantiere, secondo i criteri ordinariamente utilizzati per rilevare il rispetto dei termini di inizio e fine dei lavori di cui alla concessione edilizia, previsti dall'art. 15, d.P.R. n. 380 del 2001.
La mera esecuzione di lavori di sbancamento è, di per sé, inidonea per ritenere soddisfatto il presupposto dell'effettivo "inizio dei lavori" entro il termine di un anno dal rilascio del permesso di costruire a pena di decadenza del titolo abilitativo (art. 15, d.P.R. 06.06.2001, n. 380), essendo necessario, al fine di escludere la configurabilità del reato di costruzione abusiva, che lo sbancamento sia accompagnato dalla compiuta organizzazione del cantiere e da altri indizi idonei a confermare l'effettivo intendimento del titolare del permesso di costruire di realizzare l'opera assentita (in motivazione la Corte ha precisato che detti indizi consistono nell'impianto del cantiere, nell'innalzamento di elementi portanti, nell'elevazione di muri e nell'esecuzione di scavi coordinati al gettito delle fondazioni del costruendo edificio).

Ai sensi dell’art. 15, co. 2, d.P.R. n. 380/2001, “Il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo”. Dunque, non è previsto un termine “minimo” a favore del privato per l’inizio dei lavori; la legge prevede solo un termine “massimo”, nel senso che l’Amministrazione non può, nel permesso di costruire, fissare un termine superiore ad un anno per l’inizio dei lavori. Ne consegue che l’Amministrazione ben può fissare un termine inferiore ad un anno; nel caso di specie, la parte ricorrente contesta la legittimità del termine in concreto concesso perché inferiore ad un anno, ma tale censura –atteso la lettera della legge– deve ritenersi infondata.
Soprattutto, anche ammesso il termine in concreto concesso fosse troppo esiguo, e dunque contestabile sotto i profili della ragionevolezza e della correttezza che deve comunque caratterizzare i rapporti tra p.a. e soggetto privato, il provvedimento impugnato deve comunque ritenersi sostanzialmente non censurabile, ai sensi dell’art. 21-octies, co. 2, l. n. 241/1990.
Infatti, l’Amministrazione –pur avendo fissato un termine di un solo giorno per l’inizio dei lavori– ha eseguito il controllo oltre un anno dopo (in data 24.06.2010), riscontrando che non solo non erano iniziati i lavori, ma che l’area era utilizzata come parcheggio e ricoveri di auto e camion (tanto che l’area era stata pavimentata): il che significa che, quand’anche fosse stato concesso un termine di un anno, la ricorrente non lo avrebbe comunque rispettato; e che, anzi, la ricorrente non ha avuto alcuna seria intenzione di iniziare davvero i lavori autorizzati. In altri termini, riscontrato che –oltre un anno dopo il rilascio del permesso di costruire– i lavori non erano iniziati, né avrebbero potuto iniziare in un prossimo futuro (atteso il diverso utilizzo dell’area), non si vede come l’Amministrazione potesse non adottare un provvedimento di decadenza del permesso di costruire.
Poiché non vi è stato alcun effettivo inizio dei lavori, appare superfluo chiarire cosa debba intendersi per “cantieramento”; comunque, anche sul tale punto devono ritenersi infondate le osservazioni di parte ricorrente: come già ritenuto da questa Sezione, “Il "cantieramento" dell'intervento (in relazione al quale inizia a decorrere il termine quinquennale di cui all'art. 125 della Variante generale al p.r.g. del Comune di Napoli) deve concretarsi nell'effettivo inizio dei lavori tramite impianto del cantiere, secondo i criteri ordinariamente utilizzati per rilevare il rispetto dei termini di inizio e fine dei lavori di cui alla concessione edilizia, previsti dall'art. 15, d.P.R. n. 380 del 2001” (Tar Campania, Napoli, sez. IV, n. 28002/2010).
Anche secondo la Cassazione penale “La mera esecuzione di lavori di sbancamento è, di per sé, inidonea per ritenere soddisfatto il presupposto dell'effettivo "inizio dei lavori" entro il termine di un anno dal rilascio del permesso di costruire a pena di decadenza del titolo abilitativo (art. 15, d.P.R. 06.06.2001, n. 380), essendo necessario, al fine di escludere la configurabilità del reato di costruzione abusiva, che lo sbancamento sia accompagnato dalla compiuta organizzazione del cantiere e da altri indizi idonei a confermare l'effettivo intendimento del titolare del permesso di costruire di realizzare l'opera assentita (in motivazione la Corte ha precisato che detti indizi consistono nell'impianto del cantiere, nell'innalzamento di elementi portanti, nell'elevazione di muri e nell'esecuzione di scavi coordinati al gettito delle fondazioni del costruendo edificio)”: così Cass. Pen. Sez. III, n. 7114/2010 (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 14.05.2012 n. 2225 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 31, comma 2, del del D.P.R. n. 380/2001, è prevista la sanzione della demolizione per gli interventi edilizi eseguiti in assenza del prescritto permesso di costruire.
Pertanto, l’Amministrazione ha correttamente ordinato la demolizione delle opere in questione, trattandosi di un intervento edilizio abusivo che ha determinato la realizzazione di nuovi volumi e nuove superfici.
Si ricordi, tra l’altro, che la realizzazione di un balcone esige, per costante giurisprudenza di questa Sezione, il permesso di costruire.
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I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento, perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime; inoltre, seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento … qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata data ai ricorrenti comunicazione dell’avvio del procedimento.
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La natura interamente vincolata del provvedimento di demolizione esclude la necessaria ponderazione di interessi diversi da quelli pubblici tutelati e non richiede motivazione ulteriore rispetto alla dichiarata abusività.
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Dal chiaro tenore letterale dell’articolo 31, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001 -secondo il quale “se il responsabile dell’abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall’ingiunzione, il bene e l’area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune”- si desume che il provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio comunale di un manufatto abusivo rappresenta un atto dovuto conseguente alla mera inottemperanza da parte del proprietario alla diffida a demolire il manufatto abusivo e, quindi, è sufficientemente che la motivazione dello stesso si riferisca a tale circostanza di fatto

È in primo luogo infondata la censura incentrata sulla non necessità del permesso di costruire per le opere realizzate. Alla ricorrente sono infatti contestate la realizzazione, sul terrazzo di copertura, di un manufatto in muratura di mt. 27 x 2,20 di altezza completo di solaio di copertura in putrelle e tavelloni, diviso in due ambienti provvisti di due vani luce e di uno sporto di m. 3.00 x 1,00 antistante la scala d’accesso al manufatto, copertura in putrelle e tavelloni; nonché di uno sporto di m. 3.00 x 1,00 previa trasformazione di un vano finestra in un vano di passaggio, provvisto di pavimentazione e ringhiera protettiva.
Si tratta, con tutta evidenza, di interventi di nuova costruzione, per i quali è prescritto il permesso di costruire; e, ai sensi dell’art. 31, comma 2, del del D.P.R. n. 380/2001, è prevista la sanzione della demolizione per gli interventi edilizi eseguiti in assenza del prescritto permesso di costruire. Pertanto, l’Amministrazione ha correttamente ordinato la demolizione delle opere in questione, trattandosi di un intervento edilizio abusivo che ha determinato la realizzazione di nuovi volumi e nuove superfici. Si ricordi, tra l’altro, che la realizzazione di un balcone esige, per costante giurisprudenza di questa Sezione, il permesso di costruire (Tar Campania, Napoli, sez. IV, n. 4788/2009).
È destituita di ogni fondamento la censura incentrata dell’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento in quanto i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV, 12.04.2005, n. 3780; 13.01.2006, n. 651), perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime; inoltre, seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento … qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata data ai ricorrenti comunicazione dell’avvio del procedimento.
Non può trovare accoglimento neppure il motivo incentrato sull’omessa ponderazione dell’interesse pubblico con l’interesse del ricorrente, che risulta irrimediabilmente vulnerato dall’adozione del provvedimento impugnato. Infatti, secondo la giurisprudenza (TAR Campania Napoli, Sez. VI, 05.04.2005, n. 3312 Cons. Stato, Sez. IV, 27.04.2004, n. 2529) la natura interamente vincolata del provvedimento di demolizione esclude la necessaria ponderazione di interessi diversi da quelli pubblici tutelati e non richiede motivazione ulteriore rispetto alla dichiarata abusività.
Risulta infondata la censura incentrata sulla assenza dei presupposti necessari per disporre l’acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale. Infatti, dal chiaro tenore letterale dell’articolo 31, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001 -secondo il quale “se il responsabile dell’abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall’ingiunzione, il bene e l’area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune”- si desume che il provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio comunale di un manufatto abusivo rappresenta un atto dovuto conseguente alla mera inottemperanza da parte del proprietario alla diffida a demolire il manufatto abusivo (TAR Puglia Bari, Sez. I, 14.04.2003, n. 1679) e, quindi, è sufficientemente che la motivazione dello stesso si riferisca a tale circostanza di fatto (TAR Puglia Lecce, Sez. I, 09.06.2004, n. 3541). In particolare, ai fini della legittimità dell’ordinanza di demolizione non è necessaria l’indicazione dei dati catastali del bene (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 14.05.2012 n. 2224 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento, perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime; e, seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento … qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
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L’attività di repressione degli abusi edilizi, essendo collegata alla tutela dell’interesse pubblico all’ordinato sviluppo del territorio, così come delineato nello strumento urbanistico e nella regolamentazione edilizia vigenti, non è soggetta a termini di decadenza o di prescrizione e può essere esercitata anche a notevole distanza di tempo dalla commissione dell’abuso.

E' infondata la censura incentrata dell’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento in quanto i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV, 12.04.2005, n. 3780; 13.01.2006, n. 651), perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime; e, seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento … qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata data ai ricorrenti comunicazione dell’avvio del procedimento.
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Risulta infondata la censura incentrata sul lungo tempo trascorso dalla realizzazione delle opere abusive in questione perché, secondo la prevalente giurisprudenza (ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 27.04.2004, n. 2529), l’attività di repressione degli abusi edilizi, essendo collegata alla tutela dell’interesse pubblico all’ordinato sviluppo del territorio, così come delineato nello strumento urbanistico e nella regolamentazione edilizia vigenti, non è soggetta a termini di decadenza o di prescrizione e può essere esercitata anche a notevole distanza di tempo dalla commissione dell’abuso (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 14.05.2012 n. 2220 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento, perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime.
Seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento … qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
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La natura interamente vincolata del provvedimento di demolizione esclude la necessaria ponderazione di interessi diversi da quelli pubblici tutelati e non richiede motivazione ulteriore rispetto alla dichiarata abusività.

È destituita di ogni fondamento la censura incentrata dell’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento in quanto:
- i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV, 12.04.2005, n. 3780; 13.01.2006, n. 651), perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime;
- seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento … qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata data ai ricorrenti comunicazione dell’avvio del procedimento.
Infine, non può trovare accoglimento neppure il motivo incentrato sull’omessa ponderazione dell’interesse pubblico con l’interesse del ricorrente, che risulta irrimediabilmente vulnerato dall’adozione del provvedimento impugnato. Infatti, secondo la giurisprudenza (TAR Campania Napoli, Sez. VI, 05.04.2005, n. 3312 Cons. Stato, Sez. IV, 27.04.2004, n. 2529) la natura interamente vincolata del provvedimento di demolizione esclude la necessaria ponderazione di interessi diversi da quelli pubblici tutelati e non richiede motivazione ulteriore rispetto alla dichiarata abusività (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 14.05.2012 n. 2215 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAFermo il disposto del primo comma dell'art. 40 e con l'esclusione dei casi di cui all'art. 33, decorso il termine perentorio di 24 mesi dalla presentazione della domanda, quest'ultima si intende accolta ove l'interessato provveda al pagamento di tutte le somme eventualmente dovute a conguaglio ed alla presentazione all'ufficio tecnico erariale della documentazione necessaria all'accatastamento. Trascorsi 36 mesi si prescrive l'eventuale diritto al conguaglio o al rimborso spettanti.
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Differenziandosi il tacito accoglimento della domanda di condono dalla decisione esplicita solo per l'aspetto formale, la formazione del silenzio-assenso sulla domanda di sanatoria degli abusi edilizi richiede, quale presupposto essenziale, oltre al completo pagamento delle somme dovute a titolo di oblazione, che siano stati integralmente assolti dall'interessato gli oneri di documentazione, che si risolvono evidentemente nella sussistenza del requisito sostanziale, relativi al tempo di ultimazione dei lavori, all'ubicazione, alla consistenza delle opere e ad ogni altro elemento rilevante affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica dell'Amministrazione comunale.
Conseguentemente, il termine per la formazione del silenzio-assenso sulla domanda di rilascio della concessione in sanatoria non decorre quando manchino i presupposti di fatto e di diritto previsti dalla norma e/o le opere non siano suscettibili di sanatoria, nonché qualora la domanda stessa sia carente della documentazione prevista dalla legge.

Ai sensi dell’art. 35, comma 18, l. 47/1985, “Fermo il disposto del primo comma dell'art. 40 e con l'esclusione dei casi di cui all'art. 33, decorso il termine perentorio di 24 mesi dalla presentazione della domanda, quest'ultima si intende accolta ove l'interessato provveda al pagamento di tutte le somme eventualmente dovute a conguaglio ed alla presentazione all'ufficio tecnico erariale della documentazione necessaria all'accatastamento. Trascorsi 36 mesi si prescrive l'eventuale diritto al conguaglio o al rimborso spettanti”.
Tuttavia, la giurisprudenza ha precisato che “Differenziandosi il tacito accoglimento della domanda di condono dalla decisione esplicita solo per l'aspetto formale, la formazione del silenzio-assenso sulla domanda di sanatoria degli abusi edilizi richiede, quale presupposto essenziale, oltre al completo pagamento delle somme dovute a titolo di oblazione, che siano stati integralmente assolti dall'interessato gli oneri di documentazione, che si risolvono evidentemente nella sussistenza del requisito sostanziale, relativi al tempo di ultimazione dei lavori, all'ubicazione, alla consistenza delle opere e ad ogni altro elemento rilevante affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica dell'Amministrazione comunale.
Conseguentemente, il termine per la formazione del silenzio-assenso sulla domanda di rilascio della concessione in sanatoria non decorre quando manchino i presupposti di fatto e di diritto previsti dalla norma e/o le opere non siano suscettibili di sanatoria, nonché qualora la domanda stessa sia carente della documentazione prevista dalla legge
” (Tar Puglia, Lecce, III, n. 16/2012, tra le tante) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 14.05.2012 n. 2211 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’esercizio del potere repressivo di un abuso edilizio consistente nell’esecuzione di un’opera in assenza del titolo abilitativo costituisce atto dovuto, per il quale è “in re ipsa” l'interesse pubblico alla sua rimozione.
Tant’è che, accertata l'esecuzione di opere in assenza di concessione ovvero in difformità totale dal titolo abilitativo, non costituisce onere del Comune verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza sull'attività edilizia, né accertare l’astratta compatibilità del manufatto realizzato con la normativa vigente o con la l’area sulla quale insiste, che l’istante assume come “completamente edificata”.
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In presenza di opere abusive, l'ordine di demolizione costituisce atto dovuto, per cui la possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive (quando ciò sia pregiudizievole per quelle legittime) costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinato alla circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi.

Nello schema giuridico delineato dall’art. 31 del d.P.R. 380/2001 non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo di un abuso edilizio consistente nell’esecuzione di un’opera in assenza del titolo abilitativo costituisce atto dovuto, per il quale è “in re ipsa” l'interesse pubblico alla sua rimozione (cfr. TAR Campania, Sez. IV, 24.09.2002, n. 5556; 04.07.2001, n. 3071; Consiglio Stato, sez. IV, 27.04.2004, n. 2529).
Tant’è che, accertata l'esecuzione di opere in assenza di concessione ovvero in difformità totale dal titolo abilitativo, contrariamente a quanto dedotto dalla ricorrente, non costituisce onere del Comune verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza sull'attività edilizia, né accertare l’astratta compatibilità del manufatto realizzato con la normativa vigente o con la l’area sulla quale insiste, che l’istante assume come “completamente edificata” (cfr. TAR Campania, Sez. IV, 24.09.2002, n. 5556; TAR Lazio, sez. II-ter, 21.06.1999, n. 1540).
In definitiva, l’atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell’abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria.
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La conclamata abusività dell’opera, riconducibile alle fattispecie in contestazione (art. 31 del d.P.R. 380/2001) per la creazione di nuovi volumi suscettivi di autonoma utilizzabilità, imponeva pertanto l’adozione della disposta misura repressiva senza che, come preteso dall’esponente il Comune dovesse farsi carico di verificare la possibilità di dare concreta esecuzione al provvedimento: è, infatti, diffuso in giurisprudenza il principio, condiviso dal Collegio, secondo cui in presenza di opere abusive, l'ordine di demolizione costituisce atto dovuto, per cui la possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive (quando ciò sia pregiudizievole per quelle legittime) costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinato alla circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 21.05.1999, n. 587)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 14.05.2012 n. 2207 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIDeve escludersi che la violazione delle norme in tema di partecipazione al procedimento dia luogo all'annullamento dell'atto ogni qual volta risulti che l'esito del procedimento non sarebbe stato differente, anche se vi fosse stata la partecipazione dell'interessato, il che accade quando il quadro normativo di riferimento e gli elementi di fatto raccolti nel corso dell’istruttoria non presentano margini di incertezza sufficientemente apprezzabili e l'eventuale annullamento del provvedimento finale per accertata violazione dell'obbligo di formale comunicazione non priverebbe l'Amministrazione del potere di adottare un nuovo provvedimento di contenuto analogo.
Al riguardo è possibile osservare che secondo un orientamento giurisprudenziale (di concezione funzionale e non meramente formale dell'avvio del procedimento) venutosi ad affermare ancor prima dell’introduzione dell'art. 21-octies della legge 07.08.1990, n. 241, deve escludersi che la violazione delle norme in tema di partecipazione al procedimento dia luogo all'annullamento dell'atto ogni qual volta risulti che l'esito del procedimento non sarebbe stato differente, anche se vi fosse stata la partecipazione dell'interessato, il che accade quando il quadro normativo di riferimento e gli elementi di fatto raccolti nel corso dell’istruttoria non presentano margini di incertezza sufficientemente apprezzabili (come è nel caso di specie in virtù di quanto è stato approfonditamente illustrato in precedenza) e l'eventuale annullamento del provvedimento finale per accertata violazione dell'obbligo di formale comunicazione non priverebbe l'Amministrazione del potere di adottare un nuovo provvedimento di contenuto analogo (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 05.03.2002, n. 1325 e TAR Puglia Bari, Sez. I, 13.05.2002, n. 2312) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 14.05.2012 n. 2207 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Deposito temporaneo trasporto e movimentazione.
Pur considerando la distinzione tra l'attività di “movimentazione” e quella di “trasporto” dei rifiuti, nel senso che la prima non necessita di alcuna autorizzazione e che solo la seconda rientra nel novero della “gestione” ai sensi dell'art. 183, comma 1, lett. n), d.lgs. 152/2006, oggetto di specifica autorizzazione in quanto tale (con la conseguenza che solo dopo l'inizio del deposito temporaneo comincerebbe la gestione dei rifiuti in senso tecnico e l'obbligo di rispettarne regole e prescrizioni,) la Corte, nella fattispecie, ha escluso la decorrenza della gestione dei rifiuti in senso tecnico solo dopo l'inizio del deposito temporaneo sia perché nulla era dato sapere circa l'effettiva osservanza delle prescrizioni imposte dalia legge per considerare legittima detta forma di deposito; sia perché non vi era stata movimentazione all'interno di uno stesso compendio nel luogo reale di produzione dei rifiuti, bensì trasferimento comportante instradamento da tale luogo a quello giuridico di produzione (Corte di Cassazione. Sez. III penale, sentenza 10.05.2012 n. 17460 - tratto da www.lexambiente.it).

APPALTI: Gare: L’aggiudicazione può essere comunicata solo per iscritto.
La comunicazione scritta dell'aggiudicazione non può essere surrogata da una mera notizia orale e informale. La procedura negoziata mediante cottimo fiduciario non può abdicare ai principi fondamentali in materia di aggiudicazione di contratti pubblici. L'art. 11, c. 10, del d.lgs. n. 163 del 2006 (cd. stand still) prevede testualmente che "Il contratto non può comunque essere stipulato prima di trentacinque giorni dall'invio dell'ultima delle comunicazioni del provvedimento di aggiudicazione definitiva ai sensi dell'art. 79".
Sia il dato testuale (che fa esplicito riferimento all'invio di una comunicazione) sia il principio generale, secondo cui l'amministrazione, salvo casi eccezionali e tipici, adotta atti formali e scritti, depongono nel senso che la comunicazione scritta dell'aggiudicazione non può essere surrogata da una mera notizia orale e informale.
Ne consegue che, in questa circostanza, appare palesemente violato il disposto di cui all'art. 11, c. 10 cit. (inoltre, atteso che il cd. stand still è riconducibile all'obbligo di trasparenza, richiamato dall'art. 125 del d.lgs. n. 163 del 2006, esso trova applicazione anche nel caso di cottimo fiduciario da tale norma disciplinato). La procedura negoziata di cui all'art. 125 del d.lgs. n. 163 del 2006, pur caratterizzata da maggior snellezza e semplicità, non può abdicare ai principi fondamentali in materia di aggiudicazione di contratti pubblici, come si desume dal medesimo articolo, il quale, al c. 2, prevede che "l'affidamento mediante cottimo fiduciario avviene nel rispetto dei principi di trasparenza, rotazione, parità di trattamento".
Inoltre, è evidente che il principio di predeterminazione dei criteri, nel caso di scelta secondo il metodo dell'offerta economicamente più vantaggiosa, enunciato all'art. 83 del d.lgs. n.163 del 2006, è riconducibile a quello di trasparenza e parità di trattamento.
Ne consegue che l'amministrazione, nel caso di specie, avrebbe dovuto predeterminare i criteri in modo adeguato, da un lato, a mettere tutti i concorrenti nella medesima posizione conoscitiva in ordine alle esigenze della stazione appaltante, dall'altro, a vincolare la successiva valutazione alle caratteristiche richieste e predeterminate; ciò, pur senza assegnare in modo rigido un punteggio ad ogni criterio, secondo quanto previsto dall'articolo 83 del d.lgs. n.163 del 2006, essendo la procedura negoziata, di cui all'art. 125 del medesimo d.lgs., caratterizzata da maggiore semplicità (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it -
TAR Molise, sentenza 10.05.2012 n. 205 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO - URBANISTICA: Integra il delitto di abuso d'ufficio la condotta con cui il funzionario dell'ufficio tecnico comunale esprime parere favorevole al rilascio di una concessione edilizia in violazione delle disposizioni di un piano di bacino, le cui norme integrano quelle contenute negli strumenti urbanistici, eventualmente derogandole qualora incompatibili.
La violazione degli strumenti urbanistici integra, nei congrui casi, il reato di abuso di ufficio, in quanto rappresenta il presupposto di fatto della violazione della normativa legale in materia urbanistica, alla quale deve farsi riferimento quale dato strutturale della fattispecie delittuosa prevista dall'art. 323 cod. pen..
Integra il delitto di abuso d'ufficio la condotta con cui il funzionario dell'ufficio tecnico comunale esprime parere favorevole al rilascio di una concessione edilizia in violazione delle disposizioni di un piano di bacino, le cui norme integrano quelle contenute negli strumenti urbanistici, eventualmente derogandole qualora incompatibili (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.05.2012 n. 17431 - tratto da www.lexambiente.it).

AGGIORNAMENTO AL 28.05.2012

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IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI - SEGRETARIO COMUNALE: La giurisprudenza contabile ha avuto modo di affermare ripetutamente che l’intervenuta soppressione del parere di legittimità del segretario su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta o al Consiglio non esclude che permangano in capo al segretario tutta una serie di compiti ed adempimenti che, lungi dal determinare un’area di deresponsabilizzazione del medesimo, lo impegnano, invece, ad un corretto svolgimento degli stessi, pena la sua soggezione, in ragione del rapporto di servizio instaurato con l’ente locale, all’azione di responsabilità amministrativa, ove di questa ricorrano gli specifici presupposti.
Il T.U. n. 267/2000 non esclude che il segretario comunale possa essere responsabile in riferimento alla conformità dell’azione amministrativa alle leggi, agli statuti ed ai regolamenti.
L’affidamento al segretario comunale di funzioni di assistenza e di collaborazione giuridico ed amministrativa impone di esercitare il controllo di legittimità, seppure non sia sufficiente la mera attività di verbalizzazione per la sussistenza dell’elemento soggettivo.

Parimenti responsabile è il sig. R.M. (segretario comunale nonché direttore generale) che ha dichiarato (anche in sede di audizione personale) di aver firmato il verbale della delib. della Giunta Comunale n. 44/2009, senza preoccuparsi di leggerla, e quindi ponendo in essere una condotta connotata da grave negligenza.
La giurisprudenza contabile ha avuto modo di affermare ripetutamente che l’intervenuta soppressione, ai sensi dell’art. 17, comma 85, della l. n. 127/1997, del parere di legittimità del segretario (comunale o provinciale) su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta o al Consiglio, già previsto dall’ art. 53 della l. n. 142/1990, non esclude che permangano in capo al segretario tutta una serie di compiti ed adempimenti che, lungi dal determinare un’area di deresponsabilizzazione del medesimo, lo impegnano, invece, ad un corretto svolgimento degli stessi, pena la sua soggezione, in ragione del rapporto di servizio instaurato con l’ente locale, all’azione di responsabilità amministrativa, ove di questa ricorrano gli specifici presupposti.
Ciò in quanto il suddetto art. 17 della l. 127/1997 e, successivamente, l’art. 97 del D.Lgvo 18.08.2000 n. 267, mantiene per il segretario comunale la specifica funzione ausiliaria di garante della legalità e correttezza amministrativa dell’azione dell’ente locale. Infatti il T.U. n. 267/2000 ha assegnato al segretario dell’ente locale, in linea generale, oltre agli altri compiti indicati dal menzionato art. 97, le “funzioni di collaborazione e di assistenza giuridico–amministrativa nei confronti degli organi dell’ente in ordine alla conformità dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti” e quelle di “sovrintendere allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e di coordinarne l’attività”.
Sicché la predetta modifica normativa non esclude che il segretario comunale, proprio in virtù di tali specifici compiti di consulenza giuridico–amministrativa, possa essere responsabile in riferimento alla conformità dell’azione amministrativa alle leggi, agli statuti ed ai regolamenti: cfr. Sez. I Centr. 07.08.2008 n. 1534 e Sez. II Centr. 23.06.2004 n. 197/A.
In sostanza, l’affidamento al segretario comunale di funzioni di assistenza e di collaborazione giuridico ed amministrativa imponeva nella specie di esercitare il controllo di legittimità, seppure, come ha affermato questa Sezione (27.03.2012 n. 164), non sia sufficiente la mera attività di verbalizzazione per la sussistenza dell’elemento soggettivo (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Toscana, sentenza 07.05.2012 n. 217 - link a www.corteconti.it).

NOVITA' NEL SITO

Inserito il nuovo bottone dossier STRADA PUBBLICA O PRIVATA O PRIVATA DI USO PUBBLICO.

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: M. Fiorona, La deroga delle distanze nel Piano Casa Lombardia 2012 (maggio 2012).

EDILIZIA PRIVATA: U. Grella, Seminario di approfondimento sul tema: edilizia ed energia (27.04.2012).

LAVORI PUBBLICI: F. Liparoti e R. Rolli, APPALTI PUBBLICI TRA PRESTAZIONI A CORPO E A MISURA (link a www.osservatorioappalti.unitn.it).

APPALTI: A. Borroni e I. Sala, LA PARTECIPAZIONE AGLI APPALTI PUBBLICI: PROFILI CIVILISTICI E FISCALI DEL CONTRATTO DI RETE (link a www.osservatorioappalti.unitn.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

INCARICHI PROGETTUALIOggetto: lavori pubblici - Prime indicazioni per il calcolo del corrispettivo da porre a base d'asta negli affidamenti di servizi di architettura e ingegneria, dopo l'abrogazione delle tariffe - AVCP: deliberazione n. 49 del 03.05.2012 (Consiglio Nazionale degli Architetti Pianificatori Paesaggistici e Conservatori, circolare 22.05.2012 n. 66).
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Dal Consiglio Nazionale degli Architetti un esempio su come calcolare i compensi dei professionisti.
Il Consiglio Nazionale degli Architetti ha divulgato la circolare 22.05.2012 n. 66 contenente indicazioni sul calcolo dei compensi di ingegneri e architetti da porre a base di gara.
La Circolare analizza la metodologia proposta dall’AVCP (vedi l’articolo “Abolizione tariffe professionali: come si calcolano i compensi di ingegneri e architetti da porre a base di gara?”), proponendo un esempio di calcolo secondo le istruzioni AVCP e paragonando i risultati con quelli ottenuti applicando le vecchie tariffe.
Si evidenzia che in alcuni casi i risultati sono paragonabili, ma facendo una serie di simulazioni non sempre i risultati sono analoghi. Pertanto, afferma il Consiglio degli Architetti, si attende comunque l’emanazione del Decreto del Ministero della Giustizia (come previsto dal Decreto Liberalizzazioni) contenente le Tabelle Parametriche
(24.05.2012 - link a www.acca.it).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

APPALTI: Certificati Esecuzione Lavori - Nuova funzionalità di rilascio di CEL in caso di affidamento unitario al Contraente Generale (Comunicato del Presidente, 23.05.2012).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 22 del 28.05.2012, "Termoregolazione e contabilizzazione autonoma del calore: modifiche ed integrazioni alle disposizioni approvate con d.g.r. 2601/2011" (deliberazione G.R. 23.05.2012 n. 3522).

UTILITA'

ENTI LOCALI - VARITutto quello che occorre sapere sull’IMU: la guida definitiva su come calcolarla e quando pagarla.
La redazione di BibLus-net, in vista dell’arrivo della prima rata IMU, propone ai propri lettori un documento con schede semplici e sintetiche, contenenti tutto ciò che occorre sapere sulla nuova imposta municipale.
Al riguardo, nei giorni scorsi, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha pubblicato la Circolare n. 3/DF per chiarire gli ultimi dubbi sull’Imposta Municipale Propria (IMU).
Il documento precisa quali sono le corrette modalità di calcolo dell’IMU, comprese le detrazioni; individua le categorie di soggetti ai quali si applica l’imposta e chiarisce le modalità di applicazione delle agevolazioni per categorie particolari di fabbricato (es. fabbricati rurali) o terreno (es. terreni agricoli).
Gli argomenti trattati sono:
- Oggetto dell’IMU
- Soggetti passivi
- Calcolo dell’imposta
- Aliquote da applicare
- Agevolazioni abitazione principale
- Agevolazioni ed esenzioni varie
- Quota IMU riservata allo Stato
- Versamento dell’imposta
- Dichiarazione IMU
In allegato la guida di BibLus-net e la Circolare del Ministero (24.05.2012 - link a www.acca.it).

ENTI LOCALI - VARIImposta municipale sui terreni: in quali Comuni non si pagherà l’IMU?
L’imposta Municipale Propria colpisce il possesso di qualsiasi tipo di immobile:
● fabbricati, ossia le unità immobiliari iscritte o che devono essere iscritte nel catasto edilizio urbano, considerandosi parte integrante del fabbricato l’area occupata dalla costruzione e quella che ne costituisce pertinenza;
● aree fabbricabili, ossia le aree utilizzabili a scopo edificatorio in base agli strumenti urbanistici generali o attuativi ovvero in base alle possibilità effettive di edificazione determinate secondo i criteri previsti agli effetti dell'indennità di espropriazione per pubblica utilità;
● terreni agricoli, ossia i terreni adibiti all'esercizio delle attività indicate nell'art. 2135 del Codice Civile.
Diversi sono stati i dubbi riguardanti il pagamento dell’IMU per terreni agricoli ricadenti in aree montane.
La
circolare 18.05.2012 n. 3/DF del Ministero dell’Economia fa chiarezza anche su questo punto (al riguardo si rinvia il lettore all’art. “Tutto quello che occorre sapere sull’IMU: la guida definitiva su come calcolarla e quando pagarla”).
Il D.L. 16/2012 stabilisce che con Decreto del Ministro dell’Economia potranno essere individuati i Comuni nei quali si applica l’esenzione del pagamento IMU sulla base dell’altitudine riportata nell’elenco dei Comuni italiani predisposto dall’Istat, nonché, eventualmente, anche sulla base della redditività dei terreni.
Fino all’emanazione di detto decreto, l’esenzione va applicata ai terreni presenti nell’elenco allegato alla circolare 14.06.1993 n. 9, contenente indicazioni sulla vecchia Imposta Comunale sugli Immobili (ICI).
Pertanto non pagheranno l’IMU i proprietari di terreni che ricadono nei Comuni riportati in allegato a questa notizia (24.05.2012 - link a www.acca.it).

CORTE DEI CONTI

APPALTISe l'Ue rigetta il progetto l'ente paga le spese.
L'esclusione di talune spese dal limite imposto dall'art. 6, comma 12, della legge 122/2010, si fonda nel finanziamento integrale da parte di soggetti estranei ed alla conseguente ininfluenza delle stesse sul bilancio dell'ente locale. Ne consegue che, in caso di spese correlate alla presentazione di progetti finanziabili dall'Ue (quali ad esempio le traduzioni o le attività di interpretariato), qualora il progetto sia successivamente rigettato, le stesse non sono rimborsate dall'Ue ma incideranno sul bilancio comunale e, pertanto, soggiacciono al limite imposto dalla sopra citata.
Operando diversamente, infatti, si configurerebbe una forma di elusione del dettato normativo, improntato a una severa razionalizzazione della spesa pubblica.

Non ammette deroghe la conclusione cui è pervenuta la sezione regionale di controllo della Corte dei Conti per il Veneto nel testo del parere 17.05.2012 n. 336, con il quale, rispondendo a un quesito posto dal comune di Verona, si è fatta chiarezza sull'ambito di esclusione di alcune tipologie di spese dal limite massimo imposto dalla legge n. 122/2010. Norma questa, lo si ricorderà, che vieta alle p.a. di effettuare spese per missioni per un ammontare superiore al 50% della stessa spesa sostenuta nel 2009.
Per la Corte, nell'ambito delle procedure di finanziamento di progetti indette dall'Unione europea, il rimborso delle spese, che vengono anticipate dall'Ente, segue alla rendicontazione ed al riconoscimento delle stesse in quanto pertinenti al progetto. Questa correlazione consente di qualificare come «esterna» la fonte di finanziamento della spesa e, di conseguenza, di applicare alla stessa un regime «diverso rispetto a quello cui sono assoggettate tutte le altre spese dell'ente».
Invece, l'esito negativo del progetto comporta il «ritorno» della fonte di finanziamento all'interno del bilancio dell'ente, determinando l'inclusione delle stesse ai fini del computo del 50%.
In poche parole, ammette la Corte, è solo con la liquidazione delle spese da parte dell'Unione europea che si costituisce l'elemento necessario ai fini della classificazione della copertura.
Quindi, l'esclusione delle spese in esame dal limite imposto dall'articolo 6, comma 12, della legge n. 122/2010 può essere ammessa solo in presenza di un finanziamento integrale da parte di soggetti estranei, cosicché da rendere le stesse «ininfluenti» ai fini dei saldi di bilancio dell'ente (articolo ItaliaOggi del 25.05.2012 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALI: ... il Sindaco, prospettando la cessazione di un’unità di personale nel corso dell’esercizio 2012, chiede di conoscere se, in costanza dei vincoli assunzionali stabiliti per gli enti non soggetti alla disciplina del Patto di stabilità interno, possa avviare le ordinarie procedure di reclutamento di una corrispondente unità, da assumere a decorrere dall'01.01.2013, sebbene, da tale data, le disposizioni del Patto dovrebbero trovare applicazione, ai sensi dell’art. 16, comma 31, del decreto-legge 13.08.2011, n. 138, convertito in legge 14.01.2011, n. 148, nei riguardi di tutti i comuni con popolazione superiore a 1.000 abitanti.
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Rilevava, altresì, la circostanza che, applicando al caso in questione il limite del 20% della spesa corrispondente alle cessazioni dell’anno precedente, non sarebbe possibile, comunque, verificare il rispetto del Patto di stabilità nell’esercizio 2012, anno nel quale il Comune di Arsiè non era soggetto a tale regime.
I Comuni con popolazione compresa tra 1.001 e 5.000 abitanti, che dall’anno 2013 saranno chiamati ad osservare, in virtù dell’art. 16, comma 31, del D.L. n. 138/2011, le regole del Patto di stabilità interno, sono suscettibili di incorrere nel divieto di assunzioni previsto dal comma 4 dell’art. 76 del D.L. n. 112/2008 soltanto a decorrere dall’anno 2014, in quanto la valenza chiaramente sanzionatoria del divieto, ricollegabile alla inosservanza dei vincoli stabiliti col Patto di stabilità, restringe l’ambito soggettivo di operatività della disposizione ai soli enti connotati dalla esistenza di un pregresso vincolo obbligatori o, in forza del quale, gli stessi, possono essere chiamati a rispondere dell’inadempimento ad essi imputabile.
L’assenza di specifiche disposizioni di diritto intertemporale in ordine all’applicazione dei nuovi vincoli alla spesa di personale, quali derivano dall’estensione della disciplina del Patto di stabilità interno ai Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, non consente di legittimare interpretazioni additive o derogatorie dell’art. 76, comma 7, del D.L. n 112/2008 e successive modificazioni, sussistendo margini organizzativi idonei a colmare eventuali deficit di competenze tecniche o amministrative, legati all’inadeguatezza degli organici o alla insufficienza di risorse economiche dei Comuni di più ridotte dimensioni, che avrebbero potuto pregiudicare il compiuto assolvimento dei servizi e delle funzioni fondamentali che la Costituzione demanda agli enti locali” (Corte dei Conti, Sez. autonomie, delibera 11.05.2012 n. 6 - link a www.corteconti.it).

CONSIGLIERI COMUNALINo ai sindaci furbetti. Il rendiconto non va troppo anticipato. La Corte conti Toscana sul bilancio di fine mandato.
Se il sindaco «anticipa» i tempi di pubblicazione del rendiconto di fine mandato, rischia di doverne pagare le conseguenze di tasca propria. Infatti, se la pubblicazione e la diffusione capillare del rendiconto a tutti i cittadini avvengono molto prima della naturale scadenza del mandato ed è motivata esclusivamente per la promozione del sindaco e non per finalità istituzionali, allo stesso primo cittadino deve essere addebitato il danno relativo alla spesa per la pubblicazione.
Lo dice la Corte conti Toscana, nella sentenza 07.05.2012 n. 217, con la quale ha condannato un sindaco di una cittadina senese, nonché il segretario comunale e un dirigente, per aver realizzato un libretto contenente il rendiconto del suo mandato amministrativo e averlo inviato a tutte le famiglie del territorio comunale, anticipando, di gran lunga, i normali tempi di pubblicazione dell'opuscolo.
Secondo il collegio della magistratura contabile toscana, le attività di informazione e comunicazione delle pubbliche amministrazioni, regolate dalla legge n. 150/2000, possono essere realizzate con «ogni mezzo di messaggi, prodotti grafico-editoriali, strutture informatiche, reti civiche e mezzi telematici», ma sempre senza deviare dalla ratio normativa, ovvero l'informazione corretta e trasparente alla comunità amministrata affinché questa possa conoscere e formulare un proprio giudizio sull'operato della p.a. stessa.
Nel caso oggetto del giudizio in esame, invece, la Corte toscana, accogliendo la tesi accusatoria della procura, ha accertato che il primo cittadino ha «accelerato» i tempi di pubblicazione del rendiconto di fine mandato, non per le giuste e legittime finalità istituzionali ma per una promozione personale dello stesso sindaco e, quindi, per una semplice finalità personale e autoreferenziale. Nel corso del giudizio, infatti, è stato provato che l'obiettivo perseguito dal primo cittadino uscente, fosse la distribuzione del rendiconto amministrativo «prima delle primarie» (articolo ItaliaOggi del 26.05.2012 - link a www.ecostampa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: La denuncia di un presunto generalizzato incremento dei consulenti esterni da parte di un Ente pubblico di per sé non costituisce ancora, in assenza di altri elementi di giudizio oltre il mero aumento del loro numero rispetto al passato, ipotesi di danno (Corte dei Conti, Sez. III centrale d'appello, sentenza 02.05.2012 n. 328 - link a www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGO: In merito ad incarichi dirigenziali.
L'Ente, nel conferimento d’incarichi dirigenziali a tempo determinato a funzionari interni di categoria D, non può prescindere in particolare dal limite percentuale previsto dall’art. 19, comma 6, del D.lgs. 27.03.2001, n. 165, oltre che dal rispetto di tutti gli altri vincoli derivanti dalla normativa attualmente vigente in materia di incarichi dirigenziali e, più in generale, di spesa di personale (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 27.04.2012 n. 86).

CONSIGLIERI COMUNALIIl mancato rispetto del Patto travolge i gettoni di tutti i consiglieri.
Il mancato rispetto del patto di stabilità travolge le indennità e i gettoni di tutti i consiglieri. Infatti, Il taglio del 30% dell'indennità degli amministratori e del gettone di presenza spettante ai consiglieri degli enti locali, dovuto a causa del mancato rispetto del patto di stabilità 2011, così come previsto dal dlgs n.149/2011, scatta sia per gli amministratori che sono cessati dalla carica che per quelli che sono subentrati al termine della recente tornata elettorale. La ratio della riduzione prevista dal legislatore, infatti, non è quella di colpire con tagli «ad personam» quanto piuttosto l'intero corpus degli organi istituzionali degli enti locali inadempienti, avendo essi permesso il mancato rispetto del patto di stabilità 2011.

È quanto ha messo nero su bianco la sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Regione Lombardia, nel testo dell'interessante parere 26.04.2012 n. 155, con il quale ha fatto luce sulla portata applicativa delle disposizioni contenute all'articolo 7, comma 2, del dlgs n. 149 del 2011 (il decreto delegato che regola i meccanismi sanzionatori e premiali relativi a regioni, province e comuni), con particolare riguardo alle amministrazioni inadempienti al Patto di stabilità dello scorso anno e che nella recente tornata amministrativa, hanno rinnovato gli organi di direzione politica.
Nei fatti oggetto del parere in esame, il comune di Villongo (Bg) richiedeva l'intervento della magistratura contabile lombarda in funzione consultiva, in merito alle modalità di calcolo delle riduzioni previste sulle indennità di funzione e sui gettoni di presenza degli amministratori locali, quali effetto sanzionatorio del mancato rispetto del patto di stabilità per l'anno 2011. In particolare, il comune istante chiede se le riduzioni previste dalla norma sopra citata, pari al 30% della misura in godimento al 30.06.2010, si applichino anche ai nuovi amministratori eletti dal recente scrutinio elettorale.
Sul punto, la Corte lombarda non ha avuto il minimo dubbio che il taglio debba riguardare sia gli amministratori «uscenti» che quelli subentranti. A detta della Corte, infatti, la disposizione sopra richiamata «non lascia alcun margine di discrezionalità agli enti locali». In particolare, quando non sia stato rispettato il patto di stabilità, l'ente locale è tenuto a rideterminare le indennità di funzione e i gettoni di presenza ed è tenuto a farlo in misura determinata dalla stessa norma, ovvero concretizzandosi in una riduzione del 30% rispetto all'ammontare risultante alla data del 30.06.2010.
Il tenore letterale e perentorio della norma, pertanto, ha indotto la magistratura contabile lombarda a ritenere che la riduzione del 30% delle indennità di funzione e dei gettoni di presenza che il comune dovrà applicare ai propri amministratori riguarderanno (per tutto l'anno corrente) sia il sindaco, gli assessori e i consiglieri comunali in carica fino allo scorso 6 maggio sia quelli che sono stati eletti a seguito della recente tornata elettorale amministrativa.
Lo scopo della disposizione contenuta all'articolo 7, comma 2, del dlgs n. 149/2011, ha proseguito la Corte, non è quello di colpire gli amministratori con tagli mirati o «ad personam», quanto piuttosto quello di colpire l'intero corpus degli organi istituzionali, «avendo essi permesso il mancato rispetto del patto di stabilità 2011» (articolo ItaliaOggi del 24.05.2012 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALI: Spesa di personale/spesa corrente, divieto di assunzione e modifiche alla norma.
La Corte dei Conti, sezione regionale Lazio, con il parere 23.04.2012 n. 21, risponde al quesito del Comune di Pontinia che, rispetto al divieto di assunzione previsto dall'art. 76, comma 7, del d.l. 112/2008 (superamento percentuale massima nel rapporto spese di personale/spesa corrente) si è trovato, nel tempo ed in ragione degli interventi normativi modificativi sopravvenuti, prima nella condizione di poter procedere ad assunzioni, poi incorso nel divieto e, da ultimo (testo vigente della norma) in condizione di poter procedere al reclutamento.
Alla luce di questa particolare situazione, l'ente chiede se è possibile procedere al citato reclutamento, nel 2012, in relazione alle cessazioni (valorizzate al 20%) intervenute nell'anno 2010 e non rimpiazzate nel 2011. L'ente chiede anche se, a tal fine, è consentito valorizzare la nozione di anno precedente riferita agli enti non sottoposti al patto di stabilità, così come definita dalle Sezioni Unite in sede di controllo nella deliberazione n. 52/CONTR/2010.
La Corte, in specifica risposta al quesito e per la particolarità del caso (ma non unico) si esprime cose segue:
"Per quanto sopra, il Collegio è dell'avviso che -nella fattispecie prospettata- sia possibile assumere, in applicazione della disposizione dell'art. 76, comma 7, secondo alinea, nuovo personale fino a concorrenza del 20% della spesa sostenuta per il personale cessato e non sostituito parzialmente nell'esercizio antecedente al blocco forzoso delle assunzioni. Nel rispetto del principio di riduzione di cui al comma 557, peraltro, la crescita della spesa derivante dalle nuove assunzioni non potrà nel 2012 superare quella ammissibile nel 2011, in ragione delle cessazioni verificatesi nel 2010, salvo l'eventuale ulteriore incremento commisurato al 20% delle cessazioni intervenute nel medesimo 2011".
Si segnala il parere in contesto anche per una lettura integrale delle motivazioni e considerazioni svolte dalla Corte (a prescindere, anche, dalla finale risposta al quesito), in quanto tratta aspetti rilevanti quali: la pertinenza o meno del richiamo alle menzionata deliberazione delle SS.RR. 52/2010 per gli enti soggetti al patto di stabilità; l' efficacia temporale della facoltà assunzionale (20%, ora 40%); il significato e gli effetti del divieto posto dall'art. 76, comma 7, d.l. 112/2008; le situazioni di rientro nei parametri di equilibrio ed i fattori che lo hanno determinato (tratto da www.publika.it).

SINDACATI & ARAN

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ I lavoratori assunti con contratto di lavoro a termine possono fruire delle ferie maturate e non godute nell’ambito di un precedente rapporto a termine con lo stesso ente oppure queste ferie devono essere monetizzate? (parere 07.02.2012 n. RAL-1092 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Per un lavoratore turnista, le giornate di festività infrasettimanali ricadenti in un periodo di ferie sono da escludere dal conteggio delle giornate di ferie complessivamente godute nel periodo stesso oppure devono essere fruite anche esse come giornate di ferie? (parere 07.02.2012 n. RAL-1076 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ L’art. 18, comma 2, del CCNL del 06.07.1995 (la durata delle ferie è di 32 giorni lavorativi) può essere interpretato nel senso che la giornata del sabato deve essere computata come giorno di ferie? (parere 07.02.2012 n. RAL-1075 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Un lavoratore, a tempo pieno ed indeterminato nonché titolare di posizione organizzativa, dipendente dal comune A, è utilizzato a tempo parziale anche presso il comune B, sulla base di una convenzione stipulata ai sensi dell’art. 14 del CCNL del 22.01.2004. L’articolazione dell’orario di lavoro convenuta, prevede una prestazione lavorativa di 4 ore presso il comune A ed altre 4 presso il comune B, distribuite su 5 giorni settimanali.
Ai fini del calcolo delle ferie, come devono essere conteggiate e/o ripartite le stesse, dato che il dipendente presta attività presso due comuni?
Quando il lavoratore si assenta presso un comune e presta servizio presso l’altro, la giornata di ferie deve essere considerata per intero o come mezza giornata? Di quanti giorni di ferie all’anno ha diritto presso ciascun ente?
(parere 07.02.2012 n. RAL-1073 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Il dipendente può chiedere di interrompere la fruizione delle ferie per avvalersi dei tre giorni di permesso per assistenza a portatori di handicap, ai sensi dell’art. 33 della legge n. 104/1992? (parere 07.02.2012 n. RAL-1071 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Durante il periodo di preavviso (art. 12 del CCNL del 09.05.2006), regolarmente lavorato dal dipendente assunto con contratto a temo indeterminato, maturano le ferie nonostante queste non potranno essere fruite ma solo monetizzate al cessare del rapporto di lavoro? (parere 06.02.2012 n. RAL-1063 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Presso un ente il personale dirigente e non dirigente non ha fruito nei termini previsti dai contratti (anno di competenza o motivi particolari entro il 30 giugno dell’anno successivo) le ferie maturate.
Come comportarsi? E’ corretto disporre un piano di smaltimento e, qualora non svolto, eliminare le ferie? Oppure cosa fare?
(parere 06.02.2012 n. RAL-1070 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ A favore del personale assunto con rapporto di lavoro a termine e a tempo parziale, in servizio continuativo presso un ente locale da più di tre anni, è possibile dare applicazione alle previsioni dell’art. 18, comma 4, del CCNL del 06.07.1995, che riconosce ai dipendenti, dopo tre anni servizio 32 giorni di ferie? (parere 06.02.2012 n. RAL-1067 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ E’ possibile la fruizione frazionata ad ore o a mezze giornate delle quattro giornate di festività soppresse, di cui all’art. 18, comma 6, del CCNL del 06.07.1995? (parere 06.02.2012 n. RAL-1066 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Nel caso di eventi atmosferici eccezionali come è possibile giustificare l’assenza dal lavoro del dipendente o l’eventuale ritardo? (parere 06.02.2012 n. RAL-1065 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Come deve essere considerata l’assenza dal servizio per esercitare il diritto di voto? Il dipendente ha diritto ad uno specifico permesso? (parere 05.02.2012 n. RAL-1052 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ In materia di termini di fruizione delle ferie prevale la disciplina contrattuale o quella legale (art. 10 del D.Lgs. n. 66/2003 e successive modificazioni ed integrazioni)?
E’ possibile una lettura coordinata delle disposizioni previste dalle due fonti?
(parere 05.02.2012 n. RAL-1051 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Come si calcolano e si retribuiscono le ferie per il personale con contratto a termine (1 anno) di 18 ore settimanali (lunedì-giovedì)? (parere 06.06.2011 n. RAL-512 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ E’ possibile retribuire le ore di straordinario e le ferie non godute al personale assunto con contratto a termine? (parere 06.06.2011 n. RAL-511 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ E’ possibile prorogare il contratto a termine, a suo tempo stipulato per sostituire una lavoratrice in maternità, al fine di consentire a quest’ultima, al rientro in servizio, la fruizione delle ferie? (parere 06.06.2011 n. RAL-510 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ In caso di proroga o rinnovo del contratto a tempo determinato qual è il termine per la fruizione delle ferie maturate? (parere 05.06.2011 n. RAL-509 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Quanti giorni di ferie spettano ad un dipendente part-time misto al 30%, che presta servizio per tre giorni alla settimana ma per sole 3 ore giornaliere? (parere 05.06.2011 n. RAL-508 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ In caso di trasformazione del rapporto di lavoro da tempo parziale verticale a tempo pieno, le ferie maturate nell’ambito del rapporto di lavoro part-time devono essere riproporzionate? (parere 05.06.2011 n. RAL-507 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Le ferie maturate dal dipendente prima della trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale devono essere riproporzionate?
In alternativa è possibile procedere alla loro monetizzazione?
(parere 05.06.2011 n. RAL-506 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Come devono essere considerate le ferie di un lavoratore già in mobilità che viene inquadrato in un ente anche in soprannumero? (parere 05.06.2011 n. RAL-505 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ E’ possibile monetizzare le ferie non godute dal dipendente trasferito ad altro ente per mobilità? (parere 05.06.2011 n. RAL-504 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Come devono essere retribuite le giornate di riposo per festività soppresse, non fruite nel corso dell’anno?
Spetta la monetizzazione anche nel caso di un dipendente riammesso in servizio dopo un periodo di sospensione cautelare?
(parere 05.06.2011 n. RAL-503 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Chiarimenti sul regime giuridico delle 4 giornate di recupero delle ex festività soppresse (parere 05.06.2011 n. RAL-502 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ L’applicazione della legge n. 336/2000 che ha ripristinato la festività del 2 giungo implica la riduzione delle 4 giornate di festività attribuite dalla legge n. 937/1977? (parere 05.06.2011 n. RAL-501 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Il ripristino della festività del 2 giungo disposto dalla L. n. 336/2000, necessita, per la sua applicazione, di particolari adempimenti? (parere 05.06.2011 n. RAL-500 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Possono essere recuperate le festività cadenti in giorno non lavorativo? (parere 05.06.2011 n. RAL-499 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Cosa avviene nell’ipotesi che il dipendente non fruisca, per ragioni di servizio, delle ferie residue entro il primo semestre dell’anno successivo o nel caso che la mancata fruizione derivi dalla mancata richiesta dell’interessato? (parere 05.06.2011 n. RAL-498 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Quale soggetto deve attestare la sussistenza delle indifferibili esigenze di servizio che non hanno reso possibile la fruizione delle ferie nell’anno (art. 18, comma 12, del CCNL del 06.07.1995)? (parere 05.06.2011 n. RAL-497 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Per poter rinviare le ferie al primo quadrimestre dell’anno successivo il dipendente deve fornire dettagliata motivazione?
E’ necessario che si tratti di esigenze personali riferite all’anno di spettanza?
(parere 05.06.2011 n. RAL-496 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Come si deve interpretare il comma 13 dell’art. 18 del CCNL in materia di trasporto di ferie residue sul nuovo anno? (parere 05.06.2011 n. RAL-495 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Come si provvede alla definizione del periodo di ferie fruibili dal dipendente? (parere 05.06.2011 n. RAL-494 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Quali sono gli effetti della sentenza con la quale il TAR ha annullato un provvedimento di destituzione dall’impiego?
In particolare, il periodo intercorso tra la destituzione e la riammissione in servizio è utile ai fini della maturazione delle ferie e ai fini della progressione economica all’interno della categoria?
(parere 05.06.2011 n. RAL-493 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ I periodi di aspettativa senza assegni sono utili ai fini della maturazione delle ferie? (parere 05.06.2011 n. RAL-492 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ L’assenza per malattia non retribuita di cui all’art. 21, comma 2 del CCNL del 06.07.1995 e successive modifiche comporta la maturazione delle ferie? (parere 05.06.2011 n. RAL-491 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Nella base di calcolo del compenso per ferie non godute deve essere compresa anche la 13^ mensilità? (parere 05.06.2011 n. RAL-490 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ La dipendente che receda dal rapporto durante il periodo di prova ha diritto al pagamento delle ferie maturate e non godute per causa a lei non imputabile? (parere 05.06.2011 n. RAL-489 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ L’amministrazione può rinunciare a parte del preavviso per consentire il godimento delle ferie maturate e non godute a un dipendente dimissionario se il mancato godimento delle stesse è dovuto ad assenza per infortunio sul lavoro protrattasi sino all’inizio del periodo di preavviso? (parere 05.06.2011 n. RAL-488 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Dimissioni presentate in data immediatamente precedente la decorrenza del termine di preavviso. E’ possibile monetizzare le ferie non godute? (parere 05.06.2011 n. RAL-487 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Cosa avviene delle ferie non godute nell’ipotesi di dimissioni del dipendente per motivi personali? (parere 05.06.2011 n. RAL-486 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Cosa avviene, all’atto del collocamento a riposo, se il dipendente non ha potuto usufruire delle ferie maturate nel corso dell’ultimo anno di servizio a causa di malattia? (parere 05.06.2011 n. RAL-485 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Quali sono le condizioni che consentono la monetizzazione delle ferie non godute? E’ possibile monetizzarle in costanza di rapporto?
La monetizzazione presuppone sempre che le ferie non siano state godute per ragioni di servizio? Come comportarsi di fronte ad un accumulo consistente di ferie non fruite negli anni precedenti?
(parere 05.06.2011 n. RAL-484 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ E’ possibile interrompere un periodo di congedo di maternità per consentire alla lavoratrice la fruizione delle ferie? (parere 05.06.2011 n. RAL-483 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ E’ possibile accogliere la richiesta di un lavoratore per la trasformazione di giorni di ferie già fruite in giorni di permesso non retribuito? (parere 05.06.2011 n. RAL-482 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Si può riconoscere al dipendente il diritto di “revocare” le ferie già autorizzate? (parere 05.06.2011 n. RAL-481 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Le ferie possono essere interrotte per la fruizione di permessi per lutto? (parere 05.06.2011 n. RAL-480 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Quand’è che la malattia interrompe le ferie? In che modo si realizza la debita ed adeguata documentazione della malattia, ai fini dell’interruzione delle ferie? (parere 05.06.2011 n. RAL-479 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ E' possibile rapportare ad ore o rifiutare le ferie sistematicamente fruite dal dipendente nei giorni nei quali sarebbe tenuto al rientro pomeridiano? (parere 05.06.2011 n. RAL-478 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ E’ possibile che un dipendente fruisca delle ferie subito dopo un periodo di congedo parentale, senza aver ripreso servizio? (parere 05.06.2011 n. RAL-477 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ E’ possibile fruire delle ferie ad ore? E’ possibile accordare mezza giornata di ferie? (parere 05.06.2011 n. RAL-476 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ In caso di ricostituzione del rapporto di lavoro, ai sensi dell'art. 26 del CCNL del 14/09/2000, per l'attribuzione dei giorni di ferie il dipendente deve essere considerato 'neo assunto'? (parere 05.06.2011 n. RAL-475 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Il personale neo assunto (con diritto a 26 gg. di ferie) che ha preso servizio dal 16/02/2004 e che, pertanto, nel mese di febbraio ha prestato servizio per un periodo inferiore a 15 gg., matura, nello stesso mese, almeno 1 giorno di ferie? (parere 05.06.2011 n. RAL-474 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Al fine di stabilire il numero dei giorni di ferie spettanti al dipendente ai sensi dell’art. 18 del CCNL del 06.07.1995 cosa deve intendersi per personale 'neo assunto'? (parere 05.06.2011 n. RAL-473 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Chi deve considerarsi neo assunto ai sensi dell’art. 18 del CCNL del 06.07.1995? (parere 05.06.2011 n. RAL-472 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Come deve essere determinato il numero dei giorni di ferie spettanti al dipendente assunto in corso d’anno? (parere 05.06.2011 n. RAL-471 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Come devono essere correttamente calcolate le giornate di ferie del personale turnista?
Se la settimana lavorativa è articolata in soli quattro giorni, come si calcolano le ferie?
(parere 05.06.2011 n. RAL-470 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Come devono essere calcolate le ferie per i lavoratori che effettuano un orario settimanale in parte su sei giornate e in parte su cinque? Come devono essere conteggiati i giorni lavorativi e in base a quali criteri? (parere 05.06.2011 n. RAL-469 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ In caso di passaggio a regime orario di settimana corta, le ferie fruite in una giornata destinata al rientro pomeridiano possono essere rapportate ad ore al fine di stabilire il residuo ferie?
Le ferie eventualmente maturate in regime orario di settimana lunga e non ancora godute al momento del passaggio al nuovo orario devono essere riproporzionate?
(parere 05.06.2011 n. RAL-468 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Come possono essere calcolate le giornate di ferie nell’anno, in presenza di una articolazione dell’orario di lavoro che prevede alternanza di 6 e 5 giorni lavorativi nella settimana?
Qual è la quota mensile delle ferie in regime ordinario di settimana corta o di settimana lunga?
(parere 05.06.2011 n. RAL-467 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Quanti giorni di ferie spettano ad un dipendente che sia impiegato per due mesi all’anno in regime orario di settimana corta (5 gg.) e per i restanti mesi in regime di settimana lunga (6 gg.)?
In generale come si calcolano le ferie in tutti i casi di passaggio da un regime all’altro?
(parere 05.06.2011 n. RAL-466 - link a www.arangenzia.it).

NEWS

ENTI LOCALI - VARILA CIRCOLARE SULL'IMU/ Terreni, variazioni da comunicare. Niente sanzioni se l'ente non informa sui cambi di destinazione. Se il comune è inadempiente esclusi anche gli interessi moratori.
Anche per l'Imu, i comuni sono tenuti a fornire informazioni ai contribuenti sulle variazioni urbanistiche e i cambi di destinazione dei terreni in aree edificabili. Nel caso in cui non venga inviata la comunicazione, non devono essere irrogate al titolare dell'area né sanzioni né interessi moratori sul tributo dovuto.

Lo ha chiarito il dipartimento delle finanze del ministero dell'Economia, con la
circolare 18.05.2012 n. 3/DF.
Dunque, la regola imposta dall'articolo 31, comma 20, della legge 289/2002 (Finanziaria 2003) vale anche per l'Imu. Questa norma prevede che debba essere informato il contribuente delle variazioni apportate agli strumenti urbanistici. Quando i comuni attribuiscono a un terreno la natura di area fabbricabile sono obbligati a darne comunicazione al contribuente, a mezzo posta, con modalità idonee a garantire l'effettiva conoscenza.
Per il dipartimento, spetta ai comuni «disciplinare autonomamente la procedura adottando lo schema più confacente alla propria organizzazione». Il mancato rispetto dell'adempimento non comporta alcuna conseguenza in ordine agli obblighi che incombono sul contribuente: il tributo sull'area è comunque dovuto. Tuttavia, precisa la circolare, in base all'articolo 10 dello Statuto dei diritti del contribuente (legge 212/2000), non possono essere richieste sanzioni e interessi. Del resto «la norma ha il fine di fornire le garanzie procedimentali poste a tutela del contribuente assurte a principio generale dell'ordinamento tributario».
Il ministero, correttamente, va oltre quanto affermato dalla giurisprudenza che in passato si è limitata ad annullare le sanzioni irrogate dai comuni, riconoscendo solo la causa di non punibilità stabilita dall'articolo 6 del decreto legislativo 472/1997. Mentre lo Statuto esclude anche la richiesta degli interessi quando il comportamento del contribuente risulti posto in essere in seguito a errori o omissioni dell'amministrazione. In effetti, il contribuente è tenuto a pagare le imposte su un'area edificabile anche se il comune non lo abbia informato delle variazioni apportate allo strumento urbanistico e non abbia comunicato il cambio di destinazione del terreno.
La Corte di cassazione, con la sentenza 15558/2009, ha ritenuto ininfluente la mancata comunicazione al proprietario, non essendo specificamente prevista una sanzione ad hoc dalla norma che ne ha imposto l'obbligo. La mancata comunicazione del cambiamento urbanistico non può avere un'incidenza sugli obblighi di dichiarazione e versamento dell'imposta, che sono autonomamente disciplinati dalla legge. Se il comune non ha provveduto a comunicare, formalmente, il cambio di destinazione del terreno, e il contribuente violi l'obbligo di dichiarazione e di versamento, si può ritenere che ricorra una causa di non punibilità.
Occorre precisare che l'articolo 31 non ha alcuna efficacia retroattiva. Pertanto, l'obbligo di comunicazione riguarda solo i cambi di destinazione dei terreni attuati a decorrere dall'01.01.2003. L'Imu è dovuta dal momento i cui l'area è inserita in un piano regolatore generale adottato dal consiglio comunale, anche se non approvato dalla regione. L'articolo 36, comma 2, della legge 248/2006 dispone che un'area è da considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale deliberato dal comune, indipendentemente dall'approvazione della regione e dall'emanazione di strumenti attuativi (articolo ItaliaOggi del 26.05.2012 - link a www.ecostampa.it).

ENTI LOCALIEvasione, l'Inps arruola i comuni. Controlli su edilizia, ambulanti, commercio e artigianato. Un messaggio dell'Istituto di previdenza detta le istruzioni sulle segnalazioni qualificate.
Comuni in campo contro l'evasione contributiva. Edilizia, commercio ambulante e attività artigiane e commerciali «fantasma» sono gli ambiti rilevanti ai fini Inps per i quali, per ogni segnalazione qualificata effettuata, i comuni riceveranno una quota (33%) delle sanzioni eventualmente riscosse. Ma, come detto, deve trattarsi di «segnalazioni qualificate», ossia segnalazioni evidenti di posizioni soggettive irregolari, per evasione o elusione, che non richiedono ulteriori elaborazioni dell'Inps.
A precisarlo, tra l'altro, è lo stesso ente di previdenza che, nel messaggio n. 8798/2012, detta le prime istruzioni per la collaborazione con i comuni alle attività di accertamento tributari e contributivi, anticipando il provvedimento dell'Agenzia delle entrate, di prossima pubblicazione, attuativo dell'articolo 18 del dl n. 78/2010.
Comuni in campo.
Il dl n. 78/2010, come modificato dal dl n. 201/2011, al fine di potenziare l'azione di contrasto all'evasione fiscale e contributiva, incentiva la partecipazione dei comuni all'accertamento fiscale e contributivo con il riconoscimento di una quota pari al 33% dei maggiori tributi statali riscossi e delle sanzioni civili applicate sui maggiori contributi riscossi a titolo definitivo.
Al fine di realizzare questa collaborazione, spiega l'Inps, le amministrazioni interessate (Agenzia entrate, Inps, Agenzia del territorio, Conferenza unificata), con il supporto dell'Anci, hanno avviato un percorso per definire gli ambiti di collaborazione e le modalità tecniche di accesso alle banche dati e l'invio delle «segnalazioni qualificate» da parte dei comuni. Per segnalazioni qualificate, precisa il messaggio, «si intendono quelle posizioni soggettive che a seguito di rilievi svolti dai comuni devono evidenziare comportamenti evasivi e/o elusivi senza ulteriori elaborazioni logiche da parte dell'istituto».
Gli ambiti rilevanti.
L'attuazione dell'articolo 18 è rimessa al provvedimento del direttore dell'Agenzia delle entrate che, spiega l'Inps, sarà pubblicato a breve dopo il recepimento di alcune modifiche del Garante privacy. Il provvedimento definisce le modalità di accesso alle banche dati e di trasmissione delle informazioni utilizzabili ai fini dell'accertamento fiscale e contributivo.
Inoltre, per quanto riguarda l'Inps, determina gli ambiti rilevanti ai fini dell'accertamento dei contributi non dichiarati. I predetti ambiti, in particolare, riguardano i soggetti che:
- effettuano attività edilizia omettendo la denunzia contributiva relativa all'impresa;
- svolgono attività «fantasma» di commercio ambulante o su area pubblica omettendo la comunicazione Unica ai fini fiscali, amministrativi e previdenziali e/o la denunzia contributiva relativa alla impresa;
- svolgono attività commerciale o artigiana «fantasma» omettendo sia la Comunicazione Unica ai fini fiscali, amministrativi e previdenziali, che la denunzia contributiva relativa all'impresa.
Le convenzioni.
L'Inps, spiega ancora il messaggio, ha avviato un tavolo di lavoro con l'Unione dei comuni e con il supporto dell'Anci, per definire un processo operativo di partecipazione dei comuni all'attività di accertamento. Il processo, in particolare, prevede la messa a disposizione dei comuni interessati, a seguito di sottoscrizione di specifica convenzione (l'Inps sta predisponendo una bozza di convenzione-quadro), di una procedura che consente di inviare all'Inps soltanto le informazioni considerate «segnalazioni qualificate».
Il processo sarà supportato da una procedura telematica che consentirà anche di operare le ulteriori verifiche amministrative e/o ispettive da parte dell'Inps, nonché di quantificare le somme per sanzioni civili destinate ai comuni (articolo ItaliaOggi del 25.05.2012 - link a www.ecostampa.it).

ENTI LOCALIAutovelox, multe subito in bilancio. L'obbligo scatta dal 1° giugno. Dal 2013 relazione al ministero. I municipi navigano a vista sulla ripartizione dei proventi. Serve una delibera di giunta.
Scatterà potenzialmente già dal prossimo mese di giugno l'obbligo di ripartire con l'ente proprietario della strada i proventi derivanti delle multe accertate con autovelox e telelaser. Ma al momento sarà sufficiente accantonare le risorse e variare i bilanci. Solo dal prossimo anno infatti gli enti locali dovranno inviare al ministero la relazione indicante l'importo dei proventi autovelox ripartiti e l'ammontare di tutte le multe stradali con le spese effettuate. E procedere alla materiale destinazione delle risorse.
Sono questi gli importanti effetti contabili e gestionali introdotti automaticamente dall'01.01.2012 (in mancanza di un decreto ad hoc da adottare entro il 31 maggio e di cui non vi è traccia) dal comma 16 dell'art. 4-ter del dl 16/2012, inserito in fretta e furia in sede di conversione dalla legge n. 44/2012, in vigore dal 29.04.2012. Sull'intera questione la prudenza è d'obbligo anche in considerazione dell'assoluta mancanza di indicazioni ministeriali, peraltro molto attese dai comuni.
L'unica certezza al momento è che la ripartizione dei proventi autovelox riguarderà gli accertamenti alle violazioni dei limiti massimi di velocità rilevati dagli organi di polizia stradale sulle strade appartenenti a enti diversi da quelli dai quali dipendono gli organi accertatori, con esclusione delle strade Anas. Le somme derivanti dalla ripartizione dei proventi delle sanzioni dovranno essere destinate alla realizzazione di interventi mirati, preventivamente individuati dalla legge. E sarà necessario relazionare annualmente al ministero, a partire dal 31.05.2013, tutte le infrazioni stradali accertate nel corso dell'anno precedente, con particolare attenzione all'autovelox.
Sono molte però le criticità da risolvere. Innanzitutto la data esatta dalla quale decorre questo nuovo obbligo. Stando a una lettura formale della norma i 90 giorni concessi per l'emanazione del dm fantasma decorrono dal 02.03.2012, data di entrata in vigore del decreto legge n. 16/2012. Pertanto se il decreto, come risulta a ItaliaOggi, non sarà emanato entro il 31 maggio, dall'01.06.2012 ai sensi della novella di aprile troveranno immediata applicazione formale le disposizioni del codice della strada di cui all'art. 142, commi 12-bis (obbligo di ripartizione dei proventi), 12-ter (destinazione delle somme derivanti dai proventi ripartiti) e 12-quater (relazione da inviare entro il 31 maggio di ogni anno al ministero dei trasporti e al ministero dell'interno).
Non mancano però interpretazioni dottrinarie che, disancorandosi dalla lettura formale della disposizione introdotta in malo modo nella conversione in legge del dl 16/2012, individuano il dies a quo per il calcolo dei novanta giorni non nel 2 marzo, ma nel 29.04.2012, data di entrata in vigore della legge di conversione n. 44/2012. In tal caso, dunque, l'obbligo di ripartizione dei proventi e tutta la burocrazia connessa decorrerebbero dal 29.07.2012.
Altri considerano infine rinviato comunque ogni effetto dell'automatismo all'01.01.2013 in virtù della disposizione prevista dall'art. 25/3° della legge 120/2010.
Aderendo a una valutazione prudente è corretto ritenere operativa già da quest'anno la nuova destinazione dei proventi autovelox da suddividere con l'ente proprietario della strada e variare prima possibile il bilancio di previsione iscrivendo anche gli importi di spettanza di altri enti. Ma anche adottare una nuova delibera di giunta sulla destinazione degli importi (articolo ItaliaOggi del 25.05.2012).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Commissioni come consigli. Devono rispecchiare la composizione dei gruppi. In caso di cambio di casacca va garantita una rappresentanza proporzionale.
È necessario provvedere a un riequilibrio generale delle commissioni consiliari permanenti originariamente costituite se, a fronte dei molteplici mutamenti politici intervenuti nel tempo, si è modificata la compagine dei consiglieri e, quindi, la composizione dei gruppi? Il consigliere che ha cambiato gruppo, se riveste le funzioni di presidente di una commissione consiliare, deve continuare a svolgere tali funzioni fino al termine del mandato oppure si deve procedere alla sua sostituzione?
Le commissioni consiliari previste dall'articolo 38, comma 6 del dlgs n. 267/2000, una volta istituite sulla base di una facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate dall'apposito regolamento comunale con l'unico limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del criterio proporzionale nella composizione. Ciò significa che le forze politiche presenti in consiglio devono essere il più possibile rispecchiate anche nelle commissioni, in modo che in ciascuna di esse ne sia riprodotto il peso numerico e di voto.
Il caso prospettato si inquadra nell'ambito dei possibili mutamenti che possono sopravvenire all'interno delle forze politiche presenti in consiglio comunale per effetto di dissociazioni dall'originario gruppo di appartenenza, comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari ovvero l'adesione a diversi gruppi esistenti. Il principio generale del divieto di mandato imperativo, sancito dall'articolo 67 della Costituzione, assicura ad ogni consigliere l'esercizio del mandato ricevuto dagli elettori -pur conservando verso gli stessi la responsabilità politica- con assoluta libertà, ivi compresa quella di far venir meno l'appartenenza dell'eletto alla lista o alla coalizione di originaria appartenenza. (cfr. Tar, Trentino-Alto Adige, Trento n. 75 del 2009)
Va da sé che i mutamenti in parola modificano i rapporti tra le forze politiche presenti in consiglio, incidendo sul numero dei gruppi ovvero sulla consistenza numerica degli stessi, e ciò non può non influire sulla composizione delle commissioni consiliari che deve, pertanto, adeguarsi ai nuovi assetti. La fattispecie prospettata va, pertanto, inquadrata nell'ambito di un riequilibrio generale degli assetti presenti nelle commissioni. Quanto al rispetto del criterio proporzionale previsto dal citato articolo 38, comma 6, del dlgs n. 267/2000, il legislatore non precisa come lo stesso debba essere declinato in concreto. Spetta al regolamento, cui sono demandate la determinazione dei poteri delle commissioni nonché la disciplina dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori, stabilire i meccanismi idonei a garantirne il rispetto.
Secondo quanto osservato dal Tar Lombardia, nella sentenza n. 567/1996, il criterio proporzionale è posto dal legislatore come direttiva suscettibile di svariate opzioni applicative, egualmente legittime purché coerenti con la ratio che quel principio sottende, e che consiste nell'assicurare in seno alle commissioni la maggiore rappresentatività possibile. Al raggiungimento di questo risultato concorrono, come esperienza e prassi dimostrano, non soltanto la rappresentanza individuale proporzionata alla consistenza delle forze politiche presenti nell'organo elettivo, ma anche –quando la varietà di consistenza e di numero dei gruppi non consenta di conseguire l'obiettivo con precisione aritmetica, per quozienti interi– meccanismi tecnici (quali il voto ponderato, il voto plurimo e simili) idonei ad assicurare a ciascun commissario un peso corrispondente a quello della forza politica che rappresenta.
Nel caso di specie se, in materia di commissioni consiliari, il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale prevede che la ripartizione dei membri delle commissioni da parte dei singoli gruppi deve essere effettuata con un criterio di proporzionalità –garantendo, comunque a ciascun consigliere la presenza in almeno una commissione consiliare- e che nel caso di dimissioni, decadenza od altro motivo che renda necessaria la sostituzione di un Consigliere, il presidente del gruppo consiliare di appartenenza designi un altro rappresentante, è necessario provvedere, anche al fine di adeguare la composizione delle commissioni al criterio proporzionale previsto dal citato art. 38 del dlgs 267/2000, a una revisione complessiva delle stesse con una deliberazione del consiglio comunale che prenda atto della designazione dei consiglieri in rappresentanza dei gruppi neo costituiti e della sostituzione dei consiglieri.
Il disposto recato dal regolamento comunale in combinato disposto con il citato art. 38 Tuel è applicabile anche alla ipotesi prospettata del consigliere eletto presidente di una commissione in rappresentanza di un gruppo dal quale successivamente si sia dissociato (articolo ItaliaOggi del 25.05.2012).

EDILIZIA PRIVATA: Edilizia, bonus sale. Ristrutturare con lo sgravio del 50%.  Nel dl infrastrutture incentivi per il risparmio energetico.
La detrazione del 36% per la ristrutturazioni edilizie potrebbe arrivare al 50% con un tetto di 96 mila euro per unità immobiliare (invece dell'attuale limite di 48 mila euro). Sarà invece prevista come stabile la detraibilità fino al 55% delle spese per interventi di riqualificazione energetica.
Sono queste alcune delle proposte che il ministero delle infrastrutture ha messo a punto e sulle quali si dovrà confrontare con il ministero dell'economia, in capo al premier Mario Monti, in vista della prossima adozione di un decreto-legge per il rilancio delle infrastrutture, parte dell'intervento sulla crescita di cui ha parlato in queste settimane il ministro per le infrastrutture e sviluppo economico, Corrado Passera. Per le detrazioni sugli interventi di ristrutturazione edilizia, la proposta del governo è quella di innalzare dal 36 al 50% la quota detraibile ai fini Irpef aumentando anche l'importo massimo della spesa per unità immobiliare da 48 mila a 96.mila euro.
L'obiettivo è quello di incentivare la ripresa del mercato delle costruzioni e, in particolare quello delle ristrutturazioni che, dalle stime in possesso del governo, nel periodo 1998-2006, attraverso l'incentivo ha potuto contare su un incremento annuo degli investimenti in ristrutturazioni stimabile in circa 1,1 miliardi di euro che, con l'aumento dal 36 al 50% dovrebbe aumentare di altri 350 milioni.
L'aumento di percentuale di detrazione di 14 punti percentuali determinerà un minor gettito Irpef complessivo pari a 1,2 miliardi in dici anni, compensato da un incremento di gettito conseguente all'effetto incentivante sugli investimenti sia con riferimento all'incremento del gettito Iva sia con riferimento all'incremento delle imposte dirette cioè Irpef-Ires-Irap. Oltre all'intervento sulle ristrutturazioni edilizie la proposta del governo prevede che sia portato a regime la detrazione del 55% per gli interventi di riqualificazione energetica, anche in questo caso con la finalità di incentivare la ripresa del mercato delle costruzioni. Gli oneri che il governo stima possano determinarsi per la messa a regime dell'incentivo ammontano a 2.475 milioni di euro che ripartiti nelle dieci quote annuali (come previsto per legge) risultano 248 milioni di euro annui.
A questi interventi sulle ristrutturazioni e sulla riqualificazione energetica si aggiungono poi altri interventi che tendono ad agevolare il regime fiscale per l'invenduto a favore dei costruttori e altri che incidono sull'acquisto degli immobili (esenzione Imu biennale per le case il cui valore dichiarato sia inferiore a 200 mila euro e detrazione delle spese di registro dell'atto di acquisto) e sulla detrazione degli interessi passivi per i mutui (si arriva alla totale detraibilità degli interessi, con un costo, però per l'Erario pari a più di un miliardo di euro per il 2013).
Trattandosi di proposte che potrebbero avere ripercussioni non da poco sugli equilibri di bilancio, il confronto con il ministero dell'economia sarà evidentemente decisivo, così come lo era ai tempi dell'ex ministro Giulio Tremonti (articolo ItaliaOggi del 23.05.2012 - link a www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATA: Box, comprare senza l'alloggio. Notai di Milano su nuove opportunità.
Nuove opportunità dalla compravendita dei box privati separatamente dagli appartamenti. Il recente dl n. 5/2012 di semplificazione e sviluppo ha consentito, a determinate condizioni, la libera circolazione dei cosiddetti parcheggi Tognoli, che fino a oggi non potevano essere venduti senza l'abitazione di pertinenza, pena la nullità del contratto. La disciplina della circolazione dei box rimane molto complessa e articolata.
Se ne parlerà oggi pomeriggio alle 18 all'Urban Center di Milano, nella Galleria Vittorio Emanuele, nell'ultimo incontro dell'iniziativa «Comprar casa senza rischi» organizzata dal Consiglio notarile del capoluogo lombardo.
Nel quadro normativo attuale si possono distinguere sostanzialmente tre categorie, in ognuna delle quali la vendita separata del box dall'appartamento è disciplinata in maniera differente: parcheggi ponte o standard (dal nome della legge ponte n. 765/1967), parcheggi Tognoli (anche in questo caso dal nome attribuito alla legge n. 122/89) e parcheggi liberi (si veda la tabella elaborata dal Consiglio notarile di Milano).
I parcheggi Tognoli si suddividono a loro volta in due categorie: pubblici (per i quali la vendita separata è legittima soltanto ove ciò sia espressamente previsto dalla convenzione originaria stipulata con il comune, perché in questi caso la costruzione dei box avviene in proprietà superficiaria su aree di proprietà pubblica) e privati (per i quali sono state previste dalla legge n. 122/1989 numerose agevolazioni urbanistiche e civilistiche: si pensi, ad esempio, alle maggioranze ridotte necessarie per autorizzare la costruzione di parcheggi interrati in ambito condominiale).
A seguito della novella del 2012, come spiegato il notaio Ugo Friedmann, i parcheggi Tognoli privati possono essere venduti separatamente dall'appartamento, nel rispetto delle norme civilistiche sulla pertinenza e delle due seguenti condizioni: la destinazione del bene deve rimanere la stessa (dal box non potrà essere ricavato un negozio o un laboratorio) e l'acquirente dovrà destinarlo a pertinenza di altra unità immobiliare sita nel medesimo comune (articolo ItaliaOggi del 23.05.2012).

ENTI LOCALI - VARI: LA CIRCOLARE SULL'IMU/ Lo sconto prima casa è uno solo. Non rileva il fatto che il contribuente utilizzi più immobili. Per usufruire del beneficio è necessario accatastare insieme le unità.
Il contribuente può fruire delle agevolazioni per abitazione principale per un solo immobile, anche se utilizzi di fatto più unità immobiliari distintamente iscritte in catasto, a meno che non abbia provveduto al loro accatastamento unitario.
Lo ha chiarito il dipartimento delle finanze del ministero dell'economia, con la circolare 3/2012.
Rispetto a quanto previsto per l'Ici, la definizione di abitazione principale presenta dei profili di novità. L'articolo 13, comma 2, del dl 201/2011 prevede che per abitazione principale si intende l'immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente. Dalla lettura della norma, per il dipartimento, «emerge, innanzitutto, che l'abitazione principale deve essere costituita da una sola unità immobiliare iscritta o iscrivibile in catasto a prescindere dalla circostanza che sia utilizzata come abitazione principale più di una unità immobiliare».
Quindi, le singole unità vanno assoggettate separatamente a imposizione, ciascuna per la propria rendita. È il contribuente a scegliere quale destinare ad abitazione principale. Secondo la tesi ministeriale, la nuova disposizione consente di superare per l'Imu, «in maniera inequivocabile, i contrasti interpretativi tra prassi e giurisprudenza sorti in materia di Ici».
L'interpretazione ministeriale, però, non può essere condivisa, in quanto richiama nella circolare il principio affermato per la prima volta dalla Cassazione (sentenza 25902/2008) per l'Ici, poi ribadito con altre pronunce, ma lo ritiene superato dalla nuova disposizione, secondo la quale il beneficio fiscale è limitato a una sola unità immobiliare, mentre le altre, ancorché utilizzate di fatto come abitazione principale, non possono fruire del trattamento agevolato.
Invece, anche per l'Imu il contribuente dovrebbe avere diritto all'aliquota ridotta e alla detrazione, qualora utilizzi contemporaneamente diversi fabbricati come abitazione principale, visto che l'articolo 13 richiede che si tratti di un'unica unità immobiliare «iscritta o iscrivibile» come tale in catasto.
Occorre dare un senso alla formulazione letterale della norma che fa riferimento ai diversi immobili che sono potenzialmente «iscrivibili» come un'unica unità immobiliare. In questi casi, dunque, è sufficiente che sussistano due requisiti: uno soggettivo e l'altro oggettivo.
In particolare, le diverse unità immobiliari devono essere possedute dallo stesso titolare (o dagli stessi titolari) e devono essere contigue. E l'Agenzia del territorio dovrebbe certificare l'iscrivibilità come unica unita immobiliare.
Del resto, la Cassazione più volte ha chiarito che ciò che conta è l'effettiva utilizzazione come abitazione principale dell'immobile complessivamente considerato, a prescindere dal numero delle unità catastali.
Peraltro, per i giudici di legittimità, gli immobili distintamente iscritti in catasto non importa che siano di proprietà di un solo coniuge o di ciascuno dei due in regime di separazione dei beni. A patto che il derivato complesso abitativo utilizzato non trascenda la categoria catastale delle unità che lo compongono.
Secondo la Cassazione, un'interpretazione contraria non sarebbe rispettosa della finalità legislativa di ridurre il carico fiscale sugli immobili adibiti a «prima casa». La tesi della Cassazione, però, si pone in contrasto con quanto affermato dal dipartimento delle finanze del ministero, con la risoluzione 6/2002, richiamata anch'essa nella recente circolare, sui presupposti richiesti per usufruire dei benefici fiscali.
Infatti il ministero già in passato, anche per l'Ici, aveva precisato che due o più unità immobiliari vanno singolarmente e separatamente soggette a imposizione, «ciascuna per la propria rendita». Il contribuente, per avere diritto all'agevolazione, era tenuto a richiedere l'accatastamento unitario degli immobili, per i quali fosse stata attribuita una distinta rendita, presentando all'ente una denuncia di variazione (articolo ItaliaOggi del 23.05.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPubblico impiego. Un disegno di legge delega per armonizzare l'ordinamento degli statali con la riforma Fornero. Più autonomia ai dirigenti, premi legati alla produttività.
REGIONI E SINDACATI/ Cambia la contrattazione con il coinvolgimento di tutti gli attori nella gestione della mobilità e della riorganizzazione.

L'allineamento delle regole del pubblico impiego al riassetto del mercato del lavoro privato verrà garantito con l'attuazione di una delega piena e non tramite nuove norme subito operative.
Lo prevede il disegno di legge che il ministro della Pa e la Semplificazione, Filippo Patroni Griffi, presenterà domani in Consiglio dei ministri. Sette articoli in tutto e il rimando a decreti legislativi da adottare entro nove mesi dall'entrata in vigore della legge per completare un percorso di privatizzazione del lavoro pubblico introdotto all'inizio degli anni Novanta e correggere alcuni aspetti della riforma Brunetta che non hanno superato la prova dell'attuazione.
Il testo parte dai principi fissati nel protocollo d'intesa sottoscritto da Regioni, enti locali e da tutti i sindacati il 4 maggio scorso. Si spazia dalla disciplina del rapporto di lavoro nella Pa, con il riconoscimento del contratto a tempo indeterminato come forma dominante per rispondere al fabbisogno di personale, alle regole sui licenziamenti, con l'introduzione di tipizzazioni di ipotesi legali per i casi disciplinari, fino a misure di semplificazione per favorire la mobilità «volontaria e guidata» dei dipendenti, con la previsione di ipotesi da definire in sede di contrattazione di utilizzo del part time e della mobilità professionale. Sui contratti flessibili si prevede un loro ridimensionamento con il rispetto della specificità di comparti come l'istruzione e gli enti di ricerca, mentre nei concorsi pubblici (unico canale di accesso alla Pa) verranno valorizzate le esperienze professionali acquisite proprio con i contratti flessibili.
Ma il testo va ben oltre e punta al riordino del sistema della contrattazione collettiva e delle relazioni sindacali con il riconoscimento di una maggiore rappresentanza di Regioni ed enti territoriali e forme di partecipazione dei sindacati ai processi di riorganizzazione della Pa. È uno dei passaggi del Ddl che ritocca la riforma Brunetta laddove si prevedono possibilità di esame congiunto con i sindacati dei processi di riassetto delle amministrazioni nell'ambito di un riordino dei comparti di contrattazione che rimane con l'obiettivo di una loro forte riduzione.
Si metterà poi mano, con i decreti delegati, anche al sistema di valutazione delle performance, e qui l'obiettivo è di misurare i meriti individuali partendo però dal contesto organizzativo e dai diversi livelli di responsabilità dei singoli. È questo l'altro ritocco alla riforma Brunetta ma non si prevede affatto di cancellare il principio della premialità selettiva, che dovrà rimanere «differenziata in relazione ai risultati conseguiti fermo il divieto di corresponsione di trattamenti uniformi, automatici o a rotazione».
Un ampio capitolo, raccolto nell'articolo 5, riguarda la dirigenza di cui si vogliono ampliare e rafforzare i poteri assicurandone una maggiore autonomia dagli organi di indirizzo politico ma puntando, nel contempo, a promuovere una maggiore flessibilità e mobilità anche tra comparti diversi. Cambieranno anche i conferimenti di incarichi ai dirigenti e si prevede una stretta sugli incarichi esterni. Confermato, poi, il riordino delle scuole di formazione, sempre con l'obiettivo di promuovere l'interdisciplinarietà. Ulteriore delega, infine, è stata aggiunta per rafforzare e rendere più cogente tutta la normativa che regola gli obblighi di trasparenza e accessibilità alle informazioni di tutte le amministrazioni (articolo Il Sole 24 Ore del 23.05.2012 - link a www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell'art. 32, comma 27, lettera d), del d.l. 0.09.2003, n. 269, convertito dalla l. 24.11.2003, n. 326  sono sanabili le opere abusive realizzate in aree sottoposte a specifici vincoli (tra cui quello idrogeologico, ambientale e paesistico) purché ricorrano “congiuntamente” determinate condizioni:
- che si tratti di opere realizzate prima dell’imposizione del vincolo; in proposito la Corte Costituzionale (ordinanza n. 150 del 2009) ha negato che debba trattarsi solo dei vincoli che comportino l’inedificabilità assoluta;
- che, pur realizzate in assenza o in difformità del titolo edilizio, siano conformi alle prescrizioni urbanistiche;
- che siano opere di minore rilevanza, corrispondenti alle tipologie di illecito di cui ai nn. 4, 5 e 6 dell’allegato 1 del d.l. n. 269 del 2003 (restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria) senza quindi aumento di superficie;
- che vi sia il previo parere favorevole dell’autorità preposta al vincolo.
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Il rilascio della concessione in sanatoria in zone vincolate presuppone necessariamente il parere favorevole dell'autorità preposta alla tutela del vincolo prescritto dall'art. 32 della legge n. 47 del 1985, anche ai fini della formazione del silenzio assenso; inoltre è l'art. 35 della legge n. 47 del 1985 ad indicare che, nelle ipotesi previste dal precedente art. 32, il termine per la formazione del silenzio assenso decorre dalla emissione del parere di detta autorità; ciò in virtù del richiamato espresso rinvio del comma 25 dell'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 alle disposizioni dei "capi IV e V della legge 28.02.1985, n. 47, e successive modificazioni e integrazioni, come ulteriormente modificate dall'art. 39 della legge 23.12.1994, n. 724, e successive modificazioni e integrazioni" e del successivo comma 27 che prevede: “Fermo restando quanto previsto dagli articoli 32 e 33 della legge 28.02.1985, n. 47….”
Comunque, il comma 1 dell’art. 32 della legge n. 47 del 1985 dopo aver disposto che “il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso” prevede espressamente la possibilità per il richiedente di impugnare il silenzio-rifiuto qualora tale parere non venga formulato dall’amministrazione entro centottanta giorni dalla data di ricevimento della richiesta di parere stesso.

La giurisprudenza ordinaria e amministrativa ormai consolidata, già fatta propria anche da questa Sezione e dalla quale il Collegio non ha motivo di discostarsi, (ex multis, Cass. Penale, Sezione III, n. 24647 del 2009 e Consiglio di Stato, Sezione VI, n. 1200 del 2010, TAR Puglia, Bari, Sezione III, n. 805/2011 e n. 1884/2011), ha riconosciuto che, ai sensi dell'art. 32, comma 27, lettera d), del decreto-legge 30.09.2003, n. 269, convertito dalla legge 24.11.2003, n. 326  sono sanabili le opere abusive realizzate in aree sottoposte a specifici vincoli (tra cui quello idrogeologico, ambientale e paesistico) purché ricorrano “congiuntamente” determinate condizioni:
- che si tratti di opere realizzate prima dell’imposizione del vincolo; in proposito la Corte Costituzionale (ordinanza n. 150 del 2009) ha negato che debba trattarsi solo dei vincoli che comportino l’inedificabilità assoluta;
- che, pur realizzate in assenza o in difformità del titolo edilizio, siano conformi alle prescrizioni urbanistiche;
- che siano opere di minore rilevanza, corrispondenti alle tipologie di illecito di cui ai nn. 4, 5 e 6 dell’allegato 1 del d.l. n. 269 del 2003 (restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria) senza quindi aumento di superficie;
- che vi sia il previo parere favorevole dell’autorità preposta al vincolo.
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La giurisprudenza amministrativa, condivisa del Collegio, ritiene che il rilascio della concessione in sanatoria in zone vincolate presuppone necessariamente il parere favorevole dell'autorità preposta alla tutela del vincolo prescritto dall'art. 32 della legge n. 47 del 1985, anche ai fini della formazione del silenzio assenso (cfr. Consiglio di Stato, Sezione VI, n. 528/2006, TAR Campania, Napoli, Sezione IV, n. 1483/2009); inoltre è l'art. 35 della legge n. 47 del 1985 ad indicare che, nelle ipotesi previste dal precedente art. 32, il termine per la formazione del silenzio assenso decorre dalla emissione del parere di detta autorità (cfr. Consiglio di Stato Sezione IV, n. 3116/2011); ciò in virtù del richiamato espresso rinvio del comma 25 dell'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 alle disposizioni dei "capi IV e V della legge 28.02.1985, n. 47, e successive modificazioni e integrazioni, come ulteriormente modificate dall'art. 39 della legge 23.12.1994, n. 724, e successive modificazioni e integrazioni" e del successivo comma 27 che prevede: “Fermo restando quanto previsto dagli articoli 32 e 33 della legge 28.02.1985, n. 47….
Deve altresì evidenziarsi che, comunque, il comma 1 dell’art. 32 della legge n. 47 del 1985 dopo aver disposto che “il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso” prevede espressamente la possibilità per il richiedente di impugnare il silenzio-rifiuto qualora tale parere non venga formulato dall’amministrazione entro centottanta giorni dalla data di ricevimento della richiesta di parere stesso (cfr. TAR Bari, Sezione III, n. 676/2012)
(TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 25.05.2012 n. 1049 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'istituto del preavviso di rigetto di cui all'art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 -Comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza- stante la sua portata generale, trova applicazione anche nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio. Deve, conseguentemente, ritenersi illegittimo il provvedimento di diniego dell'istanza di permesso in sanatoria che non sia stato preceduto dall'invio della comunicazione di cui al citato art. 10-bis in quanto preclusivo per il soggetto interessato della piena partecipazione al procedimento e dunque della possibilità di un suo apporto collaborativo, capace di condurre ad una diversa conclusione della vicenda.
Nondimeno, occorre considerare che tali omissioni non determinano comunque l'annullabilità del provvedimento, qualora trovi applicazione il disposto dell'art. 21-octies, comma 2, prima parte della legge n. 241 del 1990, a tenore del quale “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Al riguardo il Collegio aderisce alla giurisprudenza amministrativa, già fatta propria da questa Sezione, alla luce della quale, a seguito delle modifiche introdotte dalla legge 11.02.2005, n. 15, l'istituto del preavviso di rigetto di cui all'art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 -Comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza- introdotto dall’art. 6 della prima legge menzionata, stante la sua portata generale, trova applicazione anche nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio (cfr. TAR Bari, Sezione III, 22.09.2011, n. 1383, TAR Liguria Genova, Sez. I, 22.04.2011, n. 666). Deve, conseguentemente, ritenersi illegittimo il provvedimento di diniego dell'istanza di permesso in sanatoria che non sia stato preceduto dall'invio della comunicazione di cui al citato art. 10-bis in quanto preclusivo per il soggetto interessato della piena partecipazione al procedimento e dunque della possibilità di un suo apporto collaborativo, capace di condurre ad una diversa conclusione della vicenda (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. VIII, 07.03.2011, n. 1318).
Nondimeno, occorre considerare che tali omissioni non determinano comunque l'annullabilità del provvedimento, qualora trovi applicazione il disposto dell'art. 21-octies, comma 2, prima parte della legge n. 241 del 1990, a tenore del quale “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Orbene, non vi è alcun dubbio che il provvedimento di diniego di condono edilizio costituisce espressione di potere vincolato rispetto ai presupposti normativi richiesti e dei quali deve farsi applicazione (negli stessi termini TAR Liguria Genova, Sez. I, 22.04.2011, n. 666, cit. e la giurisprudenza ivi richiamata: Consiglio di Stato, IV, 14.04.2010, n. 2105; TAR Lombardia-Milano, II, 22.07.2010, n. 3253).
Analizzando sulla base di dette coordinate la fattispecie concreta oggetto di gravame, il Collegio ritiene che l'amministrazione comunale, nel rigettare l’istanza di condono prodotta dalla ricorrente ai sensi del d.l. n. 269 del 2003, convertito dalla legge n. 326 del 2003, sia incorsa nella violazione dell'art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, non risultando che il Comune di Andria abbia inviato il preavviso della propria futura determinazione negativa. Tuttavia nella fattispecie oggetto di gravame può trovare applicazione il disposto del comma 2, prima parte, dell'art. 21-octies della legge n. 241 del 1990 sopra riportato ed invocato da parte resistente nei propri scritti difensivi, considerato che è palese che il contenuto dispositivo del provvedimento impugnato non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, alla luce di quanto sopra esposto in riferimento alla infondatezza dei motivi di ricorso sopra esaminati (cfr. TAR Bari, Sezione III, n. 676/2012)
(TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 25.05.2012 n. 1049 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Pur confermandosi che l'ordine di demolizione di un’opera edilizia ritenuta abusiva, come atto dovuto in presenza della constatata realizzazione dell’opera senza titolo abilitativo (o in totale difformità da esso), è in linea di principio sufficientemente motivata con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera, si fa salva l’ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso ed il protrarsi dell’inerzia dell’Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato.
Ipotesi, in relazione alla quale si ravvisa un onere di congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche all’entità ed alla tipologia dell’abuso, il pubblico interesse -evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità- idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato.

Coglie nel segno il quarto motivo di ricorso con il quale la ricorrente ha dedotto la violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990 per difetto di motivazione in ordine al pubblico interesse perseguito con la demolizione; parte ricorrente lamenta che, anche se fossero ritenute superabili le censure di cui ai precedenti motivi di ricorso, l’ordinanza di demolizione sarebbe illegittima in quanto il comportamento tenuto dall’ente locale resistente sin dal 1984 (26 anni) avrebbe ingenerato una posizione di affidamento rispetto alla quale l’amministrazione avrebbe avuto l’onere di una congrua motivazione in ordine all’interesse pubblico prevalente che giustificasse il sacrificio di essa ricorrente, motivazione omessa nella presente fattispecie.
Rappresenta, invero, orientamento consolidato in giurisprudenza, dal quale il Collegio non ha motivo di discostarsi, quello secondo il quale, pur confermandosi che l'ordine di demolizione di un’opera edilizia ritenuta abusiva, come atto dovuto in presenza della constatata realizzazione dell’opera senza titolo abilitativo (o in totale difformità da esso), è in linea di principio sufficientemente motivata con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera, si fa salva l’ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso ed il protrarsi dell’inerzia dell’Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato. Ipotesi, in relazione alla quale si ravvisa un onere di congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche all’entità ed alla tipologia dell’abuso, il pubblico interesse -evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità- idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato (cfr. ex multis Consiglio di Stato, Sezione V, n. 3270 del 29.05.2006, TAR Catanzaro, Sezione II n. 52 del 20.01.2009 e TAR Valle d’Aosta, n. 72 del 02.11.2011) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 25.05.2012 n. 1045 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 23 e l’art. 11 dpr 380/2001 sono sempre stati interpretati dalla giurisprudenza amministrativa nel senso che l’Amministrazione comunale è certamente chiamata allo svolgimento di un’attività istruttoria per accertare la sussistenza del titolo, anche se all’Ente pubblico spetta soltanto la verifica, in capo al richiedente, di un titolo sostanziale idoneo a costituire la posizione legittimante, senza alcuna ulteriore e minuziosa indagine che si estenda fino alla ricerca di eventuali fattori limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di disponibilità dell’immobile, allegato da chi presenta istanza edilizia.
L’art. 23 e l’art. 11 dpr 380/2001 sono sempre stati interpretati dalla giurisprudenza amministrativa nel senso che l’Amministrazione comunale è certamente chiamata allo svolgimento di un’attività istruttoria per accertare la sussistenza del titolo, anche se all’Ente pubblico spetta soltanto la verifica, in capo al richiedente, di un titolo sostanziale idoneo a costituire la posizione legittimante, senza alcuna ulteriore e minuziosa indagine che si estenda fino alla ricerca di eventuali fattori limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di disponibilità dell’immobile, allegato da chi presenta istanza edilizia (cfr. sul punto, Consiglio di Stato, sez. IV, 08.06.2011, n. 3508; TAR Campania, Napoli, sez. II, 06.12.2010, n. 26817 e TAR Lombardia, Milano, sez. II, 31.03.2010, n. 842 e 10.02.2012, n. 496, con la giurisprudenza ivi richiamata) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.05.2012 n. 1431 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Si intende per rudere un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura perimetrale, vi è assenza di copertura e di strutture orizzontali, onde non può certamente parlarsi di un edificio allo stato esistente.
La giurisprudenza amministrativa ha –del resto– ben chiara la differenza fra “edificio” e “rudere”; così ad esempio: <<(…) si intende per rudere un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura perimetrale, vi è assenza di copertura e di strutture orizzontali, onde non può certamente parlarsi di un edificio allo stato esistente>> (TAR Campania, Salerno, sez. I, 16.02.2012, n. 240; si vedano anche TAR Campania, Napoli, sez. IV, 23.12.2010, n. 28002; Tribunale di Chieti, 02.01.2009, n. 2 e Cassazione penale, sez. III, 21.10.2008, n. 42521) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.05.2012 n. 1429 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il termine di decadenza per impugnare il permesso di costruire –un tempo concessione edilizia, prima del DPR 380/2001– decorre, per il terzo che si reputa leso dall’intervento costruttivo, dal momento in cui l’interessato è in grado di percepire la lesione alla propria posizione giuridica, visto lo stato di avanzamento o di realizzazione dell’edificazione (si ricordi altresì la sentenza n. 15/2011 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato la quale, in ordine al termine di impugnazione dei titoli edilizi, afferma anch’essa che il termine suddetto <<inizia a decorrere quando la costruzione realizzata rivela in modo certo ed univoco le essenziali caratteristiche dell'opera e l'eventuale non conformità della stessa al titolo o alla disciplina urbanistica>>).
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La prova della conoscenza del provvedimento lesivo, ai fini della decorrenza del termine perentorio di impugnazione, può anche desumersi da presunzioni; soprattutto nel caso di specie, nel quale i ricorrenti contestano in radice l’ammissibilità del condono ed avevano quindi l’onere di gravare tempestivamente la concessione in sanatoria, non appena conosciuta, pur senza apprezzarne in dettaglio i contenuti, essendo sufficiente la consapevolezza dell’esistenza del provvedimento e della sua lesività.

Come noto, il termine di decadenza per impugnare il permesso di costruire –un tempo concessione edilizia, prima del DPR 380/2001– decorre, per il terzo che si reputa leso dall’intervento costruttivo, dal momento in cui l’interessato è in grado di percepire la lesione alla propria posizione giuridica, visto lo stato di avanzamento o di realizzazione dell’edificazione (cfr., fra le tante, Consiglio di Stato, sez. IV, 05.01.2011, n. 18 e 27.05.2010, n. 3378; sez. VI, 10.12.2010, n. 8705; TAR Lazio, sez. II-bis, 03.10.2011, n. 7670 e TAR Lombardia, Milano, sez. II, 10.12.2010, n. 7511; 08.02.2011, n. 386; 05.07.2011, n. 1762 e 04.11.2011, n. 2640; si ricordi altresì la sentenza n. 15/2011 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato la quale, in ordine al termine di impugnazione dei titoli edilizi, afferma anch’essa che il termine suddetto <<inizia a decorrere quando la costruzione realizzata rivela in modo certo ed univoco le essenziali caratteristiche dell'opera e l'eventuale non conformità della stessa al titolo o alla disciplina urbanistica>>).
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La giurisprudenza non esclude del resto che la prova della conoscenza del provvedimento lesivo, ai fini della decorrenza del termine perentorio di impugnazione, possa anche desumersi da presunzioni (cfr. TAR Lazio, sez. II-bis, 03.10.2011, n. 7670); soprattutto nel caso di specie, nel quale i ricorrenti contestano in radice l’ammissibilità del condono ed avevano quindi l’onere di gravare tempestivamente la concessione in sanatoria, non appena conosciuta, pur senza apprezzarne in dettaglio i contenuti, essendo sufficiente la consapevolezza dell’esistenza del provvedimento e della sua lesività (cfr. sul punto, la sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 02.04.2012, n. 1957) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.05.2012 n. 1428 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Laddove il bando di gara si limiti a richiedere ai concorrenti una generica dichiarazione di insussistenza delle cause di esclusione di cui all’art. 38 del Codice, senza specificare che vanno dichiarate tutte le condanne penali, non sussistono gli estremi per l’esclusione dell’impresa che sia incorsa nella violazione, meramente formale, di aver omesso la dichiarazione di precedenti penali a suo carico.
In tale ipotesi, l’omessa menzione di condanne penali non gravi non costituisce di per sé dichiarazione falsa e quindi causa di esclusione, atteso che il bando di gara, per come formulato (con mero richiamo dell’art. 38 del Codice), non impone ai partecipanti di manifestare qualsivoglia condanna penale ed anzi li induce a ritenere di dover dichiarare esclusivamente i reati gravi incidenti sulla moralità professionale.
In ogni caso, quanto ai reati dichiarati estinti dal Tribunale, non sussiste l’obbligo di dichiarazione ai sensi dell’art. 38, secondo comma, del Codice.

Considerato, in diritto:
- che, in relazione a fattispecie pressoché identiche, si è statuito che laddove il bando di gara si limiti a richiedere ai concorrenti una generica dichiarazione di insussistenza delle cause di esclusione di cui all’art. 38 del Codice, senza specificare che vanno dichiarate tutte le condanne penali, non sussistono gli estremi per l’esclusione dell’impresa che sia incorsa nella violazione, meramente formale, di aver omesso la dichiarazione di precedenti penali a suo carico (così TAR Puglia, Bari, sez. I, 20.05.2011 n. 752; Id., sez. I, 10.06.2011 n. 889; nello stesso senso, Cons. Stato, sez. VI, 04.08.2009 n. 4907);
- che, in tale ipotesi, l’omessa menzione di condanne penali non gravi non costituisce di per sé dichiarazione falsa e quindi causa di esclusione, atteso che il bando di gara, per come formulato (con mero richiamo dell’art. 38 del Codice), non impone ai partecipanti di manifestare qualsivoglia condanna penale ed anzi li induce a ritenere di dover dichiarare esclusivamente i reati gravi incidenti sulla moralità professionale;
- che in ogni caso, quanto ai reati dichiarati estinti dal Tribunale di Trani, non sussiste l’obbligo di dichiarazione ai sensi dell’art. 38, secondo comma, del Codice (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 24.05.2012 n. 1022 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’Amministrazione può introdurre nella lex specialis previsioni atte a limitare la platea dei concorrenti, onde consentire la partecipazione alla gara stessa di soggetti particolarmente qualificati, specie per ciò che attiene al possesso dei requisiti di capacità tecnica e finanziaria, tutte le volte in cui tale scelta non sia eccessivamente quanto irragionevolmente limitativa della concorrenza.
Nel bando di gara, l’Amministrazione appaltante può quindi autolimitare il proprio potere discrezionale di apprezzamento mediante apposite clausole, rientrando nella sua discrezionalità la fissazione di requisiti di partecipazione ad una gara d’appalto diversi, ulteriori e più restrittivi di quelli legali, salvo il limite della logicità e ragionevolezza dei requisiti richiesti e della loro pertinenza e congruità a fronte dello scopo perseguito.

Infine, non può trovare accoglimento la censura relativa alla asserita violazione dell’art. 68 dlgs n. 163/2006.
La relativa doglianza avrebbe dovuto indurre parte ricorrente ad impugnare immediatamente la clausola lesiva, venendo in rilievo una prescrizione della lex specialis di gara volta a fissare un requisito di partecipazione evidentemente ab origine non posseduto dalla stessa (vale a dire la necessità di presentare un sistema a cassetto ovvero equivalente, non già un sistema a monopala che non può considerarsi “equivalente”).
Inoltre -come evidenziato in precedenza- il sistema a cassetto richiesto dalla stazione appaltante possiede una forza di compattazione maggiore rispetto al sistema a monopala, con la conseguenza che il primo sistema consente una notevole economia dei costi.
Pertanto, non è censurabile la scelta operata dalla stazione appaltante, in forza di quanto condivisibilmente affermato da Cons. Stato, Sez. VI, 09.08.2011, n. 4735: “L’Amministrazione può introdurre nella lex specialis previsioni atte a limitare la platea dei concorrenti, onde consentire la partecipazione alla gara stessa di soggetti particolarmente qualificati, specie per ciò che attiene al possesso dei requisiti di capacità tecnica e finanziaria, tutte le volte in cui tale scelta non sia eccessivamente quanto irragionevolmente limitativa della concorrenza. Nel bando di gara, l’Amministrazione appaltante può quindi autolimitare il proprio potere discrezionale di apprezzamento mediante apposite clausole, rientrando nella sua discrezionalità la fissazione di requisiti di partecipazione ad una gara d’appalto diversi, ulteriori e più restrittivi di quelli legali, salvo il limite della logicità e ragionevolezza dei requisiti richiesti e della loro pertinenza e congruità a fronte dello scopo perseguito.”.
In base a quanto detto (economia dei costi derivanti dall’utilizzazione del sistema a cassetto) i requisiti richiesti nel caso di specie dalla stazione appaltante sono certamente valutabili come rispondenti ai limiti di logicità e ragionevolezza; possono, altresì, considerarsi pertinenti e congrui rispetto allo scopo perseguito (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 24.05.2012 n. 1020 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Spettano -in forza di prescrizione legislativa di carattere imperativo (cfr. art. 6 legge 24.12.1993, n. 537, abrogato dall’art. 256 dlgs 12.04.2006, n. 163, ma sostituito dall’art. 115 dlgs n. 163/2006)- le somme derivanti dalla revisione del canone d’appalto ed è nulla ogni difforme previsione contrattuale.
... per l’annullamento, previa adozione di misura cautelare,
- del provvedimento di cui alla nota del Dirigente del VI Settore del Comune di Vieste prot. n. 196 del 05.01.2011 che ha negato il diritto della ricorrente alla revisione del canone di appalto del servizio di igiene urbana;
- per la declaratoria di nullità dell’art. 41 del capitolato speciale d’appalto del servizio di igiene urbana (e del relativo contratto rep. n. 14 del 24.07.2006 che lo richiama) nella parte in cui reca la previsione di un’alea del 10% (soglie oltre la quale è ammissibile la revisione del canone);
- per la declaratoria del diritto della ricorrente a veder corrisposte le revisioni prezzi spettanti sul canone d’appalto ab origine del rapporto sulla base dei parametri contrattuali e degli indici ISTAT giusta le specifiche previsioni dell’art. 41 del capitolato speciale senza l’applicazione della predetta alea del 10%;
...
Rilevato che il ricorso appare fondato, dovendosi condividere le argomentazioni espresse da parte ricorrente in ordine alla spettanza -in forza di prescrizione legislativa di carattere imperativo (cfr. art. 6 legge 24.12.1993, n. 537, abrogato dall’art. 256 dlgs 12.04.2006, n. 163, ma sostituito dall’art. 115 dlgs n. 163/2006)- delle somme derivanti dalla revisione del canone d’appalto ed alla nullità di ogni difforme previsione contrattuale (cfr. TAR Puglia, Bari, Sez. I, 10.06.2010, n. 2380; Cons. Stato, Sez. V, 16.06.2003, n. 3373; Cons. Stato, Sez. V, 20.08.2008, n. 3994) (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 24.05.2012 n. 1018 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: E' illegittimo il decreto di esproprio adottato dopo la scadenza del termine di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità ovvero dopo la scadenza del termine dell’occupazione d’urgenza.
Secondo la giurisprudenza amministrativa (cfr. TAR Campania, Napoli, 31.10.1983, n. 1164; TAR Abruzzo, L’Aquila, 27.01.2003, n. 12) cui questo Collegio ritiene di aderire è illegittimo il decreto di esproprio adottato dopo la scadenza del termine di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità ovvero dopo la scadenza del termine dell’occupazione d’urgenza (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 24.05.2012 n. 1015 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL'offerta priva del bollo non può essere considerata inammissibile, in ossequio ai principi di efficacia, di libera concorrenza e favor participationis, di ragionevolezza e proporzionalità e alla conseguente, consolidata, giurisprudenza in materia di regolarizzazione degli oneri fiscali e di bollo, che afferma la sanabilità delle irregolarità formali attraverso l’assolvimento del previsto onere contributivo.
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E' legittima la non esclusione di una offerta la cui busta trasparente sia chiusa in una ulteriore busta, del tutto idonea ad impedire di poter vedere il contenuto della stessa e, quindi, la segretezza dell’offerta economica nel periodo di giacenza della stessa presso l’Amministrazione.
Tra l'altro, la busta in parte trasparente, contenente l’indicazione dell’offerta economica, è risultata visibile solo in sede di gara e, quindi, dal momento che la stessa si è svolta e conclusa senza soluzione di continuità, in sede di apertura delle offerte stesse; operazione questa, peraltro, che ha visto la partecipazione dell’impresa odierna ricorrente che, quindi, risulta essere essa stessa garante della correttezza del trattamento delle offerte durante le operazioni per l’individuazione dell’aggiudicatario.

4. Ritenuto in diritto:
4.1. Che l’offerta priva del bollo non può essere considerata inammissibile, in ossequio ai principi di efficacia, di libera concorrenza e favor participationis, di ragionevolezza e proporzionalità e alla conseguente, consolidata, giurisprudenza in materia di regolarizzazione degli oneri fiscali e di bollo, che afferma la sanabilità delle irregolarità formali attraverso l’assolvimento del previsto onere contributivo (in tal senso, tra le altre, TAR Campania, Napoli, Sez. VIII sentenza 07.07.2010, n. 18023);
4.2. Che, nonostante l’accertata trasparenza della busta contenente l’offerta delle imprese risultate aggiudicatarie, risulta essere determinante -ai fini della qualificazione come legittimo del comportamento della stazione appaltante che non l’ha esclusa (nonostante sia stata la commissione stessa a porsi il problema)– il fatto che essa fosse chiusa in una ulteriore busta, del tutto idonea ad impedire di poter vedere il contenuto della stessa e, quindi, la segretezza dell’offerta economica nel periodo di giacenza della stessa presso l’Amministrazione può ritenersi essere stata garantita.
La busta in parte trasparente, contenente l’indicazione dell’offerta economica, infatti, è risultata visibile solo in sede di gara e, quindi, dal momento che la stessa si è svolta e conclusa senza soluzione di continuità, in sede di apertura delle offerte stesse; operazione questa, peraltro, che ha visto la partecipazione dell’impresa odierna ricorrente che, quindi, risulta essere essa stessa garante della correttezza del trattamento delle offerte durante le operazioni per l’individuazione dell’aggiudicatario (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 24.05.2012 n. 905 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI E PROGETTUALIL'università non può essere affidataria di incarichi da altre p.a..
Le università non possono essere affidatarie dirette di incarichi da altre amministrazioni per servizi di ingegneria e consulenza; gli accordi previsti dalla legge 241/1990 non possono essere utilizzati per eludere l'obbligo di affidare a terzi con gara servizi di consulenza; se infatti l'accordo non ha ad oggetto lo svolgimento di una attività comune alle amministrazioni e prevede un compenso, si tratta di un contratto di appalto soggetto a gara e i professionisti e le società devono potere competere per l'acquisizione del contratto.

Sono queste le conclusioni 23.05.2012 che l'Avvocato generale Verica Trstenjak ha proposto ieri alla Corte di giustizia per la decisione della causa C-159/11 che vede come parti in causa da un lato l'Azienda sanitaria locale di Lecce e dall'altro lato l'Oice, l'Ordine degli ingegneri della Provincia di Lecce e il Consiglio nazionale degli ingegneri.
La vicenda prende le mosse da un affidamento, per importo soggetto alla normativa comunitaria, dei servizi di studio e valutazione della vulnerabilità sismica di strutture ospedaliere, disposto dalla Asl Lecce a favore dell'Università del Salento. Dopo la sentenza di primo grado del Tar Puglia, che aveva dichiarato illegittimo l'affidamento diretto dell'incarico all'università, per omesso ricorso alle procedure di evidenza pubblica, il Consiglio di stato aveva rimesso la questione alla Corte di giustizia in via pregiudiziale. Si trattava di stabilire se l'affidamento potesse ritenersi legittimo e inquadrabile in un accordo ex articolo 15 della legge 241/1990 e se quindi fosse necessario esperire una gara.
In attesa della sentenza della Corte, l'Avvocato generale nelle sue conclusioni si orienta nel senso di ritenere illegittimo l'affidamento in quanto l'accordo non costituisce una forma di cooperazione in comune di attività fra due amministrazioni aggiudicatrici (così come prevede la legge 241/1990), bensì un vero e proprio contratto di consulenza per servizi a fronte del pagamento di un compenso per il quale occorreva procedere con gara, ammettendo tutti gli operatori economici interessati ad acquisire la commessa. Pertanto l'Avvocato generale ritiene contrario alle direttive appalti pubblici «una disciplina nazionale che consente di stipulare accordi scritti tra un'amministrazione aggiudicatrice e un'Università di diritto pubblico verso un corrispettivo non superiore ai costi sostenuti per l'esecuzione della prestazione, ove l'Università esecutrice possa rivestire la qualità di operatore economico».
In sostanza l'Avvocato generale, riconoscendo all'Università la qualità di operatore economico, sulla base della sentenza C-305/08 del 23.12.2009, afferma indirettamente che in tale qualità non avrebbe potuto sottoscrivere un accordo ma poteva semmai partecipare a una gara, con gli altri operatori, per l'aggiudicazione dell'appalto. In ogni caso, poi, l'accordo non corrisponde ai requisiti previsti dalla legge, anche ribaditi dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, e in particolare non prevede né alcuna attività in comune, né l'assenza di corrispettivi (sono invece ammessi i meri rimborsi spese) (articolo ItaliaOggi del 24.05.2012 - link a www.corteconti.it).

LAVORI PUBBLICI: Ciò che rileva, al fine dell'annullamento dell'attestazione di qualificazione, è il fatto oggettivo della falsità dei documenti sulla base dei quali essa è stata conseguita, indipendentemente da ogni ricerca in ordine alla imputabilità soggettiva del falso. Invero, la attestazione deve basarsi su documenti autentici, e non può rimanere in vita se basata su atti falsi, quali che siano i soggetti che hanno dato causa alla falsità.
Ne consegue che l'attestazione di qualificazione rilasciata sulla base di falsi documenti va annullata anche se in ipotesi la falsità non sia imputabile all'impresa che ha conseguito l'attestazione.
Tuttavia, è stato anche considerato che la non imputabilità della falsità all'impresa che ha conseguito l'attestazione acquista rilevanza ai fini del rilascio di nuova attestazione, in quanto in caso di falso non imputabile, ai sensi dell'art. 17, lett. m), d.P.R. n. 34 del 2000, sussisterà il requisito di ordine generale di non aver reso false dichiarazioni circa il possesso dei requisiti richiesti per l'ammissione agli appalti e per il conseguimento dell'attestazione di qualificazione.

Come si è esposto in narrativa, l’Autorità appellante concorda in via generale con le statuizioni di principio contenute nel precedente di questo Consiglio di Stato, VI, 24.01.2005, n. 128.
In tale occasione, questo giudice ha considerato che ciò che rileva, al fine dell'annullamento dell'attestazione di qualificazione, è il fatto oggettivo della falsità dei documenti sulla base dei quali essa è stata conseguita, indipendentemente da ogni ricerca in ordine alla imputabilità soggettiva del falso. Invero, la attestazione deve basarsi su documenti autentici, e non può rimanere in vita se basata su atti falsi, quali che siano i soggetti che hanno dato causa alla falsità.
Ne consegue che l'attestazione di qualificazione rilasciata sulla base di falsi documenti va annullata anche se in ipotesi la falsità non sia imputabile all'impresa che ha conseguito l'attestazione.
Tuttavia, è stato anche considerato che la non imputabilità della falsità all'impresa che ha conseguito l'attestazione acquista rilevanza ai fini del rilascio di nuova attestazione, in quanto in caso di falso non imputabile, ai sensi dell'art. 17, lett. m), d.P.R. n. 34 del 2000, sussisterà il requisito di ordine generale di non aver reso false dichiarazioni circa il possesso dei requisiti richiesti per l'ammissione agli appalti e per il conseguimento dell'attestazione di qualificazione.
Le conclusioni cui questa giurisprudenza è giunta in via di principio sono condivise da tutte le parti in causa, le cui opinioni –tuttavia– divergono per ciò che attiene le ricadute in relazione ad ipotesi quale quella all’origine dei fatti di causa.
In particolare, l’Autorità ritiene che in tanto l’impresa la cui attestazione SOA sia stata annullata per profili di falsità possa chiedere l’esenzione dalle ulteriori preclusioni di cui all’articolo 38 del Codice dei contratti pubblici, in quanto essa dimostri di essere stata nell’impossibilità assoluta ed insuperabile di avvedersi della falsità dei documenti che hanno condotto all’annullamento dell’attestazione.
In definitiva, l’Autorità ritiene che gravi sull’impresa la prova liberatoria circa la non imputabilità dei profili di falsità che hanno condotto all’annullamento della SOA e circa la non imputabilità dell’ignoranza relativa alla sussistenza di tali profili di falsità.
Il Collegio ritiene che la prospettazione dell’Autorità non possa essere condivisa, in quanto:
- è pacifico in atti che l’odierna appellata non avesse in alcun modo dato luogo alla falsità delle dichiarazioni che avevano condotto al rilascio della prima SOA (quella che la stessa appellata aveva sua sponte restituito);
- è altresì pacifico che la seconda attestazione SOA (quella della cui revoca nella presente sede si discute) era stata conseguita dalla società DFM Costruzioni sulla base di titoli autonomi, i quali nulla avevano in comune con i titoli posti a fondamento della prima attestazione (ossia, con i titoli di cui era stata dichiarata la falsità);
- anche a voler condividere la ricostruzione sistematica proposta dall’Autorità in ordine al particolare onere di diligenza che grava sul soggetto il quale si avvantaggi di un’attestazione SOA (e, in via mediata, delle dichiarazioni che ne costituiscono il presupposto), non si giunge a conclusioni diverse rispetto a quelle appena delineate. E infatti, all’atto dell’acquisizione del ramo di azienda, l’odierna appellata aveva ogni ragione per ritenere –in perfetta buona fede– che i titoli in base ai quali la sua dante causa aveva ottenuto il rilascio dell’attestazione fossero stati correttamente esaminati dal soggetto a tanto istituzionalmente deputato (la società organismo di attestazione).
Si ritiene al riguardo che, in ipotesi quale quella all’origine dei fatti di causa, sarebbe obiettivamente eccessivo richiedere in capo all’avente causa un onere di diligenza talmente rigoroso da porre in dubbio la correttezza delle attestazioni rese da un operatore particolarmente qualificato e –fino a prova contraria– attendibile.
Infatti, pur dovendosi ritenere che in tema di qualificazione delle imprese vadano richiamati in tutta la loro portata i princìpi generali di responsabilità e di diligenza degli operatori economici, deve comunque ragionevolmente ritenersi che un tale richiamo operi in massimo grado soltanto in relazione ai fatti e alle circostanze che sono nella diretta conoscenza e disponibilità dell’impresa. Al contrario, nelle ipotesi in cui tali fatti e circostanze risultino solo indiretti e de relato, può certamente considerarsi conforme ai canoni della diligenza in concreto esigibile in capo all’operatore economico il fatto che quest’ultimo abbia fatto affidamento sulla correttezza ed attendibilità dell’operato di un soggetto particolarmente qualificato come la SOA (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.05.2012 n. 2997 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Si tratta di disposizione di carattere processuale, come tale idonea a dispiegare effetti anche in relazione a vicende anteriori alla sua entrata in vigore.

Quanto al primo aspetto, si osserva che osta all’accoglimento della tesi dell’appellante l’articolo 21-octies, comma 2, della l. 07.08.1990, n. 241, come introdotto dall’articolo 14 della l. 11.02.2005, n. 15, a tenore del quale “il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. Si tratta di disposizione di carattere processuale, come tale idonea a dispiegare effetti anche in relazione a vicende anteriori alla sua entrata in vigore (es. Cons. Stato, VI, 07.06.2011, n. 3416; id., VI, 18.02.2011, n. 1040).
Ebbene, per le ragioni sin qui richiamate, è dimostrato anche nella presente sede giurisdizionale che l’opera non avrebbe comunque potuto essere assentita (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.05.2012 n. 2996 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Quando il provvedimento amministrativo incide in modo diretto, immediato e concreto sulla posizione giuridica di un soggetto, comprimendogli o disconoscendogli diritti o altre utilità di cui questi è titolare, il termine per chiederne l'annullamento decorre dalla sua conoscenza che, in difetto di formale comunicazione, si concretizza nel momento della piena percezione dei suoi contenuti essenziali (autorità emanante, contenuto del dispositivo ed effetto lesivo), senza che sia necessaria la compiuta conoscenza della motivazione, che è rilevante solo ai fini della successiva proposizione dei motivi aggiunti, nulla innovando, sul punto, l'obbligo di consentire agli interessati l'accesso alla documentazione, al cui ritardato adempimento l'ordinamento soccorre con la possibilità, accordata all'interessato, di proporre motivi aggiunti e, con gli stessi, anche di introdurre l'impugnazione di atti e provvedimenti ulteriori rispetto a quelli originariamente impugnati con il ricorso principale.
Come è noto, ai sensi dell’articolo 29 c.p.a., l’azione di annullamento per violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere si propone nel termine di decadenza di sessanta giorni. L’articolo 41, comma 2, c.p.a. precisa che qualora sia proposta azione di annullamento il ricorso deve essere notificato, a pena di decadenza, alla pubblica amministrazione che ha emesso l’atto impugnato e ad almeno uno dei controinteressati che sia individuato nell’atto stesso entro il termine previsto dalla legge, decorrente dalla notificazione, comunicazione o piena conoscenza, ovvero, per gli atti di cui non sia richiesta la notificazione individuale, dal giorno in cui sia scaduto il termine della pubblicazione se questa sia prevista dalla legge o in base alla legge.
Le norme in questione -non innovative sul punto rispetto alla previgente disciplina applicabile nell’odierno giudizio- non sempre sono state interpretate univocamente dalla giurisprudenza.
Per un primo orientamento la piena conoscenza del provvedimento amministrativo presuppone la conoscenza del contenuto essenziale dell'atto, non potendo il termine per l' impugnazione decorrere dalla semplice conoscenza del suo contenuto dispositivo sfavorevole, ma occorrendo anche la consapevolezza dei vizi da cui eventualmente l'atto è affetto, raggiunta mediante la valutazione della motivazione (Cons. St., V, 16.09.2011 n. 5191).
Per altro orientamento sarebbe preferibile la «…tesi mediana per cui in via di principio, la piena conoscenza dell'atto censurato si concretizza con la cognizione degli elementi essenziali quali l'autorità emanante, l'oggetto, il contenuto dispositivo ed il suo effetto lesivo, perché tali elementi sono sufficienti a rendere il legittimato all'impugnativa consapevole dell'incidenza dell'atto nella sua sfera giuridica e a dargli la concreta possibilità di rendersi conto della lesività del provvedimento, senza che sia necessaria la compiuta conoscenza della motivazione e degli atti del procedimento, che può rilevare solo ai fini della proposizione dei motivi aggiunti (Cons. Stato, IV, 26.01.2010 n. 292). Detti elementi essenziali devono essere tuttavia tali da consentire all'interessato di poter valutare se l'atto è illegittimo o meno e, in difetto, si deve ritenere che il destinatario abbia una mera facoltà, non un onere, di impugnare subito l'atto per poi proporre i motivi aggiunti, ben potendo attendere di conoscere la motivazione dell'atto per poter, una volta avuta completa conoscenza del contenuto dell'atto, quindi dell'effetto lesivo dello stesso, valutare se impugnarlo o meno (ex multis, Cons. Stato, VI, 08.02.2007 n. 522). Ciò in quanto, ai sensi dell'art. 3 l. 07.08.1990, n. 241, la motivazione è obbligatoria, sicché la mera notizia che esiste un provvedimento non può essere equiparata alla piena conoscenza del provvedimento medesimo. Di conseguenza, la piena conoscenza del provvedimento presuppone la conoscenza del contenuto essenziale dell'atto, non potendo il termine per l'impugnazione decorrere dalla semplice conoscenza del suo contenuto dispositivo sfavorevole, ma occorrendo anche la consapevolezza dei vizi da cui eventualmente l'atto è affetto, conseguita attraverso la valutazione della motivazione (Cons. Stato, V, 04.01.2011, n. 8)…» (Cons. St., VI, 31.03.2011 n. 2006).
Per un terzo orientamento –maggiormente consolidato nella giurisprudenza del Consiglio di Stato– quando il provvedimento amministrativo incide in modo diretto, immediato e concreto sulla posizione giuridica di un soggetto, comprimendogli o disconoscendogli diritti o altre utilità di cui questi è titolare, il termine per chiederne l'annullamento decorre dalla sua conoscenza che, in difetto di formale comunicazione, si concretizza nel momento della piena percezione dei suoi contenuti essenziali (autorità emanante, contenuto del dispositivo ed effetto lesivo), senza che sia necessaria la compiuta conoscenza della motivazione, che è rilevante solo ai fini della successiva proposizione dei motivi aggiunti, nulla innovando, sul punto, l'obbligo di consentire agli interessati l'accesso alla documentazione, al cui ritardato adempimento l'ordinamento soccorre con la possibilità, accordata all'interessato, di proporre motivi aggiunti e, con gli stessi, anche di introdurre l'impugnazione di atti e provvedimenti ulteriori rispetto a quelli originariamente impugnati con il ricorso principale (Cons. St., IV, 02.09.2011, n. 4973).
A giudizio della sezione merita condivisione il terzo orientamento perché, senza compromettere le ragioni di tutela dell’interessato (che potranno essere fatte valere con eventuali motivi aggiunti), appare maggiormente rispettoso anche del principio di certezza dei rapporti giuridici (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 23.05.2012 n. 2993 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La decadenza del vincolo preordinato all'espropriazione comporta tuttavia la necessità di fornire una congrua motivazione, oltreché in ordine alla persistenza delle ragioni di interesse pubblico che sorreggono la predetta reiterazione, anche circa la necessità che in sede motivazionale l'autorità amministrativa dimostri di aver provveduto ad una ponderata valutazione degli interessi coinvolti, dando atto della prevalenza di quelli collettivi sull'interesse del privato proprietario del bene, ciò che è invece mancato nel caso di specie, così come non è stata fornita alcuna valida spiegazione circa le ragioni del ritardo dell’attuazione del vincolo oggetto di reiterazione.
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Le scelte urbanistiche costituiscono valutazioni di merito sottratte al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo che inficiate da errori di fatto o abnormi illogicità o, quanto alla destinazione di specifiche aree, se confliggenti con particolari situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e aspettative qualificate.
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La mancata contestuale previsione dell’indennizzo non determina l'illegittimità del provvedimento di reiterazione del vincolo espropriativo, fermo restando il diritto ad ottenere, in presenza dei relativi presupposti e dinanzi al giudice fornito in merito di giurisdizione, un'indennità commisurata all'entità del danno effettivamente prodotto.
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L'amministrazione comunale, allorquando dispone la reiterazione dei vincoli decaduti, è tenuta ad indicare le concrete iniziative assunte o di prossima attuazione per soddisfarlo, provvedendo all'accantonamento delle somme necessarie per il pagamento dell'indennità di espropriazione
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Nel caso di domanda volta alla condanna del comune resistente al risarcimento del danno patito in conseguenza dell'illegittima reiterazione de vincoli urbanistici scaduti che ha determinato l'impossibilità per i ricorrenti di utilizzare il suolo di proprietà, non viene in considerazione il diritto soggettivo di proprietà, bensì il c.d. jus aedificandi che, a fronte del potere autoritativo spettante nella materia urbanistico-edilizia alla p.a., ha consistenza di mero interesse legittimo di tipo pretensivo, la cui lesione può portare ad una pronuncia risarcitoria, ai sensi dell'art. 2043 del codice civile, soltanto ove sia possibile al giudice accertare, con un giudizio prognostico da condurre in riferimento alla normativa di settore, che l'attività illegittima della p.a. abbia determinato anche la sostanziale lesione dell'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo effettivamente si collega.
La decadenza del vincolo preordinato all'espropriazione comporta tuttavia la necessità di fornire una congrua motivazione, oltreché in ordine alla persistenza delle ragioni di interesse pubblico che sorreggono la predetta reiterazione, anche circa la necessità che in sede motivazionale l'autorità amministrativa dimostri di aver provveduto ad una ponderata valutazione degli interessi coinvolti (C.S. Sez. IV 16.09.2011 n. 5216), dando atto della prevalenza di quelli collettivi sull'interesse del privato proprietario del bene (TAR Sicilia, Catania, Sez. I 15.09.2009 n. 1508), ciò che è invece mancato nel caso di specie, così come non è stata fornita alcuna valida spiegazione circa le ragioni del ritardo dell’attuazione del vincolo oggetto di reiterazione (TAR Marche Sez. I 28.12.2009 n. 1467).
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Con il secondo motivo la ricorrente lamenta che “il Comune avrebbe dovuto prendere in considerazione” le proposte dalla stessa presentate, con ciò contestando nel merito le scelte urbanistiche contenute negli atti impugnati.
Il motivo è infondato, dato che le scelte urbanistiche costituiscono valutazioni di merito sottratte al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo che inficiate da errori di fatto o abnormi illogicità o, quanto alla destinazione di specifiche aree, se confliggenti con particolari situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e aspettative qualificate (C.S. Sez. IV 27.01.2012 n. 425), non riscontrabili nel caso di specie.
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Con il quarto motivo si deduce la mancata previsione dell’indennizzo a favore della ricorrente, dovuto in considerazione della reiterazione del vincolo.
Il motivo è infondato dato che la mancata contestuale previsione dell’indennizzo non determina l'illegittimità del provvedimento di reiterazione del vincolo espropriativo (TAR Piemonte, Sez. I 03.05.2010 n. 2286), fermo restando il diritto ad ottenere, in presenza dei relativi presupposti e dinanzi al giudice fornito in merito di giurisdizione, un'indennità commisurata all'entità del danno effettivamente prodotto (TAR Sicilia, Catania, Sez. I 13.04.2010 n. 1086).
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Con il quinto motivo si lamenta la mancanza di una relazione di previsione di massima delle spese occorrenti per l’acquisizione delle aree e per le sistemazioni generali necessarie all’attuazione del piano.
Il motivo è fondato, dato che l'amministrazione comunale, allorquando dispone la reiterazione dei vincoli decaduti, è tenuta ad indicare le concrete iniziative assunte o di prossima attuazione per soddisfarlo, provvedendo all'accantonamento delle somme necessarie per il pagamento dell'indennità di espropriazione (C.S. Sez. IV 09.08.2005 n. 4225).
Il ricorso va pertanto accolto.
La ricorrente formula altresì domanda di risarcimento del danno, lamentando l’impossibilità di utilizzare l’area de quo dal punto di vista edificatorio, ciò che comporterebbe anche la riduzione del suo valore commerciale.
Nel caso di domanda volta alla condanna del comune resistente al risarcimento del danno patito in conseguenza dell'illegittima reiterazione de vincoli urbanistici scaduti che ha determinato l'impossibilità per i ricorrenti di utilizzare il suolo di proprietà, non viene in considerazione il diritto soggettivo di proprietà, bensì il c.d. jus aedificandi che, a fronte del potere autoritativo spettante nella materia urbanistico-edilizia alla p.a., ha consistenza di mero interesse legittimo di tipo pretensivo, la cui lesione può portare ad una pronuncia risarcitoria, ai sensi dell'art. 2043 del codice civile, soltanto ove sia possibile al giudice accertare, con un giudizio prognostico da condurre in riferimento alla normativa di settore, che l'attività illegittima della p.a. abbia determinato anche la sostanziale lesione dell'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo effettivamente si collega (TAR Puglia, Lecce, Sez. I, 22.11.2005 n. 5229) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 23.05.2012 n. 1403 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In base all’art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. 12.04.2006 n. 163, introdotto dall’art. 4, comma 2, lett. d), del d.l. 13.05.2011, n. 70, le stazioni appaltanti possono inserire nei propri atti di gara solo due tipologie di clausole escludenti:
a) clausole che riproducono obblighi previsti dal codice appalti o da altre disposizioni normative;
b) clausole che non riproducono obblighi previsti dal codice appalti o da altre fonti normative ma funzionali ad evitare incertezze sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, ad assicurane la completezza contenutistica, ovvero ad assicurarne la segretezza.
Dunque, l’obbligo (del bando di gara) di inserire la copia della carta d’identità del firmatario nella busta contenente l’offerta tecnica non è ascrivibile ad una delle due categorie sopra illustrate.
Invero:
in primo luogo, nessuna disposizione normativa impone di allegare la carta d’identità agli atti aventi natura di proposta contrattuale, quali sono le offerte tecniche ed economiche proposte dai concorrenti che partecipano alle gare pubbliche. Siffatto obbligo, in base all’art. 38, comma 3, del d.P.R. 28.12.2000 n. 445, è difatti previsto solo per le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà e per le istanze rivolte all’amministrazione (stabilisce tale norma che “le istanze e le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà da produrre agli organi della amministrazione pubblica o ai gestori o esercenti di pubblici servizi sono sottoscritte dall'interessato (…) e presentate unitamente a copia fotostatica non autenticata di un documento di identità del sottoscrittore”).
in secondo luogo, non può ritenersi che la mancata introduzione della copia della carta d’identità del firmatario nella busta contenente l’offerta tecnica determini incertezza assoluta sulla provenienza dell’offerta stessa. Ciò in quanto la busta che contiene l’offerta tecnica è contenuta nell’unica busta contenente a sua volta anche quella in cui è inserita l’istanza di partecipazione alla gara, la quale sì deve essere corredata, in base al citato art. 38, comma 3, del d.P.R. n. 445/2000, della copia della carta d’identità del firmatario. La funzione di garanzia della certezza sulla provenienza dell’offerta è dunque assicurata da questa formalità; sicché ogni altra prescrizione in tal senso si rivela inutile e, di conseguenza, contraria alle disposizioni di cui al citato art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006.
Pertanto, la clausola contenuta negli atti di gara che impone la prescrizione avversata è dunque da considerarsi nulla ai sensi del ridetto art. 46, comma 1-bis.

In base all’art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. 12.04.2006 n. 163, introdotto dall’art. 4, comma 2, lett. d), del decreto legge 13.05.2011, n. 70, “La stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte; i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione. Dette prescrizioni sono comunque nulle”.
Per quel che interessa ai fini della soluzione della presente controversia occorre notare che, in base alla citata norma, le stazioni appaltanti possono inserire nei propri atti di gara solo due tipologie di clausole escludenti:
a) clausole che riproducono obblighi previsti dal codice appalti o da altre disposizioni normative;
b) clausole che non riproducono obblighi previsti dal codice appalti o da altre fonti normative ma funzionali ad evitare incertezze sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, ad assicurane la completezza contenutistica, ovvero ad assicurarne la segretezza.
Occorre dunque verificare se l’obbligo di inserire la copia della carta d’identità del firmatario nella busta contenente l’offerta tecnica sia ascrivibile ad una delle due categorie sopra illustrate.
Ritiene il Collegio che la risposta da dare al quesito sia negativa.
In primo luogo, nessuna disposizione normativa impone di allegare la carta d’identità agli atti aventi natura di proposta contrattuale, quali sono le offerte tecniche ed economiche proposte dai concorrenti che partecipano alle gare pubbliche (cfr., TAR Lombardia Brescia, sez. II, 26.03.2012 n. 530). Siffatto obbligo, in base all’art. 38, comma 3, del d.P.R. 28.12.2000 n. 445, è difatti previsto solo per le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà e per le istanze rivolte all’amministrazione (stabilisce tale norma che “le istanze e le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà da produrre agli organi della amministrazione pubblica o ai gestori o esercenti di pubblici servizi sono sottoscritte dall'interessato (…) e presentate unitamente a copia fotostatica non autenticata di un documento di identità del sottoscrittore”).
In secondo luogo, non può ritenersi che la mancata introduzione della copia della carta d’identità del firmatario nella busta contenente l’offerta tecnica determini incertezza assoluta sulla provenienza dell’offerta stessa. Ciò in quanto la busta che contiene l’offerta tecnica è contenuta nell’unica busta contenente a sua volta anche quella in cui è inserita l’istanza di partecipazione alla gara, la quale sì deve essere corredata, in base al citato art. 38, comma 3, del d.P.R. n. 445/2000, della copia della carta d’identità del firmatario. La funzione di garanzia della certezza sulla provenienza dell’offerta è dunque assicurata da questa formalità; sicché ogni altra prescrizione in tal senso si rivela inutile e, di conseguenza, contraria alle disposizioni di cui al citato art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006.
La clausola contenuta negli atti di gara che impone la prescrizione avversata è dunque da considerarsi nulla ai sensi del ridetto art. 46, comma 1-bis; e pertanto l’esclusione della ricorrente, disposta in applicazione di essa, va considerata illegittima (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 23.05.2012 n. 1397 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La destinazione a verde pubblico (così come, ad esempio, ad attrezzature ricreative o sportive), data dal piano regolatore ad aree di proprietà privata, non comporta l'imposizione sulle stesse di un vincolo espropriativo, ma solo di un vincolo conformativo, che è funzionale all'interesse pubblico generale conseguente alla zonizzazione, effettuata dallo strumento urbanistico, che definisce i caratteri generali dell'edificabilità in ciascuna delle zone in cui è suddiviso il territorio comunale.
Secondo la giurisprudenza, la destinazione a verde pubblico (così come, ad esempio, ad attrezzature ricreative o sportive), data dal piano regolatore ad aree di proprietà privata, non comporta l'imposizione sulle stesse di un vincolo espropriativo, ma solo di un vincolo conformativo, che è funzionale all'interesse pubblico generale conseguente alla zonizzazione, effettuata dallo strumento urbanistico, che definisce i caratteri generali dell'edificabilità in ciascuna delle zone in cui è suddiviso il territorio comunale (per tutte: Consiglio di Stato, Sez. IV, 19.01.2012 n. 244; 03.12.2010 n. 8531; TAR Puglia, Bari, Sez. III, 04.11.2004 n. 5093) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 23.05.2012 n. 1006 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Dev’escludersi l’illegittimità del provvedimento amministrativo, fondato su una pluralità di autonomi motivi, quando ne esista almeno uno idoneo a sostenere l'atto stesso.
Al proposito occorre ricordare -perché utile nell'esame della fattispecie- che la giurisprudenza ha costantemente affermato il principio secondo cui dev’escludersi l’illegittimità del provvedimento amministrativo, fondato su una pluralità di autonomi motivi, quando ne esista almeno uno idoneo a sostenere l'atto stesso (Cons. Stato, Sez. IV, 26.01.1998, n. 69; 29.01.1998, n. 102; 30.05.2005, n. 2767; 26.04.2006, n. 2307; 10.12.2007, n. 6325; V Sez., 04.11.1997, n. 1230; 20.12.2002, n. 7251; 27.09.2004 n. 6301; 18.01.2006, n. 110; 28.12.2007, n. 6732; VI Sez., 03.11.1997, n. 1569; 19.08.2009, n. 4975; 17.09.2009, n. 5544; 05.07.2010 n. 4243) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 23.05.2012 n. 999 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La costituzione su una strada privata di una servitù di uso pubblico può avvenire, alternativamente, a mezzo della cd. dicatio ad patriam -costituita dal comportamento del proprietario di un bene che metta spontaneamente ed in modo univoco il bene a disposizione di una collettività indeterminata di cittadini, producendo l'effetto istantaneo della costituzione della servitù di uso pubblico-, ovvero attraverso l'uso del bene da parte della collettività indifferenziata dei cittadini, protratto per il tempo necessario all'usucapione”.
L'accertamento in ordine alla natura pubblica di una strada presuppone necessariamente l'esistenza di un atto o di un fatto in base al quale la proprietà del suolo su cui essa sorge sia di proprietà di un ente pubblico territoriale, ovvero che a favore del medesimo ente sia stata costituita una servitù di uso pubblico, e che la stessa sia destinata all'uso pubblico con una manifestazione di volontà espressa o tacita dell'ente medesimo, senza che sia sufficiente a tal fine l'esplicarsi di fatto del transito del pubblico, né la mera previsione programmatica della sua destinazione a strada pubblica, o l'intervento di atti di riconoscimento da parte dell'amministrazione medesima circa la funzione da essa assolta.

Come risulta dalla giurisprudenza costante, “la costituzione su una strada privata di una servitù di uso pubblico può avvenire, alternativamente, a mezzo della cd. dicatio ad patriam -costituita dal comportamento del proprietario di un bene che metta spontaneamente ed in modo univoco il bene a disposizione di una collettività indeterminata di cittadini, producendo l'effetto istantaneo della costituzione della servitù di uso pubblico-, ovvero attraverso l'uso del bene da parte della collettività indifferenziata dei cittadini, protratto per il tempo necessario all'usucapione”.
Simmetricamente, secondo gli insegnamenti della giurisprudenza civile …, l'accertamento in ordine alla natura pubblica di una strada presuppone necessariamente l'esistenza di un atto o di un fatto in base al quale la proprietà del suolo su cui essa sorge sia di proprietà di un ente pubblico territoriale, ovvero che a favore del medesimo ente sia stata costituita una servitù di uso pubblico, e che la stessa sia destinata all'uso pubblico con una manifestazione di volontà espressa o tacita dell'ente medesimo, senza che sia sufficiente a tal fine l'esplicarsi di fatto del transito del pubblico, né la mera previsione programmatica della sua destinazione a strada pubblica, o l'intervento di atti di riconoscimento da parte dell'amministrazione medesima circa la funzione da essa assolta (Cassazione civile, sez. II, 07.04.2006 , n. 8204)” (Cons. Stato, sez. V, 28.06.2011, n. 3868) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 21.05.2012 n. 1384 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'avviso di avvio del procedimento non è dovuto nel caso di procedimento volto all'irrogazione della sanzione della demolizione edilizia, ragione del carattere doveroso e del contenuto vincolato di tale atto.
Invero, non viene in rilievo alcuna discrezionalità da parte dell’Amministrazione, in quanto si è in presenza di provvedimenti tipizzato e vincolato, che presuppone un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime.
In altri termini, rispetto alla natura vincolata del provvedimento finale, la partecipazione procedimentale dell'interessato non può arrecare alcun apporto utile.
Nelle ipotesi in cui l’ordinanza di demolizione sia stata preceduta da quella di sospensione dei lavori, la giurisprudenza ritiene che il provvedimento di sospensione dei lavori adempia anche alla funzione di comunicazione di avvio del procedimento, essendo da questa ragionevolmente e agevolmente intuibile l'intendimento del competente ufficio dell'Ente locale di voler porre in essere i conseguenti atti per sanzionare l'abuso edilizio, stante la doverosità di essi per l'Autorità comunale.
La previsione di un termine per l'esecuzione della demolizione, congiunta alla facoltà di presentare istanza di accertamento di conformità, assicura comunque una forma equivalente di tutela procedimentale ad istanze partecipative
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Gli illeciti in materia urbanistica, edilizia e paesistica, ove consistano nella realizzazione di opere senza le prescritte concessioni e autorizzazioni, hanno carattere di illeciti permanenti, che si protraggono nel tempo e vengono meno solo con il cessare della situazione di illiceità, vale a dire con il conseguimento delle prescritte autorizzazioni, pertanto il potere amministrativo repressivo può essere esercitato senza limiti di tempo e senza necessità di motivazione in ordine al ritardo nell'esercizio del potere.
In altri termini, l'Autorità non emana un atto "a distanza di tempo" dall'abuso, ma reprime una situazione antigiuridica ancora sussistente.
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L'assegnazione di un termine inferiore a 90 giorni per l'ottemperanza all'ordine di demolizione è inidonea a determinarne l'illegittimità, risolvendosi in una violazione meramente formale non lesiva per l'interessato, il quale conserva comunque un termine non inferiore a quello di legge per ottemperare all'ingiunzione.
Nel mentre la mancata indicazione nell'ordine di demolizione dell'area da acquisire, per giurisprudenza pacifica, costituisce una mera irregolarità, visto che l'esatta determinazione dovrà effettuarsi dopo l'accertamento dell'inottemperanza effettuato dal Comune, posto che siffatta specificazione è elemento essenziale del distinto provvedimento con cui l'Amministrazione accerta la mancata ottemperanza alla demolizione da parte dell'ingiunto.

Con riguardo al primo motivo di doglianza, va rilevato che la giurisprudenza prevalente afferma che l'avviso di avvio del procedimento non è dovuto nel caso di procedimento volto all'irrogazione della sanzione della demolizione edilizia, ragione del carattere doveroso e del contenuto vincolato di tale atto (cfr. Cons. St., Sez. IV, 26.09.2008 n. 4659, TAR Napoli, sez. VII, 13.10.2009 n. 5411, TAR BS, Sez. I, 11.01.2010 n. 6), tanto più in considerazione della conseguenziale sua intangibilità ai sensi dell'art. 21-octies L. 241/1990 introdotta dalla L. n. 15 del 2005 (cfr. Cons. St., Sez. IV, 10.04.2009 n. 2227, Sez. V, 19.09.2008 n. 4530, TAR Piemonte 16.03.2009 n. 752).
Invero, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, non viene in rilievo alcuna discrezionalità da parte dell’Amministrazione, in quanto si è in presenza di provvedimenti tipizzato e vincolato, che presuppone un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime (cfr. TAR Campania sez. IV, 08.03.2012 n. 1183).
In altri termini, rispetto alla natura vincolata del provvedimento finale, la partecipazione procedimentale dell'interessato non può arrecare alcun apporto utile.
Peraltro, va soggiunto che la censura non sarebbe comunque accoglibile, quand’anche dovesse aderirsi al minoritario indirizzo che ritiene necessaria anche in tema edilizia la comunicazione di avvio del procedimento. Infatti, nelle ipotesi in cui –come è avvenuto nella fattispecie- l’ordinanza di demolizione sia stata preceduta da quella di sospensione dei lavori, la giurisprudenza ritiene che il provvedimento di sospensione dei lavori adempia anche alla funzione di comunicazione di avvio del procedimento, essendo da questa ragionevolmente e agevolmente intuibile l'intendimento del competente ufficio dell'Ente locale di voler porre in essere i conseguenti atti per sanzionare l'abuso edilizio, stante la doverosità di essi per l'Autorità comunale (cfr. TAR Sardegna, Sez. II, 03.09.2008 n. 1738).
Per altro verso, è stato osservato che la previsione di un termine per l'esecuzione della demolizione, congiunta alla facoltà di presentare istanza di accertamento di conformità, assicura comunque una forma equivalente di tutela procedimentale ad istanze partecipative (cfr. Cons. St., Sez. IV, 23.01.2012 n. 282).
Con il secondo motivo viene sostenuto che il lungo lasso di tempo decorso dalla commissione dell’abuso e il protrarsi dell’inerzia dell’Amministrazione avrebbero generato in capo al privato una posizione di affidamento, con onere di una specifica motivazione al riguardo.
La doglianza va disattesa.
Gli illeciti in materia urbanistica, edilizia e paesistica, ove consistano nella realizzazione di opere senza le prescritte concessioni e autorizzazioni, hanno carattere di illeciti permanenti, che si protraggono nel tempo e vengono meno solo con il cessare della situazione di illiceità, vale a dire con il conseguimento delle prescritte autorizzazioni, pertanto il potere amministrativo repressivo può essere esercitato senza limiti di tempo e senza necessità di motivazione in ordine al ritardo nell'esercizio del potere. In altri termini, l'Autorità non emana un atto "a distanza di tempo" dall'abuso, ma reprime una situazione antigiuridica ancora sussistente (cfr. Cons. St., Sez. IV, 16.04.2010 n. 2160; TAR BS Sez. I, 29.12.2010 n. 4986).
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Con il terzo motivo si prospetta la violazione dell’art. 31 del T.U. dell’edilizia n. 380/2001, essendo stato fissato un termine per adempiere alla demolizione di sessanta giorni, inferiore a quello di novanta giorni stabilito dalla norma, e non essendo stata individuata la superficie che dovrebbe essere acquisita di diritto, in caso di difetto di demolizione.
La censura non risulta fondata.
Infatti, per un verso, l'assegnazione di un termine inferiore a novanta giorni per l'ottemperanza all'ordine di demolizione è inidonea a determinarne l'illegittimità, risolvendosi in una violazione meramente formale non lesiva per l'interessato, il quale conserva comunque un termine non inferiore a quello di legge per ottemperare all'ingiunzione (cfr. Cons. St., Sez. VI, 08.07.2011 n. 4102; Sez. V, 24.02.2003 n. 986); nel mentre la mancata indicazione nell'ordine di demolizione dell'area da acquisire, per giurisprudenza pacifica, costituisce una mera irregolarità, visto che l'esatta determinazione dovrà effettuarsi dopo l'accertamento dell'inottemperanza effettuato dal Comune (cfr. TAR Campania, Sez. VII 10.06.2011 n. 3076), posto che siffatta specificazione è elemento essenziale del distinto provvedimento con cui l'Amministrazione accerta la mancata ottemperanza alla demolizione da parte dell'ingiunto (cfr. TAR Lecce, Sez. III, 15.12.2011 n. 2172) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 21.05.2012 n. 848 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per quanto riguarda l’asserito carattere pertinenziale di una tettoia, va ricordato che:
- la regola dell'assoggettamento al previo rilascio del permesso di costruire di ogni attività comportante la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio non riguarda la sola attività di edificazione, ma tutti i manufatti che modificano in modo apprezzabile il precedente assetto territoriale producendo alterazione con rilievo ambientale, estetico o anche solo funzionale, ovvero consistenti in una modificazione dello stato materiale e della configurazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli è proprio in relazione alla sua condizione naturale e alla sua qualificazione giuridica;
- ai fini urbanistici, la strumentalità propria della nozione civilistica di pertinenza prescinde dalla destinazione soggettivamente data dal proprietario, non potendosi in specie ritenere beni pertinenziali quegli interventi edilizi che, pur legati da un vincolo di servizio al bene principale, tuttavia non sono coessenziali ma ulteriori ad esso, in quanto per un verso suscettibili di utilizzo autonomo e, per altro verso, tali da occupare aree e volumi diversi;
- in tali casi l'impatto volumetrico dell'intervento, incidendo in modo permanente e non precario sull'assetto edilizio del territorio, giustifica la necessità del permesso di costruire, con conseguente applicabilità del regime demolitorio.

Per quanto riguarda l’asserito carattere pertinenziale di una tettoia, va ricordato che:
- la regola dell'assoggettamento al previo rilascio del permesso di costruire di ogni attività comportante la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio non riguarda la sola attività di edificazione, ma tutti i manufatti che modificano in modo apprezzabile il precedente assetto territoriale producendo alterazione con rilievo ambientale, estetico o anche solo funzionale, ovvero consistenti in una modificazione dello stato materiale e della configurazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli è proprio in relazione alla sua condizione naturale e alla sua qualificazione giuridica;
- ai fini urbanistici, la strumentalità propria della nozione civilistica di pertinenza prescinde dalla destinazione soggettivamente data dal proprietario, non potendosi in specie ritenere beni pertinenziali quegli interventi edilizi che, pur legati da un vincolo di servizio al bene principale, tuttavia non sono coessenziali ma ulteriori ad esso, in quanto per un verso suscettibili di utilizzo autonomo e, per altro verso, tali da occupare aree e volumi diversi;
- in tali casi l'impatto volumetrico dell'intervento, incidendo in modo permanente e non precario sull'assetto edilizio del territorio, giustifica la necessità del permesso di costruire, con conseguente applicabilità del regime demolitorio (cfr. Cons. St. Sez. IV, 13.10.2010 n. 7481; Tar Campania, VI, 07.09.2009 n. 4899; Tar Basilicata, 29.11.2008, n. 915) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 21.05.2012 n. 848 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Impresa gestione rifiuti: anche il responsabile tecnico deve presentare requisiti di moralità.
Per confutare la tesi dell’appellante sulla affermata non necessità della dichiarazione ex art. 38/b) del d.lgs. n. 163 del 2006 da parte del responsabile tecnico della impresa che effettua la gestione dei rifiuti, tesi che prende le mosse da una asserita “ontologica differenza” tra la figura del direttore tecnico e quella del responsabile tecnico, il Collegio non ha che da richiamare, in modo conciso, ai sensi degli articoli 60, 74 e 88, comma 2, lett. d) c. p. a. , numerosi precedenti di questa Sezione sull’argomento (si vedano le decisioni nn. 1154 e 83 del 2012, 1790 del 2011 e 3364 del 2010).
Per quanto qui più rileva, il raffronto tra la norma (art. 26 del d.P.R. n. 34 del 2000) che individua i compiti del direttore tecnico in materia di lavori pubblici e la disposizione (art. 10, comma 4, del d. m. 28.04.1998, n. 406) che disciplina la figura e i requisiti del responsabile tecnico delle imprese che fanno richiesta di iscrizione all’albo nazionale delle imprese che effettuano la gestione dei rifiuti è stato eseguito in modo compiuto dalla sezione con la sentenza n. 1790 del 2011, con la quale si è statuito, in conclusione:
-che la figura del responsabile tecnico della impresa di gestione di rifiuti di cui al d. m. n. 406/98 non presenta differenze significative rispetto al direttore tecnico; e
-che gli obblighi di dichiarazione che l’art. 38 del codice dei contratti pubblici correla alla posizione del direttore tecnico sono riferibili anche al responsabile tecnico ex d. m. n. 406/1998 cit. . “Quando la norma di cui all'art. 38 del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 (e quindi anche la “lex specialis” di gara) richiede che lo specifico requisito sia posseduto dal direttore tecnico ha riguardo, quanto alle imprese di servizi, alle figure tipiche di tale categoria, pur nominalmente diverse ma a quella sostanzialmente analoghe perché investite di compiti parimenti analoghi, rilevanti ai fini dell'esecuzione dell'appalto” (così Cons. St., sez. V, n. 83/2012, che questo Collegio condivide) .
Di qui la conclusione che nella specie anche il responsabile tecnico avrebbe dovuto rendere la dichiarazione in questione.
La teoria del cosiddetto “falso innocuo” non può, poi, trovare accoglimento.
La teoria stessa riguarda infatti i casi in cui la “lex specialis” non prevede espressamente la conseguenza dell'esclusione in relazione alla mancata osservanza di puntuali prescrizioni su modalità e oggetto delle dichiarazioni da fornire.
Nel caso in esame, viceversa, il carattere cogente della sanzione espulsiva prevista dal bando di gara (pag. 3) per l’ipotesi di omessa dichiarazione ai sensi dell’art. 38 precludeva l’applicazione della teoria del falso innocuo (a questo proposito v., di recente, Cons. St., sez. V, n. 334/2012; in disparte il rilievo secondo cui l’obbligo di rendere la dichiarazione di moralità professionale promana direttamente da una norma di legge, con conseguente superfluità della mediazione della “lex specialis” di gara).
La nettezza delle conclusioni sopra riportate fa sì che perdano peso i rilievi introduttivi dell’appellante sulla illogicità della sentenza, non potendosi ravvisare, nella decisione resa dal TAR, “atteggiamenti formalistici” (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.05.2012 n. 2820 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sulla possibilità, in materia di contratti della P.A., di non procedere alla aggiudicazione (definitiva o provvisoria) di una gara ma tale potere deve trovare fondamento, in via generale, in specifiche ragioni di pubblico interesse.
E' possibile, in materia di contratti della P.A., non procedere alla aggiudicazione (definitiva o provvisoria) di una gara ma tale potere deve trovare fondamento, in via generale, in specifiche ragioni di pubblico interesse. Occorre quindi che nell'atto dell'amministrazione siano chiaramente indicate (e non risultino manifestamente irragionevoli) le ragioni di pubblico interesse (attuale e concreto) che hanno determinato l'adozione dell'atto di autotutela e che tali ragioni siano prevalenti rispetto agli altri interessi militanti in favore della conservazione degli atti oggetto del provvedimento di revoca.
Ne consegue che, nel caso di specie, l'Azienda non poteva limitarsi ad evocare generiche difficoltà finanziarie per giustificare (dopo l'aggiudicazione provvisoria) l'annullamento/revoca della gara in questione ma doveva anche dimostrare che tali difficoltà erano tali da non consentire nemmeno l'esecuzione dei servizi di gestione e manutenzione oggetto della gara che non appaiono meno importanti di altri servizi che la stessa Azienda comunque assicura ed intende assicurare (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 15.05.2012 n. 2805 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Il controllo dei requisiti di ordine generale è imprescindibile per l'aggiudicazione definitiva di una gara.
L’interessante sentenza del Consiglio di Stato ci permette di inquadrare temporalmente e per categorie i controlli sui requisiti dei concorrenti di cui al D.Lgs. 163/2006. Il riferimento della sentenza è ai controlli sui requisiti di cui all’art. 38 e quelli sui requisiti economici finanziari e tecnico organizzativi di cui all’art. 48.
Principio generale è che i requisiti di ordine generale di cui all’art. 38 debbano esser controllati prima della fase di valutazione delle offerte economiche e ciò per non consentire all’amministrazione di assumere decisioni discrezionali dopo aver conosciuto l’esito della gara a garanzia della par condicio dei concorrenti e per evitare che le stesse decisioni possano essere influenzate dalla precedente conoscenza delle offerte.
I controlli di cui all’art. 48, relativi non ai requisiti generali ma ai requisiti di capacità economica finanziaria e tecnico organizzativi si svolgono solo per procedure di appalto per importi a base di fare inferiori ai 150.000 euro e per le imprese che sono prive di attestazione SOA in via preventiva su un campione di candidati e quando successivi all’aggiudicazione solo sul primo e secondo graduato. Nel caso di specie il disciplinare integrativo del bando di gara prevedeva dopo la verifica in seduta pubblica della correttezza delle offerte e della documentazione , la verifica del 10% dei requisiti di carattere generale dichiarati nella domanda.
A valle di questa verifica, i candidati non in possesso dei documenti prescritti avrebbero dovuto essere esclusi prima dell’apertura delle offerte economiche. Nel caso di specie la commissione di gara aveva proceduto all’individuazione del campione del 10% da sottoporre alla verifica e aveva proceduto all’apertura dei plichi recanti l’offerta economica. Dopo questa fase aveva proceduto alla aggiudicazione provvisoria per poi arrivare a chiedere documentazione al primo classificato e alle imprese sorteggiate.
E’ evidente che le fasi di controllo per come descritte dalla normativa e prescritte dal disciplinare di gara non sono state rispettate. Ciò nonostante i giudici di Palazzo Spada hanno ritenuto che per il principio di conservazione de gli atti giuridici l’operato dell’amministrazione è stato legittimo in quanto, seppure tardivamente, il controllo dei requisiti generali di ammissione andava comunque effettuato. Infatti la commissione di gara non poteva procedere all’aggiudicazione senza aver effettuato la verifica dei Durc e certificati di regolarità con riguardo al pagamento di imposte e tasse di tutte le imprese ammesse a gara (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.05.2012 n. 2746 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive presuppone soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in relazione all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso -che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato- ed alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi.
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A norma delle disposizioni del T.U. Edilizia, sussiste a carico del proprietario dell'immobile una presunzione di responsabilità per gli abusi edilizi accertati, sicché l'interessato può sottrarsi a tale responsabilità solo dimostrando la sua estraneità all'abuso commesso.
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Il responsabile dell'abuso può motivatamente domandare all'Autorità competente di disporre il dissequestro dell'immobile abusivo al fine di eseguire l'ordine di demolizione ed evitare l'adozione di ulteriori provvedimenti sanzionatori
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Rileva, inoltre, il Collegio che l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive presuppone soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in relazione all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso -che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato- ed alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi (cfr. ex multis, TAR Campania, Napoli, IV, 28.12.2009, n. 9638; TAR Campania, Napoli, VI, 09.11.2009, n. 7077; TAR Campania, Napoli, VII, 04.12.2008, n. 20987).
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Va, peraltro, rilevato che secondo il costante orientamento della giurisprudenza, a norma delle disposizioni del T.U. Edilizia, sussiste a carico del proprietario dell'immobile una presunzione di responsabilità per gli abusi edilizi accertati, sicché l'interessato può sottrarsi a tale responsabilità solo dimostrando la sua estraneità all'abuso commesso. Anche sotto tale profilo la sig.ra C., quale proprietaria dell’area sulla quale ricadono le opere abusive, non ha fornito alcuna dimostrazione circa la sua estraneità alla realizzazione degli abusi contestati.
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Deve, infine essere disattesa anche la quinta e ultima censura con la quale i ricorrenti si dolgono del fatto che il provvedimento impugnato sia stato adottato senza considerare che il manufatto abusivo è stato oggetto di un provvedimento di sequestro sin dal 03.02.2007 perché, secondo una consolidata giurisprudenza, condivisa dal Collegio, il responsabile dell'abuso può motivatamente domandare all'Autorità competente di disporre il dissequestro dell'immobile abusivo al fine di eseguire l'ordine di demolizione ed evitare l'adozione di ulteriori provvedimenti sanzionatori (cfr. in termini TAR Campania, Napoli, VII, 01.09.2011, n. 4259; TAR Campania, Napoli, II, 30.10.2006, n. 9243; TAR Campania, Napoli, IV, 04.02.2003, n. 614)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 10.05.2012 n. 2175 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La comunicazione scritta dell'aggiudicazione non può essere surrogata da una mera notizia orale e informale.
La procedura negoziata mediante cottimo fiduciario non può abdicare ai principi fondamentali in materia di aggiudicazione di contratti pubblici.

L'art. 11, c. 10, del d.lgs. n.163 del 2006 (cd. stand still) prevede testualmente che "Il contratto non può comunque essere stipulato prima di trentacinque giorni dall'invio dell'ultima delle comunicazioni del provvedimento di aggiudicazione definitiva ai sensi dell'art. 79". Sia il dato testuale (che fa esplicito riferimento all'invio di una comunicazione) sia il principio generale, secondo cui l'amministrazione, salvo casi eccezionali e tipici, adotta atti formali e scritti, depongono nel senso che la comunicazione scritta dell'aggiudicazione non può essere surrogata da una mera notizia orale e informale.
Ne consegue che, nel caso di specie, appare palesemente violato il disposto di cui all'art. 11, c. 10 cit. (inoltre, atteso che il cd. stand still è riconducibile all'obbligo di trasparenza, richiamato dall'art. 125 del d.lgs. n. 163 del 2006, esso trova applicazione anche nel caso di cottimo fiduciario da tale norma disciplinato).
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La procedura negoziata di cui all'art. 125 del d.lgs. n. 163 del 2006, pur caratterizzata da maggior snellezza e semplicità, non può abdicare ai principi fondamentali in materia di aggiudicazione di contratti pubblici, come si desume dal medesimo articolo, il quale, al c. 2, prevede che "l'affidamento mediante cottimo fiduciario avviene nel rispetto dei principi di trasparenza, rotazione, parità di trattamento".
Inoltre, è evidente che il principio di predeterminazione dei criteri, nel caso di scelta secondo il metodo dell'offerta economicamente più vantaggiosa, enunciato all'art. 83 del d.lgs. n.163 del 2006, è riconducibile a quello di trasparenza e parità di trattamento.
Ne consegue che l'amministrazione, nel caso di specie, avrebbe dovuto predeterminare i criteri in modo adeguato, da un lato, a mettere tutti i concorrenti nella medesima posizione conoscitiva in ordine alle esigenze della stazione appaltante, dall'altro, a vincolare la successiva valutazione alle caratteristiche richieste e predeterminate; ciò, pur senza assegnare in modo rigido un punteggio ad ogni criterio, secondo quanto previsto dall'articolo 83 del d.lgs. n. 163 del 2006, essendo la procedura negoziata, di cui all'art. 125 del medesimo d.lgs., caratterizzata da maggiore semplicità (TAR Molise, sentenza 10.05.2012 n. 205 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Pagare l’ente pubblico per ottenere soluzioni urbanistiche potrebbe configurarsi come eccesso di potere che porta in Procura della Repubblica?
Il TAR Veneto ha ritenuto che l'impegno assunto da una società di versare all'ente pubblico somme non dovute, sia pure per finalità di interesse pubblico, in sede di convenzione finalizzata al rilascio di una autorizzazione paesaggistica "costituisca un motivo di persuasione, affinché il Presidente dell'Ente Parco procedesse al rilascio dell'autorizzazione paesaggistica impugnata, anche a costo di rilasciare un'autorizzazione paesaggistica illegittima".
Di conseguenza, ha ritenuto l'atto illegittimo anche per il vizio di eccesso di potere sotto questo profilo (otre che per altri e diversi profili).
Il TAR ha anche disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica, perché valuti l'esistenza del reato di abuso di ufficio di cui all'art. 323 del codice penale, in considerazione del fatto che il soggetto era consapevole della illegittimità della autorizzazione paesaggistica (TAR Veneto, Sez. III, sentenza 09.05.2012 n. 651 - link a http://venetoius.myblog.it).

PUBBLICO IMPIEGODemansionare un vigile può costare caro al comune.
Il comune che intende spostare un agente da un ufficio operativo a un altro impiego amministrativo revocandogli pure l'assegnazione dell'arma deve attivarsi in conformità alla legge 241/1990 e documentare adeguatamente le proprie determinazioni. Diversamente ogni decisione potrà essere facilmente annullata dai giudici che potranno pure condannare l'amministrazione al pagamento delle spese.
Lo ha evidenziato il TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II con la sentenza 07.05.2012 n. 292.
Il trasferimento forzato ad altro impiego di un operatore di polizia municipale è un fatto frequente e poco invasivo del decoro e del prestigio dell'agente. Cosa diversa è invece la revoca dell'assegnazione dell'arma. Questa determinazione in genere viene adottata a fronte di giustificati motivi che incidono sulle stesse capacità psico-fisiche dell'operatore. Viene invece letta, correntemente, come una sorta di punizione in tutti gli altri casi, specialmente se tutti gli operatori del comando sono assegnatari di arma per difesa personale. Nel caso esaminato dal collegio un agente titolare della qualifica di pubblica sicurezza è stato disarmato e trasferito ad altro ufficio con due specifiche determinazioni, senza alcuna comunicazione preventiva.
Alla base di queste decisioni, a parere dell'amministrazione, una vecchia condanna penale subita dal ricorrente il 22/10/1992, ancor prima dell'assunzione in servizio. Contro queste disposizioni l'interessato ha quindi proposto ricorso al Tar ottenendo soddisfazione. Innanzitutto trattandosi di un provvedimento discrezionale «lesivo in modo rilevante della posizione giuridica del ricorrente, l'amministrazione comunale avrebbe dovuto comunicare al proprio dipendente l'avviso di cui all'art. 7 della legge n. 241 del 1990, onde consentirgli di partecipare al procedimento a cui era direttamente interessato».
Ma non basta. È anche necessario che il comune motivi dettagliatamente il proprio iter logico a fronte di una serie di determinazioni così importanti. Nel caso in esame, infatti, l'unico elemento a sfavore dell'operatore è costituito da una vecchia condanna penale per un reato dichiarato estinto (articolo ItaliaOggi del 25.05.2012 - link a www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Al consigliere non può essere opposta natura “strettamente personale” degli atti richiesti.
Va al riguardo premesso che, come è noto, ai sensi dell’art. 43, comma 2, del D.lgs. 18.08.2000, n. 267, i consiglieri comunali hanno diritto di ottenere dagli uffici del comune tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato.
Ora, interpretando tale normativa, il giudice amministrativo ha costantemente chiarito che il diritto di accesso del consigliere comunale agli atti del Comune assume un connotato particolare, in quanto finalizzato al pieno ed effettivo svolgimento delle funzioni assegnate al Consiglio comunale, con la conseguenza che sul consigliere comunale non grava alcun onere di motivare le proprie richieste d’informazione, né gli uffici comunali hanno titolo a richiederle ed conoscerle (Cons. St., sez. V, 29.08.2011, n. 4829).
In definitiva -come la giurisprudenza amministrativa ha costantemente avuto modo di precisare- tra l’accesso ai documenti dei soggetti interessati di cui agli art. 22 ss. della L. 07.08.1990, n. 241, e quello del consigliere comunale di cui al predetto art. 43, sussiste una profonda differenza, poiché il primo è un istituto che consente ai singoli soggetti di conoscere atti e documenti al fine di poter predisporre la tutela delle proprie posizioni soggettive eventualmente lese, mentre il secondo è un istituto giuridico posto al fine di consentire al consigliere comunale di poter esercitare il proprio mandato, verificando e controllando il comportamento degli organi istituzionali decisionali del comune. Per cui, in definitiva, in base al predetto art. 43 i consiglieri comunali, ivi inclusi ovviamente quelli di minoranza, hanno un diritto di accesso incondizionato a tutti gli atti che possano essere “utili” all’espletamento del loro mandato, anche al fine di permettere di valutare con piena cognizione la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e per promuovere, anche nell’ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Pertanto, al consigliere comunale non può essere opposto alcun diniego (salvo casi eccezionali e contingenti, da motivare puntualmente e adeguatamente, e salvo il caso - da dimostrare - che lo stesso agisca per interesse personale), determinandosi altrimenti un illegittimo ostacolo al concreto esercizio della sua funzione, che è quella di verificare che il sindaco e la giunta municipale esercitino correttamente la loro funzione. In particolare, è stato precisato che nessuna limitazione può derivare al diritto d’accesso del consigliere comunale agli atti del Comune, qualunque sia il loro destinatario, dall’eventuale natura riservata delle informazioni richieste, essendo il consigliere vincolato al segreto d’ufficio (Cons. St., sez. V, 08.09.2011, n. 5053); fermo restando che anche tali richieste sono soggette al rispetto di alcune forme e modalità, quali l’allegazione della qualità di consigliere comunale e la formulazione dell’istanza in maniera specifica e dettagliata, recando l’esatta indicazione degli estremi identificativi degli atti e dei documenti o, qualora siano ignoti tali estremi, almeno degli elementi che consentano l’individuazione dell’oggetto dell’accesso.
Peraltro, la stessa giurisprudenza ha anche precisato che il consigliere comunale non può abusare del diritto all’informazione riconosciutogli dall’ordinamento, piegandone le alte finalità a scopi meramente emulativi od aggravando eccessivamente, con richieste non contenute entro gli immanenti limiti della proporzionalità e della ragionevolezza, la corretta funzionalità amministrativa, incidendo in termini rilevanti sulle spese generali dell’Ente.
Con riferimento a tali principi costantemente affermati in giurisprudenza e dai quali non sussistono ragioni per discostarsi, sembra evidente al Collegio che l’istante abbia di certo diritto ad accedere a tutti gli atti richiesti con la predetta istanza del 14.11.2011. Sembra infatti evidente che tale richiesta, da un lato, sia funzionale allo svolgimento dell’attività di verifica e di controllo propria del consigliere comunale e, dall’altro, non comporti alcun aggravio alle spese ed alla funzionalità dell’Ente; mentre la ipotizzata natura “strettamente personale” degli atti richiesti non avrebbe potuta essere opposta al richiedente, in quanto il consigliere è vincolato al segreto d’ufficio (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 07.05.2012 n. 190 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le previsioni del piano regolatore servono a conformare l’edificazione futura e non anche le costruzioni esistenti al momento dell’entrata in vigore del piano o di una sua variante; proprio per tale sua caratteristica di strumento di pianificazione il piano regolatore, nel disporre le future conformazioni del territorio, considera le sole aree libere, “tali dovendosi ritenere quelle disponibili al momento della pianificazione, e ancor più precisamente quelle che non risultano già edificate (in quanto costituenti aree di sedime di fabbricati o utilizzate per opere di urbanizzazione), ovvero quelle che, nel rispetto degli standard urbanistici, risultano comunque già utilizzate per l’edificazione (in quanto asservite alla realizzazione di fabbricati, onde consentirne lo sviluppo volumetrico)”.
Dunque la disciplina urbanistica contenuta nel P.R.G. è destinata a svolgere i suoi effetti ordinatori e conformativi esclusivamente con riferimento al futuro (c.d. preesistenza vincolante) e le NN.TT.AA. sono, invero, atti a contenuto generale, recanti prescrizioni a carattere normativo e programmatico, destinate a regolare la futura attività edilizia.

Il Collegio deve prioritariamente evidenziare che, alla luce della giurisprudenza amministrativa fatta propria da questa Sezione e dalla quale non si ha motivo di discostarsi (cfr. TAR Bari, Sez. III n. 1598 del 21.10.2011), le previsioni del piano regolatore servono a conformare l’edificazione futura e non anche le costruzioni esistenti al momento dell’entrata in vigore del piano o di una sua variante (C.d.S. 4009/2009); proprio per tale sua caratteristica di strumento di pianificazione il piano regolatore, nel disporre le future conformazioni del territorio, considera le sole aree libere, “tali dovendosi ritenere quelle disponibili al momento della pianificazione, e ancor più precisamente quelle che non risultano già edificate (in quanto costituenti aree di sedime di fabbricati o utilizzate per opere di urbanizzazione), ovvero quelle che, nel rispetto degli standard urbanistici, risultano comunque già utilizzate per l’edificazione (in quanto asservite alla realizzazione di fabbricati, onde consentirne lo sviluppo volumetrico)” (C.d.S. 4134/2011 richiamato da TAR Bari, Sez. III n. 1598/2011 cit.).
Dunque la disciplina urbanistica contenuta nel P.R.G. è destinata a svolgere i suoi effetti ordinatori e conformativi esclusivamente con riferimento al futuro (c.d. preesistenza vincolante) e le NN.TT.AA. sono, invero, atti a contenuto generale, recanti prescrizioni a carattere normativo e programmatico, destinate a regolare la futura attività edilizia (TAR Bari, Sez. III n. 3885/2010, Consiglio di Stato, Sezione V, n. 1052/2007) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 04.05.2012 n. 919 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’istanza di permesso di costruire in sanatoria, presentata successivamente alla impugnazione dell'ordinanza di demolizione, produce l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuto difetto di interesse; il riesame dell'abusività dell'opera, sia pure al fine di verificarne la eventuale sanabilità, provocato dall'istanza di sanatoria, comporta infatti la necessaria emanazione da parte del Comune di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
La prevalente giurisprudenza amministrativa, già condivisa da questa Sezione e dalla quale il Collegio non ha motivo di discostarsi, ritiene che l’istanza di permesso di costruire in sanatoria, presentata successivamente alla impugnazione dell'ordinanza di demolizione, produce l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuto difetto di interesse; il riesame dell'abusività dell'opera, sia pure al fine di verificarne la eventuale sanabilità, provocato dall'istanza di sanatoria, comporta infatti la necessaria emanazione da parte del Comune di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
Applicando siffatti principi alla fattispecie oggetto di gravame, considerato che i ricorrenti hanno prodotto istanza di accertamento di conformità in riferimento alle medesime opere oggetto del provvedimento impugnato, ex art. 36 del d.p.r. n. 380 del 2001 in data 23.10.2009 e, quindi, in data successiva al deposito del ricorso, il 10.08.2006, l’interesse dei sig.ri F. e Di G. si sposta sulla nuova determinazione adottata dal Comune intimato a seguito della presentazione della suddetta istanza di permesso di costruire in sanatoria, determinazione assunta dal Comune di Noicattaro con provvedimento prot. n. 13286 del 03.06.2010.
Il Collegio, alla luce di quanto sopra, deve conseguentemente dichiarare l’improcedibilità del ricorso introduttivo per sopravvenuto difetto di interesse (cfr. ex multis TAR Bari, Sezione III, n. 520/2012 e n. 431/2011) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 04.05.2012 n. 913 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVISono da ricondursi le conseguenze della mancata conclusione del procedimento al modello del risarcimento del danno; perciò, il richiedente, ex articolo 2697 del codice civile, è tenuto a provare tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda, ossia il danno, l'elemento soggettivo del dolo o della colpa ed il nesso di causalità.
La tutela risarcitoria in ogni caso non può essere quindi accordata in relazione alla sola, mera "perdita di tempo" in sé considerata -non riconoscendosi nel fattore "tempo" un bene della vita meritevole di autonoma dignità e tutela; deve invece ritenersi (in senso rispondente al dato letterale della novella legislativa di cui alla legge 19.06.2009 n. 69) che essa presupponga la lesione di un "diverso" -rispetto al tempo- bene giuridicamente protetto, ponendosi il fattore temporale quale nesso causale tra fatto e lesione.
In definitiva, il riconoscimento della responsabilità della pubblica amministrazione per il tardivo esercizio della funzione amministrativa richiede, oltre alla constatazione della violazione dei termini del procedimento, l'accertamento che l'inosservanza delle cadenze procedimentali sia imputabile a colpa o dolo dell'amministrazione medesima e che il danno lamentato sia conseguenza diretta ed immediata del ritardo dell'amministrazione.
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La domanda risarcitoria del danno ingiusto da ritardo prodotto dai provvedimenti impugnati è invece infondata.
Al riguardo si deve ricordare che, anche prima dell'espressa previsione normativa, la fattispecie di danno da ritardo era comunque riconosciuta meritevole di tutela risarcitoria dalla giurisprudenza, sebbene entro i limiti di cui alla pronuncia dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 7 del 15.09.2005, che aveva ammesso il ristoro subordinatamente all'accertamento dell’illegittimità dell'esercizio della funzione amministrativa in senso favorevole all'interessato o, quanto meno, attraverso la sua esplicazione virtuale mediante un giudizio prognostico, così escludendo la risarcibilità del danno da ritardo "puro", disancorato dalla dimostrazione giudiziale della meritevolezza dell'interesse pretensivo fatto valere.
L'articolo 2-bis, primo comma, della legge 07.08.1990 n. 241, introdotto dall'articolo 7, comma primo, lettera c), della legge 18.06.2009 n. 69, ha in seguito esplicitamente previsto il ristoro, stabilendo: "Le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’articolo 1, comma 1-ter, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento".
Tale intervento normativo non recepisce il modello prefigurato dall'articolo 17, comma primo, lettera f), della legge 15.03.1997 n. 59, modificato dall'articolo 7 della legge 15.05.1997 n. 127, di un indennizzo automatico e forfetario a fronte dell'inerzia dell'amministrazione (modello che ha poi visto in effetti modesti sviluppi: articolo 11 del decreto legislativo 30.07.1999 n. 286 e legge regionale Toscana 23.07.2009 n. 40 - articolo 16, primo comma); neppure, però, l'articolo 2-bis s’ispira espressamente ai principi enunciati dall’Adunanza plenaria n. 7/2005.
La tutela contro l’inerzia è stata infine completata attraverso le previsioni del codice del processo amministrativo (articoli 30, 117 e 133, primo comma, lett. a), n. 1).
Per quanto premesso è rimasta aperta la questione del rapporto tra tale risarcimento e l'accertamento della spettanza, in capo al richiedente, del c.d. “bene della vita” per l'ottenimento del quale è avviato il procedimento amministrativo nella disciplina vigente, sulla quale si registrano in giurisprudenza orientamenti contrastanti (per tutte, da un lato, Consiglio di Stato, Sez. IV, 15.12.2011 n. 6609; dall’altro, Consiglio di Stato, Sez. V, 28.02.2011, n. 1271; Cons. giust. amm. reg. sic., 04.11.2010 n. 1368).
È incontroverso invece che le citate disposizioni riconducano le conseguenze della mancata conclusione del procedimento al modello del risarcimento del danno; perciò, il richiedente, ex articolo 2697 del codice civile, è tenuto a provare tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda, ossia il danno, l'elemento soggettivo del dolo o della colpa ed il nesso di causalità.
La tutela risarcitoria in ogni caso non può essere quindi accordata in relazione alla sola, mera "perdita di tempo" in sé considerata -non riconoscendosi nel fattore "tempo" un bene della vita meritevole di autonoma dignità e tutela (TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, 20.01.2010, n. 582); deve invece ritenersi (in senso rispondente al dato letterale della novella legislativa di cui alla legge 19.06.2009 n. 69) che essa presupponga la lesione di un "diverso" -rispetto al tempo- bene giuridicamente protetto, ponendosi il fattore temporale quale nesso causale tra fatto e lesione.
In definitiva, il riconoscimento della responsabilità della pubblica amministrazione per il tardivo esercizio della funzione amministrativa richiede, oltre alla constatazione della violazione dei termini del procedimento, l'accertamento che l'inosservanza delle cadenze procedimentali sia imputabile a colpa o dolo dell'amministrazione medesima e che il danno lamentato sia conseguenza diretta ed immediata del ritardo dell'amministrazione
(TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 04.05.2012 n. 897 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALa lottizzazione, anche d’iniziativa privata, rappresenta uno strumento per attuare le previsioni della pianificazione generale, ovvero per trasformare in realtà gli obiettivi perseguiti nell'interesse pubblico attraverso il disegno dello strumento urbanistico, teso ad un ordinato e funzionale uso del territorio.
In particolare, il P.d.L. è destinato a realizzare un'espansione residenziale in zone non ancora urbanizzate alle quali siano così garantite le necessarie dotazioni e infrastrutture collettive, attraverso l'apporto anche finanziario di privati, che sono in tal modo posti in condizione di sfruttare le potenzialità edificatorie dei terreni di loro proprietà.
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La giunta ed il consiglio comunale non possono effettuare valutazioni che contrastino con quelle già formalizzate con il piano regolatore. Infatti, se un’area è stata da questo destinata all’edificazione, nel corso del procedimento di approvazione del piano attuativo non è giuridicamente possibile che la medesima area non vada considerata in concreto edificabile ‘per ragioni ambientali e paesaggistiche’, e cioè sulla base di valutazioni diametralmente opposte a quelle già poste a base dello strumento primario che ha previsto l’edificabilità sul piano urbanistico. Ove emergano le relative ragioni, può essere attivato il procedimento per la modifica del piano regolatore, ma –sul piano urbanistico- non può essere respinto il progetto di lottizzazione conforme allo strumento primario.
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Nel rispetto delle diverse finalità della pianificazione urbanistica, la valutazione della congruità del piano di lottizzazione deve porsi in collegamento attuativo e nel rispetto funzionale delle previsioni dello strumento urbanistico di valenza generale. Tali ragioni spingono ad affermare che il compito spettante alla giunta ed al consiglio comunale sono limitati all’accertamento della conformità del progetto alle previsioni dello strumento urbanistico primario, imponendo peraltro, giusta il canone ordinario di correttezza dell’azione amministrativa, che le relative determinazioni in merito all’eventuale non conformità del progetto al piano regolatore si fondino su una puntuale motivazione, tale da permettere l’emersione di interessi pubblici effettivamente sussistenti e la conseguente tutela dell’interessato in sede di giustizia amministrativa.
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La questione dell’idoneità della viabilità d’accesso all’area di lottizzazione è certamente di pertinenza degli organi comunali, ma deve aver luogo unicamente nell’ambito della redazione dello strumento pianificatorio generale, o di altri strumenti a questo equiparati, ma non può certamente trovar spazio in altri provvedimenti che, stante il loro carattere attuativo, non possono sovrapporsi alle valutazioni generali già operate.
Non si può trascurare inoltre che, in generale, la lottizzazione, anche d’iniziativa privata, rappresenta uno strumento per attuare le previsioni della pianificazione generale, ovvero per trasformare in realtà gli obiettivi perseguiti nell'interesse pubblico attraverso il disegno dello strumento urbanistico, teso ad un ordinato e funzionale uso del territorio. In particolare, il P.d.L. è destinato a realizzare un'espansione residenziale in zone non ancora urbanizzate alle quali siano così garantite le necessarie dotazioni e infrastrutture collettive, attraverso l'apporto anche finanziario di privati, che sono in tal modo posti in condizione di sfruttare le potenzialità edificatorie dei terreni di loro proprietà.
Al riguardo, nel decidere sulla fattispecie concreta, concernente l'operato degli uffici tecnici del Comune, nell'ambito della propria competenza, non si può trascurare quanto, in una prospettiva più generale, ha chiarito in materia il Consiglio di Stato, Sezione quarta, in relazione ad una lottizzazione che presentava aspetti analoghi a quelli della procedura in esame.
"Ritiene la Sezione che la propria precedente decisione n. 4368 del 16.09.2008 abbia già sufficientemente individuato i limiti decisionali che regolamentano l’approvazione dei piani di lottizzazione, quando ha affermato che “la giunta ed il consiglio comunale non possono effettuare valutazioni che contrastino con quelle già formalizzate con il piano regolatore. Infatti, se un’area è stata da questo destinata all’edificazione, nel corso del procedimento di approvazione del piano attuativo non è giuridicamente possibile che la medesima area non vada considerata in concreto edificabile ‘per ragioni ambientali e paesaggistiche’, e cioè sulla base di valutazioni diametralmente opposte a quelle già poste a base dello strumento primario che ha previsto l’edificabilità sul piano urbanistico. Ove emergano le relative ragioni, può essere attivato il procedimento per la modifica del piano regolatore, ma –sul piano urbanistico- non può essere respinto il progetto di lottizzazione conforme allo strumento primario”.
Nel rispetto delle diverse finalità della pianificazione urbanistica, la valutazione della congruità del piano di lottizzazione deve quindi porsi in collegamento attuativo e nel rispetto funzionale delle previsioni dello strumento urbanistico di valenza generale. Tali ragioni hanno quindi spinto la Sezione ad affermare che il compito spettante alla giunta ed al consiglio comunale siano limitati all’accertamento della conformità del progetto alle previsioni dello strumento urbanistico primario, imponendo peraltro, giusta il canone ordinario di correttezza dell’azione amministrativa, che le relative determinazioni in merito all’eventuale non conformità del progetto al piano regolatore si fondino su una puntuale motivazione, tale da permettere l’emersione di interessi pubblici effettivamente sussistenti e la conseguente tutela dell’interessato in sede di giustizia amministrativa.
Se queste affermazioni, in merito al metro di giudizio, non paiono contestabili, né sono state aggredite dalle parti contendenti, una diversa valutazione va fatta in relazione alla base del giudizio, ossia agli elementi che possono essere correttamente valutati al fine della declaratoria di non conformità rispetto allo strumento pianificatorio generale ed in particolare in relazione alla supposta insufficienza della viabilità.
In questo senso, nessun aiuto può provenire dalla decisione n. 4368 del 2008, evocata a vario titolo da tutte le parti, atteso che nella detta sentenza non sono stati valutati gli aspetti della viabilità, in quanto introdotti successivamente al provvedimento allora gravato e quindi integranti una motivazione postuma dello stesso. Le affermazioni ivi contenute hanno quindi natura di obiter dictum, sebbene incidentalmente, non si possa non notare come la Sezione abbia suffragato “la sussistenza del potere del consiglio comunale di valutare la sufficienza della viabilità nell’area oggetto del progetto, in rapporto all’area più vasta in cui la sua realizzazione si va ad inserire”, ossia limitando il sindacato alla viabilità interna al piano da realizzare.
In senso più generale, non si può non osservare come il tema della pianificazione viaria sia tradizionalmente oggetto di previsioni a livello di piano regolatore generale. L’art. 7 della legge urbanistica (legge 17.08.1942, n. 1150, indicando i contenuti del piano generale, espressamente prevede, al punto 1 del comma 1, che questo indichi “la rete delle principali vie di comunicazione stradali, ferroviarie e navigabili e dei relativi impianti”. E previsioni di tal fatta si riscontrano, peraltro con terminologia normativa più corrente, in tutte le discipline regionali che trattano il tema dell’assetto e del governo del territorio (ad esempio, nell’ambito della regione Veneto, la L.R. n. 11 del 2004, separando gli aspetti strutturali del piano regolatore da quelli operativi, prevede che siano fissati “gli obiettivi e le condizioni di sostenibilità degli interventi e delle trasformazioni ammissibili”, individuando “le infrastrutture e le attrezzature di maggiore rilevanza” – art. 13, comma 1, lett. j).
Emerge quindi uno stretto collegamento tra la pianificazione generale comunale e l’individuazione della rete viaria necessaria all’attuazione delle scelte di piano. E tale collegamento opera in senso discendente, in modo che la predisposizione infrastrutturale si pone a monte delle previsioni operative attuative.
Così ricostruito il quadro dei rapporti tra i contenuti di piano, appare evidente come la valutazione dei temi della viabilità, e quindi della sufficienza dei collegamenti esterni all’area oggetto di lottizzazione, non sia un elemento da sviluppare in occasione dell’approvazione del piano di lottizzazione, che ha natura attuativa, ma debba essere contenuto, a monte, nello strumento urbanistico generale il quale, sulla base di una previsione complessiva dei temi della gestione del territorio, è il mezzo giuridico funzionalmente idoneo a dare ingresso alle tematiche della circolazione nell’ambito del territorio comunale.
Trasportando il detto schema nella questione qui in scrutinio, emerge con chiarezza come la questione dell’idoneità della viabilità d’accesso all’area di lottizzazione è certamente di pertinenza degli organi comunali, ma deve aver luogo unicamente nell’ambito della redazione dello strumento pianificatorio generale, o di altri strumenti a questo equiparati, ma non può certamente trovar spazio in altri provvedimenti che, stante il loro carattere attuativo, non possono sovrapporsi alle valutazioni generali già operate (sentenza 20.07.2011 n. 4395).
I principi enunciati dal Consiglio di Stato, che si attagliano perfettamente al caso concreto, sono da condividere e inducono a ritenere fondate anche le censure dedotte sub 4).
D'altra parte, a ben considerare il ragionamento sotteso al parere, si dovrebbe ammettere che il Comune finisce per trasformare il vincolo strumentale (cioè quello che subordina l'edificabilità di un'area all'inserimento della stessa in uno strumento esecutivo, piano particolareggiato o, in alternativa, piano di lottizzazione ad iniziativa privata) in un vincolo di tipo ablatorio del diritto di proprietà, in quanto, comportando di fatto l'inedificabilità della zona (nella fattispecie concreta anche in contrasto con le previsioni del piano regolatore), si presenterebbe tanto intenso d’annullare o ridurre notevolmente il valore degli immobili cui si riferiscono (Consiglio di Stato, Sez. IV, 24.03.2009, n. 1765; Sez. V, 03.04.2000, n. 1908; 30.06.1995, n. 945; TAR Puglia, Lecce, Sez. I, 15.12.2010, n. 2835)
(TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 04.05.2012 n. 897 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVISono accessibili i pareri legali richiamati nel provvedimento finale.
Ai sensi dell’art. 22 L. 07.08.1990 n. 241, infatti, il diritto di accesso spetta ai soggetti che siano titolari di una situazione giuridicamente rilevante.
Peraltro, la posizione che legittima all’accesso non deve necessariamente possedere tutti i requisiti stabiliti per la proposizione del ricorso al giudice amministrativo avverso un atto lesivo della posizione giuridica vantata, tra i quali l’attualità dell’interesse ad agire, essendo sufficiente che l’istante sia titolare di un interesse giuridicamente rilevante e che il suo interesse alla richiesta di documenti si fondi su tale posizione (Cons. Stato, VI Sez., 16.06.1994 n. 1015).
In particolare, deve ritenersi che la nozione di “interesse giuridicamente rilevante sia più ampia rispetto a quella dell’interesse all’impugnazione, caratterizzato dall’attualità e concretezza dell’interesse medesimo, e consenta la legittimazione all’accesso a chiunque possa dimostrare che il provvedimento o gli atti endoprocedimentali abbiano dispiegato o siano idonei a dispiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica” (Cons. Stato, IV Sez., 03.02.1996 n. 98; 14.01.1999 n. 32).
D’altra parte, il concetto di interesse giuridicamente rilevante, sebbene sia più ampio di quello di interesse all’impugnazione, non è tale da consentire a chiunque l’accesso agli atti amministrativi: il diritto di accesso ai documenti amministrativi non si atteggia, infatti, come una sorta di azione popolare diretta a consentire una sorta di controllo generalizzato sull’Amministrazione, giacché, da un lato l’interesse che legittima ciascun soggetto all’istanza, da accertare caso per caso, deve essere personale e concreto e ricollegabile al soggetto stesso da uno specifico nesso, dall’altro, la documentazione richiesta deve essere direttamente riferibile a tale interesse oltre che individuata o ben individuabile (Cons. Stato, VI Sez., 17.03.2000 n. 1414; 03.11.2000 n. 5930).
Detti presupposti ricorrono nel caso di specie.
Come sopra osservato, la ricorrente ha una posizione giuridicamente rilevante a conoscere gli atti oggetto di istanza di accesso e, d’altra parte, contrariamente a quanto sostenuto nel provvedimento impugnato, gli atti di cui si chiede l'ostensione non possono definirsi meramente interni o riservati e quindi preclusi all’accesso dell’interessato.
Non può infatti costituire causa ostativa all’accesso la motivazione addotta nell’atto di diniego secondo cui i documenti richiesti “non possono essere resi accessibili in quanto attengono ad atti interni di questa Società relativi alle libere valutazioni in ordine alla convenienza delle scelte da adottare; scelte concretizzatesi nella delibera n. 123 dell’11.12.2009 di rescissione del contratto”.
E infatti, in disparte le considerazioni già svolte in merito al rapporto tra insindacabilità e ostensibilità dei motivi di recesso, osserva il Collegio che gli atti per cui si è chiesto l'accesso negato dalla S.A. rappresentano la motivazione del recesso, in quanto la delibera n. 123/2009 motiva la scelta di RFI esclusivamente per relationem ad essi.
Ne discende che nel caso di specie deve applicarsi l'art. 3 della legge n. 241/1990, giusta il quale “Se le ragioni della decisione risultano da altro atto dell'amministrazione richiamato dalla decisione stessa, insieme alla comunicazione di quest'ultima deve essere indicato e reso disponibile, a norma della presente legge, anche l'atto cui essa si richiama”.
A tal proposito, giova altresì richiamare l’orientamento espresso dalla giurisprudenza con riguardo ai pareri legali acquisiti nel corso del procedimento, secondo cui “Devono … ritenersi accessibili i pareri legali che, anche per l'effetto di un richiamo esplicito nel provvedimento finale, rappresentano un passaggio procedimentale istruttorio di un procedimento amministrativo in corso e, una volta acquisiti dall'Amministrazione, vengono ad innestarsi nell'iter procedimentale, assumendo la configurazione di atti endoprocedimentali e perciò costituiscono uno degli elementi che condizionano la scelta dell'Amministrazione" (Consiglio Stato, Sezione VI, 30.09.2010, n. 7237; id., Sez. V, 23.06.2011, n. 3812).
Infine, inidonea risulta anche la motivazione specificamente addotta da RFI per negare l’accesso alla nota del Direttore Lavori del 13.10.1999, che “reca la definizione di “riservata” [e] va trattata al pari dei documenti per i quali il legislatore prevede di escludere l’accesso all’art. 13, comma 5, del d.lgs n. 163/2006, in quanto tali atti sono propedeutici alla tutela degli interessi di questa società in una potenziale controversia con l’appaltatore”.
Non si rinviene infatti la fonte del carattere riservato della nota in questione, che nella Delibera n. 123 del 11.12.2009 non era indicata con tale qualità, né il fondamento giuridico del diniego all’ostensione, rappresentando la suddetta nota un documento diverso rispetto alla “Relazione riservata del direttore dei lavori” per la quale il ripetuto art. 13, comma 5, prevede l'esclusione dal diritto di accesso. Né tale ultima disposizione è suscettibile di interpretazione estensiva o analogica, essendo norma eccezionale che deroga rispetto alle ordinarie regole in materia di accesso e dunque non torna applicabile fuori dei casi in essi previsti (Consiglio Stato, Sez. V, 23.06.2011, n. 3812; Tar Lombardia, Sez. III, 24.10.2011, n. 2530) (TAR Lazio-Roma, Sez. III-ter, sentenza 02.05.2012 n. 3921 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALaddove il P.R.G. subordini l’edificazione su una determinata area alla previa predisposizione di un piano particolareggiato, tale obbligo può venire meno nei casi in cui l’Amministrazione accerti la sufficienza delle opere di urbanizzazione già esistenti, perché trattasi di lotto “intercluso” o comunque di maglia già adeguatamente urbanizzata.
La previsione che assoggetta di regola gli interventi al previo piano particolareggiato è intesa a garantire un ordinato e armonico sviluppo del territorio ovvero ad assicurare il raccordo fra la nuova edificazione e le strutture esistenti, con ciò rispondendo a esigenze di carattere pubblicistico che non può escludersi, in astratto, possano sussistere anche in relazione ad aree già urbanizzate.
Dal che discende che la possibilità di disapplicazione della previsione de qua non può mai affermarsi in astratto, ma consegue sempre ad un accertamento istruttorio che il Comune deve condurre con riferimento alle specifiche condizioni e caratteristiche dell’area in considerazione.

Nella specie, viene in rilievo il noto indirizzo secondo cui, laddove il P.R.G. subordini l’edificazione su una determinata area alla previa predisposizione di un piano particolareggiato, tale obbligo può venire meno nei casi in cui l’Amministrazione accerti la sufficienza delle opere di urbanizzazione già esistenti, perché trattasi di lotto “intercluso” o comunque di maglia già adeguatamente urbanizzata.
Per un corretto inquadramento della fattispecie di che trattasi, è opportuno rilevare preliminarmente che la previsione che assoggetta di regola gli interventi al previo piano particolareggiato è intesa a garantire un ordinato e armonico sviluppo del territorio ovvero ad assicurare il raccordo fra la nuova edificazione e le strutture esistenti, con ciò rispondendo a esigenze di carattere pubblicistico che non può escludersi, in astratto, possano sussistere anche in relazione ad aree già urbanizzate (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 10.01.2012, nr. 26; id., 13.10.2010, nr. 7486).
Dal che discende che la possibilità di disapplicazione della previsione de qua non può mai affermarsi in astratto, ma consegue sempre ad un accertamento istruttorio che il Comune deve condurre con riferimento alle specifiche condizioni e caratteristiche dell’area in considerazione.
Già alla luce di tale ovvio rilievo, risulta scarsamente persuasiva la tesi dell’odierno appellante secondo cui tertium non datur fra le due alternative del rispetto della prescrizione che impone la previa redazione del piano attuativo e dell’assentibilità sic et simpliciter dell’intervento diretto, non essendo consentita all’Amministrazione alcuna ulteriore valutazione in ordine alla sufficienza e adeguatezza di urbanizzazioni pure esistenti; in altri termini, poiché è da una valutazione rimessa ad apprezzamenti tecnico-discrezionali del Comune che può derivare la disapplicazione della previsione de qua, sarebbe contraddittorio fissare percorsi rigidi alle modalità con cui la medesima Amministrazione, una volta decisa la deroga, la attua in concreto (e salva, come è ovvio, l’impossibilità di apporre al permesso di costruire condizioni o prescrizioni palesemente eccessive o estranee all’intervento richiesto) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.04.2012 n. 2470 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La difformità tra gli interventi oggetto di concessione edilizia e quelli effettivamente realizzati legittima la richiesta di pagamento dei maggiori oneri concessori.
E' legittimo il provvedimento con cui un Comune, a distanza di cinque anni dal rilascio di una concessione edilizia, chiede il pagamento di maggiori oneri concessori in ragione di riscontrate difformità tra l'oggetto della concessione e quanto effettivamente realizzato.
La ricorrente, ditta operante nel settore delle costruzioni e titolare di una concessione edilizia, ha impugnato il provvedimento con cui la società concessionaria del Comune incaricata per la riscossione ha ingiunto alla medesima il pagamento di maggiori oneri concessori.
Ha esposto che, a fondamento del contestato provvedimento, vi erano gli esiti della verifica svolta sulla correttezza degli oneri concessori determinati a suo tempo dalla civica P.A. e versati dalla deducente in sede di rilascio di concessione edilizia e successiva variante.
In considerazione di tanto, ha eccepito, oltre al resto, la violazione dei principi in materia di autotutela amministrativa, sia in relazione al periodo di tempo ragionevole entro il quale la P.A. avrebbe potuto esercitare il potere, sia con riguardo alla omessa comparazione dei contrapposti interessi.
Il ricorso è stato rigettato.
Il G.A. di Ancona, in primis, ha rilevato come nella vicenda non fosse configurabile l’esercizio del potere di autotutela da parte del Comune, trattandosi di controversia afferente diritti soggettivi.
Pertanto, ferma restando la facoltà per il destinatario dell’atto con cui gli viene chiesto il pagamento degli oneri concessori di agire eventualmente nei riguardi del creditore per violazione del principio di buona fede, il giudicante ha evidenziato come, in linea di principio, il pagamento degli stessi oneri potesse essere chiesto dalla P.A. nel termine di prescrizione decennale.
Al contempo, l’adito TAR ha rilevato la legittimità dell’operato della società concessionaria che, in luogo di un eventuale riesame della decisione assunta a suo tempo dal Comune, aveva chiesto il pagamento di maggiori oneri concessori in virtù di una nuova verifica dei dati progettuali.
Di conseguenza, il Collegio, con riferimento al merito della vicenda, ha chiarito come la richiesta di pagamento di maggiori oneri concessori fosse derivata dalla circostanza per cui alcune porzioni degli immobili realizzati erano state erroneamente considerate come superfici non residenziali e, dunque, non computate secondo le percentuali previste dalla normativa di riferimento.
Invero, ha precisato che il contributo introdotto dalla L. n. 10/1977 -poi confermato dall’attuale T.U. n. 380/2001- ha due componenti, gli oneri di urbanizzazione, il cui calcolo deve aver riguardo al volume dell’edificio realizzato e il costo di costruzione da determinarsi in base alla superficie.
Conseguentemente, avuto riguardo al vano tecnico dell’ascensore di uno dei fabbricati realizzati, lo stesso doveva essere computato, atteso che, ai sensi dell’art. 11, Regolamento Regione Marche n. 6/1977, solo i vani tecnici che fuoriescono dalla linea di gronda dell’edificio non possono essere considerati ai fini della determinazione del volume complessivo: nella specie, si trattava di locale situato al piano interrato e che dunque non fuoriusciva dalla linea di gronda.
Inoltre, ha osservato come negli elaborati grafici versati agli atti, quello che la ricorrente aveva qualificato come “sottotetto non abitabile” (e dunque volume tecnico), fosse in realtà parte integrante del primo piano dell’edificio; pertanto, l’altezza del primo piano era stata correttamente calcolata dalla società di riscossione.
Per quanto riguarda la riduzione delle unità immobiliari complessive, il G.A. marchigiano ha chiarito che se ciò non aveva implicato aumento di superficie o di volume, aveva invece inciso sulla classe di maggiorazione da applicare, essendo stato realizzato un appartamento avente superficie superiore a 110 mq.
Infine, anche per quanto attiene alle taverne, i calcoli eseguiti dalla società di riscossione sono stati ritenuti corretti stante l’evidente differenza fra cantina e taverna.
Difatti, nella variante all’originaria concessione, poiché i locali interessati risultavano indicati espressamente come taverne (munite per lo più di servizi igienici), gli stessi sono stati ritenuti a servizio della residenza e dovevano essere computati al 50% (art. 11, Regolamento regionale n. 6/1977).
Alla stregua di tanto, il TAR di Ancona, reputando corretti i calcoli effettuati dalla società concessionaria, ha respinto il gravame, per l’effetto confermando il provvedimento di accertamento e richiesta in pagamento dei maggiori oneri concessori (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Marche, sentenza 20.04.2012 n. 289 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: In materia di definizione del titolo di studio occorrente per la partecipazione ai concorsi pubblici, ferma la definizione del livello del titolo (laurea o altro titolo di studio) affidata alla legge o ad altra fonte normativa, l’amministrazione che indice il concorso –in assenza di specifiche indicazioni di legge- è titolare di un potere discrezionale nella definizione della tipologia del titolo (cioè, ad esempio, della tipologia di laurea), in relazione alla professionalità ed alla preparazione culturale richieste per il posto che, attraverso il concorso e la selezione dei soggetti meritevoli, si intende ricoprire.
Tale individuazione discrezionale da parte dell’amministrazione viene ad essere necessariamente integrata dalla equipollenza ex lege (o comunque normativamente espressa) tra i vari titoli di studio, di modo che, laddove l’amministrazione individui un determinato tipo di laurea quale titolo necessario in relazione alla tipologia dei posti messi a concorso, costituiscono titoli di ammissione al medesimo concorso finalizzato alla copertura dei predetti posti anche tutte le lauree dichiarate equipollenti a quella prescelta dall’amministrazione in sede di redazione del bando.
In sostanza, per un verso, il potere di individuazione della tipologia di laurea non è svincolato da ogni criterio (non potendo esso costituire una “area libera” dell’azione amministrativa), per altro verso, però, la valutazione e quindi la scelta operata dalla pubblica amministrazione costituiscono esercizio di potere discrezionale ampio, censurabile dal giudice amministrativo solo sotto il profilo dell’eccesso di potere per manifesta illogicità.
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In relazione alla valutazione di equipollenza va detto che essa è riservata alla legge e non è rimessa alla discrezionalità dell’amministrazione.
Non vi è alcuna equipollenza ex lege tra il titolo di geometra e quello di perito industriale edile e non rileva in merito il fatto che esistano affinità e parziali coincidenze fra le attività svolte dai professionisti iscritti in albi diversi.
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Se si esaminano le competenze previste dalle leggi sulla creazione dei rispettivi albi professionali si potrà constatare che le competenze dei geometri sono più ampie di quelli dei periti edili e pertanto la discriminazione operata nel bando di concorso che ha riservato la partecipazione ai soli geometri appare immune da vizi di illogicità o di arbitrarietà.

... per l'annullamento del bando di concorso per titoli ed esami per la copertura di 1 posto di "istruttore tecnico geometra“ Categoria C1 emesso dall'Amministrazione Comunale di Montignoso (MS) e pubblicato sulla G.U. nr. 42 del 29.05.2007;
...
Le doglianze dell’impugnazione proposta censurano l’esercizio della discrezionalità nella scelta del requisito per partecipare al concorso pubblico.
Si tratta di una discrezionalità tecnica ampia che può essere sindacata dal giudice solo per eccesso di potere sotto il profilo dell’illogicità o dell’arbitrarietà.
Nel caso di specie tale discrezionalità è tanto più ampia in quanto non esistono norme che stabiliscono un’equipollenza tra i titoli di studio di cui si discute; infatti quando questa equipollenza esista la circostanza che l’amministrazione individui discrezionalmente un titolo per l’ammissione al pubblico concorso, non impedisce la partecipazione di chi possegga il titolo equiparato anche se non espressamente indicato.
Si veda sul punto la sentenza 18699/2005 del TAR Campania, che riassume in modo integrale gli orientamenti giurisprudenziali esistenti sulla questione posta all’attenzione del Collegio, laddove afferma: “Nel merito, come questo Tribunale ha già avuto modo di osservare, in materia di definizione del titolo di studio occorrente per la partecipazione ai concorsi pubblici, ferma la definizione del livello del titolo (laurea o altro titolo di studio) affidata alla legge o ad altra fonte normativa, l’amministrazione che indice il concorso –in assenza di specifiche indicazioni di legge- è titolare di un potere discrezionale nella definizione della tipologia del titolo (cioè, ad esempio, della tipologia di laurea), in relazione alla professionalità ed alla preparazione culturale richieste per il posto che, attraverso il concorso e la selezione dei soggetti meritevoli, si intende ricoprire.
Tale individuazione discrezionale da parte dell’amministrazione viene ad essere necessariamente integrata dalla equipollenza ex lege (o comunque normativamente espressa) tra i vari titoli di studio, di modo che, laddove l’amministrazione individui un determinato tipo di laurea quale titolo necessario in relazione alla tipologia dei posti messi a concorso, costituiscono titoli di ammissione al medesimo concorso finalizzato alla copertura dei predetti posti anche tutte le lauree dichiarate equipollenti a quella prescelta dall’amministrazione in sede di redazione del bando.
In sostanza, per un verso, il potere di individuazione della tipologia di laurea non è svincolato da ogni criterio (non potendo esso costituire una “area libera” dell’azione amministrativa), per altro verso, però, la valutazione e quindi la scelta operata dalla pubblica amministrazione costituiscono esercizio di potere discrezionale ampio, censurabile dal giudice amministrativo solo sotto il profilo dell’eccesso di potere per manifesta illogicità
.”.
In relazione alla valutazione di equipollenza va detto che essa è riservata alla legge e non è rimessa alla discrezionalità dell’amministrazione (Consiglio di Stato 4902/2005).
Non vi è alcuna equipollenza ex lege tra il titolo di geometra e quello di perito industriale edile e non rileva in merito il fatto che esistano affinità e parziali coincidenze fra le attività svolte dai professionisti iscritti in albi diversi.
Vi sono peraltro due precedenti specifici che hanno deciso situazioni identiche a quella prospettata in questa sede; la sentenza 4673/2002 del TAR Puglia ha affrontato il caso in cui il Collegio dei periti industriali della Provincia di Avellino si doleva della mancata estensione ai periti edili di un concorso del Comune di Bari per affidare a dei professionisti il compito di accatastare alcuni immobili comunali ed in merito ha affermato: “Orbene ritiene il Collegio che questa formulazione non lasci adito a dubbi sul fatto che l’indicazione dei titoli professionali richiesti per la partecipazione alla gara (geometra, ingegnere o architetto) fosse tassativa e non semplicemente esemplificativa, anche per la mancata previsione di una clausola generale di chiusura che potesse far desumere l’esistenza di una elencazione non esaustiva (ad es.: “… professionisti esterni iscritti negli Albi professionali dei geometri, ingegneri ed architetti o equipollenti).
D’altra parte, nessuna disposizione dell’ordinamento positivo impone all’Amministrazione, nello svolgimento della gara per l’affidamento dell’incarico de quo, di estendere la platea degli aspiranti, ricomprendendovi tutti coloro che posseggano titoli potenzialmente idonei allo svolgimento dell’incarico stesso.
Infatti, non può fondatamente contestarsi il potere discrezionale dell’Amministrazione, in relazione ad un certo tipo di incarico, di individuare i titoli professionali in concreto “adeguati”, a prescindere dalla circostanza che, in astratto, altri titoli (nel caso quello di perito industriale edile) possano essere ritenuti equipollenti a quelli indicati.
In buona sostanza, quest’ultima agisce in forza di un suo innegabile potere discrezionale, ed in questo contesto ben può determinare i titoli ammissibili; ciò proprio per l’assenza di una specifica disposizione ordinamentale che indichi espressamente, in relazione a quel tipo di incarico, i titoli professionali che danno ingresso alla gara.
Pertanto, al di là della problematica legata alla idoneità o meno del titolo posseduto dai periti edili allo svolgimento di operazioni catastali, non è dubitabile che l’Amministrazione fosse svincolata da un obbligo giuridico di allargare il novero dei titoli da ammettere per l’affidamento dell’incarico
.”.
La massima della sentenza del Consiglio di Stato 954/1991 così recita: “L'equipollenza dei titoli di studio richiesti ai fini della ammissione ad un pubblico concorso può essere riconosciuta solo nei casi previsti dalla legge o dallo stesso bando di concorso. (Nella specie, è stata esclusa l'equipollenza fra il titolo di perito industriale e quello di geometra richiesto dal bando)”.
Infine se si esaminano le competenze previste dalle leggi sulla creazione dei rispettivi albi professionali si potrà constatare che le competenze dei geometri sono più ampie di quelli dei periti edili e pertanto la discriminazione operata nel bando di concorso che ha riservato la partecipazione ai soli geometri appare immune da vizi di illogicità o di arbitrarietà (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 11.04.2012 n. 708 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il fondamento del contributo di urbanizzazione non consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di redistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime –secondo modalità eque per la comunità–, con la conseguenza che anche nel caso di modificazione della destinazione d’uso cui si correli un maggiore carico urbanistico è integrato il presupposto che giustifica l’imposizione del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa.
Il mutamento, pertanto, è rilevante allorquando sussiste un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici, sicché la circostanza che le modifiche di destinazione d’uso non siano eventualmente soggette al previo titolo abilitativo non comporta ipso iure l’esenzione dagli oneri di urbanizzazione e quindi la gratuità dell’operazione.

Osserva preliminarmente il Collegio che, per costante giurisprudenza (v. TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 10.06.2010 n. 1787; TAR Lombardia, Brescia, 07.11.2005 n. 1115), il fondamento del contributo di urbanizzazione non consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di redistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime –secondo modalità eque per la comunità–, con la conseguenza che anche nel caso di modificazione della destinazione d’uso cui si correli un maggiore carico urbanistico è integrato il presupposto che giustifica l’imposizione del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa; il mutamento, pertanto, è rilevante allorquando sussiste un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici, sicché la circostanza che le modifiche di destinazione d’uso non siano eventualmente soggette al previo titolo abilitativo non comporta ipso iure l’esenzione dagli oneri di urbanizzazione e quindi la gratuità dell’operazione.
Quanto, poi, alla possibilità che, nell’esercizio della loro potestà di pianificazione del territorio, le Amministrazioni comunali individuino categorie di destinazione d’uso ulteriori e diverse rispetto a quelle previste dalla legislazione statale e regionale, la giurisprudenza si è espressa in modo affermativo, sia con riferimento ai casi in cui il legislatore regionale abbia lasciato agli enti locali un rilevante ambito di autodeterminazione in merito, sia con riferimento all’attuale regime delle autonomie locali in tema di attività di pianificazione urbanistica, che ben può implicare anche la suddivisione in più sottocategorie o sottofunzioni, laddove ciò sia giustificato da significative diversità del carico urbanistico e implichi di conseguenza differenti modulazioni di calcolo del contributo concessorio (v. Cons. Stato, Sez. IV, 13.07.2010 n. 4546) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 05.04.2012 n. 239 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Infiltrazioni mafiose: si procede senza comunicare l'avvio del procedimento.
Non è necessaria la previa comunicazione di avvio del procedimento nel caso di provvedimenti emanati a causa di informative prefettizie per sospetti collegamenti con la criminalità organizzata.
La vicenda in esame trae origine dal ricorso proposto dalla società Alfa nei confronti del Ministero dell’Interno e della Prefettura di Napoli nonché delle società Beta e Gamma e del Consorzio X per l’annullamento dell’informativa della Prefettura di Napoli recante la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa a carico della società ricorrente e delle note rispettivamente delle società Beta e Gamma con le quali venivano revocate alla ricorrente le autorizzazioni al subappalto per il trasporto di materiali di risulta e per il noleggio di macchinari nonché di ogni altro atto presupposto, collegato o connesso.
In prima battuta dinanzi all’eccezione di carenza di giurisdizione sollevata dalla società Gamma, il TAR Campania ha rilevato che la controversia avente ad oggetto il recesso e/o la risoluzione di un contratto di subappalto posto in essere dalla ditta appaltatrice dei lavori a seguito dell’emissione di informativa prefettizia interdittiva, rientra a pieno titolo nella giurisdizione del giudice amministrativo.
Il Collegio ha infatti evidenziato come non sia possibile attribuire a tale recesso natura privatistica e negoziale dal momento che, vi è una manifestazione del potere autoritativo di valutazione del requisito di moralità professionale del contraente che attiene alla scelta di quest’ultimo e che rimane estraneo alla sfera del diritto privato.
Ciò posto, tale ipotesi di recesso appare legata, non già ad inadempienze afferenti la fase di esecuzione del contratto, che risulterebbero devolute alla cognizione del giudice ordinario, bensì all’informativa prefettizia ed alla revoca dell’autorizzazione al subappalto che come tale deve essere necessariamente annoverata tra le forme di espressione del potere pubblicistico di valutazione delle situazioni soggettive ostative alla contrattazione volte a soddisfare l’esigenza di evitare che la pubblica amministrazione direttamente, o per il tramite dei soggetti investiti dell’esecuzione di un appalto, si trovi ad intrattenere rapporti contrattuali con imprese nei cui confronti emergono sospetti di collegamenti con la criminalità organizzata.
La ricorrente ha rilevato altresì che il provvedimento di risoluzione contrattuale non era stato proceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 7 legge 241/1990 con ciò provocando una lesione del proprio diritto di difesa.
Il Giudice Amministrativo ha tuttavia rigettato l’eccezione rilevando che trattandosi nella specie di procedimenti in materia di tutela antimafia caratterizzati intrinsecamente da riservatezza ed urgenza, debba essere esclusa, in presenza di informativa prefettizia dietro la quale si cela il concreto pericolo di infiltrazioni mafiose, la necessità di provvedere all’informativa di avvio del procedimento. In particolare nel caso in esame, era risultato un coinvolgimento dell’amministratore unico della società ricorrente in fattispecie delittuose rilevanti sotto il profilo cautelare antimafia, finalizzate ad agevolare l’attività di un’associazione camorristica.
Il Collegio ha al contrario valutato passibile di accoglimento, la doglianza della ricorrente che lamentava un difetto di istruttutoria e di motivazione nell’informativa prefettizia, stante che la stessa ometteva di valutare la successiva sentenza con la quale l’amministratore unico della società ricorrente veniva assolto dai reati ascrittigli.
Il TAR Campania pertanto, a parziale accoglimento del ricorso, in proposito ha rilevato che pur potendosi un giudizio di contiguità mafiosa basarsi unicamente su elementi meramente indiziari, è escluso, in quanto non rispondente a canoni di adeguatezza e razionalità dell’azione amministrativa che, l’organo indiziario possa non tenere conto delle sentenze o dei provvedimenti giurisdizionali che, in epoca successiva, abbiano confutato o, comunque, sminuito la portata indiziaria di circostanze in un primo momento ritenute indicative della sussistenza dei tentativi di infiltrazione mafiosa (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 28.03.2012 n. 1511 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Esclusione dalle gare d’appalto per le imprese imprese che si sono rese responsabili di gravi inadempienze nell'esecuzione di precedenti contratti. Presupposti per l’applicabilità.
Illegittimità dell’aggiudicazione in favore di una ditta che ha omesso di dichiarare una precedente risoluzione di un rapporto contrattuale con la P.A. per grave inadempimento e/o malafede.

L'articolo 38, comma 1, lettera f), del D.Lgs. n. 163 del 2006 (codice dei contratti pubblici), nel precludere la partecipazione alle gare d'appalto alle imprese che si sono rese responsabili di gravi inadempienze nell'esecuzione di precedenti contratti (denotando ciò un'inidoneità "tecnico-morale" a contrarre con la P.A.), fissa il duplice principio che la sussistenza di tali situazioni ostative può essere desunta da qualsiasi mezzo di prova e che il provvedimento di esclusione deve essere motivato congruamente (1). Per procedere alla esclusione in questione è necessario quindi che sia fornita un'adeguata prova dell'inadempimento e che lo stesso rilevi sul piano del venir meno dell'affidabilità dell'impresa nei confronti della Amministrazione.
E’ illegittima l’aggiudicazione di una gara di appalto in favore di una ditta che, nonostante la chiara e specifica prescrizione della lex specialis, prevista a pena di esclusione, ha omesso di dichiarare una precedente risoluzione contrattuale disposta dalla P.A. per grave inadempimento e/o malafede, ex art. 38, co. 1, lettera f), del D.Lgs. n. 163 del 2006, a nulla rilevando che tale inadempimento sia stato posto in essere dalla società fusa per incorporazione e successivamente sanato; in tal caso, infatti, la sostanziale causa di esclusione non è tanto quella del grave inadempimento, peraltro successivamente sanato, in cui è incorsa la ditta interessata nei rapporti contrattuali con la P.A., bensì quella, formale, di aver violato un precetto del bando, e, quindi, il principio della par condicio (2).
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(1) Cfr. Cons. Stato, sez. V, 27.01.2010 n. 296
(2) Cfr. Cons. Stato, Sez. V, sent. 21.10.2011 n. 5674, secondo la quale "nel caso in cui il bando di gara non si limiti a chiedere una generica dichiarazione di insussistenza in ordine alle cause di esclusione di cui all'articolo 38, ma specifichi l'obbligo di menzionare tutte le eventuali condanne penali riportate, causa di esclusione è quella, formale, di aver violato un precetto del bando, mediante autocertificazione contraria al vero".
Il principio è apparso esattamente trasponibile al caso affrontato dalla sentenza in rassegna, posto che ciò che era stato contestato nella specie non era la sussistenza attuale del valore della revoca per inadempimento, ma unicamente la mancanza della prescritta dichiarazione, in un caso in cui invece tale dichiarazione avrebbe dovuto essere rilasciata
(massima tratta da www.regione.piemonte.it -
TAR Veneto, Sez. I, sentenza 23.03.2012 n. 412 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: L’accesso al pubblico impiego, così come i passaggi a qualifiche funzionali superiori, sono subordinati alla partecipazione ad un concorso pubblico. Applicabilità del principio anche nel caso di trasformazione di un posto previsto in pianta organica in uno di qualifica superiore.
Nel caso in cui sia stata adottata da parte di un Ente locale una delibera che non riguarda solo il diverso inquadramento in una superiore qualifica funzionale di un dipendente, ma anche la trasformazione del posto (nella specie un posto di geometra -capo ufficio- VI livello funzionale era stato trasformato in quello di geometra -capo sezione- VII livello funzionale), legittimamente l’Amministrazione pone il vincolo che l’approvazione da parte della Commissione Centrale Finanza Locale della modifica della pianta organica e della variazione del posto sia presupposto inderogabile per la copertura del posto stesso.
Le Amministrazioni pubbliche e, segnatamente, gli Enti locali non possono in alcun modo eludere il principio che l’accesso al pubblico impiego, così come i passaggi a qualifiche funzionali superiori, sono subordinati alla partecipazione ad un concorso pubblico, prescrizione che va rispettata anche nel caso di trasformazione di un posto previsto in pianta organica in uno di qualifica superiore. Ai sensi dell’art. 5, comma 18, della legge 08.01.1979, n. 3, per l'instaurazione di un valido rapporto di impiego con un ente pubblico è necessaria, infatti, la partecipazione ad un concorso o ad una prova selettiva pubblica, perché il concorso pubblico, quale meccanismo imparziale di selezione tecnica e neutrale dei più capaci sulla base del criterio del merito, costituisce la forma generale e ordinaria di reclutamento per le pubbliche amministrazioni, nonché un ineludibile presidio delle esigenze di trasparenza e di efficienza dell'azione amministrativa.
Le eccezioni a tale regola consentite dall'art. 97 della Costituzione possono essere disposte solo con legge e debbono rispondere a "peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico" (Corte Cost., sentenza 22.02.2006, n. 81), altrimenti la deroga si risolverebbe in un privilegio a favore di categorie più o meno ampie di persone (Corte Cost., sentenza 17.05.2006, n. 205) (
massima tratta da www.regione.piemonte.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.03.2012 n. 1625 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE: Danno all’immagine subito da un Ente locale.
Può essere accolta la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale e, in particolare, del danno all’immagine e al prestigio, avanzata da un Ente locale nei confronti di una ditta, in conseguenza dell’inadempimento dalla stessa posto in essere, rispetto all’obbligo contrattualmente assunto con il Comune, di realizzare, in tempo utile per lo svolgimento di attività culturali e, segnatamente, della stagione teatrale, preventivamente e appositamente programmata, una tensostruttura da assumere in noleggio, rivelatasi in seguito fatiscente e inidonea allo scopo; infatti, anche le persone giuridiche, tra cui vanno compresi gli Enti territoriali esponenziali, quale un Comune, possono essere lesi in quei diritti immateriali della personalità, che sono compatibili con l’assenza di fisicità, quali i diritti all’immagine, alla reputazione, all’identità storica, culturale, e politica costituzionalmente protetti ed in tale ipotesi ben possono agire per il ristoro del danno patrimoniale (1).
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(1) Ha ricordato, al riguardo, la Suprema Corte, che, secondo l’orientamento ormai consolidato del Giudice di legittimità, "poiché anche nei confronti della persona giuridica ed in genere dell’ente collettivo è configurabile la risarcibilità del danno non patrimoniale allorquando il fatto lesivo incida su una situazione giuridica della persona giuridica o dell’ente che sia equivalente ai diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla Costituzione, e fra tali diritti rientra l’immagine della persona giuridica o dell’ente, allorquando si verifichi la lesione di tale immagine, è risarcibile, oltre al danno patrimoniale, se verificatosi, e se dimostrato, il danno non patrimoniale costituito –come danno c.d. conseguenza– dalla diminuzione della considerazione della persona giuridica o dell’ente nel che si esprime la sua immagine, sia sotto il profilo della incidenza negativa che tale diminuzione comporta nell’agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi della persona giuridica o dell’ente e, quindi, nell’agire dell’ente, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica o l’ente di norma interagisca (Cass. n. 12929/2007).
Ed invero, anche le persone giuridiche, tra cui vanno compresi gli enti territoriali esponenziali, quale un Comune, possono essere lesi in quei diritti immateriali della personalità, che sono compatibili con l’assenza di fisicità, quali i diritti all’immagine, alla reputazione, all’identità storica, culturale, e politica costituzionalmente protetti ed in tale ipotesi ben possono agire per il ristoro del danno patrimoniale.
E’ stato aggiunto che deve ormai considerarsi jus receptum il fatto che un danno non patrimoniale possa configurarsi anche in conseguenza di un inadempimento contrattuale (cfr Sez. Un. n. 26972/2008, Sez. Un. n. 26975, Sez. Un. n. 6572/2006) ed era inoltre condividibile l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui il danno all’immagine o al prestigio del Comune e della sua amministrazione, quale danno non patrimoniale conseguente ad inadempimento contrattuale, è suscettibile di essere risarcito sulla base dell’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cc che ne ammette l’applicabilità a tutti i danni non patrimoniali a prescindere dalla circostanza che la lesione consegua ad un titolo di responsabilità aquiliana o contrattuale
(Corte di Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 22.03.2012 n. 4542 - massima tratta da www.regione.piemonte.it).

APPALTI: Offerte anomale, il giudizio influisce sulla motivazione.
Nel subprocedimento di verifica dell'anomalia dell'offerta, la P.A. ha l'obbligo di motivare la propria decisione in maniera approfondita in caso di giudizio negativo, mentre è sufficiente una per relationem in caso di esito positivo della verifica.
Con
sentenza 16.03.2012 n. 1467 la III Sez. del Consiglio di Stato ha affermato che In sede di gara d'appalto, nel sub-procedimento di verifica dell'anomalia dell'offerta, la Stazione appaltante ha l'obbligo di motivare la propria decisione in maniera particolarmente approfondita solo nel caso in cui esprime un giudizio negativo che fa venire meno l'aggiudicazione. In sostanza, una motivazione approfondita è necessaria quando la stazione appaltante considera l’offerta nel complesso inaffidabile.
L’onere motivazionale nel provvedimento negativo va, tuttavia, inteso con una certa flessibilità, permettendo all’amministrazione di effettuare una valutazione di tutti gli elementi dell’offerta ritenendola nel complesso inaffidabile oppure di soffermarsi anche solo su singole, ma essenziali, componenti dell’offerta.
Se tali elementi essenziali non risultano congrui, in ossequio ad una concezione ‘sostanziale’ dell’agire amministrativo, non si reputa necessario esaminare le giustificazioni riguardanti le altre componenti, meno rilevanti, dell’offerta stessa, in quanto è da presumere che quelle voci incidano sulla serietà ed affidabilità dell'intera offerta, di modo che, accertata l'incongruità degli elementi giustificativi presentati e di conseguenza delle sottostanti voci di prezzo, non occorre che quel giudizio di incongruità sia anche suffragato da un ulteriore, separato, giudizio di incongruità della globalità dell'offerta.
Nel caso di positiva valutazione di congruità dell'offerta sospettata di anomalia, invece, non si richiede che la motivazione sia particolarmente analitica e puntuale, potendo in tal caso trovare sostegno per relationem nelle stesse giustificazioni presentate dal concorrente.
Tuttavia, pur se è sufficiente la motivazione per relationem, va garantita la possibilità ai soggetti interessati di ricostruire l'iter logico giuridico seguito dalla stazione appaltante per l'adozione del provvedimento, con la conseguenza che per un verso, non v'è dubbio che il richiamo alle giustificazioni fornite dall'operatore economico può essere utilmente effettuato per spiegare le ragioni della valutazione di congruità; tuttavia, per altro verso, tale facilitazione non esonera la stazione appaltante dall’obbligo di mettere la parte interessata in condizione di apprezzare l'iter logico giuridico seguito dall’amministrazione (commento tratto da www.ipsoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALILa Pec va sul web. P.a. inerte costretta dal giudice. Basilicata si rifà alle ultime novità normative.
L'amministrazione deve pubblicare sul proprio sito web il suo indirizzo di posta elettronica certificata (pec). In mancanza il giudice può costringerla a farlo.

Lo ha stabilito il TAR Basilicata con la
sentenza 23.09.2011 n. 478 che, per la prima volta, si occupa di questo problema.
Alcuni cittadini, insieme a due associazioni, lamentano l'assenza di ogni riferimento di posta elettronica certificata sul sito web della Regione Basilicata con la quale vorrebbero comunicare.
L'obbligo per le amministrazioni italiane di dotarsi di un proprio indirizzo di posta elettronica certificata rendendolo pubblico è previsto da più testi legislativi. In particolare, è soprattutto il nuovo Codice dell'amministrazione digitale (decreto legislativo 07.03.2005 n. 82) ad imporre alle amministrazioni pubbliche di adeguarsi allo sviluppo tecnologico per dialogare non solo tra loro ma anche con i cittadini. Quest'ultimi, infatti, godono di un vero e proprio diritto a richiedere ed ottenere l'uso delle tecnologie telematiche per qualsiasi tipo di comunicazione o invio di documenti. Anche il «Decreto Brunetta» (decreto legislativo 27.10.2009 n. 150) conferma questo impegno, al fine di ottimizzare la produttività del lavoro pubblico nonché l'efficienza e la trasparenza dell'azione amministrativa.
La posta certificata è considerata un sistema di comunicazione sicuro e semplice da utilizzare, imposto per legge alla pubblica amministrazione, che però, fa fatica ad allinearsi. E il ritardo crea, secondo i giudici amministrativi, un'inefficienza che legittima gli interessati (perlopiù associazioni portatrici di interessi collettivi) ad intentare un giudizio contro le amministrazioni negligenti. Nel caso di specie, tra le varie lamentele dei ricorrenti, il giudice lucano ha riconosciuto l'interesse ad agire di un'associazione dedita, per statuto, alla difesa delle «libertà digitali» e allo sviluppo di «una comunicazione in rete che sappia coinvolgere ed informare».
Al Tar viene fatto presente il diritto di ogni cittadino a poter gestire i propri rapporti con le amministrazioni nel modo più semplice e veloce. Viene inoltre sottolineata l'esigenza che gli estremi telematici dell'amministrazione vengano resi visibili e facilmente reperibili.
Tali esigenze non sono state soddisfatte dalla Regione Basilicata. Di conseguenza il giudice, dopo aver accertato la fondatezza del ricorso, ha condannato l'amministrazione a pubblicare il proprio indirizzo pec e ad allinearsi alla disciplina vigente (articolo ItaliaOggi del 24.05.2012).

URBANISTICALa giunta ed il consiglio comunale non possono effettuare valutazioni che contrastino con quelle già formalizzate con il piano regolatore.
Infatti, se un’area è stata da questo destinata all’edificazione, nel corso del procedimento di approvazione del piano attuativo non è giuridicamente possibile che la medesima area non vada considerata in concreto edificabile “per ragioni ambientali e paesaggistiche”, e cioè sulla base di valutazioni diametralmente opposte a quelle già poste a base dello strumento primario che ha previsto l’edificabilità sul piano urbanistico.
Ove emergano le relative ragioni, può essere attivato il procedimento per la modifica del piano regolatore, ma –sul piano urbanistico- non può essere respinto il progetto di lottizzazione conforme allo strumento primario.
La giunta e il consiglio comunale possono invece verificare se il progetto sia conforme alle previsioni dello strumento urbanistico primario e, nell’esercizio dei loro poteri tecnico-discrezionali, possono anche verificare se la prevista viabilità sia sufficiente sotto i profili della sicurezza e del razionale utilizzo del territorio.
Le relative determinazioni, sulla non conformità del progetto al piano regolatore o sulla insufficienza della prevista viabilità, devono basarsi su una puntuale motivazione, per consentire l’emersione di interessi pubblici effettivamente sussistenti, nonché la tutela dell’interessato in sede di giustizia amministrativa.

Ad avviso del Comune:
- al termine del procedimento disciplinato dall’art. 20 della legge regionale n. 11 del 2004, il consiglio comunale potrebbe negare l’approvazione del progetto di lottizzazione, pur conforme alle previsioni urbanistiche, in quanto “non coerente con il sistema di viabilità esistente, con l’andamento demografico comunale e con le esigenze ambientali e paesaggistiche del territorio”;
- la delibera n. 33 del 2007 avrebbe compiutamente rilevato la sussistenza di tale incoerenza;
- in particolare per l’aspetto della viabilità, nel corso della discussione sarebbe emerso che “la viabilità di accesso alla lottizzazione risulta assolutamente insufficiente ed inidonea a sostenere un devastante carico di traffico veicolare”, con riferimento alla via Enego e alla via Villa Rossi;
- in particolare per l’andamento demografico, nel corso della discussione sarebbe stata rilevata anche l’insufficienza dei servizi pubblici;
- nel corso del procedimento di approvazione, la giunta comunale avrebbe una competenza di carattere tecnico sull’accertamento della conformità alle previsioni urbanistiche, mentre il consiglio comunale avrebbe una competenza di carattere politico-amministrativo, che consentirebbe valutazioni discrezionali in funzione della pianificazione del territorio.
Le articolate censure dell’appellante, così riassunte, vanno nel loro complesso respinte, perché infondate, anche se hanno posto in evidenza l’insufficiente motivazione con cui il TAR ha rilevato la sussistenza dei vizi dedotti in primo grado.
Per quanto riguarda l’ambito dei poteri che gli organi comunali possono esercitare nel corso del procedimento disciplinato dall’art. 20 della legge n. 11 del 2004, ritiene la Sezione che la giunta ed il consiglio comunale non possono effettuare valutazioni che contrastino con quelle già formalizzate con il piano regolatore.
Infatti, se un’area è stata da questo destinata all’edificazione, nel corso del procedimento di approvazione del piano attuativo non è giuridicamente possibile che la medesima area non vada considerata in concreto edificabile “per ragioni ambientali e paesaggistiche”, e cioè sulla base di valutazioni diametralmente opposte a quelle già poste a base dello strumento primario che ha previsto l’edificabilità sul piano urbanistico.
Ove emergano le relative ragioni, può essere attivato il procedimento per la modifica del piano regolatore, ma –sul piano urbanistico- non può essere respinto il progetto di lottizzazione conforme allo strumento primario.
La giunta e il consiglio comunale possono invece verificare se il progetto sia conforme alle previsioni dello strumento urbanistico primario e, nell’esercizio dei loro poteri tecnico-discrezionali, possono anche verificare se la prevista viabilità sia sufficiente sotto i profili della sicurezza e del razionale utilizzo del territorio.
Le relative determinazioni, sulla non conformità del progetto al piano regolatore o sulla insufficienza della prevista viabilità, devono basarsi su una puntuale motivazione, per consentire l’emersione di interessi pubblici effettivamente sussistenti, nonché la tutela dell’interessato in sede di giustizia amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.09.2008 n. 4368 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 23.05.2012

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GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - VARI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 21 del 23.05.2012, "Direzione generale Sistemi verdi e paesaggio - Modalità di iscrizione all’elenco dei direttori dei parchi regionali e di tenuta e aggiornamento dello stesso (d.g.r. 3366/2012)" (decreto D.U.O. 16.05.2012 n. 4234).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - VARI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 21 del 23.05.2012, "Art. 22-quater della l.r. 86/1983: istituzione dell’elenco dei direttori dei parchi regionali - Individuazione dei requisiti professionali e delle competenze per l’iscrizione all’elenco" (deliberazione G.R. 09.05.2012 n. 3366).

VARI: G.U. 22.05.2012 n. 118 "Regolamento di servizio del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, ai sensi dell’articolo 140 del decreto legislativo 13.10.2005, n. 217" (D.P.R. 28.02.2012 n. 64).

LAVORI PUBBLICI: G.U. 17.05.2012 n. 114 "Rilevazione dei prezzi medi per l’anno 2010 e delle variazioni percentuali annuali, superiori al dieci per cento, relative all’anno 2011, ai fini della determinazione delle compensazioni dei singoli prezzi dei materiali da costruzione più significativi" (D.M. 03.05.2012).
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Edilizia, la crisi non risparmia i materiali da costruzione.
Aumenti rilevanti per l'acciaio tondo impiegato nel cemento armato, per le reti elettrosaldate, per i fili di rame conduttori, per i profilati in rame per lattoneria e lastre e per il bitume. Variazioni comprese tra il l'11 e 12 per cento circa.
La Commissione consultiva centrale per il rilevamento del costo dei materiali da costruzione ha rilevato variazioni percentuali superiori al 10%, in aumento o in diminuzione, dei singoli prezzi dei materiali da costruzione più significativi, verificatesi nell'anno 2011, per effetto di circostanze eccezionali di cui all'art. 133, comma 4, del decreto legislativo n. 163/2006 e successive modifiche e integrazioni, rispetto ai prezzi medi rilevati con riferimento all'anno 2010.
Ai sensi dell'art. 133, commi 4 e 6, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, e successive modifiche e integrazioni, sono rilevati nell'unito allegato n. 1, che forma parte integrante e sostanziale del decreto:
a) i prezzi medi per l'anno 2010 relativi ai materiali da costruzione più significativi che hanno subito variazioni percentuali annuali, in aumento o in diminuzione, verificatesi nell'anno 2011 per effetto di circostanze eccezionali di cui all'art. 133, comma 4, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, e successive modifiche e integrazioni;
b) le variazioni percentuali annuali, in aumento o in diminuzione, verificatesi nell'anno 2011 per effetto di circostanze eccezionali di cui all'art. 133, comma 4, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, e successive modifiche e integrazioni, rispetto ai prezzi medi rilevati con riferimento all'anno 2010
(commento tratto da link a www.ipsoa.it).

QUESITI & PARERI

AMBIENTE-ECOLOGIAQuali limiti ha il deposito temporaneo? (21.05.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIACome è definito il concetto di “normale pratica industriale”, relativamente al sottoprodotto ex art. 184-bis, D.Lgs n. 152/2006? (21.05.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIACome devono essere conferiti i rifiuti indifferenziati? (21.05.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAVale sempre il criterio della “normale tollerabilità”per valutare le emissioni moleste? (21.05.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIACome funziona la gestione dei pneumatici fuori uso? È stato approvato il contributo per l’anno 2012? (21.05.2012 - link a www.ambientelegale.it).

APPALTILa Fondazione studi dei consulenti interviene sull'emissione del documento di regolarità. Srl, i debiti non fermano il Durc. Non rileva la posizione contributiva personale dei singoli soci.
Pubblichiamo il parere 17.05.2012 n. 17 della Fondazione studi dei consulenti del lavoro in materia di «Durc e srl: debiti socio non bloccano emissione».
Il quesito
A una srl unipersonale con dipendenti non viene rilasciato il Durc per via dei debiti pregressi del socio, che ha avuto in passato un'attività con dipendenti come ditta individuale. Può essere questa causa di mancata emissione del Durc? Qual è il rapporto tra due soggetti giuridicamente autonomi? Quali sono le conseguenze giuridiche di una penalizzazione della società per un'omissione del socio?
Premessa
Per regolarità contributiva deve intendersi la correntezza nei pagamenti e negli adempimenti previdenziali, assistenziali e assicurativi nonché di tutti gli altri obblighi previsti dalla normativa vigente riferita all'intera situazione aziendale (salvo le specificità previste per le Casse edili) (circolare Ministero lavoro del 30.01.2008, n. 5). L'Inps, l'Inail e la Cassa edile sono tenuti a verificare la regolarità dell'impresa sulla base della rispettiva normativa di riferimento rilevati alla data indicata nella richiesta e, ove questa manchi, alla data di redazione del certificato, purché nei termini stabiliti per il rilascio o per la formazione del silenzio assenso.
Ai fini Inps un'impresa è regolare quando ricorrono le seguenti condizioni:
- che sussista la correntezza degli adempimenti mensili o, comunque, periodici;
- che si accerti che i versamenti effettuati corrispondano all'importo del saldo denunciato entro il termine, a tal fine determinato, dell'ultimo giorno del mese successivo a quello di riferimento;
- che non esistano inadempienze in atto;
- che non esistano note di rettifica notificate, non contestate e non pagate.
L'impresa è altresì regolare quando:
- vi sia richiesta di rateazione per la quale la Struttura periferica competente abbia espresso parere favorevole motivato;
- vi siano sospensioni dei pagamenti a seguito di disposizioni legislative (es. calamità naturali);
- sia stata inoltrata istanza di compensazione per la quale sia stato documentato il credito;
- via siano crediti iscritti a ruolo per i quali sia stata disposta la sospensione della cartella amministrativa o in seguito a ricorso giudiziario.
Le società di capitali
Le società a responsabilità limitata a socio unico è una società di capitali. Le società di capitali sono società definite tali in quanto in esse l'elemento del capitale ha una prevalenza concettuale e normativa rispetto all'elemento soggettivo rappresentato dai soci. La partecipazione dei soci al capitale sociale può essere rappresentata da azioni o da quote a seconda della specifica tipologia societaria.
Le caratteristiche delle società di capitali sono:personalità giuridica e autonomia patrimoniale perfetta (la società risponde soltanto con il suo patrimonio) (art. 2331 c.c.). Fanno eccezione le sapa, dove i soci accomandanti sono obbligati soltanto nei limiti della quota del capitale sociale sottoscritta, mentre i soci accomandatari rispondono solidalmente e illimitatamente.
Con il riconoscimento della personalità giuridica, le società (di capitali e le cooperative) sono trattate, per legge, come soggetti di diritto formalmente distinte dalle persone dei soci (piena e perfetta autonomia patrimoniale). I beni conferiti dai soci diventano beni di proprietà della società: questa è titolare di un proprio patrimonio, di propri diritti e di proprie obbligazioni distinti da quelli personali dei soci. I creditori personali dei soci non possono soddisfarsi sul patrimonio sociale, né i creditori sociali possono soddisfarsi sul patrimonio personale dei soci.
L'intervento della prassi
Sul tema oggetto del quesito è intervenuta l'Inps con il messaggio 18.06.2010 n. 16246 con cui fornisce chiarimenti per il rilascio del Durc in relazione alla natura giuridica del richiedente.
Società di capitali. Nell'ambito delle società di capitali si tratta di persone giuridiche caratterizzate da autonomia patrimoniale perfetta, dunque, la verifica va effettuata sulla contribuzione per dipendenti e collaboratori nonché ai contributi dovuti alla gestione separata per i compensi percepiti dall'amministratore. A nulla rileva, in conclusione, la verifica sulla posizione personale dei singoli soci, in quanto la società non risponde, ai sensi delle norme civilistiche, delle loro irregolarità contributive.
La verifica di correntezza contributiva nei casi di società deve essere operata per i soci di società in nome collettivo, per il socio accomandatario di società in accomandita semplice e per l'amministratore per la società a responsabilità limitata. Pertanto nei casi di società costituita nella forma di a responsabilità limitata e quindi rientrante nella tipologia di società di capitali, caratterizzata da autonomia patrimoniale perfetta, le situazioni patrimoniali dei soci non incidono sul patrimonio sociale e quindi ai fini del rilascio della correntezza contributiva la verifica va limitata alla posizione aziendale.
Società di persone. La regolarità contributiva va rilasciata avendo cura di verificare la posizione dei lavoratori dipendenti, di eventuali collaboratori iscritti alla gestione separata e dei singoli soci iscritti alle diverse gestioni dell'Istituto, diversi dall'accomandant.
Impresa individuale. Il controllo della posizione contributiva, oltre quella dei lavoratori dipendenti e dei collaboratori iscritti alla gestione separata, va esteso alla gestione previdenziale in cui è iscritto il titolare ed eventuali suoi coadiutori.
Soluzione al quesito
Pertanto nella società di capitale, come le srl unipersonali, nulla rileva la verifica sulla posizione personale dei singoli soci, posto che la società non risponde, ai sensi delle norme civilistiche, delle loro irregolarità contributive, ne consegue che i debiti pregressi della ditta individuale, non possono inquinare eventuali nuova società, giuridicamente distinte (articolo ItaliaOggi del 22.05.2012).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

AMBIENTE-ECOLOGIA: V. Paone, Emissioni in atmosfera, molestia alle persone e intervento giudiziario (nota a Cass. pen. n. 37495/2011) (link a www.lexambiente.it).

INCARICHI PROGETTUALI: L. Bellagamba, Abbaglio del Consiglio di Stato: i servizi attinenti all'urbanistica non rientrano nella disciplina specifica prevista per i servizi attinenti all'architettura e all'ingegneria - commento a Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 15.05.2012 n. 2800 (17.05.2012 - link a www.linobellagamba.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: F. Taormina, Brevi note sul silenzio della pubblica amministrazione (link a www.giustizia-amministrativa.it).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Compensi al RUP e art. 9, comma 2-bis, d.l. 78/2010.
La Corte dei Conti, sezione regionale Veneto, con il parere 11.05.2012 n. 325, conferma che "... il compenso spettante al responsabile unico del procedimento (RUP) in materia di lavori pubblici è ricompreso fra le prestazioni professionali per la progettazione di opere pubbliche, in applicazione delle disposizioni di cui agli articoli 10 e 92 del D.Lgs. 163/2006, e, quindi, escluso dall'ambito applicativo dei vincoli di cui all'art. 9, comma 2-bis, del d.l. 78/2010" (tratto da www.publika.it).

NEWS

EDILIZIA PRIVATALA CIRCOLARE SULL'IMU/ Pertinenze, comuni senza poteri. I sindaci non possono più intervenire con regolamento. Chi affitta parte della prima casa paga solo l'Imu se il canone è basso.
I comuni non possono individuare con regolamento le pertinenze da considerare parti integranti dell'abitazione principale. Il dl Salva Italia, infatti, ha abrogato tale facoltà riconosciuta agli enti locali dall'art. 59 del dlgs n. 446/1997. Chi affitta una camera dell'abitazione principale (per esempio a uno studente) paga solo l'Imu se il canone di locazione è inferiore alla rendita catastale rivalutata. Diversamente, oltre all'Imu va versata anche l'Irpef.
I chiarimenti sono contenuti nella
circolare 18.05.2012 n. 3/DF del dipartimento delle finanze.
Pertinenze. Il dl 201 individua con precisione le unità immobiliari che possono essere considerate pertinenze. Tali sono gli immobili appartenenti alle categorie catastali C/2 (magazzini, cantine, soffitte se non unite all'abitazione), C/6 (stalle, scuderie, rimesse, autorimesse), C/7 (tettoie). Il contribuente potrà considerare come pertinenza della prima casa (e così applicare ad esse l'aliquota del 4 per mille) una unità immobiliare per ciascuna categoria catastale fino a un massimo di tre (in pratica una per categoria).
Ciò significa che chi possiede per esempio una cantina (accatastata come C/2) e due box (C/6) dovrà scegliere quale dei due garage collegare all'abitazione principale. Ma se la cantina risulta già iscritta in catasto congiuntamente alla prima casa, il contribuente potrà applicare le agevolazioni solo a pertinenze di categoria catastale diversa da C/2. Questo perché, chiarisce la nota del Mef, nel limite massimo di tre pertinenze rientra anche quella iscritta in catasto insieme all'abitazione principale.
Un altro caso particolare riguarda l'ipotesi in cui due pertinenze della stessa categoria (di solito la soffitta e la cantina, entrambe C/2) siano accatastate insieme all'abitazione principale. In questa ipotesi il contribuente non dovrà rinunciare a una delle due, ma per rispettare la regola del tre potrà usufruire delle agevolazioni per l'abitazione principale solo per un'altra pertinenza di categoria C/6 o C/7.
Abitazione parzialmente locata. Si tratta di un'ipotesi assai diffusa (soprattutto nelle città universitarie) a cui la nota del Mef dedica particolare attenzione all'interno del capitolo dedicato ai rapporti tra Imu e imposte sui redditi. Com'è noto, l'Imu ingloba l'Irpef fondiaria e le relative addizionali comunali e regionali. Ragion per cui regola generale vuole che se un immobile non è locato (e tali vanno considerati anche quelli concessi in comodato d'uso gratuito o utilizzati a uso promiscuo dal professionista) si paga solo l'Imu, mentre se è locato si paga l'Imu e anche l'Irpef sul reddito da locazione.
Un caso particolare è proprio quello dell'abitazione principale «parzialmente locata». Ossia la prima casa occupata dal proprietario per la parte principale e data in affitto per la parte rimanente. Le Finanze hanno chiarito che, per capire se oltre all'Imu vada o meno pagata anche l'Irpef sull'affitto, si debba guardare al canone. Se è inferiore alla rendita catastale rivalutata del 5% si paga solo l'Imu. Se è più alto della rendita rivalutata bisognerà pagare l'Imu e l'Irpef (articolo ItaliaOggi del 22.05.2012).

ENTI LOCALI - VARILA CIRCOLARE SULL'IMU/ La dichiarazione Ici vale ancora. Il contribuente che ha assolto l'obbligo non deve ripresentarla. Se il presupposto è sorto dal 1° gennaio c'è tempo fino al 1° ottobre.
La dichiarazione Ici vale anche per l'Imu. I contribuenti che hanno già assolto all'obbligo non sono tenuti a ripresentare la dichiarazione, nonostante si tratti di un tributo diverso. Con la nuova imposta locale viene ridotto a 90 giorni il termine per dichiarare gli immobili posseduti. Tuttavia, per quelli per i quali l'obbligo è sorto dall'01.01.2012, la dichiarazione deve essere presentata entro il 1° ottobre di quest'anno.
Sono alcuni chiarimenti che ha fornito il dipartimento delle finanze del ministero dell'economia, con la
circolare 18.05.2012 n. 3/DF.
Secondo il dipartimento, il termine del 1° ottobre va rispettato da tutti i contribuenti (proprietari, usufruttuari e titolari di altri diritti reali) per i quali l'obbligo è sorto dall'inizio dell'anno. Naturalmente, occorre comunque garantire agli interessati il rispetto del termine minimo di 90 giorni. «Pertanto, se l'obbligo dichiarativo è sorto, per esempio, il 31 agosto il contribuente potrà presentare la dichiarazione Imu entro il 29.11.2012». Mentre per i titolari di fabbricati rurali non censiti in catasto, i 90 giorni decorrono dal 30.11.2012, che è il termine ultimo fissato dall'articolo 13 del dl Salva Italia (201/2011) entro il quale i fabbricati iscritti al catasto terreni devono transitare in quello urbano.
Per semplificare la vita ai contribuenti, non è disposto per la nuova imposta municipale un autonomo obbligo di ripresentare una tantum la dichiarazione. Cosa che invece sarebbe stata auspicabile, per consentire alle amministrazioni locali di acquisire le informazioni necessarie alla gestione dell'imposta e per aggiornare le banche dati. Il problema riguarda, per esempio, gli immobili adibiti dal contribuente a pertinenze dell'abitazione principale, nel caso in cui ne possieda più di una della stessa tipologia (due garage inquadrati catastalmente nella categoria C/6). Essendo limitato il beneficio solo a uno dei due garage, il contribuente dovrebbe dichiarare quale dei due intende destinare al servizio dell'abitazione, mentre sull'altro il tributo va pagato in via ordinaria, con l'aliquota del 7,6 per mille. Invece è più semplice per il comune accertare, attraverso l'anagrafe, se il contribuente abbia diritto all'ulteriore detrazione di 50 euro per ogni figlio, di età non superiore a 26 anni.
Nella circolare viene posto in evidenza che la lettura coordinata delle varie disposizioni di legge che disciplinano l'Imu fa ritenere che probabilmente verranno ulteriormente ridotte le ipotesi in cui è richiesto di presentare la dichiarazione. L'articolo 13 del decreto Monti, infatti, rinvia a un apposito decreto del ministero dell'economia e delle finanze sia l'approvazione del nuovo modello di dichiarazione sia l'individuazione dei casi in cui ancora persiste l'obbligo.
Del resto, già il decreto ministeriale del 23.04.2008 aveva esteso l'esclusione dell'obbligo dichiarativo oltre i casi previsti dall'articolo 37, comma 53 del dl 223/2006.
Come per l'Ici, il contribuente non è tenuto a presentare la dichiarazione Imu se gli elementi rilevanti ai fini dell'imposta sono acquisibili dai comuni attraverso la consultazione della banca dati catastale.
Nello specifico, tra i casi più significativi, l'adempimento è richiesto quando: l'immobile viene concesso in locazione finanziaria, un terreno agricolo diventa area edificabile o, viceversa, l'area diviene edificabile in seguito alla demolizione di un fabbricato.
Quindi, va dichiarato qualsiasi atto costitutivo, modificativo o traslativo del diritto che abbia avuto a oggetto un'area fabbricabile. Il valore dell'area, che è quello di mercato, deve sempre essere dichiarato dal contribuente, poiché questa informazione non è presente nella banca dati catastale. Ecco perché l'obbligo non sussiste quando viene alienata un'area fabbricabile, se non ha subito modifiche il suo valore di mercato rispetto a quello dichiarato in precedenza.
Inoltre, le riduzioni d'imposta devono essere dichiarate sia se si acquista sia se si perde il relativo diritto. L'obbligo non è abolito neppure per gli immobili posseduti dalle imprese, che sono tenute a dichiarare il valore sulla base delle scritture contabili fino all'anno di attribuzione della rendita catastale. La dichiarazione, poi, deve essere presentata per gli immobili relativamente ai quali siano intervenute delle modifiche rilevanti ai fini della determinazione dell'imposta dovuta e del soggetto obbligato al pagamento. Dunque, vanno dichiarate le modifiche che possono riguardare la titolarità del possesso, la struttura o la destinazione dell'immobile.
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L'imposta municipale è dovuta anche per i terreni incolti. La nozione di imprenditore agricolo professionale si estende anche alle società.
Anche per i terreni incolti è dovuta l'Imu. La nozione di imprenditore agricolo professionale va estesa anche alle società di persone, cooperative e di capitale. Il gettito dell'Imu va integralmente al comune per gli immobili posseduti da anziani e disabili che acquisiscono la residenza in istituti di ricovero o sanitari a seguito di ricovero permanente, a condizione che la stessa non risulti locata e dai cittadini italiani residenti all'estero.
Queste sono solo alcune delle precisazioni contenute nella
circolare 18.05.2012 n. 3/DF del dipartimento delle finanze.
Tra queste l'ampliamento del presupposto impositivo che a norma dell'art. 13, comma 2, del dl 06.12.2011, n. 201, è costituito dal possesso di qualunque immobile, ivi comprese l'abitazione principale e le pertinenze della stessa.
Pertanto devono scontare l'Imu non solo i terreni agricoli, i fabbricati e le aree fabbricabili (per i quali restano ancora ferme le definizioni stabilite dall'art. 2 del dlgs 30.12.1992, n. 504) ma anche gli immobili che non rientrano in tali categorie, come ad esempio, i terreni incolti.
Una conferma di ciò, si trova, peraltro, nel comma 5 dello stesso art. 13, il quale stabilisce che il valore dei terreni agricoli, anche non coltivati, posseduti e condotti da coltivatori diretti e da imprenditori agricoli professionali iscritti nella previdenza agricola, è costituito da quello ottenuto applicando all'ammontare del reddito dominicale risultante in catasto, vigente al 1° gennaio dell'anno di imposizione, rivalutato del 25%, ai sensi dell'art. 3, comma 51, della legge n. 662 del 1996, un moltiplicatore pari a 110. La circolare, coerentemente precisa che per gli altri terreni agricoli, anche non coltivati, il moltiplicatore è, invece, pari a 135.
I coltivatori diretti e gli imprenditori agricoli professionali.
Non solo le persone fisiche, come accadeva per l'Ici, ma anche società di persone, cooperative e di capitale possono godere del trattamento agevolato Imu.
Le norme del nuovo tributo, infatti, precisano a chiare lettere che i soggetti richiamati dall'art. 2, comma 1, lettera b), secondo periodo, del dlgs n. 504 del 1992 (e cioè gli imprenditori agricoli che esplicano la loro attività a titolo principale) sono individuati nei «coltivatori diretti e negli imprenditori agricoli professionali di cui all'articolo 1 del decreto legislativo 29.03.2004, n. 99, e successive modificazioni, iscritti nella previdenza agricola».
In base a tale norma è Iap colui che dedica alle attività agricole di cui all'art. 2135 del codice civile, direttamente o in qualità di socio di società, almeno il 50% del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricava dalle attività medesime almeno il 50% del reddito globale da lavoro.
Questa nuova definizione supera nettamente quella dettata dall'art. 58, comma 2, del dlgs. n. 446 del 1997, in base al quale «si considerano coltivatori diretti o imprenditori agricoli a titolo principale le persone fisiche iscritte negli appositi elenchi comunali e soggetti al corrispondente obbligo dell'assicurazione per invalidità, vecchiaia e malattia».
Il legislatore ha, quindi, volutamente abbandonato tale definizione a favore di un'impostazione più adeguata all'evoluzione normativa che ha caratterizzato il settore agricolo.
L'art. 13, comma 5, del dl n. 201 del 2011, come già precisato, prevede il moltiplicatore ridotto, pari a 110, va applicato anche nel caso in cui:
- il terreno deve essere lasciato a riposo, ed è quindi non coltivato, in applicazione delle tecniche agricole (c.d. set aside).
- le persone fisiche, coltivatori diretti e Iap, iscritti nella previdenza agricola, abbiano costituito una società di persone alla quale hanno concesso in affitto o in comodato il terreno di cui mantengono il possesso ma che, in qualità di soci, continuano a coltivare direttamente il terreno.
Quest'ultima conclusione deriva dall'applicazione dell'art. 9 del dlgs 18.05.2001, n. 228, il quale stabilisce che «ai soci delle società di persone esercenti attività agricole, in possesso della qualifica di coltivatore diretto o di imprenditore agricolo a titolo principale, continuano a essere riconosciuti e si applicano i diritti e le agevolazioni tributarie e creditizie stabiliti dalla normativa vigente a favore delle persone fisiche in possesso delle predette qualifiche».
L'immobile posseduto da anziani e disabili e dai cittadini italiani residenti all'estero.
La circolare ha risolto in senso favorevole per il comune una questione interpretativa sulle nuove norme introdotte dal dl n. 16 del 2012 e ha escluso che lo stato possa vantare la quota di riserva stabilita dal comma 11 dell'art. 13 del dl n. 201 del 2011. Ciò in quanto il comune, nel «considerare direttamente adibita ad abitazione principale l'unità immobiliare» posseduta dai soggetti in questione, assoggetta automaticamente tali immobili allo stesso trattamento previsto per le abitazioni principali che sono appunto escluse espressamente dall'anzidetta quota erariale.
A completamento di tale assunto la circolare precisa che ha perso di significato, relativamente alle fattispecie in esame, la disposizione presente nel comma 11, secondo cui «le detrazioni e le riduzioni di aliquota deliberate dai comuni non si applicano alla quota di imposta riservata allo stato» che aveva, invece, un senso con l'originaria formulazione della norma (articolo ItaliaOggi del 22.05.2012).

EDILIZIA PRIVATA: La Lombardia sana i recuperi «infedeli». Salvi Dia e permessi già rilasciati per le demolizioni e ricostruzioni con cambio di sagoma. Rimedio allo stop della Corte costituzionale alla legge che li considerava ristrutturazioni ma resta una finestra temporale a rischio.
RISPARMIO ENERGETICO/ L'obbligo di rispettare gli indici del Prg rende difficile abbattere per riqualificare e risanare i vecchi edifici.

La Lombardia stoppa gli effetti della sentenza con cui la Corte costituzionale aveva cancellato l'articolo 27, comma 1, lettera d), della legge regionale 12/2005, secondo cui erano di ristrutturazione gli interventi di integrale sostituzione edilizia con modifica della sagoma o del sedime del fabbricato.
Ora secondo l'articolo 17 della legge regionale 18.04.2012 n. 7, in relazione agli interventi di ristrutturazione edilizia oggetto della sentenza 30.11.2011 n. 309 della Consulta, al fine di tutelare il legittimo affidamento dei soggetti interessati, i permessi di costruire rilasciati o le Dia esecutive alla medesima data devono considerarsi titoli validi ed efficaci fino al momento della dichiarazione di fine lavori, a condizione che la comunicazione di inizio lavori risulti protocollata entro il 30.04.2012.
La Regione mette così una pezza sul pasticcio della ristrutturazione edilizia lombarda a tutela di chi, sulla base della norma annullata dalla Corte -perché contraria al principio fondamentale dettato dal testo unico dell'edilizia, secondo cui le opere di ristrutturazione non possono spingersi sino all'integrale abbandono delle caratteristiche fisiche dell'edificio- sta realizzando o ha da poco ultimato interventi potenzialmente abusivi in quanto giustificati da una disposizione di legge non più applicabile.
La pezza è però più piccola dello strappo prodotto dalla Consulta, perché non mette al sicuro gli interventi già impugnati al Tar o che ancora potrebbero esserlo (si ricorda che i titoli edilizi possono essere contestati in sede amministrativa sino al decorso di 60 giorni, 120 per il ricorso straordinario al presidente della Repubblica, da quando i lavori giungono al rustico) e che dunque non possono essere considerati "rapporti esauriti", ai quali -come è noto- non si applica il principio per cui le sentenze che riconoscono l'incostituzionalità hanno efficacia retroattiva.
La portata della norma pare così limitata a evitare che i Comuni possano agire in autotutela, annullando cioè i titoli che avessero rilasciato (con permesso di costruire) o che si fossero formati (con denuncia di inizio attività) nel vigore di una norma non più esistente.
In concreto: chi in forza della norma dichiarata incostituzionale ha realizzato un intervento di demolizione e ricostruzione modificando la sagoma o il sedime dell'edificio è ora al sicuro se il titolo edilizio non è stato impugnato e l'intervento è terminato, per lo meno al rustico, da più di 60/120 giorni, mentre è ancora a rischio se il ricorso è stato appena promosso, ovvero possa ancora esserlo.
In questa ultima situazione appare trovarsi chi avvalendosi della norma in commento (in vigore dal 21.04.2012) si fosse risolto a dare avvio ai lavori entro il successivo 30 aprile.
Si ricorda che l'ampliamento della definizione di ristrutturazione edilizia agli interventi di sostituzione con modifica di sagoma o sedime, e che ora anche in Lombardia devono ritenersi a tutti gli effetti di nuova costruzione (così come riconosciuto dalla stessa legge regionale 7/2012), non è di poco conto, perché consente di mantenere la volumetria preesistente anche se superiore all'indice edificatorio assegnato dagli strumenti urbanistici vigenti (indice che a differenza della ristrutturazione la nuova costruzione deve rispettare).
Il vincolo di rispettare l'indice di piano rende pressoché impossibili (salvo espressa previsione dello strumento urbanistico locale, come disposto dal Pgt di Milano da troppo tempo in gestazione) gli interventi di riqualificazione anche energetica degli edifici meno recenti, che sovente richiedono l'integrale demolizione e la ricostruzione in difformità di sagoma.
Sul punto dovrebbe soccorrere il nuovo piano casa lombardo, secondo cui «Gli interventi di sostituzione edilizia... possono essere realizzati a mezzo di totale demolizione e ricostruzione dell'edificio». Non sfugge però che secondo l'articolo 5, comma 3, della legge regionale lombarda 4/2012, attuativa del Dl 70/2011, «la ricostruzione può avvenire con le modifiche alla sagoma necessarie per l'armonizzazione architettonica con gli edifici esistenti».
Non è agevole in architettura declinare il concetto di armonia, ma è a tale esercizio fortemente discrezionale che la sostituzione edilizia risulta in ultima istanza appesa (articolo Il Sole 24 Ore del 21.05.2012).

EDILIZIA PRIVATA: Modello unico per la conformità degli impianti.
Il decreto legge 5/2012 con gli articoli 9 e 34 introduce alcune modifiche alla normativa sull'attività di installazione di impianti (elettrici, sanitari, eccetera).
La materia, regolata dal Dm 37/2008 ( che, a sua volta ha sostituito la legge 46/90), ha sempre creato difficoltà applicative non solo alla categoria (circa 170.000 aziende), ma anche agli enti pubblici e agli organi di vigilanza.
L'articolo 9 affida ad un decreto interministeriale l'approvazione di un modello di dichiarazione di conformità (dell'impianto) che sostituirà quello attuale. Per gli impianti termici la dichiarazione sostituirà anche quella prevista dall'articolo 284 del Codice dell'ambiente: da qui la nuova denominazione di dichiarazione unica.
Non è invece chiaro se le nuove prescrizioni del comma 2 dell'articolo 9 modifichino in parte o si aggiungano a quelle contenute negli articoli 7 e 11 del Dm 37. La norma attuale prevede che il modello compilato dall'impresa installatrice al termine del lavoro sia rilasciato al committente e depositato al Comune dove ha sede l'impresa, il quale invierà copia alla Camera di commercio per verificare la corretta iscrizione dell'impresa.
Il comma 2 dispone ora che la dichiarazione sia conservata «presso la sede dell'interessato» per gli eventuali controlli dell'amministrazione, espressione che sembra essere riferita a chi occupa l'edificio nel quale è stato eseguito il lavoro. Viene poi confermato che la dichiarazione è necessaria per ottenere il certificato di agibilità e l'allacciamento delle utenze.
Ben più importante è l'articolo 34 che interviene sul tema della qualificazione delle imprese installatrici, ma purtroppo con una norma considerata dagli addetti ai lavori assai oscura. Si intuisce però che si vorrebbe porre rimedio ad alcune questioni rimaste irrisolte con il Dm 37.
Il decreto non aveva previsto norme transitorie per le aziende iscritte in base alla abrogata legge 46/1990, per cui le Regioni e le Camere di commercio, in assenza di chiarimenti del Governo, hanno fornito interpretazioni non uniformi.
Le principali incertezze riguardano:
- le imprese impiantiste che fino al 2007 hanno eseguito lavori di condizionamento, elettronica, ecc. solo in edifici produttivi per i quali non era obbligatoria l'abilitazione: non è chiaro se abbiano maturato i requisiti per lavorare in qualsiasi edificio, compresi quelli residenziali. Ad una prima lettura sembra che l'articolo 34 intenda dare risposta positiva.
- Va chiarito se le imprese qualificate per i vari tipi di impianti in base alla legge 46/1990 hanno diritto o no ad ottenere d'ufficio che nell'Albo artigiani o nel Registro imprese venga precisato che sono qualificate in base al Dm 37 e non più solo in base alla legge 46.
In un primo tempo il ministero dello Sviluppo economico con la risoluzione 03.10.2011 aveva sostenuto che l'aggiornamento automatico della iscrizione non era ammissibile e che ciascuna impresa doveva presentare una Scia .
Ora lo stesso Ministero, con circolare del 19.03.2012, fa retromarcia, richiamandosi all'articolo 34 . E afferma che è legittimo riconoscere d'ufficio alle imprese operanti fino al marzo 2008 la qualificazione prevista dal Dm 37 (articolo Il Sole 24 Ore del 21.05.2012).

APPALTI SERVIZI: Rifiuti. L'azienda nata dall'integrazione entro il 31 dicembre diventerebbe a pieno titolo un'autorità d'ambito.
La maxi-società dribbla la gara. Possibile l'affidamento diretto a una realtà che aggreghi 250mila abitanti.
LIBERTÀ TOTALE/ La nuova deroga permette di aggirare anche i vincoli che impediscono l'in house per servizi superiori a 200mila euro.

La gestione dei rifiuti nell'Ato può essere affidata in house ad un'unica società che aggreghi i gestori esistenti, e gli impianti di proprietà degli enti possono essere affittati ai gestori.
La legge di modifica del Codice ambiente (Dlgs 152/2006) approvata al Senato introduce importanti innovazioni nei modelli di gestione del ciclo integrato dei rifiuti, che definiscono un'ulteriore deroga alla procedura ordinaria di affidamento con gara.
L'articolo 6 della legge (che ora deve tornare alla Camera) stabilisce che può costituire Ato (purché la popolazione servita sia di almeno 250mila abitanti, salvo che la Regione fissi un limite inferiore) un'azienda costituita da soli enti locali, derivante dalla trasformazione di aziende speciali (o di consorzi) o risultante dall'integrazione operativa, perfezionata entro il 31.12.2012, di preesistenti gestioni dirette o in house tale da configurare un unico gestore a livello di bacino.
La soluzione si inserisce nella "razionalizzazione" dei gestori ammessi in deroga all'affidamento in house dall'articolo 4, comma 32, lettera a) della legge 148/2011, secondo il modello della società unica d'ambito, affidataria in house per un periodo determinato (tre anni, sino alla scadenza massima del 31.12.2015).
Tuttavia la nuova disciplina presenta considerevoli differenze da quella generale, perché la società risultante dalla trasformazione o dall'aggregazione diventa autorità d'ambito a tutti gli effetti e va a incidere sul riassetto di questi organismi.
La nuova disposizione configura un soggetto al quale afferiscono sia le funzioni del regolatore sia i compiti di gestione del servizio. Questo aspetto è confermato dalla parte in cui si prevede che l'affidamento dei servizi del ciclo integrato dei rifiuti avviene direttamente all'azienda stessa anche in deroga all'articolo 4 della legge 148/2011, quindi a anche a superamento del limite economico di 200mila euro previsto per l'in house.
Se l'organismo "aggregante" assorbe contratti stipulati a seguito di regolare gara, questi mantengono efficacia fino alla scadenza naturale.
L'ulteriore aspetto peculiare è garantito dalla possibilità, per Comuni non facenti originariamente parte dell'azienda, di poter entrare a farne parte, se ricorrano motivate esigenze di efficacia, efficienza ed economicità.
Per la gestione del ciclo integrato dei rifiuti, quindi, è possibile che si pervenga alla costituzione di una società unica d'ambito, affidataria in house del servizio per valore e durata non assoggettati ai limiti dell'articolo 4 della legge 148/2001, esercitante al contempo il ruolo di ente di governo dell'Ato stesso.
Il quadro di innovazione, tuttavia, incide anche sulle strategie di utilizzo degli impianti di smaltimento, in quanto l'articolo 7 della nuova legge (modificando l'articolo 202 del testo unico, sugli affidamenti) stabilisce che gli impianti e le altre dotazioni patrimoniali di proprietà degli enti locali o delle loro forme associate già esistenti possono essere conferiti anche a titolo oneroso ai soggetti affidatari.
Questi ultimi (sia scelti con gara, sia configurati come società mista con socio operativo o come società unica d'ambito) sono comunque chiamati a migliorare la gestione secondo un modulo operativo più evoluto dello stesso ciclo.
I gestori, sin dalla procedura selettiva, devono esplicitare un piano industriale che renda più efficiente il servizio grazie a soluzioni innovative, mediante la riduzione delle quantità di rifiuti da smaltire e il miglioramento dei fattori ambientali, proponendo un proprio piano di riduzione dei corrispettivi per la gestione al raggiungimento di obiettivi autonomamente definiti, con particolare riferimento alla separazione alla fonte e all' organizzazione della raccolta differenziata domiciliare, alla diffusione del compostaggio domestico, alla promozione di riciclaggio, recupero e selezione dei materiali ed alla sperimentazione di forme di tariffazione puntuale sulla base della produzione effettiva di rifiuti non riciclabili.
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Le caratteristiche
01|LA DIMENSIONE
L'ambito deve servire una popolazione di almeno 250mila abitanti, salvo che la Regione fissi un limite inferiore
02|LA FORMAZIONE
L'azienda deve essere costituita solo da enti locali e può derivare dalla trasformazione di aziende speciali (e consorzi) o dall'integrazione operativa, perfezionata entro il 31.12.2012, di gestioni dirette o in house
03| IL RISULTATO
La società che risulta dalla trasformazione o dall'aggregazione diventa autorità d'ambito a tutti gli effetti
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Così il nuovo gestore si controlla da solo.
Il mondo dei servizi pubblici locali continua ad arricchirsi di adempimenti e di novità normative, ed è difficile arrivare a un quadro razionale e pratico. Tutto ciò crea confusione e rischi di inefficacia.
Proviamo a riassumere quali saranno i prossimi appuntamenti: entro il 31 maggio i Comuni potranno chiedere alle Regioni di definire ambiti sub-provinciali; non oltre il 30 giugno le Regioni dovranno deliberare, per i servizi pubblici a rete (quali sono?) gli ambiti. Entro il 13 agosto, gli enti dovranno approvare la loro «delibera quadro sui servizi» come previsto dal regolamento di attuazione dell'articolo 4, comma 33-ter, del Dl 138/2011, che ancora non è stato pubblicato.
Tutto chiaro? Forse lo sarebbe. Curiosamente, però, il decreto milleproroghe (Dl 216/2011) all'articolo 13, comma 2, rinvia la decadenza delle autorità d'ambito al 31.12.2012 creando così una situazione potenzialmente contraddittoria: il 13 agosto potrebbero ancora esistere quelle Aato che cesseranno dopo pochi mesi (cosa deliberano a fare?) e che in alcuni casi non sono state ancora istituite, come nel caso del Lazio per i rifiuti (chi delibera in questo caso?). Il tutto, ovviamente, seguendo un regolamento che non c'è.
Bizzarrie di norme che si accavallano e non sono coordinate tra loro. Potrebbe bastare, ma non è finita qui. A breve rischiano infatti di diventare legge le modifiche al Codice dell'Ambiente, approvate dal Senato.
Scorrendo il testo si capisce subito che siamo di fronte a un capolavoro. La norma, infatti, interviene sull'articolo 200 del Dlgs 152/2006, aggiungendo una lettera f-bis in cui si prevede che la società di capitali nata da un'integrazione operativa di preesistenti gestioni in house è «tale da configurare un unico gestore del servizio a livello di bacino» e «può costituire ambito territoriale ottimale, purché la popolazione servita sia pari o superiore a 250mila abitanti».
Già questo crea un conflitto di competenze con le Regioni e potrebbe generare un "buco" all'interno di un bacino tale da vanificarne la parte rimanente. In un crescendo, però, la perla viene subito dopo: «In tale caso detta azienda diventa autorità d'ambito a tutti gli effetti e l'affidamento dei servizi di raccolta e di smaltimento o comunque afferenti al ciclo integrato dei rifiuti avviene direttamente all'azienda stessa anche in deroga all'articolo 4» del dl 138/2011.
In sostanza, in un quadro che, con sbavature, sembrava avere recepito la necessità di una separazione tra regolazione e gestione (applicata perfino nel settore idrico), ecco puntuale la smentita: se due aziende di rifiuti si fondono, in altre parole, non avranno più nessun ente terzo che ne verifica le condizioni di costo, di qualità, di efficienza e di prezzo. Si controlleranno da sole -non stentiamo ad immaginare con quale rigore- e, a quanto pare, dovranno nel proprio cda (o in assemblea?) approvarsi la propria delibera quadro. Una controriforma che susciterebbe l'invidia del Concilio di Trento.
È interessante, però, sapere cosa penseranno di questa norma le Regioni e quanto la possa apprezzare l'Autorità garante della concorrenza, che si troverà ad esprimere il suo parere sulla delibera quadro che queste società dovranno sottoporre a suo giudizio (articolo Il Sole 24 Ore del 21.05.2012 - link a www.ecostampa.it).

APPALTI: Appalti, verifiche impossibili sul fisco dell'azienda vincitrice. Monitoraggi. Anche gli enti sono responsabili in solido.
Riguarda anche i Comuni la novità del Dl 16/2012 che estende la responsabilità solidale dell'appaltante ai debiti fiscali dell'appaltatore: in caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l'appaltatore, entro i due anni dalla cessazione dell'appalto, al versamento all'Erario delle ritenute sui redditi di lavoro dipendente e dell'Iva pagata sulle fatture inerenti l'appalto, a meno che non si dimostri che sono state attivate tutte le cautele possibili per evitare l'inadempimento da parte dell'appaltatore.
I primi commentatori (si veda Il Sole 24 Ore del 28 aprile) non hanno mancato di segnalare che per questa via si è ulteriormente consolidato il processo di esternalizzazione delle funzioni dia accertamento e controllo a soggetti estranei alla amministrazione finanziaria: le verifiche che quest'ultima non riesce a fare vengono così traslate su soggetti terzi, sotto pena di sanzioni e di responsabilità solidale.
Con particolare riferimento agli enti pubblici, sembra proprio che anch'essi siano interessati ai nuovi obblighi di verifica: la norma fa infatti riferimento tanto agli imprenditori quanto ai datori di lavoro, e non vi è dubbio che (anche) ai fini della normativa sugli appalti l'ente pubblico rientra in quest'ultima categoria.
L'assunto ha peraltro trovato conferma a livello giurisprudenziale: con riferimento all'articolo 29 del Dlgs 276/2003 (la legge Biagi) che utilizza -per l'individuazione dei soggetti obbligati al controllo- gli stessi identici termini del Dl 16/2012, la responsabilità dell'ente pubblico è stata ripetutamente attestata dalla giurisprudenza di merito.
Quanto all'oggetto delle verifiche, nessun problema si pone in relazione alle ritenute d'acconto. Si tratta di versamenti specifici dei quali il committente può ben chiedere all'appaltatore prova documentale (il modello F24, per esempio).
All'opposto, la verifica dei versamenti Iva risulta impossibile: poiché il versamento dell'imposta non avviene in via analitica, ma per masse (e in misura pari al saldo algebrico dell'Iva a debito e a credito afferente la complessiva gestione aziendale), non è proprio possibile individuare una correlazione tra l'Iva pagata dall'ente committente e il versamento periodico del tributo effettuato dall'appaltatore.
Vi è di più: se anche fosse possibile (e non lo è!) attivare una qualche forma di verifica dei versamenti Iva effettuati dagli appaltatori, nel caso particolare degli enti pubblici essa non potrebbe che avvenire a posteriori, quando è ormai troppo tardi. Per effetto dei meccanismi previsti dall'articolo 6 del Dpr 633/1972, in effetti, l'Iva viene a costituire -in capo all'appaltatore- un debito soltanto dopo che l'ente locale ha pagato la fattura. A pagamento avvenuto, tuttavia, quale altra cautela potrebbe mai essere posta in essere dal Comune per evitare l'inadempimento dell'appaltatore?
Con riferimento all'Iva, dunque,le procedure di controllo richieste dal Dl 16/2012 si risolvono in un adempimento impossibile (articolo Il Sole 24 Ore del 21.05.2012 - link a www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - VARI: Imu, vincolati i comuni. Linea più morbida verso i contribuenti. La circolare n. 3/Df sull’imposta municipale: aliquote solo entro i limiti minimi e massimi di legge.
Il ministero delle finanze, destreggiandosi nel ginepraio normativo dell’Imu, tende la mano ai contribuenti. I coniugi che per motivi di lavoro risultano avere dimora abituale e residenza anagrafica in due fabbricati distinti potranno fruire, ciascuno in ragione della propria residenza, delle agevolazioni «prima casa». Paletti rigidi invece per i comuni che non potranno fissare l’asticella delle aliquote al di sotto dei limiti minimi e massimi previsti dalla legge per ciascuna tipologia immobiliare. Non potranno neppure, con il regolamento Imu, restringere le detrazioni per i figli «under 26» oppure disciplinare le pertinenze delle abitazioni principali.
Queste alcune delle principali novità contenute nella circolare 18.05.2012 n. 3/DF, pubblicata dal Dipartimento delle finanze del ministero dell’economia e delle finanze. Eccole in dettaglio.
Abitazione principale. La circolare, dopo aver premesso che, a differenza dell’Ici, l’Imu dal 2012 attrae a tassazione anche l’abitazione principale e relative pertinenze, si sofferma sui profili di novità contenuti nella definizione legislativa:
1) l’abitazione principale non può che essere una sola unità immobiliare, così che se il contribuente dimora e risiede in una casa composta da più unità immobiliari esse vanno assoggettate separatamente a imposizione, ciascuna per la propria rendita. Per un’unità è dovuta l’Imu come abitazione principale (con applicazione delle agevolazioni e delle riduzioni per questa previste) per le altre, invece, occorrerà applicare l’aliquota deliberata dal comune abitazioni diverse da quella principale per tali tipologie di fabbricati senza alcuna detrazione;
2) è l’unica unità immobiliare in cui il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente.
Al riguardo il ministero precisa altresì che l’art. 13, c. 2, del dl 201/2011 stabilisce che le agevolazioni non possono che essere uniche per nucleo familiare indipendentemente dalla dimora abituale e dalla residenza anagrafica dei rispettivi componenti. Tale limitazione non troverebbe ostacoli nel caso in cui gli immobili destinati ad abitazione principale siano ubicati in comuni diversi, poiché in questo caso il rischio di elusione della norma sarebbe bilanciato da effettive necessità di dover trasferire la residenza anagrafica e la dimora abituale in un altro comune, per esempio, per esigenze lavorative.
Sul punto va osservato, però, che l’interpretazione ministeriale mal si concilia con l’orientamento della Cassazione (sent. n. 14389/2010) la quale, analizzando un analogo concetto contenuto nella norma Ici, dopo aver premesso che l’art. 144 c.c. prevede che «i coniugi concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa», ha statuito l’incompatibilità della dimora abituale in luogo diverso da quello in cui si trova la famiglia.
Pertinenze. Le pertinenze delle abitazioni principali non possono essere quelle classificate nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7, nella misura massima di un’unità pertinenziale per ciascuna delle categorie catastali indicate, anche se iscritte in catasto unitamente all’unità a uso abitativo. Il contribuente potrà quindi considerare come pertinenza dell’abitazione principale soltanto un’unità immobiliare per ciascuna categoria catastale, fino a un massimo di tre pertinenze appartenenti ciascuna a una delle tre diverse categorie espressamente indicate dalla norma.
Rientra nel limite massimo delle tre pertinenze anche quella che risulti iscritta in catasto unitamente all’abitazione principale. Se, per esempio, il contribuente ha 3 pertinenze di cui una cantina accatastata come C/2 e due garage classificati come C/6, sarà lo stesso contribuente a individuare fra questi ultimi quale collegare all’abitazione principale. Se, però, la cantina risulta iscritta congiuntamente all’abitazione principale, il contribuente deve applicare le agevolazioni previste per tale fattispecie solo ad altre due pertinenze di categoria catastale diversa da C/2. Poiché in quest’ultima rientrerebbe la cantina iscritta in catasto congiuntamente all’abitazione principale.
Sul punto va precisato che non sempre sarà agevole per il contribuente conoscere la categoria catastale delle pertinenze accatastate congiuntamente all’abitazione. Basti pensare ai posti auto che risultano iscritti in catasto sia in categoria catastale C/6 sia in C/7.
La circolare precisa, inoltre, che ai comuni non è consentito di intervenire con una disposizione regolamentare in ordine all’individuazione delle pertinenze e tale affermazione, secondo il Mef, sarebbe avvalorata dall’abrogazione dell’art. 59 del dlgs n. 446 del 1997, il quale al comma 1, lettera d), consentiva agli enti locali, nell’esercizio della potestà regolamentare, di «considerare parti integranti dell’abitazione principale le sue pertinenze, ancorché distintamente iscritte in catasto».
Aliquote. I comuni possono articolare le aliquote esclusivamente all’interno dei limiti minimi e massimi previsti dal dl n. 201/2011 (0,2-0,6% abitazione principale; 0,1-0,2% fabbricati rurali strumentali; 0,46-1,06% altri immobili), si tratta quindi, precisa il Mef, di «vincoli invalicabili da parte del comune», il quale, nell’esercizio della propria autonomia regolamentare, può esclusivamente manovrare le aliquote, differenziandole sia nell’ambito della stessa fattispecie impositiva, sia all’interno del gruppo catastale, con riferimento alle singole categorie.
Le precisazioni del ministero appaiono però contraddittorie in quanto applicare aliquote crescenti rispetto alle diverse categorie catastali, che già sono differenziate in ragione della tipologia del fabbricato, sembra violare il principio di ragionevolezza che deve contraddistinguere la decisione del comune (articolo ItaliaOggi Sette del 21.05.2012).

ENTI LOCALI - VARI: Al 100% penalizzazioni per gli ex. La circolare n. 3/Df: i coniugi assegnatari dopo la separazione pagheranno l’Imu.
L’Imu riserva una brutta sorpresa ai coniugi assegnatari a seguito di sentenza del giudice della separazione. In ogni caso saranno loro a dover pagare l’Imu. Al 100%, anche se non sono, neppure in parte proprietari. Unica, e magra, consolazione è che trattandosi, nelle generalità dei casi, dell’abitazione nella quale il non assegnatario dimora abitualmente e risiede anagraficamente, in sede di acconto fruirà dell’aliquota ridotta del 4 per mille e delle detrazioni d’imposta di 200 euro oltre a quella di 50 euro per ogni figlio con meno di ventisei anni residente anagraficamente in quella casa.
L’assegnatario entro il 30 settembre dovrà presentare la dichiarazione Imu e poi, entro il 17 dicembre, sarà tenuto al versamento del saldo dell’imposta sulla base delle aliquote e delle detrazioni che il comune avrà definitivamente adottato. Buone notizie invece per i fabbricati di anziani, anziani e disabili lungodegenti, oltre a quelle dei cittadini italiani residenti all’estero.
Il ministero delle finanze con la circolare 18.05.2012 n. 3/DF ha chiarito che se il comune ne disporrà l’assimilazione all’abitazione principale, oltre a godere di aliquota ridotta e detrazioni d’imposta, non sarà dovuta la quota Imu allo stato. Il che per il contribuente in termini sostanziali non cambia, ma siccome tutto il gettito affluirà nelle casse comunali, gli enti locali dovrebbero essere stimolati a deliberare l’equiparazione.
La novità. Con un improvviso cambio di rotta rispetto alle originarie previsioni normative, il legislatore, in sede di conversione del dl n. 16/2012, con l’articolo 4, comma 12-quinquies, ha stabilito che ai soli fini dell’applicazione dell’Imu l’assegnazione della casa coniugale al coniuge, disposta a seguito di provvedimento di separazione legale, annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, si intende in ogni caso effettuata a titolo di diritto di abitazione.
La disposizione ha innovato il precedente regime stabilito dall’art. 13, comma 10, ultimo periodo, del dl n. 201 del 2011 in base al quale le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze trovavano applicazione anche nei confronti delle fattispecie di cui all’art. 6, comma 3-bis, del dlgs n. 504 del 1992, in virtù del quale il soggetto passivo che non risultava assegnatario della casa coniugale, poteva considerare detta unità immobiliare come abitazione principale, purché non fosse titolare del diritto di proprietà o di altro diritto reale su un immobile destinato ad abitazione situato nello stesso comune ove era ubicata la casa coniugale.
La circolare. Il Mef, al riguardo, precisa si tratta di una novità nel panorama dell’Imu, poiché prevedendo che l’assegnazione della ex casa coniugale fa sorgere in ogni caso un diritto di abitazione nei confronti del coniuge assegnatario della stessa, ne riconosce la soggettività passiva in via esclusiva. E’, quindi, solo all’ex coniuge, in quanto soggetto passivo, che spettano le agevolazioni previste per l’abitazione principale e per le relative pertinenze, concernenti l’aliquota ridotta, la detrazione e la maggiorazione per i figli di età non superiore a 26 anni, in relazione alle quali si dovranno seguire le regole generali.
La circolare 3/DF/2012 prova a rimediare anche all’ennesimo pasticcio del legislatore. E spiega che dalla lettura delle norme «emerge inequivocabilmente» che la disposizione contenuta nel comma 12-quinquies dell’art. 4 del dl n. 16 del 2012, essendo intervenuta successivamente a quella disposta dall’ultimo periodo del comma 10 dell’art. 13 del dl n. 201/2011, e regolando in maniera diversa la soggettività passiva della fattispecie in commento, ha reso incompatibile la disposizione di cui all’art. 13, comma 10, ultimo periodo, del d.l. n. 201/2011, che, dunque, ai sensi dell’art. 15 delle disposizioni sulla legge in generale, risulta tacitamente abrogata.
Secondo il Mef, quindi, il nuovo assetto normativo comporta che le agevolazioni inerenti l’abitazione principale e le relative pertinenze sono riconosciute alla ex casa coniugale e alle relative pertinenze e gli obblighi tributari inerenti detto immobile devono essere assolti dal coniuge assegnatario della stessa in quanto titolare del diritto di abitazione ex art. 4, comma 12-quinquies del d.l. n 16 del 2012.
In particolare, viene precisato, che l’Imu deve essere versata per il suo intero ammontare dal coniuge assegnatario anche se non proprietario della ex casa coniugale il quale può usufruire sia dell’aliquota ridotta stabilita per l’abitazione principale sia dell’intera detrazione prevista per detto immobile nonché della maggiorazione di € 50 per ciascun figlio di età non superiore a 26 anni, a condizione che lo stesso dimori abitualmente e risieda anagraficamente nell’unità immobiliare adibita ad abitazione principale.
Il riconoscimento da parte del legislatore della titolarità del diritto di abitazione in capo al coniuge assegnatario dell’immobile destinato ad ex casa coniugale, comporta che sul relativo gettito non viene computata la quota di imposta riservata allo Stato di cui al comma 11 dell’art. 13 del d.l. n. 201 del 2011 e quindi tutto il gettito spetta al Comune.
Anziani. Le case di anziani e disabili lungodegenti, oltre a quelle dei cittadini italiani residenti all’estero, se assimilate dal comune all’abitazione principale, godranno di aliquota ridotta e detrazioni d’imposta senza nulla dovere allo stato, così che i comuni siano incentivati ad operare l’equiparazione.
Benefit a maglie larghe anche nel settore agricolo: i fabbricati rurali strumentali potranno godere dell’aliquota di favore del 2 per mille (riducibile dal comune all’1 per mille) anche se prive della categoria catastale D/10; le società agricole, purché «Iap» e iscritte nelle liste previdenziali, avranno diritto a tutte le agevolazioni riconosciute a coloro che conducono terreni.
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Anziani e disabili, speranze per una tassazione ridotta in mano ai sindaci.
Le speranze di anziani, disabili e cittadini Aire per un carico Imu un po’ più sopportabile sono ora nelle mani dei sindaci. Con disposizione regolamentare, da adottare entro il 30 settembre, i comuni potranno infatti assimilare le loro case all’abitazione principale con un doppio effetto: i contribuenti fruiranno di una tassazione ridotta e i municipi si terranno tutto l’incasso, senza nulla dovere allo stato.
L’art. 13, comma 10, del dl n. 201/2011 consente ai comuni di considerare direttamente adibita ad abitazione principale l’unità immobiliare posseduta a titolo di proprietà o di usufrutto da anziani o disabili che acquisiscono la residenza in istituti di ricovero o sanitari a seguito di ricovero permanente, a condizione che la stessa non risulti locata, nonché l’unità immobiliare posseduta dai cittadini italiani non residenti nel territorio dello stato a titolo di proprietà o di usufrutto in Italia, a condizione che non risulti locata. Va da sé che qualora i consigli comunali adottino tale decisione alle unità immobiliari in questione si renderà applicabile lo stesso trattamento previsto per l’abitazione principale, vale a dire aliquota ridotta, detrazione e maggiorazione per i figli «under 26».
La circolare n. 3/Df di venerdì scorso, con riferimento ai cittadini italiani residenti all’estero, precisa che la maggiorazione di 50 euro prevista per i figli si applica solo nel caso in cui gli stessi dimorino abitualmente e risiedano anagraficamente nell’abitazione posseduta in Italia. Il Mef afferma, altresì, con argomentazioni ineccepibili, che il riconoscimento da parte del legislatore della possibilità per i comuni di disporre l’assimilazione in questione, comporta che laddove venga esercitata tale facoltà, sull’Imu da versare non deve essere computata la quota riservata allo Stato di cui al comma 11 dell’art. 13 del dl n. 201/2011, poiché quest’ultima norma esclude espressamente dalla quota erariale l’abitazione principale.
Infatti, viene spiegato nella circolare, «le modifiche intervenute ad opera dell’art. 4 del dl n. 16/2012 hanno privato di signifi cato il comma 11 dell’art. 13 secondo cui le detrazioni e le riduzioni di aliquota deliberate dai comuni non si applicano alla quota riservata allo stato» poiché l’attuale comma 10 dello stesso art. 13 prevede ora la possibilità di assimilazione all’abitazione principale. Il ministero non ha tuttavia preso posizione su un punto importante, ossia se tali soggetti, laddove il comune ha già deliberato l’assimilazione, possono pagare l’Imu, tutta a favore del comune, con l’aliquota ridotta del 4 per mille anziché quella del 7,6 per mille.
È chiaro infatti che se tale possibilità venisse negata, per anziani, disabili e Aire si aprirebbe poi il problema di come, e a chi, chiedere il rimborso della quota erariale non dovuta (articolo ItaliaOggi Sette del 21.05.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Gestione rifiuti, esoneri allargati. Ampliamento dei soggetti esclusi dagli adempimenti Sistri. Ddl licenziato dal Senato. Fuori le imprese agricole a bassa produzione di materiali pericolosi.
Esclusione definitiva dagli adempimenti Sistri per le imprese agricole a bassa produzione di rifiuti pericolosi che conferiscono direttamente a circuiti organizzati ed esenzione dall'obbligo di iscrizione all'Albo gestori ambientali per i professionisti dello stesso settore che effettuano direttamente il trasporto dei loro rifiuti (sia pericolosi che non pericolosi) alle medesime strutture.
Queste le semplificazioni ambientali previste dal disegno di legge di riformulazione del «Codice ambientale» (dlgs 152/2006) e provvedimenti satellite licenziato lo scorso 09.05.2012 dal Senato e ora alla Camera in terza lettura.
Allargamento esenzione Sistri. Il ddl in corso di approvazione sancisce un ampliamento del novero degli imprenditori agricoli esclusi dall'obbligo di iscrizione al nuovo sistema di tracciamento telematico dei rifiuti (e dunque ai relativi adempimenti operativi) intervenendo direttamente su due punti nodali dell'attuale disciplina (rappresentata dal dlgs 205/2010, provvedimento satellite del dlgs 152/2006).
È innanzitutto prevista la trasformazione da temporanea a definitiva dell'esenzione dall'obbligo di iscrizione al Sistri (attualmente valida in base all'articolo 39 del dlgs 205/2010 solo fino al 02.07.2012) per gli imprenditori agricoli ex articolo 2135 del codice civile che producono e trasportano a una piattaforma di conferimento, oppure conferiscono ad un circuito organizzato di raccolta, i propri rifiuti pericolosi in modo occasionale e saltuario. In secondo luogo, viene allargata la stessa nozione di trasporto e conferimento «occasionale e saltuario» mediante l'innalzamento a 300 (dagli attuali 100) della soglia massima di chili/litri di rifiuti pericolosi annualmente sottoponibili a tali fasi di gestione da parte delle imprese in parola senza obbligo di iscrizione al Sistri.
Detti imprenditori devono comunque, in base al vigente articolo 39 del dlgs 205/2010, conservare in azienda per cinque anni sia la copia della convenzione o del contratto di servizio stipulati con il gestore della piattaforma di conferimento o del circuito organizzato di raccolta che le schede «Sistri – Area movimentazione», sottoscritte e trasmesse dal gestore della piattaforma di conferimento o dal circuito organizzato di raccolta. L'adesione al Sistri, lo ricordiamo, è già a monte solo facoltativa (in virtù dell'articolo 4, dm 52/2011 – c.d «T.u. Sistri») per gli imprenditori agricoli di cui all'articolo 2135 del Codice civile che producono rifiuti speciali non pericolosi. Una parziale esclusione dagli obblighi Sistri per alcune operazioni di gestione dei rifiuti compiute dalle imprese agricole, lo si sottolinea per onor di completezza, è invece in vigore dallo scorso 10.02.2012.
Il dl 5/2012 (c.d. «dl semplificazioni») ha infatti sancito, mediante la diretta modifica dell'articolo 193 del Codice ambientale, che non è più considerato «trasporto di rifiuti» (con conseguente fuoriuscita di tale attività, ma solo di questa, dall'obbligo di tracciamento dei sia cartaceo che telematico) la movimentazione di rifiuti finalizzata al deposito temporaneo effettuata sia da aziende agricole, anche percorrendo la via pubblica, tra suoi fondi purché distanti massimo 10 km, sia da imprenditori agricoli dai propri fondi al sito delle cooperative cui aderiscono.
Deroga obbligo iscrizione Albo gestori. Lo stesso disegno di legge in itinere prevede un ulteriore alleggerimento degli adempimenti ambientali per le imprese del settore, e ciò sancendo l'esclusione dall'obbligo di iscrizione all'Albo gestori ambientali previsto e disciplinato dal dlgs 152/2006 per gli imprenditori agricoli professionali definiti dall'articolo 1 del dlgs 99/2004 (soggetti costituenti, però, un novero più ristretto degli imprenditori agricoli definiti dall'articolo 2135 del Codice civile) che effettuano direttamente il trasporto dei rifiuti (sia pericolosi che non pericolosi) da loro prodotti verso le piattaforme di conferimento o circuiti organizzati di raccolta.
Operatività del Sistri. La data attorno alla quale ruota la partenza operativa del Sistri (ossia: comunicazione online al sistema informatico gestito dallo Stato dei dati relativi ai rifiuti gestiti e tracciamento satellitare dei mezzi di trasporto degli stessi) è, in base all'ultima proroga sancita in materia dalla legge 14/2012 di conversione del dl 216/2011 (c.d. «dl Milleproroghe»), quella del 30.06.2012.
Tale data rappresenta infatti sia il termine a partire dal quale i citati adempimenti Sistri dovranno essere assolti dalla generalità dei soggetti obbligati (ossia: medio/grandi produttori di rifiuti pericolosi; commercianti ed intermediari; Consorzi di riciclaggio; trasportatori professionali) sia il termine non prima del quale gli stessi adempimenti potranno essere dal Minambiente (tramite proprio decreto) imposti ai piccoli produttori di rifiuti pericolosi (ossia: produttori di rifiuti speciali pericolosi con non più di 10 dipendenti, compresi i produttori che effettuano il trasporto dei propri rifiuti entro i 30 kg/litri al giorno) (articolo ItaliaOggi Sette del 21.05.2012).

GIURISPRUDENZA

URBANISTICALa destinazione a verde privato di un’area rientra tra le ipotesi di qualificazione delle zone territoriali omogenee di cui lo strumento urbanistico primario si compone e, anche se pone preclusione all’edificazione implicando l’esclusione della possibilità di realizzare qualsiasi opera edilizia incidente sulla destinazione a verde, rimane comunque espressione delle funzioni di ripartizione in zone del territorio, senza determinare vincoli tali da escludere potenzialmente il diritto di proprietà nella sua interezza.
La destinazione stessa non sostanzia alcun vincolo correlato al regime di decadenza conseguente all’inutile decorso del termine quinquennale all’epoca contemplato dall’art. 2 della L. 19.11.1968 n. 1187 (e, ora, dall’art. 9 del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 327 come modificato dall’art. 1 del D.L.vo 27.12.2002 n. 352) e che altrimenti implicherebbe -per l’appunto- l’obbligo del Comune di procedere alla riqualificazione urbanistica delle aree stesse dopo la scadenza del vincolo.

Il punto nodale della causa risiede nella configurazione giuridica della destinazione a “verde privato” imposta ad una determinata area dallo strumento urbanistico primario.
A ragione il giudice di primo grado ha affermato che, in tal senso, il generale potere conformativo di cui è titolare l’Amministrazione Comunale in sede di pianificazione del territorio non coincide in tale evenienza con il ben diverso potere di carattere ablatorio previsto dall’art. 25 della L. 17.08.1942 n. 1150, in forza del quale “le aree libere sistemate a giardini privati adiacenti a fabbricati possono essere sottoposte al vincolo dell’inedificabilità anche per una superficie superiore a quella di prescrizione secondo la destinazione della zona”, con la precisazione che “in tal caso, e sempre che non si tratti di aree sottoposte ad analogo vincolo in forza di leggi speciali, il Comune è tenuto al pagamento di un’indennità per il vincolo imposto oltre il limite delle prescrizioni di zona”.
Tale disciplina è infatti applicabile nell’ipotesi, ben differente dal caso di specie, in cui lo strumento urbanistico generale imponga, con riferimento ad una singola area edificabile, un indice di fabbricabilità diverso ed inferiore rispetto a quello fissato in via generale per la medesima zona omogenea.
Se così è, pertanto, la destinazione urbanistica di un’area a “verde privato” operata dalle previsioni del vigente strumento urbanistico primario non assume la natura di vincolo ablatorio o assimilabile, ma rientra nell’ambito della normale conformazione della proprietà privata, espressione del potere di pianificazione del territorio comunale.
In tal senso, per risalente ma ancora attuale e non smentito indirizzo giurisprudenziale, la destinazione a verde privato di un’area rientra infatti tra le ipotesi di qualificazione delle zone territoriali omogenee di cui lo strumento urbanistico primario si compone e, anche se pone preclusione all’edificazione implicando l’esclusione della possibilità di realizzare qualsiasi opera edilizia incidente sulla destinazione a verde (così, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 05.10.1995 n. 781), rimane comunque espressione delle funzioni di ripartizione in zone del territorio, senza determinare vincoli tali da escludere potenzialmente il diritto di proprietà nella sua interezza (così Cons. Stato, Sez. IV, 24.07.1985 n. 290).
In relazione a quanto ora evidenziato, e a differenza di quanto affermato dalla parte appellante, la destinazione stessa non sostanzia alcun vincolo correlato al regime di decadenza conseguente all’inutile decorso del termine quinquennale all’epoca contemplato dall’art. 2 della L. 19.11.1968 n. 1187 (e, ora, dall’art. 9 del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 327 come modificato dall’art. 1 del D.L.vo 27.12.2002 n. 352) e che altrimenti implicherebbe -per l’appunto- l’obbligo del Comune di procedere alla riqualificazione urbanistica delle aree stesse dopo la scadenza del vincolo (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 14.12.1993 n. 1068).
Da ciò consegue, quindi, non solo che nessuna decadenza si è nella specie verificata per quanto segnatamente attiene alla destinazione a verde privato imposta all’area in questione, ma anche che dalla destinazione stessa non discende alcun obbligo di indennizzo per il privato, non potendosi pertanto dare accesso a qualsivoglia censura tesa a far valere l’illegittimità della previsione di destinazione sotto il profilo della mancanza di un ristoro economico al riguardo.
Per quanto poi attiene alla legittimità della scelta dell’Amministrazione Comunale di destinare l’area di cui trattasi a verde privato, a ragione il giudice di primo grado ha evidenziato che la relativa censura doveva essere proposta impugnando in parte qua lo strumento di pianificazione generale, ossia il vigente piano di fabbricazione, stante il fatto che –come detto innanzi- la previsione contenuta nel piano di recupero è meramente attuativa del piano di fabbricazione medesimo e da esso assolutamente vincolata: e ciò –si badi– anche a prescindere dall’assunto dell’appellante secondo il quale la proibizione, asseritamente momentanea, degli interventi edilizi sull’area in questione sarebbe stata indotta, nella stesura del piano di fabbricazione, “di programmi … di varianti attuative e conseguenti previsioni economiche da parte dell’Amministrazione” (cfr. pag. 11 dell’atto di appello), posto che tale stato di cose non poteva per certo configurare una “competenza” dello strumento attuativo a mutare il contenuto della sovrastante disciplina contenuta nello strumento di pianificazione primario.
In dipendenza di tutto ciò, quindi, correttamente il TAR ha respinto il ricorso proposto sub R.G. 2452 del 1991 essendo insussistente il presupposto per fondare nella specie la sussistenza di un vincolo ablatorio generante un obbligo di indennizzo, ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto sub R.G. 1795 del 1992 per omessa impugnazione della destinazione imposta all’area di cui trattasi e ha respinto il ricorso proposto sub R.G. 775 del 2002 in dipendenza dell’avvenuto rigetto delle censure di illegittimità dei provvedimenti impugnati, con conseguente insussistenza dell’ingiustizia del danno dedotto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.05.2012 n. 2919 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa pronuncia di decadenza del titolo edilizio è per certo espressione di un potere strettamente vincolato; ha una natura ricognitiva, perché accerta il venir meno degli effetti del titolo edilizio in conseguenza dell’inerzia del titolare, ovvero della sopravvenienza di una nuova e diversa strumentazione edilizia, e assume pertanto decorrenza ex tunc; inoltre il termine di durata del titolo edilizio non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un provvedimento da parte della stessa Amministrazione che ha rilasciato il titolo edilizio e che accerti l’impossibilità del rispetto del termine ab origine fissato, e solamente nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un factum principis, ovvero l’insorgenza di una causa di forza maggiore.
Ai fini della sussistenza dei presupposti per la decadenza dalla concessione edilizia, l’effettivo inizio dei lavori deve essere valutato non in via generale ed astratta, ma con specifico e puntuale riferimento all’entità ed alle dimensioni dell’intervento edilizio così come programmato e autorizzato, e ciò al ben evidente scopo di evitare che il termine per l’avvio dell’edificazione possa essere eluso con ricorso a lavori fittizi e simbolici, e quindi non oggettivamente significativi di un effettivo intendimento del titolare della concessione stessa di procedere alla costruzione.
L’inizio dei lavori idoneo ad impedire la decadenza della concessione edilizia può ritenersi sussistente quando le opere intraprese siano tali da evidenziare l’effettiva volontà da di realizzare il manufatto l’opera, non essendo a ciò sufficiente il semplice sbancamento del terreno e la predisposizione degli strumenti e materiali da costruzione; ovvero, detto altrimenti, l’inizio dei lavori non è configurabile per effetto della sola esecuzione dei lavori di scavo di sbancamento e senza che sia manifestamente messa a punto l’organizzazione del cantiere e sussistendo altri indizi che dimostrino il reale proposito di proseguire i lavori sino alla loro ultimazione, con la conseguenza che la declaratoria di decadenza della licenza edilizia per mancato inizio dei lavori entro il termine fissato è illegittima solo se sono stati perlomeno eseguiti “lo scavo ed il riempimento in conglomerato cementizio delle fondazioni perimetrali fino alla quota del piano di campagna entro il termine di legge” o se lo sbancamento realizzato si estende un’area di vaste dimensioni.

Per quanto attiene alla questione di fondo che contraddistingue la causa, ossia se la decadenza del titolo edilizio consegue dal mero decorso del tempo correlato all’inattività dell’interessato o se necessita a tal fine un esplicito provvedimento amministrativo, costitutivo o dichiarativo, nella sentenza impugnata si legge che “l’orientamento giurisprudenziale sulla necessità di un espresso provvedimento di decadenza non è costante. … Infatti una parte della giurisprudenza ritiene che la decadenza della concessione edilizia per mancato inizio ed ultimazione dei lavori non sia automatica e, pertanto, tale decadenza debba essere necessariamente dichiarata con apposito provvedimento, nei cui riguardi il privato non vanta che una posizione giuridica di interesse legittimo, sicché non è configurabile nella specie un giudizio d’accertamento (TAR Abruzzo Pescara, 28.06.2002, n. 595) e che, pertanto, affinché la concessione edilizia perda, per decadenza , la propria efficacia occorre un atto formale dell’Amministrazione che renda operanti gli effetti della decadenza accertata (Consiglio Stato, sez. V, 26.06.2000, n. 3612)”, con la conseguenza –quindi– che “la decadenza avrebbe, pertanto, dovuto formare oggetto di un apposito provvedimento sindacale, che ne avesse accertato i presupposti rendendone operanti gli effetti, come richiesto per tutti i casi di decadenza di concessioni edilizie (cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. V, 15.06.1998, n. 834), considerato che la perdita di efficacia della concessione è subordinata all’esplicazione di una potestà provvedimentale” (cfr. pag. 11 e ss. della sentenza impugnata).
Ad avviso del Collegio, a ragione il giudice di primo grado ha respinto la tesi testé riassunta, “in aderenza all’orientamento che appare prevalente nella materia da ultimo” e sulla scorta del diretto “riferimento … alla lettera della legge, la quale fa dipendere la decadenza, non da un atto amministrativo, costitutivo o dichiarativo, ma dal semplice fatto dell’inutile decorso del tempo” (cfr. ibidem).
Nell’art. 4 della L. 10 del 1977, vigente all’epoca dei fatti di causa, si disponeva infatti al terzo comma che “nell’atto di concessione sono indicati i termini di inizio e di ultimazione dei lavori”, nel mentre nel susseguente sua quarto comma si disponeva che “il termine per l’inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno”, che “il termine di ultimazione, entro il quale l’opera deve essere abitabile o agibile, non può essere superiore a tre anni”, e si disciplinavano quindi le ipotesi di proroga della concessione stessa.
Nel quinto comma si disponeva –altresì– che “qualora i lavori non siano ultimati nel termine stabilito, il concessionario deve presentare istanza diretta ad ottenere una nuova concessione; in tal caso la nuova concessione concerne la parte non ultimata”, nel mentre nel sesto comma era stata introdotta una norma di chiusura del “sistema”, in forza della quale la concessione era “irrevocabile, fatti salvi i casi di decadenza ai sensi della presente legge” e le sanzioni previste dall'articolo 15 della stessa.
Risulta ben evidente, pertanto, che in tale contesto non era ravvisabile la presenza di una norma che imponesse l’emanazione di un provvedimento al riguardo, posto che la legge stessa disciplinava in via diretta la durata della concessione e, in via tassativa, le ipotesi per ottenerne la proroga: con la conseguenza, quindi, che la decadenza della concessione edilizia per mancata osservanza del termine di inizio dei lavori operava di diritto e che il provvedimento pronunciante la decadenza, ove adottato, aveva carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi “ex se” , in via diretta,con l’infruttuoso decorso del termine prefissato.
Va opportunamente denotato che tale assetto delle cose permane anche nell’attuale disciplina contenuta nell’art. 15, comma 2, del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 380, laddove si dispone, in tema di rilascio del permesso di costruire ma in via ancor più puntuale, che “il termine per l’inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l’opera deve essere completata non può superare i tre anni dall'inizio dei lavori. Entrambi i termini possono essere prorogati, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza venga richiesta una proroga. La proroga può essere accordata, con provvedimento motivato, esclusivamente in considerazione della mole dell’opera da realizzare o delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive.”.
L’adesione all’orientamento maggioritario della giurisprudenza trova conforto nella notazione –puntualmente svolta dal giudice di primo grado– secondo la quale, diversamente opinando, si farebbe dipendere la decadenza non solo da un comportamento dei titolari della concessione ma anche della Pubblica Amministrazione che potrebbe –quindi– in taluni casi adottare un provvedimento espresso e in altri casi no, con non evanescenti ipotesi di disparità di trattamento tra situazioni che nella sostanza si presentano tuttavia identiche sul punto di fondo che qui segnatamente interessa.
Tale constatazione toglie, pertanto, per se stessa pregio alle surriportate obiezioni dell’appellante secondo le quali risulterebbe problematico configurare la sopravvenuta caducazione dei permessi di costruire in assenza di un atto espresso in tal senso, ancorché avente natura dichiarativa, ovvero si ingenererebbero incertezze nei rapporti tra privati e, ancora, conseguenze inaccettabili.
Semmai, proprio il diretto riferimento dei termini e delle conseguenze per la loro violazione alla previsione di legge elimina in radice –come detto innanzi– ogni ipotesi di disparità di trattamento, e la necessità dell’applicazione del regime sanzionatorio per i lavori eseguiti dopo il decorso del termine stabilito dal titolo edilizio è, a sua volta, conseguenza necessitata -e non già “inaccettabile”- della violazione da parte dell’interessato di puntuali obblighi a lui commessi dalla stessa legge.
Deve dunque concludersi sul punto che la pronuncia di decadenza del titolo edilizio è per certo espressione di un potere strettamente vincolato; ha una natura ricognitiva, perché accerta il venir meno degli effetti del titolo edilizio in conseguenza dell’inerzia del titolare, ovvero della sopravvenienza di una nuova e diversa strumentazione edilizia, e assume pertanto decorrenza ex tunc; inoltre il termine di durata del titolo edilizio non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un provvedimento da parte della stessa Amministrazione che ha rilasciato il titolo edilizio e che accerti l’impossibilità del rispetto del termine ab origine fissato, e solamente nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un factum principis, ovvero l’insorgenza di una causa di forza maggiore (cfr. al riguardo, ex plurimis, Cons. Stato, sez. IV, 10.08.2007, n. 4423 e 18.06.2008 n. 3030).
Circa l’allegazione dell’attuale appellante secondo la quale non sarebbe stata nella specie ottemperata dall’Amministrazione Comunale l’ordinanza istruttoria emanata dal giudice di primo grado al fine di acquisire agli atti di causa, tra l’altro, copia del verbale del sopralluogo asseritamente effettuato dall’Ufficio Tecnico Comunale in data 27.02.1998 e che pertanto non risulterebbe comprovato nella sua materialità l’assunto del Comune medesimo secondo il quale i lavori non sarebbero nella specie regolarmente iniziati, il Collegio –per parte propria– non può non evidenziare che, secondo il generale principio di distribuzione dell’onere della prova di cui al combinato disposto dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 115 cod. proc. civ. –ora espressamente recepito dall’art. 64, comma 1, cod. proc. amm. ma reputato immanente nell’ordinamento processuale amministrativo, se non altro per quanto attiene alle ipotesi che come per il caso di specie pertengono alla giurisdizione esclusiva, anche in epoca antecedente all’entrata in vigore del nuovo codice di rito (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 07.10.2009 n. 6118)– competeva all’attuale appellante dedurre che le opere da lei asseritamente realizzate prima della scadenza del termine annuale fissato per l’avvio dei lavori erano comunque idonee a dimostrare una sua seria e concreta volontà di utilizzare il titolo edilizio a lei rilasciato.
Al riguardo, risulta corretta la notazione di fondo del primo giudice secondo la quale tra i “modesti sbancamenti di terreno oramai ricoperti di acqua e vegetazione” testualmente riferiti dall’Amministrazione Comunale in esito al sopralluogo da essa effettuato e i lavori affermati come già eseguiti dalla Jaconelli in sede di richiesta di riesame del primo diniego di proroga a lei opposto (“picchettatura del terreno interessato dalla costruzione, livellamento del medesimo terreno al livello delle fondazioni, creazione degli scavi per il getto dei plinti di fondazione di entrambi gli assentiti edifici, realizzazione della strada di accesso”) non esiste, in realtà, un reale contrasto.
Al di là del diverso impianto descrittivo delle due rappresentazioni di fatto, ben si evince infatti che secondo entrambe le tesi poste a raffronto i lavori in questione si sono fermati al livello dello sbancamento dei terreni e della loro preparazione all’edificazione, senza che quest’ultima possa effettivamente reputarsi come in concreto iniziata.
Come è ben noto, ai fini della sussistenza dei presupposti per la decadenza dalla concessione edilizia, l’effettivo inizio dei lavori deve essere valutato non in via generale ed astratta, ma con specifico e puntuale riferimento all’entità ed alle dimensioni dell’intervento edilizio così come programmato e autorizzato, e ciò al ben evidente scopo di evitare che il termine per l’avvio dell’edificazione possa essere eluso con ricorso a lavori fittizi e simbolici, e quindi non oggettivamente significativi di un effettivo intendimento del titolare della concessione stessa di procedere alla costruzione (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 16.11.1998 n. 1615).
Sempre in tal senso, l’inizio dei lavori idoneo ad impedire la decadenza della concessione edilizia può ritenersi sussistente quando le opere intraprese siano tali da evidenziare l’effettiva volontà da di realizzare il manufatto l’opera, non essendo a ciò sufficiente il semplice sbancamento del terreno e la predisposizione degli strumenti e materiali da costruzione (così Cons. Stato, Sez. V, 22.11.1993 n. 1165); ovvero, detto altrimenti, l’inizio dei lavori non è configurabile per effetto della sola esecuzione dei lavori di scavo di sbancamento e senza che sia manifestamente messa a punto l’organizzazione del cantiere e sussistendo altri indizi che dimostrino il reale proposito di proseguire i lavori sino alla loro ultimazione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 03.10.2000 n. 5242), con la conseguenza che la declaratoria di decadenza della licenza edilizia per mancato inizio dei lavori entro il termine fissato è illegittima solo se sono stati perlomeno eseguiti “lo scavo ed il riempimento in conglomerato cementizio delle fondazioni perimetrali fino alla quota del piano di campagna entro il termine di legge” (Cons. Stato, Sez. V, 15.10.1992 n. 1006) o se lo sbancamento realizzato si estende un’area di vaste dimensioni (Cons. Stato, Sez. V, 13.05.1996 n. 535): circostanze, queste ultime, non comprovate nella specie dalla Jaconelli (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.05.2012 n. 2915 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl generale principio di correlare gli oneri di urbanizzazione al carico urbanistico, la ristrutturazione edilizia comporta tale dovere allorché sussista tale carico, che va riscontrato anche in caso di divisione e frazionamento di immobile che da uno si trasforma in due unità, con distinti ingressi e servizi.
Anche in tale ipotesi, consistente nella divisione e frazionamento di una unità immobiliare in due o più unità, stante l’autonoma utilizzabilità delle stesse, si realizza un aumento dell’impatto sul territorio e sono dovuti i relativi oneri.
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Ai fini dell'insorgenza dell'obbligo di corresponsione degli oneri concessori, è rilevante il verificarsi di un maggior carico urbanistico quale effetto dell'intervento edilizio, sicché non è neanche necessario che la ristrutturazione interessi globalmente l'edificio -con variazioni riguardanti nella loro interezza le parti esterne ed interne del fabbricato- ma è soltanto sufficiente che ne risulti comunque mutata la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica, con oneri conseguentemente riferiti all'oggettiva rivalutazione dell'immobile e funzionali a sopportare l'aggiuntivo carico «socio-economico» che l'attività edilizia comporta, anche quando l'incremento dell'impatto sul territorio consegua solo a marginali lavori dovuti ad una divisione o frazionamento dell'immobile in due unità o fra due o più proprietari

La giurisprudenza di questo Consesso ha già chiarito che il generale principio di correlare gli oneri di urbanizzazione al carico urbanistico, la ristrutturazione edilizia comporta tale dovere allorché sussista tale carico, che va riscontrato anche in caso di divisione e frazionamento di immobile che da uno si trasforma in due unità, con distinti ingressi e servizi (così Consiglio di Stato, IV, 29.04.2004, n. 2611; per esempio, nel senso che in caso di mutamento di destinazione d'uso siano dovuti gli oneri concessori, Consiglio Stato, sez. IV, 28.07.2005, n. 4014).
Anche in tale ipotesi, consistente nella divisione e frazionamento di una unità immobiliare in due o più unità, stante l’autonoma utilizzabilità delle stesse, si realizza un aumento dell’impatto sul territorio e sono dovuti i relativi oneri.
D’altronde, che i lavori realizzati abbiano prodotto due distinte e, come tali, fruibili, unità immobiliari costituisce ammissione della stessa parte appellante.
Ai fini dell'insorgenza dell'obbligo di corresponsione degli oneri concessori, è rilevante il verificarsi di un maggior carico urbanistico quale effetto dell'intervento edilizio, sicché non è neanche necessario che la ristrutturazione interessi globalmente l'edificio -con variazioni riguardanti nella loro interezza le parti esterne ed interne del fabbricato- ma è soltanto sufficiente che ne risulti comunque mutata la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica, con oneri conseguentemente riferiti all'oggettiva rivalutazione dell'immobile e funzionali a sopportare l'aggiuntivo carico «socio-economico» che l'attività edilizia comporta, anche quando l'incremento dell'impatto sul territorio consegua solo a marginali lavori dovuti ad una divisione o frazionamento dell'immobile in due unità o fra due o più proprietari (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.05.2012 n. 2838 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe osservazioni proposte dai cittadini avverso gli atti di pianificazione urbanistica non costituiscono veri e propri rimedi giuridici, ma semplici apporti collaborativi, sicché il loro rigetto non richiede una motivazione analitica, ma è sufficiente che esse siano state esaminate e confrontate con gli equilibri generali perseguiti dallo strumento pianificatorio.
Le osservazioni proposte dai cittadini avverso gli atti di pianificazione urbanistica non costituiscono veri e propri rimedi giuridici, ma semplici apporti collaborativi, sicché il loro rigetto non richiede una motivazione analitica, ma è sufficiente che esse siano state esaminate e confrontate con gli equilibri generali perseguiti dallo strumento pianificatorio (tra tante, Consiglio di Stato, IV, 24.12.2009, n. 8754) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.05.2012 n. 2837 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIQuale che sia la natura del consorzio, esso deve dimostrare il possesso dei requisiti generali di tutti i consorziati che vengono individuati come esecutori delle prestazioni scaturenti dal contratto.
A questo riguardo, in primo luogo e in via generale va rammentato che, indipendentemente dalla tipologia del consorzio partecipante a una gara (consorzio stabile o consorzio ordinario), la giurisprudenza ha affermato in diverse occasioni che, quale che sia la natura del consorzio, esso deve dimostrare il possesso dei requisiti generali di tutti i consorziati che vengono individuati come esecutori delle prestazioni scaturenti dal contratto (Cons. St., VI, n. 7380 del 2009, IV, n. 1485 del 2008, IV, n. 3765 del 2007, V, n. 4477 del 2005, CGA Reg. Sic., n. 712 del 2007).
Tutti i soggetti che a qualunque titolo concorrono all'esecuzione di pubblici appalti, vuoi in veste di affidatari, vuoi in veste di subaffidatari, vuoi in veste di prestatori di requisiti nell'ambito del c.d. avvalimento, devono essere in possesso dei requisiti morali di cui all'art. 38, d.lgs. n. 163/2006. Il che risponde ad elementari ragioni di trasparenza e di tutela effettiva degli interessi sottesi alle cause di esclusione di cui all'art. 38, d.lgs. n. 163/2006.
Occorre, infatti, che tutti gli operatori economici che, a qualunque titolo, eseguono prestazioni di lavori, servizi e forniture abbiano i requisiti morali di cui all'art. 38 citato. Se in caso di consorzi tali requisiti andassero accertati solo in capo al consorzio e non anche in capo ai consorziati che eseguono le prestazioni, il consorzio potrebbe agevolmente diventare uno schermo di copertura consentendo la partecipazione di consorziati privi dei necessari requisiti.
Per gli operatori che non hanno i requisiti dell'art. 38 (si pensi al caso di soggetti con condanne penali per gravi reati incidenti sulla moralità professionale) basterebbe, anziché concorrere direttamente andando incontro a sicura esclusione, aderire a un consorzio da utilizzare come copertura
” (così, più di recente, Cons. St., VI, n. 3759/2010, con riferimento all’art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, ma con statuizioni la cui “ratio” è estensibile anche a fattispecie come quella all’odierno esame del Collegio (la sesta sezione ha aggiunto che la sopra enunciata regola secondo la quale tutti coloro che prendono parte all'esecuzione di pubblici appalti devono essere in possesso dei requisiti morali può essere considerato un principio di tutela della par condicio, dell'imparzialità ed efficacia dell'azione amministrativa, per cui deve trovare applicazione anche nei contratti esclusi in tutto o in parte dall'applicazione del codice.
Nei contratti c.d. esclusi –ha proseguito la sesta sezione- può non esigersi il medesimo rigore formale di cui all'art. 38 citato e gli stessi vincoli procedurali, ma resta inderogabile la sostanza, ossia il principio che i soggetti devono avere i requisiti morali, e che il possesso di tali requisiti va verificato) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.05.2012 n. 2825 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Indipendentemente dalla tipologia del consorzio partecipante a una gara (consorzio stabile o consorzio ordinario), esso deve dimostrare il possesso dei requisiti generali di tutti i consorziati.
Tutti coloro che prendono parte all'esecuzione di pubblici appalti devono essere in possesso dei requisiti morali.

Indipendentemente dalla tipologia del consorzio partecipante a una gara (consorzio stabile o consorzio ordinario), quale che sia la natura del consorzio, esso deve dimostrare il possesso dei requisiti generali di tutti i consorziati che vengono individuati come esecutori delle prestazioni scaturenti dal contratto. Tutti i soggetti che a qualunque titolo concorrono all'esecuzione di pubblici appalti, vuoi in veste di affidatari, vuoi in veste di subaffidatari, vuoi in veste di prestatori di requisiti nell'ambito del c.d. avvalimento, devono essere in possesso dei requisiti morali di cui all'art. 38, d.lgs. n. 163/2006. Il che risponde ad elementari ragioni di trasparenza e di tutela effettiva degli interessi sottesi alle cause di esclusione di cui all'art. 38, d.lgs. n. 163/2006. Occorre, infatti, che tutti gli operatori economici che, a qualunque titolo, eseguono prestazioni di lavori, servizi e forniture abbiano i requisiti morali di cui all'art. 38 citato. Se in caso di consorzi tali requisiti andassero accertati solo in capo al consorzio e non anche in capo ai consorziati che eseguono le prestazioni, il consorzio potrebbe agevolmente diventare uno schermo di copertura consentendo la partecipazione di consorziati privi dei necessari requisiti. Per gli operatori che non hanno i requisiti dell'art. 38 (si pensi al caso di soggetti con condanne penali per gravi reati incidenti sulla moralità professionale) basterebbe, anziché concorrere direttamente andando incontro a sicura esclusione, aderire a un consorzio da utilizzare come copertura.
La regola secondo la quale tutti coloro che prendono parte all'esecuzione di pubblici appalti devono essere in possesso dei requisiti morali può essere considerato un principio di tutela della par condicio, dell'imparzialità ed efficacia dell'azione amministrativa, per cui deve trovare applicazione anche nei contratti esclusi in tutto o in parte dall'applicazione del codice. Nei contratti c.d. esclusi può non esigersi il medesimo rigore formale di cui all'art. 38 citato e gli stessi vincoli procedurali, ma resta inderogabile la sostanza, ossia il principio che i soggetti devono avere i requisiti morali, e che il possesso di tali requisiti va verificato (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.05.2012 n. 2825 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sulla necessità della dichiarazione ex art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, da parte del responsabile tecnico della impresa che effettua la gestione dei rifiuti.
La figura del responsabile tecnico della impresa di gestione di rifiuti di cui al d.m. n. 406/1998, non presenta differenze significative rispetto al direttore tecnico, pertanto gli obblighi di dichiarazione che l'art. 38 del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, correla alla posizione del direttore tecnico sono riferibili anche al responsabile tecnico ex d.m. n. 406/1998 cit.. Infatti, quando la norma di cui all'art. 38 citato (e quindi anche la "lex specialis" di gara) richiede che lo specifico requisito sia posseduto dal direttore tecnico ha riguardo, quanto alle imprese di servizi, alle figure tipiche di tale categoria, pur nominalmente diverse ma a quella sostanzialmente analoghe perché investite di compiti parimenti analoghi, rilevanti ai fini dell'esecuzione dell'appalto.
Di conseguenza, nel caso di specie anche il responsabile tecnico avrebbe dovuto rendere la dichiarazione in questione. La teoria del cosiddetto "falso innocuo" non può, poi, trovare accoglimento. La teoria stessa riguarda infatti i casi in cui la "lex specialis" non prevede espressamente la conseguenza dell'esclusione in relazione alla mancata osservanza di puntuali prescrizioni su modalità e oggetto delle dichiarazioni da fornire.
Nel caso in esame, viceversa, il carattere cogente della sanzione espulsiva prevista dal bando di gara per l'ipotesi di omessa dichiarazione ai sensi dell'art. 38 precludeva l'applicazione della teoria del falso innocuo (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.05.2012 n. 2820 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATALa demolizione parziale si ha quando continua ad esistere una parte del manufatto, avente una propria autonomia, tale da far ritenere sussistente un edificio in senso tecnico. E non si può considerare esistente un edificio in senso tecnico, quando siano conservate soltanto le fondamenta e una parte del muro perimetrale, senza cioè la copertura ed i muri perimetrali.
Occorre ricordare che questo stesso Consiglio di Stato (sez. IV, 19.02.2007 n. 867), ha già affermato che “la demolizione parziale si ha quando continua ad esistere una parte del manufatto, avente una propria autonomia, tale da far ritenere sussistente un edificio in senso tecnico. E non si può considerare esistente un edificio in senso tecnico, quando siano conservate soltanto le fondamenta e una parte del muro perimetrale, senza cioè la copertura ed i muri perimetrali”. Il che porta ad escludere, anche in virtù di quanto concretamente effettuato, che nel caso di specie ricorra un’ipotesi di demolizione parziale.
L’attività di demolizione e ricostruzione –che pure può integrare una ipotesi di ristrutturazione edilizia– ha comportato tuttavia, nel caso di specie, come affermato dalla sentenza (e non sostanzialmente contestato dagli appellanti), una modifica (ancorché minima) del volume e della sagoma
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.05.2012 n. 2723 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa nozione civilistica di pertinenza è più ampia di quella applicata nella materia urbanistica, nel senso che beni, che in diritto civile assumono senz'altro natura pertinenziale, non sono tali ai fini dell'applicazione delle regole che governano l'attività edilizia, ogniqualvolta assumono autonomia rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime concessorio; pertanto, in materia edilizia sono qualificabili come pertinenze solo le opere prive di autonoma destinazione e che esauriscano la loro destinazione d'uso nel rapporto funzionale con l'edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico.
Quanto al terzo motivo, giova osservare che la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione della nozione di “pertinenza” ai fini edilizi, come elaborata dalla giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, sez. IV, 23.07.2009 n. 4636), secondo la quale la nozione civilistica di pertinenza è più ampia di quella applicata nella materia urbanistica, nel senso che beni, che in diritto civile assumono senz'altro natura pertinenziale, non sono tali ai fini dell'applicazione delle regole che governano l'attività edilizia, ogniqualvolta assumono autonomia rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime concessorio; pertanto, in materia edilizia sono qualificabili come pertinenze solo le opere prive di autonoma destinazione e che esauriscano la loro destinazione d'uso nel rapporto funzionale con l'edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.05.2012 n. 2723 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLegittimo tagliare la paga ai malati. Sì alla trattenuta di Brunetta sullo stipendio dei travet. La Corte costituzionale: non c'è attentato al diritto alla salute né discriminazione con i privati.
La trattenuta sullo stipendio, quando ci si assenta per malattia, è costituzionalmente legittima. Ad affermarlo la Corte costituzionale, con la sentenza 10.05.2012 n. 120 che ha dichiarato costituzionalmente infondata una questione di legittimità costituzionale, riguardante l'art. 71 del decreto legge 112/2008.
Il caso era stato sollevato dal Tribunale di Livorno, che aveva posto in evidenza una serie di elementi, che inducevano a dubitare sulla compatibilità della trattenuta Brunetta con i principi della nostra Carta costituzionale. In particolare, il giudice rimettente aveva fatto presente che l'art. 71 sembrava risultare in contrasto con il principio di uguaglianza, perché la penalizzazione economica della decurtazione dell'accessorio è prevista solo per i dipendenti pubblici.
In più sembrava violare anche il principio di retribuzione sufficiente, perché incide su retribuzioni già minime. E ancora, sembrava in contrasto con il diritto alla salute, perché costringe i lavoratori ad adempiere la prestazione anche se in stato di malattia, proprio in quanto mossi dalle necessità economiche. Infine, secondo il Tribunale di Livorno, l'art. 71 avrebbe violato anche l'art. 38 della Costituzione, privando il lavoratore ammalato, dunque temporaneamente inabile al lavoro, della tutela sussidiaria prevista per i lavoratori in questi casi. Il Giudice delle leggi, però, ha rigettato il ricorso ed ha smontato le tesi del Tribunale una per una. Sulla questione della violazione del principio di uguaglianza, la Consulta ha fatto presente che i lavoratori del settore privato non sono equiparabili ai dipendenti pubblici. Perché ogni qualifica e ogni settore, nel privato, vanta una disciplina diversa e specifica. E anche nel pubblico ci sono regimi diversi a seconda dei comparti e delle qualifiche. Per quanto riguarda, invece, la violazione del principio di adeguatezza e sufficienza della retribuzione, la Corte ha spiegato che tale principio risulta soddisfatto anche in presenza del mero trattamento fondamentale.
Quanto alla violazione del diritto alla salute, il Giudice delle leggi, facendo leva sul fatto che la trattenuta è piuttosto modesta (circa 7 euro al giorno per i primi 10 giorni di assenza), ha ritenuto che la perdita economica non fosse abbastanza pesante da indurre il lavoratore ad andare a lavorare anche se malato. E inoltre, il supremo collegio ha spiegato che la trattenuta non incide nemmeno sul dovere di solidarietà che si deve nei confronti degli inabili al lavoro, proprio perché, comunque, la garanzia del trattamento fondamentale è già sufficiente. Infine, il Giudice delle leggi ha argomentato che la penalizzazione economica prevista dall'art. 71 si coniuga con il principio di buona amministrazione di cui all'art. 97 della Costituzione, perché serve a scoraggiare l'assenteismo (articolo ItaliaOggi del 22.05.2012 - link a www.corteconti.it).

APPALTI: Sui presupposti che devono sussistere ai fini dell'applicabilità dell'interdizione antimafia.
E' vero che l'informativa antimafia rappresenta il punto più avanzato di tutela preventiva dell'ordinamento rispetto ai fenomeni di delinquenza organizzata a carattere mafioso e che per tale sua connotazione di tutela preventiva non può fondarsi che su di un giudizio meramente prognostico dell'autorità prefettizia e che a tal fine non occorre che vengano acquisiti veri e propri mezzi di prova, essendo sufficiente un quadro indiziario d'insieme che, sulla base di una valutazione caratterizzata da un'ampia discrezionalità tecnica, faccia presumere l'esistenza di un condizionamento mafioso. Ma è altresì vero che la necessaria coerenza costituzionale di tale forma avanzata di tutela impone di non prescindere da un riscontro oggettivo dell'intuizione prognostica.
Ciò determina che l'interdizione antimafia non può fondarsi su semplici supposizioni che prescindono da un'oggettiva individuazione di un coerente, ancorché non perfezionato, quadro indiziario (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 09.05.2012 n. 2678 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Quando i fumi e gli odori sprigionati dalla cottura dei cibi di un bar molestano la famiglia che abita l’appartamento, nei pressi del quale passa il tubo di scarico della cucina, il gestore dell’esercizio è responsabile per il reato di “emissioni moleste”.
Ciò anche se gli accertamenti sono stati eseguiti sotto la vigenza di un’altra gestione del bar, se la famiglia molestata non ha sollevato alcun reclamo nei confronti della nuova gestione, e se il provvedimento comunale che autorizza l’esercizio attesta che le immissioni non avrebbero potuto raggiungere livelli di intollerabilità.
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Fumi e odori sgradevoli: Cassazione condanna il gestore di un bar.

Il tubo di scarico della cucina di un bar arriva sotto il solaio di un appartamento: i fumi e gli odori sprigionati dalla cottura dei cibi molestano la famiglia che vi abita.
La III Sez. penale della Corte di Cassazione, con la sentenza 04.05.2012 n. 16670, condanna il gestore dell’esercizio per il reato di “emissioni moleste”, statuendo un’ammenda pari a cento euro, nonché duemila euro, a titolo di risarcimento dei danni, a favore della famiglia.
La ricorrente, titolare di una nuova gestione di un bar, lamenta che in sede di merito non è stato considerato che gli accertamenti erano stati eseguiti nel tempo in cui il bar era gestito da un altro soggetto e che la famiglia molestata non aveva sollevato alcun reclamo verso la nuova titolare dell’esercizio commerciale. Infine precisa che il Comune aveva autorizzato la ristorazione con un provvedimento dove si attestava che le immissioni non avrebbero potuto raggiungere livelli di intollerabilità. Lamentele, tutte, che gli ermellini hanno ritenuto infondate.
Motivando il rigetto, la terza sezione penale richiama e conferma quanto esplicitato dai giudici di merito, anche citando la propria pronuncia n. 2475 del 2007 secondo la quale risulta “configurabile il reato di cui all’art. 674 c. p. (emissione di gas, vapori o fumi atti a offendere o molestare le persone) in presenza di molestie olfattive promananti da impianto produttivo in quanto non esiste una normativa statale che prevede disposizioni specifiche e valori limite in materia di odori, con conseguente individuazione del criterio della stretta tollerabilità quale parametro di legalità dell’emissione, attesa l’inidoneità ad approntare una protezione adeguata all’ambiente e alla salute umana di quello della normale tollerabilità, previsto dall’art. 844 c.c.” (link a www.altalex.com).

APPALTIAppalti, il Consiglio di stato sulla regolarità contributiva. Durc insindacabile. Le verifiche competono agli enti.
Il Durc si applica e non si discute. Almeno per la stazione appaltante. E ciò anche prima che entrasse in vigore il dl sviluppo. Non spetta a chi dà il via alla procedura verificare la regolarità contributiva di chi partecipa alla gara; compete invece agli enti previdenziali controllare la sussistenza di eventuali gravi violazioni in materia che impediscono alle aziende di aggiudicarsi contratti pubblici.
L'adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha sciolto il contrasto giurisprudenziale con la
, sentenza 04.05.2012 n. 8, ribadendo che l'insindacabilità del Durc, il Documento unico di regolarità contributiva, affermata dal decreto sviluppo, che ha modificato il codice degli appalti vale anche per le controversie anteriori al 14/05/2011, data di entrata in vigore del dl 70/2011. Questo non perché la norma sia retroattiva: semplicemente perché è stato il legislatore ad aderire all'orientamento giurisprudenziale formatosi fra i Tar e Palazzo Spada. Resta definitivamente chiarito che la mancanza di Durc comporta una presunzione legale «iuris et de iure» di gravità delle violazioni previdenziali. Ma ora il Consiglio di stato mette una parola definitiva per l'enorme contenzioso aperto prima dell'intervento del governo. E il merito è di un decreto del ministero del lavoro che risale al 2007: se prima del provvedimento poteva esserci un dubbio se vi fosse o meno automatismo nella valutazione di gravità delle violazioni previdenziali da parte della stazione appaltante, dopo l'emanazione del dm risulta chiaro che la valutazione di gravità o meno della infrazione previdenziale è riservata agli enti previdenziali. Tanto che se la violazione è ritenuta non grave, il Durc è rilasciato con esito positivo, mentre accade il contrario se l'infrazione risulta grave. E la valutazione compiuta dagli enti previdenziali è vincolante per le stazioni appaltanti e preclude ogni altra verifica (articolo ItaliaOggi del 22.05.2012 - link a www.corteconti.it).

APPALTI SERVIZI: Il servizio pubblico locale di rilevanza economica è configurabile anche quando l'amministrazione, invece della concessione, pone in essere un contratto di appalto.
Il servizio pubblico locale di rilevanza economica è configurabile non solo quando l'amministrazione adotti un atto di concessione, ma anche nel caso in cui, pone in essere un contratto di appalto, (rapporto bilaterale, versamento di un importo da parte dell'amministrazione) sempre che l'attività sia rivolta direttamente all'utenza -e non all'ente appaltante in funzione strumentale all'amministrazione- e l'utenza sia chiamata a pagare un compenso, o tariffa, per la fruizione del servizio (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 03.05.2012 n. 2537 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

AGGIORNAMENTO AL 21.05.2012

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NOVITA' NEL SITO

Inserito il nuovo bottone dossier VINCOLO IDROGEOLOGICO.

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

ENTI LOCALI - VARI: Oggetto: Imposta municipale propria (IMU). Anticipazione sperimentale. Art. 13 del D.L. 06.12.2011, n. 201, convertito dalla Legge 22.12.2011, n. 214. Chiarimenti (Ministero dell'Economia e delle Finanze, circolare 18.05.2012 n. 3/DF).

ENTI LOCALI - VARI: IMU - Come si applica l’imposta municipale propria per l’anno 2012 (Ministero dell'Economia e delle Finanze, slides esplicative).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 17.05.2012, "Indicazioni operative per la compilazione delle denunce di taglio boschivo nel SiTaB" (comunicato regionale 14.05.2012 n. 55).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

ATTI AMMINISTRATIVI: M. Viviani, L.R. Lombardia 1/2012: ambito di applicazione (link a www.studiospallino.it).

EDILIZIA PRIVATA: W. Fumagalli, E ADESSO CHI PAGHERÀ? LA RISTRUTTURAZIONE EDILIZIA “FUORI SAGOMA”: UN DISASTRO ANNUNCIATO - Ancora una volta la Corte Costituzionale ha dovuto annullare una legge della Lombardia, e ora al via la “caccia alle streghe (AL n. 01-02/2012).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni categorie protette.
La Corte dei Conti, sezione regionale Lombardia, con il parere 04.05.2012 n. 168, conferma gli orientamenti consolidati (SS.RR. per la Regione Siciliana, deliberazioni nn. 36/2008 e 49/2011) secondo i quali, anche in caso di mancato di rispetto del patto di stabilità, è possibile procedere alle assunzioni necessarie (a fronte di scopertura) per ricostituire la quota d'obbligo imposta dalla legislazione speciale in materia di assunzioni di categorie protette di lavoratori di cui all'art. 3, comma 1, della legge 68/1999 (tratto da www.publika.it).

NEWS

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALIRischio impasse negli enti tra 3 mila e 5 mila abitanti. I comuni andati al voto il 6 e 7 maggio devono già fare i conti con la riduzione dei consiglieri.
Rischio impasse nei consigli dei comuni fra 3.000 e 5.000 abitanti. Tutto nasce dall'art. 16, comma 17, della manovra di Ferragosto (dl 138/2011), il quale, come noto, ha rivisto la «pianta organica» degli organi consiliari nei municipi più piccoli, prevedendo riduzioni differenziate per fascia demografica.
In particolare:
- per i comuni con popolazione fino a 3.000 abitanti, il consiglio è composto dal sindaco e da 6 consiglieri;
- per i comuni con popolazione superiore a 3.000 e fino a 5.000 abitanti, sono previsti 7 consiglieri, oltre al sindaco, per un totale di 8 membri;
- per i comuni con popolazione superiore a 5.000 e fino a 10.000 abitanti, il numero degli scranni consiliari sale a 11 (sindaco compreso).
La nuova composizione scatta a decorrere dal primo rinnovo elettorale successivo al 14.09.2011 (data di entrata in vigore della l 148/2011, di conversione del citato dl 138/2011). Il predetto comma 17, infatti, non è stato interessato dallo slittamento temporale previsto dal decreto «milleproroghe» 2012 (dl 216/2011, convertito dalla l. 14/2012; si veda ItaliaOggi del 27.11.2011).
Quindi, i comuni reduci dalla tornata elettorale del 6-7 maggio fanno già i conti con le nuove regole, che risultano particolarmente problematiche per gli enti della fascia intermedia (3.000-5.000 abitanti).
In tal caso, infatti, i componenti del consiglio (includendo anche il sindaco) sono in numero pari (8, come già detto). Ciò aumenta decisamente le probabilità che le votazioni si concludano in pareggio. In linea generale, infatti, per l'approvazione delle deliberazioni (e di ogni altro provvedimento), è necessario il voto favorevole della metà più uno dei presenti.
È evidente, quindi, che possono presentarsi non poche difficoltà nel funzionamento degli organi dei comuni in questione, di cui il legislatore non sembra aver tenuto adeguatamente conto. È pur vero che l'art. 71, comma 8, del Tuel prevede che alla lista collegata al candidato alla carica di sindaco che ha riportato il maggior numero di voti siano attribuiti due terzi dei seggi assegnati al consiglio (con arrotondamento all'unità superiore qualora il numero dei consiglieri da assegnare alla lista contenga una cifra decimale superiore a 50 centesimi). Il che significa che ogni primo cittadino, nei comuni in questione, può contare (oltre a se stesso) su ben cinque degli altri sette consiglieri.
Ma ciò non esclude che alcuni consiglieri di maggioranza decidano di votare in senso opposto agli orientamenti del proprio gruppo consiliare.
In tali casi, se voti a favore e voti contro il provvedimento proposto dovessero equivalersi, la votazione sarebbe infruttuosa.
Infatti, a livello legislativo non sono previsti meccanismi volti a risolvere in modo strutturale una simile situazione di impasse. Anche quando la legge prevede qualcosa al riguardo (ad esempio, allorché, in caso di votazioni riguardanti le persone, sancisce la prevalenza del candidato più anziano) si tratta di eccezioni tassative alla regola generale.
È un problema serio, che rischia di compromettere il regolare funzionamento della macchina comunale. Non va trascurato, inoltre, il rischio che si creino meccanismi perversi, con l'accentuazione del potere di ricatto di singoli consiglieri nei confronti dei primi cittadini.
Una possibile via d'uscita potrebbe essere il regolamento consiliare, cui l'art. 38, comma 1, del Tuel rimette (nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto) la disciplina del funzionamento dei consigli e, fra l'altro, delle modalità per la presentazione e la discussione delle proposte. Per esempio, si potrebbe prevedere (come già avviene in molti regolamenti vigenti per la Giunta) che in caso di parità di voti prevale quello del sindaco. Ma si tratterebbe di una previsione di dubbia legittimità, solo in parte attenuata dal fatto che il regolamento deve essere approvato a maggioranza assoluta. Non a caso, la gran parte dei regolamenti vigenti prevede che in caso di parità di voti la proposta si intende non approvata (articolo ItaliaOggi del 18.05.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORELAZIONE CORTE CONTI SUL LAVORO PUBBLICO/ Gli enti snobbano i diktat della Consulta. Un dirigente su due è a contratto. Il 45% dei manager locali non è autonomo dalla politica.
Sono circa la metà dei dirigenti di ruolo quelli a contratto del comparto regioni enti locali. Per la precisione, secondo i dati della Corte dei conti, sezioni riunite, delibera n. 13/2012/Contr/Cl contenuti nella relazione sul costo del lavoro pubblico 2012, nel 2010 su 6.884 dirigenti di ruolo, nel comparto ben 2.199 sono dirigenti a tempo determinato, per un'incidenza pari al 32%.
Ma, aggiungendo anche i 902 dirigenti extra dotazione organica, tale incidenza sale al 45%.
La Corte dei conti conferma, dunque, che regioni ed enti locali sono distantissimi dall'attuare le indicazioni ripetutamente espresse dalla Corte costituzionale sulla dirigenza a tempo determinato, considerata un elemento di debolezza del sistema, perché incide negativamente sul principio della continuità amministrativa e risulta legata eccessivamente da un rapporto fiduciario con la politica, tale da lederne l'autonomia.
Appare piuttosto evidente che comuni, province e regioni abbiano attinto a piene mani alla possibilità di assumere dirigenti di fiducia a tempo determinato, costituendo un vero e proprio «apparato parallelo» a quello di ruolo. Ciò, in particolare, soprattutto per effetto dell'articolo 110, comma 1, del dlgs 267/2000 che consentendo, prima della riforma-Brunetta, di assumere senza limitazione alcuna i dirigenti a contratto, ha permesso a moltissimi enti di insediare ai vertici amministrativi dirigenti esterni, senza porsi minimamente il problema di un tetto numerico.
L'incidenza della dirigenza a contratto pari complessivamente al 45% del totale, come si nota, è lontanissima dal tetto inizialmente posto dal dlgs 150/2009 al solo 8%.
Si spiegano, dunque, le insistenze dell'Anci e dei sindaci in particolare, per ottenere dal legislatore un ampliamento delle quote di dirigenti da assumere a contratto, nonostante le pronunce della Corte costituzionale. Come si ricorda, un primo ampliamento, fino al 18%, era stato ammesso dall'articolo 1 del dlgs 141/2011, ma solo per gli enti locali considerati virtuosi da un dpcm che ancora non ha visto la luce. Un secondo ampliamento, dunque, è stato invocato e ottenuto dalle autonomie locali con l'articolo 4, comma 13, del dl 16/2012, convertito in legge 44/2012 (il decreto fiscale), che apparentemente estende di poco la percentuale iniziale dell'8%, prevedendo un 10% per gli enti locali con oltre 250 mila abitanti, espandibile al 13% per gli enti con popolazione tra 100 mila e 250 mila e portato al 20% per gli altri enti.
Ma, in realtà, proprio perché anche il 20% (incidenza della dirigenza a contratto comunque più che doppia di quella ammessa nello stato) è lontanissimo dalla percentuale effettiva di dirigenti a contratto operanti negli enti locali, il citato articolo 4, comma 13, ha posto in essere una vera e propria mini-sanatoria: consente, infatti, agli enti locali di confermare tutti, ma proprio tutti, i dirigenti con contratti in scadenza al 31/12/2012, riproponendo la percentuale-monstre di dirigenti a contratto di matrice fiduciaria.
Per altro, esattamente come avviene presso le varie agenzie nazionali, grandissima parte della dirigenza a contratto non proviene nemmeno da selezione di particolari e spiccate competenze professionali attinte al di fuori delle dotazioni organiche, come prevederebbe l'articolo 19, comma 6, del dlgs 165/2001, allo scopo di integrare e arricchire la qualità e il plafond di capacità della dirigenza di ruolo. Spiegano le sezioni riunite nella relazione che «oltre la metà delle assunzioni nell'ambito della dirigenza a tempo determinato deriva dall'attribuzione di incarichi a personale interno ai singoli enti».
Insomma, delle vere e proprie progressioni verticali di fatto, realizzate senza alcuna specifica selezione, spesso occasione per premiare fedeltà e consonanza del dirigente cooptato all'organo di governo di turno (articolo ItaliaOggi del 18.05.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOContratti decentrati, atti unilaterali subito vigenti.
Gli atti unilaterali sostitutivi del mancato accordo per la stipulazione dei contratti decentrati sono da considerare da subito in vigore, per effetto dell'articolo 6 del dlgs 141/2011.
La relazione sul costo del lavoro pubblico 2012 elaborata dalle sezioni riunite della Corte dei conti interviene in modo tranciante su una delle questioni più spinose riguardanti il dlgs 150/2009, nell'ambito della profonda critica riservata all'intesa tra funzione pubblica e sindacati, che pare finalizzata a smantellare, invece, proprio l'impianto della riforma-Brunetta che ha potenziato i poteri datoriali.
Ai sensi dell'articolo 40, comma 3-ter, del dlgs 165/2001 «qualora non si raggiunga l'accordo per la stipulazione di un contratto collettivo integrativo, l'amministrazione interessata può provvedere, in via provvisoria, sulle materie oggetto del mancato accordo, fino alla successiva sottoscrizione». Si tratta di una disposizione prevista per riequilibrare le posizioni di forza nella contrattazione decentrata, tale da permettere alle amministrazioni di superare pregiudiziali sindacali ostative alla stipulazione dei contratti e permettere l'attuazione degli istituti.
Come noto, i sindacati hanno fatto ricorsi a tappeto ai giudici del lavoro avverso i provvedimenti attuativi della norma introdotta dalla riforma-Brunetta. Inizialmente, i giudici avevano considerato antisindacale il comportamento delle amministrazioni inteso ad attuare la norma, per poi cambiare interpretazione.
Le sezioni riunite, anche alla luce del dlgs 141/2011, col quale il parlamento ha interpretato autenticamente l'articolo 65 del dlgs 150/2009, nella relazione considerano immediatamente applicabili, senza alcun rinvio alla contrattazione nazionale, le norme del dlgs 150/2009 «relative all'assetto delle relazioni sindacali, compresa la possibilità per le amministrazioni di decidere unilateralmente sulla distribuzione delle risorse presenti nei fondi unici in caso di eccessivo protrarsi del confronto negoziale».
La magistratura contabile fa giustizia della legittimità piena dei provvedimenti unilaterali adottati dalle amministrazioni, atti da considerare necessitati anche alla luce del rispetto della contabilità pubblica.
L'articolo 40, comma 3-ter, è uno tra i molti che la riforma-Brunetta ha prodotto, per rafforzare la posizione dei dirigenti pubblici, così da correggere alcuni effetti distorti della «privatizzazione» del rapporto di lavoro pubblico. Per la Corte l'intesa del 3 maggio scorso nasconde il rischio «di una possibile permanenza delle criticità che hanno caratterizzato sinora la contrattazione collettiva nazionale e integrativa, non in grado di rendere effettiva la correlazione fra componenti accessorie della retribuzione e incrementi di produttività del settore pubblico».
Per questo, la Corte auspica che la riforma del lavoro pubblico mantenga norme finalizzate a rafforzare il datore pubblico «prevedendo, quanto meno, la conferma della disposizione, già contenuta nel dlgs n. 150 del 2009» (articolo ItaliaOggi del 18.05.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALIPersonale, la riduzione della spesa va a rilento.
Diminuzione del numero dei dipendenti degli enti locali, avvio della messa sotto controllo della spesa del personale, mentre le criticità della contrattazione decentrata integrativa continuano a essere assai marcate, anche per colpa della funzione pubblica e del ministero dell'economia: possono essere così riassunte le principali tendenze che si sono manifestate nel lavoro pubblico nell'anno 2010 rispetto al precedente anno 2009. Da sottolineare che il trattamento economico medio del personale degli enti locali è quantificato in 29.399 euro annui: tale cifra è di poco superiore al trattamento medio dei dipendenti non dirigenti, che rappresentano oltre il 96% del personale del comparto regioni e autonomie locali.
In questo comparto il numero dei dipendenti in servizio è diminuito dell'1,6%, mentre nel complesso delle amministrazioni pubbliche è calato dell'1,9%. Assai marcata la diminuzione del numero dei lavoratori assunti con contratti flessibili (-7,2%), mentre la diminuzione del personale a tempo indeterminato è stata assai contenuta: appena -0,8%. Quindi una tendenza meno «virtuosa» rispetto a quella registrata in altri comparti pubblici, in particolare nelle amministrazioni statali.
A livello di spesa per il personale quella dei comuni, delle province e delle regioni è diminuita dello 0,9%, mentre nel complesso delle amministrazioni pubbliche la riduzione è stata dell'1,5%. Da sottolineare che si arriva a tale risultato, assai inferiore a quello del complesso delle amministrazioni statali, sulla base «di una crescita della spesa per il personale dirigente più che compensata dalla flessione della spesa del personale non dirigente».
Questa differenza è spiegata in buona parte dal fatto che nel 2010 è stato rinnovato il contratto dei dirigenti, mentre quello del personale era stato rinnovato nel 2009. Comunque, in modo per molti versi speculare rispetto all'andamento del numero dei dipendenti, si registra una gestione meno «virtuosa» rispetto ad altri comparti del pubblico impiego e in particolare alle amministrazioni statali.
Assai interessanti sono anche i dati medi sul trattamento economico complessivo del personale del comparto regioni ed enti locali: i dipendenti ricevono compensi per circa 28.389 euro annui; i dirigenti compensi per 99.004 euro, i segretari per 89.262 euro e i direttori generali per 142.418.
Le stabilizzazioni nel 2010 hanno interessato nel comparto regioni e autonomie locali 3.907 unità che in gran parte sono ex lavoratori socialmente utili. Continua a essere negativo il bilancio della contrattazione decentrata mettendo insieme i costi e gli effetti sulla qualità dell'attività amministrativa. Assai interessante è la dura bacchettata che viene per la prima volta data alla funzione pubblica e al ministero dell'economia: «Va sottolineata l'importanza strategica della predisposizione, da parte del dipartimento della funzione pubblica d'intesa con il ministero dell'economia e delle finanze, ai sensi dell'art. 40-bis del dlgs n. 165 del 2001, del previsto modello unico di riferimento per la predisposizione della relazione tecnica ai contratti integrativi.
A tale relazione, che deve essere pubblicata unicamente ai contratti integrativi sul sito istituzionale delle amministrazioni, è affidato il compito di evidenziare in modo trasparente il valore dei fondi unici in ciascun esercizio, le risorse disponibili, quelle oggetto di contrattazione e gli effetti finanziari e organizzativi connessi alle scelte contrattuali sul riparto delle risorse, anche al fine di garantire effettività al controllo diffuso previsto dal citato art. 40-bis da parte degli utenti dei servizi sull'utilizzo delle risorse destinate ai dipendenti di ciascun ent
e». Tale modello previsto dal legislatore già dal 2009 fino a oggi non è stato realizzato (articolo ItaliaOggi del 18.05.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORiscossione Imu, incentivi a rischio. Premio cancellato dal dl fiscale, anzi no. E comuni nel caos. Preoccupazione negli uffici tributi dei municipi in vista della prima rata. L'Anutel lancia l'allarme.
È il grande rebus del momento: esiste ancora il premio incentivante per i dipendenti che si impegneranno nel contrasto all'evasione Imu?
La nuova e già contestatissima imposta nasconde tra le sue maglie anche questo problema, sicuramente secondario per gli «impositori», un po' meno impellente per gli operatori, già impegnati a gestire l'avvio delle complicate procedure relative al neoistituito tributo.
Fino a poche settimane fa non c'erano dubbi in proposito, e il ragionamento seguito faceva, grosso modo, leva su due elementi: il comma 57 dell'art. 3 della legge n. 662/1996 e l'art. 59, comma 1, lett. p), del dlgs n. 446/1997 che, non risultando modificato dall'art. 13 del dl n. 201/2011, consentiva ancora di prevedere, nell'esercizio della potestà regolamentare comunale, l'attribuzione di compensi incentivanti al personale addetto agli uffici tributari.
Si riteneva, quindi, che in assenza di abrogazioni esplicite, tale facoltà risultasse ancora legittimamente esercitabile anche in relazione alle attività connesse all'Imu. A maggior conforto dell'armonia Ici-Imu in punto di incentivi, il comma 6 dell'art. 14 dlgs n. 23/2011 diceva testualmente «è confermata la potestà regolamentare degli enti locali di cui agli artt. 52 e 59 dlgs 446/1997 anche per i nuovi tributi previsti dal presente provvedimento».
Ma a complicare terribilmente le cose arriva il dl 16/2012 come modificato dall'art.4 della legge di conversione n. 44/2012, che ha letteralmente cancellato il richiamo espresso che l'art. 14 legge n. 23/2001 faceva all'art. 59 dlgs n. 446/1997. Ci si sofferma a vario titolo sul colpo di spugna dato dalla legge di conversione del dl 16/2012 alla potestà regolamentare specifica, prevista per i comuni dall'art. 59 del dlgs 446/1997 argomentando, correttamente, che se viene abrogata la possibilità di regolamentare l'attribuzione di un compenso incentivante ad essere fortemente messo in discussione è il compenso incentivante stesso, stante, per l'ente locale la funzione normativa dello strumento regolamentare.
Su altri fronti si leggono parole più tranquillizzanti che, richiamando in causa una circolare datata ma attuale sul punto (circolare Mef 296/E del 31/12/1998), hanno concentrato l'attenzione sull'art. 52 del dlgs 446/1997, non inciso né abrogato dal dl 16 /12, e sul suo titolo legittimante generale rispetto alla potestà regolamentare dell'ente locale. Si è detto, in armonia con la citata circolare, che l'art. 52 consegna all'ente locale potestà regolamentare neutra e diffusa rispetto ai contenuti puntuali dettagliati in altre norme, quali ad esempio, proprio quelli specificati nell'abrogato articolo 59 del medesimo dlgs, che declinerebbe, senza pretese di tassatività, la potestà regolamentare del comune in alcuni esemplificativi spazi di possibile operatività. Insomma aver cancellato un ambito specifico di potestà regolamentare non inciderebbe sul potere generale dell'ente di darsi un regolamento.
Ritengo, però, che l'analisi debba spaziare ancora, spostandosi, dal potere regolamentare alla fonte di grado superiore. Insomma, al di là dell'abrogazione dell'art. 59 dlgs n. 446/2007 contenuta nella legge di conversione del dl 16/2010, un altro importante vuoto si presenta nel puzzle. Dov'è la norma di legge che con specifico riferimento all'Imu dà facoltà agli enti accertatori di riconoscere un incentivo premiante ai dipendenti? Malgrado gli evidenti segni di continuità Ici/Imu, l'Imu è comunque un nuovo tributo che ha, peraltro, una propria autonoma regolamentazione, il che unito al principio generale secondo cui le disposizioni Ici sono applicabili all'Imu solo se richiamate espressamente, genera un vuoto legislativo più che regolamentare. La previsione dell'art. 3 comma 557 del 662/1996 che consentiva esplicitamente l'utilizzo di una percentuale Ici per il potenziamento dell'Ufficio tributi non è, per le ragioni anzidette, direttamente applicabile all'Imu. Relativamente al nuovo tributo non esiste nemmeno una previsione generale, costruita sulla falsariga delle norme di chiusura, che abiliti l'interprete all'applicazione delle disposizione sull'Ici, ove non diversamente normato per l'Imu.
E le cose si complicano ulteriormente, laddove, come evidenziato anche dall'Aran in più di un autorevole parere, il meccanismo integrativo delle risorse decentrate scritto nella lett. k) dell'art. 15 Ccnl '99 che concretamente consente di corrispondere incentivi al personale come l'incentivo Ici, impone che siano «specifiche» le norme di legge che destinano in modo altrettanto «specifico ed espresso» risorse all'incentivazione del personale.
In difetto di una fonte normativa dalla quale risulti questa chiara e specifica finalizzazione ancor meno è ipotizzabile l'utilizzo, per via analogica e a fini incentivanti, di norme concepite e riferite ad ambiti differenti, benché similari, ma riguardanti espressamente l'Ici (articolo ItaliaOggi del 18.05.2012).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Paletti ai trasferimenti. Avvicinamento al comune solo in casi tassativi. La delega da parte dell'assessore non basta a giustificare la domanda.
È possibile applicare il beneficio di cui all'articolo 78, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000, al personale della polizia di stato, che ha prodotto istanza di trasferimento, in quanto nominato rappresentante di un comune a supporto dell'assessore ai servizi sociali dello stesso comune, già delegato dal sindaco quale componente del Coordinamento istituzionale presso l'ambito territoriale con sede in altro ente?
L'articolo sopra citato introduce una disposizione di garanzia a favore di tutti i lavoratori dipendenti per evitare loro restrizioni o limitazioni all'esercizio delle funzioni connesse all'espletamento del proprio mandato.
In proposito, è stabilito che la richiesta dei predetti lavoratori di avvicinamento al luogo in cui viene svolto il mandato amministrativo deve essere esaminata dal datore di lavoro con criteri di priorità.
L'art. 77, comma 2, del Tuel, statuisce che, ai fini dell'applicazione delle norme di cui al capo IV - status degli amministratori locali (artt. 77-87), si devono intendere amministratori locali i componenti degli organi delle unioni di comuni e dei consorzi fra enti locali, nonché i componenti degli organi di decentramento.
Ciò posto, nel caso in esame risulta che l'interessato è stato designato a supportare l'attività dell'assessore ai servizi sociali e non direttamente delegato dal sindaco a rappresentare l'ente locale.
Pertanto, non rientrando lo stesso nel novero degli amministratori locali come definito dall'art. 77 del Tuel, non sono applicabili le disposizioni di cui all'art. 78 del medesimo Testo unico (articolo ItaliaOggi del 18.05.2012).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Sospensione ferie.
Un consigliere comunale, dipendente dell'Inps, può presentare al proprio datore di lavoro istanza di «sospensione delle ferie» già richieste per la partecipazione a sedute di consiglio e commissioni presso l'ente in cui esplica il mandato elettivo?

Fermo restando il diritto, costituzionalmente garantito, dell'amministratore di disporre del tempo necessario per il mandato, l'istituto del permesso si differenzia da quello dell'aspettativa in quanto l'amministratore-lavoratore dipendente mantiene il rapporto con l'amministrazione di appartenenza con tutti i vincoli, anche di orario, che tale rapporto comporta.
Il diritto dell'amministratore a fruire dei permessi lavorativi va, pertanto, contemperato con il diritto dell'ente di appartenenza con cui l'amministratore locale ha mantenuto il rapporto lavorativo, al rispetto delle norme ordinamentali e organizzative interne.
L'ente di appartenenza può, quindi, legittimamente rifiutare l'accoglimento dell'istanza del dipendente volta alla revoca delle ferie già richieste, anche se motivate con la possibilità di fruire di altro diritto.
Per completezza del quadro normativo si soggiunge che, sulla materia dei permessi, sono intervenute le modifiche normative apportate dall'art. 16 del dl 13/08/2011, n. 138, convertito nella legge 14/09/2011, n. 148 che ha rivisitato il 1° comma dell'art. 79 Tuel (articolo ItaliaOggi del 18.05.2012).

LAVORI PUBBLICIAppalti, dall'8 giugno rischio stop. Amministrazioni in ritardo sui nuovi certificati dei lavori. Scattano le disposizioni del dpr 207/2010. E le p.a. in difficoltà stanno bloccando i bandi.
Dall'08 giugno si rischia il blocco degli appalti di lavori pubblici a causa dei ritardi nella emissione dei nuovi certificati dei lavori da parte delle stazioni appaltanti.
È questo il grido di allarme che viene lanciato dal Partito Democratico che, raccogliendo anche la forte preoccupazione del settore delle imprese di costruzioni, martedì ha presentato (a firma di Raffaella Mariani, capo gruppo in Commissione ambiente della camera) una risoluzione parlamentare volta a impegnare il governo a trovare una soluzione al possibile impasse determinato dalla cessazione di numerose attestazioni SOA per importanti categorie di lavori.
Il problema nasce con riguardo ad una norma del dpr 207/2010 (il Regolamento attuativo del Codice dei contratti pubblici) entrato in vigore l'08.06.2011 (l'articolo 357, comma 14) che stabilisce per alcune categorie di lavori (fra le quali le categorie generali OG 10 e 11, opere impiantistiche, e le categorie specializzate OS 2,7,8, 12, 18, 20 e 21) la cessazione della validità dei certificati entro 6 mesi (08.12.2011, termine poi prorogato per legge all'08.06.2012) e l'obbligo di remissione dei certificati secondo le nuove regole del dpr 207.
La questione riguarda ad esempio, la categoria OG 11 per la quale l'impresa generale è tenuta (art. 79, comma 16) a documentare almeno il 40% di lavori svolti in OS3 e il 70% sia in OS 28, sia in OS 30. Per la remissione dei certificati le stazioni appaltanti dovrebbero prendere in considerazione i dati relativi a progetti realizzati negli anni precedenti e calcolare le quote dei lavori appartenenti alle categorie specializzate, al fine di verificare se siano rispondenti ai parametri previsti nel dpr 207/2010.
Fino ad oggi, si legge nella risoluzione del Pd, la proroga di sei mesi «non è servita ad attuare la necessaria accelerazione delle procedure per il rilascio dei certificati, ancora in forte ritardo, con effetti negativi sulla capacità delle imprese a partecipare alle gare bandite con le categorie oggetto di modifica». Inoltre le stazioni appaltanti, alla luce delle difficoltà derivanti dall'aggiornamento dei certificati (evidenziate anche dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, nella sua relazione al Parlamento dell'anno scorso), sembra che stiano fermando l'emissione di nuovi bandi di gara, con le nuove categorie, in attesa di capire cosa succederà.
Nella risoluzione parlamentare si chiede un intervento del governo per accelerare la remissione dei certificati e «ogni utile iniziativa» per evitare «effetti distorsivi per la concorrenza derivanti dalla applicazione delle nuove regole del dpr 207 del 2010 a danno delle imprese nazionali a favore di quelle comunitarie». Peraltro andrebbe valutato anche il fatto che effetti distorsivi sulla concorrenza si potrebbero verificare anche all'interno del mercato nazionale se, come risulta a ItaliaOggi, alcune imprese si sarebbero già premurate di acquisire le nuove certificazioni sulla base delle nuove regole e, quindi, non avrebbero interesse, ovviamente, a una nuova proroga.
Il problema, articolato e complesso, sembra comunque essere all'attenzione dei tecnici del dicastero di Porta Pia, in attesa di soluzioni di natura politica che, a questo punto, non dovrebbero tardare. Va infatti ricordato che il governo, in un imminente decreto-legge, dovrebbe emanare una delega per riformare il sistema di qualificazione delle imprese, e quella potrebbe essere la sede appropriata per risolvere la questione. Ma occorrerebbe una proroga ulteriore per evitare il temuto blocco degli appalti. Una vera e propria corsa contro il tempo (articolo ItaliaOggi del 17.05.2012).

QUESITI & PARERI

ENTI LOCALIComodato d'uso di beni mobili e/o dismissioni a favore delle associazioni locali.
Previa adozione di apposite disposizioni regolamentari, i beni mobili che, pur funzionanti, vengono dichiarati fuori uso dal Comune, possono essere concessi in comodato, anche a tempo indeterminato, oppure essere dismessi e, in relazione al loro valore, alienati o ceduti gratuitamente attraverso una procedura che, nel rispetto dei princìpi della concorrenzialità e della par condicio tra i possibili interessati, garantisca pubblicità e trasparenza amministrativa.
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Il Comune informa che le associazioni locali richiedono al medesimo, in comodato d'uso, beni mobili quali computer e stampanti che, pur funzionanti, non rispondono più alle esigenze lavorative dell'Ente.
L'art. 53[1] dello statuto comunale dispone che l'Ente promuove l'attività delle associazioni, anche attraverso forme di contribuzione diretta e ne valorizza il ruolo di soggetti attivi della vita amministrativa locale, rinviando ad apposito regolamento la disciplina dell'accesso ai finanziamenti e dell'utilizzo delle proprie strutture.
L'Ente ha adottato il «Regolamento per la concessione di contributi e del patrocinio comunale», il quale prevede, tra l'altro, forme di comodato d'uso, nonché di 'concessione di vantaggi economici la cui assegnazione sia da considerarsi come una partecipazione del comune stesso a iniziative e ricorrenze di particolare rilievo sociale, culturale, sportivo, turistico o promozionale'.
Un tanto premesso, il Comune chiede di conoscere:
1) se, in generale, computer/stampanti possano essere concessi in comodato d'uso per lunghi periodi o a tempo indeterminato;
2) se il citato regolamento consenta di provvedere in tal senso;
3) se, in alternativa, i beni che l'Ente ritiene non più utilizzabili, in quanto divenuti inidonei, possano essere dismessi a favore di un'associazione, in assenza di regolamento.
Occorre, anzitutto, rilevare che, essendosi il Comune dotato di una propria disciplina regolamentare, al medesimo dovrebbe competere l'interpretazione delle relative disposizioni e la valutazione della sottoposizione ad esse di concrete fattispecie.
Ciò nonostante, in via collaborativa, si espongono alcune considerazioni di carattere generale, con l'auspicio di poter coadiuvare l'Ente nell'assunzione delle proprie determinazioni relativamente alle questioni poste.
Circa il quesito n. 1, si rende necessario premettere che il comodato -la cui disciplina si rinviene negli articoli da 1803 a 1812 cod. civ.- è il contratto, essenzialmente gratuito, con il quale una parte consegna all'altra una cosa mobile o immobile, affinché se ne serva per un tempo o per un uso determinato, con l'obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta[2].
Il comodatario è tenuto a restituire la cosa alla scadenza del termine convenuto o, se questo non è stato fissato, quando se ne è servito conformemente alle previsioni contrattuali. Tuttavia, se durante il termine convenuto o prima che il comodatario abbia cessato di servirsi della cosa, il comodante che ne abbia un urgente ed imprevisto bisogno, può pretenderne la restituzione immediata[3].
Se le parti non hanno concordato un termine, né questo si evince dall'uso a cui la cosa doveva essere destinata, il comodatario ha l'obbligo di restituirla a semplice richiesta del comodante[4].
Per quanto attiene alla durata del comodato, si rileva che la giurisprudenza più recente afferma che:
- la convenzione negoziale priva di termine integra la fattispecie del cd. comodato precario, caratterizzato dalla circostanza che la determinazione del termine di efficacia del 'vinculum iuris' costituito tra le parti è rimesso in via potestativa alla sola volontà del comodante, che ha facoltà di manifestarla 'ad nutum' con la semplice richiesta di restituzione del bene[5];
- il termine finale può risultare dall'uso cui la cosa deve essere destinata, in quanto tale uso abbia in sé connaturata una durata predeterminata nel tempo[6]; in mancanza di tale destinazione, invece, l'uso del bene viene a qualificarsi a tempo indeterminato, sicché il comodato deve intendersi a titolo precario e, perciò, revocabile 'ad nutum' da parte del proprietario[7].
Quanto al quesito n. 2, risulta necessario chiarire che il regolamento adottato dall'Ente -finalizzato a valorizzare e promuovere le libere forme associative esistenti sul territorio comunale[8]- dovrebbe disciplinare «i criteri[9] e le modalità con i quali il Comune, ai sensi dell'art. 12 L. 241/1990, determina l'attribuzione di vantaggi economici comunque denominati per il sostegno di attività ed iniziative nei vari settori di intervento»[10].
A tale riguardo, il regolamento contempla varie forme di intervento, fra le quali figurano le «concessioni in uso di beni mobili di proprietà comunale»[11], disciplinate dall'art. 5, il quale dispone, in particolare, che:
- «Oltre o in alternativa agli interventi previsti dal presente regolamento, previa richiesta scritta degli organizzatori e verifica della disponibilità delle attrezzature richieste nonché della possibilità di ricorrere alla collaborazione tecnica del personale comunale, il Comune concede in uso beni mobili di proprietà comunale, quali pedane, transenne, palchi, impianti audio e luci, piante ornamentali, trabattelli, canaline passacavi, pannelli espositivi, panche, sedie, tavoli, etc..»[12];
- «Nell'atto di concessione verranno stabiliti le modalità e i termini di consegna e di riconsegna dei beni, precisando che l'organizzatore sarà ritenuto direttamente responsabile degli eventuali danni accertati al momento del ritiro da parte del personale comunale o anche successivamente se si verifica che il danneggiamento è avvenuto durante il periodo in cui i beni erano sotto la custodia e vigilanza dell'organizzatore stesso.»[13].
Sebbene la prima delle predette previsioni, stante la tipologia dei beni indicati, possa sembrare riferita ad eventi specifici (iniziative, manifestazioni e ricorrenze particolari) e non già all'ordinaria gestione delle attività delle associazioni locali, la sua ampia formulazione e la presumibile esemplificazione (e non tassatività) dei beni elencati potrebbe anche consentire di ritenere che a tale norma possa ricondursi l'intervento prospettato nel quesito.
In caso contrario, si reputa che l'Ente non possa provvedere ad assegnare in comodato i beni oggetto di quesito, in assenza di un'espressa previsione regolamentare in merito.
Infine, con riferimento al quesito n. 3, si rappresenta che anche la dismissione di beni appartenenti al patrimonio comunale non può avere luogo in assenza di apposite disposizioni regolamentari.
Occorre chiarire che i beni dichiarati fuori uso dall'Ente, se ancora funzionanti, dovrebbero formare oggetto di alienazione, attraverso una procedura che, nel rispetto dei princìpi della concorrenzialità e della par condicio tra i possibili interessati, garantisca pubblicità e trasparenza amministrativa.
Tuttavia, ad evitare l'attivazione di procedure che, rispetto al ricavato atteso dalla vendita del bene, si rivelino antieconomiche, si ritiene che possa essere fissato, nell'apposito regolamento, un limite di valore al di sotto del quale il bene può essere alienato a seguito di procedura negoziata o addirittura ceduto gratuitamente a coloro che ne abbiano fatto richiesta, stabilendo eventualmente delle priorità (ad esempio in favore di associazioni) e dei criteri per la stesura di apposite graduatorie.
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[1] Ai sensi del quale: «1. Il Comune promuove l'attività delle associazioni inserite nell'albo anche attraverso forme di contribuzione diretta e ne valorizza il ruolo di soggetti attivi della vita amministrativa locale.
2. A tale scopo, per la propria programmazione, il Comune con apposito regolamento prevede la consultazione, l'accesso ai finanziamenti e l'utilizzo delle proprie strutture».
[2] V. art. 1803 («Nozione») cod. civ..
[3] V. art. 1809 («Restituzione») cod. civ.
[4] V. art. 1810 («Comodato senza determinazione di durata») cod. civ..
[5] V. Cass. civ. - Sez. III, 07.07.2010, n. 15986.
[6] Sul punto, la Cass. civ. - Sez. II, 23.05.1992, n. 6213, aveva già affermato che, dalla dichiarata indicazione dell'uso al quale la cosa data in comodato è destinata, non può desumersi l'apposizione di un termine di durata del contratto, se questo non è connaturato alla particolare destinazione del bene.
[7] V. Cass. civ. - Sezz. UU., 09.02.2011, n. 3168 e Sez. VI, 11.03.2011, n. 5907. Si veda anche Cass. civ. - Sez. III, 16.04.2003, n. 6101, secondo la quale nel contratto di comodato, caratterizzato dalla temporaneità d'uso, la mancanza di un termine finale direttamente previsto dalle parti non autorizza il comodante a richiedere 'ad nutum' la restituzione della cosa, laddove risulti possibile individuare un'indiretta determinazione di durata attraverso la delimitazione dell'uso consentito della cosa, ricavabile dalla natura di questa, dall'esame degli interessi e dalle utilità perseguite dai contraenti.
[8] V. art. 1, primo comma.
[9] Si osserva che l'articolato di cui trattasi non sembra, invero, indicare i criteri oggettivi in base ai quali sia possibile stilare una graduatoria e/o stabilire l'entità dei benefici da erogare ai vari richiedenti.
[10] V. art. 2, primo comma. Il terzo comma della disposizione prevede, poi, che «L'osservanza dei criteri e delle modalità stabilite con il presente regolamento costituisce condizione necessaria per la legittimità degli atti con i quali vengono disposti la concessione del patrocinio e l'erogazione di contributi da parte del Comune.».
[11] V. art. 3, primo comma, lett. b..
[12] V. art. 5, primo comma.
[13] V. art. 5, secondo comma
(08.05.2012 - link a www.regione.fvg.it).

APPALTI - INCARICHI PROGETTUALIContratti pubblici. Regime documento unico di regolarità contributiva e irregolarità contributiva verso INARCASSA.
La normativa vigente definisce il documento unico di regolarità contributiva (DURC) quale certificato che attesta contestualmente la regolarità di un operatore economico per quanto concerne gli adempimenti, specificamente, INPS, INAIL, nonché cassa edile per i lavori, verificati sulla base della rispettiva normativa di riferimento e statuisce l'intervento sostitutivo della stazione appaltante espressamente nei confronti di detti istituti previdenziali in caso di inadempienza contributiva dell'esecutore e del subappaltatore accertata con il DURC (art. 4, comma 2, D.P.R. n. 207/2010).
In considerazione della specificità della norma richiamata ed in assenza, altresì, di indicazioni da parte delle autorità competenti che in qualche modo estendano l'ambito dell'intervento sostitutivo, ivi previsto, sembra non potersi sostenere una sua applicazione, per analogia, all'ipotesi di irregolarità contributiva verso INARCASSA.

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L'Ente riferisce di dover procedere alla liquidazione del saldo del corrispettivo spettante ad un professionista incaricato della direzione di lavori pubblici, di cui ha accertato l'irregolarità contributiva INARCASSA; chiede, dunque, l'Ente se debba essere applicato, per analogia, il dettato normativo di cui all'articolo 4, commi 2 e 3, del D.P.R. n. 207/2010, in materia di intervento sostitutivo della stazione appaltante, in caso di inadempienza contributiva, precisando che il professionista non ha dipendenti.
Sentito il Servizio lavori pubblici, della Direzione centrale infrastrutture, mobilità, pianificazione territoriali e lavori pubblici, si esprimono le seguenti considerazioni.
Le norme cui fa riferimento l'Ente concernono la materia della regolarità contributiva, a tutela dei lavoratori, in particolare il regime del Documento unico di regolarità contributiva (DURC).
L'art. 6, D.P.R. n. 207/2010, definisce il documento unico di regolarità contributiva, quale certificato che attesta contestualmente la regolarità di un operatore economico per quanto concerne gli adempimenti, specificamente, INPS, INAIL, nonché cassa edile per i lavori, verificati sulla base della rispettiva normativa di riferimento.
La medesima norma disciplina, inoltre, ai commi 3 e 4, le fasi in cui le amministrazioni aggiudicatrici acquisiscono d'ufficio il documento unico di regolarità contributiva in corso di validità[1]: per la verifica della dichiarazione sostitutiva relativa al requisito di cui all'art. 38, comma 1, lett. i), D.Lgs. n. 163/2006[2]; per l'aggiudicazione del contratto; per la stipula del contratto; per il pagamento degli stati avanzamento lavori o delle prestazioni relative a servizi e forniture; per il certificato di collaudo, di regolare esecuzione, di verifica di conformità, per l'attestazione di regolare esecuzione e per il pagamento del saldo finale (art. 6, comma 3, D.P.R n. 207/2010)[3].
Il comma 2, dell'art. 4, D.P.R. n. 207/2010, dispone che, qualora, nelle ipotesi di cui ai commi 3 e 4 del richiamato art. 6, il DURC acquisito riveli un'inadempienza contributiva relativa a uno o più soggetti impiegati nell'esecuzione del contratto, le amministrazioni aggiudicatrici trattengono dal certificato di pagamento l'importo corrispondente all'inadempienza, e dispongono il pagamento di quanto dovuto direttamente agli enti previdenziali e assicurativi.
Il successivo comma 3 prevede, inoltre, in ogni caso, delle ritenute dello 0,50% sull'importo netto progressivo delle prestazioni, che possono essere svincolate soltanto in sede di liquidazione finale, previo rilascio del documento unico di regolarità contributiva.
Ciò premesso e venendo al caso di specie riguardante l'applicazione, o meno, in via analogica, della previsione di cui all'art. 4, comma 2, D.P.R. n. 207/2010, relativa all'intervento sostitutivo dell'amministrazione aggiudicatrice, al caso di irregolarità contributiva accertata specificamente verso INARCASSA, Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza per gli Ingegneri ed Architetti Liberi Professionisti, si esprime quanto segue.
Per gli appalti di servizi attinenti all'ingegneria ed all'architettura, la vigente normativa impone la verifica della regolarità contributiva in relazione alla fase di affidamento dell'incarico (art. 90, comma 7, D.Lgs. n. 163/2006), senza recare ulteriori disposizioni per l'intervento sostitutivo della stazione appaltante in caso di inadempienza contributiva.
In considerazione della specificità della previsione di cui all'art. 4, comma 2, D.P.R. n. 207/2010, statuente l'intervento sostitutivo dell'amministrazione aggiudicatrice espressamente nel caso di irregolarità contributiva verso INPS, INAIL e cassa edile per i lavori, ed in assenza, altresì, di indicazioni da parte delle autorità competenti che in qualche modo estendano l'ambito di detto intervento sostitutivo, sembra non potersi sostenere una sua applicazione, per analogia, all'ipotesi di irregolarità contributiva verso INARCASSA.
Per completezza di analisi, si segnala che l'irregolarità contributiva verso INARCASSA può avere delle conseguenze per i pagamenti da effettuare da parte delle pubbliche amministrazioni, in relazione all'importo e qualora INARCASSA si sia attivata per la riscossione dei contributi insoluti. L'art. 48-bis, D.P.R. n. 602/1973, introdotto dall'art. 2, comma 9, D.L. n. 262/2006, convertito, con modificazioni, in L. n. 286/2006, stabilisce, infatti, che 'le amministrazioni pubbliche e le società a prevalente partecipazione pubblica, prima di effettuare, a qualunque titolo, il pagamento di un importo superiore a diecimila euro, verificano, anche in via telematica, se il beneficiario è inadempiente all'obbligo di versamento derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento per un ammontare complessivo pari almeno a tale importo e, in caso affermativo, non procedono al pagamento e segnalano la circostanza all'agente della riscossione competente per territorio, ai fini dell'esercizio dell'attività di riscossione delle somme iscritte a ruolo'[4].
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[1] Il ministero del lavoro della salute e delle politiche sociali, nel ricordare che, ai sensi dell'art. 2, D.M. 24.10.2007, il DURC è rilasciato dall'INPS e dall'INAIL 'e, previa convenzione con i predetti Enti, dagli altri Istituti previdenziali che gestiscono forme di assicurazione obbligatoria', ha chiarito che, per i lavoratori eventualmente iscritti presso enti previdenziali diversi dall'INPS e dall'NAIL, nelle more della stipulazione della predetta convenzione, la certificazione attestante la regolarità contributiva andrà richiesta direttamente a tali Enti, tenuti a rilasciarla (Cfr.: MLPS interpello n. 9/2009).
[2] La norma richiamata richiede per i soggetti che partecipano alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, pena esclusione, il non aver commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, alle norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali, secondo la legislazione italiana o dello Stato in cui sono stabiliti.
[3] Il comma 4, dell'art. 6, D.P.R. n. 207/2010, prevede che, ferme restando le ipotesi di acquisizione del DURC per la stipula del contratto e per il pagamento degli stati avanzamento lavori o delle prestazioni relative a servizi e forniture, 'qualora tra la stipula del contratto e il primo stato di avanzamento dei lavori di cui all'art. 194, o il primo accertamento delle prestazioni effettuate relative a forniture e servizi di cui all'art. 307, comma 2, ,ovvero tra due successivi stati di avanzamento dei lavori o accertamenti delle prestazioni effettuate relative a forniture e servizi, intercorra un periodo superiore a centottanta giorni, le amministrazioni aggiudicatrici acquisiscono il documento unico di regolarità contributiva relativo all'esecutore ed ai subappaltatori entro i trenta giorni successivi alla scadenza dei predetti centottanta giorni; entro il medesimo termine, l'esecutore ed i subappaltatori trasmettono il documento unico di regolarità contributiva ai soggetti di cui all'articolo 3, comma 1, lettera b), che non sono un'amministrazione aggiudicatrice'.
[4] Si ricorda che a norma dell'art. 17, L. n. 6/1981, Norme in materia di previdenza per gli ingegneri e gli architetti, INARCASSA ha facoltà di procedere alla riscossione dei contributi insoluti, delle sanzioni e dei relativi interessi a mezzo ruoli da essa compilati e resi esecutivi dalla intendenza di finanza competente per territorio e da porre in riscossione secondo le norme previste per la riscossione delle imposte dirette
(07.05.2012 - link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALID.Lgs. 267/2000, art. 79. Permessi agli amministratori.
Il datore di lavoro non può esercitare alcuna valutazione sull'opportunità o meno dei permessi spettanti agli amministratori locali ai sensi dell'art. 79 del D.Lgs. 267/2000, ma può solo verificare che l'attestazione dell'Ente ove il dipendente svolge il mandato corrisponda ai giorni per i quali i permessi sono stati chiesti e che si tratti di attività inerente al mandato.
Il Ministero dell'Interno ha precisato che le assenze vanno tempestivamente comunicate dal dipendente all'ufficio di appartenenza, per consentire allo stesso di contemperare le esigenze di servizio con gli impegni dei dipendenti connessi al mandato amministrativo.

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Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di negare la fruizione dei permessi previsti dall'articolo 79 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, o di intervenire sulla scelta delle giornate e delle ore di utilizzo, ad un dipendente che riveste la carica di assessore presso un altro Comune.
L'articolo 51 della Costituzione sancisce il diritto di tutti i cittadini ad accedere alle cariche pubbliche in condizioni di eguaglianza e garantisce la possibilità di disporre del tempo necessario per esercitarle.
In attuazione di tale principio, l'articolo 81 del D.Lgs. 267/2000 prevede, qualora gli eletti ritengano di usufruirne, il collocamento in aspettativa per tutta la durata del mandato, mentre l'articolo 79 stabilisce, per coloro che non intendono fruire dell'aspettativa, il diritto di assentarsi dal servizio con le modalità ivi previste.
In particolare, i componenti delle giunte comunali hanno diritto di assentarsi dal servizio per partecipare alle riunioni degli organi di cui fanno parte per la loro effettiva durata, comprendendo il tempo necessario per raggiungere il luogo della riunione e rientrare al posto di lavoro (art. 79, comma 3). Possono, inoltre, usufruire di 24 ore lavorative al mese di permesso retribuito, nonché di ulteriori 24 ore mensili di permesso non retribuito qualora risultino necessari per l'espletamento del mandato (commi 4 e 5).
Come ha precisato il Consiglio di Stato[1], la legge attribuisce all'amministratore un diritto potestativo, il cui esercizio non può essere condizionato dal datore di lavoro da cui dipende l'eletto. A fronte di tale diritto non si rinviene alcun potere del datore di lavoro di comprimerne l'esercizio per ragioni attinenti all'organizzazione del servizio restando a carico del lavoratore solo l'onere della previa comunicazione dell'assenza e della sua causa giustificatrice. Al datore di lavoro, infatti, spetta organizzare le sostituzioni in modo che la funzione amministrativa non soffra, assegnando, ove possibile, al dipendente incarichi che non richiedano la rigorosa continuità di presenza.
Ai sensi del comma 6 dell'articolo 79, l'amministratore dovrà documentare prontamente e puntualmente, mediante attestazioni dell'Ente, l'attività ed i tempi di espletamento del mandato, per i quali chiede ed ottiene i permessi.
Ciò significa che, come ulteriormente precisato dal Consiglio di Stato, il datore di lavoro non può esercitare alcuna valutazione sull'opportunità o meno del permesso, ma può solo verificare che l'attestazione dell'Ente corrisponda ai giorni per i quali i permessi sono stati chiesti e che si tratti di attività inerente al mandato.
A mero titolo collaborativo, potrà essere richiesta al dipendente una programmazione di massima che peraltro non costituirà alcun tipo di vincolo alla fruizione dei permessi in argomento.
A tal proposito, il Ministero dell'Interno[2] si è espresso, nel senso di ritenere che le assenze in argomento «vadano tempestivamente comunicate dal dipendente all'ufficio di appartenenza, per consentire allo stesso di contemperare le esigenze di servizio con gli impegni dei dipendenti connessi al mandato amministrativo», richiamando quanto espresso a suo tempo dal Consiglio di Stato[3], che aveva ribadito «come il dipendente non possa esimersi dal comunicare almeno le presumibili assenze in un determinato periodo, in relazione al calendario dei lavori dell'organo di cui sia stato chiamato a far parte al fine di giustificare le assenze dal servizio».
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[1] Parere, sezione II, 07.05.1997, n. 1717/1996. Si veda inoltre Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza 24.05.2000, n. 2997.
[2] Dipartimento per gli affari interni e territoriali, pareri 21.03.2009 e 10.02.2010, consultabili presso il relativo sito internet.
[3] Consiglio di Stato, sezione VI, decisione n. 103/1988
(20.04.2012 - link a www.regione.fvg.it).

PUBBLICO IMPIEGOPersonale degli enti locali. Permessi assistenza.
Ai sensi del disposto dell'art. 19, comma 6, del CCNL del 06.07.1995, i permessi di cui all'art. 33, comma 3, della l. 104/1992, possono essere fruiti anche ad ore, nel limite massimo di 18 ore mensili.
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Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di far fruire, al personale dipendente, i permessi per assistenza disciplinati dall'art. 33, comma 3, della l. 104/1992, in sei mezze giornate, in alternativa ai tre giorni mensili spettanti alla luce della citata norma.
Com'è noto, la richiamata disposizione prevede che, a condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a tempo pieno, il lavoratore dipendente, pubblico e privato, che assista persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti, ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa.
Tale previsione di legge è stata successivamente integrata da specifica norma contrattuale[1], che ha espressamente disposto che i permessi di cui all'art. 33, comma 3, della l. 104/1992 possono essere fruiti anche ad ore, nel limite massimo di 18 ore mensili.
Pertanto, il dipendente, alternativamente alla fruizione di tre giorni di permesso mensili, può chiedere di fruire degli stessi in modo frazionato nel limite massimo di ore stabilito dalla contrattazione collettiva[2].
Alla luce di quanto sopra esposto, non si ritiene quindi possibile la modalità di fruizione nell'articolazione prospettata dall'Ente, in quanto si verrebbe a superare il monte ore massimo stabilito tassativamente per la fruizione ad ore.
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[1] Cfr. art. 19, comma 6, del CCNL del 06.07.1995, tuttora applicabile agli enti locali della Regione Friuli Venezia Giulia, in virtù di quanto disposto dall'art. 83 del CCRL del 07.12.2006.
[2] Cfr. circolare n. 8/2008 del Dipartimento della funzione pubblica, in cui si specifica che in alcuni contratti collettivi, per venire incontro alle esigenze dei lavoratori che prestano assistenza, è stato stabilito che tali permessi giornalieri possono essere fruiti anche in maniera frazionata, cioè ad ore, ed è stato fissato il contingente massimo di ore 18. Vedasi anche circolare INPS n. 45 dell'01.03.2011
(30.03.2012 - link a www.regione.fvg.it).

APPALTIIntervento sostitutivo della stazione appaltante in caso di inadempienza contributiva dell'esecutore e del subappaltatore. Presupposti di applicabilità dell'art. 4, comma 3, del DPR 207/2010.
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L'articolo 4, comma 3, del Regolamento di attuazione del Codice dei contratti stabilisce che la stazione appaltante opera una ritenuta pari allo 0,50 per cento sull'importo netto progressivo delle prestazioni, la quale può essere svincolata in sede di liquidazione finale, previo rilascio del DURC.
Si ritiene che la norma vada interpretata letteralmente, e che quindi la ritenuta debba essere effettuata 'In ogni caso', e non solo a fronte di una irregolarità contributiva certificata attraverso DURC negativo.

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Il Comune, con riferimento al parere prot. n. 4770 dd. 08.02.2012[1] espresso da questo Servizio, chiede un chiarimento in relazione all'applicabilità dell'art. 4, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207[2], rubricato 'Intervento sostitutivo della stazione appaltante in caso di inadempienza contributiva dell'esecutore e del subappaltatore (art. 7, D.M. LL.PP. n. 145/2000)'.
L'art. 4, comma 3, del d.P.R. 207/2010 dispone che: 'In ogni caso sull'importo netto progressivo delle prestazioni è operata una ritenuta dello 0,50 per cento; le ritenute possono essere svincolate soltanto in sede di liquidazione finale, dopo l'approvazione da parte della stazione appaltante del certificato di collaudo o di verifica di conformità, previo rilascio del documento unico di regolarità contributiva'.
Tale comma è inserito, come detto, nell'art. 4, dove si forniscono indicazioni alle stazioni appaltanti sulle azioni da intraprendere in caso di certificata inadempienza contributiva da parte degli esecutori/subappaltatori. Infatti, al precedente comma 2 è stabilito che, a fronte di un DURC negativo, il responsabile del procedimento deve trattenere dal certificato di pagamento l'importo corrispondente all'inadempienza e versarlo agli enti previdenziali ed assicurativi e, per i lavori, alla cassa edile.
Il dubbio sollevato dall'Ente instante è se la ritenuta dello 0,50 per cento vada operata solo in caso di certificazione negativa, secondo un'interpretazione sistematica del comma 3 alla luce del disposto di cui al comma 2, oppure se operi comunque, in base al dettato letterale 'In ogni caso'.
Atteso che la norma dispone che lo svincolo delle somme avvenga durante la sola fase della liquidazione finale, la questione assume particolare rilevanza per quanto attiene agli appalti di forniture e servizi, ove il corrispettivo può essere liquidato con periodicità anche mensile.
Occorre preliminarmente considerare che in sede di emanazione del regolamento si è voluto estendere anche agli appalti di servizi e forniture la vigente disciplina della tutela dei lavoratori (di cui all'art. 7 del decreto del Ministero dei lavori pubblici 19.04.2000, n. 145[3], recante il capitolato generale d'appalto dei lavori pubblici), che già prevedeva la ritenuta dello 0,50 per cento. Si spiega così il riferimento allo svincolo in sede di pagamento finale (ancorché tipico dei lavori), che peraltro ha già sollevato perplessità in alcuni commentatori[4].
Ciononostante, pare potersi affermare che lo svincolo delle ritenute sia possibile solo in sede di liquidazione finale, intesa come fase conclusiva del rapporto contrattuale, e quindi successivamente all'approvazione del certificato di collaudo o della verifica di conformità, e sempre in presenza di DURC regolare. Il riferimento all''importo netto progressivo' parrebbe invece riferibile a tutti i pagamenti intermedi, su cui andrebbe operata, pertanto, la ritenuta[5].
La formulazione della norma, laddove si dice che tale ritenuta va effettuata 'In ogni caso' lascerebbe poi intendere che la disposizione si applica a tutti i contratti, e non solo nella circostanza in cui il responsabile del procedimento acquisisca un DURC negativo (come si potrebbe invece desumere dalla collocazione della stessa norma nell'art. 4, relativo all'inadempienza contributiva dell'esecutore).
A conferma di questa tesi è opportuno richiamare la circolare 3/2012 del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, relativa proprio ai commi 2 e 3 dell'art. 4 del d.P.R. 207/2010.
In particolare, il Ministero osserva che 'Sotto un profilo operativo, va anzitutto evidenziato che la trattenuta (di cui al comma 2, ndr) da parte della stazione appaltante delle somme dovute all'appaltatore va effettuata successivamente alle ritenute indicate dal comma 3 dell'articolo 4 (...)'.
Sembra, pertanto, che la ritenuta dello 0,50 per cento debba essere effettuata sempre e comunque. Invece la trattenuta corrispondente all'inadempienza va operata soltanto, appunto, qualora il DURC segnali la posizione contributiva irregolare da parte di uno o più soggetti impiegati nell'esecuzione del contratto.
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[1] Il parere è reperibile sul sito: http://autonomielocali.regione.fvg.it/aall/opencms/AALL/Servizi/pareri/
[2] Recante il Regolamento di esecuzione ed attuazione del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, noto come Codice dei contratti.
[3] Articolo abrogato proprio per mezzo dell'art. 358, comma 1, lettera e) del regolamento di attuazione del Codice dei contratti, con decorrenza 08.06.2011.
[4] Si veda, ad esempio, l'articolo del 13.12.2010 'Nuovo regolamento: la ritenuta dello 0,50 % anche per servizi e forniture' su www.appaltiecontratti.it
[5] Si veda il citato parere prot. n. 4770 dell'08.02.2012
(28.03.2012 - link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALIDelega del Sindaco al Consigliere.
A fronte della necessità di mantenere separate le funzioni di indirizzo affidate al consiglio e quelle esecutive riservate alla giunta, il sindaco non può conferire ai componenti del consiglio l'esercizio di funzioni amministrative di governo dell'ente, aventi rilevanza esterna.
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Il Comune chiede di conoscere se, affinché il Sindaco possa legittimamente delegare funzioni in materie sue proprie o di altri assessori ad un Consigliere, senza poteri di firma a rilevanza esterna, siano sufficienti le norme presenti nello statuto dell'Ente, che dispongono un potere di delega, in via generale, ovvero le stesse vadano integrate con la specificazione che la delega è revocabile in ogni momento, senza obbligo di motivazione e anche per mere ragioni di opportunità, decade con la fine del mandato del delegante e afferisce a particolari attribuzioni del Sindaco medesimo o degli assessori, inerenti a specifiche attività o servizi senza poteri di firma con rilevanza esterna, restando comunque in capo al titolare preposto le funzioni di indirizzo e di coordinamento.
Esaminato il quadro normativo di riferimento, si formulano le seguenti osservazioni, precisando che non compete allo scrivente ufficio esprimersi in ordine alla legittimità/opportunità degli atti normativi degli enti locali quali, nel caso di specie, lo statuto comunale.
Con riferimento ai contenuti degli statuti degli enti locali nella nostra Regione si applica, in forza della speciale autonomia riconosciutale, l'articolo 12, comma 2, della L.R. n. 1/2006, il quale espressamente prevede: 'Lo statuto, in armonia con la Costituzione e con l'osservanza dei principi fissati dalla legislazione regionale in materia di elezioni, organi di governo e funzioni fondamentali, nonché in materia di organizzazione pubblica, stabilisce i principi di organizzazione e funzionamento dell'ente, le forme di controllo, anche sostitutivo, le garanzie delle minoranze, le forme di partecipazione popolare, nonché le condizioni per assicurare pari opportunità tra uomo e donna anche in ordine alla presenza negli organi collegiali dell'ente'.
Quanto alla materia oggetto del quesito (attribuzioni del sindaco) trovano applicazione le norme previste dal testo unico degli enti locali di cui al D.Lgs. 267/2000. Non si ritiene, tuttavia, di condividere l'affermazione che individua nell'articolo 54 TUEL il fondamento di un generale potere di delega da parte del Sindaco ai consiglieri. Detta norma, infatti, concerne esclusivamente una specifica fattispecie relativa alla delegabilità dell'esercizio di funzioni di competenza statale.
Il D.Lgs. n. 267/2000, distingue le funzioni spettanti agli organi di governo dell'ente locale attribuendo al consiglio comunale la funzione di indirizzo e controllo politico-amministrativo (art. 42), alla giunta principalmente compiti di collaborazione con il sindaco nella gestione del comune (art. 48) e al sindaco la responsabilità e la rappresentanza dell'ente (art. 50).
A fronte della necessità di mantenere separate le funzioni di indirizzo affidate al consiglio e quelle esecutive riservate alla giunta, è comune opinione, supportata dalla giurisprudenza, che il sindaco non possa conferire ai componenti del consiglio l'esercizio di funzioni amministrative di governo dell'ente, aventi conseguentemente rilevanza esterna. La normativa attuale, infatti, impone la separazione dei ruoli tra organo esecutivo e organo consiliare, attribuendo a quest'ultimo le funzioni di indirizzo politico-amministrativo e di controllo sull'attività dell'ente.
Il consigliere quindi non può essere chiamato a gestire direttamente un settore dell'amministrazione per conto del Sindaco perché si troverebbe contemporaneamente nella posizione di controllato (in quanto consigliere delegato) e di controllore (in quanto consigliere).
In particolare, secondo la giurisprudenza[1], lo statuto, fatto salvo il rispetto dei principi e precetti legislativi in materia di organizzazione degli enti locali, può prevedere la delegabilità da parte del sindaco ad un consigliere di alcune competenze, che non comportino l'adozione di atti a rilevanza esterna e compiti di amministrazione attiva, limitate ad approfondimenti collaborativi per l'esercizio diretto delle predette funzioni da parte del sindaco che ne è titolare.
Pertanto, il potere di delega, previsto in via generale nello statuto dell'Ente, pur non dettagliato in conformità alle prescrizioni normative e giurisprudenziali innanzi esplicitate, potrà essere esercitato, nei confronti dei consiglieri, unicamente con i limiti sopra evidenziati.
In sostanza quindi, una modifica statutaria nei termini prospettati dal Comune potrebbe risultare utile al fine di evitare il sorgere di singole questioni interpretative della norma statutaria stessa, in ordine all'ampiezza dei poteri di delega nei casi concreti, purché venga data evidenza al fatto che la delega in questione, lungi dal riguardare specifiche funzioni/attribuzioni di competenza del Sindaco, concerne lo svolgimento di mere attività di collaborazione.
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[1] Così, TAR Toscana, sentenza n. 1248/04 del 27.04.2004 (13.03.2012 - link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALIConflitto di interessi di un amministratore locale.
Nei confronti di un consigliere comunale che ha assunto la difesa legale, in qualità di avvocato di parte, di un dipendente a cui carico è stato instaurato, da parte della medesima amministrazione comunale, un procedimento disciplinare non sussiste alcuna causa di incompatibilità disciplinata dalla legge.
Lo stesso dovrà, invece, astenersi dal prendere parte alle delibere afferenti il procedimento disciplinare in corso od altri che venissero eventualmente instaurati tra il Comune e il dipendente difeso dall'amministratore locale.

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Il Comune chiede di conoscere un parere in merito alla sussistenza di una causa di incompatibilità o di un conflitto di interessi per un consigliere comunale che ha assunto la difesa di un dipendente comunale a cui carico è stato instaurato, da parte della medesima amministrazione comunale, un procedimento disciplinare. Precisa, ulteriormente, l'Ente che il Comune potrebbe, altresì, costituirsi parte civile in un eventuale procedimento giudiziario che venisse instaurato, parallelo a quello disciplinare.
Con riferimento alla fattispecie in esame pare non venga in rilevo alcuna causa di incompatibilità disciplinata dalla legge, e, in particolare, dal decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, articoli 60 e 63.
Al riguardo si ricorda, come evidenziato dal Ministero dell'Interno[1], che le ineleggibilità e le incompatibilità non possono essere estese al di là dell'espressa previsione di legge, trattandosi di disciplina in ordine alla quale non è possibile operare alcuna estensione analogica. Ciò in considerazione del carattere tassativo e di stretto rigore che caratterizza le norme limitative in tema di esercizio delle cariche pubbliche elettive, alla luce della riserva di legge posta in materia dall'art. 51 della Costituzione.
La giurisprudenza e la dottrina sono concordi nel ritenere che le cause di ineleggibilità o di incompatibilità, in quanto limitative del diritto di elettorato passivo garantito dall'art. 51 Cost., hanno carattere tassativo e non possono quindi essere applicate a situazioni non espressamente previste[2].
La fattispecie che potrebbe, ad una prima analisi, essere presa in considerazione è quella di cui all'articolo 63, comma 1, num. 4) secondo cui non può ricoprire la carica di consigliere comunale colui che ha lite pendente, in quanto parte di un procedimento civile od amministrativo, con il comune.
Come chiarito anche dalla giurisprudenza, l'espressione 'essere parte di un procedimento' va intesa in senso tecnico, per cui la pendenza di una lite va accertata con riferimento alla qualità di parte in senso processuale. Recita la sentenza del 19.05.2001, n. 6880 della Corte di Cassazione: 'Ai fini della sussistenza della causa d'incompatibilità per lite pendente tra i sindaco ed il comune, deve farsi riferimento alla nozione di «parte in giudizio» nell'accezione tecnico-processuale'.
L'avvocato non è parte del processo, bensì agisce in forza di un rapporto di rappresentanza con il proprio assistito; egli agisce in giudizio in nome e per conto della parte rappresentata.[3]
Ragioni di opportunità potrebbero, tuttavia, consigliare all'amministratore locale di non assumere una tale difesa legale.[4]
Esclusa la sussistenza di specifiche cause di incompatibilità, una diversa norma da prendere in considerazione è quella di cui all'articolo 78, comma 2, TUEL ai sensi della quale: 'Gli amministratori [...] devono astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado'.
Si ritiene che tutte le volte in cui l'Ente debba assumere decisioni afferenti il procedimento disciplinare in corso od altri che venissero eventualmente instaurati tra il Comune e il dipendente difeso dall'amministratore locale, il consigliere comunale, quale avvocato di parte, debba astenersi dal prendere parte alle relative delibere stante la sussistenza di un interesse 'proprio' conflittuale con quello del Comune.
Come rilevato dalla giurisprudenza 'l'obbligo per i consiglieri comunali di astenersi dal prendere parte a deliberazioni alle quali possono essere direttamente od indirettamente interessati costituisce regola assoluta che, in quanto dettata al fine di garantire la trasparenza e l'imparzialità della azione amministrativa, non ammette deroghe; essa ricorre ogni qualvolta l'affare trattato sia tale da suscitare un interesse proprio del consigliere o di persone a lui legate da vincoli di parentela. È tuttavia necessario che l'interesse personale, presupposto dell'obbligo di astensione, debba potersi rilevare da un rapporto di specifica situazione di carattere oggettivo che renda manifesta o comunque logicamente ipotizzabile la possibilità di un conflitto di interesse ovvero la non estraneità di propri interessi rispetto ai fatti sui quali si concorre a deliberare'.[5]
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[1] Si veda la risposta ad un quesito, pubblicata nella Guida agli enti locali de "Il Sole 24-Ore", n. 11 del 23.03.2002, in cui il Ministero dell'Interno ha inoltre affermato che la garanzia che le ineleggibilità e le incompatibilità siano poste da una norma di legge costituisce una forma di tutela nei confronti dei cittadini, ai quali viene assicurata, anche in tal modo, l'assoluta parità di condizioni sul territorio nazionale.
[2] TAR Basilicata, 27.06.1995, n. 399 in Foro amm., 1996, pag. 246; Cass. Civ., 26.02.1988, n. 2046, in Mass. Giur. it., 1988.
[3] In questo senso si veda parere ANCI del 22.03.2010 il quale, in conformità a quanto sopra esposto recita: 'Egli (leggasi l'avvocato - amministratore) tecnicamente non ha una lite pendente con il Comune; parte del giudizio infatti è solamente il soggetto che ha proposto l'azione giurisdizionale nei confronti dell'Ente, ossia colui che è assistito dall'avvocato e non l'avvocato stesso'. Sull'argomento si è espresso anche il Consiglio nazionale forense il quale, valutata la questione sotto il diverso profilo della possibile violazione, da parte del legale, delle norme del codice deontologico (in particolare l'articolo 37 dello stesso), ha escluso una tale eventualità: parere n. 80 del 22 novembre 2005 (in senso difforme, tuttavia, si veda parere del CNF n. 16 dell'11.07.2001).
[4] Si veda, al riguardo, il parere di G. Lovili, contenuto nel fascicolo 'L'esperto risponde', all'interno del Sole 24 Ore, n. 15 del 21.02.2011.
[5] TAR Lombardia, Milano, sentenza dell'11.03.1998, n. 523
(12.03.2012 - link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALIUtilizzo carta intestata del Comune da parte di un consigliere comunale.
L'uso della carta intestata del Comune da parte dei consiglieri o dei gruppi consiliari è consentito per il perseguimento delle finalità di cura dell'interesse pubblico e non può avvenire a titolo personale, sul presupposto che ciascun consigliere costituisce una parte istituzionale dell'ente locale, del quale lo stemma rappresenta un elemento unitario di identificazione.
Al fine di non ingenerare dubbi circa la provenienza del documento da un consigliere o da un gruppo (e non dall'amministrazione comunale), o la strumentalizzazione dello stemma, la carta intestata dovrebbe recare, insieme allo stemma comunale, la contemporanea presenza del nominativo del consigliere e della denominazione del gruppo cui appartiene.

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Il Comune ha chiesto un parere in ordine all'ammissibilità dell'utilizzo della propria carta intestata da parte di un consigliere comunale, con la dicitura 'Il Consigliere'.
Sentito il Servizio elettorale, si esprimono le seguenti considerazioni.
In via generale, l'articolo 38, comma 3, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, stabilisce che i Comuni fissano, con norme regolamentari, le modalità per fornire ai consigli servizi, attrezzature e risorse finanziarie. Pertanto, le forme e le modalità di esternazione dell'attività dei consiglieri comunali, compresa la possibilità di utilizzare la carta intestata del comune, dovrebbero essere stabilite in sede regolamentare, in condizioni paritarie per tutti i consiglieri.
Infatti, i consiglieri comunali, che agiscano (sia come singoli sia come gruppo consiliare) nell'esercizio del proprio munus pubblico, hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri, indipendentemente dalla loro appartenenza alla maggioranza o alla minoranza consiliare, potendo quindi utilizzare i medesimi strumenti posti a disposizione dell'amministrazione dell'ente.
Per quanto concerne, nello specifico, l'uso della carta intestata del Comune, sia da parte dei consiglieri singolarmente che dei gruppi consiliari, il Ministero dell'Interno si è espresso in senso favorevole, anche in mancanza di una disposizione regolamentare al riguardo, limitandone l'utilizzo all'esercizio del munus istituzionale di cui gli stessi sono investiti. In altri termini, l'utilizzo della carta intestata non può avvenire a titolo personale[1], ma per il perseguimento delle finalità di cura dell'interesse pubblico.
L'orientamento del Ministero si basa sul presupposto che ciascun consigliere e ciascun gruppo consiliare costituisce una parte istituzionale dell'ente locale, del quale lo stemma rappresenta un elemento unitario di identificazione.
Al fine di non ingenerare dubbi circa la provenienza del documento da un consigliere comunale (e non dall'amministrazione comunale), o la strumentalizzazione dello stemma, la carta intestata dovrebbe recare, insieme allo stemma comunale, la contemporanea presenza del nominativo del consigliere e della denominazione del gruppo cui appartiene con la specifica indicazione 'gruppo consiliare'.
Si ritiene, pertanto non sussistano cause ostative all'utilizzo dello stemma da parte dei consiglieri o dei gruppi consiliari, qualora lo stesso avvenga nelle condizioni sopraindicate.
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[1] Pareri del Ministero dell'Interno, Dipartimento per gli affari interni e territoriali, 11.01.2011 e 01.10.2010, consultabile presso il relativo sito internet (05.03.2012 - link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALIIncompatibilità di un amministratore locale che svolge presso il Comune un lavoro di pubblica utilità.
Non si ritiene sussistere nei confronti del consigliere comunale che sta per essere avviato ad un'attività di pubblica utilità presso il medesimo Ente la causa di ineleggibilità/incompatibilità di cui all'articolo 60, comma 1, numero 7), del D.Lgs 267/2000 per la realizzazione della quale occorre che nell'attività svolta dall'amministratore per il Comune siano rinvenibili i profili della subordinazione tipici del rapporto di lavoro dipendente o ad esso assimilati. Tali requisiti paiono non ravvisarsi nel caso di lavori di pubblica utilità.
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Il Comune chiede di conoscere un parere in merito alla sussistenza di una causa di incompatibilità per un amministratore locale che si appresta a svolgere presso l'amministrazione comunale nella quale esercita il suo mandato un lavoro di pubblica utilità.[1]
Sentito il Servizio elettorale, si esprimono le seguenti considerazioni.
Preliminarmente, si rileva che la valutazione della sussistenza delle cause di ineleggibilità o di incompatibilità dei componenti di un organo elettivo amministrativo è attribuita dalla legge all'organo medesimo. È, infatti, principio di carattere generale del nostro ordinamento che gli organi collegiali elettivi debbano esaminare i titoli di ammissione dei propri componenti.
Così come, in sede di esame delle condizioni degli eletti (art. 41 del D.Lgs. 267/2000), è attribuito al consiglio comunale il potere-dovere di controllare se nei confronti dei propri membri esistano condizioni ostative all'esercizio delle funzioni, allo stesso modo, qualora venga successivamente attivato il procedimento di contestazione di una causa di incompatibilità, a norma dell'art. 69 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, spetta al consiglio medesimo, al fine di valutare la sussistenza di detta causa, esaminare le osservazioni difensive formulate dall'amministratore e, di conseguenza, adottare gli atti ritenuti necessari.
Ciò premesso, la norma da prendere in esame, con riferimento alla fattispecie in commento, è l'articolo 60, comma 1, numero 7), del D.Lgs 267/2000, la quale stabilisce che non è eleggibile a consigliere comunale, nel rispettivo consiglio, il dipendente del Comune. In forza del disposto di cui all'articolo 63, comma 1, numero 7), TUEL, infatti, costituisce causa di incompatibilità per un amministratore locale il venire a trovarsi, nel corso del mandato, in una delle condizioni di ineleggibilità previste dal precedente articolo 60.
La ratio della norma è quella di garantire il più possibile la separazione tra attività politica e attività di gestione e l'elemento di discrimine affermato dalla giurisprudenza al riguardo è la sussistenza delle condizioni tipiche del rapporto di impiego subordinato. Occorre, in altri termini, per la configurabilità dell'ipotesi di incompatibilità in esame, che nell'attività svolta per il Comune siano rinvenibili i profili della subordinazione tipici del rapporto di lavoro dipendente o ad esso assimilati (sottoposizione ad ordini e direttive; inserimento del lavoratore nella struttura dell'ente; assenza di un rischio imprenditoriale; continuità della prestazione; forma della retribuzione; non gratuità della prestazione...[2]).
Tali requisiti paiono non ravvisarsi nel caso di lavori di pubblica utilità i quali consistono nella prestazione di un'attività non retribuita a favore della collettività da svolgere, in via prioritaria, nel campo della sicurezza e dell'educazione stradale, presso lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni o presso enti e organizzazioni di assistenza sociale o di volontariato, od ancora presso i centri specializzati nella lotta alle dipendenze (così, art. 186, comma 9-bis, del D.Lgs. 285/1992).
Trattasi di lavori che rientrano nel genus dei c.d. lavori socialmente utili, consistenti questi ultimi in tutte quelle attività che hanno per oggetto la realizzazione di opere e la fornitura di servizi di utilità collettiva, mediante l'utilizzo di soggetti svantaggiati.
Significativa, al riguardo, è la sentenza amministrativa del TAR Calabria Catanzaro, sez. II, del 09.04.2008, n. 352, la quale recita che: 'Il servizio svolto in qualità di L.S.U. non si fonda su di un rapporto di lavoro con lo Stato, né tanto meno con l'Ente locale, dal momento che il lavoro socialmente utile ed il lavoro di pubblica utilità sono da inquadrarsi tra i «c.d. ammortizzatori sociali» e non comportano l'instaurazione di un rapporto di lavoro con l'Ente pubblico'.
Con particolare riferimento alla configurabilità di una causa di incompatibilità per un amministratore locale che svolge un lavoro socialmente utile presso il medesimo Ente si è espresso il Ministero dell'Interno in senso negativo. Lo stesso ha rilevato, in particolare, che: 'Non può qualificarsi come rapporto di lavoro subordinato, né a termine né a tempo indeterminato, l'occupazione temporanea di lavoratori socialmente utili alle dipendenze di ente comunale per l'attuazione di apposito progetto, realizzandosi con essa, un rapporto di lavoro speciale munito di una matrice essenzialmente assistenziale [...]'.[3]
La posizione assunta dal Ministero è conforme, tra l'altro, all'orientamento espresso dalla giurisprudenza la quale ha avuto modo di rilevare che il rapporto intercorrente tra un lavoratore socialmente utile e la pubblica amministrazione non ha natura di lavoro subordinato trattandosi, piuttosto, di una 'utilizzazione' del lavoratore da parte dell'Ente di riferimento. 'Il lavoratore socialmente utile, svolgendo la sua attività per la realizzazione di un interesse di carattere generale, ha diritto ad emolumenti, cui non può riconoscersi natura retributiva, ma [...] natura previdenziale'.[4]
Nel caso di lavori di pubblica utilità, analogamente ai lavori socialmente utili, si è in presenza di un'attività svolta per la realizzazione di un interesse di carattere generale, con l'ulteriore peculiarità che non vi è alcun elemento retributivo neanche sotto forma di emolumenti versati al lavoratore. Si ricorda, infatti, che tale lavoro viene svolto in luogo della comminazione di una sanzione penale.
In conclusione, non si ritiene sussistere nei confronti del consigliere comunale che sta per essere avviato ad un'attività di pubblica utilità presso il medesimo Ente la causa di ineleggibilità/incompatibilità di cui all'articolo 60, comma 1, numero 7), del D.Lgs. 267/2000.
Si consideri, infine, in aggiunta alle considerazioni sopra svolte, che le cause ostative all'espletamento del mandato elettivo, disciplinate dal TUEL, incidendo direttamente sull'esercizio del diritto di elettorato passivo, sono di stretta interpretazione e come tali non suscettibili di estensione analogica,[5] con la conseguenza che anche situazioni di fatto che accidentalmente dovessero evidenziare elementi del rapporto subordinato non precluderebbero l'assunzione della carica elettiva.[6]
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[1] Si tratterebbe, in particolare, della richiesta, avanzata dal consigliere comunale, di sostituzione della pena di cui all'articolo 186 (Guida sotto l'influenza dell'alcool) del Codice della Strada (D.Lgs. 30.04.1992, n. 285) con quella del lavoro di pubblica utilità di cui all'art. 54 del D.Lgs. 28.08.2000, n. 274, in conformità alla previsione di cui all'art. 186, comma 9-bis, del D.Lgs. 285/1992.
[2] Si vedano, al riguardo, tra le altre, Corte d'appello Firenze, sez. lav., sentenza del 21.11.2011, n. 1190 e Cassazione civile, sez. VI, sentenza del 19.10.2011, n. 21689.
[3] Ministero dell'Interno, pareri del 12.05.2011 e del 28.04.2011.
[4] Cassazione civile, sez. un., sentenza del 22.02.2005, n. 3508. Si veda, anche, Cassazione civ., sez. un., sentenza del 03.01.2007, n. 3 la quale recita: 'L'utilizzazione di personale per lavori socialmente utili non comporta l'instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato pubblico'.
[5] Così, TAR Basilicata, 27.06.1995, n. 399; Cass. Civ., 26.02.1988, n. 2046.
[6] In questi termini si è espresso il Ministero dell'Interno con parere del 12.05.2011
(24.02.2012 - link a www.regione.fvg.it).

APPALTIDURC: casi di autocertificabilità.
Secondo l'orientamento di INPS e INAIL (circolare del 26.01.2012), il DURC non può rientrare fra i documenti autocertificabili, in quanto si tratterebbe di attestazione della correttezza della posizione contributiva di una realtà aziendale effettuata dopo complesse valutazioni tecniche di natura contabile da parte degli istituti previdenziali.
Le uniche eccezioni ammesse sono quelle relative ai casi di cui all'art. 38, comma 1, lettera i) e comma 2 del D. Lgs. 163/2006 e di cui all'art. 4, comma 14-bis, del DL 70/2011 per i soli contratti di forniture e servizi fino a 20.000 euro stipulati con la PA o con le società in house.

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Il Comune chiede un parere sulla applicabilità dell'art. 4, comma 14-bis, del decreto legge 13.07.2011, n. 70, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 12.07.2011, n. 106.
Un tanto, alla luce della recente nota del Direttore generale del Ministero del lavoro e delle politiche sociali n. 619 del 16.01.2012, che fornirebbe indicazioni apparentemente dissonanti con quanto stabilito dalla norma.
Il citato art. 4, comma 14-bis, dispone che: 'Per i contratti di forniture e servizi fino a 20.000 euro stipulati con la pubblica amministrazione e con le società in house, i soggetti contraenti possono produrre una dichiarazione sostitutiva ai sensi dell'articolo 46, comma 1, lettera p), del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445, in luogo del documento di regolarità contributiva. Le amministrazioni procedenti sono tenute ad effettuare controlli periodici sulla veridicità delle dichiarazioni sostitutive, ai sensi dell'articolo 71 del medesimo testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 445 del 2000'.
Si ritiene opportuno, preliminarmente, richiamare l'attenzione sulle ulteriori novità normative intervenute di recente in materia di semplificazione della documentazione amministrativa (relative alla cd. decertificazione).
La legge 12.11.2011, n. 183 (Legge di stabilità 2012) è intervenuta a modificare, con l'art. 15, la materia dei certificati e delle dichiarazioni sostitutive.
Nel dettaglio, fra le altre innovazioni, il predetto art. 15 ha disposto la modifica dell'art. 40 del DPR 445/2000 con l'introduzione, per quanto qui rileva, del comma 01, il quale stabilisce che 'Le certificazioni rilasciate dalla pubblica amministrazione in ordine a stati, qualità personali e fatti sono valide e utilizzabili solo nei rapporti tra privati. Nei rapporti con gli organi della pubblica amministrazione e i gestori di pubblici servizi i certificati e gli atti di notorietà sono sempre sostituiti dalle dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47'.
Il medesimo art. 15 della legge 183/2011 ha inoltre introdotto l'art. 44-bis, laddove si prevede che: 'Le informazioni relative alla regolarità contributiva sono acquisite d'ufficio, ovvero controllate ai sensi dell'articolo 71, dalle pubbliche amministrazioni procedenti, nel rispetto della specifica normativa di settore'.
Le norme di nuova introduzione vanno lette in combinato disposto con l'art. 46, comma 1, lettera p), del medesimo DPR 445/2000, laddove è stabilito che 'Sono comprovati con dichiarazioni, anche contestuali all'istanza, sottoscritte dall'interessato e prodotte in sostituzione delle normali certificazioni i seguenti stati, qualità personali e fatti:
(...)
p) assolvimento di specifici obblighi contributivi con l'indicazione dell'ammontare corrisposto; (...)
'.
Tuttavia, lo scorso 16 gennaio il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha emanato la citata nota n. 619, in cui ha affermato che l'art. 44-bis del DPR 445/2000 va a disciplinare un regime particolare in ordine all'utilizzo del DURC, che pertanto non è sostituibile con una dichiarazione di regolarità contributiva da parte dell'interessato.
Spiega il Ministero, che la nozione di certificato che emerge dall'art. 40 del medesimo decreto si riferisce a stati, qualità personali e fatti che sono oggetto di certificazione e autocertificazione. Si tratta, dunque, di elementi oggettivi riferiti alla persona, di cui questa non può non essere a conoscenza.
Di natura del tutto diversa è il DURC, che 'non è la mera certificazione dell'effettuazione [del pagamento] di una somma a titolo di contribuzione (...), ma una attestazione dell'Istituto previdenziale circa la correttezza della posizione contributiva di una realtà aziendale effettuata dopo complesse valutazioni tecniche di natura contabile derivanti dalla applicazione di discipline lavoristiche, contrattuali e previdenziali'.
Pertanto, per mezzo della circolare, il Ministero ha chiarito che il DURC non è autocertificabile, ed ha, altresì, dichiarato che il riferimento, nell'ambito dell'art. 44-bis, al controllo delle informazioni sulla regolarità contributiva ai sensi dell'art. 71, consente alle PA la facoltà di acquisire un DURC da parte del soggetto interessato e di poterne poi vagliare i contenuti con le medesime modalità previste per la verifica delle autocertificazioni.
Il Ministero non si è, però, espresso sulla previsione di legge di cui all'art. 4, comma 14-bis del DL 70/2011.
A colmare questa lacuna è intervenuta, a distanza di pochi giorni, una nota congiunta delle Direzioni centrali di INPS ed INAIL.
Con la circolare del 26 gennaio, infatti, i due enti previdenziali hanno ribadito che la disciplina speciale vigente in tema di DURC deve ritenersi immutata (e quindi orientata verso la non autocertificabilità) precisando, d'intesa con lo stesso Ministero, che 'resta confermato l'obbligo di acquisire d'ufficio il DURC da parte delle Stazioni Appaltanti pubbliche e dalle amministrazioni procedenti' e che 'le fattispecie in cui è consentito all'impresa di presentare una dichiarazione in luogo del DURC sono solo quelle espressamente previste dal legislatore'.
Ai fini della questione posta dall'Ente, è importante segnalare che in nota viene fatto esplicito riferimento all'art. 4, comma 14-bis, della legge 106/2011 (rectius DL 70/2011) per contratti di forniture e servizi fino a 20.000 euro stipulati con la PA e con le società in house[1].
Secondo gli estensori della circolare, dunque, in tale situazione i soggetti contraenti possono produrre alla stazione appaltante una dichiarazione sostitutiva attestante la regolarità contributiva in luogo del DURC[2].
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[1] L'altra circostanza individuata in nota è quella di cui all'art. 38, comma 1, lettera i) e comma 2 del D.Lgs. 163/2006, secondo cui i candidati/concorrenti sono tenuti ad attestare il possesso dei requisiti (tra cui il non aver commesso gravi violazioni alle norme in materia di contributi previdenziali di cui all'art. 38, comma 1, lettera i)) mediante dichiarazione sostitutiva in conformità a quanto disposto dal DPR 445/2000.
[2] Nel senso dell'autocertificazione della regolarità contributiva per gli appalti di forniture e servizi fino a 20.000 euro si è espressa anche l'ANCI nel parere del 23.01.2012, rinvenibile sul sito www.ancitel.it. Corre l'obbligo, peraltro, di segnalare che le due circolari hanno sollevato perplessità in certa dottrina, in particolar modo per quanto attiene all'interpretazione del Ministero secondo la quale il DURC non è qualificabile come certificato, quando invece è la stessa legge a definirlo tale (si veda il DPR 207/2010, art. 6, comma 1: 'Per documento unico di regolarità contributiva si intende il certificato che attesta contestualmente la regolarità di un operatore economico ... '). Al riguardo si vedano i commenti di L. Oliveri su Italia oggi del 18.01.2012 e su LeggiOggi.it del 04.02.2012
(14.02.2012 - link a www.regione.fvg.it).

APPALTI SERVIZIPubblicità delle gare d'appalto di servizi ricompresi nell'allegato II B al Codice dei contratti pubblici.
Nel caso di indizione di una gara pubblica per l'appalto di un servizio menzionato nell'allegato II B al Codice dei contratti pubblici, le stazioni appaltanti sono comunque tenute a dare adeguata diffusione e conoscenza della gara e, qualora si siano autovincolate al rispetto del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, devono seguire il regime di pubblicità dallo stesso previsto.
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Il Comune chiede di sapere se, nel caso di indizione di una procedura aperta per l'appalto del servizio di ristorazione scolastica, avente un importo superiore alla soglia comunitaria, possa omettere, al fine di contenere le spese, la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale italiana, potendo ritenersi sufficiente la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale europea.
Si osserva quanto segue.
In termini generali, la pubblicità delle gare di appalto è volta a garantire la trasparenza delle procedure di affidamento, nonché la concorrenza e la parità di trattamento tra tutti i partecipanti alla selezione.
Il D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici) ha previsto diversi adempimenti in tale senso a carico delle stazioni appaltanti, distinguendo differenti modalità per gli appalti di importo superiore alla soglia comunitaria rispetto a quelli inferiori alla stessa[1].
Tali norme non paiono essere applicabili agli appalti dei servizi contenuti nell'allegato II B al Codice, per i quali il legislatore ha previsto una procedura semplificata ed informale.
L'art. 20 del D.Lgs. 163/2006 stabilisce, infatti, che, per l'aggiudicazione degli appalti di tali servizi, non si applicano le disposizioni contenute nel Codice, se non quelle stabilite dagli artt. 65 (avviso sui risultati della procedura di aggiudicazione), 68 (specifiche tecniche) e 225 (avviso sugli appalti aggiudicati).
Nell'allegato II B sono compresi anche i 'servizi alberghieri e di ristorazione', tra i quali possono essere ricondotti i servizi aventi ad oggetto le prestazioni di refezione scolastica di cui all'appalto de quo.
Per quanto riguarda le pubblicazioni relative ai servizi di cui all'allegato II B, non vi è perciò l'obbligo di applicare le norme contenute nel Codice, se non quelle previste dai citati artt. 65 e 225 che hanno a riguardo la pubblicazione di avvisi concernenti appalti già aggiudicati.
Si evidenzia, però, come, ai sensi dell'art. 27 del Codice, anche per l'affidamento di tali servizi, le amministrazioni aggiudicatrici devono, comunque, rispettare i principi di trasparenza, proporzionalità, imparzialità, efficacia e parità di trattamento.
Da ciò consegue che le stazioni appaltanti sono tenute a dare adeguata diffusione e conoscenza della gara per l'affidamento del servizio di ristorazione scolastica, potendo, a tal fine, determinare autonomamente le modalità che intendono seguire nel rispetto dei principi sopra menzionati[2].
Qualora, tuttavia, il Comune, nonostante la tipologia dei servizi ricada tra quelle previste dall'allegato II B, decida di fare riferimento nel bando di gara alle procedure contenute nel Codice dei contratti pubblici, come nel caso prospettato, in cui si intende indire una procedura di gara aperta, esso sarà tenuto anche a seguire il regime di pubblicità previsto dallo stesso.
Ciò è stato espresso chiaramente, proprio con riferimento all'indizione di un bando a procedura aperta, in una deliberazione dell'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici (Avcp).
L'Autorità ha affermato che, anche quando l'appalto riguardi un servizio rientrante nell'allegato II B, 'qualora la stazione appaltante si sia autovincolata al rispetto del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, bandendo una procedura aperta ai sensi dell'art. 55, questa deve procedere nel rispetto delle norme che informano la natura di tale procedura, avuto riguardo al carattere di apertura al mercato che la medesima ontologicamente presenta; apertura garantita, in primis, da un adeguato regime di pubblicità, normativamente disciplinato e distinto in base all'importo di base in gara'[3].
In tale caso e trattandosi di appalti sopra soglia, sembrano, perciò, trovare applicazione le norme sulla pubblicità di cui all'art. 66 del Codice che richiedono la pubblicazione degli avvisi e dei bandi anche sulla Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana.
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[1] Vedasi, in particolare, quanto previsto dall'art. 66 per gli appalti di servizi sopra soglia e dall'art. 124 per quelli sotto soglia.
[2] L'Anci, nel parere dd. 23.04.2007, ha ritenuto che, per gli affidamenti dei servizi di cui all'allegato II B, sia sufficiente adottare forme di pubblicità 'minori', quali la pubblicazione nell'albo della stazione appaltante, sul sito internet dell'ente e sui quotidiani. L'Avcp, nella deliberazione n. 102 dd. 5.11.2009, ha convenuto sull'opportunità, in ossequio al principio di trasparenza, di una pubblicazione a livello comunitario, oltre a quelle espressamente indicate negli atti di gara, quando il valore dell'appalto sia decisamente superiore alla soglia comunitaria.
[3] Deliberazione Avcp n. 36 dd. 08.04.2009
(10.02.2012 - link a www.regione.fvg.it).

APPALTI: I.V.A. e valutazione dell'offerta economica.
Si ritiene che l'art. 29, c. 1., del D.Lgs. 163/2006, disponendo che il calcolo del valore stimato (= somma da porre a base di gara) degli appalti pubblici è basato sull'importo totale pagabile al netto dell'I.V.A.:
- sia volto a tutelare la par condicio tra i concorrenti, atteso che la disciplina della predetta imposta prevede regimi agevolati per alcuni operatori economici;
- esprima comunque una regola valevole (non potendosi ipotizzare l'adozione di criteri eterogenei tra due fasi del medesimo procedimento) anche per la valutazione dell'elemento economico dell'offerta, ai fini dell'aggiudicazione.

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Il Comune rappresenta che, per l'affidamento del servizio di traduzione (simultanea e di atti), ha interpellato alcuni professionisti, acquisendo due offerte.
Il professionista che ha presentato l'offerta 'A' ha evidenziato che, stante il regime fiscale agevolato di cui gode, l'importo richiesto non è soggetto all'imposta sul valore aggiunto (I.V.A.).
Il professionista che ha formulato l'offerta 'B', invece, non ha fornito alcuna dichiarazione in tal senso, cosicché l'importo ivi contemplato deve ritenersi soggetto ad I.V.A..
Poiché i prezzi indicati nell'offerta 'B' risultano inferiori rispetto a quelli contenuti nell'offerta 'A' ma considerato che, computando l'I.V.A. sui primi, il giudizio di minore onerosità finanziaria si inverte, l'Ente chiede di conoscere quale parametro vada adottato (prezzo offerto al netto dell'I.V.A. o spesa complessiva da sostenere) per individuare la migliore offerta.
Il parametro da adottare è quello del prezzo offerto al netto dell'I.V.A.[1], in conformità di quanto dispone l'art. 29, comma 1[2], del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 che, sebbene faccia espresso riferimento solo al 'valore stimato' (= importo da porre a base di gara) dei contratti pubblici, si ritiene esprima una regola valevole (non potendosi ipotizzare l'adozione di criteri eterogenei tra due fasi del medesimo procedimento) anche per la valutazione dell'elemento economico dell'offerta, ai fini dell'aggiudicazione dell'appalto.
Atteso che la disciplina della predetta imposta prevede regimi differenziati, la norma sembra volta a tutelare la par condicio tra i concorrenti: infatti, se il valore da considerare ai fini dell'aggiudicazione dovesse intendersi I.V.A. inclusa, si determinerebbe un ulteriore vantaggio nei confronti degli imprenditori già fiscalmente favoriti, con correlativa (e generale) penalizzazione per gli operatori economici che non godono di simili agevolazioni.
Nel medesimo senso si è espressa l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture che, nella deliberazione n. 82 del 14.10.2011, ha rilevato che:
- l'art. 29 del D.Lgs. 163/2006 «trova la sua ratio nella necessità di garantire la neutralità dei diversi regimi impositivi adottati nei vari stati membri, rispetto al computo del valore dell'appalto da affidare, che è il parametro determinante ai fini della individuazione della tipologia di procedura da seguire e del livello di pubblicità da assicurare»;
- seppure non vi sia alcuna specifica disposizione prescrivente che anche l'offerta debba essere formulata non includendo l'IVA nell'importo, «la regola si ricava dall'art. 82 del codice ove si prevede che l'offerta economica è formulata in termini di ribasso sull'importo a base di gara; ne consegue che necessariamente anche il primo valore dovrà essere omogeneo al secondo e non includere l'IVA»;
- anche qualora l'offerta sia determinata mediante prezzi unitari e, in particolare, in termini di tariffa per ora di lavoro, la stazione appaltante non può richiedere l'indicazione dell'importo includendo l'IVA. Infatti, «La regola pur non testualmente enunciata dal legislatore è desumibile dall'art. 119 del regolamento di esecuzione del codice dei contratti che seppur riferendosi ai lavori, prescrive per le ipotesi di offerta a prezzi unitari 'che il prezzo complessivo offerto, rappresentato dalla somma di tali prodotti, è indicato dal concorrente in calce al modulo stesso unitamente al conseguente ribasso percentuale rispetto al prezzo complessivo posto a base di gara'; anche in questa ipotesi il richiamo al prezzo a base di gara, impone per ragioni di omogeneità che anche gli importi relativi ai prezzi unitari siano espressi senza includere l'IVA».
Secondo l'Autorità, la predetta conclusione trova conferma nella considerazione che, posto che la forma giuridica dell'operatore economico può determinare l'applicazione di una diversa aliquota ai fini dell'I.V.A.[3], tali agevolazioni non possono comportare l'alterazione delle procedure di aggiudicazione alle quali i soggetti fiscalmente avvantaggiati partecipano, in violazione del principio di parità di trattamento sancito dall'art. 2[4] del codice dei contratti.
L'Autorità segnala, infine, che ad analoghe conclusioni era già pervenuto il Consiglio di Stato[5], il quale ha giudicato ragionevole l'intento della P.A. di tutelare la par condicio tra le imprese con scopo di lucro e le società cooperative partecipanti alla gara, richiedendo l'indicazione dell'offerta I.V.A. esclusa, «allo scopo di assicurare un sostanziale equilibrio tra dette società e le imprese con scopo di lucro, che altrimenti sarebbero oltremodo penalizzate».
Ove, invece -conclude l'Autorità di vigilanza- ai fini dell'aggiudicazione, le offerte fossero comparate includendo l'I.V.A. «gli operatori costituiti in organizzazioni senza finalità di lucro che già godono della possibilità di presentare offerte con utile ridotto avrebbero un vantaggio rispetto alle altre tipologie di operatori tale da compromettere la par condicio».
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[1] L'inciso «al netto dell'imposta sul valore aggiunto» o «al netto dell'IVA» o «al netto dell'i.v.a.» è contenuto in numerose disposizioni del D.Lgs. 163/2006 (v. art. 3, commi 16 e 17; art. 28, comma 1 - alinea; art. 29, commi 1, 7 - lett. c), 8 - lett. c) e 13; art. 32, comma 1 - lett. e); art. 99, comma 2 - lett. b); art. 196, comma 3 - alinea; art. 215, comma 1 - alinea; art. 235, commi 3 e 5) e l'espressione «IVA esclusa» ed «i.v.a. esclusa» si rinviene, rispettivamente, nell'art. 111, comma 1 e nell'art. 235, comma 1.
[2] Il quale, confermando la previgente disciplina in materia di appalti pubblici, prevede che «Il calcolo del valore stimato degli appalti pubblici e delle concessioni di lavori o servizi pubblici è basato sull'importo totale pagabile al netto dell'IVA, valutato dalle stazioni appaltanti. Questo calcolo tiene conto dell'importo massimo stimato, ivi compresa qualsiasi forma di opzione o rinnovo del contratto».
[3] O, come nella fattispecie oggetto di quesito, la non assoggettabilità al tributo delle prestazioni rese dall'operatore economico fiscalmente qualificabile come 'contribuente minimo'.
[4] Il cui comma 1 dispone che «L'affidamento e l'esecuzione di opere e lavori pubblici, servizi e forniture, ai sensi del presente codice, deve garantire la qualità delle prestazioni e svolgersi nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza; l'affidamento deve altresì rispettare i principi di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, nonché quello di pubblicità con le modalità indicate nel presente codice».
[5] Sez. V, sent. 16.06.2010, n. 3806, ove si afferma, anzitutto, che la pubblica amministrazione, nella predisposizione della lex specialis di gara, deve comunque garantire il rispetto della par condicio di tutti i concorrenti, «assicurando il rispetto dei principi, consacrati dall'art. 97 della Costituzione, di buon andamento ed imparzialità cui deve uniformarsi l'azione amministrativa»
(07.02.2012 - link a www.regione.fvg.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI: Pubblicazione on-line delle determinazioni dirigenziali. Art. 32 della legge 28.06.2009 n. 69.
Si fa riferimento alla nota sopra citata con la quale codesta Prefettura ha chiesto l’avviso della scrivente in merito agli obblighi di pubblicazione, per il comune, delle determinazioni dirigenziali sui siti informatici, introdotti dall’art. 32 della legge 28.06.2009, n. 69, recante norme per l’“eliminazione degli sprechi relativi al mantenimento di documenti in forma cartacea”.
L’art. 32, comma 1, della legge citata in oggetto dispone che, “gli obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti amministrativi aventi effetto di pubblicità legale si intendono assolti con la pubblicazione nei propri siti informatici da parte delle amministrazioni e degli enti pubblici obbligati”, ed il successivo comma 5 prevede che a decorrere dall’01.01.2011 le pubblicità effettuate in forma cartacea non hanno effetto di pubblicità legale.
La disciplina ha implicitamente modificato l’art. 124 del d.lgs.vo n. 267/2000 nella parte in cui dispone che la pubblicazione avvenga “mediante affissione all’albo pretorio nella sede dell’ente …”, sostituita dalla pubblicazione sul sito istituzionale dell’ente, fermo restando il termine di 15 giorni consecutivi o di altre specifiche disposizioni di legge.
Lo strumento informatico ha sostituito, dunque, il tradizionale albo pretorio, rimanendo inalterati, sotto la nuova forma, gli obblighi di pubblicazione.
Pertanto, si concorda con codesta Prefettura nel richiamare la sentenza n. 1370 del 15.03.2006, con cui il Consiglio di Stato ha stabilito che “la pubblicazione all’albo pretorio del Comune è prescritta dall’art. 124 T.U. n. 267/2000 per tutte le deliberazioni del comune e della provincia ed essa riguarda non solo le deliberazioni degli organi di governo (consiglio e giunta municipali) ma anche le determinazioni dirigenziali”.
Si segnala, altresì, che l’Ente Nazionale per la Digitalizzazione della Pubblica Amministrazione - DIGIT PA, nelle 2Linee guida per i siti web della Pubblica Amministrazione” ed in particolare nel “Vademecum sulle Modalità di pubblicazione dei documenti nell’albo on-line”, predisposto sulla base della direttiva n. 8 del 26.11.2009 del Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione, ha specificato che “… per gli enti locali …. l’attività dell’albo consiste nella pubblicazione di tutti quegli atti sui quali viene apposto il referto di pubblicazione”, includendo tra tali atti le deliberazioni ed altri provvedimenti comunali tra cui anche le determinazioni in argomento (02.01.2012 - link a http://incomune.interno.it).

CONSIGLIERI COMUNALID.Lgs 267/2000. Diritto di accesso dei consiglieri comunali.
Il Garante per la protezione dei dati personali ha affermato che Comune e Provincia devono consentire ai consiglieri l'accesso ai dati effettivamente utili all'espletamento del mandato, nel rispetto dei criteri di essenzialità, pertinenza e compatibilità con le finalità perseguite, di cui all'art. 11, c.1, lett. d), del D.Lgs 196/2003.
L'Ente pertanto dovrà valutare se consentire l'accesso alla totalità dei dati contenuti nella dichiarazione ISEE o al solo dato relativo alla fascia reddituale, in relazione all'indispensabilità di tali informazioni al fine dell'espletamento delle azioni connesse al mandato del consigliere, nonché della possibilità di sollecitare i controlli, da parte dei soggetti autorizzati, sulla veridicità di quanto contenuto nella dichiarazione stessa.

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L'Associazione intercomunale ha chiesto un parere in ordine ad una richiesta, formulata da un consigliere comunale, di accesso ad una dichiarazione ISEE presentata da un cittadino beneficiario di un contributo.
L'articolo 43, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, prevede che i consiglieri comunali e provinciali hanno diritto «di ottenere dagli uffici, rispettivamente del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificatamente determinati dalla legge».
Si osserva, in via generale, che la giurisprudenza ha costantemente sottolineato che le informazioni acquisibili devono considerare l'esercizio, in tutte le sue potenziali esplicazioni, del munus di cui ciascun consigliere comunale è individualmente investito, in quanto membro del consiglio. Ne deriva che tale munus comprende la possibilità per ogni consigliere di compiere, attraverso la visione dei provvedimenti adottati e l'acquisizione di informazioni, una compiuta valutazione della correttezza e dell'efficacia dell'operato dell'amministrazione comunale, utile non solo per poter esprimere un voto maggiormente consapevole sugli affari di competenza del consiglio, ma anche per promuovere, nell'ambito del consiglio stesso, le varie iniziative consentite dall'ordinamento ai membri di quel collegio.
Il generale diritto di accesso del consigliere comunale è quindi esercitato riguardo ai dati utili per l'esercizio del mandato e fornisce una veste particolarmente qualificata all'interesse all'accesso del titolare di tale funzione pubblica, legittimandolo all'esame e all'estrazione di copia dei documenti che contengono le predette notizie e informazioni[1].
Sul consigliere comunale non può gravare alcun onere di motivare le proprie richieste di informazione, né gli uffici comunali hanno titolo a richiedere le specifiche ragioni sottese all'istanza di accesso, né a compiere alcuna valutazione circa l'effettiva utilità della documentazione richiesta ai fini dell'esercizio del mandato.
Tale diritto, pur essendo più ampio di quello riconosciuto alla generalità dei cittadini ai sensi del Capo V della legge 07.08.1990, n. 241, incontra il divieto di usare i documenti per fini privati o comunque diversi da quelli istituzionali, in quanto, i dati acquisiti in virtù della carica ricoperta devono essere utilizzati esclusivamente per le finalità collegate all'esercizio del mandato (presentazione di mozioni, interpellanze, espletamento di attività politico-amministrativo ecc.). Il diritto di accesso, inoltre, non deve essere emulativo, in quanto riferito ad atti palesemente inutili ai fini dell'espletamento del mandato.
In relazione all'esigenza di salvaguardia della riservatezza dei terzi, la giurisprudenza ha rilevato che tale necessità, per quanto riguarda il diritto di accesso di cui dispongono i consiglieri comunali, è soddisfatta dall'articolo 43, comma 2, del D.Lgs. 267/2000, laddove statuisce che i consiglieri stessi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge: «Essendo, infatti, i consiglieri tenuti al segreto nel caso di atti riguardanti la riservatezza di terzi, non sussiste, all'evidenza, alcuna ragione logica perché possa essere loro inibito l'accesso ad atti riguardanti i dati riservati di terzi»[2].
Tuttavia, come evidenziato dal Garante per la protezione dei dati personali[3], nell'ipotesi in cui l'accesso da parte dei consiglieri comunali riguardi dati sensibili, che nel caso in esame potrebbero essere contenuti nella dichiarazione ISEE, l'esercizio di tale diritto, ai sensi dell'articolo 65, comma 4, lettera b), del decreto legislativo 30.06.2003, n. 196[4], è consentito se indispensabile per lo svolgimento della funzione di controllo, di indirizzo politico e di sindacato ispettivo, restando ferma la necessità che i dati così acquisiti siano utilizzati per le sole finalità connesse all'esercizio del mandato[5]. Il Garante si è inoltre pronunciato affermando che Comune e Provincia devono permettere l'accesso ai dati effettivamente utili nel rispetto dei principi enunciati all'articolo 11, comma 1, lett. d), del decreto legislativo 196/2003, secondo il quale ciascuna amministrazione deve identificare e rendere pubblici, secondo i rispettivi ordinamenti, i dati nell'osservanza dei criteri di essenzialità, pertinenza e compatibilità con le finalità perseguite[6].
Si ritiene, pertanto, che nel caso in esame, l'Ente possa valutare, con particolare riguardo al criterio di essenzialità sopra richiamato, se consentire l'accesso alla totalità dei dati contenuti nella dichiarazione ISEE o al solo dato relativo alla fascia reddituale, in relazione all'indispensabilità di tali informazioni al fine dell'espletamento delle azioni connesse al mandato del consigliere, nonché della possibilità di sollecitare i controlli, da parte dei soggetti autorizzati, sulla veridicità di quanto contenuto nella dichiarazione stessa.
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[1] Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, decisioni 21.02.1994, n. 119, 08.09.1994, n. 976, 26.09.2000, n. 5109, che precisano che la facoltà di esaminare ed estrarre copia dei documenti da parte del consigliere spetta «a qualunque cittadino che vanti un proprio interesse qualificato e sono, a maggior ragione, contenute nella più ampia e qualificata posizione di pretesa all'informazione spettante ratione officii al consigliere comunale». Più di recente, il principio è stato ripreso e confermato dal TAR Piemonte, sezione II, nella sentenza del 31.07.2009, n. 5879.
[2] Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, decisioni 04.05.2004, n. 2716 e 28.11.2006; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 09.06.2008, n. 1688.
[3] Relazione annuale 2004 - 09.02.2005, reperibile sul sito internet del Garante.
[4] Recante 'Codice in materia di protezione dei dati personali'.
[5] Articolo 22, comma 8, del D.Lgs 196/2003.
[6] Cfr. parere del Garante per la protezione dei dati personali 08.02.2001
(23.12.2011 - link a www.regione.fvg.it).

APPALTI SERVIZIAppalto servizio fornitura pasti. Presupposti procedura negoziata ex art.57, comma 5, lett. b), D.lgs. n. 163/2006.
Nell'ambito dei contratti delle pubbliche amministrazioni, la procedura negoziata (senza previa pubblicazione di bando di gara) è un criterio di selezione dei concorrenti di tipo eccezionale, utilizzabile nei soli casi in cui la legge lo prevede, espressamente elencati all'art. 57, D.Lgs. n. 163/2006.
Con particolare riferimento all'ipotesi di cui all'art. 57, comma 5, lett. b), D.Lgs. n. 163/2006, in correlazione all'art. 23, L. n. 62/2005 (Legge comunitaria per il 2004), abrogativo dell'istituto del rinnovo dei contratti delle pubbliche amministrazioni, il Giudice amministrativo ritiene che la ripetizione dei servizi analoghi comporta un nuovo e diverso vincolo contrattuale con un diverso oggetto.
Con l'entrata in vigore della L. n. 136/2010, sono soggette all'obbligo di richiesta del CIG, per il versamento dei contributi di legge all'AVCP, tutte le fattispecie contrattuali di cui al D.Lgs. n. 163/2006. Il CIG deve essere richiesto ad ogni nuova procedura di scelta del contraente.

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 L' Ente riferisce di aver indetto, nel 2009, una gara a procedura aperta per la fornitura di pasti veicolati per il triennio 2010-2012, di cui è risultata aggiudicataria l'unica ditta partecipante, la quale tutt'ora esegue il servizio.
Chiede l'Ente se per il triennio 2013-2015 sia possibile addivenire a procedura negoziata con la suddetta ditta appaltatrice per la ripetizione del servizio alle condizioni in essere, ai sensi dell'art. 57, comma 5, lett. b), D.Lgs. n. 163/2006, espressamente richiamato nel bando originario, e se in tal caso debba procedersi con nuovo contratto, nuova acquisizione del CIG, nuovo versamento all'AVCP.
Il ricorso alla trattativa privata, senza previa pubblicazione di un bando di gara, oggi definita procedura negoziata nelle direttive comunitarie e negli atti nazionali di recepimento, è ammesso nei soli tassativi[1] casi individuati dal legislatore all'art. 57, D.Lgs. n. 163/2006, trattandosi di procedura di carattere eccezionale, in deroga all'ordinario obbligo dell'Amministrazione di individuare il privato contraente attraverso il confronto concorrenziale[2].
Seguendo l'elencazione delle ipotesi dell'art. 57 richiamato, il comma 5, lett. b), indica tra gli ulteriori casi anche quello: 'per nuovi servizi consistenti nella ripetizione di servizi analoghi già affidati all'operatore economico aggiudicatario del contratto iniziale dalla medesima stazione appaltante, a condizione che tali servizi siano conformi a un progetto di base e che tale progetto sia stato oggetto di un primo contratto aggiudicato secondo una procedura aperta o ristretta; in questa ipotesi la possibilità del ricorso alla procedura negoziata senza bando è consentita solo nei tre anni successivi alla stipulazione del contratto iniziale e deve essere indicata nel bando del contratto originario; l'importo complessivo stimato dei servizi successivi è computato per la determinazione del valore globale del contratto, ai fini delle soglie di cui all'articolo 28'.
La disposizione da ultimo richiamata ripete il contenuto dell'art. 7, comma 2, lett. f), D.Lgs. n. 157/1995[3], ora abrogato, in relazione al quale il Giudice amministrativo ha chiarito il riferimento ad una situazione di nuova e diversa aggiudicazione[4], affermando come all'intervento normativo di cui all'art. 23, L. n. 62/2005, di eliminazione della clausola dell'ordinamento che permetteva il rinnovo dei contratti[5], dovesse assegnarsi valenza generale, volta ad impedire la rinnovazione di contratti di appalto scaduti. Pertanto, era del tutto inappropriato il richiamo dell'art. 7, comma 2, lett. f), D.Lgs. n. 157/1995, per praticare il rinnovo dei contratti, riferendosi questo, invece, alla diversa ipotesi di una nuova aggiudicazione, come risultante dalla sua esplicita e testuale espressione contenuta nel primo periodo del comma 2[6].
Le stesse considerazioni valgono per il vigente art. 57, comma 5, lett. b), D.Lgs. n. 163/2006, in ordine al quale il Giudice amministrativo richiama la giurisprudenza resa con riferimento alla previgente analoga disciplina, per affermare come il ricorso ad esso non possa risolversi in uno strumento per aggirare l'ormai pacifico divieto di rinnovo[7].
Mentre il rinnovo del contratto (illegittimo), chiarisce il Giudice amministrativo, si sostanzia nella riedizione del rapporto pregresso e comporta una ripetizione delle prestazioni per una durata pari a quella originariamente fissata nel contratto che si va a rinnovare, la ripetizione di servizi analoghi, di cui all'art. 57 del Codice dei contratti postula una nuova aggiudicazione (sia pure in forma negoziata e senza previa pubblicazione di un bando) alla stregua di un progetto base e comporta un nuovo e diverso vincolo contrattuale, con un diverso oggetto[8].
Dal punto di vista letterale, osserva, ancora, il Giudice amministrativo, l'art. 57 del codice dei contratti ha come oggetto una nuova aggiudicazione di 'nuovi servizi': si tratta, appunto, di servizi del cui bisogno al momento dell'indizione della gara originaria non vi è certezza, essendo lo stesso, in quel momento, eventuale e di cui solo successivamente può sorgere la necessità. È per questo che la stazione appaltante, pur prendendoli in considerazione nel bando, non li assegna all'esito della corrispondente procedura concorsuale, ma si riserva la facoltà di farlo nel triennio dalla stipula del contratto[9].
Venendo al caso di specie, sembrano mancare, invero, i presupposti legittimanti la fattispecie di cui all'art. 57, comma 5, lett. b), D.Lgs. n. 163/2006. In particolare, la ripetizione di nuovi servizi analoghi comporta un nuovo e diverso vincolo contrattuale con un diverso oggetto, mentre l'ente ipotizza la procedura negoziata per la ripetizione, per un successivo triennio, del medesimo servizio di fornitura di pasti veicolati, alle condizioni in essere.
Appare, dunque, opportuna, nel caso prospettato dall'Ente, l'indizione di una nuova procedura di gara, a garanzia dei principi di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, imparzialità e buon andamento[10].
Per quanto concerne l'aspetto contributivo, con l'entrata in vigore della Legge 13.08.2010, n. 136, come modificata dal D.L. n. 187/2010, sono soggette all'obbligo di richiesta del CIG (codice di identificazione della procedura di scelta del contraente), per il versamento dei contributi di legge[11] all'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (AVCP), tutte le fattispecie contrattuali di cui al D.Lgs. n. 163/2006. Il responsabile del procedimento della stazione appaltante provvederà ai necessari adempimenti per l'acquisizione del CIG e per il pagamento della contribuzione per ogni nuova procedura di scelta del contraente che dà vita, sia essa la gara, sia essa la procedura negoziata (laddove consentita, nel rispetto delle condizioni di legge) ad una nuova aggiudicazione con un nuovo e diverso contratto.
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[1] Cfr. TAR Lazio, Roma, n. 4924/2008, che richiama il pronunciamento della Corte di Giustizia CE, sz. II, n. 187/2005, con cui il Giudice comunitario ha avuto modo di ribadire che il ricorso alla procedura negoziata senza pubblicazione preliminare di un bando di gara è ammesso solo nei casi tassativamente elencati dalle direttive adottate in materia di procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici. La normativa nazionale, osserva il TAR Lazio, ha dunque ritenuto di adeguarsi, in recepimento delle direttive comunitarie, prevedendo anche tale strumento operativo, purché contenuto nell'ambito indicato.
[2] Tra le tante, TAR Piemonte, n. 803/2011; TAR Lazio, Roma, n. 4924/2008.
[3] Si riporta il testo dell'art. 7, comma 2, lett. f), D.Lgs. n. 157/1995, oggi abrogato e confluito nell'art. 57, comma 5, lett. b), D.lgs. n. 163/2006: 'Comma 2. Gli appalti del presente decreto possono essere aggiudicati a trattativa privata, senza preliminare pubblicazione di un bando di gara:
f) per nuovi servizi consistenti nella ripetizione di servizi analoghi già affidati allo stesso prestatore di servizi mediante un precedente appalto aggiudicato dalla stessa amministrazione, purché tali servizi siano conformi a un progetto di base per il quale sia stato aggiudicato un primo appalto conformemente alle procedure di cui al comma 3; in questo caso il ricorso alla trattativa privata, ammesso solo nei tre anni successivi alla conclusione dell'appalto iniziale, deve essere indicato in occasione del primo appalto e il costo complessivo stimato dei servizi successivi è preso in considerazione dall'amministrazione aggiudicatrice per la determinazione del valore globale dell'appalto'.
[4] CdS, sez. IV, n. 6426/2006; nello stesso senso, CdS, sez. VI, n. 6457/2006.
[5] Il riferimento è all'art. 6, comma 2, ultimo periodo, L. n. 537/1993, (articolo oggi abrogato dal D.Lgs. n. 163/2006), che ammetteva, a determinate condizioni, la possibilità di rinnovare i contratti delle pubbliche amministrazioni, entro i tre mesi prima della loro scadenza, e di cui si riporta il testo: 'È vietato il rinnovo tacito dei contratti delle pubbliche amministrazioni per la fornitura di beni e servizi, ivi compresi quelli affidati in concessione a soggetti iscritti in appositi albi. I contratti stipulati in violazione del predetto divieto sono nulli. Entro tre mesi dalla scadenza dei contratti, le amministrazioni accertano la sussistenza di ragioni di convenienza e di pubblico interesse per la rinnovazione dei contratti medesimi e, ove verificata detta sussistenza, comunicano al contraente la volontà di procedere alla rinnovazione'.
[6] CdS, sez. IV, n. 6426/2006. il Giudice amministrativo evidenzia come in conseguenza dell'intervento normativo dell'art. 23, L. n. 62/20005, non è, altresì, possibile la previsione del rinnovo nel bando di gara e nel successivo contratto, posto che la natura imperativa ed inderogabile della sopravvenuta disposizione legislativa che introduce un divieto generalizzato di rinnovazione dei contratti delle pubbliche amministrazioni implica la sopravvenuta inefficacia delle previsioni, amministrative e contrattuali, configgenti con il nuovo e vincolante principio, che non tollera la sopravvivenza dell'efficacia di difformi clausole negoziali.
[7] Cfr. CdS, sez. V, n. 2882/2009; TAR Lazio, Roma, n. 3546/2008; TAR Lazio, Roma, n. 4924/2008.
[8] CdS n. 2882/2009. La ripetizione dei servizi analoghi comporta un nuovo e diverso vincolo contrattuale, come a tacer d'altro si ricava dal dato che la ripetizione può aver luogo solo nel triennio successivo alla stipula dell'appalto iniziale (vale a dire persino in pendenza del contratto originario, il quale può generalmente durare fino a 48 mesi).
[9] CdS n. 2882/2009. L'art. 57 del Codice dei contratti non fonda una nuova ipotesi di generale rinnovabilità dei contratti di servizi consistente nella ripetizione di servizi analoghi a quelli affidati all'esito di una gara, ma si riferisce soltanto ad eventuali esigenze di servizi analoghi sopravvenute nel triennio successivo alla stipula del contratto.
[10] TAR Lazio, Roma, n. 3546/2008; TAR Lazio, Roma, n. 4924/2008.
[11] L'art. 1, comma 67, L. n. 266/2005, dispone che l'Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, ai fini della copertura dei costi relativi al proprio funzionamento, determina annualmente l'ammontare delle contribuzioni dovute dai soggetti, pubblici e privati, sottoposti alla sua vigilanza, nonché le relative modalità di riscossione. Con deliberazione del 03.11.2010, l'Autorità per la vigilanza ha stabilito le modalità e l'entità secondo cui è dovuto il versamento dei contributi per l'anno 2011
(23.12.2011 - link a www.regione.fvg.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALIDeliberazione su questioni non inserite all'ordine del giorno.
1) L'ordine del giorno, previamente comunicato a tutti i componenti il consiglio comunale, può essere modificato, con l'aggiunta di un nuovo argomento, solo se tutti i componenti del collegio sono presenti e accettano tale modifica.
2) La deliberazione, eventualmente assunta in un consiglio comunale in cui sia stato assente qualche componente, su un argomento non previamente inserito all'ordine del giorno, è impugnabile da parte del consigliere assente, in quanto affetta da un vizio interno al procedimento.
3) Il consigliere assente alla seduta consiliare può prestare acquiescenza alla deliberazione già adottata, qualora la stessa sia resa in maniera libera e inequivocabilmente diretta a non più contestare l'assetto di interessi definito attraverso gli atti oggetto di impugnazione.

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Il Comune chiede di conoscere un parere in merito alla possibilità, da parte del consiglio comunale, di deliberare, nel corso della seduta, su questioni non previamente inserite all'ordine del giorno.
Più in particolare, desidera sapere se sia sufficiente che i consiglieri presenti alla seduta esprimano, unanimamente, il loro consenso alla trattazione dell'argomento non inserito all'ordine del giorno o se, tale unanimità, vada riferita alla totalità dei componenti il consiglio comunale di guisa tale che l'assenza anche di un solo consigliere impedirebbe la legittima trattazione della questione non previamente inserita all'ordine del giorno. In subordine, desidera sapere se, in caso di avvenuta deliberazione su una questione non inserita all'ordine del giorno, in una seduta in cui la presenza dei componenti del consiglio non sia stata totalitaria, sia possibile da parte del consigliere assente, prestare acquiescenza alla delibera già approvata.
Sentito il Servizio elettorale, si formulano le seguenti considerazioni.
È principio di ordine generale, comune alla disciplina di tutti gli organi collegiali, che un collegio non può deliberare validamente se non sugli argomenti iscritti all'ordine del giorno, preventivamente comunicato a tutti i componenti. La regolare formulazione dell'ordine del giorno risponde all'esigenza di assicurare a ciascun componente del collegio il consapevole esercizio del suo ufficio,[1] in particolare consentendo loro di conoscere in anticipo gli argomenti sui quali dovrà deliberare, nel nostro caso, il consiglio comunale. Ciò al fine sia di consentire la loro partecipazione ed informazione sia di evitare che sia sorpresa la buona fede degli assenti a seguito di deliberazione su materie non incluse nell'ordine del giorno.[2]
Ciò premesso, segue che l'ordine del giorno, previamente comunicato a tutti i componenti il consiglio comunale, potrà essere modificato, con l'aggiunta di un nuovo argomento, solo se tutti i componenti del collegio sono presenti e accettano tale modifica. Un tanto è stato confermato, in diverse occasioni, dalla giurisprudenza la quale ha, tra l'altro, affermato che: 'L'omissione dell'ordine del giorno può assumere rilievo se e quando i componenti dell'organo (o taluno di essi) eccepiscano di non essere sufficientemente informati e di opporsi a che uno o più argomenti vengano posti in trattazione'.[3] Un tanto a conferma del fatto che l'unanimità alla trattazione di un argomento non previamente inserito nell'ordine del giorno va riferita ai componenti dell'organo e non ai presenti ad una determinata seduta.[4]
In caso contrario, la deliberazione, eventualmente assunta in un consiglio comunale in cui sia stato assente qualche componente, su un argomento non previamente inserito all'ordine del giorno, sarebbe impugnabile da parte del consigliere assente,[5] in quanto affetta da un vizio interno al procedimento che ben può essere fatto valere dal singolo membro dell'organo collegiale. Si ricorda, al riguardo, che: 'Le deliberazioni di organi collegiali sono il prodotto di subprocedimenti che hanno inizio con l'avviso di convocazione, si sviluppano con la discussione dell'ordine del giorno e le votazioni e si concludono con la proclamazione dei risultati. Per tali fasi procedimentali le persone che compongono l'organo sono titolari e destinatarie di situazioni soggettive giuridicamente rilevanti rispetto all'Ente di appartenenza, per cui l'eventuale illegittimità degli atti interni al procedimento ben può essere fatta valere dai singoli membri; essa, qualora giudicata sussistente, comporta ovviamente il travolgimento della delibera adottata'.[6]
Significativa è anche la sentenza del supremo giudice amministrativo nella quale si legge che: 'I consiglieri comunali dissenzienti non hanno un interesse protetto e differenziato all'impugnazione delle deliberazioni dell'organismo del quale fanno parte, salvo il caso in cui venga lesa in modo diretto ed immediato la propria sfera giuridica per effetto di atti, direttamente incidenti sul diritto all'ufficio o sullo status ad essi spettante della carica di consigliere, che compromettano il corretto esercizio del loro mandato, come nel caso di erronee modalità di convocazione dell'organo, della violazione dell'ordine del giorno, [...] e, più in generale, per tutte quelle circostanze che precludano in tutto o in parte l'esercizio delle funzioni relative all'incarico rivestito[...]'.[7]
Né, in tali casi, è ammissibile la c.d. prova di resistenza[8] 'atteso che l'iscrizione all'ordine del giorno è imposta non solo nell'interesse di ogni singolo componente del collegio e a tutela dei suoi diritti, ma anche nell'interesse pubblico all'apporto decisionale di tutti i componenti'.[9]
Quanto all'ultima questione posta, ovvero se il consigliere assente alla seduta consiliare possa prestare acquiescenza alla deliberazione già adottata, si fornisce risposta positiva, qualora la stessa sia resa in maniera libera e inequivocabilmente diretta a non più contestare l'assetto di interessi definito attraverso gli atti oggetto di impugnazione.[10]
Si ricorda, al riguardo, che: 'L'acquiescenza, intesa come accettazione espressa o tacita del provvedimento amministrativo lesivo -quale istituto di diritto sostanziale, procedimentale e processuale (ad esempio, determinante l'estinzione del potere di azione, con conseguente inammissibilità del ricorso giurisdizionale proposto avverso il provvedimento medesimo)- si configura solo in presenza di una condotta da parte dell'avente titolo all'impugnazione che sia libera e inequivocabilmente diretta a non più contestare l'assetto di interessi definito dall'Amministrazione attraverso gli atti oggetto di impugnazione. In quanto incidente sul fondamentale diritto di agire in giudizio, l'accertamento in ordine all'avvenuta accettazione del contenuto e degli effetti di un provvedimento lesivo deve essere accurato ed esauriente e svolgersi su tutti i dati fattuali, da cui deve risultare senza alcuna incertezza la presenza di una chiara intenzione definitiva di non rimettere in discussione l'atto lesivo'.[11]
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[1] Così TAR Sardegna, Cagliari, sez. I, sentenza del 06.12.2005.
[2] Così Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza del 01.02.2007, n. 416.
[3] Così Consiglio di Giustizia Amministrativa Sicilia, sez. giurisd., sentenza del 07.05.1993.
[4] Si veda, anche, TAR Abruzzo, Pescara, sentenza del 27.03.1991, ai sensi della quale: 'Ai fini della legittimità delle deliberazioni di organi collegiali non hanno rilevanza le modalità di convocazione e la mancata preventiva comunicazione dell'ordine del giorno quando alla seduta abbiano partecipato tutti i componenti dell'organo e non vi siano stati dissensi sulla deliberazione adottata'.
[5] Si tratterebbe di un vizio comportante l'annullabilità della deliberazione adottata.
[6] TAR Campania, Napoli, sez. I, sentenza del 07.07.2005.
[7] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 24.03.2011.
[8] Con tale espressione ci si riferisce al fatto che una deliberazione non può essere annullata qualora superi la c.d. prova di resistenza, ossia qualora la maggioranza prescritta sarebbe stata comunque raggiunta, a prescindere dal voto espresso dal soggetto impugnante.
[9] TAR Umbria, Perugia, sez. I, sentenza del 09.12.2008.
[10] Si cita, al riguardo, la sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, del 31.10.2011, n. 5815, la quale afferma che: 'L'intenzione di prestare acquiescenza ad un atto amministrativo deve risultare in modo chiaro ed irrefutabile dal compimento di atti ovvero da comportamenti assolutamente inconciliabili con una volontà del tutto diversa'.
[11] TAR Veneto, Venezia, sez. II, sentenza del 23.02.2011, n. 305. Nello stesso senso, tra le altre, lo stesso TAR, sez. II, sentenza del 22.04.2011, n. 671
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ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALIPoteri del Sindaco in materia di sicurezza igienico-sanitaria.
La regolamentazione delle attività di manutenzione delle aree adibite a verde insite sul proprio territorio può essere assunta dal comune nell'ambito delle normali funzioni concernenti lo sviluppo economico e sociale, nonché il governo del territorio, allo stesso assegnate dalla legge.
Qualora tale regolamentazione non sia stata codificata, il potere del comune di richiedere l'immediato sfalcio di un terreno può essere ricompreso, qualora ne sussistano i presupposti, tra le situazioni previste dalla legge per l'emanazione di ordinanze contingibili ed urgenti.

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Il Comune riferisce che, nell'adiacenza di un parco giochi situato accanto al palazzo municipale, insiste un terreno privato non sfalciato da circa due anni. Tale stato di abbandono avrebbe portato al proliferare di zecche, serpenti ed altri rettili che potrebbero facilmente raggiungere il parco giochi frequentato da bambini.
L'Ente chiede di sapere se, a fronte di questa situazione, il Sindaco, in qualità di ufficiale sanitario comunale, possa emettere un'ordinanza volta ad obbligare il proprietario a sfalciare detto terreno. Domanda, inoltre, quali sarebbero le conseguenze in caso di mancato ottemperamento all'ordine.
Rinviando in via preliminare alle lettura dei pareri in materia di ordinanze sindacali precedentemente espressi da questo Ufficio[1], si espone quanto segue.
La regolamentazione delle attività di manutenzione delle aree adibite a verde insite sul proprio territorio può essere assunta dal Comune nell'ambito delle normali funzioni concernenti lo sviluppo economico e sociale, nonché il governo del territorio, allo stesso assegnate dalla legge[2].
In tale contesto, l'Ente può stabilire, per ragioni di sicurezza, igiene e decoro, l'obbligo, in capo ai proprietari o altri aventi titolo su detti terreni, di effettuare lo sfalcio periodico dell'erba. All'eventuale violazione di tale generica prescrizione, il Comune potrà, previa specifica diffida ad adempiere, comminare una determinata sanzione amministrativa e procedere all'esecuzione d'ufficio del provvedimento con spese a carico del cittadino inadempiente[3].
Qualora tale regolamentazione non sia stata codificata, come pare nel caso de quo, il potere del Comune di richiedere l'immediato sfalcio di un terreno può essere ricompreso tra le situazioni previste dalla legge per l'emanazione di ordinanze contingibili ed urgenti.
L'art. 54, comma 4, del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 (TUEL), attribuisce al sindaco, quale ufficiale di Governo, il potere di adottare provvedimenti, contingibili ed urgenti, nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento, al fine di eliminare e di prevenire gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana.
L'art. 50, comma 5, del TUEL, stabilisce, inoltre, il potere del sindaco, quale rappresentante della comunità locale, di adottare ordinanze contingibili ed urgenti in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica, riprendendo quanto previsto dal legislatore con l'art. 32 della legge 23.12.1978, n. 833 e con l'art. 117 del D.Lgs. 31.03.1998, n. 112.
Pur non potendo entrare nel merito di decisioni di stretta competenza dell'Ente, pare che, tra gli elementi di fatto esposti dal Comune, si possa considerare integrato il requisito del 'grave pericolo', richiesto dalla legge, nella possibilità di morso e di contagio da parte di zecche e rettili ai danni dei bambini frequentanti il parco pubblico.
L'Ente dovrà, quindi, valutare, ai fini del legittimo ricorso allo strumento dell'ordinanza sindacale, se siano integrati anche i presupposti dell'urgenza e della contingibilità[4], con riferimento al momento in cui tale provvedimento sarà preso[5].
Riguardo alle conseguenze dell'eventuale mancato adempimento dell'ordine impartito dal Sindaco con l'ordinanza contingibile ed urgente, il proprietario del terreno dovrà essere contestualmente avvisato che potrà:
- essere denunciato all'autorità giudiziaria per violazione dell'art. 650 del Codice penale[6];
- essere obbligato al pagamento delle spese per lo sfalcio dell'erba operato dal Comune in sua vece[7] ai sensi dell'art. 54, comma 7, del TUEL[8].
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[1] V. pareri prot. 32283 dd. 13.09.2011; 2279 dd. 18.02.2010; 3624 dd. 04.03.2010; 11967 dd. 27.07.2009; 4683 dd. 11.03.2008, consultabili sul Portale del Sistema delle autonomie locali all'indirizzo: http://autonomielocali.regione.fvg.it/aall/opencms/AALL/Servizi/pareri/
[2] V. art. 16 della legge regionale 09.01.2006, n. 1.
[3] V. parere dell'Anci dd. 09.05.2000.
[4] Per urgenza, si deve intendere l'impossibilità di differire l'intervento ad altra data, in relazione alla ragionevole previsione di danno incombente, mentre, per contingibilità, l'impossibilità di provvedere con gli ordinari mezzi offerti dalla legislazione.
[5] V. Consiglio di Stato, sez. V, 11.12.2007, n. 6366: 'il potere di urgenza può essere esercitato solo per affrontare situazioni di carattere eccezionale ed impreviste, costituenti concreta minaccia per la pubblica incolumità, per le quali sia impossibile utilizzare i normali mezzi apprestati dall'ordinamento giuridico e unicamente in presenza di un preventivo accertamento della situazione che deve fondarsi su prove concrete e non su mere presunzioni'.
[6] Art. 650 del Codice penale: 'Chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall'autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica o d'ordine pubblico o d'igiene, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l'arresto fino a tre mesi o con l'ammenda fino a euro 206'.
[7] V. parere dell'Anci dd. 09.09.2009 in cui si ritiene che, per questi atti, sia d'obbligo avvertire preventivamente l'interessato e che, qualora quest'ultimo si opponga all'intervento, il comune, a seguito della denuncia ex art. 650 C.P., potrà chiedere l'intervento dell'autorità giudiziaria.
[8] Art. 54, comma 7, del TUEL: 'Se l'ordinanza adottata ai sensi del comma 4 è rivolta a persone determinate e queste non ottemperano all'ordine impartito, il sindaco può provvedere d'ufficio a spese degli interessati, senza pregiudizio dell'azione penale per i reati in cui siano incorsi'
(22.11.2011 - link a www.regione.fvg.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAccesso agli atti connessi ad un procedimento in fase istruttoria presso altra amministrazione.
Qualora la richiesta di accesso agli atti concerna un procedimento ormai concluso, la pendenza presso altra amministrazione di un procedimento cui afferiscono i medesimi atti non esime l'ente dal consentire l'accesso, una volta appurato che al richiedente possa venire riconosciuta la qualifica di soggetto 'interessato' e che gli atti ai quali viene richiesto l'accesso non rientrino tra quelli esclusi ai sensi dell'articolo 24, l. 241/1990.
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Il Comune chiede di conoscere se possa essere riconosciuto ad un cittadino l'accesso agli atti relativi al procedimento di rilascio di autorizzazione paesaggistica (relazione paesaggistica, copia elaborati, elenco documentazione trasmessa a soprintendenza per il rilascio del nulla-osta, etc), resa dall'ente al vicino di casa per l'installazione di pannelli solari, atteso che quest'ultimo, interpellato dal Comune, ha opposto diniego motivato, tra l'altro, dalla pendenza presso l'Amministrazione regionale di un procedimento inerente alla verifica del deposito dei calcoli di cemento armato comportante, a suo dire, il segreto istruttorio sugli atti per i quali è richiesto l'accesso.
Esaminato il quadro normativo di riferimento, si formulano le seguenti considerazioni.
L'articolo 22, comma 1, della legge 07.08.1990, n. 241, dispone:
- sub lettera a) che per 'diritto di accesso' si intende il 'diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi';
- sub lettera b) che per 'interessati' debbano intendersi 'tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso';
- sub lettera d) che per 'documento amministrativo' debba intendersi 'ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico provvedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale'.
Il comma 2 del medesimo articolo, inoltre, chiarisce che l'accesso ai documenti amministrativi costituisce principio generale dell'attività amministrativa con lo scopo di assicurarne l'imparzialità e la trasparenza e, il successivo comma 3, precisa che 'Tutti i documenti amministrativi sono accessibili, ad eccezione di quelli indicati all'articolo 24, commi 1, 2, 3, 5 e 6.'.
Quanto alle modalità di esercizio del diritto di accesso, il successivo articolo 25, comma 2, della legge n. 241/1990 dispone che la richiesta sia motivata e che contenga, quindi, gli elementi idonei ad identificare l'interesse o gli interessi che si intendono tutelare[1] in modo da dimostrare la correlazione esistente tra la situazione giuridica soggettiva dell'instante e l'interesse alla conoscenza del bene o della vicenda oggetto dell'atto o del documento amministrativo di cui chiede visione o copia.[2]
La legittimazione all'accesso viene, quindi, riconosciuta dalla legge a chiunque dimostri che gli atti procedimentali oggetto dell'accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica, stante l'autonomia del diritto di accesso, inteso come interesse a un bene della vita.
Nel caso in esame, concernente un procedimento ormai concluso in esito al quale è stata rilasciata l'autorizzazione paesaggistica richiesta, una volta appurato che al richiedente possa venire riconosciuta la qualifica di soggetto 'interessato' nei termini sopra riportati e che gli atti ai quali viene richiesto l'accesso non rientrino tra quelli esclusi ai sensi del summenzionato articolo 24[3] [4], l. 241/1990 il Comune dovrà aderire alla richiesta consentendo l'accesso.
Quanto alle obiezioni del controinteressato, si rileva come le stesse non sembrino pertinenti alla richiesta di accesso presentata dall'interessato, atteso che si riferiscono a diverso ed autonomo procedimento pendente presso altra amministrazione.
Per completezza espositiva, non riguardando il caso in esame, con riferimento all'esercizio del diritto di accesso in fase endoprocedimentale, si rimanda alla lettura del parere prot. 8660 dd. 21.05.2010, reso dallo scrivente Servizio, in cui si osserva come l'accesso debba essere consentito, sulla base dei presupposti precedentemente illustrati, indipendentemente dalla fase del procedimento cui gli atti, per i quali l'accesso è richiesto, afferiscono[5]. Un tanto sembra confermato, anche se indirettamente, dal D.P.R. 12.04.2006, n. 184 (Regolamento recante la disciplina in materia di accesso ai documenti amministrativi) il quale, all'articolo 2, comma 2, collega l'esercizio del diritto di accesso ai requisiti dell'effettiva esistenza e della detenzione da parte dell'Amministrazione dei documenti richiesti, senza riferimento alcuno alla fase del procedimento. La giurisprudenza amministrativa, inoltre, si è più volte espressa in tal senso [6] confermando che la mancata conclusione del procedimento non può ostare, ex sé, all'accoglimento di una richiesta d'accesso.
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[1] Cfr. Consiglio di Stato, Sezione IV, 13.01.2010, n. 54.
[2] Cfr. Consiglio di Stato, Sezione VI, 09.08.2011, n. 4741, secondo cui 'La situazione giuridicamente rilevante disciplinata dalla legge 07.08.1990, n. 241, per la cui tutela è attribuito il diritto di accesso ai documenti amministrativi, è nozione diversa e più ampia rispetto all'interesse all'impugnativa e non presuppone necessariamente una posizione soggettiva qualificabile in termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo. Con la conseguenza che la legittimazione all'accesso va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti procedimentali oggetto dell'accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica, stante l'autonomia del diritto di accesso, inteso come interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla situazione legittimante all'impugnativa dell'atto».
[3] L'art. 24, l. 241/1990, cui si rimanda, fornisce, al comma 1, un'elencazione dei documenti sottratti all'accesso per la salvaguardia di interessi pubblici ritenuti prioritari rispetto a quello del richiedente alla conoscenza, ribadendo, al comma 7, che 'Deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici [...].
[4] Cfr. Consiglio di Stato, Sezione IV, 03-08-2011, n. 4661 secondo cui 'L'interesse all'accesso ai documenti amministrativi -previsto dall'art. 22 della legge n.241/90- è da considerarsi prevalente rispetto agli altri interessi coinvolti in subjecta materia con la conseguenza che il diniego opposto in ordine alla richiesta di conoscenza ed ostensibilità dei documenti detenuti dalla P.A. costituisce una vera e propria eccezione derogatoria abbisognevole, come tale, di una espressa previsione normativa contemplante l'esclusione dell'accesso stesso. Il legislatore della legge n. 241/90 si è fatto carico di prevedere (art. 24, comma 6, lett. d) che i casi di esclusione siano contemplati dai regolamenti di cui le singole Amministrazioni possono dotarsi ai sensi della suindicata norma (art. 24, comma 2).'.
[5] Cfr. T.A.R. Lazio Roma Sezione I, 20.03.2006, n. 1994 secondo cui 'Il diritto di accesso non può essere escluso per il fatto che il procedimento non si è ancora concluso o i documenti non risultano ancora recepiti in atti aventi rilevanza esterna. Se l'art. 22 della legge n. 241/1990 dà espressamente atto dell'accessibilità a "tutti i documenti amministrativi", il precedente art. 10 garantisce l'accesso come strumento essenziale per la partecipazione degli interessati al procedimento, anche prima, dunque, della sua conclusione.'.
[6] Cfr. TAR Lombardia, Sezione I, 22.06.2011, n. 1621 secondo cui 'Le eventuali ragioni che ostacolino l'immediata conoscibilità degli atti di un procedimento in itinere, oggetto della richiesta di accesso, non possono giustificare un provvedimento di diniego, dovendosi in tale ipotesi adottare una determinazione di differimento [...]'
(11.11.2011 - link a www.regione.fvg.it).

LAVORI PUBBLICIPavimentazione di marciapiedi comprendenti porzioni di suolo privato.
Non risulta possibile eseguire la pavimentazione di marciapiedi comprendenti porzioni di suolo privato senza procedere alla preventiva acquisizione di tali beni, atteso che l'intervento comunale si tradurrebbe -con riferimento a dette porzioni- in un'indebita spesa pubblica.
Inoltre, l'assenza del titolo non consentirebbe, al Comune, di provvedere alla manutenzione dei predetti tratti di marciapiede.

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 Il Comune rappresenta che:
· negli anni 1970-1980 ha posto in opera le cordonate stradali lungo alcune strade comunali, ma non ha ancora provveduto alla pavimentazione dei marciapiedi;
· lo spazio sterrato utilizzato quale marciapiede è compreso tra le predette cordonate ed i recinti privati, alcuni dei quali, però, sono stati costruiti in arretramento rispetto al confine di proprietà;
· non risulta evidente, in loco, quale sia il limite tra proprietà pubblica e proprietà privata[1], cosicché la collettività utilizza lo spazio nella sua totalità;
· l'Amministrazione comunale intende procedere alla pavimentazione anche dei predetti spazi sterrati, al fine di renderli più decorosi, sicuri e conformi alla norme sul superamento delle barriere architettoniche.
Pur avendo già fatto ricorso, in altre circostanze, alla procedura semplificata per l'accorpamento al demanio stradale delle porzioni di terreno utilizzate ad uso pubblico, prevista dall'art. 31, commi 21 e 22, della legge 23.12.1998, n. 448, il Comune chiede di conoscere se possa eseguire la pavimentazione suddetta, che insisterebbe anche su porzioni di suolo privato utilizzate da illo tempore quale viabilità pedonale pubblica, senza dover procedere alla preventiva acquisizione di tali porzioni e, conseguentemente, al frazionamento catastale, in quanto questo risulterebbe oneroso per l'Amministrazione e materialmente difficoltoso.
Al quesito si ritiene di dover fornire risposta negativa, atteso che, pur risultando necessario provvedere all'integrale pavimentazione dei marciapiedi, in relazione alle preminenti necessità di garantire la sicurezza degli utenti e di provvedere al superamento delle barriere architettoniche, l'intervento comunale non preceduto dall'acquisizione delle aree si tradurrebbe -quanto alla porzione di opera ricadente sul suolo privato- in un'indebita spesa pubblica, alla quale potrebbero far seguito ulteriori esborsi a carico del bilancio dell'Ente, anche a seguito dell'instaurazione di possibili contenziosi, sia da parte dei soggetti catastalmente titolari della proprietà, quanto dei pedoni che ritengano di vantare indennizzi per lesioni subite in tali tratti privati (ma apparentemente di proprietà pubblica).
Inoltre, l'assenza del titolo non consentirebbe, all'Ente, di provvedere alla manutenzione dei predetti tratti di marciapiede.
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[1] Mentre esso risulta rilevabile dai rilievi catastali eseguiti dal Comune (19.08.2011 - link a www.regione.fvg.it).

LAVORI PUBBLICIIndennizzo ai commercianti per mancati guadagni derivanti da lavori pubblici.
E' legittima l'erogazione di un indennizzo, da parte del comune, ai commercianti che possono provare di aver subito un pregiudizio di tipo economico dal perdurare di lavori pubblici oltre il termine fissato per la loro conclusione.
L'ente è tenuto a regolamentare i criteri e le modalità di ripartizione dei vantaggi economici prima di procedere all'erogazione degli stessi.

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Il Comune ha chiesto un parere sulla legittimità della richiesta di risarcimento, da parte di alcuni esercizi commerciali, per i mancati introiti derivanti dal perdurare di lavori pubblici. Riferisce l'ente che l'amministrazione sta procedendo ad una sistemazione straordinaria di alcune delle principali vie del paese, e che, per consentire l'esecuzione dei lavori, la viabilità è stata modificata in modo da garantire l'accesso alle strade interessate dagli interventi ai soli frontisti. Precisa, infine, che per la loro complessità, i lavori hanno superato i tempi preventivati.
Si osserva in via preliminare, che ai sensi della legge regionale 09.01.2006, n. 1, art. 16, 'Il Comune è titolare di tutte le funzioni amministrative che riguardano i servizi alla persona, lo sviluppo economico e sociale e il governo del territorio comunale (...)'. Pertanto, nell'ambito della propria autonomia organizzatoria, il comune può programmare misure rivolte a singoli settori di intervento, purché riguardino la propria comunità[1].
Con riferimento alla natura degli interventi eseguiti dall'ente, si richiama un parere dell'ANCI[2] in cui emerge che: 'i cantieri gestiti dalle amministrazioni e le conseguenti limitazioni alla viabilità, se eseguite in conformità alle leggi vigenti, sono senz'altro atti leciti. (...) L'atto lecito, in quanto tale, è privo della qualificazione di antigiuridicità pertanto solo eccezionalmente l'atto lecito dannoso dà diritto ad un indennizzo, e mai ad un risarcimento del danno (ossia ad un integrale ristoro del pregiudizio arrecato).'
Nella scelta della modalità di indennizzo[3], e nella quantificazione dello stesso, il comune è libero di optare fra varie possibilità[4], ma sempre nel rispetto di quanto stabilito dall'articolo 12 della legge 07.08.1990, n. 241[5].
Da ultimo, si richiama l'attenzione sulla possibilità, per l'amministrazione, di esercitare azione di rivalsa sull'impresa contrattualmente inadempiente per non aver concluso le opere entro il termine concordato.
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[1] Si veda il parere prot. 4809 del 26.03.2009, reperibile sul sito: www.autonomielocali.regione.fvg.it
[2] Parere del 03.11.2009, nel quale l'ANCI ritiene che ai commercianti possa essere riconosciuto un adeguato ristoro solo se non sono rispettati i termini stabiliti di conclusione dei lavori e se i commercianti sono in grado di dimostrare concretamente di aver subito un pregiudizio a causa del ritardo con cui è stata ultimata l'opera.
[3] L'articolo 39 della legge regionale 20.03.2000, n. 7, il quale trova applicazione anche per gli enti locali, secondo i rispettivi ordinamenti, stabilisce che: 'Gli incentivi alle imprese sono concessi in forma di contributo in conto capitale, contributo in conto interessi, finanziamento agevolato, concessione di garanzia'.
[4] A titolo esemplificativo, si segnala l'iniziativa intrapresa dal Comune di Tivoli (Roma), intervenuto a regolamentare la materia, prevedendo un contributo per commercianti e artigiani sulla base di un apposito fondo iscritto a bilancio. Il regolamento e il bando sono consultabili su internet alla pagina: www.comune.tivoli.rm.it/contributo_commercianti
[5] Recita il comma 1 dell'articolo 12 della l. 241/1990: 'La concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione ed alla pubblicazione, da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi'
(16.08.2011 - link a www.regione.fvg.it).

INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: Conferimento incarico collaudatore opere pubbliche libero professionista ex dipendente.
Ai sensi della normativa vigente, gli incarichi in materia di realizzazione di opere pubbliche possono essere conferiti a liberi professionisti ex dipendenti, qualora il collocamento a riposo sia avvenuto d'ufficio, non anche nel caso di dimissioni volontarie, per cui vige un espresso divieto.
La pubblica amministrazione non può affidare un incarico ad un soggetto esterno se non si è prima dotata di un apposito regolamento con il quale disciplinare e rendere pubbliche le procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione.

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L'Ente riferisce di aver conferito, nel corso dell'anno 2010, un incarico di collaudatore statico in corso di opera ad un proprio dipendente, responsabile dell'ufficio tecnico, ai sensi dell'art. 9, comma 1, L.R. n. 14/2002, 'Disciplina organica dei lavori pubblici', e di essere intenzionato a rivolgersi ancora, per la prosecuzione dell'incarico, al tecnico in questione, in qualità di libero professionista, in quanto attualmente in quiescenza per anzianità di servizio.
Preliminarmente, si rende noto che lo scrivente Ufficio ha già avuto modo di esprimersi, di recente, con nota n. 23585 del 28.06.2011[1], sul conferimento degli incarichi a personale già dipendente delle amministrazioni, facendo riferimento alla disciplina di cui all'articolo 25, L. n. 724/1994 (Legge Finanziaria 1995), tutt'ora in vigore, in quanto non abrogato o modificato dalle disposizioni legislative intervenute successivamente[2].
Detta norma, al fine di garantire la piena ed effettiva trasparenza e imparzialità dell'azione amministrativa, prevede che gli incarichi di consulenza, collaborazione, studio e ricerca non possano essere conferiti al personale dipendente delle amministrazioni pubbliche, che sia cessato volontariamente dal servizio, pur non avendo il requisito previsto per il pensionamento di vecchiaia, ma in presenza di quello contributivo per la pensione anticipata di anzianità, da parte dell'amministrazione di provenienza o di amministrazioni con le quali detto personale abbia avuto rapporti di lavoro o impiego nei cinque anni precedenti a quello della cessazione dal servizio.
Come già osservato nella nota richiamata, anche alla luce delle precisazioni fornite, in altra occasione, dal Dipartimento della funzione pubblica, la disposizione della legge finanziaria del 1995 riguarda l'ipotesi in cui il collocamento a riposo sia avvenuto per dimissioni volontarie (pensione anticipata di anzianità), non ponendo invece impedimenti al conferimento degli incarichi di consulenza in caso di collocamento a riposo d'ufficio, per limiti di età o contributivi.
Si è, inoltre, evidenziata la duplice ratio della norma in argomento, quale individuata dalla Corte dei Conti: la salvaguardia della imparzialità e trasparenza nel conferimento degli incarichi, atteso che è proprio nei particolari casi di ex dipendenti dell'amministrazione che tali esigenze si pongono in modo più pressante, da una parte; la finalità di garantire risparmi di spesa, impedendo il cumulo tra pensione e retribuzione, dall'altra[3].
Anche la Corte Costituzionale ha rilevato come il divieto di cui all'art. 25, L. n. 724/1994, 'tende ad arginare il fenomeno di dimissioni accompagnate da incarichi ad ex dipendenti, sì da garantire la piena ed effettiva trasparenza e l'imparzialità dell'azione amministrativa' (C. Cost., n. 406/1995).
E dunque, avuto riguardo alla normativa richiamata e alle precisazioni acquisite in merito dal Dipartimento della funzione pubblica, si ritiene che non vi siano impedimenti al conferimento dell'incarico di collaudatore all'ex dipendente, qualora il collocamento in quiescenza, che l'Ente riferisce essere avvenuto per anzianità di servizio, abbia avuto luogo d'ufficio, per raggiunti limiti contributivi. Non si può, invece, procedere a tale affidamento nel caso in cui il dipendente, avendo raggiunto i requisiti per la pensione anticipata di anzianità, abbia volontariamente posto fine al suo rapporto di servizio.
Per completezza di analisi, in materia di conferimento di incarichi esterni, si richiama, infine, l'attenzione, sul contenuto dell'art. 7, D.Lgs. n. 165/2001, che ne disciplina espressamente i requisiti, ed in particolare sul comma 6-bis dell'art. 7, quale novellato dall'art. 32 del D.L. n. 223/2006 (Decreto Bersani, 'Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale'), a norma del quale la pubblica amministrazione non può affidare un incarico ad un soggetto esterno se non si è prima dotata di un apposito regolamento con il quale disciplinare e rendere pubbliche le procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione[4].
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[1] La nota è consultabile nella banca dati on line della Regione FVG all'indirizzo web: http://autonomielocali.regione.fvg.it/aall/opencms/AALL/Servizi/pareri/
[2] Parere ANCI del 18.09.2007
[3] Corte dei Conti, Puglia, deliberazione n. 3/2010. Nello stesso senso, Corte dei Conti, Umbria, sentenza n. 235/2006. Nel contesto dell'art. 25, L. 724/1995, la trasparenza e l'imparzialità passano da attributi generali dell'azione amministrativa a specifici beni/valori da tutelare, in relazione agli abusi intrinsecamente presenti nel conferimento di incarichi a chi, già dipendente dell'amministrazione che attribuisce gli incarichi stessi, ha volontariamente posto fine al suo rapporto di servizio con l'amministrazione, manifestando così un chiaro disinteresse all'espletamento di ulteriori attività lavorative con la medesima .... Il divieto imposto dall'art. 25 in argomento deve ritenersi non più operante dalla data in cui il soggetto interessato ha raggiunto il requisito del pensionamento di vecchiaia per aver compiuto il 65° anno di età.
[4] La norma è richiamata dalla giurisprudenza della Corte dei Conti: CdC, deliberazione n. 25 del 19.11.2010
(10.08.2011 - link a www.regione.fvg.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAL’onere della prova circa la data di realizzazione di un immobile abusivo spetta a chi ha commesso l'abuso. Secondo il principio generale previsto dall'art. 2697 del codice civile, infatti, “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”, e con riguardo alla realizzazione di opere in tempo utile per poter fruire del condono, ad esempio, si è affermato che è onere del privato fornire la prova sulla data di ultimazione dell'abuso, in quanto la pubblica amministrazione non può di solito materialmente accertare quale fosse la situazione dell'intero suo territorio alla data prevista dalla legge, mentre il privato è normalmente in grado di esibire idonea documentazione comprovante la conclusione dell’opera.
Tale onere può ritenersi a sufficienza soddisfatto solo quando le prove addotte risultano obiettivamente inconfutabili sulla base di atti e documenti che, da soli o unitamente ad altri elementi probatori, offrono la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione del manufatto, mentre la semplice produzione di una dichiarazione sostitutiva non può in alcun modo assurgere al rango di prova. E’ stato inoltre puntualizzato che, nel processo civile, alle dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà deve negarsi qualsiasi rilevanza, sia pure indiziaria, qualora costituiscano l’unico elemento esibito in giudizio al fine di provare un elemento costitutivo dell'azione o dell'eccezione, atteso che la parte non può derivare elementi di prova a proprio favore –ai fini del soddisfacimento dell'onere di cui all'art. 2697 c.c.– da proprie dichiarazioni non asseverate da terzi.

Va preliminarmente osservato in linea di principio come l’onere della prova circa la data di realizzazione di un immobile abusivo spetti a chi ha commesso l'abuso (Consiglio di Stato, sez. IV – 31/01/2012 n. 478). Secondo il principio generale previsto dall'art. 2697 del codice civile, infatti, “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”, e con riguardo alla realizzazione di opere in tempo utile per poter fruire del condono, ad esempio, si è affermato che è onere del privato fornire la prova sulla data di ultimazione dell'abuso, in quanto la pubblica amministrazione non può di solito materialmente accertare quale fosse la situazione dell'intero suo territorio alla data prevista dalla legge, mentre il privato è normalmente in grado di esibire idonea documentazione comprovante la conclusione dell’opera (Consiglio di Stato, sez. IV – 27/11/2010 n. 8298; si veda anche TAR Campania Napoli, sez. VIII – 02/07/2010 n. 16569; TAR Lombardia Brescia, sez. I – 08/04/2010 n. 1506).
E’ stato altresì sottolineato che tale onere può ritenersi a sufficienza soddisfatto solo quando le prove addotte risultano obiettivamente inconfutabili sulla base di atti e documenti che, da soli o unitamente ad altri elementi probatori, offrono la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione del manufatto, mentre la semplice produzione di una dichiarazione sostitutiva non può in alcun modo assurgere al rango di prova (TAR Liguria, sez. I – 08/03/2012 n. 367). E’ stato inoltre puntualizzato che, nel processo civile, alle dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà deve negarsi qualsiasi rilevanza, sia pure indiziaria, qualora costituiscano l’unico elemento esibito in giudizio al fine di provare un elemento costitutivo dell'azione o dell'eccezione, atteso che la parte non può derivare elementi di prova a proprio favore –ai fini del soddisfacimento dell'onere di cui all'art. 2697 c.c.– da proprie dichiarazioni non asseverate da terzi (TAR Lombardia Milano, sez. II – 24/02/2012 n. 617) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 18.05.2012 n. 838 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: L'art. 35 della l. 865/1971 è norma inderogabile che va ad integrare la disciplina dettata dalle singole convenzioni stipulate dal Comune con i beneficiari, ex art. 1339 c.c (inserzione automatica di clausole e di prezzi imposti per legge).
Il testo normativo rende palese il diritto del Comune di recuperare quanto speso sia per l’acquisizione delle aree (corrispettivo da adeguare all’effettiva somma dovuta agli espropriati a seguito della definizione della pratica espropriativa) sia per la loro urbanizzazione, come dal costante orientamento della giurisprudenza.

In relazione al primo profilo, va rilevato come sia centrale nella definizione della vicenda la disamina della norma contenuta nell’art. 35 legge n. 865/1971. Tale disposizione prevede esplicitamente che: “la convenzione stipulata dal Comune per concedere il diritto di superficie sulle aree incluse nel P.E.E.P. deve prevedere il corrispettivo della concessione in misura pari al costo di acquisizione delle aree, nonché al costo delle relative opere di urbanizzazione realizzate o da realizzare, allo scopo evidentemente di assicurare la copertura delle spese complessivamente sostenute o da sostenere da parte dell’Amministrazione”.
Si tratta di norma inderogabile che va ad integrare la disciplina dettata dalle singole convenzioni stipulate dal Comune con i beneficiari, ex art. 1339 c.c (inserzione automatica di clausole e di prezzi imposti per legge).
Il testo normativo rende palese il diritto del Comune di recuperare quanto speso sia per l’acquisizione delle aree (corrispettivo da adeguare all’effettiva somma dovuta agli espropriati a seguito della definizione della pratica espropriativa) sia per la loro urbanizzazione, come dal costante orientamento della giurisprudenza (ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. V, 03.07.2003, n. 3982).
Peraltro, anche nella deliberazione 2/03, al punto 5 del dispositivo, viene prevista la possibilità di richiedere l’eventuale conguaglio, per cui, poiché la stessa deliberazione fa poi rinvio nelle convenzioni d’assegnazione, appare irrilevante che queste ultime non contengano espressamente una clausola dello stesso tenore.
Per altro verso, non è possibile desumere alcun comportamento illegittimo del Comune di Bussolengo a fronte dell’omessa comunicazione nei confronti degli assegnatari, dell’instaurazione del procedimento dinanzi alla Corte d’Appello di Venezia per l’opposizione alla stima e concernente la controversia tra il Comune ed il proprietario espropriato, in quanto gli appellanti, in qualità di soggetti esterni alla procedura ablatoria, non erano soggetti necessari del processo civile. Le parti processuali di tale giudizio rimanevano esclusivamente l’espropriato e l’espropriante, salvi i rapporti ulteriori esistenti tra amministrazione e soggetti beneficiari dell’esproprio.
Infine, la mancata indicazione dell’autorità e del termine entro il quale ricorrere non sono elementi di illegittimità del provvedimento, ma possono solo permettere, nei casi in cui questo ricorra, l’applicazione dell’errore scusabile in favore del soggetto interessato (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.05.2012 n. 2854 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di distanze legali tra edifici o dal confine, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di finitura od accessoria di limitata entità, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili, invece, rientrano nel concetto civilistico di costruzioni, le parti dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d. aggettanti) che, se pur non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato.
Lo stesso può dirsi per le opere di contenimento che, comunque progettate in relazione alla situazione dei luoghi ed alla soluzione esteticamente ritenuta più confacente dal committente, hanno una struttura che deve essere idonea per consistenza e modalità costruttive ad assolvere alla funzione di contenimento ed una funzione, che non è quella di delimitare, proteggere ed eventualmente abbellire la proprietà, ma essenzialmente di sostenere il terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso.
Opere tali da dovere essere riguardate, sotto il profilo edilizio, come opere dotate di una propria specificità ed autonomia, in una accezione che comprende tutte le caratteristiche proprie dei fabbricati, donde l'obbligo di rispetto di tutti gli indici costruttivi prescritti dallo strumento urbanistico e, in particolare, delle distanze dal confine privato.
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Ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali di origine codicistica o prescritte dagli strumenti urbanistici in funzione integrativa della disciplina privatistica, la nozione di costruzione non si identifica con quella di edificio ma si estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera.
Ai fini del rispetto delle distanze fra costruzioni non rileva il materiale utilizzato per la fabbrica, richiedendosi soltanto una durevolezza dell'opera comunemente riconoscibile anche alle opere in legno o ferro od altri materiali leggeri, purché infissi al suolo non transitoriamente.
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Costituisce costruzione, agli effetti della disciplina del c.c. sulle distanze legali, ogni manufatto che, per struttura e destinazione, ha carattere di stabilità e permanenza (nella specie il manufatto, con finestra, era coperto da tettoia formata da travi con soprastanti lamiere, ed era destinato a fienile, magazzino e pollaio).
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Analoga nozione estensiva del concetto di “fabbricato” è stata dettata dalla Corte di Cassazione ai fini dell'art. 907 c.c., diretto a preservare l'esercizio delle vedute da ogni eventuale ostacolo con carattere di stabilità, in quanto la nozione di costruzione è comprensiva non solo dei manufatti in calce e mattoni, ma di qualsiasi opera che, indipendentemente dalla forma e dal materiale con cui è stata realizzata, determini un ostacolo del genere (nella specie, il giudice del merito aveva ritenuto che costituisse costruzione nel senso anzidetto una veranda che ostacolava la veduta dal balcone e dalla finestra sovrastanti, anche se ottenuta mediante la posa in opera, su correntini infissi nel muro, di lastre di fibrocemento facilmente asportabili, in quanto bullonate a tali correntini. La C.S., nell'enunciare il precisato principio di diritto, ha confermato tale decisione).

Rileva in proposito il Collegio che, per condivisa giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, “in tema di distanze legali tra edifici o dal confine, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di finitura od accessoria di limitata entità, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili, invece, rientrano nel concetto civilistico di costruzioni, le parti dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d. aggettanti) che, se pur non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato.
Lo stesso può dirsi per le opere di contenimento, quali indubbiamente si configurano quelle di cui al caso di specie che, comunque progettate in relazione alla situazione dei luoghi ed alla soluzione esteticamente ritenuta più confacente dal committente, hanno una struttura che deve essere idonea per consistenza e modalità costruttive ad assolvere alla funzione di contenimento ed una funzione, che non è quella di delimitare, proteggere ed eventualmente abbellire la proprietà, ma essenzialmente di sostenere il terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso.
Opere tali da dovere essere riguardate, sotto il profilo edilizio, come opere dotate di una propria specificità ed autonomia, in una accezione che comprende tutte le caratteristiche proprie dei fabbricati, donde l'obbligo di rispetto di tutti gli indici costruttivi prescritti dallo strumento urbanistico e, in particolare, delle distanze dal confine privato
” (Consiglio Stato, sez. IV, 30.06.2005, n. 3539)
In modo pressoché simmetrico, la giurisprudenza civile di legittimità ha ancora di recente condivisibilmente affermato che “ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali di origine codicistica o prescritte dagli strumenti urbanistici in funzione integrativa della disciplina privatistica, la nozione di costruzione non si identifica con quella di edificio ma si estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera” (Cassazione civile, sez. II, 17.06.2011, n. 13389).
La giurisprudenza civile di merito, altrettanto condivisibilmente, ad avviso del Collegio ha poi fatto presente che ai fini del rispetto delle distanze fra costruzioni non rileva il materiale utilizzato per la fabbrica, richiedendosi soltanto una durevolezza dell'opera comunemente riconoscibile anche alle opere in legno o ferro od altri materiali leggeri, purché infissi al suolo non transitoriamente.
Ne consegue la permanente vigenza dell’insegnamento della Corte di legittimità secondo il quale “costituisce costruzione, agli effetti della disciplina del c.c. sulle distanze legali, ogni manufatto che, per struttura e destinazione, ha carattere di stabilità e permanenza (Nella specie il manufatto, con finestra, era coperto da tettoia formata da travi con soprastanti lamiere, ed era destinato a fienile, magazzino e pollaio)“ (Cassazione civile, sez. II, 24.05.1997, n. 4639).
Per completezza –tenuto conto dei profili sollevati dall’appellato nella propria memoria di replica- si evidenzia che analoga nozione estensiva del concetto di “fabbricato” è stata dettata dalla Corte di Cassazione ai fini dell'art. 907 c.c., diretto a preservare l'esercizio delle vedute da ogni eventuale ostacolo con carattere di stabilità, “in quanto la nozione di costruzione è comprensiva non solo dei manufatti in calce e mattoni, ma di qualsiasi opera che, indipendentemente dalla forma e dal materiale con cui è stata realizzata, determini un ostacolo del genere. (Nella specie, il giudice del merito aveva ritenuto che costituisse costruzione nel senso anzidetto una veranda che ostacolava la veduta dal balcone e dalla finestra sovrastanti, anche se ottenuta mediante la posa in opera, su correntini infissi nel muro, di lastre di fibrocemento facilmente asportabili, in quanto bullonate a tali correntini. La C.S., nell'enunciare il precisato principio di diritto, ha confermato tale decisione)” (Cassazione civile, sez. II, 21.10.1980, n. 5652)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.05.2012 n. 2847 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Al fine di individuare se un manufatto sia o meno interrato, va fatto riferimento al livello naturale del terreno, con la conseguenza che la sporgenza di un manufatto dal suolo va riscontrata con riferimento al piano di campagna, cioè al livello naturale del terreno, e non al livello eventualmente inferiore cui si trovi un finitimo edificio realizzato con abbassamento di quel piano.
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Soltanto i locali costruiti al di sotto dell'originario piano di campagna non sono computabili ai fini dell'applicazione degli standards urbanistici e non concernono al computo della volumetria.
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Ai sensi dell'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122, la realizzazione di autorimesse e parcheggi è soggetta alla disciplina urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra, se non effettuata totalmente al di sotto del piano di campagna naturale.
Pertanto, le autorimesse, edificate fuori terra, poiché vanno qualificate come nuove costruzioni, sono soggette al pagamento degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione, in quanto il citato art. 9, comma 2, L. n. 122/1989, nel rinviare al precedente comma 1, si riferisce soltanto alle opere edilizie, destinate a parcheggi, eseguite nei locali siti al piano terra o nel sottosuolo del fabbricato o nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato.

Sul punto giova rammentare che, per costante giurisprudenza di questa Sezione, “al fine di individuare se un manufatto sia o meno interrato, va fatto riferimento al livello naturale del terreno, con la conseguenza che la sporgenza di un manufatto dal suolo va riscontrata con riferimento al piano di campagna, cioè al livello naturale del terreno, e non al livello eventualmente inferiore cui si trovi un finitimo edificio realizzato con abbassamento di quel piano.” (Consiglio Stato, sez. V, 06.12.2010, n. 8547 ed in passato Consiglio Stato, sez. V, 21.10.1991, n. 1231 laddove si è affermato che soltanto “i locali costruiti al di sotto dell'originario piano di campagna non sono infatti computabili ai fini dell'applicazione degli standards urbanistici e non concernono al computo della volumetria.”).
Nel caso di specie, nella incontestabile emergenza processuale secondo cui il piano di calpestio del terrazzo-veranda si trova ad una quota di 85 cm. rispetto alla strada senza uscita, ancora da denominare, che si dirama da Via Brennero, e di 1,52 m. rispetto al terreno di proprietà dell’appellato (costruzione resa possibile, sistemando l’area esterna al fabbricato principale con un terrapieno artificiale) si rende applicabile l’orientamento espresso a più riprese da questo Consiglio di Stato secondo cui “ai sensi dell'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122, la realizzazione di autorimesse e parcheggi è soggetta alla disciplina urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra, se non effettuata totalmente al di sotto del piano di campagna naturale” (Consiglio Stato, sez. IV, 27.11.2010, n. 8260).
Ne consegue la esattezza dell’affermazione del primo giudice (non specificamente contestata nell’appello, peraltro) secondo cui “le autorimesse, edificate fuori terra, poiché vanno qualificate come nuove costruzioni, sono soggette al pagamento degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione, in quanto il citato art. 9, comma 2, L. n. 122/1989, nel rinviare al precedente comma 1, si riferisce soltanto alle opere edilizie, destinate a parcheggi, eseguite nei locali siti al piano terra o nel sottosuolo del fabbricato o nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.05.2012 n. 2847 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel caso di opere realizzate sulla base di titolo annullato, la loro demolizione deve essere considerata quale extrema ratio, privilegiando, ogni volta che ciò sia possibile, la riedizione del permesso di costruire emendato dai vizi riscontrati.
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Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune.

Non vi è certamente dubbio che, sulla base del disposto dell'art. 38, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 ed in relazione alla giurisprudenza dominante (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 16.03.2010, n. 1535), nel caso di opere realizzate sulla base di titolo annullato, la loro demolizione deve essere considerata quale extrema ratio, privilegiando, ogni volta che ciò sia possibile, la riedizione del permesso di costruire emendato dai vizi riscontrati.
Tuttavia, nel caso in specie, ciò che appare assente è l’oggetto stesso del titolo abilitativo, come ben evidenziato dal primo giudice in relazione all’impossibilità di identificare un elemento progettuale conforme nelle diverse rappresentazioni. Appare quindi inapplicabile l’ipotesi di una rimozione dei vizi procedimentali, atteso che il profilo di illegittimità attiene all’essenza stessa del manufatto in relazione alla sua concreta dislocazione.
Deve quindi condividersi l’impostazione assunta dal T.U. che, nella fattispecie de qua, ha fatto riferimento al valore preminente dell’art. 31, comma 3, prima parte del T.U. 380/2001, secondo il quale “Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune” (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.05.2012 n. 2852 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Certificati. Malattia, no alle visite telefoniche
No alle visite per telefono. La proroga di un periodo di malattia con certificato senza effettuazione di una visita è reato. E vanno incontro a una condanna penale sia il medico sia il paziente.

Lo ha stabilito la V Sez. penale della Corte di Cassazione che, con sentenza 15.05.2012 n. 18687, ha confermato una sentenza della Corte d'appello di Milano.
Il medico è stato ritenuto responsabile di falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale (art. 480 del codice penale), mentre la paziente è stata condannata per aver fatto uso del certificato medico «pur conoscendone la falsità» (art. 489 c.p.). Entrambi si erano difesi sostenendo che la donna era stata visitata quattro giorni prima, e aveva poi comunicato per telefono al dottore i sintomi della sua malattia che persistevano.
«La falsa attestazione attribuita al medico», osservano i giudici, «non attiene tanto alle condizioni di salute della paziente, quanto piuttosto al fatto che egli ha emesso il certificato senza effettuare una previa visita e senza alcuna verifica oggettiva delle sue condizioni di salute» (articolo ItaliaOggi del 16.05.2012).

APPALTIP.a., il risparmio è un imperativo. Acquisti sottomessi al criterio del rapporto qualità-prezzo. La sentenza del Tar Lombardia è la prima che si appella al principio della spending review.
Risparmiare è un dovere per la pubblica amministrazione. Non applicare questo imperativo categorico da parte di un'amministrazione, specie regionale, «è un comportamento antigiuridico» e porta ad invalidare tutti gli atti che vadano in senso opposto.
È stato il TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, ad affermare questo principio con la sentenza 15.05.2012 n. 1350.
Una sentenza che, per rafforzare il suo ragionamento, si è appellata, prima pronuncia in Italia, addirittura al recentissimo decreto legge 07.05.2012, n. 52 sulla spending review, laddove impone alle p.a. di avvalersi, nei propri acquisti, sempre del parametro prezzo-qualità migliore sul mercato, specie se i prezzi fossero più bassi di quelli proposti dalla Consip per beni o servizi comparabili.
Insomma, non ci sono convenzioni o leggi che tengano: se sul mercato si può pagare di meno, si deve aggiudicare la gara al migliore offerente. E se esistono centri di acquisto «pubblici», nazionali o regionali, che però offrono gli stessi beni o servizi a prezzi più alti del mercato, non c'è nessuna legge che possa imporre di avvalersi di questi.
Una pronuncia dal forte impatto «politico», insomma, quella pronunciata, dal Tar della Lombardia, che, nel caso di merito, è intervenuto su uno dei capitoli di spesa che pesano maggiormente sui conti pubblici, cioè la spesa sanitaria sostenuta dalle regioni. In particolare, il Tar ha annullato il provvedimento con il quale l'Azienda ospedaliera Ospedale Sant'Anna di Como, insieme all'Azienda ospedaliera Ospedale civile di Legnano, avevano aggiudicato la fornitura quadriennale di farmaci ed emoderivati alla centrale di acquisti regionale Lombardia Informatica spa, nonostante i prezzi di quest'ultima fossero palesemente superiori a quelli proposti invece dalla società privata fornitrice di farmaci che ha proposto il ricorso in quanto esclusa dalla gara.
E pensare che l'ospedale, inizialmente, aveva riconosciuto e provvisoriamente aggiudicato l'offerta economicamente più vantaggiosa alla società privata. Poi, invece, per il timore di incorrere in chissà quali strali, ha deciso di annullare, in via di autotutela, l'aggiudicazione, rivolgendosi per l'acquisto dei farmaci alla centrale acquisti pubblica della regione Lombardia, nonostante il costo fosse superiore.
«La cieca adesione a una normativa regionale emanata in astratto proprio al fine di ottenere risparmi di spesa per le singole amministrazioni, ma la cui applicazione nella fattispecie concreta ha determinato, al contrario, un risultato deteriore per le condizioni economiche di aggiudicazione della fornitura dei farmaci in questione», dicono i giudici, va censurata. «E ciò, anche in considerazione del particolare momento di congiuntura economica in cui si trova il paese, che dovrebbe far propendere per scelte dirette ad un maggior risparmio per la spesa pubblica».
E per far capire alle regioni e alle amministrazioni che non è più tempo di seguire solo le leggi astratte, ma che è invece ora di risparmiare, affidandosi al mercato, se più conveniente, il Tar lombardo ha fatto un excursus della normativa, sia nazionale che regionale, in materia di acquisti da parte delle p.a., citando da ultimo l'articolo 7, primo comma, del decreto legge 52/2012 sulla spending review, che impone a tutte le pa, regioni comprese, di fare acquisti applicando «parametri prezzo-qualità migliorativi rispetto a quelli dei bandi pubblicati da Consip per beni o servizi comparabili».
Nell'annullare gli atti dell'azienda sanitaria, il Tar ha anche condannato l'ospedale ai danni per colpa in quanto, «pur consapevole del risparmio di spesa che avrebbe ottenuto completando la procedura in questione, in astratta applicazione di una norma di legge ha omesso la necessaria ponderazione nella valutazione degli interessi sottesi all'esercizio del potere di autotutela, ponendo nel nulla l'aggiudicazione provvisoria nei confronti della ricorrente, oltre all'antigiuridicità del comportamento tenuto dall'amministrazione, causativo di un danno consistente nell'aver impedito alla società di eseguire la fornitura di medicinali per più di un anno» (articolo ItaliaOggi del 19.05.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il comune che non ha provveduto alla integrale ottemperanza della sentenza si è visto infliggere (dal CdS) la sanzione di € 50 al giorno, da corrispondere per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione della sentenza dopo il decorso dei termini prima assegnati di sessanta giorni dalla comunicazione o, se anteriore, notificazione della presente sentenza e di sessanta giorni per l’effettivo pagamento, e fino all’effettivo pagamento ad opera dell’amministrazione o del Commissario ad acta.
Deve essere accolta la specifica domanda presentata dalla parte ricorrente ex articolo 114, comma 4, lettera e), del codice del processo amministrativo, che ha introdotto, in via generale, nel processo amministrativo, l’istituto della cd. penalità di mora, già regolato per il processo civile, con riguardo alle sentenze aventi per oggetto obblighi di fare infungibile o di non fare, dall’art. 614 bis del codice di procedura civile, aggiunto dall’art. 49 della legge 18.06.2009, n. 69.
Anche con la sentenza di ottemperanza, può invero essere fissata, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e in assenza di ulteriori ragioni ostative, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del giudicato, con una statuizione costituente titolo esecutivo.
La misura prevista dall’art. 114, comma 4, lettera e), del c.p.a. va infatti considerata applicabile anche alle sentenze di condanna pecuniarie della p.a., trattandosi di un modello normativo caratterizzato da importanti differenze rispetto alla previsione di cui all’art. 614-bis c.p.c., (applicabile solo alla violazione di obblighi di fare infungibile o di non fare).
La citata misura (Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 6688 del 20.12.2011), assolve infatti ad una finalità sanzionatoria e non risarcitoria in quanto non è volta a riparare il pregiudizio cagionato dall’esecuzione della sentenza ma a sanzionare la disobbedienza alla statuizione giudiziaria e stimolare il debitore all’adempimento.
Nel processo amministrativo l’istituto presenta un portata applicativa più ampia che nel processo civile, in quanto l’art. 114, comma 4, lettera e), del codice del processo amministrativo non ha riprodotto il limite, stabilito della norma di rito civile, della riferibilità del meccanismo al solo caso di inadempimento degli obblighi aventi per oggetto un non fare o un fare infungibile.
Detta soluzione va ricondotta alla peculiarità del rimedio dell’ottemperanza che, grazie al potere sostitutivo esercitabile dal giudice in via diretta o mediante la nomina di un commissario ad acta, non trova, a differenza del giudizio di esecuzione civile, l’ostacolo della non surrogabilità degli atti necessari al fine di assicurare l’esecuzione in re del precetto giudiziario; ne deriva che, nel sistema processuale amministrativo, lo strumento in esame non mira a compensare gli ostacoli derivanti dalla non diretta coercibilità degli obblighi di contegno sanciti dalla sentenza del giudice civile mentre del rimedio processuale civilistico è volto alla generale finalità di dissuadere il debitore dal persistere nella mancata attuazione del dovere di ottemperanza.
Nel caso di specie risultano sussistenti tutti i presupposti stabiliti dall’art. 114 cit. per l’applicazione della sanzione: la richiesta di parte, formulata con il ricorso, l’insussistenza di profili di manifesta iniquità e la non ricorrenza di altre ragioni ostative.
La misura della sanzione va dunque effettuata, in difetto di disposizione sul punto da parte del codice del processo amministrativo, ai parametri di cui all’art. 614-bis del codice di procedura civile e si deve valutare congrua, in ragione della gravità dell’inadempimento, del valore della controversia, della natura della prestazione, dell’entità del danno e delle altre circostanze, oggettive e soggettive, del caso concreto, la misura di € 50 al giorno, da corrispondere per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione della sentenza dopo il decorso dei termini prima assegnati di sessanta giorni dalla comunicazione o, se anteriore, notificazione della presente sentenza e di sessanta giorni per l’effettivo pagamento, e fino all’effettivo pagamento ad opera dell’amministrazione o del Commissario ad acta (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.05.2012 n. 2744 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: L’accettazione dell'indennità di esproprio non esclude l'interesse a far riscontrare le eventuali illegittimità del procedimento di espropriazione ed occupazione d'urgenza, in vista anche del maggior ristoro che il privato può ottenere a titolo risarcitorio dell'accertata illiceità conseguente all'annullamento degli atti di sottrazione del bene.
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In tema di espropriazione per pubblica utilità, la decorrenza del periodo di occupazione legittima inizia non già dal giorno della dichiarazione di p.u. dell'eseguenda opera pubblica (che non comporta, di per sé, la necessità dell'occupazione d'urgenza del fondo ad essa asservito), ma dal giorno dell'emanazione, ex art. 71 della legge n. 2359 del 1865, del decreto autorizzativo, se immediatamente operativo nei confronti dell'occupante, con conseguente, contestuale compressione della facoltà dell'occupato.

Innanzi tutto la Sezione ritiene incondivisibile la eccezione di improcedibilità dell’appello formulata dalla difesa del resistente Comune nell’assunto che la accettazione della indennità di esproprio da parte degli appellanti ha comportato rinuncia alla pretesa dedotta in giudizio.
Invero l’accettazione dell'indennità di esproprio non esclude l'interesse a far riscontrare le eventuali illegittimità del procedimento di espropriazione ed occupazione d'urgenza, in vista anche del maggior ristoro che il privato può ottenere a titolo risarcitorio dell'accertata illiceità conseguente all'annullamento degli atti di sottrazione del bene (Consiglio Stato, sez. IV, 02.10.2006, n. 5774).
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Osserva la Sezione che in tema di espropriazione per pubblica utilità, la decorrenza del periodo di occupazione legittima inizia non già dal giorno della dichiarazione di p.u. dell'eseguenda opera pubblica (che non comporta, di per sé, la necessità dell'occupazione d'urgenza del fondo ad essa asservito), ma dal giorno dell'emanazione, ex art. 71 della legge n. 2359 del 1865, del decreto autorizzativo, se immediatamente operativo nei confronti dell'occupante, con conseguente, contestuale compressione della facoltà dell'occupato (Cassazione civile, sez. I, 25.03.2003, n. 4358) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.05.2012 n. 2743 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’articolo 1, comma 1-ter, l. 241/1990. sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”.
La giurisprudenza prevalente riconosce oramai al ritardo amministrativo una autonoma risarcibilità, a prescindere dalla fondatezza della pretesa sottostante all’istanza formulata all’amministrazione (fatta eccezione per quelle palesemente infondate o meramente pretestuose). Il tempo è considerato un bene della vita per il cittadino e da esso deriva il suo diritto ad ottenere una risposta alla sua istanza in tempi certi e definiti.
La giurisprudenza ha riconosciuto che il ritardo nella conclusione di un qualunque procedimento è sempre un costo, dal momento che il fattore tempo costituisce una essenziale variabile nella predisposizione e nell'attuazione di piani finanziari relativi a qualsiasi intervento, condizionandone la relativa convenienza economica. In questa prospettiva, ogni incertezza sui tempi di realizzazione di un investimento si traduce nell'aumento del c.d. "rischio amministrativo" e, quindi, spetta il risarcimento del danno da ritardo a condizione, ovviamente, che tale danno sussista e venga provato e sia escluso che vi sia stato il concorso del fatto colposo del creditore ex art. 1227 c.c..
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La lesione dell’interesse legittimo teso ad ottenere che il procedimento si concluda nel termine di legge o ad ottenere un provvedimento espresso è condizione necessaria ma non sufficiente per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c. perché occorre che “risulti leso, per effetto dell’attività illegittima (e colpevole) della pubblica amministrazione l’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo si correla e che detto interesse risulti meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento positivo”.
L'ingiustizia e la sussistenza stessa del danno non possono, in linea di principio, presumersi iuris tantum in meccanica ed esclusiva relazione al ritardo nell'adozione del provvedimento amministrativo, ma il danneggiato deve provare tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda, ossia oltre al danno, l'elemento soggettivo del dolo o della colpa e il nesso di causalità tra danno ed evento. Pertanto, l'accertamento della responsabilità della P.A. per il tardivo esercizio della funzione amministrativa non può ricollegarsi, quale effetto automatico, alla mera constatazione della violazione dei termini del procedimento, Si richiede un quid pluris, ossia che l'inosservanza dei termini procedimentali sia imputabile a colpa o dolo dell'Amministrazione medesima e che il danno sia conseguenza diretta ed immediata del ritardo dell'Amministrazione.
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Con riferimento alla fattispecie del danno da ritardo, in merito al comportamento corretto e diligente del creditore, è stato anche affermato che il diritto al risarcimento del danno derivante dal ritardo con il quale l'Amministrazione ha provveduto spetta solo ove i soggetti interessati abbiano reagito all'inerzia impugnando il silenzio-rifiuto; solo in caso di persistente inerzia a seguito di questa procedura può infatti configurarsi la lesione al bene della vita, risarcibile, alla stregua dei canoni di correttezza e buona fede, nello svolgimento del rapporto qualificato e differenziato tra soggetto pubblico e privato.
Invero, ciò che si risarcisce non è una aspettativa all'agere legittimo dell'Amministrazione, bensì il mancato conseguimento del bene della vita cui si ambiva al momento della proposizione dell'istanza.
La norma codicistica di cui all’art. 2043 c.c., infatti, subordina il risarcimento alla produzione di un danno ingiusto causalmente generato da una condotta illecita, nel caso di specie da individuarsi nell’asserito ritardo, imputabile all'Amministrazione a titolo di dolo o colpa.

Per quanto concerne il merito del ricorso proposto, la ricorrente chiede che le venga risarcito il danno derivante dalla mancata esecuzione della sentenza n. 75/2009 con la quale sono stati annullati gli atti a suo tempo impugnati che sospendevano a tempo indeterminato il procedimento di rilascio della concessione demaniale richiesta.
Con il presente ricorso la ricorrente chiede, quindi, che le venga risarcito il danno da perdita di chance, che si sostanzia in particolare nella perdita della possibilità di un risultato favorevole che la ricorrente ritiene “presente nel suo patrimonio” e che ha comportato l’impossibilità di ottenere e gestire il porto turistico così come progettato. Secondo la difesa della ricorrente sugli Enti intimati incombe una responsabilità da “contatto sociale e procedimentale”, il che, secondo l’allegata relazione tecnica di parte, comporta il risarcimento delle ingenti spese sostenute e del danno da perdita dei canoni di ormeggio e gestione che avrebbe potuto ricavare dai potenziali ormeggianti i posti barca.
Preliminarmente, prima di valutare la fondatezza della domanda risarcitoria proposta, occorre richiamare in questa sede alcuni fondamentali principi in tema di risarcimento del danno derivante da lesione di interessi legittimi ed in particolare di risarcimento del danno da ritardo nell’attività amministrativa, mai lamentato per tale espressamente in questa sede, ma che è nella sostanza alla base della controversia de qua.
Il diritto ad ottenere il risarcimento del danno nasce da una riconosciuta responsabilità della pubblica amministrazione per inosservanza di obblighi procedimentali incombenti sulla stessa.
Dai principi di efficienza, economicità, imparzialità, correttezza dell’azione amministrativa derivano per l’amministrazione regole ed obblighi che, se violati senza alcuna giustificazione o senza aver di mira il perseguimento di un interesse pubblico superiore, comportano una responsabilità per l’amministrazione stessa. Ciò avviene anche per l’ipotesi di violazione delle regole poste a tutela della partecipazione procedimentale ovvero delle norme che impongono la conclusione nei termini di legge dei procedimenti amministrativi.
La tutela risarcitoria degli interessi legittimi è recente acquisizione e nel tempo la relativa responsabilità dell’amministrazione è stata qualificata in diversi modi: responsabilità contrattuale derivante dal c.d. contatto sociale, precontrattuale, aquiliana e infine anche modello di responsabilità speciale. Attualmente queste differenze e nozioni hanno perso di interesse poiché il Legislatore con l’approvazione del Codice del Processo amministrativo, in linea con la giurisprudenza prevalente, ha qualificato la responsabilità della pubblica amministrazione, derivante dalla lesione di interessi legittimi, in termini di responsabilità aquiliana, i cui elementi costitutivi sono quelli dell’illecito civile.
Nell’ambito della responsabilità civile va inquadrato anche il risarcimento del c.d. danno da ritardo (quale ipotesi atipica di illecito civile) e cioè il danno che il cittadino lamenta per il ritardo con cui l’amministrazione emana il provvedimento favorevole ovvero negativo ma legittimo o, ancora, il danno che si verifica nel caso in cui l’amministrazione non si pronuncia affatto.
Nell’ultimo decennio la problematica inerente la risarcibilità del danno derivante dalla lesione dell’interesse alla conclusione del procedimento nel termine di legge ha assunto grande importanza ed in particolare la giurisprudenza si è confrontata sulla possibilità di considerare quale fonte di responsabilità dell’amministrazione anche il mero ritardo nell’adottare il provvedimento, slegato cioè da ogni valutazione sulla spettanza del bene della vita (Consiglio di Stato, ad. Plenaria n. 7/2005).
Questo dibattito si considera oramai in parte superato poiché la violazione dell’obbligo di concludere con un provvedimento espresso il procedimento amministrativo avviato ad istanza di parte, (dunque di una posizione di interesse legittimo pretensivo), trova espressa tutela, anche risarcitoria.
Alla luce del dettato normativo di cui alla legge 69/2009, che ha modificato la disciplina di cui all’articolo 2–bis della legge 241/1990, infatti, “Le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’articolo 1, comma 1-ter, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”.
La giurisprudenza prevalente riconosce oramai al ritardo amministrativo una autonoma risarcibilità, a prescindere dalla fondatezza della pretesa sottostante all’istanza formulata all’amministrazione (fatta eccezione per quelle palesemente infondate o meramente pretestuose). Il tempo è considerato un bene della vita per il cittadino e da esso deriva il suo diritto ad ottenere una risposta alla sua istanza in tempi certi e definiti.
La giurisprudenza ha riconosciuto che il ritardo nella conclusione di un qualunque procedimento è sempre un costo, dal momento che il fattore tempo costituisce una essenziale variabile nella predisposizione e nell'attuazione di piani finanziari relativi a qualsiasi intervento, condizionandone la relativa convenienza economica. In questa prospettiva, ogni incertezza sui tempi di realizzazione di un investimento si traduce nell'aumento del c.d. "rischio amministrativo" e, quindi, spetta il risarcimento del danno da ritardo a condizione, ovviamente, che tale danno sussista e venga provato e sia escluso che vi sia stato il concorso del fatto colposo del creditore ex art. 1227 c.c. (Cons. giust. amm. Sicilia sez. giurisd., n. 684 del 24.10.2011).
La circostanza per cui l’ordinamento dà rilevanza diretta al tempo, a prescindere dalla fondatezza dell’istanza del privato, non significa che l’inutile decorso del tempo viene risarcito sempre e comunque, appunto per il suo solo trascorrere.
L’articolo 2–bis della legge 241/1990, con l’utilizzo di locuzioni quali “danno ingiusto” e inosservanza “dolosa o colposa” del termine, che richiamano l’articolo 2043 c.c., richiede, infatti, che il danno da ritardo risarcibile vada comunque ricondotto agli elementi costitutivi di cui alla disciplina dell’illecito civile.
Il “ritardo risarcibile”, quindi, deve innanzitutto “produrre” un danno considerato ingiusto, e cioè, come pure è stato affermato in dottrina, sostanziare ”la lesione di un interesse giuridicamente protetto nella vita di relazione”. Il danno non iure, deve, poi, conseguire all’inosservanza dolosa o colposa dei termini a provvedere.
Per aversi risarcibilità del ritardo amministrativo, quindi, è necessario, secondo quanto disposto dal Legislatore che si verifichino i due aspetti del danno ingiusto e cioè il danno evento e il danno conseguenza: la lesione illegittima della sfera giuridica e le conseguenze pregiudizievoli che dalla lesione possono derivare.
La lesione dell’interesse legittimo teso ad ottenere che il procedimento si concluda nel termine di legge o ad ottenere un provvedimento espresso è condizione necessaria ma non sufficiente per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c. perché occorre che “risulti leso, per effetto dell’attività illegittima (e colpevole) della pubblica amministrazione l’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo si correla e che detto interesse risulti meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento positivo” (cfr. Corte di Cassazione, SS.UU., n. 500/1999).
E’ stato più di recente anche affermato che “l'ingiustizia e la sussistenza stessa del danno non possono, in linea di principio, presumersi iuris tantum in meccanica ed esclusiva relazione al ritardo nell'adozione del provvedimento amministrativo, ma il danneggiato deve provare tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda, ossia oltre al danno, l'elemento soggettivo del dolo o della colpa e il nesso di causalità tra danno ed evento. Pertanto, l'accertamento della responsabilità della P.A. per il tardivo esercizio della funzione amministrativa non può ricollegarsi, quale effetto automatico, alla mera constatazione della violazione dei termini del procedimento, Si richiede un quid pluris, ossia che l'inosservanza dei termini procedimentali sia imputabile a colpa o dolo dell'Amministrazione medesima e che il danno sia conseguenza diretta ed immediata del ritardo dell'Amministrazione" (cfr. TAR Campania–Napoli - sez. VIII, n. 4942 del 26.10.2011).
Il risarcimento del danno da ritardo, dunque, presuppone, al pari di ogni pregiudizio di cui si rivendichi il ristoro in sede aquiliana, che la lesione del bene della vita “tempo”, integrante danno-evento, sia seguita dalla produzione di conseguenze pregiudizievoli nella sfera patrimoniale e non, ossia il c.d. danno conseguenza, di cui compete al soggetto che agisce in giudizio fornire adeguata dimostrazione sul duplice versante dell’an e del quantum.
Il danno risarcibile, in una prospettiva ermeneutica fedele alle coordinate della Cassazione che escludono la funzione sanzionatoria del sistema della responsabilità aquiliana e che richiedono la dimostrazione di un pregiudizio conseguito, ex art. 1223 c.c., alla lesione dell’interesse giuridicamente tutelato, non è il "tempo perso" in sé ma la conseguenza dannosa che la lesione del bene tempo abbia sortito nella sfera del danneggiato.
Nel rapporto “procedimentale” con la P.A. i beni della vita da tutelare sono quindi due: da una parte l’interesse ad ottenere una delibazione tempestiva della propria istanza e dall’altra quello che si intende conseguire con il favorevole provvedimento richiesto. In caso di inerzia tenuta dall’amministrazione rispetto all’istanza del cittadino, questi può adire il giudice amministrativo sia per chiedere che venga condannata l’amministrazione a pronunciarsi ricorrendo al rito sul silenzio sia per chiedere direttamente il risarcimento del danno che assume gli sia derivato dall’inerzia stessa.
La mancata attivazione del rito sul silenzio, tuttavia, come si dirà a breve, può rilevare ai fini dell’articolo 1227 c.c. (cfr. art. 30 c.p.a.) in ordine all’accertamento della spettanza del risarcimento nonché alla quantificazione del danno risarcibile.
Nel caso in cui manca una pronuncia dell’amministrazione, seppure tardiva, positiva o negativa, per il giudice amministrativo che deve decidere sulla domanda risarcitoria, si pone preliminarmente il problema di andare a valutare la spettanza o meno del bene della vita e, conseguentemente, quello dell’entità del danno lamentato.
Il giudizio prognostico sulla spettanza del bene della vita diventa operazione sempre più complessa e delicata a seconda che si tratti di attività amministrativa vincolata ovvero discrezionale. Mentre nel primo caso per il giudice amministrativo è più agevole sindacare dall’esterno la possibilità di ottenere un provvedimento favorevole e quindi valutare l’effettività del danno lamentato, in caso di attività discrezionale detto sindacato necessita di una maggiore cautela per evitare una ingerenza del giudice nel campo del merito amministrativo.
In quest’ultimo caso il risarcimento del danno deve, infatti, essere parametrato alla chance di ottenere il provvedimento favorevole e quindi il giudice andrà a valutare gli elementi che in base ad una semplice ed evidente presunzione, con una mera operazione probabilistica, avrebbero condotto all’assunzione di un provvedimento favorevole se l’Amministrazione avesse rispettato il termine o se si fosse, comunque, determinata, evitando, quindi, di sconfinare in considerazioni di opportunità.
La considerazione che il tempo nel nostro ordinamento, sia un bene della vita, risarcibile ex se, trova un temperamento nella disciplina generale introdotta dal codice del processo amministrativo in tema di azione risarcitoria.
L’articolo 30, al secondo comma prevede che “Può essere chiesta la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria...”.
Anche questa norma richiama la formula aquiliana del danno ingiusto e si riferisce espressamente sia all’attività provvedimentale illegittima che alle ipotesi di inerzia procedimentale.
La norma introdotta con la legge 69/2009 risulta quindi, temperata dal comma 3 dell’articolo 30 del c.p.a. con il quale si prevede che “Nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”.
Tale norma assume valore di canone interpretativo del principio stabilito dal secondo comma dell’articolo 1227 c.c..secondo cui “Il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza” e cioè non è risarcibile il danno che il creditore non avrebbe subito se si fosse comportato in maniera collaborativa, comportamento cui è tenuto secondo correttezza.
A tal proposito va richiamato in questa sede quanto affermato dal Supremo Consesso della Giustizia amministrativa con la decisione dell’Adunanza Plenaria n. 3/2011 secondo la quale il comma 3 dell’articolo 30 c.p.a. (applicabile come detto anche in ipotesi di azione di risarcimento derivante da ritardo provvedimentale) “pur non evocando in modo esplicito il disposto dell’art. 1227, comma 2, del codice civile, afferma che l'omessa attivazione degli strumenti di tutela previsti costituisce, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, dato valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini dell’esclusione o della mitigazione del danno evitabile con l’ordinaria diligenza. …..
Operando una ricognizione dei principi civilistici in tema di causalità giuridica e di principio di auto-responsabilità, il codice del processo amministrativo sancisce la regola secondo cui la tenuta, da parte del danneggiato, di una condotta, attiva od omissiva, contraria al principio di buona fede ed al parametro della diligenza, che consenta la produzione di danni che altrimenti sarebbero stati evitati secondo il canone della causalità civile imperniato sulla probabilità relativa recide, in tutto o in parte, il nesso casuale che, ai sensi dell’art. 1223 c.c., deve legare la condotta antigiuridica alle conseguenze dannose risarcibili. …..La giurisprudenza più recente, …… ha adottato un’interpretazione estensiva ed evolutiva del comma 2 dell'art. 1227, secondo cui il creditore è gravato non soltanto da un obbligo negativo (astenersi dall'aggravare il danno), ma anche da un obbligo positivo (tenere quelle condotte, anche positive, esigibili, utili e possibili, rivolte a evitare o ridurre il danno)…l’obbligo di cooperazione di cui al comma 2 dell’art. 1227 ha fondamento proprio nel canone di buona fede ex art. 1175 c.c. e, quindi, nel principio costituzionale di solidarietà, si deve concludere che anche le scelte processuali di tipo omissivo possono costituire in astratto comportamenti apprezzabili ai fini della esclusione o della mitigazione del danno laddove si appuri, alla stregua del giudizio di causalità ipotetica di cui si è detto, che le condotte attive trascurate non avrebbero implicato un sacrificio significativo ed avrebbero verosimilmente inciso, in senso preclusivo o limitativo, sul perimetro del danno.
Si deve allora preferire al tradizionale indirizzo che esclude, per definizione, la sindacabilità delle condotte processuali ai sensi del capoverso dell’art. 1227 c.c., un più duttile criterio interpretativo che, in coerenza con le clausole generali in materia di correttezza, buona fede e solidarietà di cui la norma in esame è espressione, consenta la valutazione della condotta complessiva, anche processuale, del creditore, con riguardo alle specificità del caso concreto
” (Cfr. Consiglio di Stato, ad. Plenaria n. 3 del 23.03.2011 cit.).
Proprio con riferimento alla fattispecie del danno da ritardo, in merito al comportamento corretto e diligente del creditore, è stato anche affermato che il diritto al risarcimento del danno derivante dal ritardo con il quale l'Amministrazione ha provveduto spetta solo ove i soggetti interessati abbiano reagito all'inerzia impugnando il silenzio-rifiuto; solo in caso di persistente inerzia a seguito di questa procedura può infatti configurarsi la lesione al bene della vita, risarcibile, alla stregua dei canoni di correttezza e buona fede, nello svolgimento del rapporto qualificato e differenziato tra soggetto pubblico e privato (TAR Lombardia Milano, sez. IV, 18.10.2010, n. 6989, sez. I, 12.01.2011, n. 35).
Invero, ciò che si risarcisce non è una aspettativa all'agere legittimo dell'Amministrazione, bensì il mancato conseguimento del bene della vita cui si ambiva al momento della proposizione dell'istanza.
La norma codicistica di cui all’art. 2043 c.c., infatti, subordina il risarcimento alla produzione di un danno ingiusto causalmente generato da una condotta illecita, nel caso di specie da individuarsi nell’asserito ritardo, imputabile all'Amministrazione a titolo di dolo o colpa (cfr. in proposito TAR Lazio Roma, sez. I, 22.09.2010, n. 32382, sez. II, 05.01.2011 n. 28) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 14.05.2012 n. 450 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’offerta tecnica deve essere separata da quella economica! Pena l’esclusione dalla gara.
La segretezza dell’offerta economica è il principio da osservare nei bandi di gara al fine di garantire la totale imparzialità nella valutazione dell’offerta tecnica e nella modalità di aggiudicazione.
A tal proposito, un’impresa, avendo inserito nella busta dell’offerta tecnica anche una copia di quella economica, viene esclusa dalla gara da aggiudicarsi con il sistema dell’offerta economicamente più vantaggiosa.

Il Consiglio di Stato, Sez. V, con sentenza 11.05.2012 n. 2734, respinge l’appello presentato nei confronti del TAR Lombardia, confermando l’esclusione della società ricorrente.
Non avendo consegnato in due buste separate e sigillate l’offerta tecnica e quella economica, c’e stata violazione dell’art. 9 (definizione delle modalità di formulazione dell’offerta) e dell’art. 13 (motivi di esclusione) del Disciplinare di gara.
Il Consiglio di Stato rimarca che tra la fase di valutazione dell’offerta tecnica e quella economica deve esserci un netto riserbo per poter garantire un’oggettiva valutazione dell’offerta tecnica e sulla conseguente imparzialità nell’aggiudicare la gara (commento tratto da www.acca.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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Com’è stato ripetutamente osservato dalla giurisprudenza (C.d.S., sez. V, 21.03.2011, n. 1734; 23.01.2007, n. 196; 11.05.2006, n. 2612) laddove la procedura di gara (come nell’appalto concorso ovvero nell’ipotesi di aggiudicazione con il sistema dell’offerta economicamente più vantaggiosa) sia caratterizzata da una netta separazione tra la fase di valutazione dell’offerta tecnica e quella dell’offerta economica, il principio di segretezza comporta che, fino a quando non si sia conclusa la valutazione delle offerte tecniche, è interdetto al seggio di gara la conoscenza delle percentuali di ribasso offerta, per evitare ogni possibile influenza sulla valutazione dell’offerta tecnica.
Il principio della segretezza dell’offerta economica è infatti presidio dell’attuazione dei principi di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa, predicati dall’articolo 97 della Costituzione, sub specie della trasparenza e della par condicio dei concorrenti, intendendosi così garantire il corretto, libero ed indipendente svolgimento del processo intellettivo-volitivo che si conclude con il giudizio sull’offerta tecnica ed in particolare con l’attribuzione dei punteggi ai singoli criteri attraverso cui quest’ultima viene valutata.
La delineata peculiarità del delineato bene giuridico protetto dal principio di segretezza dell’offerta economica ne impone la tutela non solo al fine di evitarne la sua effettiva lesione, ma anche per evitare che esso sia esposto a rischio di lesione, perché anche la sola possibilità di conoscenza dell’entità dell’offerta economica, prima di quella tecnica, è idonea a compromettere la garanzia di imparzialità dell’operato dell’organo valutativo.

INCARICHI PROFESSIONALIP.a., incarico al legale senza gara. L'affidamento per la difesa in giudizio è contratto d'opera. Il Consiglio di stato esclude che il singolo conferimento costituisca un appalto di servizi.
L'affidamento, da parte di una amministrazione pubblica, di un incarico a un avvocato per la difesa in giudizio non richiede l'esperimento di una procedura selettiva; il singolo conferimento non costituisce un appalto di servizi legali, di assistenza e consulenza giuridica di durata determinata, soggetto al Codice dei contratti pubblici, bensì un contratto d'opera professionale affidabile in via diretta.

È quanto ha affermato il
Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.05.2012 n. 2730 (estensore Francesco Caringella) rispetto ad una vicenda che prende le mosse dal conferimento senza gara –da parte di una amministrazione provinciale– di un incarico a favore di due avvocati per l'impugnativa di un lodo arbitrale che, come spesso accade, aveva visto l'amministrazione soccombente.
In primo grado il Tar Lazio, Latina, sezione prima, con sentenza 604 del 2011, nel presupposto che l'atto di conferimento dell'incarico legale dovesse rientrare nell'ambito dei «servizi legali» di cui all'allegato II B del codice dei contratti pubblici (dlgs 163/2006), aveva affermato la violazione dei principi di evidenza pubblica e conseguentemente aveva accolto il ricorso.
In appello i giudici di Palazzo Spada ribaltano il giudizio di primo grado contestando in toto l'assunto per cui sia l'attività di assistenza e consulenza giuridica di carattere continuativo, sia il singolo conferimento di un incarico di patrocinio legale, possano essere ricondotti all'interno della nozione di «servizi legali» di cui al punto 21 dell'allegato II B del Codice degli appalti. La sentenza di appello afferma che l'equiparazione delle due fattispecie di affidamento non corrisponde ad un dato fondamentale che, invece, differenzia le due ipotesi: nel singolo incarico di patrocinio legale vi sono puntuali esigenze di difesa dell'ente locale da difendere, viceversa l'assistenza e la consulenza giuridica si caratterizzano per la presenza di una specifica organizzazione, dalla complessità dell'oggetto e per la predeterminazione della durata.
Per i giudici di Palazzo Spada, se nel primo caso si è in presenza di un contratto d'opera intellettuale, nel secondo caso, invece, si può aderire alla qualificazione del contratto come appalto di servizi in cui le attività professionali si inseriscono all'interno di una organizzazione rispondente ai bisogni dell'amministrazione appaltante. Il Consiglio di stato ricorda anche che fin dal decreto legislativo n. 157/1995 i servizi legali non erano comunque soggetti all'applicazione di tutte le norme del decreto, ma soltanto di quelle in materia di pubblicità successiva e specifiche tecniche.
La sentenza di appello afferma quindi che nella nozione di servizi legali rientrano i «soli affidamenti di servizi legali conferiti mediante un appalto - ossia un contratto caratterizzato da un quid pluris, sotto il profilo dell'organizzazione, della continuità e della complessità»; a tale riguardo il Consiglio di stato cita come esempio la disciplina speciale prevista per i servizi di ingegneria e architettura. Ben altra cosa è quindi il contratto di conferimento dell'incarico difensivo specifico, «integrante mero contratto d'opera intellettuale, come tale esulante dalla nozione di contratto di appalto abbracciata dal legislatore comunitario». In sostanza è la complessità e articolazione della prestazione, unita ad una specifica organizzazione, a differenziare l'appalto di servizi legali rispetto al contratto d'opere professionale.
Da ciò i giudici fanno discendere che al conferimento del singolo e puntuale incarico legale non si applica neanche l'articolo 27 del codice dei contratti pubblici, che delinea una procedura concorsuale (con invito a cinque) «incompatibile con la struttura della fattispecie contrattuale, qualificata, alla luce dell'aleatorietà dell'iter del giudizio, dalla non predeterminabilità degli aspetti temporali, economici e sostanziali della prestazioni e dalla conseguente assenza di basi oggettive sulla scorta delle quali fissare i criteri di valutazione necessari in forza della disciplina recata dal codice dei contratti pubblici» (articolo ItaliaOggi del 17.05.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTIPer le gare non incise dalla disciplina posta dal d.l. 2011 n. 70, spetta alla stazione appaltante valutare se la violazione contributiva commessa da un partecipante ed attestata dal DURC sia grave alla luce di tutti gli elementi di giudizio sussistenti in concreto.
2) E’ fondato e presenta carattere assorbente, per la dimensione sostanziale che presenta, il secondo dei motivi proposti, con il quale si lamenta in termini di carenza motivazionale ed istruttoria, la circostanza che l’amministrazione avrebbe ritenuto grave la violazione contributiva imputata alla ricorrente senza alcuna concreta valutazione e limitandosi a prendere atto del contenuto del documento unico di regolarità contributiva.
La complessità delle questioni giuridiche sottese alle impugnazioni in esame, rende opportuna la ricostruzione del quadro normativo di riferimento, distinguendo la disciplina vigente prima e dopo l’adozione del d.l. 13.05.2011 n. 70, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 13.05.2011, n. 110, entrato in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione ai sensi dell’art. 12 del decreto medesimo e convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 12.07.2011, n. 106.
2.1) Prima della novella l’art. 38, primo comma, lett. i), disponeva l’esclusione dalla gara nei confronti delle imprese “i) che hanno commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, alle norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali, secondo la legislazione italiana o dello Stato in cui sono stabiliti”.
Inoltre, sempre in relazione agli obblighi di regolarità contributiva il terzo comma dell’art. 38 disponeva che “resta fermo, per l’affidatario, l’obbligo di presentare la certificazione di regolarità contributiva di cui all’articolo 2, del decreto legge 25.09.2002, n. 210, convertito dalla legge 22.11.2002, n. 266 e di cui all’articolo 3, comma 8, del decreto legislativo 14.08.1996, n. 494 e successive modificazioni e integrazioni”.
Il d.l. 13.05.2011 n. 70 ha tenuto ferme le disposizioni ora viste, mentre ha modificato –mediante la previsione contenuta nell’art. 4, comma 2 lett. b) n. 4)- il comma 2 dell’art. 38 del codice degli appalti, che ora reca un’espressa disciplina del concetto di gravità della violazione contributiva, non presente prima della novella.
In particolare, il vigente comma 2 dell’art. 38 dispone che “ai fini del comma 1, lettera i), si intendono gravi le violazioni ostative al rilascio del documento unico di regolarità contributiva di cui all’articolo 2, comma 2, del decreto-legge 25.09.2002, n. 210, convertito, con modificazioni, dalla legge 22.11.2002, n. 266; i soggetti di cui all’articolo 47, comma 1, dimostrano, ai sensi dell’articolo 47, comma 2, il possesso degli stessi requisiti prescritti per il rilascio del documento unico di regolarità contributiva”.
Il quadro normativo si completa con la disciplina dettata dal Decreto del Ministero del lavoro e della previdenza sociale datato 24.10.2007, recante la disciplina del c.d. documento unico di regolarità contributiva (DURC).
Vale precisare, in primo luogo, che la disciplina del DURC non è rilevante solo ai fini della partecipazione ad una gara di appalto, in quanto, ai sensi dell’art. 1 del D.M. 2007, il possesso del DURC è richiesto ai datori di lavoro ai fini della fruizione dei benefici normativi e contributivi in materia di lavoro e legislazione sociale previsti dall'ordinamento e ai fini della fruizione dei benefici e sovvenzioni previsti dalla disciplina comunitaria; inoltre, è richiesto ai datori di lavoro ed ai lavoratori autonomi nell'ambito delle procedure di appalto di opere, servizi e forniture pubblici e nei lavori privati dell'edilizia.
Ai sensi dell’art. 4 del D.M. 2007, il DURC attesta la regolarità dei versamenti dovuti agli Istituti previdenziali e, per i datori di lavoro dell'edilizia, la regolarità dei versamenti dovuti alle Casse edili; a tale fine deve contenere, tra l’altro, la dichiarazione di regolarità, ovvero non regolarità contributiva, con indicazione della motivazione o della specifica scopertura, nonché la data di effettuazione della verifica di regolarità.
Il decreto ministeriale individua, in modo dettagliato e con riferimento alla generalità delle ipotesi in cui rileva il contenuto positivo o negativo del DURC, le condizioni in presenza delle quali gli Istituti Previdenziali devono attestare la regolarità contributiva, fissandole, ai sensi dell’art. 5 in: a) correntezza degli adempimenti mensili o, comunque, periodici; b) corrispondenza tra versamenti effettuati e versamenti accertati dagli Istituti previdenziali come dovuti; c) inesistenza di inadempienze in atto.
Si precisa che, comunque, la regolarità contributiva sussiste in caso di: a) richiesta di rateizzazione per la quale l'Istituto competente abbia espresso parere favorevole; b) sospensioni dei pagamenti a seguito di disposizioni legislative; c) istanza di compensazione per la quale sia stato documentato il credito.
Ulteriori parametri sono dettati dal comma 3 dell’art. 5, per l’ipotesi in cui la questione della regolarità contributiva si ponga nei confronti di una Cassa edile.
Il successivo art. 8 individua una serie di situazioni non ostative al rilascio del DURC, pur non essendovi certezza in ordine alla regolarità dei versamenti contributivi, distinguendo tra crediti iscritti a ruolo e crediti non ancora iscritti a ruolo.
Così, si prevede che il DURC è rilasciato anche qualora vi siano crediti iscritti a ruolo per i quali sia stata disposta la sospensione della cartella di pagamento a seguito di ricorso amministrativo o giudiziario.
Inoltre, relativamente ai crediti non ancora iscritti a ruolo si dispone che a) in pendenza di contenzioso amministrativo, la regolarità può essere dichiarata sino alla decisione che respinge il ricorso; b) in pendenza di contenzioso giudiziario, la regolarità è dichiarata sino al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, salvo l'ipotesi in cui l'Autorità giudiziaria abbia adottato un provvedimento esecutivo che consente l'iscrizione a ruolo delle somme oggetto del giudizio ai sensi dell'art. 24 del decreto legislativo 26.02.1999, n. 46.
L’art. 8, comma 3, del DM detta una disciplina ad hoc per gli appalti pubblici, disponendo che “ai soli fini della partecipazione a gare di appalto non osta al rilascio del DURC uno scostamento non grave tra le somme dovute e quelle versate, con riferimento a ciascun Istituto previdenziale ed a ciascuna Cassa edile. Non si considera grave lo scostamento inferiore o pari al 5% tra le somme dovute e quelle versate con riferimento a ciascun periodo di paga o di contribuzione o, comunque, uno scostamento inferiore ad € 100,00, fermo restando l'obbligo di versamento del predetto importo entro i trenta giorni successivi al rilascio del DURC”.
2.2) La modificazione introdotta dal d.l. 2011 n. 70 pone, in primo luogo, il problema dell’individuazione della disciplina da applicare nel caso in esame.
Il bando di gara è stato pubblicato nella G.U.R.I. del 06.05.2011, pertanto, siccome in forza dell’art. 66, comma 8, del codice degli appalti “gli effetti giuridici che l’ordinamento connette alla pubblicità in ambito nazionale decorrono dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana”, non è dubitabile che la fattispecie in esame trovi la propria disciplina nell’art. 38 del d.l.vo 163 secondo il testo vigente prima della novella, in quanto entrata in vigore dopo la pubblicazione del bando.
Né si può giungere a diversa conclusione attribuendo valore interpretativo alla novella, così da assegnarle una valenza retroattiva, in quanto l’art. 4, comma 2, lett. b), n. 4), del d.l. 2011 n. 70 non integra una norma di interpretazione autentica.
Ciò è desumibile dal comma 3 dell’art. 4 del d.l. n. 70, a mente del quale le disposizioni di cui al comma 2, lettere b), si applicano alle procedure i cui bandi o avvisi con i quali si indice una gara sono pubblicati successivamente alla data di entrata in vigore del decreto legge medesimo, nonché, in caso di contratti senza pubblicazione di bandi o avvisi, alle procedure in cui, alla data di entrata in vigore del decreto legge, non sono ancora stati inviati gli inviti a presentare le offerte.
Va, pertanto, ribadito che la nuova disciplina contenuta nel secondo comma dell’art. 38 del codice degli appalti non è riferibile al caso di specie.
2.3) Una volta individuate le norme da applicare, sorge una questione interpretativa, essendo necessario stabilire se, prima della novella, l’amministrazione disponesse di poteri valutativi autonomi in ordine alla gravità della violazione contributiva commessa dal partecipante e, quindi, ai fini della sua esclusione dalla gara per difetto di un requisito di ordine generale, o se la gravità fosse correlata ad un parametro quantitativo prestabilito, tale da non lasciare spazio a poteri di apprezzamento discrezionale, con conseguente doverosità dell’esclusione del concorrente non in regola con i versamenti contributivi.
La questione ha dato vita ad un contrasto giurisprudenziale, caratterizzato dalla presenza di due orientamenti nettamente contrapposti ed è stata oggetto di rimessione all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, che non si è ancora pronunciata sul punto (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, ordinanza 05.03.2012, n. 1245).
Un primo orientamento esclude la titolarità di poteri valutativi da parte della stazione appaltante in ordine alla sussistenza in concreto della gravità della violazione commessa, perché, in base al decreto del Ministero del lavoro datato 24.10.2007, proprio la presenza di un DURC negativo alla data di presentazione della domanda di partecipazione alla gara, obbligherebbe la stazione appaltante ad escludere dalla procedura l’impresa interessata, senza possibilità di effettuare apprezzamenti sulla gravità degli inadempimenti.
In sostanza, l’accertamento dell’esistenza di violazioni contributive spetta agli Istituti Previdenziali, secondo i parametri fissati dal D.M. del 2007, che come, già evidenziato, specifica quale sia, ai fini della partecipazione alle gare di appalto, lo scostamento “non grave tra le somme dovute e quelle versate” che non osta al rilascio del DURC positivo, quantificandolo in quello inferiore o pari al 5%, tra le somme dovute e quelle versate con riferimento a ciascun periodo di paga o di contribuzione, o, comunque, uno scostamento inferiore ad € 100,00.
Secondo tale impostazione il DURC negativo non sarebbe sindacabile dalla stazione appaltante, che dovrebbe solo prenderne atto, adottando le conseguenti determinazioni in punto di esclusione dell’impresa interessata.
Di conseguenza, l’art. 38 nel subordinare l’esclusione all’esistenza di violazioni “gravi”, rinvierebbe per la definizione della “gravità” al D.M. del 2007 e, quindi, al contenuto del DURC di volta in volta rilasciato (per questa soluzione si vedano, tra le altre, Consiglio di Stato, sez. IV, 15.09.2010, n. 6907; Consiglio di Stato, sez. V, 30.06.2011, n. 3912; Consiglio di Stato, sez. V, 16.09.2011, n. 5194; Consiglio di Stato, sez. V, 12.10.2011, n. 5531).
Il Tribunale, non condivide la soluzione ora prospettata ed aderisce alla diversa opzione interpretativa, che riconosce, quanto meno per le fattispecie escluse ratione temporis dall’applicazione della novella introdotta con il d.l. 2011 n. 70, l’esistenza di autonomi poteri valutativi della stazione appaltante, quanto alla gravità della violazione contributiva accertata in capo ad un partecipante e ai fini della sua esclusione dalla gara.
In primo luogo, vale osservare che non è dirimente il contenuto del D.M. del 2007, la cui disciplina non impone la soluzione ermeneutica prospettata dalla prima impostazione.
Sicuramente il D.M. individua quale sia la violazione esistente, ma non grave, che non preclude il rilascio del DURC positivo ai fini della partecipazione ad una gara di appalto; tuttavia, ciò non vuol dire che ogni altra violazione, che pure comporta il rilascio di un DURC negativo, assurga per ciò solo al rango di gravità cui si riferisce l’art. 38, primo comma lett. i), del codice degli appalti e determini automaticamente l’esclusione dalla gara.
Difatti, l’art. 38 non richiama, ai fini della determinazione della nozione di gravità, i contenuti del D.M. 2007, sicché la tesi che estende il concetto di gravità emergente dal D.M. anche ai fini della verifica della sussistenza dei requisiti di ordine generale di cui all’art. 38 non poggia su alcuna previsione normativa.
Più in generale, la disciplina del DM 2007 è tesa a regolare il comportamento degli Istituti Previdenziali, al fine di stabilire in presenza di quali situazioni debba essere rilasciato il DURC positivo, mentre non si rivolge alle stazioni appaltanti e non è diretto, né ad escluderne, né a limitarne i poteri valutativi quanto alla sussistenza dei requisiti di ordine generale.
Né l’autonomia dei poteri valutativi della stazione appaltante si traduce in un sindacato, da parte sua, del contenuto del DURC, così da interferire con i poteri di accertamento della regolarità contributiva assegnati agli Istituti Previdenziali, giacché la valutazione che l’art. 38 rimette all’amministrazione attiene alla gravità della violazione e non alla circostanza che essa sia o meno sussistente.
L’unica interferenza astrattamente configurabile tra i due diversi profili attiene all’ipotesi in cui esiste in concreto una violazione contributiva, che, però, non eccede i limiti posti dall’art. 8, comma 3, del D.M. 2007 e, quindi, conduce al rilascio di un DURC positivo.
L’interferenza è solo apparente, perché nell’ipotesi ora prospettata la violazione, pur commessa in concreto, non è rilevante giuridicamente ai fini della partecipazione ad una gara di appalto e, sempre a tali fini, conduce ad un DURC positivo, sicché la stazione appaltante non può neppure ritenere esistente una violazione contributiva, al di fuori di ogni apprezzamento sulla gravità.
Ne deriva che anche in questo caso i poteri valutativi della stazione appaltante non interferiscono con gli accertamenti degli Istituti Previdenziali, poiché l’amministrazione si trova di fronte ad un DURC positivo, in ragione del fatto che la violazione contributiva commessa non è tale ai fini della partecipazione ad una gara di appalto, sicché deve prenderne atto, con conseguente mancanza del presupposto per la valutazione di gravità.
In via di ulteriore precisazione è opportuno chiarire che il profilo ora esposto non comporta una generalizzata insindacabilità del DURC.
Invero, la produzione della certificazione INPS attestante la regolarità contributiva dell'impresa partecipante alla gara di appalto costituisce uno dei requisiti posti dalla normativa in materia di appalti pubblici ai fini della ammissione alla gara, sicché appartiene alla cognizione del giudice amministrativo, in giurisdizione esclusiva, anche la verifica della regolarità di una certificazione costituente specifico requisito per la partecipazione alla gara e posta a fondamento delle successive determinazioni della stazione appaltante (cfr. Cass. Civ., SS. UU., ordinanza 11.12.2007, n. 25818; Cass. Civ., SS. UU., 09.02.2011, n. 3169).
L’esistenza di autonomi poteri valutativi della stazione appaltante, in ordine alla gravità della violazione contributiva commessa dal partecipante ed emergente dal DURC, trova conferma nel contenuto dello stesso art. 38, laddove distingue l’apprezzamento della regolarità contributiva del partecipante alla gara dall’accertamento della regolarità medesima in capo all’aggiudicatario.
Invero, l'art. 38 del d.l.vo 2006 n. 163 introduce una differenza tra la regolarità contributiva richiesta al partecipante alla gara ai sensi del comma 1, lettera i) e la regolarità contributiva richiesta all'aggiudicatario al fine della stipula del contratto.
Infatti, il concorrente, ai sensi di detta norma, può essere escluso solo in presenza di gravi violazioni, definitivamente accertate, sicché le violazioni non gravi, o ancora non definitive, non sono causa di esclusione.
Al contrario, al fine della stipula del contratto, il comma 3 dell’art. 38 impone all'affidatario di presentare la certificazione di regolarità contributiva ai sensi dell'art. 2, del d.l. 2002 n. 210, il quale, a sua volta, prevede il rilascio del DURC, che attesta contemporaneamente la regolarità contributiva quanto agli obblighi nei confronti dell'I.N.P.S., dell'I.N.A.I.L. e delle Casse edili.
Ne deriva che, mentre in sede di verifica dei requisiti di ordine generale, il concorrente può essere escluso soltanto quando la stazione appaltante valuta, autonomamente dalle risultanze negative del DURC, il suo debito contributivo come grave e definitivamente accertato, perché non esistono elementi concreti che possano condurre a diversa conclusione, viceversa, prima della stipulazione del contratto, il soggetto individuato come aggiudicatario deve esibire un DURC positivo, dal quale emerga la sua regolarità contributiva, senza che residuino poteri valutativi della stazione appaltante (cfr. in argomento Consiglio di Stato, sez. V, 07.07.2011, n. 4053).
Si badi che, in tale caso, il vincolo per l’amministrazione ad attenersi alla risultanze del DURC deriva dall’espressa previsione normativa del terzo comma dell’art. 38, relativo alla regolarità contributiva dell’aggiudicatario, previsione che difetta rispetto alla regolarità dei soli partecipanti alla gara, per i quali la lettera i) del primo comma dell’art. 38 impone all’amministrazione di apprezzare la gravità della violazione commessa.
Insomma, il legislatore, mentre in sede di accertamento dei requisiti di ordine generale, privilegia una scelta elastica, rimettendo alla valutazione dell’amministrazione la gravità o meno della violazione, al contrario una volta individuato il contraente, mediante l’aggiudicazione, pretende una sua piena regolarità contributiva, senza possibilità di valutazioni ulteriori, perché si tratta di assicurare la completa affidabilità e solidità finanziaria della controparte contrattuale, solidità esclusa a priori verso l’aggiudicatario che presenta irregolarità contributive.
La scelta del legislatore di attribuire poteri valutativi discrezionali alla stazione appaltante in ordine alla gravità della violazione contributiva è coerente con la normativa comunitaria, che rispetto al profilo in esame assume una posizione neutrale.
L’art. 45, comma 2, della direttiva 2004 n. 18 prevede che “può essere escluso” dalla partecipazione all'appalto ogni operatore economico “che non sia in regola con gli obblighi relativi al pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali secondo la legislazione del paese dove è stabilito o del paese dell'amministrazione aggiudicatrice”.
E’ evidente che la disposizione, nella parte in cui prevede una possibilità di scelta rispetto alla configurazione di una certa causa di esclusione, si rivolge al legislatore nazionale, che può decidere di introdurla o meno, mentre non pone preclusioni in ordine al carattere rigido o elastico della formulazione della causa di esclusione nel singolo Stato, ossia non stabilisce a priori se la particolare fattispecie di esclusione debba correlarsi o meno a poteri valutativi della stazione appaltante.
In tale senso, anche la Corte di Giustizia considera -seppure in relazione alle previgenti disposizioni della direttiva 92/50/CEE in materia di appalti pubblici di servizi, la quale per il profilo in esame dettava norme sostanzialmente sovrapponibili a quelle della direttiva 2004 n. 18- che, salvo il limite dell’impossibilità di prevedere cause di esclusione diverse da quelle ivi indicate e di rispetto dei principi generali di trasparenza e di parità di trattamento, il legislatore statale ha facoltà di inserirle con un grado di rigore variabile, in funzione di considerazioni di ordine giuridico, economico o sociale prevalenti a livello nazionale (cfr. Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sent. 09.02.2006 in Cause riunite C- 226/04 e C- 228/04).
A ben vedere, la novella introdotta dal d.l. 2011 n. 70 conforta la tesi che riconosce autonomi poteri valutativi in capo alla stazione appaltante rispetto alla gravità della violazione contributiva.
Invero, il legislatore modificando il secondo comma dell’art. 38 ha cristallizzato il concetto di gravità, ancorandolo alle violazioni ostative al rilascio del documento unico di regolarità contributiva di cui all’articolo 2, comma 2, del decreto legge 25.09.2002, n. 210 e così escludendo, per il futuro, l’esistenza di poteri discrezionali in capo all’amministrazione.
Proprio la circostanza che il legislatore sia intervenuto espressamente, al fine di introdurre un meccanismo rigido, tale da escludere un potere di apprezzamento da parte delle stazioni appaltanti, conferma che, per il periodo anteriore alla novella, l’art. 38 lett. i) configura l’esistenza di un tale potere di apprezzamento.
Va, pertanto, ribadito, in conformità all’orientamento giurisprudenziale condiviso dal Tribunale, che, per le gare non incise dalla disciplina posta dal d.l. 2011 n. 70, spetta alla stazione appaltante valutare se la violazione contributiva commessa da un partecipante ed attestata dal DURC sia grave alla luce di tutti gli elementi di giudizio sussistenti in concreto (cfr. per tale impostazione si vedano, tra le altre, Consiglio di Stato, sez. V, 16.09.2011, n. 5186; Consiglio di Stato, sez. V, 07.07.2011, n. 4053; Consiglio di Stato, sez. IV, 24.02.2011, n. 1228; Consiglio di Stato, sez. VI, 04.08.2009, n. 4907; Consiglio di Stato, sez. V, 30.09.2009, n. 5896) (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 11.05.2012 n. 1341 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Per la definizione di “strada”, assume rilievo, ai sensi dell’art. 2, comma primo, del codice della strada, la destinazione di una determinata superficie ad uso pubblico, e non la titolarità pubblica o privata della proprietà.
L’art. 14 del codice della strada assegna all’ente comunale il compito di provvedere alla manutenzione, gestione e pulizia della sede stradale, ma tale obbligo non si estende alle aree estranee circostanti, in particolare alle ripe site nei fondi laterali alle strade.
Le ripe, ai sensi dell’art. 31 del codice della strada, devono essere mantenute dai proprietari delle medesime in modo da impedire e prevenire situazioni di pericolo connesse a franamenti e cedimenti del corpo stradale o delle opere di sostegno, l’ingombro delle pertinenze e della sede stradale, nonché la caduta di massi o altro materiale, qualora siano immediatamente sovrastanti o sottostanti, in taglio o in riporto nel terreno preesistente alla strada, la scarpata del corpo stradale.

In ordine alle connotazione dei luoghi effettuata dal ricorrente, va considerato come, per la definizione di “strada”, assuma rilievo, ai sensi dell’art. 2, comma primo, del codice della strada, la destinazione di una determinata superficie ad uso pubblico, e non la titolarità pubblica o privata della proprietà (cfr., Cass. Sez. II, sent. 17350 del 25.06.2008).
Quanto sopra premesso, l’ordinanza gravata è volta a precisare e ad imporre gli obblighi manutentivi, ordinari e straordinari, previsti ai fini della sicurezza, che incombono sui proprietari e gli aventi titolo dei terreni confinanti con il “corpo stradale”.
In tesi del ricorrente, poiché l’art. 3, punto 10, del d. leg.vo n. 285 del 1992 stabilisce che, qualora non vi siano atti di acquisizione o fasce di esproprio di progetto, come nel suo caso, il “confine stradale” è identificato “nel piede della scarpata se la strada è in rilevato o dal ciglio superiore della scarpata se la strada è in trincea”, gli obblighi manutentivi ed il taglio dei sensi insistenti sulla strada e involgenti le scarpate non sono legittimamente addossabili ai privati.
Va considerato che l’atto impugnato, nell’imporre ai confinanti gli obblighi ivi previsti, nel richiamare esplicitamente la normativa vigente al riguardo, non appare adottato in violazione della suddetta normativa.
Invero, l’ordinanza impone gli obblighi e l’esecuzione dei lavori, relativamente a coloro che siano proprietari o abbiano comunque titolo nei terreni “confinanti” con il corpo stradale.
Al riguardo l’art. 14 del codice della strada assegna all’ente comunale il compito di provvedere alla manutenzione, gestione e pulizia della sede stradale, ma tale obbligo non si estende alle aree estranee circostanti, in particolare alle ripe site nei fondi laterali alle strade.
Le ripe, ai sensi dell’art. 31 del codice della strada, devono essere mantenute dai proprietari delle medesime in modo da impedire e prevenire situazioni di pericolo connesse a franamenti e cedimenti del corpo stradale o delle opere di sostegno, l’ingombro delle pertinenze e della sede stradale, nonché la caduta di massi o altro materiale, qualora siano immediatamente sovrastanti o sottostanti, in taglio o in riporto nel terreno preesistente alla strada, la scarpata del corpo stradale.
Tale impianto normativo non è contraddetto dall’ordinanza in questione, diretta a soggetti responsabili di terreni privati posti oltre il confine stradale, mentre rimangono a carico del Comune gli interventi riguardanti le strade in quanto tali, comprese le fasce di rispetto e le scarpate, ferma rimanendo, ovviamente, l’eventuale responsabilità del confinante che abbia illecitamente operato sulla sede stradale medesima (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 09.05.2012 n. 2158 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa creazione di balconi e l’apertura di finestre, modificando il prospetto principale dell’abitazione, non sono da considerare quale opera di manutenzione straordinaria.
Ciò si verifica anche se non venga alterata la volumetria dell’edificio, perché nuovi balconi e nuove finestre ne alterano i prospetti ed, in definitiva, la sagoma.
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La manutenzione straordinaria ha finalità conservative anche delle strutture (rifacimento globale della pavimentazione, degli intonaci, degli infissi, della copertura), mentre il restauro/risanamento conservativo può incidere addirittura sugli elementi «costitutivi dell'edificio».
Al riguardo va ricordato che gli interventi di manutenzione straordinaria previsti dall'art. 31, lett. b), L. 05.08.1978 n. 457 sono caratterizzati da un duplice limite: uno di ordine funzionale, costituito dalla necessità che i lavori siano diretti alla mera sostituzione o al puro rinnovo di parti dell'edificio, e l'altro di ordine strutturale, consistente nella proibizione di alterare i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari o di mutare la loro destinazione.
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Si è ritenuto in passato che l'apertura di balconi sul prospetto di un edificio richiede necessariamente il rilascio della concessione edilizia e non è assimilabile a lavori di manutenzione straordinaria o a quelli di restauro o risanamento conservativo, assoggettati all'autorizzazione comunale gratuita in virtù del combinato disposto degli art. 31 e 48, l. 05.08.1978, n. 457 e dell'art. 7, d.l. 23.01.1982, n. 9, convertito, con modificazioni, nella l. 25.03.1982, n. 94, posto che gli uni (corrispondenti ad opere o modifiche necessarie per rimuovere o sostituire parti anche strutturali degli edifici) sono diretti alla migliore conservazione degli edifici stessi senza che ne risultino trasformati nei loro aspetti prospettici, mentre gli altri (relativi ad un insieme sistematico di opere per assicurare la funzionalità dell'organismo edilizio) sono ammessi solo nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell' edificio in argomento.
Le predette acquisizioni giurisprudenziali sono confermate dal d.P.R. 06.06.2001 n. 380, con cui è stato emanato il T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia.
Successivamente all’emanazione del predetto T.U. si è ritenuto che l’alterazione del prospetto non sia riportabile a manutenzione straordinaria.
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Gli interventi consistenti ad es. nell'installazione di tettoie o di altre strutture che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi (cioè non compresi entro coperture volumetriche previste in un progetto assentito), possono ritenersi sottratti al regime della concessione edilizia (oggi permesso di costruire) soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendano evidente e riconoscibile la loro finalità di arredo o di riparo e protezione (anche da agenti atmosferici) dell'immobile cui accedono.
Invece tali strutture non possono ritenersi installabili senza permesso di costruire allorquando abbiano dimensioni tali da arrecare una visibile alterazione del prospetto dell'edificio.

La giurisprudenza amministrativa dominante ritiene che la creazione di balconi e l’apertura di finestre, modificando il prospetto principale dell’abitazione non siano da considerare quale opera di manutenzione straordinaria e tale insegnamento è conforme a quello della giurisprudenza penale (Cass. Pen. III n. 1806/1988).
Ciò si verifica anche se non venga alterata la volumetria dell’edificio, perché nuovi balconi e nuove finestre ne alterano i prospetti ed, in definitiva, la sagoma.
La manutenzione straordinaria ha finalità conservative anche delle strutture (rifacimento globale della pavimentazione, degli intonaci, degli infissi, della copertura), mentre il restauro/risanamento conservativo può incidere addirittura sugli elementi «costitutivi dell'edificio» (Consiglio Stato , sez. VI, 30.09.2008, n. 4694).
Al riguardo va ricordato che gli interventi di manutenzione straordinaria previsti dall'art. 31, lett. b), L. 05.08.1978 n. 457 sono caratterizzati da un duplice limite: uno di ordine funzionale, costituito dalla necessità che i lavori siano diretti alla mera sostituzione o al puro rinnovo di parti dell'edificio, e l'altro di ordine strutturale, consistente nella proibizione di alterare i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari o di mutare la loro destinazione (cfr. Cons. Stato, V Sez., n. 617/2003).
Si è ritenuto in passato che l'apertura di balconi sul prospetto di un edificio richiede necessariamente il rilascio della concessione edilizia e non è assimilabile a lavori di manutenzione straordinaria o a quelli di restauro o risanamento conservativo, assoggettati all'autorizzazione comunale gratuita in virtù del combinato disposto degli art. 31 e 48, l. 05.08.1978, n. 457 e dell'art. 7, d.l. 23.01.1982, n. 9, convertito, con modificazioni, nella l. 25.03.1982, n. 94, posto che gli uni (corrispondenti ad opere o modifiche necessarie per rimuovere o sostituire parti anche strutturali degli edifici) sono diretti alla migliore conservazione degli edifici stessi senza che ne risultino trasformati nei loro aspetti prospettici, mentre gli altri (relativi ad un insieme sistematico di opere per assicurare la funzionalità dell'organismo edilizio) sono ammessi solo nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell' edificio in argomento (Consiglio Stato, sez. V, 03.07.1995, n. 1004).
Le predette acquisizioni giurisprudenziali sono confermate dal d.P.R. 06.06.2001 n. 380, con cui è stato emanato il T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia.
Successivamente all’emanazione del predetto T.U. si è ritenuto che l’alterazione del prospetto non sia riportabile a manutenzione straordinaria.
Così si è ritenuto –ad esempio- che gli interventi consistenti ad es. nell'installazione di tettoie o di altre strutture che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi (cioè non compresi entro coperture volumetriche previste in un progetto assentito), possono ritenersi sottratti al regime della concessione edilizia (oggi permesso di costruire) soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendano evidente e riconoscibile la loro finalità di arredo o di riparo e protezione (anche da agenti atmosferici) dell'immobile cui accedono.
Invece tali strutture non possono ritenersi installabili senza permesso di costruire allorquando abbiano dimensioni tali da arrecare una visibile alterazione del prospetto dell'edificio (ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 13.03.2001, n. 1442; TAR Lazio Roma, Sez. II, 15.02.2002, n. 1055) (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 09.05.2012 n. 2151 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il criterio della vicinitas ed il danno risentito per la realizzazione dell'opera in (ritenuta) violazione delle distanze e del carico urbanistico della zona, integrano, rispettivamente, la legittimazione al ricorso e l'interesse concreto ed attuale, ai sensi dell’art. 100 cpc, all'impugnativa, da parte della ricorrente, proprietaria di un fondo confinante, configurando ex se una posizione qualificata e differenziata al corretto assetto del territorio, a prescindere da qualsiasi esame sul tipo di lesione che, in concreto, possa essere riconducibile alle opere compiute.
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In materia di rilascio di titoli edilizi, non sussiste identità tra le posizioni di coloro che sono legittimati ad impugnare il provvedimento finale e di coloro che hanno titolo a ricevere l'avviso del procedimento e/o che possono intervenirvi.
Invero, quando è proposta una domanda di concessione edilizia, il vicino del richiedente può intervenire nel corso del relativo procedimento e può impugnare il provvedimento che accolga l'istanza, ma non ha titolo per ricevere l'avviso dell'avvio del procedimento, in quanto ciò comporterebbe un inutile aggravio per la P.A., in contrasto con i principi di economicità e di efficienza dell'attività amministrativa.

Invero, il criterio della vicinitas ed il danno risentito per la realizzazione dell'opera in (ritenuta) violazione delle distanze e del carico urbanistico della zona, integrano, rispettivamente, la legittimazione al ricorso e l'interesse concreto ed attuale, ai sensi dell’art. 100 cpc, all'impugnativa, da parte della ricorrente, proprietaria di un fondo confinante, configurando ex se una posizione qualificata e differenziata al corretto assetto del territorio, a prescindere da qualsiasi esame sul tipo di lesione che, in concreto, possa essere riconducibile alle opere compiute (ex plurimis: Cons. Stato, Sez. VI, 20.10.2010, n. 7591).
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Secondo un principio generale in materia di rilascio di titoli edilizi, non sussiste identità tra le posizioni di coloro che sono legittimati ad impugnare il provvedimento finale e di coloro che hanno titolo a ricevere l'avviso del procedimento e/o che possono intervenirvi (ex plurimis: Cons. Stato Sez. VI: 12.04.2000 n. 2185 e 15.09.1999 n. 1197).
Invero, quando è proposta una domanda di concessione edilizia, il vicino del richiedente può intervenire nel corso del relativo procedimento e può impugnare il provvedimento che accolga l'istanza, ma non ha titolo per ricevere l'avviso dell'avvio del procedimento, in quanto ciò comporterebbe un inutile aggravio per la P.A., in contrasto con i principi di economicità e di efficienza dell'attività amministrativa (conf.: Cons. Stato, Sez. VI, 18.04.2005 n. 1773).
Né, nel caso di specie, risulta comprovata una posizione differenziata, che abilitava la ricorrente a ricevere detta comunicazione (per effetto della presentazione di diffide, esposti, istanze di accesso etc., intese ad evidenziare alla P.A. la supposta illegittimità dell’opera), qualificandola alla stregua di controinteressata in sede procedimentale: infatti, nella nota del Comune prot. 16362 del 15.04.2008, si indicano genericamente soltanto “ripetute denunce circa la conformità dei lavori di completamento”, senza alcun riferimento a dati ed elementi certi.
Inoltre, non vi è prova in atti che il Comune sia stato reso edotto del contenzioso civile pendente fra la ricorrente e la controinteressata società, in ordine all’attività edilizia per cui è causa
(TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, sentenza 09.05.2012 n. 433 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Allorché un’area edificabile venga successivamente frazionata in più parti tra vari proprietari, la volumetria disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell’intera area rimane invariata, con la conseguenza che, qualora sull’area originaria già insista una costruzione, i vari proprietari dei vari terreni in cui sia stato frazionato il fondo originario hanno a disposizione solo la volumetria residua, in proporzione alle rispettive (quote di) proprietà.
Infatti, poiché nel computo della volumetria assentibile sono da ricomprendere anche gli edifici preesistenti, le vicende inerenti alla proprietà dei terreni e, in particolare, il frazionamento del fondo da parte di un unico precedente proprietario, sono irrilevanti ai fini dell’edificabilità delle aree libere, le quali devono comunque intendersi asservite alle costruzioni già realizzate e pertanto restano edificabili nei soli limiti della volumetria residua.
In caso di preesistenza di edificio condominiale, la volumetria residua disponibile, secondo i principi generali che regolano l’uso della cosa comune ai sensi degli artt. 1102, 1108, 1120 e 1122 cod. civ., resta di pertinenza dei diversi proprietari in proporzione alle quote risultanti dalle tabelle millesimali, sicché il frazionamento di un’area di proprietà esclusiva di uno dei condomini non può incidere sulla volumetria residua disponibile (in misura proporzionale) dai vari proprietari. Ne consegue che la volumetria assentibile sull’area frazionata da una porzione d’immobile di proprietà esclusiva di uno dei condomini può essere computata entro i soli limiti della volumetria residua allo stesso spettante pro quota sulla parte di proprietà esclusiva, salvo un eventuale asservimento delle parti in (com)proprietà degli altri condomini con specifico atto che, quale atto di natura negoziale di straordinaria amministrazione, esige il consenso di tutti i condomini.

Si osserva in linea di diritto che secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, allorché un’area edificabile venga successivamente frazionata in più parti tra vari proprietari, la volumetria disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell’intera area rimane invariata, con la conseguenza che, qualora sull’area originaria già insista una costruzione, i vari proprietari dei vari terreni in cui sia stato frazionato il fondo originario hanno a disposizione solo la volumetria residua, in proporzione alle rispettive (quote di) proprietà. Infatti, poiché nel computo della volumetria assentibile sono da ricomprendere anche gli edifici preesistenti, le vicende inerenti alla proprietà dei terreni e, in particolare, il frazionamento del fondo da parte di un unico precedente proprietario, sono irrilevanti ai fini dell’edificabilità delle aree libere, le quali devono comunque intendersi asservite alle costruzioni già realizzate e pertanto restano edificabili nei soli limiti della volumetria residua (v., ex plurimis, C.d.S., Sez. V, 16.02.1987, n. 97; C.d.S., Sez. V, 17.05.1996; C.d.S., Sez. V, 10.02.2000, n. 749).
In caso di preesistenza di edificio condominiale, la volumetria residua disponibile, secondo i principi generali che regolano l’uso della cosa comune ai sensi degli artt. 1102, 1108, 1120 e 1122 cod. civ., resta di pertinenza dei diversi proprietari in proporzione alle quote risultanti dalle tabelle millesimali, sicché il frazionamento di un’area di proprietà esclusiva di uno dei condomini non può incidere sulla volumetria residua disponibile (in misura proporzionale) dai vari proprietari. Ne consegue che la volumetria assentibile sull’area frazionata da una porzione d’immobile di proprietà esclusiva di uno dei condomini può essere computata entro i soli limiti della volumetria residua allo stesso spettante pro quota sulla parte di proprietà esclusiva, salvo un eventuale asservimento delle parti in (com)proprietà degli altri condomini con specifico atto che, quale atto di natura negoziale di straordinaria amministrazione, esige il consenso di tutti i condomini (v., su tale ultimo punto, C.d.S., Sez. V, 28.06.2000, n. 3637).
Applicando le enunciate coordinate normative e giurisprudenziali alla fattispecie sub iudice, deve pervenirsi alla conclusione che lo scorporo della superficie di 436 mq dalla p.m. 1, di proprietà esclusiva dell’originario controinteressato, in assenza di idoneo titolo di asservimento delle parti di proprietà degli altri condomini, consentiva la realizzazione della nuova costruzione entro i limiti della sola volumetria pro quota residua riferibile alla parte di proprietà esclusiva dello stesso controinteressato, senza che l’area risultante dal frazionamento potesse considerarsi alla stregua di superficie edificabile ex novo prescindendo dalle preesistenze, pena la violazione dei diritti degli altri condomini sulla volumetria residua riferibile alla p.ed. 292 e la carenza in parte qua di titolo legittimante ex art. 70, comma 1, l. 11.08.1997, n. 13, (l. urb. prov.) in capo al richiedente la concessione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.05.2012 n. 2642 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl diniego di concessione o di autorizzazione a costruire, importando una contrazione dello jus aedificandi del proprietario, necessita di una circostanziata motivazione, esplicativa delle reali ragioni impeditive, da individuarsi in un contrasto del progetto presentato con precise norme urbanistiche, esplicitamente indicate.
La motivazione è, in particolare, necessaria sia per consentire all’interessato di dedurre specifiche ragioni per confutare la legittimità del provvedimento sia per adeguare eventualmente il progetto alle esigenze urbanistiche e paesaggistiche che si è inteso tutelare.
A tutela del buon andamento amministrativo e dell’esigenza di delimitazione del controllo giudiziario, nonché per evidenti ragioni di logica, la motivazione deve precedere e non seguire cronologicamente la parte dispositiva del provvedimento, sì che non ne è consentita l’integrazione postuma in corso di causa con la specificazione di elementi di fatto.

Il Collegio sottolinea che secondo il condivisibile indirizzo della giurisprudenza amministrativa <<il diniego di concessione o di autorizzazione a costruire, importando una contrazione dello jus aedificandi del proprietario, necessita di una circostanziata motivazione, esplicativa delle reali ragioni impeditive, da individuarsi in un contrasto del progetto presentato con precise norme urbanistiche, esplicitamente indicate.
La motivazione è, in particolare, necessaria sia per consentire all’interessato di dedurre specifiche ragioni per confutare la legittimità del provvedimento sia per adeguare eventualmente il progetto alle esigenze urbanistiche e paesaggistiche che si è inteso tutelare (Cfr. ex multis: Tar Basilicata, 19.09.2003, n. 897; Tar Campania Napoli, V, 15.04.2002, n. 109; Tar Calabria Reggio Calabria, 11.04.2002, n. 227; Tar Campania Napoli, IV, 18.12.2001, n. 5507).
Né possono essere presi in considerazione i rilievi formulati in giudizio dal Comune resistente […]. Ciò in quanto a tutela del buon andamento amministrativo e dell’esigenza di delimitazione del controllo giudiziario, nonché per evidenti ragioni di logica, la motivazione deve precedere e non seguire cronologicamente la parte dispositiva del provvedimento, sì che non ne è consentita l’integrazione postuma in corso di causa con la specificazione di elementi di fatto (da ultimo: Consiglio Stato, VI, 12.11.2009, n. 6997; Consiglio Stato, VI, 29.05.2008, n. 2555; Cons. Stato, V, 25.01.2003, n. 342)
>> (Tar Basilicata, I, 09.04.2010, n. 180; v. anche Tar Toscana, III, 14.09.2010, n. 5938).
Nel caso in oggetto, appunto, l’amministrazione si limitava, illegittimamente, a denunciare un generico contrasto dell’intervento con la <<normativa stabilita dal vigente Regolamento Edilizio Comunale e dalle N.T.A. del P.R.G.>> (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 07.05.2012 n. 775 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIANTIMAFIA/Il Consiglio di stato sulla cessione d'azienda. Appalti, conta la moralità anche degli ex manager.
Chi compra l'azienda e vuole ottenere l'appalto pubblico deve documentare che il management uscente fosse in possesso dei requisiti di moralità per fare affari con la pubblica amministrazione.
Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 04.05.2012 n. 10, intervenendo su una fattispecie anteriore alla legge 106/2011, che ha modificato il codice dei contratti pubblici.
Diritti garantiti. Bocciata la tesi che privilegia l'interpretazione letterale della norma, sul rilievo che ogni lettura estensiva finirebbe con ledere l'affidamento dei partecipanti, la par condicio tra i concorrenti e l'esigenza della più ampia partecipazione alla gare d'appalto, oltre che la libertà d'iniziativa economica costituzionalmente tutelata.
Il punto è che non si tratta di individuare per estensione altre cause ostative ma di verificare se la norma già di per sé comprenda o meno ipotesi non testuali, ma pur sempre ad essa riconducibili sotto il profilo della sostanziale continuità del soggetto imprenditoriale a cui si riferiscono, sicché il soggetto cessato dalla carica sia identificabile come interno al concorrente.
E Palazzo Spada ritiene che nella causa di esclusione in esame non può non ricadere anche l'ipotesi in cui affiori l'intento di eludere la norma in relazione a vicende in atto o prevedibili. Non bisogna dimenticare, infatti, che la ratio della norma è tentare di evitare che la criminalità metta le mani sugli appalti pubblici. Insomma, in caso di cessione d'azienda antecedente alla partecipazione ad una gara d'appalto il cessionario deve presentare la dichiarazione relativa al requisito di cui all'articolo 38, comma 2, lettera c), del dlgs 163/2006 anche in riferimento agli amministratori e ai direttori tecnici che hanno operato presso la cedente nell'ultimo triennio (ora nell'ultimo anno).
Vantaggi e svantaggi. Il cessionario, comunque, può dimostrare che nel caso concreto è intervenuta completa cesura tra vecchia e nuova gestione, tale da escludere la rilevanza della condotta dei precedenti amministratori e direttori tecnici operanti nell'azienda ceduta nell'ultimo triennio (ora nell'ultimo anno).
E se la dichiarazione non è presentata? Se il bando non contiene al riguardo una comminatoria di esclusione ad hoc, l'azienda potrà essere esclusa soltanto qualora sia effettivamente riscontrabile l'assenza del requisito di moralità in capo agli amministratori uscenti. La spiegazione, peraltro, va ricercata nell'antico brocardo latino «ubi commoda, ibi incommoda», vale a dire che chi subentra nell'azienda deve farsi carico degli svantaggi oltre che dei vantaggi che scaturiscono dal trasferimento dell'impresa. Il cessionario, come si avvale dei requisiti del cedente sul piano della partecipazione a gare pubbliche, così risente delle conseguenze delle eventuali responsabilità del cedente sullo stesso piano.
Nel caso di specie al centro del mirino c'è un'azienda di Gomorra: l'operazione, all'ombra di sospette collusioni con la camorra, sembra posta in essere per mettere l'azienda ceduta al riparo da eventuali interdittive antimafia (articolo ItaliaOggi del 19.05.2012).

URBANISTICAIl piano di zona per l’edilizia residenziale pubblica previsto dalla l. n. 167/1962 si connota in termini di strumento urbanistico di secondo livello rispetto al programma di fabbricazione e che, avendo una natura ed un procedimento specializzato, con estensione limitata e finalizzata ad acquisire le sole aree per costruire alloggi da assegnare a categorie popolari e per creare i relativi standards, neppure può assimilarsi tout court agli altri strumenti urbanistici esecutivi di quelli generali.
Esso integra, cioè, una tipologia di programmazione a sé stante, con cui l’amministrazione opera le proprie scelte di distribuzione temporale degli interventi previsti, tenendo conto di tutte le variabili (fabbisogno abitativo, finanziamenti, necessità di urbanizzazione, ecc.) e delle necessarie interconnessioni con altri strumenti urbanistici, e che assolve simultaneamente più funzioni, producendo effetti giuridici di ordine diverso: da un lato, è una species del genus dei piani urbanistici particolareggiati –e in questo senso attua e specifica, per una limitata porzione del territorio comunale, le previsioni del piano regolatore generale mediante necessarie prescrizioni di dettaglio– e, d’altro lato, è un programma di interventi pubblici per la realizzazione di nuovi alloggi di edilizia economica e popolare –e in questo senso non è più tanto uno strumento di pianificazione urbanistica, quanto uno strumento di politica economica, in forza del quale l'ente locale acquisisce, mediante espropriazioni generalizzate, aree fabbricabili, le urbanizza e le divide in lotti che assegna ad un prezzo non speculativo.

Sul punto, giova rimarcare che il piano di zona per l’edilizia residenziale pubblica previsto dalla l. n. 167/1962 si connota in termini di strumento urbanistico di secondo livello (cfr. Cons. Stato, ad. plen. 03.07.1997, n. 12; sez. IV, 21.05.2004, n. 3320) rispetto al programma di fabbricazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 25.01.1999, n. 70) e che, avendo una natura ed un procedimento specializzato, con estensione limitata e finalizzata ad acquisire le sole aree per costruire alloggi da assegnare a categorie popolari e per creare i relativi standards (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 09.11.1995, n. 895), neppure può assimilarsi tout court agli altri strumenti urbanistici esecutivi di quelli generali.
Esso integra, cioè, una tipologia di programmazione a sé stante, con cui l’amministrazione opera le proprie scelte di distribuzione temporale degli interventi previsti, tenendo conto di tutte le variabili (fabbisogno abitativo, finanziamenti, necessità di urbanizzazione, ecc.) e delle necessarie interconnessioni con altri strumenti urbanistici, e che assolve simultaneamente più funzioni, producendo effetti giuridici di ordine diverso: da un lato, è una species del genus dei piani urbanistici particolareggiati –e in questo senso attua e specifica, per una limitata porzione del territorio comunale, le previsioni del piano regolatore generale mediante necessarie prescrizioni di dettaglio– e, d’altro lato, è un programma di interventi pubblici per la realizzazione di nuovi alloggi di edilizia economica e popolare –e in questo senso non è più tanto uno strumento di pianificazione urbanistica, quanto uno strumento di politica economica, in forza del quale l'ente locale acquisisce, mediante espropriazioni generalizzate, aree fabbricabili, le urbanizza e le divide in lotti che assegna ad un prezzo non speculativo– (cfr. TAR Basilicata, Potenza, 05.11.2004, n. 740) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 03.05.2012 n. 2030 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAA mente dell'art. 9 del d.p.r. n. 380/2001, costituisce regola generale ed imperativa, in materia di governo del territorio, il rispetto delle previsioni dello strumento urbanistico di primo livello che impongano, per una determinata zona, la pianificazione di dettaglio: tali prescrizioni sono vincolanti e idonee ad inibire l'intervento diretto costruttivo. Corollari immediati di tale principio fondamentale sono che:
a) quando lo strumento urbanistico generale prevede che la sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello inferiore, il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo che lo strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace, ossia dopo la conclusione del relativo procedimento;
b) in presenza di una normativa urbanistica generale che preveda per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona l'esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare tale prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa.
Ed invero, i piani particolareggiati e i piani di lottizzazione hanno lo scopo di garantire che all'edificazione del territorio a fini residenziali corrisponda l'approvvigionamento delle dotazioni minime di infrastrutture pubbliche, le quali, a loro volta, garantiscono la normale qualità del vivere in un aggregato urbano. Cosicché può prescindersi dalle cennate convenzioni urbanistiche, solo quando detti standards siano altrimenti rispettati. Diversamente opinando, col rilascio di singoli permessi di costruire in area non pienamente urbanizzata, gli interessati verrebbero legittimati ad utilizzare l’intera proprietà a fini privati, scaricando sulla collettività i costi conseguenti alla realizzazione di infrastrutture per i nuovi insediamenti.

Il Collegio intende dare seguito alla giurisprudenza in base alla quale, a mente dell'art. 9 del d.p.r. n. 380/2001, costituisce regola generale ed imperativa, in materia di governo del territorio, il rispetto delle previsioni dello strumento urbanistico di primo livello che impongano, per una determinata zona, la pianificazione di dettaglio: tali prescrizioni sono vincolanti e idonee ad inibire l'intervento diretto costruttivo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30.12.2008, n. 6625). Corollari immediati di tale principio fondamentale sono che:
a) quando lo strumento urbanistico generale prevede che la sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello inferiore, il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo che lo strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace, ossia dopo la conclusione del relativo procedimento (cfr. Cons. Stato sez. V, 01.04.1997, n. 300);
b) in presenza di una normativa urbanistica generale che preveda per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona l'esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare tale prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 03.11.2008, n. 5471).
Ed invero, i piani particolareggiati e i piani di lottizzazione hanno lo scopo di garantire che all'edificazione del territorio a fini residenziali corrisponda l'approvvigionamento delle dotazioni minime di infrastrutture pubbliche, le quali, a loro volta, garantiscono la normale qualità del vivere in un aggregato urbano. Cosicché può prescindersi dalle cennate convenzioni urbanistiche, solo quando detti standards siano altrimenti rispettati. Diversamente opinando, col rilascio di singoli permessi di costruire in area non pienamente urbanizzata, gli interessati verrebbero legittimati ad utilizzare l’intera proprietà a fini privati, scaricando sulla collettività i costi conseguenti alla realizzazione di infrastrutture per i nuovi insediamenti (Cons. Stato, sez. V, 03.03.2004, n. 1013)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 03.05.2012 n. 2030 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl diniego di una concessione edilizia volta alla costruzione di un fabbricato può essere legittimamente opposto, allorquando sia verificata, sulla base della reale situazione dell'area, l'effettiva esigenza della redazione di un piano particolareggiato; e che, pertanto, sia legittimo il diniego di concessione edilizia in presenza di un insediamento su un’area da destinare ad urbanizzazione, quando l'adozione di un nuovo piano attuativo sia giustificata in virtù dell'insufficiente urbanizzazione primaria e secondaria della zona.
Ed invero, non è sufficiente un qualsiasi stadio di urbanizzazione di fatto per eludere il principio fondamentale della pianificazione e per eventualmente aumentare i guasti urbanistici già verificatisi, essendo la pianificazione dell'urbanizzazione doverosa fino a quando essa conservi una qualche utile funzione anche in aree già compromesse o edificate.

E' evidente che, ove si tratti di asservire per la prima volta ad insediamenti edilizi aree non ancora urbanizzate –che obiettivamente richiedano, per il loro armonico raccordo col preesistente aggregato abitativo, la realizzazione o il potenziamento delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria volte a soddisfare le esigenze della collettività– si rende necessario un piano esecutivo (particolareggiato o di lottizzazione), quale presupposto per il rilascio del permesso di costruire (cfr. Cons. Stato, ad. plen., 20.05.1980 n. 18; 06.12.1992 n. 12; sez. V, 13.11.1990, n. 776; 06.04.1991, n. 446; 07.01.1999, n. 1; sez. IV, 22.05.2006, n. 3001; 04.12.2007, n. 6171 TAR Campania, sez. IV, 02.03.2000, n. 596; 08.05.2003, n. 5330; TAR Lazio, Latina, 27.10.2006, n. 1375; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 02.02.2005, n. 4403 - aprile 2007, n. 1501; 15.03.2007, n. 1037).
In tale fattispecie, nella quale l’originaria integrità del territorio non è sostanzialmente vulnerata, deve essere rigorosamente rispettata la cadenza, in ordine successivo, dell'approvazione del piano regolatore generale e dello strumento urbanistico attuativo, in modo da garantire una pianificazione razionale e ordinata del futuro sviluppo del territorio dal punto di vista urbanistico.
Il piano esecutivo, previsto dallo strumento urbanistico generale come presupposto dell'edificazione, non ammette, cioè, equipollenti, nel senso che, in sede amministrativa o giurisdizionale, non possono essere effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile realizzare costruzioni, che, ad avviso del legislatore, incidono negativamente sul razionale assetto del territorio, vanificando la funzione del piano attuativo, la cui approvazione può essere stimolata dall'interessato, con gli strumenti consentiti dal sistema (Cons. Stato, sez. V, 03.03.2004, n. 1013; 10.12.2003, n. 7799; sez. IV, 19.02.2008, n. 531).
L’indefettibilità dello strumento urbanistico attuativo neppure viene meno nelle ipotesi di zone edificate, esposte al rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle quali la pianificazione può ancora conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto (Cons. Stato, sez. V, 01.12.2003, n. 7799); zone nelle quali si prospetti, quindi, l'esigenza di raccordare armonicamente le nuove costruzioni col preesistente aggregato urbano e di potenziare le opere di urbanizzazione esistenti, tanto più quando il nuovo intervento edilizio, per le sue dimensioni, abbia un consistente impatto sull'assetto territoriale; e nelle quali la preventiva redazione di un piano attuativo per il rilascio del titolo abilitativo edilizio si ponga, in definitiva, come imprescindibile (TAR Veneto, Venezia, sez. II, 31.03.2003, n. 2171; 08.09.2006, n. 2893; TAR Lazio, Roma, sez. II, 13.09.2006, n. 8463).
Così, è stato ritenuto che il diniego di una concessione edilizia volta alla costruzione di un fabbricato possa essere legittimamente opposto, allorquando sia verificata, sulla base della reale situazione dell'area, l'effettiva esigenza della redazione di un piano particolareggiato; e che, pertanto, sia legittimo il diniego di concessione edilizia in presenza di un insediamento su un’area da destinare ad urbanizzazione, quando l'adozione di un nuovo piano attuativo sia giustificata in virtù dell'insufficiente urbanizzazione primaria e secondaria della zona (TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 05.02.2004, n. 230).
Ed invero, non è sufficiente un qualsiasi stadio di urbanizzazione di fatto per eludere il principio fondamentale della pianificazione e per eventualmente aumentare i guasti urbanistici già verificatisi, essendo la pianificazione dell'urbanizzazione doverosa fino a quando essa conservi una qualche utile funzione anche in aree già compromesse o edificate (TAR Puglia, Lecce, sez. III, 18.01.2005, n. 164)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 03.05.2012 n. 2030 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa sottoposizione di un’area a vincoli quali quelli paesaggistici unitamente alla contemporanea ricorrenza delle ulteriori condizioni elencate nell’art. 32, comma 27, lett. d) d.l. n. 269, conv. in l. 326/2003, rende impossibile l’accoglimento dell’istanza di condono edilizio in essa realizzato, configurando come atto dovuto l’adozione da parte dell’Amministrazione del diniego della stessa istanza.
Ne consegue che, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, l. 07.08.1990 n. 241, “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.

La sottoposizione di un’area a vincoli quali quelli paesaggistici, dichiarati con riferimento all’area di specie, unitamente alla contemporanea ricorrenza delle ulteriori condizioni elencate nell’art. 32, comma 27, lett. d) citato, rende impossibile l’accoglimento dell’istanza di condono edilizio in essa realizzato, configurando come atto dovuto l’adozione da parte dell’Amministrazione del diniego della stessa istanza (TAR, Lazio, Roma, sez. II, 09.12.2009, n. 12644).
Ne consegue che, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, l. 07.08.1990 n. 241, “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato
(TAR Lazio Roma, sez. I, 09.02.2010, n. 1785) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 02.05.2012 n. 757 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAa) la nozione di “pertinenza urbanistica” ha peculiarità sue proprie, che la distinguono da quella civilistica: si deve trattare, invero, di un’opera -che abbia comunque una propria individualità fisica e una propria conformazione strutturale e non sia parte integrante o costitutiva di altro fabbricato- preordinata a un’oggettiva esigenza dell’edificio principale, funzionalmente e oggettivamente inserita al servizio dello stesso, sfornita di un autonomo valore di mercato, non valutabile in termini di cubatura o comunque dotata di un volume minimo tale da non consentire, in relazione anche alle caratteristiche dell’edificio principale, una sua destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell’immobile cui accede. La pertinenza, in definitiva, esaurisce la propria destinazione d’uso nel rapporto funzionale con l’edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico;
b) nello specifico, la relazione con la costruzione preesistente deve essere, in ogni caso, non d’integrazione ma “di servizio”, allo scopo di renderne più agevole e funzionale l’uso (carattere di strumentalità funzionale), sicché non può ricondursi alla nozione in esame l’ampliamento di un edificio mediante l’edificazione di un vano e relativi servizi, che, per la relazione di connessione fisica, costituisce parte di esso quale elemento che attiene all’essenza dell’immobile e lo completa affinché soddisfi ai bisogni cui è destinato.

Secondo giurisprudenza consolidata:
a) la nozione di “pertinenza urbanistica” ha peculiarità sue proprie, che la distinguono da quella civilistica: si deve trattare, invero, di un’opera -che abbia comunque una propria individualità fisica e una propria conformazione strutturale e non sia parte integrante o costitutiva di altro fabbricato- preordinata a un’oggettiva esigenza dell’edificio principale, funzionalmente e oggettivamente inserita al servizio dello stesso, sfornita di un autonomo valore di mercato, non valutabile in termini di cubatura o comunque dotata di un volume minimo tale da non consentire, in relazione anche alle caratteristiche dell’edificio principale, una sua destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell’immobile cui accede. La pertinenza, in definitiva, esaurisce la propria destinazione d’uso nel rapporto funzionale con l’edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico (TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 25.01.2012, n. 164; TAR Marche, Ancona, sez. I, 01.08.2011, n. 634; TAR Abruzzo Pescara, sez. I, 17.11.2010, n. 1221).
b) nello specifico, la relazione con la costruzione preesistente deve essere, in ogni caso, non d’integrazione ma “di servizio”, allo scopo di renderne più agevole e funzionale l’uso (carattere di strumentalità funzionale), sicché non può ricondursi alla nozione in esame l’ampliamento di un edificio mediante l’edificazione di un vano e relativi servizi, che, per la relazione di connessione fisica, costituisce parte di esso quale elemento che attiene all’essenza dell’immobile e lo completa affinché soddisfi ai bisogni cui è destinato (Cassazione penale, sez. III, 24.03.2010, n. 24241).
Ora, nel caso di specie, trattasi di vano, con relativi servizi, privo di una propria individualità fisica e di una propria conformazione strutturale in quanto parte di altro fabbricato (l’abitazione già esistente), della quale costituisce un ampliamento, completandola per i bisogni cui è destinato (a residenza familiare), valutabile in termini di cubatura (mq. 47,12 pari a mc. 162,50: cfr. dichiarazione del 6 dicembre 2004, allegata alla domanda di definizione degli illeciti edilizi) e, dunque, tale incidere sul carico urbanistico.
Incorre, pertanto, nell’abuso edilizio colui che realizza un ampliamento dell’abitazione di proprietà, già sanata, in una zona sottoposta a vincolo paesaggistico, non suscettibile, per i motivi anzidetti, di sanatoria edilizia
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 02.05.2012 n. 757 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’indicazione dell’area di sedime, così come di quella necessaria per opere analoghe a quelle abusive, da acquisire al patrimonio comunale “non deve considerarsi requisito dell’ordinanza di demolizione -e dunque la mancanza non ne inficia la legittimità- giacché siffatta specificazione è elemento essenziale del distinto provvedimento con cui l’Amministrazione accerta la mancata ottemperanza alla demolizione da parte dell’ingiunto”.
Il contenuto essenziale dell’ingiunzione di demolizione va individuato in relazione alla funzione tipica del provvedimento, che è quella di prescrivere la rimozione delle opere abusive. Pertanto, ai fini della legittimità dell’atto è necessaria e sufficiente l’analitica indicazione delle opere abusivamente realizzate in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente.

Uniformandosi alla giurisprudenza prevalente, la Sezione ha ritenuto che l’indicazione dell’area di sedime, così come di quella necessaria per opere analoghe a quelle abusive, da acquisire al patrimonio comunale “non deve considerarsi requisito dell’ordinanza di demolizione -e dunque la mancanza non ne inficia la legittimità- giacché siffatta specificazione è elemento essenziale del distinto provvedimento con cui l’Amministrazione accerta la mancata ottemperanza alla demolizione da parte dell’ingiunto” (TAR Puglia Lecce, sez. III, 28.07.2011, n. 1461, 24.03.2011, n. 518 e 09.12.2010, n. 2809; nello stesso senso, TAR Piemonte Torino, sez. I, 24.03.2010, n. 1577).
Il contenuto essenziale dell’ingiunzione di demolizione va individuato in relazione alla funzione tipica del provvedimento, che è quella di prescrivere la rimozione delle opere abusive. Pertanto, ai fini della legittimità dell’atto è necessaria e sufficiente l’analitica indicazione delle opere abusivamente realizzate in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente (TAR Lazio Roma, sez. I, 09.02.2010, n. 1785)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 02.05.2012 n. 757 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La disciplina dell’accesso agli atti amministrativi non condiziona l’esercizio del relativo diritto alla titolarità di una posizione giuridica tutelata in modo pieno, quale il diritto soggettivo del soggetto che ha conferito un capitale in una società commerciale, essendo sufficiente il collegamento con una situazione giuridicamente riconosciuta anche in misura attenuata.
La giurisprudenza afferma, infatti, che la legittimazione all'accesso va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti procedimentali oggetto dell'accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica, stante l'autonomia del diritto di accesso, inteso come interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla situazione legittimante all'impugnativa dell'atto.
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L'interesse che legittima la richiesta di accesso, oltre ad essere serio e non emulativo, deve essere “personale e concreto”, ossia ricollegabile alla persona dell'istante da uno specifico nesso: in sostanza occorre che il richiedente intenda difendere una situazione di cui è portatore, qualificata dall'ordinamento come meritevole di tutela, non essendo sufficiente il generico e indistinto interesse di ogni cittadino alla legalità o al buon andamento della attività amministrativa.
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Per stabilire se sussiste il diritto all’accesso, occorre avere riguardo al documento cui si intende accedere, per verificarne l’incidenza, anche potenziale, sull’interesse di cui il soggetto è portatore.
In altri termini, essere titolare di una situazione giuridicamente tutelata non è condizione sufficiente perché l’interesse rivendicato possa considerarsi “diretto, concreto e attuale”, essendo anche necessario che la documentazione cui si chiede di accedere sia collegata a quella posizione sostanziale, impedendone o ostacolandone il soddisfacimento.
L'Amministrazione, pertanto, secondo lo schema logico imposto dall’art. 22 della legge n. 241 del 1990, deve verificare se gli atti, cui si chiede di accedere, siano in qualche modo collegati con la suddetta situazione giuridica, vale a dire se la conoscenza degli atti stessi, e le iniziative eventualmente conseguenti, siano in grado di concorrere alla tutela della medesima situazione giuridica.

La disciplina dell’accesso agli atti amministrativi, infatti, non condiziona l’esercizio del relativo diritto alla titolarità di una posizione giuridica tutelata in modo pieno, quale il diritto soggettivo del soggetto che ha conferito un capitale in una società commerciale, essendo sufficiente il collegamento con una situazione giuridicamente riconosciuta anche in misura attenuata. La giurisprudenza afferma, infatti, che la legittimazione all'accesso va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti procedimentali oggetto dell'accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica, stante l'autonomia del diritto di accesso, inteso come interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla situazione legittimante all'impugnativa dell'atto (Consiglio di Stato, sezione VI, 09.03.2011, n. 1492 ).
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Fin dalle prime pronunce del Consiglio di Stato sull’interpretazione dell’art. 22 della legge 07.08.1990 n. 241, (sezione IV, 26.11.1993, n. 1036) fu riconosciuta la legittimazione del Codacons ad esercitare il diritto di accesso ai documenti dell'Amministrazione in relazione ad interessi che pertengono ai consumatori e utenti di pubblici servizi.
Cionondimeno, già nella sentenza citata, si precisò che la disposizione di cui all'art. 22, comma 1, della legge n. 241 del 1990, pur riconoscendo il diritto di accesso a "chiunque vi abbia interesse" non ha tuttavia introdotto alcun tipo di azione popolare diretta a consentire una sorta di controllo generalizzato sulla Amministrazione, tant'è che ha contestualmente definito siffatto interesse come finalizzato alla “tutela” di "situazioni giuridicamente rilevanti".
Anche sulla scorta dell’art. 2 del primo regolamento attuativo della legge, con riferimento all’accesso, approvato con d.P.R. 27.06.1992 n. 352, fu chiarito che l'interesse che legittima la richiesta di accesso, oltre ad essere serio e non emulativo, deve essere “personale e concreto”, ossia ricollegabile alla persona dell'istante da uno specifico nesso: in sostanza occorre che il richiedente intenda difendere una situazione di cui è portatore, qualificata dall'ordinamento come meritevole di tutela, non essendo sufficiente il generico e indistinto interesse di ogni cittadino alla legalità o al buon andamento della attività amministrativa.
Da questo indirizzo interpretativo la giurisprudenza del Consiglio di Stato non si è mai discostata (Sez. VI, 23.11.2000, n. 5930; Sez. IV, 06.10.2001 n. 5291; Sez. VI, 22.10.2002 n. 5818; Sez.. V, 16.01.2005 n. 127; Sez. IV, 24.02.2005, n. 658; Sez. VI, 10.02.2006 n. 555; Sez. VI, 01.02.2007 n. 416).
Il detto orientamento, del resto, ha ricevuto ulteriore supporto dalla legge 11.02.2005 n. 15, cit. con la quale sono state apportate modifiche alla legge n. 241 del 1990. Con la novella, non solo è stato introdotto nell’art. 24, il comma 3, secondo cui sono inammissibili istanze di accesso “preordinate ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni”, ma anche e, soprattutto, si è meglio definita la figura del soggetto “interessato” all’accesso, come quello che -come era già prescritto- abbia un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata, ma anche che -ed è questa l’innovazione- tale situazione sia “collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”.
La puntualizzazione chiarisce che, per stabilire se sussiste il diritto all’accesso, occorre avere riguardo al documento cui si intende accedere, per verificarne l’incidenza, anche potenziale, sull’interesse di cui il soggetto è portatore.
In altri termini, essere titolare di una situazione giuridicamente tutelata non è condizione sufficiente perché l’interesse rivendicato possa considerarsi “diretto, concreto e attuale”, essendo anche necessario che la documentazione cui si chiede di accedere sia collegata a quella posizione sostanziale, impedendone o ostacolandone il soddisfacimento.
L'Amministrazione, pertanto, secondo lo schema logico imposto dall’art. 22 della legge n. 241 del 1990, deve verificare se gli atti, cui si chiede di accedere, siano in qualche modo collegati con la suddetta situazione giuridica, vale a dire se la conoscenza degli atti stessi, e le iniziative eventualmente conseguenti, siano in grado di concorrere alla tutela della medesima situazione giuridica
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 24.04.2012 n. 7 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl carattere precario del manufatto non dipende <<dai materiali utilizzati o dal suo sistema di ancoraggio al suolo, bensì dall'uso al quale il manufatto è destinato, e va dunque valutata alla luce della obiettiva ed intrinseca destinazione naturale dell'opera, a nulla rilevando la temporanea destinazione data alla stessa dai proprietari>>.
In questo prospettiva, un impianto fotovoltaico a terra, indipendentemente dai materiali utilizzati e dai criteri di ancoraggio al suolo, si presenta oggettivamente finalizzata a soddisfare esigenze non temporanee dell’azienda agricola e, quindi, non può essere considerata in termini di opera precaria.

... per l'annullamento:
- del parere prot. 3302/2010 del 21.02.2011, con cui il Comune di Cinigiano - Area Tecnica Ufficio Urbanistica, ha espresso parere contrario in merito al Programma di Miglioramento Agricolo Ambientale, redatto ai sensi della L.R. 1/2005 dal Sig. R.C. e presentato in data 29.06.2010, e relativo alla realizzazione di impianto fotovoltaico a terra e incremento superficie vitata sui terreni di proprietà dell'azienda Terra Rossa, posti in Borgo S. Rita - Cinigiano (Gr);
...
Già in sede cautelare (TAR Toscana, sez. II, 01.06.2011 n. 634), la Sezione ha avuto modo di rilevare, con riferimento al preteso carattere pertinenziale e precario dell’impianto fotovoltaico, come la costruzione proposta da parte ricorrente non possa trovare accoglimento, <<considerato che non si riscontra l’invocata natura pertinenziale dell’impianto fotovoltaico, attesa la dimensione del medesimo e la sua stessa destinazione evidenziata dal ricorrente -tesa a conferire la corrente elettrica alla rete e non ad asservire esclusivamente un edificio principale- nonché la conformazione dell’impianto che è destinato ad una trasformazione funzionale dello stato dei luoghi, indipendentemente dall’amovibilità potenziale delle singole componenti>>.
Ed in effetti, nella fattispecie manca certamente quel <<rapporto di strumentalità o complementarità funzionale>> (Consiglio di Stato, sez. IV 15.12.2011 n. 6606; sez. VI 11.05.2011 n. 2781) con i manufatti esistenti sull’area che, per giurisprudenza univoca, costituisce il requisito costitutivo delle cd. pertinenze urbanistiche.
A questo proposito, la Sezione non dubita certo che i proventi derivanti dalla possibile installazione dell’impianto costituiscano una fonte di entrate di tale importanza da risultare complementare, nella complessiva economia dell’azienda, all’attività principale di coltivazione agricola svolta sull’area; sotto il profilo urbanistico-edilizio, si tratta però di innovazione che non si pone certo in rapporto di pertinenzialità con l’esistente, ma che deve essere valutata come nuova ed autonoma edificazione, in virtù delle proprie caratteristiche intrinseche di trasformazione del territorio.
Per quello che riguarda l’altro profilo della possibile natura precaria delle opere, deve poi trovare applicazione l’indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato che ha rilevato come il carattere precario del manufatto non dipenda <<dai materiali utilizzati o dal suo sistema di ancoraggio al suolo, bensì dall'uso al quale il manufatto è destinato, e va dunque valutata alla luce della obiettiva ed intrinseca destinazione naturale dell'opera, a nulla rilevando la temporanea destinazione data alla stessa dai proprietari>> (Consiglio Stato, sez. IV, 15.05.2009 n. 3029; sez. V 20.06.2011 n. 3683).
In questo prospettiva, l’opera progettata dal ricorrente, indipendentemente dai materiali utilizzati e dai criteri di ancoraggio al suolo, si presenta oggettivamente finalizzata a soddisfare esigenze non temporanee dell’azienda agricola e, quindi, non può essere considerata in termini di opera precaria (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 23.04.2012 n. 809 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROGETTUALI: I professionisti partecipanti a gare pubbliche hanno l’obbligo di indicare le eventuali forme di collaborazione tra loro?
I progettisti che partecipano insieme ad una gara devono sempre indicare la forma giuridica in base alla quale intendono collaborare al fine di svolgere l’incarico.

Questo è quanto stabilito dal TAR Puglia-Lecce, Sez. III,con la sentenza 23.04.2012 n. 713 che ha rigettato il ricorso presentato da alcuni professionisti che contestavano tale obbligo, dopo la loro esclusione da parte della Stazione Appaltante da una gara per lavori di riqualificazione urbana.
In base alla sentenza, il mancato chiarimento della forma di collaborazione costituisce motivo di esclusione da una gara pubblica (commento tratto da www.acca.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Lottizzazione, con i lotti si cede anche la volumetria? Per la Cassazione necessarie verifiche precise sulla convenzione.
Il lottizzatore e' titolare della cubatura sui lotti del comparto edilizio. A meno che non si provi che cedendo i singoli lotti ha ceduto anche la volumetria.
E' quanto deciso dalla Corte di Cassazione, III Sez. penale, con la sentenza 18.04.2012 n. 14894, che ha accolto il ricorso dell'imputato.
Vediamo di ricostruire ciò che è successo nel caso giudicato dalla cassazione nella sentenza in commento e di illustrare il principio di diritto enunciato.
Nel caso specifico due imputati hanno dichiarato ad un comune di avere ancora disponibilità di volumetria relativamente ad alcuni lotti: secondo la tesi accusatoria si è trattata di una falsa dichiarazione per indurre in errore il comune e ottenere una concessione edilizia per costruire su un diverso lotto utilizzando la cubatura dei primi.
Seppure prosciolti per prescrizione, il procedimento è arrivato fino in cassazione, su ricorso degli imputati, condannati a risarcire i danni alle parti civili e cioè gli acquirenti delle case costruite sui singoli lotti, convinti di avere la titolarità della cubatura, utilizzata invece dai venditori.
Gli imputati hanno sostenuto che il giudice di merito ha travisato la disciplina sulle lottizzazioni.
Secondo i ricorrenti la capacità edificatoria, conseguente alla lottizzazione, non si trasferisce agli acquirenti dei singoli lotti, su cui sono state costruite le case.
Quindi questi ultimi non diventano titolari della cubatura, tanto è vero che non possono essere definiti lottizzanti.
Gli imputati hanno, quindi, sostenuto che, nel caso di lottizzazione, la volumetria è calcolata complessivamente sull'intero comparto lottizzato ed è ricollegata alla convenzione stipulata tra i lottizzanti ed il comune.
Se così è, gli interessati ne hanno tratto la conclusione di non avere formulato una falsa dichiarazione nel momento in cui hanno affermato di avere la disponibilità della capacità insediativa sui lotti (già venduti).
La corte ha accolto questa argomentazione.
Secondo la cassazione la lottizzazione di un'area si completa e diviene perfetta con la stipula della convenzione, con la quale vengono definiti il progetto lottizzatorio e la volumetria dell'intero comparto (cosiddetto indice territoriale), con corrispondente assunzione da parte del soggetto attuatore di tutti gli obblighi di urbanizzazione necessari alla realizzazione del comparto edificatorio.
La stipula, pertanto, è la condizione di efficacia del provvedimento di autorizzazione alla lottizzazione. Il soggetto attuatore del piano di lottizzazione è chi stipula la convenzione di lottizzazione e poi costruisce o vende i singoli lotti, dopo avere eseguito le opere di urbanizzazione o ceduto le aree al comune per l'esecuzione delle stesse, attuando direttamente o per mezzo degli acquirenti dei lotti la convenzione.
Tra l'altro in tema di volumetria del comparto, se la convenzione ha stabilito la volumetria massima edificabile per ciascun lotto, vale la regola per cui sul lotto singolo può essere realizzata una volumetria inferiore o anche nulla; è perciò possibile che alcuni lotti non vengano affatto edificati oppure è anche possibile concentrare le quantità di volumetria su lotti contigui, nel rispetto della volumetria consentita, distanze e destinazione d'uso dei fabbricati e previa approvazione di un nuovo piano di lottizzazione, con tutte le varianti del caso.
Nel caso specifico certamente la cubatura residua su alcuni lotti è stata trasferita ad altro lotto, previa dichiarazione di disponibilità della capacità edificatoria e da qui è scaturita la condanna per falso.
Il giudice di merito, tuttavia, si è limitato ad affermare che la volumetria fosse stata distribuita tra i vari lotti con trasferimento dello ius aedificandi insieme alla vendita dei singoli lotti e degli edifici realizzati: gli acquirenti in sostanza, secondo la corte di appello, sarebbero diventati titolari del diritto sulla cubatura residua con la semplice acquisizione dei lotti.
Per il giudice di merito ciò era desumibile dal fatto che mancavano gli atti di trasferimento volumetrico o comunque di conferimento della facoltà di utilizzo di superficie da parte degli acquirenti dei singoli lotti agli imputati.
Solo con atti di asservimento, secondo il giudice di merito, gli imputati avrebbero potuto dichiarare di avere la disponibilità edificatoria.
In mancanza sarebbe integrato il delitto di falsa dichiarazione di possedere la cubatura.
La cassazione non è stata di questa opinione, ritenendo che per pervenire a una sentenza di condanna si sarebbe dovuto accertare l'esatto tenore della convenzione di lottizzazione e degli atti di cessione dei lotti.
Con riferimento agli atti di cessione bisognerebbe appurare se gli stessi abbiano avuto ad oggetto le case realizzate sui lotti o se invece siano stati ceduti i lotti edificabili con la volumetria assegnata agli stessi o ancora se nei contratti di cessione i lottizzatori si siano riservati la cubatura residua su ciascun lotto.
In quest'ultimo caso, infatti, i lottizzatori ben potevano dichiarare di essere titolari della volumetria al fine di utilizzarla su altri lotti.
La corte di appello non ha compiuto questi necessari accertamenti e, quindi, la sentenza di merito è risultata viziata con rinvio al giudice di secondo grado per un rinnovato accertamento dei fatti (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione penale, sentenza 18.04.2012 n. 14894).

EDILIZIA PRIVATA: Abusi edilizi, la PA controlla solo le denunce circostanziate.
La contestazione del privato circa la realizzazione di abusi edilizi fa sorgere l'obbligo della P.A. di attivarsi solo se presentato in forma scritta e recante l'indicazione, seppure sintetica, della lamentata illegittimità dell'intervento edilizio e la richiesta di esercizio del potere/dovere di verifica e di eventuale repressione.
Con sentenza 12.04.2012 n. 1075, il
TAR Lombardia-Milano, Sez. II, ha affermato che, con specifico riferimento ad interventi di carattere edilizio, che lo schema normativo dell'art. 19, comma 6-ter, della legge 07.08.1990 n. 241, prevede che la presentazione di una denuncia di inizio attività o di una segnalazione certificata di inizio attività, non dà luogo ad alcun procedimento amministrativo, per cui il decorso del termine di legge di 60 o 30 giorni per l’adozione di provvedimenti inibitori o repressivi da parte della Pubblica amministrazione non configura alcuna conclusione di procedimento amministrativo né alcuna adozione di un provvedimento tacito o implicito.
Ciò posto, è stato precisato che in tema di denuncia di inizio attività o di s.c.i.a., l’azione contro il silenzio della Pubblica amministrazione ai sensi dell’art. 31 D.L.vo 02.07.2010 n. 104 è sui generis, considerato che l’esperimento della stessa è consentito anche se la presentazione della d.i.a./ s.c.i.a. non ha dato avvio ad alcun procedimento amministrativo.
Il silenzio della pubblica amministrazione che consente l’azione ai sensi dell'art. 31 Cod. proc. amm., presuppone, ex art. 19, comma 6-ter, della legge 07.08.1990 n. 241, la “sollecitazione” del terzo all’Amministrazione, affinché quest’ultima eserciti i propri poteri di verifica.
Tale segnalazione, non deve essere formulata in modo particolare, ma deve contenere una serie di requisiti minimi di “serietà”, tra i quali la forma scritta con l’indicazione (anche sintetica) della lamentata illegittimità dell’intervento edilizio e la richiesta di esercizio del potere/dovere di verifica e di eventuale repressione.
A differenza di una generica denuncia di eventuali abusi, infatti, solo tali requisiti rendono la segnalazione idonea a porre in capo alla pubblica amministrazione l’obbligo di esercitare i predetti poteri e correlativamente a configurare, in caso di inerzia della parte pubblica, un silenzio inadempimento giuridicamente rilevante, censurabile davanti al giudice amministrativo (commento tratto da www.ipsoa.it -
link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Inconfigurabilità della violazione del principio della pari opportunità (c.d. "quote rosa") in presenza di uno Statuto provinciale che non stabilisca quanti componenti di un sesso debbano essere presenti nella Giunta provinciale.
Non può essere accolto un ricorso proposto da una cittadina italiana residente nella Provincia avverso il provvedimento di nomina della Giunta provinciale perché recante solo un Assessore di sesso femminile, per asserita violazione del principio delle "pari opportunità", nel caso in cui nessuna norma dello Statuto provinciale stabilisca quanti componenti di un sesso debbano essere presenti nella Giunta provinciale; infatti, pur in presenza ormai del principio della "pari opportunità", previsto in generale dall’art. 51, primo comma, della Costituzione, nel testo integrato dall’art. 1 della legge costituzionale 20.05.2003 n. 1, non è possibile che l’interprete si sostituisca alla sede normativa e determini egli stesso, estemporaneamente e arbitrariamente, il numero di minimo di componenti di ciascun sesso (1).
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(1) Ha osservato il parere in rassegna che, in assenza di specifiche norme statutarie, se è nominato almeno un componente di un sesso, ogni sospetto di pregiudizio o discriminazione è per ciò stesso fugato e gli articoli 6 del decreto legislativo n. 267 del 2000 e 51 della Costituzione sono rispettati.
Nella specie la Giunta provinciale nominata aveva nel suo seno un componente di sesso femminile e, in assenza di norme nello statuto della Provincia (nella specie si trattava della Provincia di Caserta) che prevedano una quota di riserva, deve ritenersi -secondo il parere in rassegna- che la nomina di una donna renda impossibile ravvisare gli estremi della violazione della disposizione costituzionale e o di quella del testo unico sugli enti locali.
E' stata poi ritenuta inammissibile l’impugnazione dello statuto provinciale nella parte in cui non prevede i criteri di determinazione delle quote dei due sessi di componenti della giunta, per l’assorbente ragione che la censura di violazione di legge di un provvedimento (la nomina della Giunta), non può, senza contraddizione, fondarsi sull’inesistenza della norma che si assume violata; né l’inesistenza della norma può essere configurata come atto presupposto del provvedimento impugnato.
V. in arg. di recente TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 05.01.2012 (ritiene illegittimo l’atto di nomina di una Giunta comunale per violazione del principio delle "quote rosa", non ritenendo sufficiente il fatto che, per reperire qualche Assessore di sesso femminile, si è fatto ricorso a due interpelli rimasti infruttuosi) ed ivi ulteriori riferimenti
(massima tratta da www.regione.piemonte.it - Consiglio di Stato, Sez. I, parere 16.03.2012 n. 1306 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl vincolo idrogeologico e forestale, secondo la disciplina recata dall’art 7 R.D.L. 30.12.1923 n. 3267, non comporta necessariamente l’inedificabilità assoluta, in quanto non ogni opera edilizia in zona vincolata arreca pregiudizio all'interesse pubblico tutelato ma solo le opere che, a seguito di puntuale accertamento, da condursi caso per caso, ne denotino un effettivo contrasto.
Pertanto, il vincolo in questione non interdice in modo assoluto l'attività edificatoria, ma richiede soltanto che l'intervento progettato sia espressamente autorizzato dalla autorità preposta alla tutela del vincolo stesso in uno con eventuali prescrizioni imposte a salvaguardia degli interessi pubblici tutelati.

Il vincolo idrogeologico e forestale, secondo la disciplina recata dall’art 7 R.D.L. 30.12.1923 n. 3267, non comporta necessariamente l’inedificabilità assoluta, in quanto non ogni opera edilizia in zona vincolata arreca pregiudizio all'interesse pubblico tutelato ma solo le opere che, a seguito di puntuale accertamento, da condursi caso per caso, ne denotino un effettivo contrasto (TAR Piemonte sez I 13.06.2007 n. 2593, Consiglio di Stato sez. V 05.05.1999 n. 516, Consiglio di Stato sez. V 04.01.1993 n. 26).
Pertanto, il vincolo in questione non interdice in modo assoluto l'attività edificatoria, ma richiede soltanto che l'intervento progettato sia espressamente autorizzato dalla autorità preposta alla tutela del vincolo stesso (cfr. TAR Puglia, Lecce, sez. I, 24.08.2005, n. 4122) in uno con eventuali prescrizioni imposte a salvaguardia degli interessi pubblici tutelati (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 06.11.2009 n. 2638 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOgni provvedimento amministrativo deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che determinano la decisione dell'amministrazione, costituendo la motivazione strumento di verifica del rispetto dei limiti della discrezionalità, allo scopo di far conoscere agli interessati le ragioni che impongono la restrizione delle rispettive sfere giuridiche o che ne impediscono l'ampliamento, e di consentire il sindacato di legittimità sia da parte del giudice amministrativo che eventualmente degli organi di controllo, impregiudicata la possibilità di eventuale integrazione in via postuma, secondo le forme ed i limiti connaturati all’esercizio del potere
Deve ribadirsi che secondo il generale disposto dell’art 3 l. 241/1990, ogni provvedimento amministrativo deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che determinano la decisione dell'amministrazione, costituendo la motivazione strumento di verifica del rispetto dei limiti della discrezionalità, allo scopo di far conoscere agli interessati le ragioni che impongono la restrizione delle rispettive sfere giuridiche o che ne impediscono l'ampliamento, e di consentire il sindacato di legittimità sia da parte del giudice amministrativo che eventualmente degli organi di controllo (TAR Campania Napoli, sez. VIII, 25.03.2009, n. 1610), impregiudicata la possibilità di eventuale integrazione in via postuma, secondo le forme ed i limiti connaturati all’esercizio del potere (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 06.11.2009 n. 2638 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl vincolo idrogeologico e forestale non comporta inedificabilità assoluta, per cui non ogni opera edilizia in zona vincolata arreca pregiudizio all'interesse pubblico tutelato ma solo quelle che, a seguito di puntuale accertamento, da condursi caso per caso, risultino con esso pubblico interesse in effettivo contrasto; pertanto il richiamato vincolo non interdice in modo assoluto l'attività edificatoria, ma richiede soltanto che l'intervento progettato sia espressamente autorizzato dalla autorità preposta alla tutela del vincolo stesso.
... Ritenuto, infatti, che il vincolo idrogeologico e forestale non comporta inedificabilità assoluta, per cui non ogni opera edilizia in zona vincolata arreca pregiudizio all'interesse pubblico tutelato ma solo quelle che, a seguito di puntuale accertamento, da condursi caso per caso, risultino con esso pubblico interesse in effettivo contrasto; pertanto il richiamato vincolo non interdice in modo assoluto l'attività edificatoria, ma richiede soltanto che l'intervento progettato sia espressamente autorizzato dalla autorità preposta alla tutela del vincolo stesso (cfr. TAR Puglia, Lecce, sez. I, 24.08.2005, n. 4122) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 13.06.2007 n. 2593 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il vincolo idrogeologico e forestale disciplinato dal Regio Decreto n. 3267/1923 non comporta inedificabilità assoluta, per cui non ogni opera edilizia in zona vincolata arreca pregiudizio all'interesse pubblico tutelato ma solo quelle che, a seguito di puntuale accertamento, da condursi caso per caso, risultino con esso pubblico interesse in effettivo contrasto.
Il vincolo idrogeologico non interdice in modo assoluto l'attività edificatoria, ma richiede soltanto che l'intervento progettato sia espressamente autorizzato dalla autorità preposta alla tutela del vincolo stesso.
Nell'esercizio dei poteri discrezionali l'autorità è tenuta ad una idonea istruttoria ed ha l'obbligo di motivare le sue determinazioni in modo esauriente.

Va evidenziato che il vincolo idrogeologico e forestale disciplinato dal Regio Decreto n. 3267/1923 (in tal senso è l'orientamento giurisprudenziale: C.d.S. Sez. V decisione n. 832/1995 e TAR Toscana 3^ Sezione - sentenze nn. 158/1997 e 251/1997) non comporta inedificabilità assoluta, per cui non ogni opera edilizia in zona vincolata arreca pregiudizio all'interesse pubblico tutelato ma solo quelle che, a seguito di puntuale accertamento, da condursi caso per caso, risultino con esso pubblico interesse in effettivo contrasto.
Il vincolo idrogeologico non interdice in modo assoluto l'attività edificatoria, ma richiede soltanto che l'intervento progettato sia espressamente autorizzato dalla autorità preposta alla tutela del vincolo stesso (Cons. di Stato, sez. V, n. 832/1995).
Nell'esercizio dei poteri discrezionali l'autorità è tenuta ad una idonea istruttoria ed ha l'obbligo di motivare le sue determinazioni in modo esauriente
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 24.08.2005 n. 4122 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di tutela del paesaggio, la natura di zona boscata è determinata dalla presenza effettiva di bosco fitto di alto fusto o di bosco rado indipendentemente dal dato che la zona sia riportata come tale dalla Carta tecnica regionale e in considerazione del fatto che la nozione di territorio coperto da bosco nella legislazione paesaggistica deve essere ricavata non solo in senso naturalistico ma anche normativo, riferendosi a provvedimenti legislativi, nazionali e regionali, ad atti amministrativi generali o particolari, sicché non è possibile adottare una concezione quantitativa e restrittiva del bosco, indipendentemente dal momento in cui il bosco si è formato.
La coltivazione di alberi che esclude il vincolo suddetto è soltanto quella finalizzata esclusivamente alla produzione di legno, svolta su terreni non precedentemente boscati.

-
che in tema di tutela del paesaggio, la natura di zona boscata è determinata dalla presenza effettiva di bosco fitto di alto fusto o di bosco rado indipendentemente dal dato che la zona sia riportata come tale dalla Carta tecnica regionale (Cassazione penale, sez. III, 21.03.2006, n. 17060) e in considerazione del fatto che la nozione di territorio coperto da bosco nella legislazione paesaggistica deve essere ricavata non solo in senso naturalistico ma anche normativo, riferendosi a provvedimenti legislativi, nazionali e regionali, ad atti amministrativi generali o particolari, sicché non è possibile adottare una concezione quantitativa e restrittiva del bosco, indipendentemente dal momento in cui il bosco si è formato (Cass. Sez. III, 02.07.1994 e Sez. III 26.03.1997);
- Ritenuto, infatti, che la coltivazione di alberi che esclude il vincolo suddetto è soltanto quella finalizzata esclusivamente alla produzione di legno, svolta su terreni non precedentemente boscati, il che non risulta nel caso di specie (cfr. Trib. Livorno, 16.12.2002)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 24.08.2005 n. 4122 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 16.05.2012

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Ci risiamo con la protervia della Regione Lombardia nel fregarsene dei principi fondamentali dello Stato in materia edilizia ...

     Sotto attacco della magistratura amministrativa la recentissima L.R. 18.04.2012 n. 7 e, precisamente, l'art. 17, comma 1, il quale così dispone: "Art. 17. (Disciplina dei titoli edilizi di cui all'articolo 27, comma 1, lettera d), della l. r. 12/2005 a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 309/2011).
1. In relazione agli interventi di ristrutturazione edilizia oggetto della sentenza della Corte Costituzionale del 21.11.2011, n. 309, al fine di tutelare il legittimo affidamento dei soggetti interessati, i permessi di costruire rilasciati alla data del 30.11.2011 nonché le denunce di inizio attività esecutive alla medesima data devono considerarsi titoli validi ed efficaci fino al momento della dichiarazione di fine lavori, a condizione che la comunicazione di inizio lavori risulti protocollata entro il 30.04.2012
.
".
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Non appare irrilevante né manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1°, della legge regionale n. 7/2012.

- considerato che, ad un primo sommario esame, non appare irrilevante né manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1°, della legge regionale n. 7/2012, salvo comunque l’approfondimento in sede di merito;
- ritenuto ancora di dover sospendere il provvedimento impugnato, per evitare che la definitiva realizzazione dell’opera possa pregiudicare irrimediabilmente le pretese dei ricorrenti,
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda) accoglie e per l'effetto:
a) sospende il provvedimento impugnato;
b) fissa per la trattazione di merito del ricorso l'udienza pubblica del 12.07.2012 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, ordinanza 11.05.2012 n. 664 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

     Al riguardo si legga un primo commento: L. Spallino, Ristrutturazione edilizia senza vincolo di sagoma: il TAR Lombardia dubita della legittimità costituzionale della L.R. 7/2012 (link a http://studiospallino.blogspot.it).

16.05.2012 - LA SEGRETERIA PTPL

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: L. Spallino, Ristrutturazione edilizia senza vincolo di sagoma: il TAR Lombardia dubita della legittimità costituzionale della L.R. 7/2012 (link a http://studiospallino.blogspot.it).

INCARICHI PROGETTUALI: L. Bellagamba, Ma le tariffe professionali sono state proprio abrogate nell’ambito del codice dei contratti pubblici? Note a margine della deliberazione dell’Autorità di vigilanza, 03.05.2012 n. 49 (link a www.linobellagamba.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: L. Bellagamba, Antiquata pronuncia del Consiglio di Stato: il singolo affidamento al legale è incarico fiduciario e non appalto pubblico di servizio (commento a Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.05.2012 n. 2730 (link a www.giustizia-amministrativa.it e link a www.linobellagamba.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G. Bertagna, LE NOVITÀ DELLA LEGGE N. 44/2012 IN MATERIA DI PERSONALE (tratto dalla newsletter di www.publika.it n. 49 - aprile 2012).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 19 del 09.05.2012, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2000, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia alla data del 18.04.2012, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447, della deliberazione 17.05.2006, n. 8/2561 e del decreto 30.05.2006, n. 5985" (comunicato regionale 08.05.2012 n. 49).

SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Protocollo P.A.: stop alle fasce di merito di Brunetta e più spazio alla contrattazione (CGIL-FP di Bergamo, nota 07.05.2012).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Trasformazione da part-time a full-time e deroga al limite di spesa di personale.
La Corte dei Conti, sezione regionale per la Lombardia, con il parere 26.04.2012 n. 154, conferma i consolidati orientamenti secondo i quali la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno in applicazione dell'art. 4, comma 14, del CCNL 14.09.2000 (diritto del dipendente, decorso il biennio) non costituisce nuova assunzione, ma l'ente deve comunque rispettare i limiti di spesa di personale (art. 1, commi 557 o 562, legge 296/2006).
Spetta all'autonomia amministrativa ed organizzativa dell'amministrazione assumere le iniziative e le decisioni più opportune al fine di trovare il giusto equilibrio tra il diritto soggettivo del singolo e le norme che obbligano gli enti a perseguire gli obiettivi di risanamento della finanza pubblica. In caso di violazione delle norme sui limiti di spesa di personale, l'ente sconterà il divieto di assunzioni nell'anno successivo (tratto da www.publika.it).

QUESITI & PARERI

AMBIENTE-ECOLOGIAA che punto siamo con i rimborsi dell’IVA pagata sulla TIA? (14.05.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIASono in atto modifiche al Codice ambientale in materia di trattamento dei rifiuti tramite compostaggio? (14.05.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAQuali sono le alternative al sistema nazionale per i produttori di imballaggi? (14.05.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIASono cambiati i requisiti del responsabile tecnico per l’iscrizione in categoria 8? (14.05.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAIl trasporto di rifiuti senza FIR o con FIR incompleto/inesatto è reato? (14.05.2012 - link a www.ambientelegale.it).

ENTI LOCALI - VARISi paga l’IMU sui parchi eolici? (14.05.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIALe associazioni di volontariato senza fine di lucro possono raccogliere materiali o prodotti che non siano rifiuti per poi riutilizzarli? (14.05.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIALa disciplina degli oli usati contempla deroghe al divieto di miscelazione? (14.05.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIALe autorizzazioni all’esercizio di impianti che prevedono la miscelazione di rifiuti speciali, consentite ai sensi dell’allegato "G" ormai abrogato, sono ancora in vigore? (14.05.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAGli sfalci e le potature, derivanti da manutenzione del verde pubblico e privato, sono rifiuti (14.05.2012 - link a www.ambientelegale.it).

ENTI LOCALI - VARI: Imu per immobile inagibile.
Domanda.
Mi è stato segnalato che per gli immobili inagibili non esistono agevolazioni ai fini Imu. Potreste darmi conferma?
Risposta.
No, in realtà la recente legge di conversione del dl n. 16/2012 (cfr. l'art. 4, comma 5, lettera b) del dl n. 16/2012, che ha inserito nell'art. 13, 3° comma, u.p. del dl n. 201/2011 le nuove lettere a) e b) ha introdotto per gli immobili in questione un'agevolazione in forma simile a quella già prevista ai fini Ici, stabilendo che «la base imponibile è ridotta del 50% per i fabbricati dichiarati inagibili o inabitabili e di fatto non utilizzati, limitatamente al periodo dell'anno durante il quale sussistono dette condizioni. L'inagibilità o inabitabilità è accertata dall'ufficio tecnico comunale con perizia a carico del proprietario, che allega idonea documentazione alla dichiarazione. In alternativa, il contribuente ha facoltà di presentare una dichiarazione sostitutiva ai sensi del testo unico di cui al decreto del presidente della repubblica 28.12.2000, n. 445, rispetto a quanto previsto dal periodo precedente. Agli effetti dell'applicazione della riduzione alla metà della base imponibile, i comuni possono disciplinare le caratteristiche di fatiscenza sopravvenuta del fabbricato, non superabile con interventi di manutenzione».
Come rilevabile, tale norma ricalca la disciplina già in vigore ai fini dell'Ici (articolo 8, 1° comma, del dlgs n. 504/1992 e art. 59, lettera h), del dlgs n. 446/1997), salvo che quest'ultima prevedeva una riduzione del 50% riferita all'imposta e non alla base imponibile.
In tema di immobili inagibili pare inoltre utile segnalare l'opportunità di compiere una verifica con un tecnico esperto di catasto al fine di accertare se, in relazione allo stato del bene, sussistano i requisiti per poterlo accatastare in categoria «F2», quale «immobile collabente», come tale privo di rendita catastale, nel qual caso l'Imu non sarà dovuta, neppure su una base imponibile ridotta al 50% (articolo ItaliaOggi Sette del 14.05.2012).

NEWS

INCARICHI PROFESSIONALICosa cambia per i legali con il dl liberalizzazioni. Il cliente deve poter confrontare i prezzi. Ora il tariffario è personalizzato.
Onorari forfettari o compenso orario; palmario o patto di quota lite: sono alcune delle possibili tecniche di definizione del compenso dell'avvocato, che, abrogate le tariffe di categoria, è chiamato a stabilire un tariffario di studio da proporre ai clienti. Con la clientela i legali sono chiamati a stipulare contratti scritti, dopo avere fornito una esaustiva informazione sul costo presumibile del processo ed eventualmente dopo avere fornito un preventivo di massima (scritto se richiesto dal cliente). E dal 13.08.2012 obbligo per gli avvocati di dotarsi di una polizza assicurativa contro i rischi professionali.
Sono queste in sintesi le novità portate da ultimo dall'articolo 9 del decreto 1/2012, a seguito delle modifiche apportate dalla legge di conversione n. 27 del 24.03.2012, in vigore dal 25.03.2012. L'obiettivo dichiarato è di favorire la concorrenza nel mercato delle professioni legali, anche se il provvedimento potrà avere l'effetto di calmierare i compensi per le toghe.
Vediamo di illustrare le ricadute pratiche delle ultime novità.
Le tariffe. Per quanto concerne le tariffe il decreto ha disposto l'abrogazione delle tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico.
Risolvendo un problema sorto a causa della formulazione originaria del decreto legge la legge di conversione ha dettato la disciplina per la liquidazione giudiziale degli onorari degli avvocati al termine di una causa. In questo caso il compenso del professionista sarà determinato con riferimento a parametri stabiliti con decreto del ministro della giustizia, da adottare nel termine di 120 giorni successivi alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto. Fino ad allora (23.07.2012), in virtù di una disposizione transitoria, continuano ad applicarsi le tariffe forensi, anche se limitatamente alla liquidazione delle spese giudiziali.
Preventivo e contratto col cliente. Cosa diversa dalla liquidazione giudiziale è il contratto tra avvocato e cliente. A questo proposito l'articolo 9 in commento disciplina due fattispecie: il preventivo e il contratto con il cliente.
Per il preventivo la legge dispone che in ogni caso la misura del compenso è previamente resa nota al cliente con un preventivo di massima, che deve essere adeguata all'importanza dell'opera e che va pattuita indicando per le singole prestazioni tutte le voci di costo, comprensive di spese, oneri e contributi. Inoltre il professionista deve rendere noto al cliente il grado di complessità dell'incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento fino alla conclusione dell'incarico e deve altresì indicare i dati della polizza assicurativa per i danni provocati nell'esercizio dell'attività professionale.
Il preventivo non deve essere necessariamente fornito per iscritto e può essere «di massima»: la legge sembra chiedere al singolo avvocato di costruirsi il personale tariffario, così da fornire ai clienti la possibilità di confrontare i prezzi praticati.
Il preventivo deve essere articolato per voci di costo e quindi si potranno articolare le attività di consulenza, difensive e quelle accessorie di segreteria e di accesso agli uffici giudiziari.
Diverso dal preventivo è il contratto con il cliente, nel quale si pattuisce il compenso.
Mentre il preventivo potrebbe essere pattuito anche oralmente, ai sensi dell'articolo 2233 del codice civile, sono nulli, se non redatti in forma scritta, i patti conclusi tra gli avvocati e i praticanti abilitati con i loro clienti che stabiliscono i compensi professionali.
Quindi il contratto con il cliente deve essere redatto in forma scritta.
A questo proposito l'articolo 9 prevede che il compenso per le prestazioni professionali deve essere pattuito, nelle forme previste dall'ordinamento, al momento del conferimento dell'incarico professionale.
Per il compenso è possibile usare anche una delle seguenti tecniche:
-forfait
-palmario
-patto di quota lite
-compenso orario (anche per le attività giudiziali).
Il compenso forfettario è quello che vincola l'avvocato a un compenso fisso, ma potrebbe dare adito a diversi problemi: se sottostimato potrebbe non essere remunerativo per l'avvocato e, quindi, essere contrario al principio di corrispondenza del compenso al decoro della professione; se troppo alto potrebbe essere disincentivante per il cliente a conferire l'incarico; d'altra parte l'avvocato potrebbe essere portato a stimare tutta la possibile attività con una lievitazione dell'importo.
Le altre fattispecie. Il palmario è il premio pattuito in aggiunta all'onorario per il caso di vittoria o di risultato positivamente valutabile per il cliente.
Il patto di quota lite è l'accordo con cui si stabilisce un compenso dell'avvocato esclusivamente in caso di vittoria (totale o parziale) ed è quantificato in una quota del risultato utile conseguito dal cliente.
Il compenso orario era già previsto dal Tariffario forense, ma solo per l'attività stragiudiziale (assistenza e pareri). Con le nuove disposizioni si può pattuire un compenso orario anche per l'attività giudiziale. Anche se questo obbliga ad una analitica registrazione del tempo impiegato. Peraltro è opportuno osservare una registrazione dettagliata delle attività svolte, qualunque sia la tecnica seguita di pattuizione del compenso.
Le tecniche di determinazione del compenso potrebbero anche essere combinate insieme: ad esempio un compenso fisso forfettario combinato con un compenso orario, oppure un compenso fisso forfettario combinato con un onorario aggiuntivo in caso di risultato favorevole o, ancora, un compenso orario ridotto con l'aggiunta di un onorario di risultato favorevole.
Quanto alle condizioni contrattuali, in relazione all'esigenza di poter tenere conto di eventi non prevedibili soprattutto dei processi, si possono inserire clausole di rinegoziazione del compenso o clausole pattizie alternative (articolo ItaliaOggi Sette del 14.05.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti, sforbiciata sugli obblighi. Semplificazioni a 360° dai Raee alla miscelazione di oli usati. Lo prevede il ddl approvato in senato che riformula Codice ambientale e provvedimenti satellite.
Esclusione dalla disciplina dei rifiuti per sfalci e potature derivanti dalla manutenzione di giardini e parchi, semplificazioni per la gestione di rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche da parte dei venditori di nuovi beni, allargamento dell'autocompostaggio «light» a mense e mercati, attenuazione degli obblighi per la gestione di oli usati e terre da scavo, alleggerimento dei controlli ambientali sulle imprese ecocertificate.
Tornano in pista in parlamento, veicolate da un autonomo disegno di legge, le semplificazioni stralciate all'ultimo minuto (in sede di conversione) dal recente provvedimento d'urgenza in materia ambientale (il dl 2/2012) per evitare possibili censure di incostituzionalità legate ai presupposti di necessità e urgenza.
Il nuovo ddl, approvato il 9/5/2012 dal senato e ora di nuovo alla camera dei deputati in terza lettura, promette sia di riformulare i punti nodali della parte quarta del «Codice Ambientale» (dlgs 152/2006) in materia di rifiuti, sia di rimodulare i relativi provvedimenti satellite che disciplinano la stessa gestione dei beni a fine vita.
Biomasse da manutenzione verde pubblico. Il disegno di legge in corso di approvazione (recante, testualmente, «Modifiche al dlgs 03.04.2006, n. 152») rivede innanzitutto il confine tra rifiuti e non rifiuti, allargando il novero dei materiali esclusi dal campo di applicazione della disciplina sui beni a fine vita disegnata dal dlgs 152/2006.
In particolare, il ddl prevede che non saranno più considerati «rifiuti» paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura anche derivante dalla manutenzione del verde pubblico e privato, purché tale biomassa abbia le caratteristiche proprie dei sottoprodotti (individuate dall'articolo 184-bis del Codice ambientale) e sia destinata alla produzione di energia.
Raee. Il ddl in corsa prevede un allargamento del regime agevolato che già consente ai distributori di nuove Apparecchiature elettriche ed elettroniche (Aee), dietro il rispetto di precise condizioni, di raggruppare presso i propri locali i Raee (Rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche) domestici ritirati dai propri clienti e procedere in proprio al trasporto verso un centro di gestione autorizzato.
Il disegno di legge rivede infatti, allargandoli, i parametri dettati dall'attuale dm 65/2010 ed entro i quali tali soggetti possono procedere alla raccolta e al trasporto dei rifiuti adempiendo unicamente agli obblighi della tenuta di uno «schedario di carico e scarico» e di un «documento di trasporto» (in luogo dei più complessi «registri di carico e scarico» e «formulario di trasporto» previsti dal dlgs 152/2006) unitamente all'iscrizione semplificata all'Albo gestori ambientali.
L'allargamento di tale regime agevolato è effettuato mediante tre mosse: ampliando i limiti temporali e quantitativi del «deposito» massimo in situ dei Raee prima di dover obbligatoriamente procedere al loro trasporto verso i centri autorizzati; rimuovendo i limiti al novero degli automezzi utilizzabili per tale trasporto; consentendo il conferimento anche a centri autorizzati alla gestione generale dei rifiuti ex dlgs 152/2006. In particolare, il trasporto dei Raee ai centri di raccolta potrà avvenire su base trimestrale (in luogo di quella mensile) e comunque quando il quantitativo superi i 3.500 Kg in relazione, però, a ogni singolo raggruppamento per classi omogenee (quelle previste ex allegato 1, dm 185/2007) e non in relazione (come oggi previsto) al totale di tutti i Raee in deposito.
Ancora, il trasporto potrà essere effettuato (contrariamente al regime attuale) anche con automezzi di portata superiore a 3.500 kg e massa complessiva superiore a 6.000 kg. Infine, i Raee potranno essere anche conferiti a strutture che rispettano i criteri autorizzatori ex articoli 208, 213 e 216 del dlgs 152/2006 oltre che agli impianti realizzati e gestiti nel rispetto delle norme dettate dal dm ambiente 8/4/2008.
Compostaggio non domestico. È previsto l'allargamento alle utenze non domestiche della possibilità di procedere all'autocompostaggio in regime semplificato rispetto alla gestione dei rifiuti ex dlgs 152/2006.
In base al disegno di legge, non sarà infatti soggetto al regime autorizzatorio per gli impianti di gestione dei rifiuti (articolo 208 del «Codice ambientale») il trattamento tramite compostaggio aerobico o digestione anaerobica dei rifiuti urbani organici biodegradabili a condizione che: oggetto del trattamento siano rifiuti biodegradabili provenienti da cucine e mense, mercati, parchi e giardini; la quantità annua totale oggetto di trattamento non ecceda le 80 tonnellate; il prodotto ottenuto sia rispettoso del dlgs 75/2010 sui fertilizzanti e utilizzato nello stesso territorio comunale nel quale è ottenuto; lo stoccaggio che precede il trattamento duri un massimo di 72 ore per rifiuti di cucine, mense, mercati, non oltre 7 giorni per i rifiuti da giardini e parchi.
Realizzazione e gestione degli impianti di compostaggio saranno soggetti alla «denuncia di inizio attività» ex dpr 380/2001 e alle norme in materia urbanistica, ambientale, antincendio, sanitaria, antisismica, di efficienza energetica e di tutela paesaggistica. La gestione dovrà infine avvenire sotto la responsabilità di un professionista abilitato secondo le modalità stabilite dal Minambiente con proprio decreto.
Miscelazione oli usati. È previsto un ammorbidimento dei divieti di miscelazione previsti dal dlgs 152/2006 in relazione alla gestione degli oli usati. Il ddl in parola sancisce infatti (mediante la riformulazione dell'articolo 216-bis del Codice ambientale relativo a tali rifiuti) la possibilità, nel rispetto delle regole generali sancite dall'articolo 187, comma 2, lettera a), b) e c) del dlgs 152/2006, di miscelare tra di loro gli oli usati sia nelle fasi del deposito temporaneo che in quelle di gestione successive.
Terre e rocce da scavo. In deroga alla disciplina generale sulla gestione delle terre e rocce da scavo (a oggi rappresentata dagli articoli 185 e 186 del dlgs 152/2006, quest'ultimo operativo fino all'emanazione del futuro dm ambiente previsto dall'articolo 49 del dl 1/2012 che ne sostituirà le norme) la legge in corso di approvazione prevede una disciplina speciale per i materiali da scavo provenienti dalle miniere dismesse e/o esaurite collocate all'interno dei siti di interesse nazionale.
Tali materiali, nel tenore del ddl in itinere, potranno essere riutilizzati nella medesima area mineraria per riempimenti, rimodellazioni e miglioramenti ambientali a condizione che la concentrazione di inquinanti non superi i parametri ex allegato V, Parte IV del dlgs 152/2006. Le aree sulle quali insistono detti materiali saranno altresì restituite agli usi legittimi ricorrendo le medesime condizioni (di rispetto elle soglie di inquinamento) per i suoli e per le acque.
Riduzione controlli ambientali. Allargato l'elenco delle imprese che potranno godere di un alleggerimento dei controlli di compatibilità ambientale della propria attività. Mediante la diretta modifica del dl 5/2012 il ddl in itinere prevede infatti che il governo, nel disciplinare con proprio provvedimento la materia, dovrà includere tra le attività oggetto di riduzione del monitoraggio sia quelle certificate Iso 14001 sia quelle certificate in base al regolamento Ce n. 1221/2009 (cd. «regolamento Emas») (articolo ItaliaOggi Sette del 14.05.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAssunzioni, sì alle quote di turn-over non utilizzate. la Corte dei conti ammette il frazionamento.
Gli enti locali possono utilizzare per assunzioni negli anni successivi le quote di turn-over non utilizzate.
E' questo l'orientamento prevalente della maggior parte delle sezioni regionali della Corte dei conti ... (articolo Il Sole 24 Ore del 14.05.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Per le gare telematiche contratti subito operativi. Il decreto-legge sulla spesa taglia i tempi negli appalti.
Con le gare telematiche per l'acquisto di beni e servizi le amministrazioni possono stipulare immediatamente i contratti d'appalto e di non applicare i diritti di segreteria.

Le disposizioni del Dl 52/2012 sulla spending review hanno definito una serie di misure ... (articolo Il Sole 24 Ore del 14.05.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALISulle Unioni di Comuni ancora un rinvio.
Tracciare una linea sulla carta è semplice, pretendere che la realtà si adegui è esercizio più complesso.

Su questo piccolo problema si sono finora arenate quasi tutte le norme ... (articolo Il Sole 24 Ore del 14.05.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

INCARICHI PROFESSIONALI: Consiglio di Stato: il conferimento del patrocinio legale non è soggetto a gara.
Con sentenza 11.05.2012 n. 2730 la Sez. IV del Consiglio di Stato -ribaltando la decisione di primo grado del TAR Lazio, sez. staccata di Latina, sez. I n. 604/2011- ha ritenuto che
l’affidamento diretto di un incarico legale finalizzato all’impugnazione di lodo arbitrale non rientri tra i servizi giuridici di cui all'allegato B, n. 21, del Codice degli Appalti.
Al tempo stesso, sottolinea il Consiglio di Stato,
l’attività di selezione del difensore dell’ente pubblico, pur non soggiacendo all’obbligo di espletamento di una procedura comparativa di stampo concorsuale, è comunque soggetta "ai principi generali dell’azione amministrativa in materia di imparzialità, trasparenza e adeguata motivazione onde rendere possibile la decifrazione della congruità della scelta fiduciaria posta in atto rispetto al bisogno di difesa da appagare".
In definitiva,
le norme in tema di appalti di servizi vengono in rilievo "quando il professionista sia chiamato a organizzare e strutturare una prestazione, altrimenti atteggiantesi a mera prestazione di lavoro autonomo in un servizio (nella fattispecie, legale), da adeguare alle utilità indicate dall’ente, per un determinato arco temporale e per un corrispettivo determinato", ma non nel caso di conferimento di "singolo incarico episodico, legato alla necessità contingente, non costituisca appalto di servizi legali ma integri un contatto d’opera intellettuale che esula dalla disciplina codicistica in materia di procedure di evidenza pubblica".
La decisione del Consiglio di Stato sembra distinguere tra incarichi giudiziali e non: di questo, tuttavia, non vi è certezza assoluta, in quanto l'elemento discriminatore non è individuato nella natura del patrocinio ma "tra singole prestazioni d’opera e servizi intesi come complesso organizzato di utilità erogate con prestazioni ripetute ed organizzate" (commento tratto da http://studiospallino.blogspot.it).
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2. L’appello è fondato.
2.1 I primi giudici hanno posto a fondamento del decisum di accoglimento l’assunto della riconduzione dell’atto di conferimento del singolo incarico legale nella categoria dei “servizi legali” di cui all’allegato II B, n. 21, al codice dei contratti pubblici, traendo da tale premessa i precipitato dell’applicazione a tale fattispecie, ai sensi dell’articolo 20, delle norme di cui agli articoli 65, 68 e 225 del medesimo codice e dei principi valevoli per i contratti esclusi ai sensi dell’articolo 27.
Il Tribunale ha mostrato, in tal guisa, di aderire all’orientamento ermeneutico secondo cui tanto l’attività di assistenza e consulenza giuridica di carattere continuativo quanto il conferimento del singolo incarico di patrocinio legale sarebbero annoverabili nell’unica ed omnicomprensiva nozione di “servizi legali” di cui al punto 21 dell’allegato II B del Codice degli appalti.
A sostegno della tesi il Tribunale ha valorizzato l’ampiezza della nozione di appalto di servizi abbracciata dal codice, comprensiva anche di affidamenti a beneficio di liberi professionisti oltre che di imprenditori, in una con la considerazione che il riferimento letterale ai “servizi”, sarebbe sintomatico, con l’uso del plurale, della volontà di comprendere sia il caso del conferimento del singolo incarico che l’ipotesi dell’attribuzione, in termini generali, di un incarico di consulenza-difesa dell’ente per un determinato periodo di tempo.
Il Tribunale ha soggiunto che alla differenziazione delle due fattispecie non è dato pervenire per il tramite della valorizzazione del carattere fiduciario del singolo incarico, posto che l’intuitus personae è tratto che permea in modo identico e indefettibile qualsiasi incarico professionale, ivi compreso quello sostanziantesi nell’affidamento del complesso delle attività di consulenza e di patrocinio per un certo periodo di tempo.
2.2.
La Sezione, in adesione ai rilievi svolti dall’appellante, reputa che l’assimilazione sostenuta dal Tribunale non tenga nel debito conto la differenza ontologica che, ai fini della qualificazione giuridica delle fattispecie e delle ricadute ad essa conseguenti in materia di soggezione alla disciplina recata dal codice dei contratti pubblici, connota l’espletamento del singolo incarico di patrocinio legale, occasionato da puntuali esigenze di difesa dell’ente locale, rispetto all’attività di assistenza e consulenza giuridica, caratterizzata dalla sussistenza di una specifica organizzazione, dalla complessità dell’oggetto e dalla predeterminazione della durata.
Tali elementi di differenziazione consentono, infatti, di concludere che, diversamente dall’incarico di consulenza e di assistenza a contenuto complesso, inserito in un quadro articolato di attività professionali organizzate sulla base dei bisogni dell’ente, il conferimento del singolo incarico episodico, legato alla necessità contingente, non costituisca appalto di servizi legali ma integri un contatto d’opera intellettuale che esula dalla disciplina codicistica in materia di procedure di evidenza pubblica.

2.2.1. A sostegno dell’assunto depone, in prima battuta, il rilievo che le disposizioni che riguardano i “servizi legali” non rappresentano affatto una novità introdotta nell’ordinamento interno a seguito della direttiva 2004/18/CE, in quanto già il D.Lgs 17.03.1995, n. 157 (“Attuazione della direttiva 92/50/CEE in materia di appalti pubblici di servizi”), indicava, nell’allegato 2, una serie di servizi, tra cui i “servizi legali”, relativamente ai quali non si applicava la disciplina generale nella sua integralità ma solo alcune disposizioni del citato decreto legislativo e, segnatamente: l’eventuale pubblicazione dell’avvenuta aggiudicazione (art. 8, co. 3); l’obbligo per l’amministrazione aggiudicatrice di definire le “specifiche tecniche” del servizio nei capitolati d’oneri o nei documenti contrattuali relativi a ciascun appalto (art. 20), obbligo quest’ultimo, soggetto peraltro a deroghe (art. 21).
Tutta una serie di servizi erano poi esclusi, in via integrale, dall’assoggettamento alle norme del decreto. Veniva precisato, inoltre, nell’ottavo “considerando” delle premesse alla direttiva 1992/50/CE, trasfusa nel citato D.Lgs. n. 157/1995, che “la prestazione di servizi è disciplinata dalla presente direttiva soltanto quando si fondi su contratti d'appalto; nel caso in cui la prestazione del servizio si fondi su altra base, quali leggi o regolamenti ovvero contratti di lavoro, detta prestazione esula dal campo d'applicazione della presente direttiva”.
2.2.2. Detto dato storico consente di lumeggiare la riproposizione della nozione di servizi legali nella legislazione, comunitaria e nazionale, successiva, nel senso di limitare l’ambito di operatività della categoria al soli affidamenti di servizi legali conferiti mediante un appalto -ossia un contratto caratterizzato da un quid pluris, sotto il profilo dell’organizzazione, della continuità e della complessità- rispetto al contratto di conferimento dell’incarico difensivo specifico, integrante mero contratto d’ opera intellettuale, species del genus contratto di lavoro autonomo, come tale esulante dalla nozione di contratto di appalto ratione materiae abbracciata dal legislatore comunitario.
In altre parole, il servizio legale, per essere oggetto di appalto, richiede un elemento di specialità, per prestazione e per modalità organizzativa, rispetto alla mera prestazione di patrocinio legale. L’affidamento di servizi legali è, a questa stregua, configurabile allorquando l’oggetto del servizio non si esaurisca nel patrocinio legale a favore dell’Ente, ma si configuri quale modalità organizzativa di un servizio, affidato a professionisti esterni, più complesso e articolato, che può anche comprendere la difesa giudiziale ma in essa non si esaurisce (cfr. determinazione n. 4 del 07.07.2011, dell’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e Forniture).
2.2.3. In tal senso depone, sul piano normativo, anche la prescrizione che, per l’affidamento di tali servizi, pretende l’indicazione delle specifiche tecniche fissate dal committente (art. 68 del codice), così configurando la condizione, non compatibile con un mero contratto di patrocinio legale isolato, per permettere l’apertura dell’appalto alla concorrenza (cfr. il ventinovesimo “considerando” alla direttiva n. 18 del 2004).
Ed ancora, una conferma in tal senso può desumersi dal quarantasettesimo “considerando” della medesima direttiva n. 18/2004 alla stregua dei condivisibili rilevi svolti da Corte dei Conti, Sezione Regionale di Controllo per la Basilicata deliberazione n. 19/2009. “Posto che negli appalti pubblici di servizi, i criteri di aggiudicazione non devono influire sull'applicazione delle disposizioni nazionali relative alla rimunerazione di taluni servizi, quali ad esempio le prestazioni degli architetti, degli ingegneri o degli avvocati, il prezzo di tali servizi, così determinato, di per sé solo, non sarebbe idoneo a garantire quella valutazione delle offerte in condizioni di effettiva concorrenza, che ammette soltanto l'applicazione di uno dei due criteri di aggiudicazione, quello del prezzo più basso e quello della offerta economicamente più vantaggiosa. Da quanto precede non sembra, dunque, che il legislatore comunitario si sia preoccupato di regolare le modalità di affidamento dei contratti del tutto esclusi dall’ambito della disciplina degli appalti pubblici. Tra questi, il contratto di lavoro autonomo avente a oggetto il patrocinio legale, stipulato con un’amministrazione aggiudicatrice”.
2.2.4.
Le norme di tema di appalti di servizi vengono, in definitiva, in rilievo quando il professionista sia chiamato a organizzare e strutturare una prestazione, altrimenti atteggiantesi a mera prestazione di lavoro autonomo in un servizio (nella fattispecie, legale), da adeguare alle utilità indicate dall’ente, per un determinato arco temporale e per un corrispettivo determinato.
Si può così affermare, in adesione alla parabola argomentativa a tracciata dalla richiamata deliberazione n. 19/2009 della Corte dei conti, sez. reg. Basilicata, che,
solo con riguardo ad un appalto così strutturato, l’obbligo del committente di indicare, adeguandole alla natura del servizio, le specifiche tecniche che consentono di definire l’oggetto dell’appalto e le modalità della prestazione, assume concreta valenza selettiva delle offerte presentate proprio nell’ambito di un servizio organizzato e strutturato.
Per converso,
il contratto di conferimento del singolo e puntuale incarico legale, presidiato dalle specifiche disposizioni comunitarie volte a tutelare la libertà di stabilimento del prestatore in quanto lavoratore, non può soggiacere, neanche nei sensi di cui all’articolo 27 del codice dei contratti pubblici, ad una procedura concorsuale di stampo selettivo che si appalesa incompatibile con la struttura della fattispecie contrattuale, qualificata, alla luce dell’aleatorietà dell’iter del giudizio, dalla non predeterminabilità degli aspetti temporali, economici e sostanziali della prestazioni e dalla conseguente assenza di basi oggettive sulla scorta delle quali fissare i criteri di valutazione necessari in forza della disciplina recata dal codice dei contratti pubblici.
Lo stesso codice dei contratti pubblici, nel dettare una specifica disciplina, di natura speciale, dei servizi di ingegneria e di architettura volta a enucleare un sistema di qualificazione e di selezione per determinate tipologie di prestazioni d’opera, conferma l’inesistenza di un principio generale di equiparazione tra singole prestazioni d’opera e servizi intesi come complesso organizzato di utilità erogate con prestazioni ripetute ed organizzate.
Si deve aggiungere che, come osservato da attenta dottrina, l’attività del professionista nella difesa e nella rappresentanza dell’ente è prestazione d’opera professionale che non può essere qualificata in modo avulso dal contesto in cui si colloca, id est l’ambito dell’amministrazione della giustizia, settore statale distinto e speciale rispetto ai campi dell’attività amministrativa regolati del codice dei contratti pubblici.
Resta inteso che
l’attività di selezione del difensore dell’ente pubblico, pur non soggiacendo all’obbligo di espletamento di una procedura comparativa di stampo concorsuale, è soggetta ai principi generali dell’azione amministrativa in materia di imparzialità, trasparenza e adeguata motivazione onde rendere possibile la decifrazione della congruità della scelta fiduciaria posta in atto rispetto al bisogno di difesa da appagare.
2.2.5. Alla stregua dei rilievi che precedono deve essere accolto il motivo di appello volto a censurare il capo della sentenza che ha accolto il motivo di ricorso diretto a censurare l’omesso espletamento della procedura di evidenza pubblica (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.05.2012 n. 2730 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - INCARICHI PROFESSIONALICompete al Sindaco o al Presidente della Provincia, ai sensi del D.lgs. n. 267/2000, quale organo di rappresentanza dell’ente, il conferimento della procura alle liti del difensore senza la necessità di alcuna preventiva autorizzazione.
E’ infondato anche il motivo d’appello diretto contestare il capo della sentenza appellata con cui i Primi Giudici hanno sancito la violazione del principio che attribuisce al dirigente ratione materiae competente il compito di scegliere il legale e, comunque, di autorizzare il conferimento del patrocinio legale.
La Sezione non ravvisa ragione di discostarsi dall’orientamento interpretativo secondo cui compete al Sindaco o al Presidente della Provincia, ai sensi del D.lgs. n. 267/2000, quale organo di rappresentanza dell’ente, il conferimento della procura alle liti del difensore senza la necessità di alcuna preventiva autorizzazione (Cons. St., Sez. VI, 01.10.2008, n. 4744; Cons. St., Sez. VI, 09.06.2006, n. 3452; TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 05.12.2006 n. 10402; Cass. civ., Sez. Un., 10.12.2002, n. 17550) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.05.2012 n. 2730 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Non ha natura provvedimentale il recupero di somme erroneamente corrisposte dalla P.A. ai propri dipendenti.
Si tratta di atto dovuto in quanto la percezione di emolumenti non dovuti da parte dei pubblici dipendenti impone all’Amministrazione l'esercizio del diritto-dovere di ripetere le relative somme ai sensi dell'art. 2033 c.c..
In tali termini si è espressa la quarta sezione del Consiglio di Stato, Sez. IV, nella sentenza 10.05.2012 n. 2705.
Non avendo valenza provvedimentale, l’omessa comunicazione dell'avvio del procedimento amministrativo ex art. 7 L. 241/1990, non influisce né sulla debenza o meno delle somme, né sulla possibilità di difesa del destinatario, che, infatti, nell'ambito del rapporto obbligatorio di reciproco dare-avere paritetico, può far valere le sue eccezioni contrarie all'esistenza del credito nell'ordinario termine di prescrizione.
Dunque, il recupero di somme erroneamente erogate dalla P.A. a propri dipendenti non è annullabile ex art. 21-octies, co. 2, L. 241/1990 per violazione dell'obbligo di avviso di avvio del procedimento di ripetizione, in quanto il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (cfr. infra multa Consiglio Stato sez. VI, 24.02.2011, n. 1167).
Inoltre per tale fattispecie l’interesse pubblico è "in re ipsa" e non richiede specifica motivazione, considerato che, a prescindere dal tempo trascorso, l'atto oggetto di recupero produce di per sé un danno per l'Amministrazione, consistente nell'esborso di denaro pubblico senza titolo, ed un vantaggio ingiustificato per il dipendente.
L’asserito principio dell’ordinaria ripetibilità dell'indebito, tuttavia, incontra un limite rappresentato dalla regola per cui le modalità di recupero devono essere, in relazione alle condizioni di vita del debitore, non eccessivamente onerose, ma tali da consentire la duratura percezione di una retribuzione che assicuri un'esistenza libera e dignitosa (tratto da www.diritto.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Pagare l’ente pubblico per ottenere soluzioni urbanistiche potrebbe configurarsi come eccesso di potere che porta in Procura della Repubblica?
Il TAR Veneto, Sez. III, con la sentenza 09.05.2012 n. 651, ha ritenuto che l'impegno assunto da una società di versare all'ente pubblico somme non dovute, sia pure per finalità di interesse pubblico, in sede di convenzione finalizzata al rilascio di una autorizzazione paesaggistica "costituisca un motivo di persuasione, affinché il Presidente dell'Ente Parco procedesse al rilascio dell'autorizzazione paesaggistica impugnata, anche a costo di rilasciare un'autorizzazione paesaggistica illegittima".
Di conseguenza, ha ritenuto l'atto illegittimo anche per il vizio di eccesso di potere sotto questo profilo (otre che per altri e diversi profili).
Il TAR ha anche disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica, perché valuti l'esistenza del reato di abuso di ufficio di cui all'art. 323 del codice penale, in considerazione del fatto che il soggetto era consapevole della illegittimità della autorizzazione paesaggistica (link a http://venetoius.myblog.it).

APPALTIL'art. 46 (d.lgs. n. 163/2006) costituisce … attuazione della corrispondente disposizione contenuta nella Direttiva 2004/18/CE.
La ratio va ricercata nella esigenza di assicurare la massima partecipazione alle gare di appalto, evitando che l'esito delle stesse possa essere alterato da carenze di ordine meramente formale nella documentazione comprovante il possesso dei requisiti dei partecipanti. L'art. 46 ha il delicato compito di contemperare principi talvolta in antitesi come quello del favor partecipationis e quello della par condicio tra i concorrenti.
Il punto di equilibrio deve essere trovato nella distinzione tra il concetto di regolarizzazione e quello di integrazione documentale. La regolarizzazione dei documenti è sempre possibile, mentre non sempre lo è l'integrazione, che si risolverebbe in una lesione della parità di trattamento tra i partecipanti.
Il legislatore del Codice, non ha affatto inteso assegnare alle amministrazioni aggiudicatrici una facoltà, bensì ha elevato a principio generale un modo di procedere, volto a far prevalere, entro certi limiti, la sostanza sulla forma. In definitiva, l'art. 46 del Codice dei Contratti, è espressione, nel settore degli appalti pubblici, dei principi che sovrintendono l'istruttoria procedimentale, consacrati nell'art. 6 della L. 241 del 1990.
La disposizione deve essere intesa nel senso che l'Amministrazione deve disporre la regolarizzazione quando gli atti, tempestivamente depositati, contengano elementi che possano costituire un indizio e rendano… ragionevole ritenere sussistenti i requisiti di partecipazione.

Con il terzo motivo di ricorso, che deve essere esaminato per primo per ragioni di economia processuale, le ricorrenti hanno lamentato l’omesso esercizio da parte dell’Amministrazione in loro favore del potere di “soccorso istruttorio” di cui all’art. 46 d.lgs. n. 163/2006.
Dinanzi alla previsione del comma 1 del suddetto articolo, per cui “…le stazioni appaltanti invitano, se necessario, i concorrenti a completare o a fornire chiarimenti in ordine al contenuto dei certificati, documenti e dichiarazioni presentati” ed all’errore in cui erano incorse ben cinque delle undici imprese partecipanti alla procedura - depositando, a riprova del possesso dei requisiti tecnici, copie dei certificati rilasciati dai committenti con dichiarazione di conformità all’originale ed allegata fotocopia di un documento di identità del dichiarante, invece che “originale o copia conforme delle certificazioni rilasciate dai Committenti relative ai servizi dichiarati in sede di offerta” (cfr. disciplinare di gara, doc. n. 2 delle ricorrenti, Sez. VIII), l’Amministrazione avrebbe, infatti, potuto e dovuto chiedere alle concorrenti di regolarizzare la documentazione in atti, consentendo loro, così, di dimostrare pienamente, dopo aver fornito nel termine previsto di 10 giorni, un serio inizio di prova attraverso la dichiarazione sostitutiva, il possesso dei requisiti richiesti e di partecipare alle fasi successive della gara.
Come evidenziato dalla giurisprudenza amministrativa maggioritaria, (cfr., ex multis, TAR Sardegna, Sez. I, 11.09.2010 n. 2163) “l'art. 46 (d.lgs. n. 163/2006) costituisce … attuazione della corrispondente disposizione contenuta nella Direttiva 2004/18/CE. La ratio va ricercata nella esigenza di assicurare la massima partecipazione alle gare di appalto, evitando che l'esito delle stesse possa essere alterato da carenze di ordine meramente formale nella documentazione comprovante il possesso dei requisiti dei partecipanti. L'art. 46 ha il delicato compito di contemperare principi talvolta in antitesi come quello del favor partecipationis e quello della par condicio tra i concorrenti. Il punto di equilibrio deve essere trovato nella distinzione tra il concetto di regolarizzazione e quello di integrazione documentale. La regolarizzazione dei documenti è sempre possibile, mentre non sempre lo è l'integrazione, che si risolverebbe in una lesione della parità di trattamento tra i partecipanti. Il legislatore del Codice, non ha affatto inteso assegnare alle amministrazioni aggiudicatrici una facoltà, bensì ha elevato a principio generale un modo di procedere, volto a far prevalere, entro certi limiti, la sostanza sulla forma. In definitiva, l'art. 46 del Codice dei Contratti, è espressione, nel settore degli appalti pubblici, dei principi che sovrintendono l'istruttoria procedimentale, consacrati nell'art. 6 della L. 241 del 1990. La disposizione deve essere intesa nel senso che l'Amministrazione deve disporre la regolarizzazione quando gli atti, tempestivamente depositati, contengano elementi che possano costituire un indizio e rendano… ragionevole ritenere sussistenti i requisiti di partecipazione”.
Nel caso in questione le dichiarazioni sostitutive, se pienamente valide per le certificazioni provenienti dalla p.a., costituivano sicuramente, come detto, un serio inizio di prova dell’effettivo espletamento dei relativi servizi anche verso i Committenti privati, che per un mero errore nell’interpretazione del bando, le ricorrenti avevano ritenuto di poter dimostrare ai sensi del D.P.R. n. 445/2000 (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 09.05.2012 n. 527 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’apposizione di una roulotte e di “una struttura smontabile … costituita da una base in assito di legno semplicemente appoggiata al suolo e una struttura in tubolari in ferro poggiata sull’assito … il tutto coperto da teli di nylon”, appare corrispondere a pieno alla previsione della norma comunale che assoggetta alla necessità di titolo edilizio “l’istallazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni che siano adibiti come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”.
Sul terreno di sua proprietà, gravato da un vincolo paesaggistico ai sensi dell’art. 142 d.lgs. n. 42/2004 (in quanto ricadente nella fascia di rispetto di 150 m. dall’argine di un corso d’acqua pubblico) e considerato dal PRGC come agricolo, con divieto di costruzioni destinate a civile abitazione ad eccezione dell’abitazione dell’imprenditore agricolo a titolo principale, la ricorrente, che è priva della predetta qualifica, ha realizzato senza alcun permesso di costruire né alcuna autorizzazione paesaggistica un intervento di nuova costruzione in violazione dell’art. 3, c. 1, lett. e.5.
L’apposizione di una roulotte e di “una struttura smontabile … costituita da una base in assito di legno semplicemente appoggiata al suolo e una struttura in tubolari in ferro poggiata sull’assito … il tutto coperto da teli di nylon”, appare, infatti, corrispondere a pieno alla previsione della predetta norma che assoggetta alla necessità di titolo edilizio “l’istallazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni che siano adibiti come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”.
La natura di sistemazione non meramente transitoria, ma di stabile abitazione (sia pure dovuta al progressivo aggravarsi di una già difficile situazione familiare) della struttura in questione, contestata, almeno in astratto dalla ricorrente (ma, in realtà, confermata dalle sue stesse deduzioni circa la necessità di far fronte alle urgenti esigenze abitative della sua famiglia e circa l’impossibilità di indicare una presumibile data di cessazione del relativo utilizzo) è d’altra parte dimostrata, come evidenziato dalla difesa del Comune, da una serie di elementi quali il carattere risalente del manufatto (realizzato nell’autunno 2010), l’istallazione in esso di elettrodomestici ed arredi per la vita quotidiana e la richiesta della ricorrente di stabilire in tale luogo la sua residenza (del settembre 2010) (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 09.05.2012 n. 525 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di vincolo cimiteriale la salvaguardia del rispetto dei duecento metri prevista dal citato articolo (o del limite inferiore di cui al d.p.r. numero 285/1990 che ha previsto la possibilità di riduzione della fascia di rispetto da 200 mt. a 100 mt.) si pone alla stregua di un vincolo assoluto di inedificabilità che non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, che di opere incompatibili col vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che possono enuclearsi nelle esigenze di natura igienico sanitaria, nella salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale.
Il vincolo di rispetto cimiteriale, riguarda non solo i centri abitati, ma anche i fabbricati sparsi e preclude il rilascio della concessione, anche in sanatoria (ai sensi dell'art. 33 L. 28.02.1985 n. 47), senza necessità di compiere valutazioni in ordine alla concreta compatibilità dell'opera con i valori tutelati dal vincolo.
Detto vincolo comporta, in definitiva, una limitazione legale a carattere assoluto del diritto di proprietà, che preclude il rilascio della concessione per opere incompatibili col vincolo medesimo.
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Il vincolo cimiteriale comporta una limitazione legale a carattere assoluto del diritto di proprietà, che preclude il rilascio della concessione, anche in sanatoria, per opere incompatibili col vincolo medesimo, dovendosi, conseguentemente, escludere la necessità di compiere valutazioni in ordine alla concreta compatibilità dell'opera con i valori tutelati dal vincolo stesso.

Al riguardo, la giurisprudenza, ormai consolidata, ha affermato che in materia di vincolo cimiteriale la salvaguardia del rispetto dei duecento metri prevista dal citato articolo (o del limite inferiore di cui al d.p.r. numero 285/1990 che ha previsto la possibilità di riduzione della fascia di rispetto da 200 mt. a 100 mt.) "si pone alla stregua di un vincolo assoluto di inedificabilità che non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, che di opere incompatibili col vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che possono enuclearsi nelle esigenze di natura igienico sanitaria, nella salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale” (ex multis C.d.S., V, 14.09.2010, n. 6671; C.d.S., IV 12.03.2007, n. 1185, C.d.S., V, 12.11.1999, n. 1871; C.d.S., II, parere 28.02.1996, n. 3031/1995; TAR Sicilia, Palermo, III, 18.01.2012, n. 77; TAR Campania, Napoli, IV, 29.11.2007, n. 15615; Tar Lombardia-Milano, 11.07.1997, n. 1253; Tar Toscana, I, 29.09.1994, n. 471).
Il vincolo di rispetto cimiteriale, riguarda non solo i centri abitati, ma anche i fabbricati sparsi (cfr. TAR Milano, II, 06.10.993 n. 551) e preclude il rilascio della concessione, anche in sanatoria (ai sensi dell'art. 33 L. 28.02.1985 n. 47), senza necessità di compiere valutazioni in ordine alla concreta compatibilità dell'opera con i valori tutelati dal vincolo (cfr. C.d.S., V, 03.05.2007, n. 1933 e del 12.11.1999, n. 1871).
Detto vincolo, secondo consolidata giurisprudenza, comporta, in definitiva, una limitazione legale a carattere assoluto del diritto di proprietà, che preclude il rilascio della concessione per opere incompatibili col vincolo medesimo.
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Ugualmente destituito di fondamento risulta il secondo motivo di gravame, con cui il ricorrente, in base all’assunto che alla fascia di rispetto cimiteriale sia correlato solo un vincolo d’inedificabilità relativa, ha lamentato la violazione dell’art. 338 del R.D. 27.07.1934, n. 1265 e l’eccesso di potere per difetto dei presupposti e travisamento della realtà, per difetto d’istruttoria e di motivazione e l’erronea valutazione del pubblico interesse, per essersi limitato il Responsabile del Servizio di Igiene e Sanità Pubblica ad un apodittico richiamo, nel proprio parere (acriticamente recepito dal Sindaco del Comune di Cuneo), alle norme di legge e regolamentari e ad affermare che “l’intervento in oggetto ricade totalmente nella suddetta fascia di mt. 100”, anziché svolgere un’adeguata istruttoria e formulare un’analitica valutazione di carattere igienico-sanitario, eventualmente ostativa, nel caso specifico, all’accoglimento dell’istanza di condono.
Al riguardo non possono, infatti, che richiamarsi le diffuse considerazioni dianzi svolte, con cui si è precisato che il vincolo cimiteriale comporta una limitazione legale a carattere assoluto del diritto di proprietà, che preclude il rilascio della concessione, anche in sanatoria, per opere incompatibili col vincolo medesimo, dovendosi, conseguentemente, escludere la necessità di compiere valutazioni in ordine alla concreta compatibilità dell'opera con i valori tutelati dal vincolo stesso (C.d.S., V, 03.05.2007, n. 1933)
(TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 09.05.2012 n. 511 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nessuna competenza per la stazione appaltante sulla valutazione del durc.
Le stazioni appaltanti in ordine al requisito della regolarità contributiva non hanno né la competenza né il potere di valutare i dati risultanti dal d.u.r.c., ma devono attenersi alle valutazioni dei competenti enti previdenziali.
Ai sensi e per gli effetti dell'art. 38, c. 1, lett. i), d.lgs. n. 163 del 2006, anche nel testo vigente anteriormente al d.l. n. 70 del 2011, secondo cui costituiscono causa di esclusione dalle gare di appalto le gravi violazioni alle norme in materia previdenziale e assistenziale, la nozione di "violazione grave" non è rimessa alla valutazione caso per caso della stazione appaltante, ma si desume dalla disciplina previdenziale, e in particolare dalla disciplina del documento unico di regolarità contributiva; ne consegue che la verifica della regolarità contributiva delle imprese partecipanti a procedure di gara per l'aggiudicazione di appalti con la pubblica amministrazione è demandata agli istituti di previdenza, le cui certificazioni (d.u.r.c.) si impongono alle stazioni appaltanti, che non possono sindacarne il contenuto.
Aggiungono i giudici del Consiglio di Stato che se prima del decreto del Ministero del lavoro e della previdenza sociale 24.10.2007 poteva essere dubbio se vi fosse o meno automatismo nella valutazione di gravità delle violazioni previdenziali da parte della stazione appaltante, dopo il d.m. del 2007, risulta chiaro che la valutazione di gravità o meno della infrazione previdenziale è riservata agli enti previdenziali.
Invero, se la violazione è ritenuta non grave, il d.u.r.c. viene rilasciato con esito positivo, il contrario accade se la violazione è ritenuta grave. I giudici di Palazzo Spada non hanno pertanto condiviso la prospettazione, riportata nell’ordinanza di rimessione, secondo cui il citato d.m. del 2007 non costituisce atto attuativo del codice appalti, con la conseguenza che la valutazione di gravità compiuta alla luce di tale d.m. non sarebbe automaticamente vincolante per la stazione appaltante.
Secondo gli stesso giudici, infatti, il codice appalti si inserisce, come parte del tutto, in un sistema normativo unitario, sicché le nozioni da esso utilizzate e da esso non definite, -come nel caso della “violazione previdenziale grave” non possono che essere desunte dall’ordinamento giuridico nel suo complesso, e segnatamente dallo specifico settore da cui le nozioni sono tratte e definite (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 04.05.2012 n. 8 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Trasporto di rifiuti senza formulario o con formulario con dati incompleti o inesatti.
La modifica normativa apportata dalla legge n. 205 del 2010 all’art. 258 d.lgs. 152/2006 ha determinato il venir meno della punibilità della condotta di trasporto di rifiuti senza formulario o con formulario con dati incompleti o inesatti non più sanzionata penalmente in quanto non riconducibile né alle previsioni del nuovo testo dell’art. 258 né alla fattispecie introdotta con l’art. 260-bis, che opera un riferimento alla scheda Sistri e non ai precedenti formulari con la conseguenza che, in applicazione dei principi fissati dall’art. 2 cod. pen., le condotte poste in essere devono essere ritenute non più riconducibili all’ipotesi di reato contemplate dalla disciplina previgente (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.04.2012 n. 15732 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATANon sono assoggettabili al contributo commisurato al costo di costruzione e agli oneri di urbanizzazione i parcheggi c.d. obbligatori fissati dall'art. 41-sexies della l. n. 1150 del 1942.
Ai sensi delle l. n. 10 del 1977 e n. 122 del 1989, in sede di rilascio della concessione edilizia, non sono assoggettabili al contributo commisurato al costo di costruzione e agli oneri di urbanizzazione i parcheggi c.d. obbligatori fissati dall'art. 41-sexies della l. n. 1150 del 1942.
La l. 24.03.1989 n. 122 (c.d. legge Tognoli), recante disposizioni in materia di parcheggi, dispone (art. 11 comma 1) che le opere e gli interventi da essa previsti «costituiscono opere di urbanizzazione anche ai sensi dell'art. 9, comma 1, lett. f), della l. 28.01.1977 n. 10» e, dunque, non sono soggetti a contributo concessorio (TAR Puglia, Bari, 1284/2011, TAR Lombardia Milano, sez. II, n. 1779/2007).
Nel caso di specie, infatti, le superfici destinate a parcheggio sono state realizzate nel rispetto del disposto degli artt. 11 legge 24.03.1989 n. 122 (c.d. legge Tognoli) e 9, primo comma, lettera f), della legge 28.01.1977, n. 10 e devono ritenersi, pertanto, costituenti opere di urbanizzazione.
L’art. 9 della legge n. 10/1977 disciplina infatti i casi di concessione gratuita annoverando tra di essi le opere di urbanizzazione eseguite anche da privati, quali i parcheggi realizzati dalla ricorrente nella misura prevista dalla legge.
L’amministrazione, di contro, non ha contestato, nel provvedimento impugnato, che i parcheggi realizzati, in quanto pertinenziali al fabbricato ad uso residenziale realizzato, rientrino tra quelli qualificabili come opere di urbanizzazione (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 19.04.2012 n. 744 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl provvedimento abilitativo tacito costituito per effetto del silenzio-assenso si può formare soltanto se la domanda presentata possiede i presupposti per essere accolta, perché il difetto di taluno dei presupposti sostanziale per potere accedere al condono impedisce che possa avviarsi il procedimento disciplinato dall'art. 35, l. n. 47 del 1985 in cui il decorso del tempo è co-elemento costitutivo della fattispecie autorizzativa.
Perché possa formarsi il silenzio-assenso occorre, pertanto, che il procedimento sia stato avviato da un'istanza conforme al modello legale previsto dalla norma che regola il procedimento di condono, per cui la mancata definizione da parte del Comune entro il termine perentorio legalmente fissato e decorrente dalla presentazione della domanda di sanatoria, non determina ope legis la regolarizzazione dell'abuso, in applicazione dell'istituto del silenzio assenso, ogni qualvolta manchino i presupposti di fatto e di diritto previsti dalla norma, ovvero ancora quando l'oblazione autoliquidata dalla parte interessata non corrisponda a quanto effettivamente dovuto, oppure quando la documentazione allegata all'istanza non risulti completa ovvero quando la domanda si presenti dolosamente infedele.

Sul punto infatti la giurisprudenza amministrativa ha affermato, con orientamento costante, che “Il provvedimento abilitativo tacito costituito per effetto del silenzio-assenso si può formare soltanto se la domanda presentata possiede i presupposti per essere accolta, perché il difetto di taluno dei presupposti sostanziale per potere accedere al condono impedisce che possa avviarsi il procedimento disciplinato dall'art. 35, l. n. 47 del 1985 in cui il decorso del tempo è co-elemento costitutivo della fattispecie autorizzativa.
Perché possa formarsi il silenzio-assenso occorre, pertanto, che il procedimento sia stato avviato da un'istanza conforme al modello legale previsto dalla norma che regola il procedimento di condono, per cui la mancata definizione da parte del Comune entro il termine perentorio legalmente fissato e decorrente dalla presentazione della domanda di sanatoria, non determina ope legis la regolarizzazione dell'abuso, in applicazione dell'istituto del silenzio assenso, ogni qualvolta manchino i presupposti di fatto e di diritto previsti dalla norma, ovvero ancora quando l'oblazione autoliquidata dalla parte interessata non corrisponda a quanto effettivamente dovuto, oppure quando la documentazione allegata all'istanza non risulti completa ovvero quando la domanda si presenti dolosamente infedele
" (da ultimo TAR Napoli, sez. II, 06.02.2012, n. 585, TAR Lecce, sez. III, 10.01.2012, n. 16, TAR Bari, sez. II, 18.11.2011, n. 1762, Consiglio di Stato, sez. V, 08.11.2011, n. 5894) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 19.04.2012 n. 743 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: La domanda di risarcimento dei danni è regolata dal principio dell’onere della prova di cui all’art. 2697 cod. civ., in base al quale chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento, per cui grava sul danneggiato l’onere di provare, ai sensi del citato articolo, tutti gli elementi costitutivi della domanda di risarcimento del danno per fatto illecito (danno, nesso causale e colpa); segue da ciò che il risarcimento del danno non è una conseguenza automatica e costante dell’annullamento giurisdizionale, richiedendo la positiva verifica, oltre che della lesione della situazione soggettiva di interesse tutelata dall’ordinamento, della sussistenza della colpa o del dolo dell’Amministrazione e del nesso causale tra l’illecito e il danno subito; in particolare il risarcimento del danno conseguente a lesione di interesse legittimo pretensivo è subordinato, pur in presenza di tutti i requisiti dell’illecito (condotta, colpa, nesso di causalità, evento dannoso), alla dimostrazione, secondo un giudizio di prognosi formulato ex ante, che l’aspirazione al provvedimento fosse destinata nel caso di specie ad esito favorevole, quindi alla dimostrazione, ancorché fondata con il ricorso a presunzioni, della spettanza definitiva del bene collegato a tale interesse, ma siffatto giudizio prognostico non può essere consentito allorché detta spettanza sia caratterizzata da consistenti margini di aleatorietà.
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In presenza di un’attività illegittima posta in essere dall’Amministrazione e foriera di danno per il privato, quest’ultimo non sarà onerato di un particolare sforzo probatorio in ordine alla sussistenza di una condotta colposa da parte dell’Amministrazione, ben potendosi limitare ad allegare la sola illegittimità del provvedimento quale elemento idoneo a fondare una presunzione (semplice) circa la colpa della P.A.
In tali ipotesi, spetterà quindi all’Amministrazione fornire la prova liberatoria a contrario, dimostrando in concreto che si sia trattato di un errore scusabile, configurabile -ad es.- in caso di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione della norma, di formulazioni polisense di disposizioni di recente emanazione, ovvero di rilevante complessità del fatto sotteso alla determinazione amministrativa.
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E' sperfluo l’accertamento, ai fini della responsabilità della Amministrazione da provvedimento illegittimo, dell’elemento soggettivo della colpa: “La direttiva del Consiglio 21.12.1989 n. 89/665/Cee, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18.06.1992 n. 92/50/Cee, deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale, la quale subordini il diritto a ottenere un risarcimento a motivo di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte di un’Amministrazione aggiudicatrice al carattere colpevole di tale violazione, anche nel caso in cui l’applicazione della normativa in questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo all’Amministrazione suddetta, nonché sull’impossibilità per quest’ultima di far valere la mancanza di proprie capacità individuali e, dunque, un difetto di imputabilità soggettiva della violazione lamentata".
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Agli effetti della quantificazione del danno per lucro cessante, che l’impresa partecipante a gara pubblica assume di aver ingiustamente sofferto per effetto dell’illegittima mancata aggiudicazione dell’appalto, occorre che essa fornisca la prova rigorosa della percentuale d’utile che avrebbe conseguito se fosse risultata aggiudicataria, prova desumibile dall’esibizione dell’offerta economica da essa presentata al seggio di gara, non costituendo il criterio del 10% del prezzo a base d’asta un criterio automatico, ma solo presuntivo.
Tuttavia, "Il lucro cessante da mancata aggiudicazione può essere risarcito per intero se e in quanto l’impresa possa documentare di non aver potuto utilizzare mezzi e maestranze, lasciati disponibili, per l’espletamento di altri servizi, mentre quando tale dimostrazione non sia stata offerta è da ritenere che l’impresa possa avere ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per lo svolgimento di altri, analoghi servizi, così vedendo in parte ridotta la propria perdita di utilità, con conseguente riduzione in via equitativa del danno risarcibile.
Si tratta di una applicazione del principio dell’aliunde perceptum, in base al quale, onde evitare che a seguito del risarcimento il danneggiato possa trovarsi in una situazione addirittura migliore rispetto a quella in cui si sarebbe trovata in assenza dell’illecito, va detratto dall’importo dovuto a titolo risarcitorio, quanto da lui percepito grazie allo svolgimento di diverse attività lucrative, nel periodo in cui avrebbe dovuto eseguire l’appalto in contestazione.
Tuttavia, l’onere di provare (l’assenza del)l’aliunde perceptum grava non sull’Amministrazione, ma sull’impresa, e tale ripartizione muove dalla presunzione, a sua volta fondata sull’id quod plerumque accidit, secondo cui l’imprenditore (specie se in forma societaria), in quanto soggetto che esercita professionalmente una attività economica organizzata finalizzata alla produzione di utili, normalmente non rimane inerte in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, ma si procura prestazioni contrattuali alternative dalla cui esecuzione trae utili.”

In ordine al riparto dell’onere probatorio in tema di illecito aquiliano della P.A., Cons. Stato, Sez. V, 15.09.2010, n. 6797 ha affermato che “La domanda di risarcimento dei danni è regolata dal principio dell’onere della prova di cui all’art. 2697 cod. civ., in base al quale chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento, per cui grava sul danneggiato l’onere di provare, ai sensi del citato articolo, tutti gli elementi costitutivi della domanda di risarcimento del danno per fatto illecito (danno, nesso causale e colpa); segue da ciò che il risarcimento del danno non è una conseguenza automatica e costante dell’annullamento giurisdizionale, richiedendo la positiva verifica, oltre che della lesione della situazione soggettiva di interesse tutelata dall’ordinamento, della sussistenza della colpa o del dolo dell’Amministrazione e del nesso causale tra l’illecito e il danno subito; in particolare il risarcimento del danno conseguente a lesione di interesse legittimo pretensivo è subordinato, pur in presenza di tutti i requisiti dell’illecito (condotta, colpa, nesso di causalità, evento dannoso), alla dimostrazione, secondo un giudizio di prognosi formulato ex ante, che l’aspirazione al provvedimento fosse destinata nel caso di specie ad esito favorevole, quindi alla dimostrazione, ancorché fondata con il ricorso a presunzioni, della spettanza definitiva del bene collegato a tale interesse, ma siffatto giudizio prognostico non può essere consentito allorché detta spettanza sia caratterizzata da consistenti margini di aleatorietà.”.
Nel caso di specie, sicuramente sono integrati gli estremi della lesione (i.e. ingiustizia del danno ex art. 2043 cod. civ.) della situazione soggettiva di interesse tutelata dall’ordinamento facente capo alla società ricorrente (i.e. aggiudicazione dei lavori per cui è causa in proprio favore laddove fosse stata esclusa la Cosver), della sussistenza dell’elemento oggettivo (adozione degli atti di gara che questo Collegio ha accertato essere illegittimi nei termini esposti in precedenza), dell’elemento soggettivo dell’Amministrazione resistente (che ha adottato provvedimenti illegittimi, così violando regole di buona amministrazione e prudente apprezzamento) e del nesso causale tra l’illecito e il danno subito (è evidente che l’azione amministrativa illegittima è causativa, secondo l’id quod plerumque accidit, di un pregiudizio alla sfera della odierna ricorrente che sarebbe dovuta essere aggiudicataria dell’appalto).
Peraltro, sul punto della prova dell’elemento psicologico dell’illecito aquiliano della P.A. Cons. Stato, Sez. VI, 13.02.2009, n. 775 ha evidenziato che: «…, in presenza di un’attività illegittima posta in essere dall’Amministrazione e foriera di danno per il privato, quest’ultimo non sarà onerato di un particolare sforzo probatorio in ordine alla sussistenza di una condotta colposa da parte dell’Amministrazione, ben potendosi limitare ad allegare la sola illegittimità del provvedimento quale elemento idoneo a fondare una presunzione (semplice) circa la colpa della P.A.
In tali ipotesi, spetterà quindi all’Amministrazione fornire la prova liberatoria a contrario, dimostrando in concreto che si sia trattato di un errore scusabile, configurabile -ad es.- in caso di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione della norma, di formulazioni polisense di disposizioni di recente emanazione, ovvero di rilevante complessità del fatto sotteso alla determinazione amministrativa.
».
Nella fattispecie oggetto del presente giudizio l’Amministrazione evocata in giudizio non ha fornito la prova liberatoria dell’assenza di colpa, né ha dimostrato la sussistenza in concreto di un errore scusabile.
Va, altresì, rimarcato che l’accertamento in sede giurisdizionale del carattere “non iure” dell’attività amministrativa posta in essere dalla stazione appaltante con consequenziale lesione dell’interesse legittimo dell’odierna ricorrente implica la consolidazione di un danno ingiusto ex art. 2043 cod. civ. nella sfera giuridica della stessa. In altri termini, la riscontrata illegittimità dell’azione amministrativa rappresenta l’indice della colpa dell’Amministrazione convenuta.
In tale eventualità spettava, pertanto, alla parte resistente fornire elementi istruttori o anche meramente assertori volti a dimostrare l’assenza di colpa, parte resistente che all’opposto è rimasta inerte sul punto.
Peraltro, deve essere evidenziato che, da ultimo, Corte Giust. CE, Sez. III, 30.09.2010, n. 314 ha ritenuto superfluo l’accertamento, ai fini della responsabilità della Amministrazione da provvedimento illegittimo, dell’elemento soggettivo della colpa: “La direttiva del Consiglio 21.12.1989 n. 89/665/Cee, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18.06.1992 n. 92/50/Cee, deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale, la quale subordini il diritto a ottenere un risarcimento a motivo di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte di un’Amministrazione aggiudicatrice al carattere colpevole di tale violazione, anche nel caso in cui l’applicazione della normativa in questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo all’Amministrazione suddetta, nonché sull’impossibilità per quest’ultima di far valere la mancanza di proprie capacità individuali e, dunque, un difetto di imputabilità soggettiva della violazione lamentata.”.
Relativamente al profilo del quantum del danno da lucro cessante invocato da parte ricorrente, va evidenziato che secondo Cons. Stato, Sez. IV, 07.09.2010, n. 6485 “Agli effetti della quantificazione del danno per lucro cessante, che l’impresa partecipante a gara pubblica assume di aver ingiustamente sofferto per effetto dell’illegittima mancata aggiudicazione dell’appalto, occorre che essa fornisca la prova rigorosa della percentuale d’utile che avrebbe conseguito se fosse risultata aggiudicataria, prova desumibile dall’esibizione dell’offerta economica da essa presentata al seggio di gara, non costituendo il criterio del 10% del prezzo a base d’asta un criterio automatico, ma solo presuntivo.”.
La deducente TSE ha prodotto in allegato al ricorso introduttivo la propria offerta economica con un ribasso del 24,691% così assolvendo il proprio onere probatorio sul punto.
Tuttavia, come rilevato da Cons. Stato, Sez. VI, 09.06.2008, n. 2751, “Il lucro cessante da mancata aggiudicazione può essere risarcito per intero se e in quanto l’impresa possa documentare di non aver potuto utilizzare mezzi e maestranze, lasciati disponibili, per l’espletamento di altri servizi, mentre quando tale dimostrazione non sia stata offerta è da ritenere che l’impresa possa avere ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per lo svolgimento di altri, analoghi servizi, così vedendo in parte ridotta la propria perdita di utilità, con conseguente riduzione in via equitativa del danno risarcibile.
Si tratta di una applicazione del principio dell’aliunde perceptum, in base al quale, onde evitare che a seguito del risarcimento il danneggiato possa trovarsi in una situazione addirittura migliore rispetto a quella in cui si sarebbe trovata in assenza dell’illecito, va detratto dall’importo dovuto a titolo risarcitorio, quanto da lui percepito grazie allo svolgimento di diverse attività lucrative, nel periodo in cui avrebbe dovuto eseguire l’appalto in contestazione.
Tuttavia, l’onere di provare (l’assenza del)l’aliunde perceptum grava non sull’Amministrazione, ma sull’impresa, e tale ripartizione muove dalla presunzione, a sua volta fondata sull’id quod plerumque accidit, secondo cui l’imprenditore (specie se in forma societaria), in quanto soggetto che esercita professionalmente una attività economica organizzata finalizzata alla produzione di utili, normalmente non rimane inerte in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, ma si procura prestazioni contrattuali alternative dalla cui esecuzione trae utili
.”.
Poiché, nel caso di specie la dimostrazione dell’assenza dell’aliunde perceptum non è stata offerta dalla società ricorrente su cui gravava il relativo onere probatorio, è da opinare nel senso che l’impresa possa avere ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per lo svolgimento di altri, analoghi lavori, così vedendo in parte ridotta la propria perdita di utilità.
Ritiene, pertanto, il Collegio, alla stregua delle considerazioni sopra esposte, di determinare l’ammontare della somma spettante alla società TSE, a titolo di lucro cessante, nel 10% dell’importo dell’offerta economica da quest’ultima presentata.
Tale somma, secondo quanto indicato in precedenza, va ridotta in via prudenziale al 5% dell’offerta economica, tenendo conto dell’aliunde perceptum dell’impresa.
Invero, secondo Cons. Stato, Sez. VI, 19.04.2011, n. 2427, “Non costituisce, normalmente e salvi casi particolari, condotta ragionevole immobilizzare tutti i mezzi di impresa nelle more del giudizio, nell’attesa dell’aggiudicazione in proprio favore, essendo invece ragionevole che l’impresa si attivi per svolgere altre attività. Di qui la piena ragionevolezza della detrazione dal risarcimento del mancato utile, nella misura del 50%, sia dell’aliunde perceptum sia dell’aliunde percipiendum con l’originaria diligenza” (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 18.04.2012 n. 741 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIÈ illegittima per irragionevolezza e contrasto con i principi comunitari di massima tutela della concorrenza tra imprese, la clausola del bando e del disciplinare di gara per l’affidamento del servizio di refezione scolastica, che impone ai partecipanti di allestire un centro per la cottura e la preparazione dei pasti esclusivamente nel territorio del Comune appaltante, in quanto tale prescrizione non è utile ai fini della individuazione del miglior contraente, non è giustificabile con addotte finalità di controllo dell’attività di confezionamento e contrasta con i principi di economicità e di risparmio su scala aziendale, determinando un indubbio favoritismo per i pochi (o unici) soggetti che sono presenti in quel preciso ambito territoriale.
Nel merito, reputa questo Collegio di confermare la giurisprudenza citata da parte ricorrente (TAR Puglia, Bari, Sez. I, 03.11.2009, n. 2602 e TAR Puglia, Bari, Sez. I, 27.04.2010, n. 1495) perfettamente pertinente con la fattispecie oggetto del presente giudizio.
Infatti, il gravato art. 5 del capitolato d’appalto si pone chiaramente in contrasto con il principio affermato da questo Tribunale (cfr. TAR Puglia, Bari, Sez. I, 03.11.2009, n. 2602): “È illegittima per irragionevolezza e contrasto con i principi comunitari di massima tutela della concorrenza tra imprese, la clausola del bando e del disciplinare di gara per l’affidamento del servizio di refezione scolastica, che impone ai partecipanti di allestire un centro per la cottura e la preparazione dei pasti esclusivamente nel territorio del Comune appaltante, in quanto tale prescrizione non è utile ai fini della individuazione del miglior contraente, non è giustificabile con addotte finalità di controllo dell’attività di confezionamento e contrasta con i principi di economicità e di risparmio su scala aziendale, determinando un indubbio favoritismo per i pochi (o unici) soggetti che sono presenti in quel preciso ambito territoriale.”.
Analogo principio è stato affermato da TAR Puglia, Bari, Sez. I, 27.04.2010, n. 1495 con riferimento alla censura in sede giurisdizionale, da parte di un istituto di vigilanza, di clausole della lex specialis di gara relativa alla procedura aperta per l’affidamento del servizio di vigilanza privata di immobili comunali del Comune di Bisceglie (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 17.04.2012 n. 733 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn caso di violazione del divieto, previsto dall’art. 23 Codice della Strada, di collocare cartelli ed altri mezzi pubblicitari lungo le strade in assenza di autorizzazione, l’opposizione avverso il provvedimento di irrogazione sia della sanzione pecuniaria che di quella, accessoria, della rimozione della pubblicità abusiva, appartiene alla giurisdizione del G.O. poiché in entrambi i casi la p.A. non esercita alcun potere autoritativo, ma si limita all’applicazione, scevra da discrezionalità, delle disposizioni di legge.
La determinazione dirigenziale di rimozione di un impianto pubblicitario emessa dal Comune ai sensi dell’art. 23, comma 13-quater, del Codice della Strada, prevedendo detta norma (al comma 11) anche l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria, integra un nesso di complementarietà, costituendo la rimozione un accessorio della sanzione amministrativa pecuniaria, con conseguente impugnabilità innanzi al Giudice ordinario a norma del combinato disposto di cui agli artt. 22 e 23 della Legge 689/1981.

... per l'annullamento:
1) dell’ordinanza 15.11.2011, prot. n. 44663/2011 (Reg. Ord. n. 82), notificata in data 13.12.2011, con la quale il Settimo Settore Urbanistica ed Edilizia del Comune di Manfredonia ha ordinato la rimozione di n. 8 pali pubblicitari;
2) dell’ordinanza 29.11.2011, prot. n. 46203/2011 (Reg. Ord. n. 89), notificata in data 13.12.2011, con la quale il Settimo Settore Urbanistica ed Edilizia del Comune di Manfredonia ha ordinato la rimozione di n. 9 pali pubblicitari, n. 3 transenne di protezione parapedonale, n. 1 orologio su colonna con spazio pubblicitari;
3) dell’ordinanza 29.11.2011, prot. n. 45702/2011 (Reg. Ord. n. 88), notificata in data 13.12.2011, con la quale il Settimo Settore Urbanistica ed Edilizia del Comune di Manfredonia ha ordinato la rimozione di n. 15 pali pubblicitari, n. 1 orologio su colonna con spazio pubblicitario, n. 3 transenne di protezione parapedonale;
4) dell’ordinanza 20.12.2011, prot. n. 48976/2011 (Reg. Ord. n. 94) notificata in data 04.01.2012, con la quale il Settimo Settore Urbanistica ed Edilizia del Comune di Manfredonia ha ordinato la rimozione di n. 25 pali pubblicitari, n. 4 pensiline fermata BUS, n. 4 orologi su colonna, n. 58 transenne di protezione parapedonale;
...
Quanto all’oggetto del ricorso in esame, rileva il Collegio che, anche a prescindere dall’applicabilità o meno alla vicenda in esame dei provvedimenti tipici sanzionatori degli abusi edilizi limitatamente a talune strutture o impianti in ipotesi astrattamente idonei ad integrare opere suscettibili di autorizzazione edilizia (con riferimento alle pensiline per la sosta dei bus e similari, in ragione delle loro dimensioni e del relativo impatto urbanistico), la qualificazione del potere concretamente esercitato dall’Amministrazione compete in via esclusiva al Giudice Amministrativo e deve essere effettuata sulla base della valutazione del potere concretamente esercitato, indipendentemente dal nomen iuris attribuito al provvedimento e a prescindere dai richiami normativi contenuti nel provvedimento medesimo.
Alla luce di quanto sopra, è innegabile che le impugnate ordinanze di rimozione degli impianti pubblicitari e delle strutture costituiscano essenzialmente esercizio del potere di gestione e dell’uso di beni demaniali connessi all’installazione degli impianti su area pubblica, alla stregua della normativa di cui al D.Lgs. 15.11.1993 n. 507 ed al Codice della Strada.
L’eventuale rilevanza urbanistico-edilizia di taluni impianti o strutture di maggiori dimensioni non sostituisce, ma semmai integra additivamente, la disciplina sopra richiamata, idonea comunque di per sé a supportare l’esercizio del potere di rimozione degli impianti medesimi, indipendentemente dalle loro dimensioni.
Conseguentemente, così correttamente qualificati gli impugnati provvedimenti, tenuto conto della loro intrinseca natura e del potere concretamente esercitato, la controversia in esame rientra nell’ambito della giurisdizione del Giudice Ordinario.
Ed invero con gli impugnati provvedimenti il Comune ha ordinato la rimozione d’ufficio dei cartelli, degli impianti e delle strutture di che trattasi, vista l’inutilità delle precedenti diffide in tal senso rivolte alla società, con conseguente automatica applicabilità del disposto di cui all'art. 23, comma 13-bis, del Codice della Strada, applicabilità non condizionata dal richiamo o meno della norma nel preambolo del provvedimento impugnato, non essendo concepibile che l’applicazione di una norma di legge tassativa e inderogabile possa essere ritenuta inapplicabile solo perché non oggetto di espresso richiamo nel provvedimento amministrativo.
Ai fini della individuazione della giurisdizione occorre infatti considerare l’oggetto del giudizio così come risultante dalla combinata lettura del petitum sostanziale e della causa petendi, che nel caso in esame è rappresentato dalla impugnazione di ordinanze di rimozione d’ufficio di impianti e strutture pubblicitarie ex D.Lgs. 507/1993 e 23, comma 13-bis, del Codice della Strada, con conseguente ricaduta della controversia nella giurisdizione del G.O.
Ciò in conformità di orientamento, ormai da ritenersi consolidato, espresso dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in relazione alla circostanza che la determinazione dirigenziale di rimozione di un impianto pubblicitario emessa dal Comune ai sensi dell’art. 23, comma 13-quater, del Codice della Strada, prevedendo detta norma (al comma 11) anche l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria, integra un nesso di complementarietà, costituendo la rimozione un accessorio della sanzione amministrativa pecuniaria, con conseguente impugnabilità innanzi al Giudice ordinario a norma del combinato disposto di cui agli artt. 22 e 23 della Legge 689/1981 (Cass. Civile SS.UU. 23.06.2010 n. 15170; Cass. Civile SS.UU. 19.08.2009 n. 18357; Cass. Civile SS.UU. 14.01.2009 n. 563; Cass. Civile SS.UU. 16.04.2009 n. 8984; Cass. Civile SS.UU. 18.11.2008 n. 27334; Cass. Civile SS.UU. 06.06.2007, n. 13230; Cass. Civile SS.UU. 17.07.2006, n. 16129).
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza 06.06.2007 n. 13230, hanno peraltro evidenziato l’inapplicabilità alla fattispecie in esame del disposto di cui all’art. 34 del D.Lgs. 80/1998, “non vertendosi in tema di uso del territorio, bensì di godimento abusivo di beni demaniali, con riferimento al quale il legislatore detta una disciplina specifica”.
La Corte di Cassazione ha affermato: “in caso di violazione del divieto, previsto dall’art. 23 Codice della Strada, di collocare cartelli ed altri mezzi pubblicitari lungo le strade in assenza di autorizzazione, l’opposizione avverso il provvedimento di irrogazione sia della sanzione pecuniaria che di quella, accessoria, della rimozione della pubblicità abusiva, appartiene alla giurisdizione del G.O. poiché in entrambi i casi la p.A. non esercita alcun potere autoritativo, ma si limita all’applicazione, scevra da discrezionalità, delle disposizioni di legge” (SS. UU. 15170/10).
In tal senso è la giurisprudenza amministrativa prevalente (TAR Lazio-Roma, Sez. II Ter, 09.04.2008, n. 3037; TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, 2008), anche di questo tribunale (TAR Bari, Sez. II, n. 3540/2010; TAR Bari, Sez. II, 214/2012) (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 13.04.2012 n. 730 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Smaltimento rifiuti, dirigente PA ''esecutivo'' senza responsabilità.
Nessun rimprovero può essere posto a carico del dirigente comunale del Settore Patrimonio se allo stesso non siano stati conferiti i compiti specifici relativi alle procedure in materia di rifiuti quando risulti che lo stesso, nel corso dell'esecuzione di un ordinanza del Sindaco per ragioni di necessità ed urgenza, ebbe a svolgere tale attività anche coordinandosi con il dirigente del Settore Ambiente competente (questo sì munito dei relativi poteri).
Particolarmente interessante la decisione della Suprema Corte che, nel caso in esame, si sofferma ad individuare l’ambito delle responsabilità attribuibili in materia di gestione dei rifiuti in seno alla struttura organizzativa di un ente locale.
I giudici, nell’esaminare una vicenda che vedeva interessato il dirigente del settore patrimonio di un Comune, hanno sul punto richiamato il principio secondo cui l'amministratore o il legale rappresentante di un ente non può essere automaticamente ritenuto responsabile, a causa della carica ricoperta, di tutte le infrazioni penali verificatesi nella gestione dell'ente, a maggior ragione quando trattasi di ente pubblico, richiedendosi in tal caso che l'attività funzionale sia stata preventivamente suddivisa in settori, rami o servizi, e che a ciascuno di essi siano in concreto preposti soggetti qualificati ed idonei, dotati della necessaria autonomia e dei poteri indispensabili per la gestione completa degli affari di quel servizio.
Da qui, dunque, l’esclusione della responsabilità del malcapitato dirigente comunale, cui non poteva essere mosso alcun rimprovero penale.
Il caso
La vicenda processuale vedeva imputati il dirigente di un Comune, il titolare di un’impresa autorizzata alla raccolta ed al trasporto dei rifiuti ed il direttore di cantiere dell’impresa, cui era stato contestato il reato di cui all’art. 256, comma 1, lett. a), T.U.A., in relazione al deposito senza autorizzazione di masse di alghe marine (rifiuti organici) su terreno di proprietà comunale e su due aree agricole di proprietà privata.
Il ricorso
Condannato in sede di merito il solo dirigente comunale, quest’ultimo proponeva ricorso per cassazione, dolendosi del fatto che i giudici di merito non avessero tenuto in considerazione la situazione di estrema urgenza in cui egli si era trovato ad operare, quale dirigente comunale; in particolare, però, censurava la decisione perché era emerso che ad occuparsi della gestione delle alghe dopo la loro raccolta avrebbe dovuto essere il dirigente dell’ufficio ambiente del Comune e, quindi, il mancato smaltimento delle alghe non avrebbe potuto essere addebitato all’imputato, che, essendo invece dirigente dell’ufficio patrimonio del Comune, non sarebbe il destinatario di alcun obbligo giuridico di provvedere in materia ambientale.
In particolare, in sede di motivi nuovi, la difesa dell’imputato allegava documentazione da cui emergeva che il progetto dell’amministrazione comunale era quello di riutilizzare il materiale per contrastare fenomeni erosivi delle spiagge, progetto che, intrapreso dall’imputato, era stato portato a termine dal dirigente del settore ambiente. Alla stregua di quanto sopra, dunque, era ancora più evidente che, dopo i provvedimenti di urgenza, responsabile della gestione del materiale avrebbe dovuto essere proprio il dirigente del settore ambiente.
La decisione della Cassazione
La tesi è stata favorevolmente valutata dagli Ermellini.
I giudici hanno infatti richiamato il principio secondo cui l'amministratore o il legale rappresentante di un ente non può essere automaticamente ritenuto responsabile, a causa della carica ricoperta, di tutte le infrazioni penali verificatesi nella gestione dell'ente, a maggior ragione quando trattasi di ente pubblico, richiedendosi in tal caso che l'attività funzionale sia stata preventivamente suddivisa in settori, rami o servizi, e che a ciascuno di essi siano in concreto preposti soggetti qualificati ed idonei, dotati della necessaria autonomia e dei poteri indispensabili per la gestione completa degli affari di quel servizio (Cass. pen., Sez. 3, n. 5889 del 27/03/1998, dep. 19/05/1998, imp. S., in Ced Cass., n. 210946).
A ciò si aggiunge, che, in materia di rifiuti, anche a seguito dell'entrata in vigore dell'ordinamento degli enti locali (D.Lgs. n. 267 del 2000 e successive integrazioni), che ha conferito ai dirigenti amministrativi autonomi poteri di organizzazione delle risorse, permane in capo al sindaco, sia il compito di programmazione dell'attività di smaltimento dei rifiuti solidi urbani, sia il potere di intervento nelle situazioni contingibili e urgenti, sia il dovere di controllo sul corretto esercizio delle attività autorizzate (Cass. pen., Sez. 3, n. 19882 del 11/03/2009, dep. 11/05/2009, imp. C., in Ced Cass., n. 243717).
In applicazione di tali principi, alla luce delle prove raccolte nel caso concreto, era evidente che l’ufficio competente a gestire il progetto relativo all’utilizzazione della alghe (posidonea oceanica) era quello del settore ambiente ed ufficio unico dei rifiuti; diversamente, l’imputato, preposto al settore patrimonio e strategie territoriali del Comune, si era limitato a dare esecuzione all’ordinanza del Sindaco, emessa nella sussistenza dei presupposti di necessità ed urgenza, con cui si disponeva la rimozione del materiale che ostruiva la darsena, al fine di ripristinare la sicurezza e la navigabilità.
Per quanto riguarda l’aspetto psicologico, infine, è stata esclusa qualsiasi possibilità di addebito di responsabilità al dirigente del settore patrimonio del Comune, in quanto lo stesso non svolgeva alcuna funzione in materia ambientale.
In particolare, osserva La corte, se è vero che il reato in esame può essere commesso anche a titolo di colpa, la non riferibilità all’imputato delle funzioni in materia ambientale ed il fatto che lo stesso avesse coinvolto il dirigente del settore ambientale specificamente per i contatti con la Provincia in riferimento alla problematica delle alghe, impongono una rivalutazione del giudizio di merito, posto che il giudice di primo grado si era limitato ad ancora la responsabilità del dirigente comunale alla mera consapevolezza che l’imputato aveva di operare in materia di rifiuti.
Da qui, dunque, l’affermazione secondo cui, osservano gli Ermellini, nessun rimprovero può essere posto a carico del dirigente comunale del Settore Patrimonio se allo stesso non siano stati conferiti i compiti specifici relativi alle procedure in materia di rifiuti quando risulti che lo stesso, nel corso dell'esecuzione di un ordinanza del Sindaco per ragioni di necessità ed urgenza, ebbe a svolgere tale attività anche coordinandosi con il dirigente del Settore Ambiente competente (questo sì munito dei relativi poteri).
Si è invero precisato che i dirigenti comunali possono essere titolari di posizioni di garanzia nello svolgimento dei compiti di gestione amministrativa a loro devoluti, residuando in capo al Sindaco unicamente poteri di sorveglianza e controllo collegati ai compiti di programmazione che gli appartengono quale capo dell'amministrazione comunale ed ufficiale di governo (Cass. pen., Sez. 4, n. 22341 del 21/04/2011, dep. 06/06/2011, imp. B., in Ced Cass., n. 250720) (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione penale, sentenza 12.04.2012 n. 13927 - sentenza tratta da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'istituto del preavviso di rigetto di cui all'art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, stante la sua portata generale, trova applicazione anche nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio.
Deve, conseguentemente, ritenersi illegittimo il provvedimento di diniego dell'istanza di permesso in sanatoria che non sia stato preceduto dall'invio della comunicazione di cui al citato art. 10-bis in quanto preclusivo, per il soggetto interessato, della piena partecipazione al procedimento e, dunque, della possibilità di un suo apporto collaborativo, capace di condurre ad una diversa conclusione della vicenda.
Nondimeno, occorre considerare che tali omissioni non determinano comunque l'annullabilità del provvedimento qualora trovi applicazione il disposto dell'art. 21-octies, comma 2, prima parte della legge n. 241 del 1990, a tenore del quale “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Il provvedimento di diniego di condono edilizio costituisce espressione di potere vincolato rispetto ai presupposti normativi richiesti e dei quali deve farsi applicazione.

Il Collegio, aderendo alla giurisprudenza amministrativa già fatta propria da questa Sezione e dalla quale non ha motivo di discostarsi, ritiene che, a seguito delle modifiche introdotte dalla legge 11.02.2005, n. 15, l'istituto del preavviso di rigetto di cui all'art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 -Comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza- introdotto dall’art. 6 della prima legge menzionata, stante la sua portata generale, trovi applicazione anche nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio (cfr. TAR Bari, Sezione III, 22.09.2011, n. 1383, TAR Liguria Genova, Sez. I, 22.04.2011, n. 666).
Deve, conseguentemente, ritenersi illegittimo il provvedimento di diniego dell'istanza di permesso in sanatoria che non sia stato preceduto dall'invio della comunicazione di cui al citato art. 10-bis in quanto preclusivo, per il soggetto interessato, della piena partecipazione al procedimento e, dunque, della possibilità di un suo apporto collaborativo, capace di condurre ad una diversa conclusione della vicenda (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. VIII, 07.03.2011, n. 1318).
Nondimeno, occorre considerare che tali omissioni non determinano comunque l'annullabilità del provvedimento qualora trovi applicazione il disposto dell'art. 21-octies, comma 2, prima parte della legge n. 241 del 1990, a tenore del quale “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Orbene, non vi è alcun dubbio che il provvedimento di diniego di condono edilizio costituisce espressione di potere vincolato rispetto ai presupposti normativi richiesti e dei quali deve farsi applicazione (negli stessi termini TAR Liguria Genova, Sez. I, 22.04.2011, n. 666, cit. e la giurisprudenza ivi richiamata: Consiglio di Stato, IV, 14.04.2010, n. 2105; TAR Lombardia-Milano, II, 22.07.2010, n. 3253, da ultimo TAR Bari, Sezione III, 08.03.2012, n. 520) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 05.04.2012 n. 676 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTINon può essere escluso il concorrente che abbia diligentemente formulato la propria offerta tecnico-economica e le dichiarazioni sul possesso dei requisiti generali, conformandosi al contenuto della lex specialis di gara ed ai relativi allegati, giacché le eventuali imperfezioni rinvenibili in questi ultimi non gli possono essere addebitate.
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Il giudizio comparativo operato nelle gare d’appalto, caratterizzate dalla complessità delle discipline specialistiche di riferimento e dall’opinabilità dell’esito della valutazione, sfugge al sindacato intrinseco del giudice, se non vengono in rilievo specifiche contestazioni circa la plausibilità dei criteri valutativi o circa la loro manifesta violazione (che nella specie, ad avviso del Collegio, non è ravvisabile), non essendo ammissibile che l’impresa ricorrente vi contrapponga le proprie valutazioni di parte sulla qualità dei rispettivi progetti tecnici.

Vale, in tal caso, il principio ripetutamente affermato dalla giurisprudenza e condiviso anche da questa Sezione, secondo il quale non può essere escluso il concorrente che abbia diligentemente formulato la propria offerta tecnico-economica e le dichiarazioni sul possesso dei requisiti generali, conformandosi al contenuto della lex specialis di gara ed ai relativi allegati, giacché le eventuali imperfezioni rinvenibili in questi ultimi non gli possono essere addebitate (cfr., in questo senso, TAR Puglia, Bari, sez. I, 08.06.2011 n. 842 ed i numerosi precedenti ivi richiamati).
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Secondo un principio ripetutamente affermato dalla giurisprudenza amministrativa, il giudizio comparativo operato nelle gare d’appalto, caratterizzate dalla complessità delle discipline specialistiche di riferimento e dall’opinabilità dell’esito della valutazione, sfugge al sindacato intrinseco del giudice, se non vengono in rilievo specifiche contestazioni circa la plausibilità dei criteri valutativi o circa la loro manifesta violazione (che nella specie, ad avviso del Collegio, non è ravvisabile), non essendo ammissibile che l’impresa ricorrente vi contrapponga le proprie valutazioni di parte sulla qualità dei rispettivi progetti tecnici (così, tra molte, Cons. Stato, sez. V, 08.03.2011 n. 1464) (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 04.04.2012 n. 659 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAConsiderata la specialità del procedimento di condono edilizio rispetto all'ordinario procedimento di rilascio del permesso di costruire e l'assenza di una specifica previsione in ordine alla sua necessità per il rilascio del titolo edilizio in sanatoria, il parere della commissione edilizia non è obbligatorio ma, al più, facoltativo.
Considerata la specialità del procedimento di condono edilizio rispetto all'ordinario procedimento di rilascio del permesso di costruire e l'assenza di una specifica previsione in ordine alla sua necessità per il rilascio del titolo edilizio in sanatoria, il parere della commissione edilizia non è obbligatorio ma, al più, facoltativo (cfr. da ultimo Tar Lombardia-Milano, sez. II, 11.06.2009 n. 3958; in termini Cons. Stato, sez. VI, 27.06.2008, n. 3282; sez. V, 04.10.2007, n. 5153 e 21.06.2007, n. 3315; sez. IV, 16.10.1998, n. 1306) (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 02.04.2012 n. 636 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’assenza di una regolamentazione comunale non può, di per sé, essere di ostacolo alla realizzazione di nuovi impianti di telefonia mobile, che sono dalla legge considerati opera di pubblica utilità, urbanizzazione primaria e come tali compatibili con qualsiasi zonizzazione.
Quanto al primo aspetto va rilevato che é ormai consolidato in Giurisprudenza il principio per cui l’assenza di una regolamentazione comunale non può, di per sé, essere di ostacolo alla realizzazione di nuovi impianti, che sono dalla legge considerati opera di pubblica utilità, urbanizzazione primaria e come tali compatibili con qualsiasi zonizzazione (C.d.S. sez. VI n. 1767/2008; C.d.S. sez. VI n. 9414/2010) (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 02.04.2012 n. 634 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARIUn freno alle diagnosi fai-da-te. È contestabile il certificato medico rilasciato senza visita. L'orientamento espresso in una sentenza della Cassazione sulle assenze dal lavoro per malattia.
Per il dipendente «fannullone» adesso paga pure il medico compiacente. Nell'ipotesi di assenza per malattia, infatti, è vero che il datore di lavoro non può controllare direttamente lo stato d'infermità del lavoratore, ma adesso può contestare il certificato «anamnestico», cioè il certificato redatto senza visita del paziente, ma sulla base soltanto di quanto dichiarato dallo stesso paziente. Una tipologia di certificato ora vietata, la cui eventuale redazione è punita con un mese di sospensione dall'esercizio della professione medica.
Lo stabilisce la sentenza 09.03.2012 n. 3705 della Corte di Cassazione, di fatto introducendo una nuova ipotesi di valido motivo di accertamento e contestazione della malattia dei lavoratori da parte dei datori di lavoro.
Vietati gli accertamenti in proprio. La legge n. 300/1970 (lo Statuto dei lavoratori) vieta al datore di lavoro ogni possibilità di eseguire, personalmente o attraverso medici di sua fiducia, accertamenti sullo stato di salute del dipendente. Al datore di lavoro è consentita unicamente la facoltà di controllare l'idoneità fisica e l'infermità del dipendente avvalendosi di enti pubblici ed enti specializzati, ricadenti nella sfera del diritto pubblico, cioè appartenenti al servizio sanitario nazionale.
La centralità dell'utilizzo del servizio sanitario pubblico nell'accertamento della malattia del dipendente, spiega il parere n. 10/2012 della Fondazione studi dei consulenti del lavoro, è stata di recente ribadita dall'articolo 25 della legge n. 183/2010 (il collegato lavoro), il quale ha uniformato il regime legale del rilascio e della trasmissione delle certificazioni per il caso di assenza per malattia dei dipendenti pubblici e di quelli privati, disponendo che la malattia protratta per un periodo superiore a dieci giorni e, in ogni caso, il secondo evento morboso nell'anno solare (1° gennaio-31 dicembre) devono essere giustificati (a partire, quindi, dal terzo evento) esclusivamente mediante certificazione medica rilasciata da: a) una struttura sanitaria pubblica; oppure b) un medico convenzionato con il servizio sanitario nazionale.
A tanto, adesso, alla luce della sentenza della Corte di cassazione n. 3705 del 09.03.2012 (si veda ItaliaOggi del 12 marzo), deve aggiungersi pure che il certificato medico può essere rilasciato solo a seguito di visita al paziente, essendo esclusa l'ammissibilità di certificati di tipo anamnestico, in cui il sanitario si limita ad attestare quanto sostenuto dal dipendente rispetto al proprio stato di salute.
Impugnabile il certificato medico. È vero che il datore di lavoro non può controllare lo stato di salute dei lavoratori, anche quando tale stato giustifichi l'assenza dal lavoro (malattia); tuttavia, nel caso in cui dovesse nutrire fondati dubbi sul reale stato di salute del lavoratore, potrebbe mettere in discussione la validità del «titolo» che abilita il lavoratore a quell'assenza. Infatti la giurisprudenza consolidata ritiene che il certificato medico attestante lo stato di malattia del lavoratore dipendente può essere contestato dal datore di lavoro che abbia motivo di ritenere insussistente la denunciata malattia del lavoratore (Cassazione sentenza n. 6010/2000).
In particolare, il datore di lavoro può domandare in giudizio la verifica dell'attendibilità della certificazione prodotta dal lavoratore, anche laddove non abbia richiesto una visita di controllo (Cassazione sentenza n. 13056/1997). Infatti, il controllo delle assenze del lavoratore per infermità (previsto dal citato articolo 5 dello Statuto dei lavoratori) non costituisce l'unico mezzo concesso al datore di lavoro per contestare l'attendibilità del certificato medico prodotto dal lavoratore, che può sempre mettere in dubbio tale certificazione mediante il ricorso all'autorità giudiziaria (Cassazione sentenza n. 1044/1990).
Ciò in quanto la natura di atti pubblici dei certificati redatti da medici appartenenti al Servizio sanitario nazionale conferisce a tali documenti la fede pubblica, fino a querela di falso, per ciò che concerne i seguenti fatti: a) la provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato; c) i fatti che il pubblico ufficiale medesimo attesta di aver compiuto o essere avvenuti in sua presenza (Cassazione sentenza n. 5000/1999). Viceversa, la fede pubblica non si estende alla diagnosi, e dunque ai giudizi del medico relativi allo stato di malattia e alla relativa impossibilità temporanea a fornire la prestazione lavorativa; Tali valutazioni, pur essendo dotate di un elevato grado di attendibilità in ragione della qualifica funzionale e professionale del pubblico ufficiale, non sono vincolanti per il giudice, che può anche decidere di sconfessarle in presenza di elementi probatori di segno contrario.
Infatti, sempre l'articolo 5 della legge n. 300/1970, nella parte in cui demanda solo agli enti pubblici il controllo della idoneità fisica del lavoratore su richiesta del datore di lavoro, lascia integro il potere-dovere del giudice di merito di controllare l'attendibilità degli accertamenti sanitari, avvalendosi dei poteri istruttori che gli conferisce il rito del lavoro. In tal caso, spiega Fondazione dei consulenti del lavoro, deve di conseguenza escludersi che la norma (articolo 5), la quale ha inteso garantire l'imparzialità della valutazione tecnica affidandola ad organi pubblici, abbia attribuito alle predette indagini una particolare insindacabile efficacia probatoria (Cassazione sentenza n. 6045/2000) (articolo ItaliaOggi Sette del 14.05.2012).

COMPETENZE GESTIONALI - INCARICHI PROFESSIONALIAl Sindaco e al Presidente della provincia, quali legali rappresentanti dell’ente, può riconoscersi solo il potere di conferire il mandato al difensore, fermo restando che la decisione in ordine all’opportunità o meno di agire o resistere in giudizio spetta al dirigente nella cui sfera di competenza rientra il rapporto sostanziale che viene in rilievo.
Il Collegio è consapevole che gran parte della giurisprudenza ritiene che negli enti locali –e nel sistema del d.lgs. 17.08.2000, n. 267- il potere di agire e resistere in giudizio (e il conseguente conferimento del mandato alle liti al difensore) è funzione spettante al Sindaco o al Presidente della provincia, quali rappresentanti legali dell’ente, senza che occorra, in difetto di diverse disposizioni statutarie o regolamentari che attribuiscano il potere in questione alla giunta o al personale munito di qualifica dirigenziale, un’autorizzazione da parte di questi ultimi organi (Consiglio di Stato, sez. IV, 01.10.2008, n. 4744, Cassazione civile, sez. un., 10.12.2002, n. 17550); di conseguenza il Presidente della provincia (e il Sindaco) legittimamente conferiscono al difensore il mandato professionale senza che occorra che siano autorizzati da altri organi (ciò tra l’altro significherebbe che il mandato conferito ai controinteressati dal Presidente della provincia resterebbe valido e efficace anche in caso di annullamento della delibera della giunta impugnata, che sarebbe un atto sostanzialmente non necessario o “inutile”).
Tuttavia questa impostazione non è condivisibile.
La decisione di agire e resistere in giudizio e, se è per questo e a maggior ragione, la scelta del professionista cui affidare il patrocinio, non possono che esser considerate una decisione di carattere gestionale attinente ai rapporti di carattere sostanziale che volta a volta vengono in rilievo, che è pertanto riservata, in base all’articolo 107 del d.lgs. 17.08.2000, n. 267, al personale burocratico e non agli organi di governo, cui è riservato invece l’esercizio del potere di indirizzo e di controllo politico-amministrativo.
Del resto, ad es., non potrebbe dubitarsi che la decisione di transigere in ordine alla controversia e la definizione dei termini della transazione siano un compito dei dirigenti (cui spetta, per espressa disposizione di legge, la stipulazione dei contratti); insomma –una volta affermato il principio che spetta ai dirigenti la gestione della sfera di attribuzioni dell’ente rientrante nella competenza degli organi cui sono preposti e l’adozione di tutti i relativi atti che impegnano l’ente nei rapporti con i terzi- non può non ritenersi che questa competenza abbracci ogni aspetto e decisione attinente alla gestione dei rapporti giuridici facenti capo all’organo, ivi comprese le decisioni inerenti alla eventuale instaurazione (o resistenza) a giudizi e alla definizione (d’intesa con il difensore dell’ente) delle relative strategie processuali.
Ciò, del resto, trova conferma nella disposizione citata che espressamente assegna ai dirigenti il compito di presiedere le commissioni di gara e stipulare i contratti; di conseguenza al Sindaco e al Presidente della provincia, quali legali rappresentanti dell’ente, può riconoscersi solo il potere di conferire il mandato al difensore, fermo restando che la decisione in ordine all’opportunità o meno di agire o resistere in giudizio spetta al dirigente nella cui sfera di competenza rientra il rapporto sostanziale che viene in rilievo (Cassazione civile, sez. trib., 17.12.2003, n. 19380, Consiglio di Stato, sez. V, 25.01.2005, n. 155) (TAR Lazio-Latina, sentenza 20.07.2011 n. 604 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - INCARICHI PROFESSIONALILa rappresentanza in giudizio del comune è riservata, in via esclusiva, al Sindaco e non può essere esercitata dal dirigente titolare della direzione di un ufficio o di un servizio neppure se così preveda lo statuto comunale.
Il riconosciuto potere dei dirigenti di promuovere o resistere alle liti riguarda la loro legittimazione processuale e non già la rappresentanza dell’ente, che è l’elemento rilevante in materia di notifica degli atti.
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La proposizione di appello giurisdizionale, da parte del sindaco senza la previa delibera del competente dirigente comunale, necessita la previa determinazione del dirigente in ordine alla opportunità di promuovere una lite o resistere in giudizio.
Invero, nel vigore dell’ordinamento degli enti locali approvato con il d.lgs. 18.08.2000 n. 267, la norma dello statuto comunale che attribuisce al dirigente la funzione di gestione amministrativa deve ritenersi comprensiva dell’attribuzione al medesimo del potere di determinazione -in luogo della delibera autorizzativa della giunta municipale- in ordine alla opportunità di promuovere o resistere ad una lite, atteso che tale determinazione non appartiene all’attuazione dell’indirizzo politico-amministrativo generale del Comune (spettante al sindaco ed alla giunta), ma alla gestione amministrativa del singolo caso, ed assume il carattere di una proposta e di una valutazione di natura tecnica, la quale viene accolta discrezionalmente dal sindaco, quale capo dell’amministrazione ed esclusivo rappresentante dell’ente locale dinanzi agli organi giudiziari.

Né ha alcun fondamento la tesi dell’appellato, secondo la quale la notifica sarebbe rituale, perché il vigente (anche all’epoca in cui il ricorso è stato proposto) statuto comunale attribuisce ai dirigenti il potere di promuovere e resistere alle liti.
Invero, a prescindere dalla dubbia legittimità di una disposizione siffatta -considerato che, secondo un fermo orientamento della Corte di Cassazione, la rappresentanza in giudizio del comune è riservata, in via esclusiva, al Sindaco e non può essere esercitata dal dirigente titolare della direzione di un ufficio o di un servizio neppure se così preveda lo statuto comunale (cfr., tra le sentenze più recenti, Cass. civ., Sez. Trib., 07.06.2004 n. 10787)- il riconosciuto potere dei dirigenti di promuovere o resistere alle liti riguarda la loro legittimazione processuale e non già la rappresentanza dell’ente, che è l’elemento rilevante in materia di notifica degli atti.
Per quanto concerne, poi, l’eccezione di inammissibilità dell’appello, per essere stato proposto dal sindaco senza la previa delibera del competente dirigente comunale, si deve convenire che, al riguardo, non solo da questo Consiglio, con il precedente invocato a sostegno di detta argomentazione (Sez. IV, 05.07.1999 n. 1164), ma, in epoca più recente, anche dalla Corte di Cassazione (cfr. Cass. Civ., Sez. Trib., 17.12.2003 n. 19380) è stato affermato che occorre la previa determinazione del dirigente in ordine alla opportunità di promuovere una lite o resistere in giudizio.
In particolare, la Corte di Cassazione ha chiarito che, nel vigore dell’ordinamento degli enti locali approvato con il d.lgs. 18.08.2000 n. 267, la norma dello statuto comunale che attribuisce al dirigente la funzione di gestione amministrativa deve ritenersi comprensiva dell’attribuzione al medesimo del potere di determinazione -in luogo della delibera autorizzativa della giunta municipale- in ordine alla opportunità di promuovere o resistere ad una lite, atteso che tale determinazione non appartiene all’attuazione dell’indirizzo politico-amministrativo generale del Comune (spettante al sindaco ed alla giunta), ma alla gestione amministrativa del singolo caso, ed assume il carattere di una proposta e di una valutazione di natura tecnica, la quale viene accolta discrezionalmente dal sindaco, quale capo dell’amministrazione ed esclusivo rappresentante dell’ente locale dinanzi agli organi giudiziari (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 25.01.2005 n. 155 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 14.05.2012

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UTILITA'

SICUREZZA LAVOROEcco la guida completa alla prevenzione incendi e alla valutazione del rischio d’incendio.
Il D.Lgs. 81/2008 (Testo Unico sulla Sicurezza) e s.m.i. obbliga ogni datore di lavoro, in relazione alla natura dell’attività dell’azienda di cui è responsabile, ad una valutazione dei rischi cui sono esposti i lavoratori.
L’INAIL ha pubblicato la nuova guida antincendio, contenente i criteri generali di sicurezza antincendio per la gestione dell’emergenza sui luoghi di lavoro.
Il documento è utile a tutti i tecnici impegnati nel settore della sicurezza o dell’antincendio, ai datori di lavoro, ai responsabili del servizio di prevenzione e protezione e ai responsabili dei lavoratori per la sicurezza.
Infatti, la guida risulta molto completa e tratta i seguenti argomenti:
● Evoluzione normativa antincendio
● Criteri generali di prevenzione incendi
● Valutazione del rischio incendio
● Criteri di verifica della resistenza al fuoco e calcolo del carico d’incendio
● Quantificazione e dislocazione degli estintori
● Tipologie di impianti di estinzione
● Piano di emergenza
● Formazione e informazione
● Esempio di registro della sicurezza antincendio
● Schede tipo sulla formazione ed esercitazioni antincendio
● Glossario antincendio
Il documento può essere utilizzato anche come strumento per la formazione antincendio per le figure impegnate nella sicurezza (11.05.2012 - link a www.acca.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Chiarimenti alla nota prot. DCPREV 1324 del 07.02.2012 "Guida per l'installazione degli impianti fotovoltaici - Edizione 2012" (Ministero dell'Interno, nota 04.05.2012 n. 6334 di prot.).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 19 del 10.05.2012, "Testo coordinato della l.r. 11.03.2005, n. 12 «Legge per il governo del territorio»".

APPALTI: G.U. 08.05.2012 n. 106 "Disposizioni urgenti per la razionalizzazione della spesa pubblica" (D.L. 07.05.2012 n. 52).
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In Gazzetta il decreto-Legge sulla Spending Review: Modifiche al Codice dei contratti ed al regolamento.
Sulla Gazzetta ufficiale n. 106 di ieri 8 maggio è stato pubblicato il decreto-legge 07.05.2012, n. 52 recante “Disposizioni urgenti per la razionalizzazione della spesa pubblica” sulla cosiddetta Spending Review.
Il decreto-legge in argomento introduce ulteriori modifiche al Codice dei contratti ed al Regolamento di attuazione e nuove norme per garantire la trasparenza negli appalti pubblici.
Nel dettaglio con
l'articolo 8 del provvedimento viene previsto che saranno resi pubblici, attraverso l'Osservatorio dei contratti pubblici dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, tutti i dati relativi agli appalti di lavori, servizi e forniture e nel dettaglio il contenuto dei bandi e dei verbali di gara, i soggetti invitati, l'importo di aggiudicazione, il nominativo dell'affidatario e del progettista ma anche, la data di inizio dei lavori, gli stati di avanzamento, la data di ultimazione e del collaudo.
I dati saranno resi pubblici con modalità che consentiranno la ricerca delle informazioni anche aggregate relative all’amministrazione aggiudicatrice, all’operatore economico aggiudicatario ed all’oggetto della fornitura.
Con
l'articolo 11 rubricato come "Mercato elettronico della Pubblica Amministrazione" viene introdotta una modifica all'articolo 11, comma 10-bis, lettera b), del Codice dei contratti per mezzo della quale nel caso di acquisti effettuati attraverso il "mercato elettronico della pubblica amministrazione", non viene applicato il termine di 35 giorni decorrenti dall'aggiudicazione definitiva dell'appalto, entro il quale è vietato stipulare il contratto. Nel caso in cui si svolgano gare elettroniche sarà, pertanto, possibile stipulare il contratto anche prima dei 35 giorni.
Con
l'articolo 12
dello schema di decreto-legge rubricato come "Aggiudicazione di appalti con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa" vengono introdotte alcune di attuazione del Codice dei contratti ed, in particolare viene precisato che con il sistema di aggiudicazione con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa viene prevista una seduta pubblica per l'apertura delle buste contenenti le offerte tecniche al fine di procedere alla verifica della presenza dei documenti prodotti.
Si tratta, certamente, di un notevole passo avanti in termini di trasparenza ma che dovrebbe essere ancor più migliorato con una eventuale modifica dell’articolo 84 del Codice dei contratti relativo alla Commissione giudicatrice per rendere più trasparente la scelta della commissione stessa
(commento tratto da www.lavoripubblici.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: L. Spallino, Ristrutturazione edilizia senza vincolo di sagoma: la Regione Lombardia interviene sul passato (link a http://studiospallino.blogspot.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: G. Perrotta, I delitti contro la pubblica amministrazione (link a www.diritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: G. Perrotta, L'attività amministrativa, in riferimento agli atti della pubblica amministrazione (link a www.diritto.it).

LAVORI PUBBLICI: L. Bellagamba, LAVORI PUBBLICI: IL PROBLEMA DEI COSTI DELLA SICUREZZA SOGGETTI AD OFFERTA ECONOMICA, IN DUE TROPPO GENERALIZZANTI PRONUNCE DEL CONSIGLIO DI STATO (10.05.2012 - link a www.linobellagamba.it).

URBANISTICA: S. Deliperi, Il piano di lottizzazione e le relative convenzioni non sono eterni (link a www.lexambiente.it).

QUESITI & PARERI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Attività organizzata per traffico illecito di rifiuti.
Domanda.
In tema di delitto di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti quando si verifica il presupposto di gestione abusiva?
Risposta.
Per il Tribunale di Udine, sezione penale (sentenza del 12.03.2011, numero 1624), in tema di delitto di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti per aversi gestione abusiva «sarebbe sufficiente una gestione di rifiuti anche astrattamente lecita, quando, indipendentemente dalla violazione di specifiche disposizioni normative si determini empiricamente una situazione di fatto tale da impedire un qualunque controllo sulle rispettive fasi di lavorazione, su quelle di smistamento, riciclaggio e stoccaggio, restando definitivamente precluse le corrette e doverose procedure cautelative, così da suscitare rischi di contaminazioni e commistioni, dalle quali si può suscitare, in una condizione di dissesto e di squilibrio territoriale e ambientale, un pericolo per la pubblica incolumità».
Pertanto, per il Tribunale di Udine, il delitto di cui all'articolo 53-bis del decreto legislativo 05.02.1997, numero 22, ora articolo 260 del decreto legislativo numero 152, del 03.04.2006, che sanziona i soggetti che gestiscono in modo abusivo grosse quantità di rifiuti allo scopo di conseguire un ingiusto profitto, si perfeziona quando, al di là della violazione di specifiche disposizioni normative, viene a determinarsi, come su riportato, una situazione di fatto tale da impedire un qualunque controllo sulla gestione dei rifiuti, restando definitivamente precluse le corrette e doverose procedure cautelative, così da suscitare rischi di contaminazioni e commistioni, dalle quali si può suscitare, in una condizione di dissesto e di squilibrio territoriale ed ambientale, un pericolo per la pubblica incolumità.
La Corte di cassazione, sezione III, con le sentenze dell'08.01.2008, ricorso P. ed altri, del 06.10.2005, ricorso C., e del 10.07.2008, ricorso A., in tema di delitto di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti ha sottolineato, che ai fini della contestazione del relativo reato, hanno valenza quella attività, da qualificare abusive per il fatto di essere sostanzialmente o totalmente difformi dall'autorizzazione. Pertanto, per la Suprema corte sono fuori dall'area del delitto summenzionato quelle violazioni formali, prive della necessaria potenzialità offensiva nei confronti del bene tutelato (articolo ItaliaOggi Sette del 07.05.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Traffico illecito di rifiuti.
Domanda.
Vorrei avere qualche chiarimento sul soggetto responsabile, nonché sul concetto di quantitativo ingente di rifiuti con riferimento al delitto di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti.
Risposta.
Il Tribunale di Udine, sezione penale, con la sentenza del 12.03.2011, numero 1624, assecondando l'indirizzo giurisprudenziale in atto ha affermato che, in tema di individuazione del soggetto responsabile nel delitto di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti, «_ la pluralità delle operazioni attraverso l'allestimento di mezzi ed attività continuative ed organizzate costituiscono elementi che devono configurarsi cumulativamente».
Ha aggiunto, poi, che il concetto di quantitativo ingente di rifiuti «non può essere desunto, né automaticamente dalla stessa organizzazione e continuità dell'attività di gestione dei rifiuti, né nell'ipotesi di traffico illecito eseguito ad esempio in una discarica autorizzata, dal rapporto tra il quantitativo di rifiuti gestiti illecitamente e l'intero quantitativo di rifiuti trattati nella discarica, dovendosi in tale caso fare riferimento al lato oggettivo della mole dei rifiuti non autorizzati ed abusivamente gestiti»; va riferito: «_ al quantitativo di materiale complessivamente gestito attraverso una pluralità di operazioni, anche se queste, considerate singolarmente potrebbero essere di modesta entità».
Il citato tribunale ha sottolineato, pure, che il profitto «non deve avere carattere necessariamente patrimoniale_ ben potendo lo stesso essere integrato dal mero risparmio dei costi o dal perseguimento di vantaggi di altra natura o dalla mera circostanza che dai vantaggi produttivi dell'impianto possa discendere un premio di produzione o un incentivo per l'indagato», oppure il «rafforzamento della posizione apicale nell'ambito della struttura dirigenziale dell'impresa, con conseguente vantaggio personale immediato e futuro, degli indagati artefici dei risparmi dei costi di produzione».
Il lettore può consultare, anche, la sentenza della Corte di cassazione, sezione III, del 10.11.2005, ric. C., Ced 232350, nonché la sentenza della stessa Corte, stessa sezione, del 09.08.2006, ric. B., Ced 234931 (articolo ItaliaOggi Sette del 07.05.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Gestione dei rifiuti.
Domanda.
Si chiede quando si concretizza il reato connesso alla gestione dei rifiuti?
Risposta.
Il delitto connesso a qualsiasi forma di gestione dei rifiuti sussiste, alla luce dell'articolo 183, del decreto legislativo numero 152, del 2006, così come riscritto dal decreto legislativo numero 205, del 2010, quando vengono commessi atti illeciti in ordine «la raccolta, il trasporto, il recupero e lo smaltimento dei rifiuti, compresi il controllo di tali operazioni e gli interventi successivi alla chiusura dei siti di smaltimento, nonché le operazioni effettuate in qualità di commerciante o intermediario».
Il Tribunale di Udine, Sezione penale, con la sentenza del 12.03.2011, numero 1624, ha puntualizzato che, in ordine alla gestione dei rifiuti, il risparmio dei costi della produzione e la sua ingiustizia deve essere riconosciuta non soltanto quando il profitto sia stato conseguito con modalità illecite, e cioè con modalità esplicitamente contra legem, ma anche quando esso sia collegato a mediazioni o traffici illeciti o ad operazioni volte a manipolazioni fraudolente dei codici tipologici.
Il lettore, in materia, può consultare, anche, la sentenza della Corte di cassazione, sezione III, del 10.11.2005, ric. C., Ced 232350, nonché la sentenza della stessa Corte, stessa sezione, del 09.08.2006, ric. B., Ced 234931 (articolo ItaliaOggi Sette del 07.05.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Delitto di disastro ambientale.
Domanda.
Quando si parla di delitto di disastro ambientale?
Risposta.
Per aversi il delitto di disastro ambientale, secondo la costante giurisprudenza (per tutti cfr., Corte costituzionale, sentenza dell'01.08.2008, numero 327), occorre che l'evento di danno o di pericolo per la pubblica incolumità deve essere molto grave e complesso, ma non immane. A tal fine, è sufficiente, nonché necessario, che il danno deve essere di prorompente diffusione tale da esporre al pericolo, nell'insieme, un numero indeterminato di persone.
Inoltre l'eccezionalità della dimensione dell'evento deve destare un esteso senso di allarme. Pertanto, non è necessario che il fatto abbia direttamente prodotto, nella collettività, morte o lesioni alle persone. Esso, infatti, può colpire anche le cose, purché dalla rovina di queste scaturisca, nell'effettività, un pericolo grave per la salute della collettività. Non è necessario che questo delitto comporti un danno, o un pericolo di danno, ambientale di eccezionale gravità non necessariamente irreversibile, ma certamente non riparabile con le normali opere di bonifica.
Per la dottrina «la polimorfa figura giurisprudenziale del disastro ambientale viene usata attraverso inammissibili e infondate prospettazioni accusatorie al fine di aggirare le difficoltà probatorie in punto di causalità e di colpevolezza, mediante il compattamento dei fatti in una dimensione antistorica e atemporale, al fine di potere contestare in modo indistinto un'assorbente macro-figura di disastro ecologico che, livellando le specifiche posizioni individuali, si rivela un pericoloso strumento di elusione dell'articolo 27 della Costituzione».
Il Tribunale di Udine, sezione penale, con la sentenza del 12.03.2011, numero 1624, ha sottolineato (la fattispecie esaminata riguardava la conduzione illecita di un depuratore) che «la conduzione illecita del depuratore (ha) realizzato un disastro ambientale innominato, consistente nella compromissione chimica e biologica del sedimento marino, nell'area circostante la condotta, mediante un rischio di diffusione, grazie a probabili fenomeni di biomagnificazione attraverso la catena trofica di sostanze tossiche quali i metalli pesanti, trasmesse agli organismi marini destinati poi all'alimentazione umana» (articolo ItaliaOggi Sette del 07.05.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Esposizione a rumore.
Domanda.
Quali sono le modalità di misurazione del rumore nei luoghi di lavoro?
Risposta.
Una recente sentenza della Corte di giustizia Ue fornisce utili indicazioni sulle modalità di misurazione del rumore nei luoghi di lavoro. Secondo la stessa, infatti, il livello di esposizione giornaliera al rumore superiore agli 85 dB(A) dei lavoratori va misurato senza tenere conto dell'attenuazione dei Dpi ed il datore di lavoro ha anzi l'obbligo di applicare un programma di misure tecniche o organizzative volte a ridurre alla fonte tale esposizione. Il caso della sentenza riguarda un procedimento avviato da due lavoratori, addetti all'esercizio di una tagliatrice automatica in un'azienda di produzione di materiali pietrosi, nei confronti del loro datore di lavoro.
Nel corso degli accertamenti era risultato che nell'arco della giornata lavorativa il livello di rumore al quale erano esposti i lavoratori superava il valore medio giornaliero di 85 dB(A) per cui l'azienda, per porre rimedio a tale situazione, aveva dotato gli stessi di un dispositivo individuale di protezione dell'udito grazie al quale l'esposizione al rumore si era attenuata ad un livello al di sotto dei valori inferiori di azione agli 80 dB(A). I lavoratori, in base al loro contratto collettivo, hanno chiesto il versamento di un'indennità salariale, in ragione della gravosità delle condizioni del loro posto di lavoro ed hanno fatto quindi ricorso al competente Tribunale per la legislazione in materia sociale che ha respinto le loro domande.
Dopo le decisioni del giudice di rinvio il caso è stato portato all'attenzione della Corte di giustizia Ue che si così espressa: «un datore di lavoro nella cui impresa il livello di esposizione giornaliera dei lavoratori al rumore è superiore agli 85 dB(A), misurato senza tenere conto degli effetti dell'utilizzo di dispositivi individuali di protezione dell'udito, non adempie agli obblighi derivanti dalla direttiva europea mettendo semplicemente a disposizione dei lavoratori dei dispositivi di protezione dell'udito, poiché tale datore di lavoro ha l'obbligo di applicare un programma di misure tecniche o organizzative volte a ridurre tale esposizione al rumore a un livello inferiore agli 85 dB(A), misurato senza tenere conto dell'effetto dell'utilizzo dei dispositivi di protezione dell'udito» (articolo ItaliaOggi Sette del 07.05.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIAÈ on-line l'applicazione per la compilazione della Dichiarazione MUD 2011? (04.05.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAComuni vantano potestà regolamentare in materia di spandimento dei fanghi biologici? (04.05.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIANel FIR devono essere scritti gli orari di inizio/fine trasporto? (04.05.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIACome si interpreta il divieto di smaltimento dei rifiuti urbani di provenienza extraregionale? (04.05.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

INCARICHI PROGETTUALITariffe professionali fuori gara. Il parametro sono i costi storici più la media dei ribassi. L'Autorità vigilanza contratti pubblici sul calcolo dei compensi per ingegneri e architetti.
Nelle gare di progettazione e direzione lavori, abrogate le tariffe professionali, le amministrazioni dovranno definire l'importo a base di gara con riferimento ai costi sostenuti per affidamenti analoghi negli ultimi anni, incrementato della media dei ribassi; necessario predisporre un computo metrico delle prestazioni da affidare; i requisiti di partecipazione non potranno più essere riferiti alle tariffe, ma avranno riguardo alle prestazioni analoghe; non congrue le offerte non rispondenti ai valori di mercato e comunque inferiori all'importo dell'incentivo ai tecnici della pubblica amministrazione.
È quanto afferma l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici nella delibera 03.05.2012 n. 49 (relatore il consigliere Giuseppe Borgia) che affronta le più urgenti tematiche legate all'applicazione, nel settore degli appalti pubblici di servizi di ingegneria e architettura, dell'articolo 9 della legge 1/2012, che ha abrogato le tariffe professionali.
I problemi principali derivanti dalla legge sulle liberalizzazioni riguardano: la determinazione dei corrispettivi da porre a base di gara, l'individuazione dei requisiti di capacità tecnica e la verifica delle offerte anomale.
Sul primo punto l'Autorità ribadisce che «alla luce della abrogazione totale delle tariffe disposte dall'articolo 9, le stesse non possono più essere indicate nemmeno quale possibile riferimento per l'individuazione del valore della prestazione». Sono quindi inapplicabili anche le norme del Regolamento del Codice dei contratti pubblici che consentivano di richiamare indirettamente le tariffe professionali, laddove ritenute motivatamente adeguate.
Il vuoto determinato dalla legge 1/2012 porta quindi l'Autorità presieduta da Sergio Santoro a fornire indicazioni operative ai responsabili del procedimento anche al fine della individuazione della procedura di affidamento da seguire, che dipende dall'importo stimato del contratto da affidare (ad esempio sotto i 40.000 si procede con affidamento diretto, al di sopra di tale soglia con una gara informale a 5; sopra i 100 mila euro con una vera e propria gara). L'organismo di vigilanza ribadisce innanzitutto la necessità di una «dettagliata individuazione delle attività da svolgere e dei relativi costi»; per fare ciò le stazioni appaltanti, tenendo conto gli elaborati previsti dal Regolamento del Codice, potranno quindi prendere come riferimento –così suggerisce l'Authority- le tabelle allegate alla determinazione 5/2010 e indicare dei costi presunti.
In sostanza è come se si arrivasse alla definizione di una sorta di computo metrico per la prestazione di servizi di ingegneria e architettura. Il punto più delicato, però è quello dell'individuazione dei costi e a tale riguardo la delibera afferma che occorre tenere conto del grado di complessità dell'incarico, dell'importanza dell'opera e di tutte le voci di costo, comprese le spese, gli oneri e i contributi e che un riferimento potrebbe essere quello dei «costi sostenuti dalla propria amministrazione o da amministrazioni consimili negli ultimi anni», incrementati «della media dei ribassi ottenuti in passato».
In sostanza gli importi dei compensi degli ultimi anni, rapportati al valore delle opere progettate potrebbero fornire una percentuale che a sua volta dovrebbe essere rapportata al costo preventivato dei lavori da progettare per arrivare al costo stimato dell'affidamento. Per quel che riguarda i requisiti di partecipazione, una volta abrogate le tariffe, i richiami previsti nel regolamento del Codice alle classi e categorie della legge 143/1949 (tariffa di ingeneri e architetti) non sono più applicabili. L'Autorità suggerisce quindi di fare riferimento alle tabelle 1, 2 e 3 della determina 5/2010 in cui le opere progettate sono raggruppate per destinazione funzionale (se si affida la progettazione di una scuola elementare si farà riferimento in generale agli organismi edilizi per l'istruzione e i servizi saranno provati con certificati che in passato facevano riferimento alle classi e categorie dell'articolo 14 della legge 143/1949.
Infine per la verifica delle offerte anomale la delibera, precisato che la mancanza di utile è indice di offerta inaffidabile, afferma che si può considerare non congruo l'importo che «al netto del ribasso offerto in gara risulta inferiore in misura elevata rispetto all'importo a base di gara» e quindi la «valore di mercato». In ogni caso non sarà considerata conseguente una offerta che preveda un importo più basso del corrispettivo previsto come incentivo ai pubblici dipendenti dall'articolo 92 del Codice (articolo ItaliaOggi del 12.05.2012).

CORTE DEI CONTI

INCARICHI PROFESSIONALI: Incarichi e danno erariale.
Un'altra condanna per danno erariale dalla Corte dei Conti, Sez. giurisdizionale per il Lazio, con la sentenza 19.04.2012 n. 427.
L'oggetto dell'incarico a personale estraneo sono prestazioni di consulenza tecnico-amministrativa al Sindaco ed agli altri organi politici del Comune, rapporti con organi tecnici di enti sovracomunali, consulenza sugli adempimenti per i finanziamenti extra bilancio e per gli adempimenti del settore tecnico comunale, rapporti con i professionisti esterni dell'amministrazione e controllo degli atti progettuali e amministrativi.
I profili di illegittimità e causa di danno patrimoniale attengono alla violazione dei presupposti per il conferimento degli incarichi esterni previsti dall'art. 7, comma 6, del d.lgs. 165/2001, sinteticamente:
- attività ordinaria ed istituzionale anziché esigenze straordinarie con necessità di competenze altamente qualificate;
- oggetti non definiti, ma tematiche ad ampio spettro;
- assenza di una reale ricognizione in ordine alla mancanza di personale interno idoneo, quantitativamente e/o qualitativamente, allo svolgimento dei compiti;
- assenza di relazioni ricognitive e riepilogative redatte dal professionista al termine dell'incarico.
Precisa, la Corte "... nella fattispecie, l'illiceità della condotta di conferimento dell'incarico deriva principalmente dal ricorso allo strumento dell'incarico esterno, pur in situazione di carenza di personale, quale mezzo per lo svolgimento di funzioni ordinarie e continuative" (tratto da www.publika.it).
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... L'ipotesi di danno portata all'esame della Sezione involge, come desumibile dalla precedente narrativa, in via generale, la problematica sottesa al conferimento di incarichi a personale estraneo all'Amministrazione e, in particolare, le modalità di pratica attuazione di tali scelte operative, non improntate, secondo la tesi accusatoria riferita al caso di specie, al perseguimento degli obiettivi di economicità ed efficienza, ed anzi rivelatesi produttive di un danno concreto a carico dell'Amministrazione.
La contestazione mossa ai convenuti è quella di avere nella specie violato oltreché il principio costituzionale di buon andamento dell'attività della P.A. anche, nello specifico, la disposizione di cui all'art. 7 del d.l.vo n. 29/1993, così come modificato dall'art. 5 del d.l.vo n. 546/1993, che pone il divieto di conferire incarichi a personale estraneo all'apparato amministrativo per l'espletamento di compiti istituzionalmente attribuiti al personale dipendente, salvo che si tratti (giusta quanto ha avuto modo di affermare la giurisprudenza contabile nella soggetta materia) di soddisfare esigenze eccezionali e straordinarie e difetti la struttura organizzativa necessaria al loro soddisfacimento, ovvero quando, pur sussistendo tale struttura, il personale che vi è addetto non risulti idoneo quantitativamente e qualitativamente.
Il legislatore, come noto, ha disciplinato la materia in via generale con l'art. 7, del d.lgs. 30.03.2001, n. 165 (già d.lgs. 03.02.1993, n. 29 e successive modificazioni ed integrazioni) che prevede al comma 6 che: “Per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, le amministrazioni pubbliche possono conferire incarichi individuali ad esperti di provata competenza, determinando preventivamente durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione.”.
In proposito la giurisprudenza di questa Corte si è più volte pronunciata indicando i parametri entro i quali tali rapporti e le correlative spese sono da ritenersi lecite (v., fra le altre, Sez. II, 22.04.2002, n. 136/A; Sez. III, 08.01.2003, n. 9 ; Sez. I, 31.05.2005, n. 187; Sez. I, 08.08.2005, n. 259; Sez. Lazio, 21.10.2003, n. 2137).
Il giudice contabile ha ammesso la legittimazione della P.A. ad affidare il perseguimento di determinate finalità all'opera di estranei dotati di provata capacità professionale e specifica conoscenza tecnica della materia di cui vengono chiamati ad occuparsi, ogni volta che si verifichino:
a) la straordinarietà e l'eccezionalità delle esigenze da soddisfare;
b) la mancanza di strutture e di apparati preordinati al loro soddisfacimento, ovvero, pur in presenza di detta organizzazione, la carenza, in relazione all'eccezionalità delle finalità, del personale addetto, sia sotto l'aspetto qualitativo che quantitativo.

Tali parametri, se da un lato attestano che nell'ordinamento non sussiste un generale divieto per la P.A. di ricorrere ad esternalizzazioni per l'assolvimento di determinati compiti, dall'altro, tuttavia, confermano che la utilizzazione del modulo negoziale non può concretizzarsi se non nel rispetto delle condizioni e dei limiti sopra specificati.
Dal quadro normativo sopra riportato e dalla giurisprudenza contabile che si è andata via via formando sia in sede di controllo che in sede giurisdizionale, è possibile riassumere
i seguenti criteri per valutare la legittimità degli incarichi e delle consulenze esterne:
a) rispondenza dell'incarico agli obiettivi dell'amministrazione;
b) inesistenza, all'interno della propria organizzazione, della figura professionale idonea allo svolgimento dell'incarico, da accertare per mezzo di una reale ricognizione;
c) indicazione specifica dei contenuti e dei criteri per lo svolgimento dell'incarico;
d) indicazione della durata dell'incarico.

Ma soprattutto è dato cogliere un principio normativo di fondo che disciplina tutta la materia:
il conferimento di incarichi all'esterno, in qualunque delle ipotesi sopra riportate, è possibile solo allorquando nell'ambito della dotazione organica non sia possibile reperire personale qualitativamente competente ad affrontare problematiche di particolare complessità od urgenza.
A fronte di tale impostazione, i convenuti si difendono, in buona sostanza, adducendo la perfetta conformità della delibera di conferimento dell’incarico in contestazione ai principi costituzionali, normativi e giurisprudenziali invocati dalla Procura a sostegno della domanda, essendosi reso indispensabile il ricorso alla consulenza del geometra Scarsella a cagione della carenza nell'organico di personale ed alla sussistenza di esigenze particolari.
Tanto precisato occorre verificare se nella fattispecie dedotta in giudizio ricorrano o meno le sopra richiamate condizioni.
La delibera G.M. n. 105 del 24/05/2006 di affidamento dell’ incarico annuale di consulenza tecnico-amministrativa al Geom. S.M. per l’importo di € 22.032,00, prevedeva lo svolgimento di varie attività:
- consulenza tecnico-amministrativa al sindaco ed agli altri organi politici del Comune;
- rapporti con gli organi tecnici degli Enti sovracomunali;
- consulenza nella programmazione e sugli iter burocratici delle opere pubbliche;
- consulenza sugli adempimenti delle documentazioni relative alla richiesta di finanziamento extra bilancio;
- consulenza sugli adempimenti tecnico-amministrativi al settore tecnico comunale;
- rapporti con i professionisti esterni dell’amministrazione e controllo degli atti progettuali e amministrativi.
Dall’esame della sua motivazione e di quanto emerge agli atti del giudizio in merito alla situazione del personale in organico, l'incarico non appare legittimamente conferito con riferimento alle mansioni affidate, che si sostanziano in attività assolutamente affrontabili da un qualunque tecnico e in assenza di esigenze di carattere straordinario, o necessità di competenze altamente qualificate (che non emergono dal curriculum e comunque non sono necessarie per l'espletamento dell'incarico).
Si tratta infatti di attività dirette al coordinamento delle varie attività tecniche, al controllo degli atti procedimentali amministrativi, tutte attività riservate a dipendenti dell’ente e che, nella specie, dovrebbero essere, in gran parte, di competenza dei dirigenti.
Tra l’altro la relazione finale, redatta dall’Amministrazione (prot. non V2007/02474), sul lavoro svolto dal geom. S. evidenzia che gran parte delle attività elencate (in materia cimiteriale, di raccolta differenziata, di smaltimento acque, di sistemazione della rete fognaria) attengono a mansioni che successivamente alla riorganizzazione dell’ente erano state demandate al dipendente U. D’O. (nota del segretario comunale in data 15.01.2007).
Si consideri inoltre che dalla convenzione d'incarico non è dato rinvenire un ambito di intervento del consulente connotato da oggetti ben definiti, bensì tematiche d'intervento contenutisticamente orientate per lo più ad un'attività tecnico professionale di consulenza propositiva ed emendativa ad ampio spettro in aperta violazione con il contenuto del comma 6 dell'art. 7 del d.lvo n. 165/2001.
Ma vi sono ulteriori profili di illegittimità che val la pena di evidenziare.
Dagli atti non risulta che l’amministrazione si sia preoccupata di effettuare una reale ricognizione in ordine alla mancanza di personale idoneo a svolgere l'attività conferita all'esterno.
Al contrario con motivazioni generiche e prive di riscontri concreti, viene riferita la assoluta carenza di personale interno idoneo allo svolgimento dell’incarico esternalizzato.

E pertanto in presenza di incarico quale quello in questione connotato da un oggetto oltremodo esteso per ambiti di intervento e contemporaneamente generico nella definizione dei relativi contenuti (e pertanto censurabile sotto il profilo della difficoltà di operare un controllo di ragionevolezza sulla rispondenza delle prestazioni richieste ad effettive esigenze dell'amministrazione non altrimenti fronteggiabili con il personale interno), e non rivelatisi in rapporto alle particolari circostanze ed emergenze sopra evidenziate sicuramente orientato al raggiungimento di finalità istituzionali, non sussistendo agli atti relazioni ricognitive e riepilogative redatte dal professionista al termine dell'attività - ritiene il Collegio ravvisabile nel comportamento posto in essere dalle parti convenute la sussistenza del requisito della gravità della colpa.
Inoltre, ancorché sia provata nella fattispecie la carenza di personale, non pare ammissibile il ricorso allo strumento dell'incarico esterno per la attribuzione di competenze del tutto ordinarie della amministrazione, svincolate da esigenze di carattere straordinario o eccezionale. In altri termini, se pur mancasse personale adeguato per le attività segnalate, non è per ciò solo dimostrato che una razionale ed efficiente organizzazione dell’Ente non avrebbe potuto aversi, facendo invece leva su meccanismi di adibizione temporanea di personale di altri uffici eventualmente utilizzabile, e che nella fattispecie non è affatto dimostrato che fosse inesistente o, appunto, inutilizzabile.
Inoltre occorre aggiungere, come sostenuto anche dalla Procura che
se effettivamente sussistevano necessità di personale, si sarebbero potute colmare le carenze strutturali con assunzioni a tempo indeterminato. Tali assunzioni, al contrario di quanto affermato in sede di deduzioni dalle parti convenute, potevano essere effettuate, nei limiti previsti dalle norme per il personale degli enti locali.
In altri termini,
nella fattispecie l’illiceità della condotta di conferimento dell’incarico deriva principalmente dal ricorso allo strumento dell'incarico esterno, pur in situazione di carenza di personale, quale mezzo per lo svolgimento di funzioni ordinarie e continuative.
Profilo di colpa grave nella condotta dei convenuti è dunque quello di non aver utilizzato lo strumento dell'incarico esterno conformemente alla lettera e allo spirito delle disposizioni sull'utilizzo del personale nelle pubbliche amministrazioni sopra citate e del più generale principio di economicità nella spesa, accertandosi previamente della impossibilità del ricorso all'utilizzo di altro personale in servizio presso l’Ente.
In ordine all'imputabilità del fatto, il Collegio ritiene che dell'instaurazione dei rapporti negoziali produttivi di danno ingiusto per l'erario devono ritenersi in buona parte coloro che concorsero ad approvare la delibera n. 105 del 24/05/2006 (T., Di N., Di S., C., V.) il cui comportamento illecito, alla luce degli elementi probatori in atti, configura sotto l'aspetto soggettivo la colpa grave contestata dal Requirente.
Infatti la condotta dei medesimi non è risultata conforme al dettato normativo, essendosi discostati con evidente e inescusabile leggerezza dal modello organizzativo previsto dal sistema e che, per la posizione rivestita, avrebbero dovuto ben conoscere.
Il comportamento dei convenuti, contrassegnato dalla mancanza di una idonea e preventiva valutazione circa la sussistenza dei presupposti necessari per il legittimo conferimento dell'incarico e per il conseguente pagamento della prestazione, deve ritenersi ingiustificabile e approssimativo, considerato anche che non si rinvengono nella fattispecie situazioni e circostanze particolari atte a dar luogo ad errore scusabile.
Pertanto, nel rammentare che, ai sensi dell’art. 1 della legge 20 del 1994, testo novellato dall’art. 3 del decreto-legge n. 543 del 1996 convertito con legge 639 del 1996 il criterio di imputazione del danno all’agente è ormai costituito dalla colpa grave, che la giurisprudenza individua nella “sprezzante trascuratezza dei propri doveri, resa estensiva da un comportamento improntato alla massima negligenza o imprudenza, ovvero ad una particolare noncuranza degli interessi dell’Ente amministrato o ancora a grossolana superficialità nell’applicazione del norme di diritto” (SSRR 27/A/1997), osserva il Collegio che nella fattispecie, condizioni simili possono ritenersi presenti a carico dei sig.ri F.T., A. Di N., M.C., G.V. e V. di S. (link a www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGORimborso spese legali a maglie larghe.
Il rimborso delle spese legali al personale per procedimenti relativi alle attività di ufficio spetta anche nel caso in cui non vi sia stato il preventivo coinvolgimento dell'ente nella scelta dell'avvocato: l'amministrazione può in questo caso limitare la cifra. Esso deve inoltre essere effettuato nel caso di sentenza di non luogo a procedere caratterizzata dal proscioglimento di merito.

Sono queste le indicazioni contenute nei pareri 05.04.2012 n. 245 e 12.03.2012 n. 184 della sezione regionale di controllo della Corte dei conti del Veneto.
L'importanza di questi pareri è costituita essenzialmente dalla decisione con cui si fa prevalere il dato sostanziale, il diritto di derivazione costituzionale di non dover sostenere oneri per la difesa relativamente a fatti d'ufficio, sulle carenze di tipo formale.
Il diritto al rimborso matura anche se «la circostanza che sia stata emessa una sentenza di non luogo a procedere, nonostante la sua natura preminentemente processuale che le impedirebbe di escludere giudizialmente la responsabilità dell'imputato per dolo o colpa grave: ciò non rende, di per sé, legittimo il diniego del diritto al rimborso delle spese processuali sostenute dal dipendente. Così argomentando si vedrebbe compromessa la stessa ratio della disciplina sopra illustrata che vuole appunto evitare che il dipendente pubblico, ingiustamente accusato di presunti fatti illeciti commessi nell'adempimento dei propri doveri d'ufficio, debba sopportare il peso economico della propria difesa in giudizio». Per cui il parere conclude che deve «essere rimesso al prudente apprezzamento della singola amministrazione valutare se, nel caso concreto, ricorrano i presupposti sopra evidenziati per poter procedere al rimborso delle spese legali nei termini previsti dalla legge».
Il rimborso «postumo» delle spese legali, cioè in assenza della preventiva intesa tra il dipendente e l'ente sulla scelta del legale, è ammissibile.
Il parere richiama i principi dettati dall'articolo 51 della Costituzione, ma «l'amministrazione di appartenenza dovrà verificare, all'esito del procedimento (in questo senso ex post), che non sussista un conflitto di interessi tra l'attività istituzionale dell'ente e la condotta del lavoratore».
Si deve pervenire a tale conclusione perché «il principio del diritto alla difesa non può subire alcuna limitazione, sempre a condizione che il giudizio si sia concluso con una sentenza favorevole» e come tale «diritto al rimborso delle spese sostenute in un giudizio penale non può essere escluso dalla circostanza che il comune non abbia previamente espresso il proprio assenso nella scelta del difensore da parte dell'interessato». Il che vuol dire che esse devono verificare essenzialmente la misura del rimborso delle spese legali, che viene qualificato dal parere come un atto a natura indennitaria e non risarcitoria.
Da qui discende la conseguenza che «l'amministrazione non sarebbe più tenuta a un rimborso pieno della parcella in assenza della preventiva intesa, possa ridurre il rimborso alla parte della spesa che la stessa avrebbe assunto ove la scelta fosse stata concordata», anche senza tenere conto del parere espresso dall'organo professionale.
E, infine, vista l'abrogazione dei minimi tariffari le amministrazioni possono «fare riferimento, ai fini della verifica della congruità della parcella da rimborsare, al dm 08.04.2004, n. 127 (G.U. 18/05/2004, n. 115) con il quale è stato approvato il regolamento per la determinazione degli onorari, dei diritti e delle indennità spettanti agli avvocati per le prestazioni giudiziali» (articolo ItaliaOggi dell'11.05.2012 - tratto da www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGOEnti privi di dirigenza – trattamento accessorio dei dipendenti con qualifica.
La Corte dei Conti per la Lombardia con il parere 05.04.2012 n. 124 ha risposto ad una richiesta di chiarimenti posta da un comune su una questione concernente le modalità di determinazione dell'"ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale di cui all'art. 9, comma 2-bis, Decreto Legge n. 78/2010, convertito con modifiche con Legge n. 122/2010, le indennità corrisposte ai dipendenti con qualifica apicale degli enti privi di dirigenza ai quali sono corrisposte specifiche responsabilità ai sensi dell'art. 109, comma 2, del Decreto Legislativo n. 267/2000".
La Corte afferma che "le risorse da assoggettare a contenimento sono identificabili con quelle che confluiscono nel fondo delle risorse decentrate, (...) si deve ritenere che nel calcolo dell'ammontare complessivo delle risorse previste per il trattamento accessorio, tanto per la definizione del limite (totale del 2010) tanto per il computo del monte dell'anno di rifermento, si deve tenere conto solo delle somme rivenienti dal fondo per la contrattazione decentrata e non di quelle attinte direttamente dal bilancio. (...) In merito alla possibilità per i Comuni privi di dirigenza di procedere comunque ed in ogni caso alla retribuzione del personale non dirigente incaricato ai sensi del comma 2 dell'art. 109 T.U.E.L., a prescindere dal superamento del tetto fissato dall'art. 9, comma 2-bis, del D.L. n. 78 del 2010, la Sezione ha ritenuto che la questione rimanesse assorbita da quanto sopra richiamato a proposito dell'identificazione della base di calcolo della norma (l'"ammontare complessivo") con i fondi per la contrattazione decentrata".
La Corte ha poi concluso ritenendo che "in definitiva, è onere dell'amministrazione adottare moduli organizzativi che consentano di dotarsi di soggetti abilitati ad agire con i poteri dei dirigenti con i necessari risparmi di spesa, come, ad esempio, l'attribuzione di tali funzioni ai componenti dell'organo esecutivo (ai sensi dell'art. 53 della Legge n. 388 del 2000). In ogni caso, resta ferma la necessità per l'amministrazione medesima di verificare la compatibilità di qualsiasi scelta con la vigente disciplina finanziaria".

CONSIGLIERI COMUNALI: Indennità di funzione e gettoni di presenza – riduzione 10%.
La Corte dei Conti Toscana, con parere 13.03.2012 n. 32 ha risposto ad una richiesta di chiarimenti posta da un Comune in cui si chiede se ai nuovi amministratori dell'ente si debba applicare la disciplina di cui all'art. 1, comma 54, della L. 266/2005 (inerente la riduzione del 10% degli emolumenti a titolo di indennità di funzione e di gettoni di presenza) e di conseguenza se ad essi spetti l'indennità di funzione e di presenza nella misura edittale di cui al D.M. 119/2000 con la riduzione del 10%, oppure l'intera misura edittale, anche alla luce della delibera n. 1/2012 delle Sezioni Riunite della Corte dei conti.
La Corte chiarisce che "Le Sezioni Riunite, con deliberazione 12.01.2012 n. 1 resa in funzione nomofilattica ai sensi dell'art. 17, comma 31, del decreto-legge 01.07.2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 03.08.2009, n. 102, affermano che all'attualità, l'ammontare delle indennità e dei gettoni di presenza spettanti agli amministratori e agli organi politici delle Regioni e degli Enti locali, non possa che essere quello in godimento alla data di entrata in vigore del citato DL 112 del 2008, cioè dell'importo rideterminato in diminuzione ai sensi della legge finanziaria per il 2006; ritengono altresì di richiamare come l'intera materia concernente il meccanismo di determinazione degli emolumenti all'esame è stata da ultimo rivista dall'art. 5, comma 7, del DL 78 del 2010, convertito nella legge 122 del medesimo anno, che demanda ad un successivo decreto del Ministro dell'Interno la revisione degli importi tabellari, originariamente contenuti nel d.m. 04.08.2000 n. 119 sulla base di parametri legati alla popolazione, in parte diversi da quelli originariamente previsti. Ad oggi, il decreto non risulta ancora approvato e deve pertanto ritenersi ancora vigente il precedente meccanismo di determinazione dei compensi".
I giudici ritengono dunque "vigente e applicabile l'art. 1, comma 54, della L. 266/2005 al caso di specie, sottolineando che la misura alla quale fare riferimento è quella edittale decurtata della percentuale di cui all'art. 1, comma 54 ,della L. 266/2005, anche sul presupposto che l'intenzione del legislatore con la norma di cui all'art. 76, comma 3, L. 133/2008 che ha introdotto l'attuale versione dell'art. 82, comma 11, del TUEL, è stata quella di negare incrementi "delle indennità rispetto alla misura massima edittale di cui al D.M. 119/2000" (come precisato anche dalla Sezione delle autonomie con deliberazione n. 6/2010)".

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODirigenti, assunzioni a ostacoli. Contratti soggetti ai vincoli della legge Brunetta e del dl fiscale. Sono cinque i paletti da rispettare per incrementare le dotazioni di manager a termine.
Le assunzioni di dirigenti e, negli enti che ne sono sprovvisti, di responsabili sono sottoposte sia ai limiti numerici dettati dalla legge Brunetta e ampliati dalla recente legge n. 44/2012 sia ai limiti di spesa per le assunzioni flessibili. Sfuggono da questi limiti invece i comandi, le assunzioni finanziate dalla Ue, da altre p.a. o da privati e le convenzioni per la gestione associata.
Sono queste le indicazioni operative che stanno emergendo nell'applicazione delle più recenti disposizioni dettate in materia di assunzioni di personale.
Come precisato da numerose sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, ex pluris parere 31.01.2012 n. 6 della sezione della Toscana, non vi sono ragioni per escludere la spesa per le assunzioni a tempo determinato di dirigenti e/o responsabili ai sensi dell'articolo 110, sia comma 1, copertura di posti vacanti in dotazione organica, sia comma 2, extra dotazione organica, dal tetto alla spesa per le assunzioni flessibili.
Per cui queste assunzioni sono sottoposte ai seguenti cinque vincoli: avere rispettato il patto di stabilità (ovviamente per gli enti soggetti), avere rispettato il tetto alla spesa del personale (cioè l'anno precedente per gli enti soggetti al patto e il 2008 per quelli non soggetti al patto), avere rispettato il rapporto massimo del 50% tra spesa del personale (ivi compresa quella dei dipendenti delle società dell'ente) e spesa corrente (cioè i vincoli dettati per tutte le assunzioni), restare entro il tetto del 50% della spesa per le assunzioni flessibili sostenuta nel 2009 e restare entro i tetti numerici per queste assunzioni (tetti che sono stati aumentati per gli enti locali dalla recente legge n. 44/2012).
Il sommarsi dei vincoli di spesa per le assunzioni flessibili e di quelli numerici alle assunzioni ex articolo 110 Tuel è spiegato dalla diversa finalità a cui tali vincoli sono preordinati: riduzioni della spesa del personale e del ricorso a forme di lavoro precario per il tetto alla spesa, penalizzazioni per il ricorso allo spoil system per il tetto numerico. Ovviamente, le assunzioni di dirigenti e/o responsabili che sono disposte nel 2012 per i vigili e dal 2013 per i vigili e le funzioni di istruzione pubblica e servizi sociali, vanno al di fuori del tetto alla spesa in quanto il legislatore ha previsto specifiche deroghe.
La sezione regionale di controllo della Corte dei conti della Liguria, con il recente parere 27.02.2012 n. 7, ha chiarito che gli oneri sostenuti per i comandi non vanno compresi nel tetto alla spesa per le assunzioni flessibili. Alla base di tale considerazione il fatto che in questo caso non siamo in presenza di un'assunzione, ma di una forma di utilizzazione che non comporta alcun ingresso dall'esterno.
Per cui, mentre è da considerare scontato che gli oneri sostenuti a questo titolo devono essere compresi tra le spese del personale dell'ente che li utilizza, non si può arrivare al loro inserimento tra quelli per le assunzioni flessibili in quanto non siamo in presenza di un rapporto di lavoro subordinato che si costituisce ex novo, dovendo il comando essere considerato come una forma di utilizzazione.
La stessa sezione regionale di controllo, con il parere 02.03.2012 n. 9, ha chiarito che le assunzioni flessibili finanziate interamente dalla Unione europea, da altre pubbliche amministrazioni o da privati non debbano essere inserite nel tetto del 50% della spesa sostenuta nell'anno 2009.
Si deve pervenire a questa conclusione in quanto l'ente non è in alcun modo coinvolto in tali oneri; ovviamente ciò impone che vi sia il finanziamento integrale da parte di tali amministrazioni. Ricordiamo che analogo orientamento è già consolidato da tempo per gli incarichi di consulenza, studio e ricerca.
Si deve infine ricordare che anche gli oneri determinati dalle convenzioni tra enti locali stipulate ai sensi dell'articolo 30 del dlgs n. 267/2000 vanno al di fuori della spesa per le assunzioni flessibili e, più in generale, anche di quella per il personale. In questi casi siamo infatti in presenza di una fornitura di servizi, per cui in tutt'altro ambito di applicazione (articolo ItaliaOggi dell'11.05.2012 - tratto da www.corteconti.it).

NEWS

AMBIENTE-ECOLOGIAPer il T.u. ambientale le riforme non finiscono mai. Via libera al senato per il ddl con le novità in materia di rifiuti da potatura e materassi dismessi.
Non sarà considerato rifiuto il materiale derivante dalla potatura degli alberi, proveniente anche dalle attività di manutenzione delle aree verdi urbane, se utilizzato per la produzione di energia da tale biomassa, mediante processi o metodi che non danneggiano l'ambiente né mettono in pericolo la salute umana.
Questo l'art. 1 del disegno di legge recante «modifiche al decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, e altre disposizioni in materia ambientale» (T.u. ambientale), approvato in seconda lettura dal senato il 9 maggio scorso e ora alla camera per il via libera definitivo. Ciò dovrebbe porre fine alla «querelle» che si era originata in varie aree verdi per la gestione di questo materiale, conteso tra municipalizzate e altre organizzazioni.
Ma potremmo essere anche alla vigilia dell'istituzione di una sorta di «Assomaterasso». Infatti l'art. 19 prevede che il ministero dell'ambiente entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore della leggi emani un decreto per la gestione dei materassi dismessi, specificando le modalità di recupero, prevedendo l'introduzione di meccanismi che in osservanza delle normative nazionali e comunitarie favoriscano il recupero e l'avvio al riciclaggio dei materiali impiegati.
Altra norma molto importante è quella contenuta nell'art. 2 del ddl che prevede che i materiali di scavo provenienti dalle miniere dismesse, o comunque esaurite, collocate all'interno dei siti di interesse nazionale, possono essere utilizzati nell'ambito delle medesime aree minerarie per la realizzazione di reinterri, riempimenti, rimodellazioni, miglioramenti fondiari o viari oppure altre forme di ripristini e miglioramenti ambientali, a condizione che la caratterizzazione di tali materiali, tenuto conto del valore di fondo naturale, abbia accertato concentrazioni degli inquinanti che si collochino al di sotto di una certa soglia e qualora risultino conformi al test di cessione.
Arriva, poi, la norma sulla raccolta degli indumenti e che cambierà quindi la raccolta differenziata nelle nostre città. Infatti, le associazioni di volontariato senza fine di lucro potranno effettuare raccolte di prodotti o materiali, nonché di indumenti ceduti da privati, per destinarli al riutilizzo, previa convenzione a titolo non oneroso con i comuni, fatto salvo l'obbligo del conferimento dei materiali residui a operatori autorizzati, ai fini del successivo recupero o smaltimento dei medesimi (art. 4).
Tali materiali rientreranno nelle percentuali di raccolta differenziata. Raccolta differenziata che verrà indirizzata al riciclo, considerato prioritario dalle norme e dal nuovo art. 5 che prevede che i soggetti detentori che conferiscono i rifiuti al trattamento sono tenuti a intervenire per assicurare, nel caso in cui la dinamica dei prezzi di mercato produca esiti diversi, che il prezzo riconosciuto per il conferimento al riciclo sia, per la medesima tipologia di rifiuti, superiore a quello riconosciuto per il conferimento al recupero energetico. La violazione di tale obbligo è punita con la sanzione pecuniaria di 200 euro per ogni tonnellata di rifiuti.
Non mancano disposizioni che incidono sulla realizzazione di infrastrutture (art. 15). Infatti, in tutti i casi in cui possono essere imposte, dalle autorità competenti e nei modi consentiti dalla normativa vigente, misure di compensazione e riequilibrio ambientale e territoriale in relazione alla realizzazione di attività, opere, impianti o interventi, tali misure non possono comunque avere carattere meramente monetario. Infine, cambia ancora la validità dell'autorizzazione per scarichi idrici (non contenenti sostanze pericolose) che viene portata da cinque a sei anni (art. 2-bis) (articolo ItaliaOggi del 12.05.2012).

ENTI LOCALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Servizi sociali, consorzi ko. Vanno eliminati a partire dal primo rinnovo del cda. In caso di scioglimento la divisione del patrimonio deve avvenire pro quota.
Un consorzio composto da 144 comuni, costituito al fine della gestione dei soggiorni climatici per bambini ed anziani, rientra, quale consorzio di funzioni, nelle disposizioni di legge che ne prevedono la soppressione? Nel caso affermativo, da quale data decorre la soppressione? Come va diviso il patrimonio immobiliare tra i comuni aderenti al consorzio medesimo, in assenza di una previsione statutaria?
In merito all'individuazione dei consorzi oggetto delle norme che ne prevedono la soppressione, va rilevato preliminarmente che l'art. 31, comma 1, del dlgs n. 267/2000 definisce le attività consortili, identificandole nella gestione associata di uno o più servizi e nell'esercizio di funzioni, delimitando l'ambito di operatività dell'istituto consortile e configurando due tipi di consorzi:
1) i consorzi di servizi, ossia quelli che gestiscono attività a rilevanza economica o, sulla base di una precisa opzione statutaria, servizi sociali in forma imprenditoriale;
2) i consorzi di funzioni che gestiscono servizi sociali in forma non imprenditoriale o funzioni meramente amministrative e strumentali: per tali tipi di consorzi l'acquisto della personalità giuridica si collega alla sottoscrizione dell'atto costitutivo rappresentato dalla convenzione.
In sostanza il consorzio si connota come un ente con capacità imprenditoriale istituito dall'ente locale e, quindi, soggetto da esso distinto, dotato di personalità giuridica.
Ciò considerato, si ritiene che per «consorzi di funzione» debbano intendersi quelli previsti e disciplinati dall'art. 31 del Tuel, forme associative, cioè, non aventi attività economiche e che a questi intenda riferirsi l'art. 2, comma 186, della legge n. 191 del 2009, che ne prevede la soppressione.
In proposito la Corte dei conti, sezione regionale della Campania, con il parere n. 188 del 29/07/2010 ha chiarito che un consorzio, istituito per la gestione dei servizi sociali ex legge n. 328/2000, deve essere considerato un consorzio di funzioni.
Pertanto, il consorzio costituito al fine della gestione dei soggiorni climatici per bambini ed anziani sembra potersi ricondurre tra quelli per i quali è prevista la soppressione.
Quanto alla decorrenza dello scioglimento del consorzio (posto che tra i tanti comuni aderenti vi sono scadenze differenziate per l'elezione degli organi) si rileva che sulla questione si è pronunciata la sezione regionale di controllo per il Piemonte della Corte dei conti, con delibera n. 101 del 30/12/2010.
La Corte, in relazione all'art. 1, comma 2, della legge n. 42/2010 –in cui si prevede, tra l'altro, che le disposizioni relative alla soppressione dei consorzi si applichino a decorrere dal 2011 e per tutti gli anni a seguire ai singoli enti per i quali ha luogo il primo rinnovo del rispettivo consiglio, con efficacia dalla data del medesimo– ha affermato che il termine «enti», volutamente generico poiché riferito a più fattispecie diverse tra loro, nel caso in questione, non può che indicare, secondo una interpretazione logico-sistematica, i singoli consorzi oggetto della prescrizione.
Pertanto essa si applicherà e produrrà i suoi effetti, «a decorrere dal primo rinnovo –a partire dal 2011 e per tutti gli anni a seguire– del consiglio di amministrazione del Consorzio interessato».
Per quanto attiene alle modalità di divisione del patrimonio immobiliare tra tutti i comuni partecipanti al momento della cessazione del consorzio, ove le disposizioni statutarie non disciplinino il caso specifico, la soluzione più ragionevole si ritiene vada ricercata nelle norme che regolano il conferimento pro-quota, all'atto della costituzione della forma associativa, e, comunque, nella disciplina vigente in materia di partecipazioni associative (articolo ItaliaOggi dell'11.05.2012).

ENTI LOCALI - VARIEnti a prova di web. Comuni, accolta l'anagrafe digitale. Circolare del Viminale sull'invio delle dichiarazioni.
Da ieri i comuni devono agevolare l'invio delle dichiarazioni anagrafiche dei cittadini evidenziando sui siti web istituzionali tutti i recapiti a disposizione degli utenti. E utilizzare le nuove procedure informatiche messe a disposizione degli ufficiali d'anagrafe dal dipartimento per gli affari interni e territoriali.

Lo ha stabilito il Ministero dell'Interno con la circolare 08.05.2012 n. 10.
La legge 35/2012 ha confermato le nuove procedure anagrafiche introdotte con il dl 5/2012 che ha innovato la disciplina in materia di cambi di residenza stabilendo, tra l'altro, che gli effetti giuridici delle iscrizioni anagrafiche e delle corrispondenti cancellazioni decorrono dalla data della dichiarazione. Ciò significa che l'iscrizione anagrafica ha efficacia immediata coincidente con la data di presentazione della relativa richiesta attraverso uno dei mezzi previsti dal codice dell'amministrazione digitale.
Dalla data di presentazione decorreranno i termini (due giorni lavorativi) entro cui il comune destinatario di tale comunicazione è obbligato alla registrazione della dichiarazione. Entro i successivi 45 giorni l'ufficio registrante dovrà provvedere all'accertamento della sussistenza dei requisiti previsti per l'iscrizione. Per illustrare concretamente le procedure introdotte con il nuovo istituto, in vigore dal 9 maggio 2012, il Viminale ha diramato le prime indicazioni il 27 aprile scorso con la circolare n. 9 (si veda ItaliaOggi dell'01/05/2012).
Con le istruzioni dell'8 maggio sono state fornite ulteriori precisazioni di carattere tecnico. Innanzitutto sul portale ministeriale è stata pubblicata tutta la modulistica necessaria ad effettuare le dichiarazioni anagrafiche in conformità all'art. 13 del dpr 223/1989, specifica la nota centrale, nonché l'elenco dei documenti che devono predisporre i cittadini.
Per assecondare lo spirito di semplificazione delle procedure anagrafiche sarà però necessario che i comuni mettano immediatamente a disposizioni degli utenti «sul proprio sito istituzionale, gli indirizzi esatti ai quali inoltrare le dichiarazioni sopracitate con particolare riferimento all'indirizzo postale, di posta elettronica nonché al numero di fax».
Sul medesimo portale servizidemografici.interno.it, conclude la nota, è anche disponibile il manuale operativo dedicato agli addetti ai lavori (articolo ItaliaOggi del 10.05.2012).

ENTI LOCALI - VARILa tua IMU. Le istruzioni per l’uso dei contribuenti. Le indicazioni Ifel-Anci per sindaci e amministratori (articolo Il Sole 24 Ore del 07.05.2012 - tratto da www.anci.lombardia.it).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATALe richieste di integrazione documentale sono idonee per arrestare l'iter del procedimento e quindi assumono, per questi aspetti, natura provvedimentale. Nel caso in esame la fattispecie risulta espressamente disciplinata dall’art. 25, comma 5, del DPR n. 380/2001 per cui, a fronte della legale interruzione del termine di conclusione del procedimento, non può certo parlarsi di illegittima inerzia dell’amministrazione.
Di conseguenza, qualora l'interessato le consideri illegittime e lesive dei propri interessi, dovrà contestarle con autonoma impugnazione, chiedendone l’annullamento attraverso le forme del rito ordinario, senza possibilità di attivare il rito speciale di cui all’art. 21-bis della Legge n. 1034/1971 applicabile solo di fronte al silenzio ingiustificato dell'amministrazione.
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L’art. 24, comma 1, del DPR n. 380/2001, stabilisce che il certificato di agibilità attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, valutate secondo quanto dispone la normativa vigente. Di conseguenza le verifiche demandate alla pubblica amministrazione non si esauriscono con la sola ispezione dell'edificio (tra l'altro meramente eventuale) ai sensi dell’art. 25, comma 3, del predetto DPR n. 380/2001, ma comprendono accertamenti e valutazioni ben più ampie che non possono essere svolte senza la necessaria documentazione.

I ricorrenti denunciano un preteso silenzio-inadempimento del Comune di Montelupone nel rilascio del certificato di agibilità richiesto con istanza in data 02.07.2009 relativamente all'edificio di proprietà degli stessi.
In punto di fatto il Collegio osserva che l’Amministrazione comunale ha sempre risposto alle istanze dei ricorrente, seppure reiterando le richieste di integrazione documentale considerate indispensabili per la conclusione del procedimento.
Non si può quindi sostenere che l’Ente sia rimasto inerte. Pare invece emergere una situazione di stallo, poiché entrambe le parti si sono arroccate sulle loro posizioni dando luogo a circostanze ben diverse da quelle del silenzio (nell'arco di quattro mesi si contano, infatti, ben otto missive scambiate tra le stesse parti).
In punto di diritto va osservato che le richieste di integrazione documentale sono idonee per arrestare l'iter del procedimento e quindi assumono, per questi aspetti, natura provvedimentale. Nel caso in esame la fattispecie risulta espressamente disciplinata dall’art. 25, comma 5, del DPR n. 380/2001 per cui, a fronte della legale interruzione del termine di conclusione del procedimento, non può certo parlarsi di illegittima inerzia dell’amministrazione.
Di conseguenza, qualora l'interessato le consideri illegittime e lesive dei propri interessi, dovrà contestarle con autonoma impugnazione, chiedendone l’annullamento attraverso le forme del rito ordinario, senza possibilità di attivare il rito speciale di cui all’art. 21-bis della Legge n. 1034/1971 applicabile solo di fronte al silenzio ingiustificato dell'amministrazione.
Del resto va osservato che le richieste istruttorie dell'Amministrazione si fondano su specifiche disposizioni che disciplinano la documentazione da allegare all’istanza (cfr. art. 24, comma 4, e art. 25, commi 1 e 3, del DPR n. 380/2001), comprese quelle del Regolamento edilizio comunale; prescrizioni che non risultano essere contestate, per cui non possono rilevarsi eventuali intenti elusivi dell'obbligo, in capo al Comune, di pronunciarsi sull'istanza.
L’art. 24, comma 1, del DPR n. 380/2001, stabilisce che il certificato di agibilità attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, valutate secondo quanto dispone la normativa vigente. Di conseguenza le verifiche demandate alla pubblica amministrazione non si esauriscono con la sola ispezione dell'edificio (tra l'altro meramente eventuale) ai sensi dell’art. 25, comma 3, del predetto DPR n. 380/2001, come pretendono i ricorrenti, ma comprendo, come si è visto, accertamenti e valutazioni ben più ampie che non possono essere svolte senza la necessaria documentazione.
L’onere di allegare la prescritta documentazione grava, ovviamente, sui soggetti legittimati alla richiesta del certificato in questione, tra cui, a norma dell'art. 24, comma 3, del DPR n. 380/2001, gli “aventi causa” del titolare del permesso di costruire (come i ricorrenti). Di conseguenza, se i Sigg. Baldoni e Santone sono certamente legittimati a chiedere il rilascio del certificato di agibilità, in qualità di soggetti “aventi causa”, sono anche onerati dal produrre tutta la necessaria documentazione che non è stata prodotta dal loro “dante causa” a questo fine (TAR Marche, sentenza 11.05.2012 n. 334 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANonostante alcune oscillazioni giurisprudenziali riscontratesi sul punto in vigenza dell’art. 13 della legge 47/1985, l’art. 36 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, ha recepito “in toto” la precedente formulazione, pienamente ribadendo il principio della “doppia conformità”, secondo il quale il presupposto inderogabile per la sanatoria ordinaria è la conformità dell’abuso sia alla disciplina vigente al momento della realizzazione, che a quella vigente al momento della domanda.
In sintesi, gli abusi sostanziali sono sanabili solo attraverso il diverso istituto giuridico del condono, e nei limiti temporali legislativamente previsti, ad evitare che ogni abuso possa essere sanato dalla sopravvenienze normative, con effetti sostanzialmente premianti per le difformità sostanziali.
Quanto alla dedotta antieconomicità della imposizione di una doppia attività (prima demolitiva e poi ricostruttiva) per realizzare uno stesso risultato edilizio attualmente assentibile, va rimarcato che, per insindacabile valutazione legislativa, il punto di equilibrio tra legalità ed economicità è stato individuato nella ordinaria sanabilità dei soli abusi formali, cioè sottraendo alla demolizione le sole opere che, ancorché realizzate senza titolo, siano “ab origine” e attualmente conformi; e che, comunque, il procedimento sanzionatorio e quello autorizzativo sono reciprocamente autonomi e non dipendenti.

Con il primo motivo la ricorrente invoca la conformità delle opere abusive alla disciplina vigente al momento della domanda e l’istituto della “sanatoria giurisprudenziale”.
La sezione ritiene che, nonostante alcune oscillazioni giurisprudenziali riscontratesi sul punto in vigenza dell’art. 13 della legge 47/1985, l’art. 36 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, ha recepito “in toto” la precedente formulazione, pienamente ribadendo il principio della “doppia conformità”, secondo il quale il presupposto inderogabile per la sanatoria ordinaria è la conformità dell’abuso sia alla disciplina vigente al momento della realizzazione, che a quella vigente al momento della domanda (cfr. TAR Lombardia, Brescia, 23.06.2003, n. 873; Tar Emilia Romagna, sez. II, 15.01.2004, n. 16; TAR Lombardia, Milano, n. 1352/2006; Tar Piemonte, sez. I, 20.04.2005 n. 1094; TAR Toscana, sez. III, 15.06.2006, n. 2792; Cons. Stato, sez. IV, 17.09.2007, n. 4838).
In sintesi, gli abusi sostanziali sono sanabili solo attraverso il diverso istituto giuridico del condono, e nei limiti temporali legislativamente previsti, ad evitare che ogni abuso possa essere sanato dalla sopravvenienze normative, con effetti sostanzialmente premianti per le difformità sostanziali.
Quanto alla dedotta antieconomicità della imposizione di una doppia attività (prima demolitiva e poi ricostruttiva) per realizzare uno stesso risultato edilizio attualmente assentibile, va rimarcato che, per insindacabile valutazione legislativa, il punto di equilibrio tra legalità ed economicità è stato individuato nella ordinaria sanabilità dei soli abusi formali, cioè sottraendo alla demolizione le sole opere che, ancorché realizzate senza titolo, siano “ab origine” e attualmente conformi; e che, comunque, il procedimento sanzionatorio e quello autorizzativo sono reciprocamente autonomi e non dipendenti (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 11.05.2012 n. 204 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’istituto dell’avvalimento, disciplinato dagli articoli 49 e 50 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, consiste nella possibilità, riconosciuta a qualunque operatore economico, singolo o in raggruppamento, di soddisfare la richiesta relativa al possesso dei requisiti necessari per partecipare ad una procedura di gara, facendo affidamento sulle capacità di altri soggetti, indipendentemente dai legami sussistenti con questi ultimi.
La spendita dei requisiti di imprese terze nell’ambito della gara presuppone un legame contrattuale fra la società partecipante e quelle ausiliarie con il quale queste ultime assumono l’obbligazione di mettere a disposizione dell’impresa ausiliata, in relazione all’esecuzione dell’appalto, le proprie risorse e il proprio apparato organizzativo, in tutte le parti che giustificano l’attribuzione di uno specifico requisito di qualificazione (a seconda dei casi: mezzi, personale, prassi e tutti gli altri elementi aziendali qualificanti).
Il contratto di avvalimento, benché atipico nella causa, deve, pertanto, essere specifico quanto all’oggetto, non potendo risolversi nel “prestito” del requisito richiesto, quale mero valore astratto, perché solo in tal modo è possibile garantire una effettiva corrispondenza tra fase della qualificazione e fase dell’esecuzione, evitando una mera circolazione di certificati e documenti cui non corrisponda la messa a disposizione di risorse reali.
Ciò è tanto più vero nei casi, come quello di specie, in cui ad essere oggetto di avvalimento sono certificazioni di qualità che attestano l’efficienza dei processi produttivi propri di una determinata organizzazione aziendale. Ove il contratto di avvalimento non specifichi quali risorse vengano messe a disposizione dell’impresa ausiliata per assicurare che essa sia in grado di eseguire il servizio affidatole con il medesimo grado di qualità, tutta l’operazione rischia di esaurirsi in una mera apparenza documentale elusiva dei prescritti requisiti.
Il contratto di avvalimento obbliga l’impresa ausiliaria anche nei confronti della stazione appaltante (art. 49, comma 2, lett. d), del D.Lgs. 163/2006) la quale deve, quindi, conoscere in partenza quali saranno le specifiche risorse aziendali messe a disposizione della aggiudicataria in modo da poterne esigere l’effettivo impiego anche nella fase di esecuzione dell’appalto.

L’istituto dell’avvalimento, disciplinato dagli articoli 49 e 50 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, consiste nella possibilità, riconosciuta a qualunque operatore economico, singolo o in raggruppamento, di soddisfare la richiesta relativa al possesso dei requisiti necessari per partecipare ad una procedura di gara, facendo affidamento sulle capacità di altri soggetti, indipendentemente dai legami sussistenti con questi ultimi.
La spendita dei requisiti di imprese terze nell’ambito della gara presuppone un legame contrattuale fra la società partecipante e quelle ausiliarie con il quale queste ultime assumono l’obbligazione di mettere a disposizione dell’impresa ausiliata, in relazione all’esecuzione dell’appalto, le proprie risorse e il proprio apparato organizzativo, in tutte le parti che giustificano l’attribuzione di uno specifico requisito di qualificazione (a seconda dei casi: mezzi, personale, prassi e tutti gli altri elementi aziendali qualificanti).
Il contratto di avvalimento, benché atipico nella causa, deve, pertanto, essere specifico quanto all’oggetto, non potendo risolversi nel “prestito” del requisito richiesto, quale mero valore astratto, perché solo in tal modo è possibile garantire una effettiva corrispondenza tra fase della qualificazione e fase dell’esecuzione, evitando una mera circolazione di certificati e documenti cui non corrisponda la messa a disposizione di risorse reali.
Ciò è tanto più vero nei casi, come quello di specie, in cui ad essere oggetto di avvalimento sono certificazioni di qualità che attestano l’efficienza dei processi produttivi propri di una determinata organizzazione aziendale. Ove il contratto di avvalimento non specifichi quali risorse vengano messe a disposizione dell’impresa ausiliata per assicurare che essa sia in grado di eseguire il servizio affidatole con il medesimo grado di qualità, tutta l’operazione rischia di esaurirsi in una mera apparenza documentale elusiva dei prescritti requisiti.
A ciò si aggiunga che il contratto di avvalimento obbliga l’impresa ausiliaria anche nei confronti della stazione appaltante (art. 49, comma 2, lett. d), del D.Lgs. 163/2006) la quale deve, quindi, conoscere in partenza quali saranno le specifiche risorse aziendali messe a disposizione della aggiudicataria in modo da poterne esigere l’effettivo impiego anche nella fase di esecuzione dell’appalto (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 10.05.2012 n. 1322 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: I principi del favor partecipationis e della tutela dell'affidamento vietano l'esclusione di un’impresa che abbia fatto affidamento sul bando di gara e sui relativi allegati, compilando l’offerta in conformità al facsimile all’uopo approntato dalla stazione appaltante.
Nessuna esclusione può essere disposta sulla scorta di una lacuna formale indotta dall’amministrazione nella predisposizione degli atti di gara e che, qualora fosse accompagnata da un’applicazione formalistica della normativa, avrebbe l'unico risultato, contrario alla ratio prima ancora che alla lettera della disciplina degli appalti, di un fattivo quanto inammissibile restringimento della concorrenza in assenza di qualsivoglia lesione sostanziale.
A fronte di una dichiarazione come quella resa dalla controinteressata, perfettamente ricalcante l’indicazione dello schema di domanda, non risulta applicabile l’esclusione potendo l’amministrazione –in presenza di dubbi sulla reale portata di quanto dichiarato– considerare necessaria una regolarizzazione, sul piano formale, della dichiarazione stessa, ai sensi di quanto disposto dall’art. 46 del Codice Appalti, volto a dare rilevanza, anche nel testo anteriore al cd. Decreto Sviluppo (D.L. 70/2011), alle mancanze sostanziali, piuttosto che alle mancanze formali.
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Con l’entrata in vigore dell’art. 46, comma 1-bis, del Codice dei contratti pubblici, aggiunto dall’art. 4, comma 2, lett. d), del D.L. 13/05/2011 conv. in L. 12/07/2011 n. 106– è stato introdotto il principio di tassatività delle cause di esclusione dalle gare d’appalto.
In base alla novella legislativa, deve ritenersi illegittima la mancata ammissione di una ditta da una procedura selettiva per una circostanza che non costituisce motivo di esclusione in virtù di una precisa disposizione di legge.
Sul medesimo presupposto, anche il Consiglio di Stato ha dichiarato l’illegittimità dell’esclusione dalla gara di un’impresa che aveva presentato una cauzione provvisoria di importo inferiore a quello richiesto per poter concorrere all’assegnazione di più lotti.
L’art. 49 del D.Lgs. 163/2006, nel disciplinare l’istituto dell’avvalimento, non prevede alcuna sanzione di inammissibilità dell’offerta o di esclusione del concorrente per l’ipotesi in cui la dichiarazione risulti carente ovvero priva degli allegati di cui all’art. 2 lett. a-g del medesimo articolo, a differenza di quanto prevedono espressamente invece i commi 3 (dichiarazioni mendaci) e 8 (pluralità di concorrenti che si avvalgono della stessa impresa ausiliaria).
Nel caso di lacune individuate nella dichiarazione di avvalimento, in applicazione della regola di cui all’art. 46, comma 1, del Codice dei contratti l’amministrazione deve consentire la regolarizzazione/integrazione degli atti tempestivamente depositati (dai quali comunque l’intenzione di ricorrere all’istituto sia, come nella fattispecie, chiaramente desumibile).

 Atteso:
- che la recente giurisprudenza (cfr. TAR Abruzzo Pescara – 24/02/2012 n. 86) è dell’avviso che i principi del favor partecipationis e della tutela dell'affidamento vietano l'esclusione di un’impresa che abbia fatto affidamento sul bando di gara e sui relativi allegati, compilando l’offerta in conformità al facsimile all’uopo approntato dalla stazione appaltante;
- che è stato precisato che nessuna esclusione può essere disposta sulla scorta di una lacuna formale indotta dall’amministrazione nella predisposizione degli atti di gara e che, qualora fosse accompagnata da un’applicazione formalistica della normativa, avrebbe l'unico risultato, contrario alla ratio prima ancora che alla lettera della disciplina degli appalti, di un fattivo quanto inammissibile restringimento della concorrenza in assenza di qualsivoglia lesione sostanziale (cfr. TAR Piemonte, sez. I – 09/01/2012 n. 5);
- che, a fronte di una dichiarazione come quella resa dalla controinteressata, perfettamente ricalcante l’indicazione dello schema di domanda, non risulta applicabile l’esclusione potendo l’amministrazione –in presenza di dubbi sulla reale portata di quanto dichiarato– considerare necessaria una regolarizzazione, sul piano formale, della dichiarazione stessa, ai sensi di quanto disposto dall’art. 46 del Codice Appalti, volto a dare rilevanza, anche nel testo anteriore al cd. Decreto Sviluppo (D.L. 70/2011), alle mancanze sostanziali, piuttosto che alle mancanze formali (Consiglio di Stato, sez. V – 10/01/2012 n. 31);
Tenuto conto:
- che, inoltre, con l’entrata in vigore dell’art. 46, comma 1-bis, del Codice dei contratti pubblici, aggiunto dall’art. 4, comma 2, lett. d), del D.L. 13/05/2011 conv. in L. 12/07/2011 n. 106– è stato introdotto il principio di tassatività delle cause di esclusione dalle gare d’appalto;
- che, in base alla novella legislativa, deve ritenersi illegittima la mancata ammissione di una ditta da una procedura selettiva per una circostanza che non costituisce motivo di esclusione in virtù di una precisa disposizione di legge (cfr. TAR Lazio Roma, sez. I – 08/03/2012 n. 2308, che ha censurato l’esclusione di una ditta che aveva prestato la cauzione provvisoria mediante polizza fideiussoria avente come beneficiario un soggetto diverso dalla stazione appaltante);
- che, sul medesimo presupposto, anche il Consiglio di Stato (sez. III – 01/02/2012 n. 493) ha dichiarato l’illegittimità dell’esclusione dalla gara di un’impresa che aveva presentato una cauzione provvisoria di importo inferiore a quello richiesto per poter concorrere all’assegnazione di più lotti;
- che l’art. 49 del D.Lgs. 163/2006, nel disciplinare l’istituto dell’avvalimento, non prevede alcuna sanzione di inammissibilità dell’offerta o di esclusione del concorrente per l’ipotesi in cui la dichiarazione risulti carente ovvero priva degli allegati di cui all’art. 2 lett. a-g del medesimo articolo, a differenza di quanto prevedono espressamente invece i commi 3 (dichiarazioni mendaci) e 8 (pluralità di concorrenti che si avvalgono della stessa impresa ausiliaria);
- che pertanto, nel caso di lacune individuate nella dichiarazione di avvalimento, in applicazione della regola di cui all’art. 46, comma 1, del Codice dei contratti l’amministrazione deve consentire la regolarizzazione/integrazione degli atti tempestivamente depositati (dai quali comunque l’intenzione di ricorrere all’istituto sia, come nella fattispecie, chiaramente desumibile) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 10.05.2012 n. 814 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’omessa indicazione di un termine di efficacia non costituisce profilo di illegittimità del provvedimento impugnato, poiché, in tal caso, trova automatica applicazione il richiamato termine massimo di 45 giorni legislativamente fissato, decorso il quale l’ordine cessa di produrre effetti.
Al riguardo va ricordato l’orientamento della giurisprudenza amministrativa che ritiene addirittura inammissibile il ricorso, avverso l'ordinanza di sospensione dei lavori, proposto dopo lo spirare del citato termine, qualora non sussista uno specifico interesse al relativo annullamento anche dopo che l’atto abbia esaurito la propria efficacia.

Con il secondo motivo viene dedotta violazione dell’art. 27, comma 3, del DPR n. 380/2001 sotto il profilo della omessa indicazione del termine di efficacia del provvedimento cautelare, da individuarsi nel limite massimo di 45 giorni.
Anche tale censura va disattesa.
L’omessa indicazione di un termine di efficacia non costituisce profilo di illegittimità del provvedimento impugnato, poiché, in tal caso, trova automatica applicazione il richiamato termine massimo di 45 giorni legislativamente fissato, decorso il quale l’ordine cessa di produrre effetti.
Al riguardo va ricordato l’orientamento della giurisprudenza amministrativa che ritiene addirittura inammissibile il ricorso, avverso l'ordinanza di sospensione dei lavori, proposto dopo lo spirare del citato termine, qualora non sussista uno specifico interesse al relativo annullamento anche dopo che l’atto abbia esaurito la propria efficacia (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. I, 08.06.2011 n. 5121; TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 07.04.2011 n. 620; TAR Liguria, Sez. I, 15.01.2009 n. 66) (TAR Marche, sentenza 10.05.2012 n. 307 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAL'art. 39 del DPR n. 327/2001, avente natura ricognitiva del preesistente quadro normativo, non impone l'indicazione di un indennizzo nel caso di reiterazione del vincolo preordinato all'esproprio (e, dunque, la relativa copertura finanziaria), poiché la sua spettanza o meno è del tutto eventuale e va accertata (solo quando il vincolo sia stato effettivamente reiterato) sulla base della istanza dell'interessato, che può attivare un procedimento nel corso del quale ha l'onere di dare prova del pregiudizio concretamente ricevuto dagli atti amministrativi.
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V'è ampia discrezionalità che connota le scelte dell'amministrazione in ordine alla destinazione dei suoli in sede di pianificazione generale del territorio, tali da non richiedere una particolare motivazione al di là di quella ricavabile dai criteri e principi generali che ispirano il PRG, derogandosi a tale regola solo in presenza di specifiche situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo.

Riguardo alla denunciata carenza di copertura finanziaria, va osservato che l'art. 39 del DPR n. 327/2001, avente natura ricognitiva del preesistente quadro normativo, non impone l'indicazione di un indennizzo nel caso di reiterazione del vincolo preordinato all'esproprio (e, dunque, la relativa copertura finanziaria), poiché la sua spettanza o meno è del tutto eventuale e va accertata (solo quando il vincolo sia stato effettivamente reiterato) sulla base della istanza dell'interessato, che può attivare un procedimento nel corso del quale ha l'onere di dare prova del pregiudizio concretamente ricevuto dagli atti amministrativi (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. 24.05.2007 n. 7; id. Sez. IV, 06.11.2009 n. 6936).
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Al riguardo va richiamato il consolidato indirizzo giurisprudenziale circa l'ampia discrezionalità che connota le scelte dell'amministrazione in ordine alla destinazione dei suoli in sede di pianificazione generale del territorio, tali da non richiedere una particolare motivazione al di là di quella ricavabile dai criteri e principi generali che ispirano il PRG (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 24.02.2011 n. 1222; id. 18.10.2010 n. 7554; id. 04.05.2010 n. 2545; id. 03.07.2009 n. 4847), derogandosi a tale regola solo in presenza di specifiche situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 18.01.2011 n. 352; id. 12.01.2011 n. 133; id. 09.12.2010 n. 8682; id. 13.10.2010 n. 7492; id. 24.04.2009 n. 2630; id. 07.04.2008 n. 1476) (TAR Marche, sentenza 10.05.2012 n. 306 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Danni derivati ai cittadini a causa delle insidie stradali.
La Corte di Cassazione, Sez. III civile, con la sentenza 09.05.2012 n. 7035, ribadisce la responsabilità del Comune per i danni derivati ai cittadini a causa delle insidie, non segnalate, del manto stradale.
Il caso riguarda l'incidente occorso ad un bambino, caduto dalla bicicletta a causa di un dislivello del manto stradale dovuto ad un'escavazione posta intorno ad un tombino. Secondo la Corte di Cassazione, la responsabilità di quanto accaduto è da attribuirsi sia all'azienda idrica appaltatrice, sia al Comune, per aver disatteso, entrambi, l'obbligo di vigilanza, controllo e manutenzione della strada.
Contrariamente a quanto lamentato dal Comune, e cioè che l'uso generale e diretto della strada comporta l'impossibilità della custodia di essa, la Cassazione ha infatti affermato che "l'impossibilità della custodia non sussiste quando l'evento dannoso si è verificato su un tratto di strada che, posto all'interno della perimetrazione del centro abitato, era adibito al pubblico transito di persone e veicoli e che incombe sul Comune, che pertanto ne conserva la custodia, apporre o controllare che l'appaltatore apponga, se in tal senso è il relativo contratto, adeguata segnalazione a tutela degli utenti, (…) diversamente dovendo rispondere, ancorché unitamente all'appaltatore, dei danni derivanti a terzi".

EDILIZIA PRIVATA: L’esercizio del potere di annullamento d’ufficio di un titolo edilizio deve rispondere ai requisiti di legittimità codificati nell’art. 21-nonies della legge 07.08.1990 n. 241 ss.mm.ii., consistenti nell’illegittimità originaria del titolo e nell’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione diverso dal mero ripristino della legalità, comparato con i contrapposti interessi dei privati.
Va ricordato che, com’è noto, anche l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio di un titolo edilizio deve rispondere ai requisiti di legittimità codificati nell’art. 21-nonies della legge 07.08.1990 n. 241 ss.mm.ii., consistenti nell’illegittimità originaria del titolo e nell’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione diverso dal mero ripristino della legalità, comparato con i contrapposti interessi dei privati (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 09.05.2012 n. 2683 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Va escluso che possa essere applicato il procedimento di sanatoria ex art. 36 citato –destinato a sanare i soli abusi c.d. formali– allorché siano necessari ulteriori interventi per garantire il rispetto della normativa urbanistica ed edilizia.
Nella domanda di sanatoria ex art. 36 del DPR 380/2001, infatti, l’Associazione non si limita a chiedere l’accertamento della c.d. doppia conformità dell’attività edilizia posta in essere –secondo lo schema del citato art. 36, comma 1°, del Testo Unico dell’edilizia– ma chiede altresì di effettuare nuove opere, qualificate di manutenzione straordinaria (cfr. il doc. 2 della ricorrente, pag. 3 e soprattutto il doc. 6 del resistente, vale a dire la relazione tecnica allegata alla domanda di sanatoria, dove si ammette espressamente la necessità di effettuare nuovi lavori per la messa a norma dell’immobile, lavori del resto descritti da apposito computo metrico).
La giurisprudenza amministrativa, anche della scrivente Sezione, esclude però che possa essere applicato il procedimento di sanatoria ex art. 36 citato –destinato a sanare i soli abusi c.d. formali– allorché siano necessari ulteriori interventi per garantire il rispetto della normativa urbanistica ed edilizia (cfr. sul punto, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 22.11.2010, n. 7311) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.05.2012 n. 1279 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il fatto che i ricorrenti vivano abitualmente in prossimità del sito prescelto per la realizzazione dell'intervento di che trattasi appare sufficiente a legittimare il ricorso, in ragione dell'interesse rappresentato dalla "semplice possibilità di ricavare dalla invocata decisione di accoglimento una qualche utilità pratica, indiretta ed eventuale.
Più in particolare, nel caso di ricorso proposto da persone fisiche, la vicinitas vale a fondare la legittimazione, perché chi la invoca allega, implicitamente, un pregiudizio, effettivo o temuto, alla propria salute, che è diritto fondamentale ai sensi dell'art. 32 della Costituzione e quindi sicuramente abilita il titolare leso a richiedere la tutela giurisdizionale.

La giurisprudenza (cfr. tra le tante C.d.S. sez. V 18.08.2010 n. 5819) ha chiarito che "il fatto che i ricorrenti vivano abitualmente in prossimità del sito prescelto per la realizzazione" dell'intervento di che trattasi appare sufficiente a legittimare il ricorso, in ragione dell'interesse rappresentato dalla "semplice possibilità di ricavare dalla invocata decisione di accoglimento una qualche utilità pratica, indiretta ed eventuale".
Più in particolare, nel caso di ricorso proposto da persone fisiche, la vicinitas vale a fondare la legittimazione, perché chi la invoca allega, implicitamente, un pregiudizio, effettivo o temuto, alla propria salute, che è diritto fondamentale ai sensi dell'art. 32 della Costituzione e quindi sicuramente abilita il titolare leso a richiedere la tutela giurisdizionale
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 08.05.2012 n. 795 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le scelte operate in sede di pianificazione urbanistica sono espressione di una discrezionalità molto ampia, di cui l'ente territoriale dispone in materia, e pertanto non sono sindacabili in sede giurisdizionale di legittimità al di fuori dei casi di illogicità ovvero incoerenza manifeste.
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L'Amministrazione non è tenuta a fornire apposita motivazione in ordine alle scelte operate in sede di pianificazione del territorio comunale, se non richiamando le ragioni di carattere generale che giustificano l'impostazione del piano.
La destinazione di singole aree non necessitano di una specifica motivazione, se non nel caso in cui esse vadano ad incidere negativamente su posizioni giuridicamente differenziate, rispetto alle quali il principio della tutela dell'affidamento impone che lo strumento urbanistico dia conto del modo in cui sia stata effettuata la ponderazione degli interessi pubblici e siano state operate le scelte di pianificazione, rendendole, così, sindacabili davanti al giudice amministrativo; posizioni giuridiche differenziate la cui sussistenza non è stata comprovata nel caso di specie.

Il Collegio ritiene di poter condividere il costante insegnamento giurisprudenziale secondo il quale le scelte operate in sede di pianificazione urbanistica sono espressione di una discrezionalità molto ampia, di cui l'ente territoriale dispone in materia, e pertanto non sono sindacabili in sede giurisdizionale di legittimità al di fuori dei casi di illogicità ovvero incoerenza manifeste (per tutte, in tal senso, da ultimo C.d.S. sez. IV 24.02.2011 n. 1222, richiamata nella sentenza TAR Lombardia, Brescia Sez. I, 16.01.2012, n. 56).
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In conclusione, considerato il principio generale secondo cui l'Amministrazione non è tenuta a fornire apposita motivazione in ordine alle scelte operate in sede di pianificazione del territorio comunale, se non richiamando le ragioni di carattere generale che giustificano l'impostazione del piano (cfr. sul punto Consiglio di Stato, Sez. IV, 16.02.2011, n. 1015), anche nel caso di specie le scelte adottate risultano adeguatamente supportate dal richiamo alle scelte generali del Piano.
Sul punto il Collegio ritiene di poter condividere quanto affermato dal TAR Lombardia Milano Sez. II, nella sentenza 27.01.2012, n. 297, nella quale si legge che “la destinazione di singole aree non necessitano di una specifica motivazione, se non nel caso in cui esse vadano ad incidere negativamente su posizioni giuridicamente differenziate, rispetto alle quali il principio della tutela dell'affidamento impone che lo strumento urbanistico dia conto del modo in cui sia stata effettuata la ponderazione degli interessi pubblici e siano state operate le scelte di pianificazione, rendendole, così, sindacabili davanti al giudice amministrativo”; posizioni giuridiche differenziate la cui sussistenza non è stata comprovata nel caso di specie
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 08.05.2012 n. 795 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa piena conoscenza dell’atto amministrativo si concretizza con la cognizione dei suoi elementi essenziali, identificabili nell’autorità emanante, nell’oggetto, nel contenuto dispositivo del provvedimento e del suo effetto lesivo, essendo detti elementi sufficienti a rendere consapevole l’interessato dell’incidenza dell’atto nella sua sfera giuridica, senza per un verso che sia invece necessaria anche la compiuta conoscenza della motivazione e degli ulteriori atti del procedimenti, che può giustificare la proposizione di motivi aggiunti e, per altro verso, che possa rilevare la consapevolezza/convinzione soggettiva dell’illegittimità che inficerebbe l’atto e quindi la data della scoperta di un suo possibile vizio.
Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal quale non vi è motivo per discostarsi, la piena conoscenza dell’atto amministrativo si concretizza con la cognizione dei suoi elementi essenziali, identificabili nell’autorità emanante, nell’oggetto, nel contenuto dispositivo del provvedimento e del suo effetto lesivo, essendo detti elementi sufficienti a rendere consapevole l’interessato dell’incidenza dell’atto nella sua sfera giuridica, senza per un verso che sia invece necessaria anche la compiuta conoscenza della motivazione e degli ulteriori atti del procedimenti, che può giustificare la proposizione di motivi aggiunti e, per altro verso, che possa rilevare la consapevolezza/convinzione soggettiva dell’illegittimità che inficerebbe l’atto e quindi la data della scoperta di un suo possibile vizio (ex pluriuso e tra le più recenti, C.d.S., sez. V, 14.12.2011, n. 6543; 01.09.2011, n. 4895; 28.02.2011, n. 1250; 26.01.2010, n. 291) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.05.2012 n. 2609 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL'aggiotaggio espelle dall'appalto. Il reato innesca l'esclusione immediata dell'impresa dalla gara. Lo dice il Consiglio di stato. L'abuso di mercato è una turbativa rilevante anche nei contratti pubblici.
Il reato di aggiotaggio determina l'esclusione del concorrente da una gara di appalto pubblico in quanto incide gravemente sulla moralità professionale; trattandosi di reato di «market abuse» costituisce elemento di turbativa delle regole di mercato rilevante ai fini dei contratti pubblici.
È quanto afferma il Consiglio di Stato con la sentenza 07.05.2012 n. 2607 della III Sezione rispetto ad una gara di appalto triennale per l'affidamento del servizio di pulizia della sede di un Comando Provinciale dei Vigili del fuoco in riforma della sentenza di primo grado del Tar Toscana n. 1351 del 2011.
In primo grado il Tar toscano aveva annullato il provvedimento di diniego dell'aggiudicazione a favore di un soggetto il cui legale rappresentante era stato condannato per il reato di aggiotaggio. La questione che aveva dovuto affrontare il giudice amministrativo di primo grado consisteva nell'accertamento della effettiva configurabilità di una delle cause di esclusione previste dall'articolo 38 del Codice dei contratti pubblici a carico della società inizialmente aggiudicataria, che aveva subito il provvedimento di revoca dell'aggiudicazione.
La normativa (art. 38 del dlgs n. 163 del 2006) dispone l'esclusione dalla gara per l'affidamento di appalti pubblici del soggetto, nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di condanna passata in giudicato, o emesso decreto penale di condanna divenuto irrevocabile, oppure sentenza di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per reati gravi in danno dello stato o della Comunità, che incidono sulla moralità professionale.
A tale riguardo il Tar aveva ritenuto insussistente la configurabilità dell'esclusione partendo dalla considerazione che il patteggiamento della condanna penale per aggiotaggio, regolarmente dichiarato in sede di gara, non presentasse alcuna attinenza, neppure indiretta, con l'attività oggetto dell'affidamento. Inoltre, secondo i giudici, l'esclusione non poteva scattare in quanto la condotta di reato era stata posta in essere a titolo personale dal legale rappresentante.
Il Consiglio di stato ribalta la decisione assumendo invece la rilevanza della condanna patteggiata per aggiotaggio rispetto all'articolo 38 del Codice dei contratti; per fare ciò il Consiglio di Stato richiama in particolare un parere dell'Avvocatura generale nel quale si precisa che la previsione del reato di aggiotaggio «tende alla tutela della concorrenza che è valore ovviamente decisivo con riguardo al settore dei pubblici appalti, con conseguente rilevanza del reato per cui è intervenuta condanna in relazione alle dinamiche fiduciarie del contratto».
Nel caso del reato di aggiotaggio vengono puniti tutti quei comportamenti che per ragioni di modo, tempo e luogo, sono tali da alterare le dinamiche della domanda e dell'offerta nel mercato. Il fatto quindi di perturbare il libero gioco del mercato inserendovi un elemento fraudolento e così alterando i comportamenti degli operatori fa sì che si configuri un illecito di «market abuse» (in quanto lesione della tutela del «market egalitarism» o della «parità informativa», premessa essenziale per la regolare formazione dei prezzi). Ancorché il reato sia stato posto in essere «a titolo personale», i giudici ritengono comunque che ciò sia comunque sufficiente ad incidere sull'attività professionale di imprenditore e legale rappresentante di una società che opera nel mercato e per il mercato dei contratti pubblici.
In altre parole il fatto di non avere rispettato delle regole poste a tutela del mercato incide e deve essere apprezzato anche rispetto alla partecipazione a gare di appalto pubblico. Nel caso specifico sono state rilevate gravi dalla stazione appaltante sia le poste oggetto della confisca conseguente al reato, sia il tempo relativamente breve trascorso dalla commissione del fatto-reato, sia ancora la mancanza di atti di dissociazione della società a fronte della condotta penalmente rilevante del suo rappresentante (articolo ItaliaOggi del 10.05.2012).

EDILIZIA PRIVATA: Il termine di prescrizione (decennale) per la riscossione del contributo di concessione dovuto decorre dall'emanazione della concessione edilizia.
Tali arresti giurisprudenziali costituiscono, peraltro, puntuale applicazione del principio di cui all’art. 2935 c.c., secondo cui la prescrizione decorre dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere. L'obbligazione di pagamento degli oneri concessori sorge, infatti, con il rilascio della concessione edilizia e la giurisprudenza è concorde nel ritenere che la determinazione del contributo dovuto per gli oneri in questione debba essere riferita al momento in cui sorge l'obbligazione.
Il collegio ritiene che il ricorso sia fondato per l’assorbente censura relativa all’insussistenza, conseguente al decorso del termine decennale di prescrizione, del potere esercitato dal comune nel disporre la rideterminazione del contributo e nel richiedere il conguaglio.
Per giurisprudenza costante, infatti, il termine di prescrizione (decennale) per la riscossione del contributo di concessione dovuto decorre dall'emanazione della concessione edilizia (Cons. Stato, sez. IV, 16.01.2009, n. 216; 06.06.2008, n. 2686; sez. V, 13.06.2003, n. 3332).
Tali arresti giurisprudenziali costituiscono, peraltro, puntuale applicazione del principio di cui all’art. 2935 c.c., secondo cui la prescrizione decorre dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere. L'obbligazione di pagamento degli oneri concessori sorge, infatti, con il rilascio della concessione edilizia e la giurisprudenza è concorde nel ritenere che la determinazione del contributo dovuto per gli oneri in questione debba essere riferita al momento in cui sorge l'obbligazione.
Essendo, dunque, trascorsi oltre tredici anni dal rilascio della concessione edilizia (avvenuto il 07.08.1986) ed oltre dodici anni dalla notificazione della stessa (dell’11.05.1987), alla data dell’emanazione del provvedimento impugnato (26.10.1999) il credito doveva in ogni caso ritenersi estinto per prescrizione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2934, 2935 e 2946 c.c., non essendo intervenuto alcun atto interruttivo della prescrizione decennale e non potendo, quindi, il comune intimato richiederne il pagamento (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 07.05.2012 n. 1274 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl rilascio di una variante non essenziale non è idonea a riaprire i termini per l’impugnazione del titolo edilizio originariamente assentito.
Ed il criterio discretivo tra una mera variante ed un nuovo titolo edilizio è stato individuato nell’entità delle modificazioni quantitative e qualitative apportate all’originario progetto, per cui nelle ipotesi di complessiva compatibilità del nuovo elaborato con il disegno ispiratore di quello inizialmente approvato la variante è stata qualificata come non essenziale.
Cioè, in definitiva, si sono distinte al riguardo le varianti in senso proprio (o “leggere”) dalla varianti c.d. “improprie” o “essenziali”: le prime sono quelle che si riferiscono a modifiche quantitative e qualitative di limitata consistenza e di scarso rilievo rispetto al progetto originario e si distinguono da quelle che, pur chiamate varianti nel linguaggio usuale del termine, tali non possono essere considerate perché richiedono la realizzazione di un quid novi (da valutarsi con riferimento alle evidenze progettuali quali la superficie coperta, il perimetro, il numero dei piani, la volumetria, le distanze dalle proprietà vicine, nonché le caratteristiche funzionali e strutturali del fabbricato complessivamente inteso); in questa seconda categoria vanno ricondotte le varianti cc.dd. improprie o essenziali, che si configurano come un nuovo titolo edilizio e quindi comportano la necessità, laddove ritenute lesive, di un’autonoma e specifica impugnativa giurisdizionale.
Tale rapporto che lega un titolo edilizio alla successiva variante è stato, in particolare, analizzato ai fini della necessità di impugnativa del nuovo titolo edilizio nelle ipotesi in cui sia stato impugnato il titolo originariamente assentito e si è al riguardo affermato che nel mentre l’annullamento del titolo originario ha effetto caducante nei confronti delle varianti c.d. leggere (ossia quelle relative ad aspetti non essenziali), è necessaria, per contro, un’autonoma impugnativa delle restanti varianti a carattere essenziale.
Con la conseguenza che in caso di inoppugnabilità del titolo edilizio originario, non residua alcun interesse all’autonoma impugnazione del permesso di costruire in variante, con il quale si siano autorizzate variazioni non essenziali del progetto che, in quanto tali, non determinano modificazioni idonee a considerare il manufatto sostanzialmente diverso da quello già assentito.
In estrema sintesi deve ritenersi che:
- sono varianti essenziali solo quelle che contengono consistenti modificazioni quantitative e qualitative dell’originario progetto e che non siano complessivamente compatibili con il disegno ispiratore di quello inizialmente approvato;
- solo in tali ipotesi il nuovo titolo edilizio deve essere necessariamente impugnato;
- il rilascio di una variante non essenziale non è idonea a riaprire i termini per l’impugnazione del titolo edilizio originariamente assentito;
- anche le varianti non essenziali, peraltro, possono essere autonomamente impugnate, ove vengano dedotti specifici vizi che attengono a tali titoli edilizi e non al titolo edilizio originariamente assentito.

Va, invero, al riguardo ricordato che -come è stato pacificamente affermato dalla giurisprudenza amministrativa (Cons. St., sez. V, 27.04.2006, n. 2363, TAR Liguria, sez. I, 12.03.2009, n. 303, e TAR Puglia, sez. Lecce, sez. III, 06.06.2007, n. 2226)- il rilascio di una variante non essenziale non è idonea a riaprire i termini per l’impugnazione del titolo edilizio originariamente assentito.
Ed il criterio discretivo tra una mera variante ed un nuovo titolo edilizio è stato individuato nell’entità delle modificazioni quantitative e qualitative apportate all’originario progetto, per cui nelle ipotesi di complessiva compatibilità del nuovo elaborato con il disegno ispiratore di quello inizialmente approvato la variante è stata qualificata come non essenziale (Cons. St., sez. IV, 10.12.2010, n. 8730, e 20.11.2008, n. 5743).
Cioè, in definitiva, si sono distinte al riguardo le varianti in senso proprio (o “leggere”) dalla varianti c.d. “improprie” o “essenziali”: le prime sono quelle che si riferiscono a modifiche quantitative e qualitative di limitata consistenza e di scarso rilievo rispetto al progetto originario e si distinguono da quelle che, pur chiamate varianti nel linguaggio usuale del termine, tali non possono essere considerate perché richiedono la realizzazione di un quid novi (da valutarsi con riferimento alle evidenze progettuali quali la superficie coperta, il perimetro, il numero dei piani, la volumetria, le distanze dalle proprietà vicine, nonché le caratteristiche funzionali e strutturali del fabbricato complessivamente inteso); in questa seconda categoria vanno ricondotte le varianti cc.dd. improprie o essenziali, che si configurano come un nuovo titolo edilizio e quindi comportano la necessità, laddove ritenute lesive, di un’autonoma e specifica impugnativa giurisdizionale (TAR Lombardia, sede Milano, sez. II, 02.09.2011, n. 2149).
Tale rapporto che lega un titolo edilizio alla successiva variante è stato, in particolare, analizzato ai fini della necessità di impugnativa del nuovo titolo edilizio nelle ipotesi in cui sia stato impugnato il titolo originariamente assentito e si è al riguardo affermato che nel mentre l’annullamento del titolo originario ha effetto caducante nei confronti delle varianti c.d. leggere (ossia quelle relative ad aspetti non essenziali), è necessaria, per contro, un’autonoma impugnativa delle restanti varianti a carattere essenziale.
Con la conseguenza che in caso di inoppugnabilità del titolo edilizio originario, non residua alcun interesse all’autonoma impugnazione del permesso di costruire in variante, con il quale si siano autorizzate variazioni non essenziali del progetto che, in quanto tali, non determinano modificazioni idonee a considerare il manufatto sostanzialmente diverso da quello già assentito.
In aggiunta, ai fini della determinazione della qualificazione come essenziale o meno di una variante, va anche osservato che nella Regione Abruzzo la L.R. 13.07.1989, n. 52, recante “norme per l’esercizio dei poteri di controllo dell'attività urbanistica ed edilizia, sanzioni amministrative e delega alle Province delle relative funzioni”, all’art. 7 ha, tra l’altro, testualmente precisato che “non realizzano le fattispecie di parziale difformità le variazioni ai parametri edilizi che non superino, per ciascuno di essi, la tolleranza di cantiere del 3%”.
In estrema sintesi deve ritenersi che:
- sono varianti essenziali solo quelle che contengono consistenti modificazioni quantitative e qualitative dell’originario progetto e che non siano complessivamente compatibili con il disegno ispiratore di quello inizialmente approvato;
- solo in tali ipotesi il nuovo titolo edilizio deve essere necessariamente impugnato;
- il rilascio di una variante non essenziale non è idonea a riaprire i termini per l’impugnazione del titolo edilizio originariamente assentito;
- anche le varianti non essenziali, peraltro, possono essere autonomamente impugnate, ove vengano dedotti specifici vizi che attengono a tali titoli edilizi e non al titolo edilizio originariamente assentito (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 07.05.2012 n. 200 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASugli atti di imposizione di un vincolo storico-artistico, in via generale, è precluso al giudice amministrativo sindacare le scelte di merito effettuate dall’Amministrazione, per cui la sostituzione da parte del giudice amministrativo della propria valutazione a quella riservata alla discrezionalità dell’amministrazione costituisce una ipotesi di sconfinamento vietato nelle ipotesi di giurisdizione di legittimità, come quella che ricorre nel caso di specie.
Di conseguenza, il controllo del giudice amministrativo sulle valutazioni discrezionali deve essere svolto ab estrinseco e non può essere mai sostitutivo; tale sindacato deve, pertanto, essere rigorosamente mantenuto sul piano della verifica della non erroneità della valutazione degli elementi di fatto e non può avvalersi di criteri che portano ad evidenziare la mera non condivisibilità della valutazione stessa, nei soli limiti della rilevabilità ictu oculi dei vizi di legittimità dedotti.
Quanto al sindacato di questo Giudice sugli atti di imposizione di un vincolo da parte di organi del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, va ricordato che la giurisprudenza amministrativa ha costantemente precisato che tale potere di vincolo -sia pure sorretto da quel particolare criterio di giudizio che è proprio di una discrezionalità ampia (data sia da una valutazione storico-scientifica e sia da un apprezzamento di interesse pubblico delle stesse)- è soggetto al giudizio del giudice amministrativo nei limiti del c.d. “sindacato debole”, ossia entro i canoni della ragionevolezza, della assenza di evidenti e di palesi contraddittorietà logiche o abnormità di fatto, non potendo il giudice amministrativo sostituire il proprio giudizio a quello della Pubblica Amministrazione, dal momento che in presenza di interessi, la cui cura è dalla legge espressamente delegata ad un certo organo amministrativo, ammettere che il giudice possa auto attribuirseli rappresenterebbe quanto meno una violazione delle competenze, se non addirittura del principio di separazione tra i poteri dello Stato.
In definitiva, tale valutazione del particolare interesse culturale di un immobile è sindacabile in sede di legittimità nei limiti del corretto esercizio dei poteri affidati all’Amministrazione sotto il profilo della completezza dell’istruttoria, della sussistenza dei presupposti del provvedere, dell’osservanza di criteri di proporzionalità e ragionevolezza, ovvero quando risulti che il risultato raggiunto dall’Amministrazione, a prescindere dalla sua fisiologica opinabilità, si colloca comunque al di fuori dei quei limiti di naturale elasticità sottesi al concetto giuridico indeterminato che l’Amministrazione è chiamata ad applicare, risultando così, in tutto o in parte inattendibile.

Deve al riguardo ricordarsi che questa stessa Sezione ha recentemente già avuto modo di puntualizzare con sentenza 08.03.2012, n. 121, i limiti del sindacato del Giudice amministrativo sugli atti di imposizione di un vincolo storico-artistico.
In particolare, in tale occasione si è già ricordato che la giurisprudenza (anche del giudice della giurisdizione, Cass. Civ. SS.UU., 17.02.2012, nn. 2312 e 2313) ha costantemente chiarito che, in via generale, è precluso al giudice amministrativo sindacare le scelte di merito effettuate dall’Amministrazione, per cui la sostituzione da parte del giudice amministrativo della propria valutazione a quella riservata alla discrezionalità dell’amministrazione costituisce una ipotesi di sconfinamento vietato nelle ipotesi di giurisdizione di legittimità, come quella che ricorre nel caso di specie. Di conseguenza, il controllo del giudice amministrativo sulle valutazioni discrezionali deve essere svolto ab estrinseco e non può essere mai sostitutivo; tale sindacato deve, pertanto, essere rigorosamente mantenuto sul piano della verifica della non erroneità della valutazione degli elementi di fatto e non può avvalersi di criteri che portano ad evidenziare la mera non condivisibilità della valutazione stessa, nei soli limiti della rilevabilità ictu oculi dei vizi di legittimità dedotti (così, da ultimo, anche Cons. St, sez. V, 22.03.2012, n. 1640, e sez. III, 13.03.2012, n. 1409).
Quanto, poi, al sindacato di questo Giudice sugli atti di imposizione di un vincolo da parte di organi del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, va ricordato che la giurisprudenza amministrativa ha costantemente precisato che tale potere di vincolo -sia pure sorretto da quel particolare criterio di giudizio che è proprio di una discrezionalità ampia (data sia da una valutazione storico-scientifica e sia da un apprezzamento di interesse pubblico delle stesse)- è soggetto al giudizio del giudice amministrativo nei limiti del c.d. “sindacato debole”, ossia entro i canoni della ragionevolezza, della assenza di evidenti e di palesi contraddittorietà logiche o abnormità di fatto, non potendo il giudice amministrativo sostituire il proprio giudizio a quello della Pubblica Amministrazione, dal momento che in presenza di interessi, la cui cura è dalla legge espressamente delegata ad un certo organo amministrativo, ammettere che il giudice possa auto attribuirseli rappresenterebbe quanto meno una violazione delle competenze, se non addirittura del principio di separazione tra i poteri dello Stato.
In definitiva, tale valutazione del particolare interesse culturale di un immobile è sindacabile in sede di legittimità nei limiti del corretto esercizio dei poteri affidati all’Amministrazione sotto il profilo della completezza dell’istruttoria, della sussistenza dei presupposti del provvedere, dell’osservanza di criteri di proporzionalità e ragionevolezza, ovvero quando risulti che il risultato raggiunto dall’Amministrazione, a prescindere dalla sua fisiologica opinabilità, si colloca comunque al di fuori dei quei limiti di naturale elasticità sottesi al concetto giuridico indeterminato che l’Amministrazione è chiamata ad applicare, risultando così, in tutto o in parte inattendibile (Cons. giust. amm. Reg. Sic., 10.06.2011, n. 418) (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 07.05.2012 n. 193 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl termine di 45 giorni, previsto dall’art. 4 della L. n. 47 del 1985, entro cui il Comune, dopo l’emissione dell’ordinanza di sospensione dei lavori abusivi, deve emanare i provvedimenti definitivi diretti a reprimere l’abuso edilizio accertato, designa solo il termine della legale durata del provvedimento di sospensione dei lavori, trascorso il quale lo stesso perde la sua efficacia, e che la scadenza di detto termine, tuttavia, non priva il Comune del potere di adottare i provvedimenti definitivamente repressivi della violazione edilizia perpetrata; con la conseguenza che l’avvenuto decorso di tale termine senza l’adozione dei provvedimenti definitivi non rende illegittimo né l’ordine di sospensione dei lavori già emesso, né il successivo definitivo provvedimento repressivo dell’abuso che sia stato emanato dopo la scadenza di tale termine.
Le impugnazioni di tali ordinanze di sospensione dei lavori divenute inefficaci a seguito del decorso del termine massimo di efficacia previsto dalla legge sono inammissibili, ove la perdita degli effetti si verifichi prima della proposizione dell'impugnazione, o improcedibili, ove, al contrario, la perdita di efficacia sopraggiunga nel corso del processo.

Ora va al riguardo ricordato che la giurisprudenza amministrativa ha costantemente affermato che il termine di quarantacinque giorni, previsto dall’art. 4 della L. n. 47 del 1985, entro cui il Comune, dopo l’emissione dell’ordinanza di sospensione dei lavori abusivi, deve emanare i provvedimenti definitivi diretti a reprimere l’abuso edilizio accertato, designa solo il termine della legale durata del provvedimento di sospensione dei lavori, trascorso il quale lo stesso perde la sua efficacia, e che la scadenza di detto termine, tuttavia, non priva il Comune del potere di adottare i provvedimenti definitivamente repressivi della violazione edilizia perpetrata; con la conseguenza che l’avvenuto decorso di tale termine senza l’adozione dei provvedimenti definitivi non rende illegittimo né l’ordine di sospensione dei lavori già emesso, né il successivo definitivo provvedimento repressivo dell’abuso che sia stato emanato dopo la scadenza di tale termine.
La stessa giurisprudenza ha, in definitiva, al riguardo precisato che le impugnazioni di tali ordinanze di sospensione dei lavori divenute inefficaci a seguito del decorso del termine massimo di efficacia previsto dalla legge sono inammissibili, ove la perdita degli effetti si verifichi prima della proposizione dell'impugnazione, o improcedibili, ove, al contrario, la perdita di efficacia sopraggiunga nel corso del processo (cfr. per tutti e da ultimo, TAR Lazio, sede Roma, sez. II, 02.01.2012, n. 1, sez. II, 14.11.2011, n. 8825, 09.05.2011, n. 3989, 22.12.2010, n. 38234, e sez. I, 08.11.2011, n. 8579, e 04.06.2010, n. 15297, nonché, TAR Valle d’Aosta 16.05.2011, n. 35, TAR Puglia, sez. Lecce, sez. III, 07.04.2011, n. 620, e 17.11.2010, n. 2662, e sede Bari, sez. III, 30.09.2010, n. 3524, e TAR Campania, sede Napoli, sez. VII, 27.05.2009, n. 2948, e 24.07.2008, n. 9321).
Tale orientamento della giurisprudenza trova evidentemente la sua giustificazione nella circostanza che, una volta decorso il termine di efficacia della sospensione dei lavori, il destinatario dell’atto non ha generalmente più alcun interesse a contestarne la legittimità.
Tale considerazione è stata oggi recepita dal codice del processo amministrativo, che all’art. 34 ha in merito testualmente previsto che non può disporsi l’annullamento dell’atto impugnato, “quando nel corso del giudizio l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente”, con l’esclusione, peraltro, dei soli casi in cui “sussiste l’interesse ai fini risarcitori” (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 07.05.2012 n. 191 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIAi sensi dell’art. 43, comma 2, del D.lgs. 18.08.2000, n. 267, i consiglieri comunali hanno diritto di ottenere dagli uffici del comune tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato.
Il diritto di accesso del consigliere comunale agli atti del Comune assume un connotato particolare, in quanto finalizzato al pieno ed effettivo svolgimento delle funzioni assegnate al Consiglio comunale, con la conseguenza che sul consigliere comunale non grava alcun onere di motivare le proprie richieste d’informazione, né gli uffici comunali hanno titolo a richiederle ed conoscerle.
Tra l’accesso ai documenti dei soggetti interessati di cui agli art. 22 ss. della L. 07.08.1990, n. 241, e quello del consigliere comunale di cui al predetto art. 43, sussiste una profonda differenza, poiché il primo è un istituto che consente ai singoli soggetti di conoscere atti e documenti al fine di poter predisporre la tutela delle proprie posizioni soggettive eventualmente lese, mentre il secondo è un istituto giuridico posto al fine di consentire al consigliere comunale di poter esercitare il proprio mandato, verificando e controllando il comportamento degli organi istituzionali decisionali del comune.
Per cui, in definitiva, in base al predetto art. 43 i consiglieri comunali, ivi inclusi ovviamente quelli di minoranza, hanno un diritto di accesso incondizionato a tutti gli atti che possano essere “utili” all’espletamento del loro mandato, anche al fine di permettere di valutare con piena cognizione la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e per promuovere, anche nell’ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Pertanto, al consigliere comunale non può essere opposto alcun diniego (salvo casi eccezionali e contingenti, da motivare puntualmente e adeguatamente, e salvo il caso -da dimostrare- che lo stesso agisca per interesse personale), determinandosi altrimenti un illegittimo ostacolo al concreto esercizio della sua funzione, che è quella di verificare che il sindaco e la giunta municipale esercitino correttamente la loro funzione.
Nessuna limitazione può derivare al diritto d’accesso del consigliere comunale agli atti del Comune, qualunque sia il loro destinatario, dall’eventuale natura riservata delle informazioni richieste, essendo il consigliere vincolato al segreto d’ufficio; fermo restando che anche tali richieste sono soggette al rispetto di alcune forme e modalità, quali l’allegazione della qualità di consigliere comunale e la formulazione dell’istanza in maniera specifica e dettagliata, recando l’esatta indicazione degli estremi identificativi degli atti e dei documenti o, qualora siano ignoti tali estremi, almeno degli elementi che consentano l’individuazione dell’oggetto dell’accesso.
Il consigliere comunale non può abusare del diritto all’informazione riconosciutogli dall’ordinamento, piegandone le alte finalità a scopi meramente emulativi od aggravando eccessivamente, con richieste non contenute entro gli immanenti limiti della proporzionalità e della ragionevolezza, la corretta funzionalità amministrativa, incidendo in termini rilevanti sulle spese generali dell’Ente.

Va al riguardo premesso che, come è noto, ai sensi dell’art. 43, comma 2, del D.lgs. 18.08.2000, n. 267, i consiglieri comunali hanno diritto di ottenere dagli uffici del comune tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato.
Ora, interpretando tale normativa, il giudice amministrativo ha costantemente chiarito che il diritto di accesso del consigliere comunale agli atti del Comune assume un connotato particolare, in quanto finalizzato al pieno ed effettivo svolgimento delle funzioni assegnate al Consiglio comunale, con la conseguenza che sul consigliere comunale non grava alcun onere di motivare le proprie richieste d’informazione, né gli uffici comunali hanno titolo a richiederle ed conoscerle (Cons. St., sez. V, 29.08.2011, n. 4829).
In definitiva -come la giurisprudenza amministrativa ha costantemente avuto modo di precisare- tra l’accesso ai documenti dei soggetti interessati di cui agli art. 22 ss. della L. 07.08.1990, n. 241, e quello del consigliere comunale di cui al predetto art. 43, sussiste una profonda differenza, poiché il primo è un istituto che consente ai singoli soggetti di conoscere atti e documenti al fine di poter predisporre la tutela delle proprie posizioni soggettive eventualmente lese, mentre il secondo è un istituto giuridico posto al fine di consentire al consigliere comunale di poter esercitare il proprio mandato, verificando e controllando il comportamento degli organi istituzionali decisionali del comune.
Per cui, in definitiva, in base al predetto art. 43 i consiglieri comunali, ivi inclusi ovviamente quelli di minoranza, hanno un diritto di accesso incondizionato a tutti gli atti che possano essere “utili” all’espletamento del loro mandato, anche al fine di permettere di valutare con piena cognizione la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e per promuovere, anche nell’ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Pertanto, al consigliere comunale non può essere opposto alcun diniego (salvo casi eccezionali e contingenti, da motivare puntualmente e adeguatamente, e salvo il caso -da dimostrare- che lo stesso agisca per interesse personale), determinandosi altrimenti un illegittimo ostacolo al concreto esercizio della sua funzione, che è quella di verificare che il sindaco e la giunta municipale esercitino correttamente la loro funzione.
In particolare, è stato precisato che nessuna limitazione può derivare al diritto d’accesso del consigliere comunale agli atti del Comune, qualunque sia il loro destinatario, dall’eventuale natura riservata delle informazioni richieste, essendo il consigliere vincolato al segreto d’ufficio (Cons. St., sez. V, 08.09.2011, n. 5053); fermo restando che anche tali richieste sono soggette al rispetto di alcune forme e modalità, quali l’allegazione della qualità di consigliere comunale e la formulazione dell’istanza in maniera specifica e dettagliata, recando l’esatta indicazione degli estremi identificativi degli atti e dei documenti o, qualora siano ignoti tali estremi, almeno degli elementi che consentano l’individuazione dell’oggetto dell’accesso.
Peraltro, la stessa giurisprudenza ha anche precisato che il consigliere comunale non può abusare del diritto all’informazione riconosciutogli dall’ordinamento, piegandone le alte finalità a scopi meramente emulativi od aggravando eccessivamente, con richieste non contenute entro gli immanenti limiti della proporzionalità e della ragionevolezza, la corretta funzionalità amministrativa, incidendo in termini rilevanti sulle spese generali dell’Ente.
Con riferimento a tali principi costantemente affermati in giurisprudenza e dai quali non sussistono ragioni per discostarsi, sembra evidente al Collegio che l’istante abbia di certo diritto ad accedere a tutti gli atti richiesti con la predetta istanza del 14.11.2011. Sembra infatti evidente che tale richiesta, da un lato, sia funzionale allo svolgimento dell’attività di verifica e di controllo propria del consigliere comunale e, dall’altro, non comporti alcun aggravio alle spese ed alla funzionalità dell’Ente; mentre la ipotizzata natura “strettamente personale” degli atti richiesti non avrebbe potuta essere opposta al richiedente, in quanto il consigliere è vincolato al segreto d’ufficio (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 07.05.2012 n. 190 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEInterpretando la previgente normativa contenuta nell’art. 43 del T.U. sulle espropriazioni, la giurisprudenza amministrativa ha già costantemente precisato che il Consiglio comunale è competente a deliberare tale acquisizione, in quanto tale atto è emesso ab externo al procedimento espropriativo, quindi non è disciplinato dalle relative norme; inoltre, i provvedimenti di acquisizione rientrano a pieno titolo nelle competenze consiliari di cui alla lett. l) dell’art. 42, comma 2, D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, la quale elenca “acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del Consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della Giunta, del segretario o di altri funzionari”, così ricomprendendo anche l’ipotesi di acquisto di immobili mediante lo strumento di diritto pubblico in parola.
Tale principio è applicabile anche alla acquisizioni disposte ai sensi dell’art. 42-bis, che ha nella sostanza reintrodotto un meccanismo di acquisizione sanante delle occupazioni illegittime parzialmente analogo a quello disciplinato dal predetto art. 43.

... per l'annullamento del decreto 05.03.2012, n. 1, con il quale il Responsabile del Settore Tecnico del Comune di Moscufo ha disposto, ai sensi dell’art. 42-bis del D.P.R. 08.06.2001, n. 327, l’acquisizione al patrimonio indisponibile del Comune di un fondo di proprietà del ricorrente utilizzato per scopi di pubblico interesse; nonché degli atti presupposti e connessi.
Va, invero, al riguardo, ricordato che, interpretando la previgente normativa contenuta nell’art. 43 del T.U. sulle espropriazioni, la giurisprudenza amministrativa ha già costantemente precisato che il Consiglio comunale è competente a deliberare tale acquisizione, in quanto tale atto è emesso ab externo al procedimento espropriativo, quindi non è disciplinato dalle relative norme; inoltre, i provvedimenti di acquisizione rientrano a pieno titolo nelle competenze consiliari di cui alla lett. l) dell’art. 42, comma 2, D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, la quale elenca “acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del Consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della Giunta, del segretario o di altri funzionari”, così ricomprendendo anche l’ipotesi di acquisto di immobili mediante lo strumento di diritto pubblico in parola (così, da ultimo, Cons. St., sez. V, 13.10.2010, n. 7472, e sez. III, 31.08.2010, n. 775). Nello stesso senso si è, inoltre, già pronunciato anche questo stesso Tribunale con sentenza 12.01.2010, n. 15, in conformità, peraltro, ad un costante orientamento seguito dagli organi di giustizia amministrativa di primo grado (cfr. TAR Toscana, sez. I, 12.05.2009, n. 817, TAR Emilia Romagna, sez. Parma, 11.06.2008, n. 307, TAR Campania, sede Napoli, 09.01.2008, n. 74, e TAR Calabria, sez. Reggio Calabria, 22.02.2006, n. 322).
Ritiene il Collegio che tale principio sia applicabile anche alla acquisizioni disposte ai sensi dell’art. 42-bis, che ha nella sostanza reintrodotto un meccanismo di acquisizione sanante delle occupazioni illegittime parzialmente analogo a quello disciplinato dal predetto art. 43 (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 07.05.2012 n. 189 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIl partecipante ad una gara non risultato vincitore ha la facoltà (ma non l’onere) di impugnare l’aggiudicazione provvisoria, anche se tale impugnativa non esime il soggetto leso dall’impugnare anche il provvedimento conclusivo della procedura, cioè l’atto di aggiudicazione definitiva.
L'’onere di immediata impugnazione di un bando di gara è limitato alle sole cause escludenti che stabiliscono, con prescrizioni inequivoche, requisiti di partecipazione alla procedura selettiva non posseduti dalla ricorrente o quelle clausole che incidono direttamente sulla formulazione dell’offerta, impedendone la corretta e consapevole elaborazione, per cui la loro lesività può e deve essere immediatamente contestata senza attendere l’esito della gara; mentre va escluso un immediato onere di impugnazione nei riguardi di ogni altra clausola dotata solo di astratta e potenziale lesività, la cui idoneità a produrre una concreta ed attuale lesione può essere valutata unicamente all’esito, non scontato, della medesima procedura e solo nel caso in cui tale esito sia negativo per l’interessato.
Negli appalti pubblici da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa il principio della pubblicità delle operazioni trova applicazione con specifico riferimento anche all’apertura della busta contenente l’offerta tecnica atteso che la pubblicità delle sedute di gara risponde all’esigenza di tutela non solo della parità di trattamento dei concorrenti, ai quali deve essere permesso di effettuare gli opportuni riscontri sulla regolarità formale degli atti prodotti e di avere così la garanzia che non siano successivamente intervenute indebite alterazioni, ma anche dell’interesse pubblico alla trasparenza e all’imparzialità dell’azione amministrativa, le cui conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili ex post una volta rotti i sigilli ed aperti i plichi, in mancanza di un riscontro immediato; con la conseguenza che è illegittima la clausola del bando che prevede, per la fase di apertura delle buste contenenti le offerte tecniche, una seduta riservata, atteso che all’apertura delle buste delle offerte tecniche, come per quelle contenenti la documentazione amministrativa e l’offerta economica, deve procedersi in seduta pubblica, trattandosi di un passaggio essenziale e determinante dell’esito della procedura concorsuale che deve essere presidiata dalle medesime garanzie previste per l’apertura delle buste contenenti la documentazione amministrativa e l'offerta economica, a tutela degli interessi privati e pubblici coinvolti dal procedimento.
Tale principio di pubblicità dei procedimenti di gara, che trova fondamento nel dettato costituzionale (art. 97) e nei principi comunitari, è applicabile in qualunque tipo di gara ed anche agli appalti concernenti i cc. dd. settori esclusi, a nulla rilevando sul punto il silenzio della legge.

Va, invero, ricordato che la giurisprudenza amministrativa ha al riguardo, affermato i seguenti principi dai quali il Collegio non ritiene di potersi discostare:
- che il partecipante ad una gara non risultato vincitore ha la facoltà (ma non l’onere) di impugnare l’aggiudicazione provvisoria, anche se tale impugnativa non esime il soggetto leso dall’impugnare anche il provvedimento conclusivo della procedura, cioè l’atto di aggiudicazione definitiva (Cons. St., sez. V, 31.01.2012, n. 467, e sez. VI, 26.09.2011, n. 5367, e TAR Lazio sede Roma, sez. III, 07.10.2011, n. 7808);
- che l’onere di immediata impugnazione di un bando di gara è limitato alle sole cause escludenti che stabiliscono, con prescrizioni inequivoche, requisiti di partecipazione alla procedura selettiva non posseduti dalla ricorrente (Cons. St., sez. III, 07.12.2011, n. 6466) o quelle clausole che incidono direttamente sulla formulazione dell’offerta, impedendone la corretta e consapevole elaborazione (Cons. St., sez. III, 03.10.2011, n. 5421), per cui la loro lesività può e deve essere immediatamente contestata senza attendere l’esito della gara; mentre va escluso un immediato onere di impugnazione nei riguardi di ogni altra clausola dotata solo di astratta e potenziale lesività, la cui idoneità a produrre una concreta ed attuale lesione può essere valutata unicamente all’esito, non scontato, della medesima procedura e solo nel caso in cui tale esito sia negativo per l’interessato (Cons. St, sez. V, 05.10.2011, n. 5454);
- che negli appalti pubblici da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa il principio della pubblicità delle operazioni trova applicazione con specifico riferimento anche all’apertura della busta contenente l’offerta tecnica atteso che la pubblicità delle sedute di gara risponde all’esigenza di tutela non solo della parità di trattamento dei concorrenti, ai quali deve essere permesso di effettuare gli opportuni riscontri sulla regolarità formale degli atti prodotti e di avere così la garanzia che non siano successivamente intervenute indebite alterazioni, ma anche dell’interesse pubblico alla trasparenza e all’imparzialità dell’azione amministrativa, le cui conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili ex post una volta rotti i sigilli ed aperti i plichi, in mancanza di un riscontro immediato (Cons. St. Ad. Pl., 28.07.2011, n. 13); con la conseguenza che è illegittima la clausola del bando che prevede, per la fase di apertura delle buste contenenti le offerte tecniche, una seduta riservata, atteso che all’apertura delle buste delle offerte tecniche, come per quelle contenenti la documentazione amministrativa e l’offerta economica, deve procedersi in seduta pubblica, trattandosi di un passaggio essenziale e determinante dell’esito della procedura concorsuale che deve essere presidiata dalle medesime garanzie previste per l’apertura delle buste contenenti la documentazione amministrativa e l'offerta economica, a tutela degli interessi privati e pubblici coinvolti dal procedimento (Cons. Stato, sez. III, 04.11.2011, n. 5866).
- che tale principio di pubblicità dei procedimenti di gara, che trova fondamento nel dettato costituzionale (art. 97) e nei principi comunitari, è applicabile in qualunque tipo di gara (Cons. St. sez. V, 25.08.2011, n. 4806) ed anche agli appalti concernenti i cc. dd. settori esclusi, a nulla rilevando sul punto il silenzio della legge (Cons. Stato, sez. V, 05.10.2011, n. 5454) (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 07.05.2012 n. 188 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL’impugnazione di un atto presupposto, di per sé lesivo dell’interesse del privato, consente di soprassedere dalla impugnativa dell’atto consequenziale tutte le volte in cui l’eventuale annullamento del primo sia in grado provocare una automatica caducazione del secondo, vale a dire se il provvedimento successivo abbia carattere meramente esecutivo dell’atto presupposto e si ponga in rapporto di immediata derivazione dall’atto precedente.
Secondo un consolidato orientamento degli organi di giustizia amministrativa- l’impugnazione di un atto presupposto, di per sé lesivo dell’interesse del privato, consente di soprassedere dalla impugnativa dell’atto consequenziale tutte le volte in cui l’eventuale annullamento del primo sia in grado provocare una automatica caducazione del secondo, vale a dire se il provvedimento successivo abbia carattere meramente esecutivo dell’atto presupposto e si ponga in rapporto di immediata derivazione dall’atto precedente (TAR Sicilia, sez. Catania, sez. I, 13.02.2012, n. 383, e TAR Puglia, sez. Lecce, sez. I, 12.05.2011, n. 840) (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 07.05.2012 n. 185 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’amministrazione in ipotesi di segnalazioni sottoscritte, circostanziate e documentate, ha comunque l’obbligo di attivare un procedimento di controllo e verifica dell’abuso della cui conclusione deve restare traccia, sia essa nel senso dell’esercizio dei poteri sanzionatori, che in quella della motivata archiviazione, e ciò in forza dei principi di cui all’art. 2 della legge sul procedimento, dovendosi in particolare escludere che la ritenuta mancanza dei presupposti per l’esercizio dei poteri sanzionatori possa giustificare un comportamento meramente silente.
Non v’è dubbio che la tutelabilità dell’affidamento ingeneratosi in capo al privato circa la legittimità dell’azione amministrativa della quale egli è destinatario sia principio che ha ormai trovato, sulla spinta della giurisprudenza comunitaria, piena cittadinanza pur a fronte di un’attività autoritativa e discrezionale. Fonda le sue ragioni sull’imputabilità all’amministrazione, del comportamento illegittimo che ha prodotto o concorso a produrre un ampliamento della sfera giuridica dell’incolpevole destinatario, giungendo a riconoscere protezione o comunque rilievo alla ragionevole aspettativa nella bontà e stabilità degli effetti che ne derivano in suo favore.
Ciò può predicarsi per i casi di titoli abilitativi in materia edilizia, poi annullati in autotutela dalla stessa amministrazione ed a ben vedere non mancano espresse e specifiche previsioni normative che positivizzano il principio (v. art. 38 dPR 380/2001).
Nel caso dell’abuso edilizio, tuttavia, la situazione è affatto diversa. V’è un soggetto che pone in essere un comportamento contrastante con le prescrizioni dell’ordinamento, che confida nell’omissione dei controlli o comunque nella persistente inerzia dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza. Il fattore tempo non agisce qui in sinergia con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle statuizioni amministrative pregresse, ma opera in antagonismo con l’azione amministrativa sanzionatoria, secondo una logica che al passare del tempo riduce o limita, sino ad annullare, il potere dell’amministrazione di reagire all’illecito, molto simile a quella che presidia i meccanismi decadenziali o quelli prescrizionali nel diritto penale.
Una logica siffatta non può trovare fondamento nei principi generali dell’affidamento né in quelli di efficacia e buon andamento dell’amministrazione, necessitando invece di un’apposita previsione normativa che, agendo sulla patologia dell’inerzia, la sanzioni con l’estinzione o con il mutamento del potere amministrativo esercitabile. In assenza, vale il principio dell’inesauribilità del potere amministrativo di vigilanza e controllo e della sanzionabilità del comportamento illecito dei privati, qualunque sia l’entità dell’infrazione e il lasso temporale trascorso, salve le ipotesi di dolosa preordinazione o di abuso.
E’ quanto costantemente affermato dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato che ha sempre posto l’accento sulla non configurabilità di un affidamento alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, in forza di una legittimazione fondata sul tempo (Cfr. da ultimo, Consiglio Stato, sez. IV, 31/08/2010, n. 3955; sez. V, 27/04/2011, n. 2497; sez. VI, 11/05/2011, n. 2781; sez. I, 30/06/2011, n. 4160).
Giova altresì evidenziare, in linea con quanto dedotto dall’appellante, che anche a prescindere dalla condivisione dell’impostazione di cui sopra, l’amministrazione in ipotesi di segnalazioni sottoscritte, circostanziate e documentate, ha comunque l’obbligo di attivare un procedimento di controllo e verifica dell’abuso della cui conclusione deve restare traccia, sia essa nel senso dell’esercizio dei poteri sanzionatori, che in quella della motivata archiviazione, e ciò in forza dei principi di cui all’art. 2 della legge sul procedimento, dovendosi in particolare escludere che la ritenuta mancanza dei presupposti per l’esercizio dei poteri sanzionatori possa giustificare un comportamento meramente silente (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.05.2012 n. 2592 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Per i soggetti non destinatari di notifica individuale, la decorrenza del termine per impugnare un atto decorre dalla scadenza del termine di pubblicazione all'Albo Pretorio del comune di riferimento.
Le persone direttamente contemplate nell'atto amministrativo a cui, a norma dell'art. 2 r.d. n. 17.08.1907 n. 642, deve essere notificato o comunicato l'atto stesso, non sono soltanto i soggetti menzionati nell'atto, ma anche chi, pur non essendo menzionato, sia in qualche modo da ritenersi destinatario del medesimo. Pertanto, nei confronti di tali soggetti, la pubblicazione dell'atto nelle forme di rito non fa decorrere il termine per l'impugnazione occorrendo, a tal fine, la notificazione o comunicazione individuale, ovvero la prova dell'effettiva conoscenza. Posto che l’ordinanza si dirigeva ad una platea non indeterminata di destinatari, in carenza di prova della notifica della stessa ovvero di piena conoscenza antecedente a quest’ultima, il termine di impugnazione non può farsi decorrere dalla data della (mera) pubblicazione nell’albo pretorio.

E' noto che per pacifica giurisprudenza per i soggetti non destinatari di notifica individuale, la decorrenza del termine per impugnare un atto decorre dalla scadenza del termine di pubblicazione all'Albo Pretorio del comune di riferimento.
E’ altresì pacifico, però (ex multis si veda Consiglio Stato, sez. VI, 14.01.2002, n. 151) che le persone direttamente contemplate nell'atto amministrativo a cui, a norma dell'art. 2 r.d. n. 17.08.1907 n. 642, deve essere notificato o comunicato l'atto stesso, non sono soltanto i soggetti menzionati nell'atto, ma anche chi, pur non essendo menzionato, sia in qualche modo da ritenersi destinatario del medesimo. Pertanto, nei confronti di tali soggetti, la pubblicazione dell'atto nelle forme di rito non fa decorrere il termine per l'impugnazione occorrendo, a tal fine, la notificazione o comunicazione individuale, ovvero la prova dell'effettiva conoscenza.
Posto che l’ordinanza si dirigeva ad una platea non indeterminata di destinatari, in carenza di prova della notifica della stessa ovvero di piena conoscenza antecedente a quest’ultima, il termine di impugnazione non può farsi decorrere dalla data della (mera) pubblicazione nell’albo pretorio (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.05.2012 n. 2591 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: La comunicazione dell'avvio del procedimento prevista dall'art. 7, L. 07.08.1990 n. 241, non è necessaria nel caso di approvazione del progetto preliminare di un'opera pubblica, atteso che tale comunicazione occorre solo nel caso in cui sia stato approvato il progetto definitivo dell’opera, al quale è riconnessa per implicito anche
Non sussiste alcun obbligo dell'Amministrazione di comunicare l'avvio del procedimento ex art. 7 L. n. 241/1990 relativamente all'approvazione del progetto preliminare, il quale non è nemmeno di per sé un atto autonomamente impugnabile, in quanto solo endoprocedimentale, diversamente dai progetti definitivo ed esecutivo, impugnabili poiché in grado di ledere la posizione giuridica soggettiva del singolo.
Osserva la Sezione che la problematica così sollevata è stata da tempo risolta dalla giurisprudenza, che con orientamento consolidato –dal quale non si rinvengono ragioni per discostarsi- ha chiarito che la comunicazione dell'avvio del procedimento prevista dall'art. 7, L. 07.08.1990 n. 241, non è necessaria nel caso di approvazione del progetto preliminare di un'opera pubblica, atteso che tale comunicazione occorre solo nel caso in cui sia stato approvato il progetto definitivo dell’opera, al quale è riconnessa per implicito anche la dichiarazione di pubblica utilità, come previsto dall'art. 14, comma 13, L. 11.02.1994 n. 109 (C.d.S., IV, 29.05.2009, n. 3364; 11.04.2007, n. 1668; 14.12.2002, n. 6917; 26.09.2001, n. 5070).
Non sussiste, quindi, alcun obbligo dell'Amministrazione di comunicare l'avvio del procedimento ex art. 7 L. n. 241/1990 relativamente all'approvazione del progetto preliminare (IV, 03.08.2010, n. 5155), il quale non è nemmeno di per sé un atto autonomamente impugnabile, in quanto solo endoprocedimentale, diversamente dai progetti definitivo ed esecutivo, impugnabili poiché in grado di ledere la posizione giuridica soggettiva del singolo (IV, 22.06.2006, n. 3949) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 03.05.2012 n. 2535 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Al privato non è chiesto un particolare sforzo probatorio per dimostrare la colpa della p.a., potendo invocare l’illegittimità del provvedimento quale presunzione semplice della colpa e anche allegare circostanze ulteriori idonee a dimostrare che non si è trattato di errore scusabile. Spetterà all’amministrazione di provare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile, secondo il suddetto orientamento giurisprudenziale, nel caso di contrasto giurisprudenziale sull’interpretazione di una norma o di comportamenti di altri soggetti o di applicazione di una norma successivamente dichiarata incostituzionale.
Secondo l’orientamento prevalente, al privato non è chiesto un particolare sforzo probatorio per dimostrare la colpa della p.a., potendo invocare l’illegittimità del provvedimento quale presunzione semplice della colpa e anche allegare circostanze ulteriori idonee a dimostrare che non si è trattato di errore scusabile. Spetterà all’amministrazione di provare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile, secondo il suddetto orientamento giurisprudenziale, nel caso di contrasto giurisprudenziale sull’interpretazione di una norma o di comportamenti di altri soggetti o di applicazione di una norma successivamente dichiarata incostituzionale (Cons. Stato, sez. V. 12.02.2008, n. 491; sez. VI, 03.06.2006, n. 3981; 09.03.2007, n. 1114).
L’accertata illegittimità dell’atto ritenuto lesivo dall’interessata rappresenta, quindi, indice grave preciso e concordante della colpa dell’amministrazione, in quanto la decisione del giudice indica la violazione del parametro che specifica la colpa dell’amministrazione (Cons. stato, V. n. 4239 del 2001).
Ciò posto in via di principio, nel caso in esame, l’accertamento contenuto nella sentenza del TAR Campania n. 2308 del 1997 confermata in appello con decisione del Consiglio di Stato, sezione IV, n. 5734 del 2000 che affermava “alla data del bando, 24.09.1995, la Allianz Subalpina poteva vantare quale proprio fatturato del 1994 non solo quello dell’Unione subalpina d’Assicurazioni s.p.a. ma anche quello della Allainz Pace assicurazioni e riassicurazioni s.p.a., in quanto di queste ultime società l’Unione Subalpina –era divenuta per effetto della fusione per incorporazione– l’avente causa a titolo universale”) costituisce indizio grave e preciso della colpa dell’amministrazione.
Quanto alle difficoltà interpretative delle norme sul diritto societario ed in particolare sulla fusione per incorporazione, addotte dall’amministrazione regionale ad errore scusabile e, quindi, ad errore non rimproverabile, non costituiscono esimente per l’amministrazione che ben poteva acquisire pareri legali nell’incertezza interpretativa delle norme in materia.
Invero, nemmeno appaiono ipotizzabili tali difficoltà interpretative in presenza della chiara dizione della norma codicistica che stabilisce che “una volta avvenuta la fusione, questa produce tutti i suoi effetti, compresa l’imputazione al nuovo soggetto dei rapporti facenti capo ai soggetti che danno luogo alla fusione” (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 03.05.2012 n. 2534 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La valutazione della gravità delle condanne riportate dai concorrenti di una gara pubblica ed alla loro incidenza sulla moralità professionale, spetta alla Stazione Appaltante e non al concorrente medesimo che non può operare a monte alcun "filtro" sulla base di una selezione compiuta secondo criteri personali ed è obbligato ad indicare tutte le condanne riportate.
Lo ha affermato la Sez. VI del Consiglio di Stato con la sentenza 02.05.2012 n. 2507 che ha confermato una sentenza di primo grado del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia che aveva respinto il ricorso presentato contro l'esclusione da una gara per la mancata dichiarazione della condanna riportata dall'amministratore unico dell'impresa ausiliaria per la violazione di una norma relativa alla prevenzione degli infortuni sul lavoro, dichiarazione resa obbligatoria dal disciplinare di gara.
In particolare, la parte appellante ha sostenuto che l'obbligo di dichiarazione delle condanne deve essere riferito alle clausole di esclusione di cui all'art. 38, comma 1, del d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (Codice degli Appalti), tra le quali non può essere ricondotta la condanna in esame, riportata nel 1996 e relativa ad ammenda di 250.000 lire, per la quale è stata concessa la riabilitazione.
I giudici del Consiglio di Stato, confermando quanto sostenuto dal primo giudice, non ha condiviso la tesi dell'appellante in quanto ha precisato che l'esclusione in questione non deriva dall'applicazione del Codice degli Appalti, bensì da quanto espressamente previsto dal disciplinare di gara che, all'art. 2.1, pretendeva la dichiarazione di "tutti i reati commessi, anche se ritenuti non rilevanti o non incidenti sulla moralità professionale: la dichiarazione deve comprendere anche….gli eventuali provvedimenti di riabilitazione …Ogni difformità tra quanto risultante dal predetto certificato del casellario giudiziale e la dichiarazione resa, a prescindere dalla natura del reato, comporterà l'esclusione del concorrente dalla gara e la sua segnalazione alle competenti Autorità".
Dunque, la mancata dichiarazione della condanna di cui è causa è, di per sé, indipendentemente dalla qualificazione del reato e della sua gravità, causa di esclusione dalla gara, non, quindi, in forza della riconducibilità della condanna alle fattispecie individuate dall'art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006, ma in quanto omissione di un adempimento specificamente richiesto dalla legge della gara, che rileva in quanto indice di una non completa aderenza alla disciplina precontrattuale delineata dall'Amministrazione.
Le valutazioni in ordine alla gravità delle condanne riportate dai concorrenti ed alla loro incidenza sulla moralità professionale spettano alla stazione appaltante e non al concorrente medesimo: questi è comunque tenuto a indicare tutte le condanne riportate, non potendo operare a monte alcun "filtro" sulla base di una selezione compiuta secondo criteri personali. Ciò è tanto più evidente nel caso di specie nel quale, come si è detto, lo stesso disciplinare di gara specificava l'estensione dell'obbligo.
L'omissione, o la non veridicità, della dichiarazione in ordine al possesso dei requisiti necessari per la partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti pubblici, specificamente richiesta dal disciplinare nella fattispecie in esame, rileva, quindi, non solo in quanto non consente alla stazione appaltante una completa valutazione dell'affidabilità del concorrente, ma anche, e soprattutto, in quanto interrompe il nesso fiduciario che necessariamente deve presiedere ai rapporti tra pubblica Amministrazione e soggetto aggiudicatario del contratto posto in gara (commento tratto da www.lavoripubblici.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Conferenza di servizi: ricorso va notificato agli atti impugnabili autonomamente.
Come infatti segnalato dalla giurisprudenza, l’utilizzo del modulo procedimentale della conferenza di servizi -che come tale non configura un ufficio speciale della p.a., autonomo rispetto ai soggetti che vi partecipano- non altera le regole che presiedono, in via ordinaria e generale, all’individuazione delle autorità emananti, con la conseguenza che il ricorso va notificato a tutte le amministrazioni che, nell’ambito della conferenza, hanno espresso pareri o determinazioni che la parte ricorrente avrebbe avuto l’onere di impugnare autonomamente, se fossero stati emanati al di fuori del peculiare modulo procedimentale in esame (Cons. St., sez. VI, 03.03.2010, n. 1248) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.05.2012 n. 2488 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La giunta ed il consiglio comunale non possono effettuare valutazioni che contrastino con quelle già formalizzate con il piano regolatore. Infatti, se un’area è stata da questo destinata all’edificazione, nel corso del procedimento di approvazione del piano attuativo non è giuridicamente possibile che la medesima area non vada considerata in concreto edificabile ‘per ragioni ambientali e paesaggistiche’, e cioè sulla base di valutazioni diametralmente opposte a quelle già poste a base dello strumento primario che ha previsto l’edificabilità sul piano urbanistico. Ove emergano le relative ragioni, può essere attivato il procedimento per la modifica del piano regolatore, ma –sul piano urbanistico- non può essere respinto il progetto di lottizzazione conforme allo strumento primario.
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Stante lo stretto collegamento tra la pianificazione generale comunale e l’individuazione della rete viaria necessaria all’attuazione delle scelte di piano, è “evidente come la valutazione dei temi della viabilità, e quindi della sufficienza dei collegamenti esterni all’area oggetto di lottizzazione, non sia un elemento da sviluppare in occasione dell’approvazione del piano di lottizzazione, che ha natura attuativa, ma debba essere contenuto, a monte, nello strumento urbanistico generale il quale, sulla base di una previsione complessiva dei temi della gestione del territorio, è il mezzo giuridico funzionalmente idoneo a dare ingresso alle tematiche della circolazione nell’ambito del territorio comunale”.
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L’azione del Comune che, intervenendo su una propria precedente determinazione nell’ambito del governo del territorio, incide sulle situazioni giuridiche dei terzi, non è di per sé illegittima, essendo certamente esplicazione di una potestà generale di ordine per la fruizione del bene comune, ma in quanto tale rimane soggetta alle regole generali dell’azione amministrativa, prima tra tutte quella di rendere conto delle ragioni del proprio agire. Ed in questo senso, la motivazione non è un mero elemento accessorio, ma si presenta conformato dalle vicende antecedenti, tant’è che, se il Comune decide di modificare il proprio avviso, deve dare contezza non solo delle ragioni inerenti alla scelta concretamente attuata, ma anche specificare i presupposti per l’intervenuto mutamento.
Tanto si è affermato, ad esempio, nelle decisioni sopra citate, in relazione al tema della viabilità di accesso ad un’area lottizzata, precedentemente ritenuta sufficiente in sede di adozione del piano regolatore generale e poi invece considerata inadeguata, senza altri mutamenti della situazione di fatto, al momento dell’approvazione del progetto di lottizzazione.

Questa Sezione ha già avuto modo di soffermarsi in più occasioni sulla questione della riconsiderazione successiva, da parte dell’ente territoriale competente, di elementi cognitivi già precedentemente valutati in ordine all’adozione di uno strumento urbanistico, anche eventualmente susseguente alla concorde volontà della parte privata interessata, evidenziando come, a fronte di una generale potestà di intervento a tutela dell’ordinato governo del territorio, debbano essere comunque fatti salvi gli strumenti di controllo dell’azione amministrativa, anche penetrando nei percorsi motivazionali che vengano utilizzati per giustificare il mutato atteggiamento.
In questo senso, ad esempio, si è affermato che, con la decisione n. 4368 del 16.09.2008, che “la giunta ed il consiglio comunale non possono effettuare valutazioni che contrastino con quelle già formalizzate con il piano regolatore. Infatti, se un’area è stata da questo destinata all’edificazione, nel corso del procedimento di approvazione del piano attuativo non è giuridicamente possibile che la medesima area non vada considerata in concreto edificabile ‘per ragioni ambientali e paesaggistiche’, e cioè sulla base di valutazioni diametralmente opposte a quelle già poste a base dello strumento primario che ha previsto l’edificabilità sul piano urbanistico. Ove emergano le relative ragioni, può essere attivato il procedimento per la modifica del piano regolatore, ma –sul piano urbanistico- non può essere respinto il progetto di lottizzazione conforme allo strumento primario”.
Secondo lo stesso ordine argomentativo, si è successivamente affermato, con sentenza n. 5485 del 06.10.2011, che, stante lo stretto collegamento tra la pianificazione generale comunale e l’individuazione della rete viaria necessaria all’attuazione delle scelte di piano, è “evidente come la valutazione dei temi della viabilità, e quindi della sufficienza dei collegamenti esterni all’area oggetto di lottizzazione, non sia un elemento da sviluppare in occasione dell’approvazione del piano di lottizzazione, che ha natura attuativa, ma debba essere contenuto, a monte, nello strumento urbanistico generale il quale, sulla base di una previsione complessiva dei temi della gestione del territorio, è il mezzo giuridico funzionalmente idoneo a dare ingresso alle tematiche della circolazione nell’ambito del territorio comunale”.
Come appare palmare, l’azione del Comune che, intervenendo su una propria precedente determinazione nell’ambito del governo del territorio, incide sulle situazioni giuridiche dei terzi, non è di per sé illegittima, essendo certamente esplicazione di una potestà generale di ordine per la fruizione del bene comune, ma in quanto tale rimane soggetta alle regole generali dell’azione amministrativa, prima tra tutte quella di rendere conto delle ragioni del proprio agire. Ed in questo senso, la motivazione non è un mero elemento accessorio, ma si presenta conformato dalle vicende antecedenti, tant’è che, se il Comune decide di modificare il proprio avviso, deve dare contezza non solo delle ragioni inerenti alla scelta concretamente attuata, ma anche specificare i presupposti per l’intervenuto mutamento.
Tanto si è affermato, ad esempio, nelle decisioni sopra citate, in relazione al tema della viabilità di accesso ad un’area lottizzata, precedentemente ritenuta sufficiente in sede di adozione del piano regolatore generale e poi invece considerata inadeguata, senza altri mutamenti della situazione di fatto, al momento dell’approvazione del progetto di lottizzazione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.04.2012 n. 2466 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - COMPETENZE GESTIONALI: Ai sensi dell’art. 107 D.Lgs. n. 267/2000, tra le attribuzioni dirigenziali, figura espressamente anche quella di assumere la presidenza delle commissioni di gara.
L’ampliamento della sfera di responsabilità, facenti capo al dirigente, delineatosi a seguito della privatizzazione del pubblico impiego, infatti, ha rafforzato l’esigenza che il medesimo dirigente sia posto in grado di seguire, in prima persona, le procedure dei cui esiti è responsabile.
Così come non vi è incompatibilità tra le funzioni di presidente della commissione di gara e quella di responsabile del procedimento, analogamente deve ritenersi nel caso di un dirigente dell’ente locale che ha svolto le funzioni di presidente del seggio e di responsabile del procedimento al quale sia stato anche attribuito il compito di approvare gli atti della commissione di gara.
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Il potere di nominare una commissione con funzioni di carattere istruttorio, trattandosi di gara aggiudicata secondo il criterio del massimo ribasso, rientra nei poteri del dirigente responsabile del settore e che la decisione di chiedere giustificazioni in merito alla propria offerta anormalmente bassa da parte del Presidente deriva proprio dal fatto che tale Commissione ha compiti soltanto istruttori e non deliberativi.

In primo luogo l’impresa ricorrente in primo grado lamenta la sussistenza di un ulteriore conflitto d’interessi per il fatto che l’ing. Nicola Anaclerio, quale Dirigente del Settore Viabilità (settore preposto alla gara di appalto in esame) abbia svolto anche le funzioni di Presidente della commissione di gara, oltre a quelle di RUP.
Tuttavia, la giurisprudenza della Sezione (cfr. Consiglio di Stato, Sezione V, 22.06.2010, n. 3890 e 12.06.2009 n. 3716) ha già messo in evidenza che, ai sensi dell’art. 107 D.Lgs. n. 267/2000, tra le attribuzioni dirigenziali, figura espressamente anche quella di assumere la presidenza delle commissioni di gara.
L’ampliamento della sfera di responsabilità, facenti capo al dirigente, delineatosi a seguito della privatizzazione del pubblico impiego, infatti, ha rafforzato l’esigenza che il medesimo dirigente sia posto in grado di seguire, in prima persona, le procedure dei cui esiti è responsabile.
Così come non vi è incompatibilità tra le funzioni di presidente della commissione di gara e quella di responsabile del procedimento, analogamente deve ritenersi nel caso di un dirigente dell’ente locale che ha svolto le funzioni di presidente del seggio e di responsabile del procedimento al quale sia stato anche attribuito il compito di approvare gli atti della commissione di gara.
Con un ulteriore motivo di ricorso in primo grado si contesta che il bando non prevedesse la nomina di una commissione e che, comunque, il dirigente (presidente del seggio di gara) avrebbe preso, senza un deliberato della commissione, l’iniziativa di chiedere alla soc. ricorrente in primo grado giustificazioni sull’offerta anomala da essa presentata, nonché di chiedere ulteriori precisazioni sulle giustificazioni presentate ed infine di convocarla successivamente in audizione dinanzi alta commissione.
Il Collegio osserva che il potere di nominare una commissione con funzioni di carattere istruttorio, trattandosi di gara aggiudicata secondo il criterio del massimo ribasso, rientra nei poteri del dirigente responsabile del settore e che la decisione di chiedere giustificazioni in merito alla propria offerta anormalmente bassa da parte del Presidente deriva proprio dal fatto che tale Commissione ha compiti soltanto istruttori e non deliberativi; peraltro, la stessa Commissione aveva evidenziato tale necessità nel corpo del verbale della seduta n. 1 dell’11.12.2009 (cfr. doc. n. 3 appellante, recante copia di tutti i verbali di gara).
Identicamente, la decisione di convocare l’impresa in audizione dinanzi alla commissione è stata prefigurata dalla stessa commissione nella seduta n. 14 dell’08.03.2010, in cui la commissione, collegialmente, ha predisposto e riportato a verbale anche il testo della nota da inviare all’impresa.
Anche la censura circa la violazione dell’art. 84, comma 10, D.Lgs. n. 163/2006, è infondata; la situazione per cui la commissione in oggetto sarebbe stata nominata e si sarebbe costituita lo stesso giorno nel quale scadeva il termine per la presentazione delle offerte è assolutamente inconferente rispetto a quanto disposto dalla surrichiamata norma, non riguardando essa il collegio tecnico di supporto nominato per valutare l’anomalia dell’offerta.
Tale disposizione, infatti, concernendo gli appalti aggiudicati con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, non può trovare alcuna applicazione nella procedura de qua che è regolata interamente secondo il criterio dell’offerta più bassa.
Le ulteriori doglianze, volte a contestare il giudizio della commissione in ordine alla non congruità delle giustificazioni e delle successive precisazioni addotte dall’impresa a fronte dell’offerta anormalmente bassa da essa presentata, sono da ritenersi inammissibili.
Nel caso di specie, infatti, le valutazioni si sottraggono a tutte le censure proposte a mezzo del ricorso per motivi aggiunti di primo grado e in sede di appello riproposto, non ravvisandosi profili tali di macroscopica erroneità e di evidente incongruenza, in presenza della correttezza metodologica seguita dalla stazione appaltante e delle conclusioni, formulate, circa l’analisi sia dei singoli prezzi e del loro valore ponderale, in rapporto alle lavorazioni previste in progetto, sia del prezzo complessivamente offerto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.04.2012 n. 2445 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa violazione di oneri formali imposti a pena di esclusione dalla lex specialis esprime la prevalenza del principio di formalità collegato alla garanzia della par condicio che, in assenza di clausole equivoche o di significato oscuro, non può essere superato dall’opposto principio del favor partecipationis.
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Il provvedimento di espulsione da una gara d’appalto costituisce atto vincolato rispetto alla clausola del bando che indica le modalità di presentazione dei documenti a pena di esclusione, in quanto in sede di aggiudicazione di contratti con la p.a. la stazione appaltante è tenuta ad applicare in modo rigoroso ed incondizionato le clausole inserite nella lex specialis relative ai requisiti, formali e sostanziali, di partecipazione ovvero alle cause di esclusione. Il formalismo che caratterizza la disciplina delle procedure di gara risponde, per un verso, ad esigenze pratiche di certezza e celerità e, per altro verso, alla necessità di garantire l’imparzialità dell’azione amministrativa e la parità di condizioni tra i ricorrenti.
Dunque, i formalismi richiesti espressamente e tassativamente dalle prescrizioni di gara costituiscono lo strumento tipico con il quale si rende trasparente la discrezionalità amministrativa e si pongono tutti i concorrenti sullo stesso piano partecipativo, richiedendo loro un eguale impegno di diligenza, attenzione e rispetto verso le clausole dei bandi e dei capitolati.
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Deve ritenersi applicabile a qualunque procedura selettiva il principio, predicato con riferimento a procedure ad evidenza pubblica, per cui qualora il bando commini l’esclusione obbligatoria in conseguenza di determinate violazioni, anche soltanto formali, l’amministrazione è tenuta a dare precisa ed incondizionata esecuzione a tali previsioni, essendole preclusa qualunque valutazione discrezionale circa la rilevanza dell’inadempimento e l’incidenza di questo sulla regolarità della procedura selettiva o ancora sulla congruità della sanzione contemplata nella lex specialis, alla cui osservanza la stessa amministrazione si è autovincolata al momento dell’adozione del bando.

In applicazione del principio “secondo il quale la violazione di oneri formali imposti a pena di esclusione dalla lex specialis esprime la prevalenza del principio di formalità collegato alla garanzia della par condicio che, in assenza di clausole equivoche o di significato oscuro, non può essere superato dall’opposto principio del favor partecipationis” (Tar Sicilia Catania, III, 07.04.2011, n. 854; v. anche Tar Molise, 07.10.2009, n. 669; Tar Campania Napoli, I, 23.04.2009, n. 2147; Consiglio Stato, 05.09.2007, n. 4644), correttamente la p.a. escludeva dalla gara l’odierna ricorrente principale (la giurisprudenza, in definitiva, pone in rilievo come il provvedimento di espulsione da una gara d’appalto costituisca “atto vincolato rispetto alla clausola del bando che indica le modalità di presentazione dei documenti a pena di esclusione, in quanto in sede di aggiudicazione di contratti con la p.a. la stazione appaltante è tenuta ad applicare in modo rigoroso ed incondizionato le clausole inserite nella lex specialis relative ai requisiti, formali e sostanziali, di partecipazione ovvero alle cause di esclusione. Il formalismo che caratterizza la disciplina delle procedure di gara risponde, per un verso, ad esigenze pratiche di certezza e celerità e, per altro verso, alla necessità di garantire l’imparzialità dell’azione amministrativa e la parità di condizioni tra i ricorrenti.
Dunque, i formalismi richiesti espressamente e tassativamente dalle prescrizioni di gara costituiscono lo strumento tipico con il quale si rende trasparente la discrezionalità amministrativa e si pongono tutti i concorrenti sullo stesso piano partecipativo, richiedendo loro un eguale impegno di diligenza, attenzione e rispetto verso le clausole dei bandi e dei capitolati
”; Tar Lazio Roma, III, 01.06.2011, n. 4984.
E ancora: “deve ritenersi applicabile a qualunque procedura selettiva il principio, predicato con riferimento a procedure ad evidenza pubblica, per cui qualora il bando commini l’esclusione obbligatoria in conseguenza di determinate violazioni, anche soltanto formali, l’amministrazione è tenuta a dare precisa ed incondizionata esecuzione a tali previsioni, essendole preclusa qualunque valutazione discrezionale circa la rilevanza dell’inadempimento e l’incidenza di questo sulla regolarità della procedura selettiva o ancora sulla congruità della sanzione contemplata nella lex specialis, alla cui osservanza la stessa amministrazione si è autovincolata al momento dell’adozione del bando”; Tar Lombardia Milano, I, 14.12.2011, n. 3158; Tar Trentino Alto Adige Trento, 10.02.2011, n. 38; Cons. Stato, V, 16.03.2010, n. 1513) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 27.04.2012 n. 731 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROFESSIONALIProve su terre e rocce, la direzione è del geologo.
Vittoria per i geologi. Va annullata la circolare ministeriale in cui si prevede che anche un architetto o ingegnere possano diventare direttori dei laboratori autorizzati per l'esecuzione e la certificazione di prove su terre e rocce di cui all'articolo 59 del testo unico sull'edilizia.

È quanto emerge dalla
sentenza 26.04.2012 n. 3757, pubblicata dalla III Sez. del TAR Lazio-Roma.
Sanatoria esclusa - Veniamo al merito: in mancanza di indicazioni più precise, è necessario rifarsi alle leggi professionali. E il prelievo e l'esame di campioni dal terreno rientra nell'ambito delle competenze dei geologi, anche se nelle opere geotecniche hanno voce in capitolo anche gli ingegneri civili. Deve allora essere bocciato l'atto esplicativo pubblicato nel 2010 dal ministero delle Infrastrutture laddove prevede indifferentemente la laurea in architettura e in ingegneria, oltre che in geologia, come titolo per sedere al vertice dei laboratori autorizzati: il direttore, infatti, non ha soltanto compiti gestionali ma è l'autorità che certifica i risultati delle analisi svolte.
Il ricorso proposto dal Consiglio nazionale dei geometri, tuttavia, è solo parzialmente fondato: rientra nell'ampia discrezionalità dell'amministrazione disciplinare le autorizzazioni già rilasciate, comunque valide ed efficaci. E la prescrizione non appare irragionevole: non prevede una generale sanatoria, ma richiede l'adeguamento al nuovo regime.
Forma e sostanza - Inutile, per l'avvocatura dello stato, contestare l'impugnazione della circolare: l'interesse immediato ad agire sussiste senza necessità di attendere l'atto applicativo, a patto che il provvedimento amministrativo incida direttamente su posizioni giuridiche soggettive o contenga disposizioni integrative dell'ordinamento e non solo interpretative. L'atto impugnato porta sì la denominazione di «circolare», ma è in realtà ha contenuto normativo, perché introduce prescrizioni sull'autorizzazione ai laboratori con rilevanza esterna e non risulta soltanto indirizzata agli uffici.
Ciò che viene dedotto innanzi al giudice amministrativo è l'illegittimità dei criteri dettati dall'amministrazione nell'ambito del potere di disciplinare l'autorizzazione di cui al testo unico dell'edilizia. E la disciplina si deve ritenere immediatamente impugnabile di fronte al Tar perché può determinare di per sé un «vulnus» immediato nell'interesse dei destinatari delle norme. Vale a dire i geologi (articolo ItaliaOggi del 12.05.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Aria. Installazione impianto di verniciatura industriale.
La installazione di un impianto di verniciatura industriale con due camini di aspirazione per le emissioni in atmosfera, in una azienda per attività di carrozzeria che non prevedeva tale tipo di lavorazione, costituisce indubbiamente una modificazione sostanziale dello stabilimento soggetta anche essa a preventiva autorizzazione, la cui carenza è punita con la stessa pena di quella prevista per la totale mancanza di autorizzazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.04.2012 n. 15500 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATANon comporta piena conoscenza, tale da far decorrere il termine di impugnazione di un diniego di titolo edilizio, la conoscenza del provvedimento da parte dei professionisti incaricati della progettazione.
Invero, l'incarico professionale, in difetto di prova contraria, non comprende la rappresentanza nella totalità della gestione degli affari del soggetto, ivi compresi i rapporti con la p.a. e ciò anche in presenza di autorizzazione a trasmettere comunicazioni inerenti la pratica edilizia presso lo studio del professionista incaricato della progettazione, nel caso di specie rilasciata dai ricorrenti all’atto della richiesta del permesso di costruire.
Conseguentemente il termine decadenziale per la proposizione del ricorso non può decorrere dal giorno della notifica del provvedimento presso il progettista, ma ragionevolmente dal momento in cui le parti hanno avuto piena conoscenza dell’atto

Il Collegio deve rilevare che secondo un condiviso orientamento giurisprudenziale non comporta piena conoscenza, tale da far decorrere il termine di impugnazione di un diniego di titolo edilizio, la conoscenza del provvedimento da parte dei professionisti incaricati della progettazione (cfr. TAR Liguria Genova, I, 06.02.2010, n. 303).
Invero, l'incarico professionale, in difetto di prova contraria, non comprende la rappresentanza nella totalità della gestione degli affari del soggetto, ivi compresi i rapporti con la p.a. e ciò anche in presenza di autorizzazione a trasmettere comunicazioni inerenti la pratica edilizia presso lo studio del professionista incaricato della progettazione, nel caso di specie rilasciata dai ricorrenti all’atto della richiesta del permesso di costruire.
Conseguentemente il termine decadenziale per la proposizione del ricorso non può decorrere dal giorno della notifica del provvedimento presso il progettista, ma ragionevolmente dal momento in cui le parti hanno avuto piena conoscenza dell’atto (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 23.04.2012 n. 712 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Omessa denuncia di opere in conglomerato cementizio armato.
Il reato di omessa denuncia delle opere in conglomerato cementizio armato (artt. 65 e 72, d.P,R. 06.06.2001, n. 380), in quanto reato omissivo proprio, è configurabile in capo al costruttore, essendo imposto dalla legge, in via esclusiva a carico di quest'ultimo, l'obbligo di denuncia, sicché, non essendo destinatario del suddetto obbligo, nessun altro soggetto è tenuto a rispondere del reato de quo.
In particolare, il reato omissivo non si estende al direttore dei lavori, in capo al quale non sussiste l'obbligo di impedire l'omissione della denuncia in questione. Altri soggetti, come il committente o il direttore dei lavori, potranno rispondere del reato in esame soltanto quando abbiano in concreto compiuto atti tali da configurare un concorso materiale o morale con il costruttore, come, ai esempio, quando la denuncia sia stata omessa proprio su istigazione di chi ha ordinato i lavori (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.04.2012 n. 15184 - tratto da www.lexambiente.it).

URBANISTICA: Convenzione di lottizzazione.
La lottizzazione di un'area si completa e diviene perfetta con la stipula della convenzione con la quale -unitamente al piano di riferimento- vengono definiti il progetto lottizzatorio e la volumetria dell'intero comparto (indice territoriale), con corrispondente assunzione da parte del soggetto attuatore di tutti gli obblighi di urbanizzazione necessari alla realizzazione del comparto edificatorio stesso; la stipula rappresenta pertanto la condizione di efficacia del provvedimento di autorizzazione alla lottizzazione. Soggetto attuatore del piano di lottizzazione è quindi, chi stipula la convenzione di lottizzazione e poi costruisce o vende i singoli lotti, dopo avere eseguito le opere di urbanizzazione o ceduto le aree ai Comune per l'esecuzione di esse, attuando cosi direttamente, ovvero per mezzo degli acquirenti dei lotti, la convenzione.
Seppure il piano di lottizzazione abbia fissato la volumetria massima edificabile su ciascun lotto, nulla toglie che possa essere realizzata volumetria inferiore (od al limite nessuna volumetria) ed è perciò possibile che alcuni lotti non vengano affatto edificati, oppure è anche possibile concentrare le quantità edificabili su lotti contigui, sempre che vengano rispettate la volumetria consentita, le distanze e la destinazione d'uso dei fabbricati e previa approvazione di un nuovo piano di lottizzazione, ove quello precedente venga significativamente variato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.04.2012 n. 14849 - tratto da www.lexambiente.it).

APPALTI: Il mancato ricorso alle procedure di evidenza pubblica può comportare una perdita di chance risarcibile.
Con la decisione in commento la quinta sezione del Consiglio di Stato ha fatto il punto della risarcibilità della perdita di chance nella materia degli appalti pubblici. Il caso è offerto dalla vicenda dell’affidamento in house alla Fondazione Petruzzelli della gestione del teatro Piccinni del comune di Bari. Il consorzio di cooperative che fino a quel momento aveva gestito il Teatro comunale di Bari ha impugnato la decisione del Comune di affidare il medesimo patrimonio con trattativa privata alla Fondazione e per questo ha chiesto anche il risarcimento danni.
La difesa del Comune ha sostenuto l’insussistenza dell’elemento soggettivo della colpa e comunque la mancanza di chance da parte del consorzio in ordine all’affidamento, secondo il comune non vi sarebbe dimostrazione della possibilità di aggiudicare la gestione all’esito di un ipotetico confronto competitivo svolto secondo un metodo selettivo. L’assunto del comune non ha trovato l’assenso del Consiglio di Stato il quale anzi ha proceduto alla confutazione delle presunzioni della difesa comunale.
Nello specifico i magistrati amministrativi hanno chiarito che “la risarcibilità della chance, la quale consiste nella ragionevole probabilità, già presente nel patrimonio del danneggiato, di conseguire un risultato economico utile, non è evidentemente subordinata all’offerta in giudizio di una prova in termini di certezza, perché ciò è logicamente incompatibile con la natura di tale voce di danno, appalesandosi invece sufficiente che gli elementi addotti, in virtù dell’inderogabile principio contenuto nell’art. 2697 c.c., consentano una prognosi concreta e ragionevole circa la possibilità di vantaggi futuri, invece impediti a causa della condotta illecita altrui. La chance costituisce infatti lo strumento concettuale grazie al quale sono ammessi alla tutela risarcitoria aspettative di incremento patrimoniale, vantaggi proiettati nel futuro, attraverso una attualizzazione della relativa possibilità di conseguirli (segnalandosi per configurare, simultaneamente, una posizione sostanziale “derivata” dall’utilità finale che la prefigura e una “tecnica” di liquidazione del danno, connessa al tipo di elemento patrimoniale indeterminato a priori, ma comunque determinabile, sotteso alla peculiare situazione sostanziale vulnerata).
Tipica ipotesi nelle quali è invocata la perdita di chance è quella di conseguire l’aggiudicazione di un appalto, come dimostra l’ampia casistica registratasi presso la giurisprudenza amministrativa già all’indomani del superamento del dogma dell’irrisarcibilità dell’interesse legittimo, essendosi al riguardo affermato che essa ha natura di bene giuridico autonomo, dotata di rilevanza giuridica ed economica, e caratterizzata dall’elemento prognostico-probabilistico, in quanto legato agli esiti non conoscibili di una ipotetica procedura di affidamento. (C.d.S., Sez. VI, 07/02/2002, n. 686; da ultimo Sez. III, 30/05/2011, n. 3243; sez. V, 07/07/2011, n. 4052)
.”
Peraltro -sostiene il Consiglio di Stato- il fatto che l’affidamento diretto sia stato preceduto da una procedura negoziata con esito negativo, non esclude che ci sia perdita di chance, in quanto la medesima è perorata in ragione del mancato ricorso a procedure ad evidenza pubblica. D’altro canto la posizione del consorzio di cooperative era tale da far qualificare la sua posizione certamente differenziata e qualificata alla luce dei principi di matrice comunitaria di pubblicità, massima concorrenzialità e trasparenza considerato il fatto che lo stesso consorzio è stato precedente affidatario del servizio per un quinquennio (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.04.2012 n. 2276 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICIFuori dall'appalto chi non fa il tagliando alla Soa.
Fuori dalla gara d'appalto chi non fa il tagliando alla Soa. L'attestazione, infatti, vale cinque anni a patto che l'azienda chieda tempestivamente e superi la verifica triennale e risulta sempre necessaria in ogni fase che riguarda l'affidamento dell'opera pubblica.

La
sentenza 18.04.2012 n. 2247 del Consiglio di Stato, Sez. V, conferma il cambio di orientamento giurisprudenziale.
Richiesta intempestiva - Legittima l'esclusione dell'impresa dalla gara bandita dal Comune per la gestione e la manutenzione degli impianti di illuminazione pubblica. Non si scherza con l'attestazione rilasciata dalle Società organismo di attestazione (donde la sigla) che certifica «l'esistenza dei requisiti di capacità tecnica, finanziaria e gestionale» in capo all'impresa che partecipa alle gare e punta all'affidamento di lavori o appalti pubblici.
Durante l'istruttoria del giudizio di primo grado si accerta che l'azienda «incriminata» non chiede tempestivamente la revisione triennale della Soa posseduta: rilasciata il 24.11.2006, l'attestazione ha validità quinquennale, con obbligo di verifica triennale entro il 23.11.2009; la ditta invece presenta l'istanza per il rinnovo della certificazione solo il 09.10.2009 e l'ottiene il 14 dicembre.
Insomma: nel periodo della richiesta di rinnovo la società è priva di una valida attestazione: non ha infatti rispettato il termine di sessanta giorni prima della scadenza del termine per sottoporsi a verifica triennale, stabilito dagli articoli 15 e 15-bis dpr 34/2000.
Giurisprudenza in termini - Ai fini dell'efficacia della certificazione senza soluzione di continuità per tutto il quinquennio non risulta sufficiente il mero esito positivo della verifica triennale, è invece necessario che il procedimento di revisione si concluda entro la scadenza triennale di iniziale validità (cfr. sentenza 4477/2010). In precedenza Palazzo Spada ha stabilito che l'impresa può sottoporsi a verifica anche dopo la scadenza, ma comunque non può partecipare alle gare nel periodo compreso fra la scadenza del triennio e l'effettuazione della verifica con esito positivo. (cfr. sentenza 3878/2009).
I requisiti di qualificazione devono sussistere al momento della presentazione dell'offerta e in ogni successiva fase del procedimento: bisogna tutelare l'affidamento della stazione appaltante e la par condicio fra i partecipanti (articolo ItaliaOggi del 09.05.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTIUna concreta lesione del principio dell’unicità dell’offerta si verifica nelle ipotesi di più offerte, o di più proposte nell’ambito della medesima offerta, formulate in via alternativa o subordinata, in modo che tale scelta ricadente su una di esse escluda necessariamente la praticabilità delle altre.
Infatti, è palese che solo in queste ipotesi il concorrente munito di un’offerta plurima è effettivamente avvantaggiato rispetto agli altri, potendo contare su un più ampio ventaglio di soluzioni in grado di soddisfare le esigenze della stazione appaltante, a differenza dei rimanenti concorrenti che non possono fare altro che “scommettere” sull’unica proposta avanzata.
Il suddetto pericolo non si coglie nel caso di offerta contenente alcune imprecisioni giacché in tale evenienza il candidato formula un’offerta unica dal punto di vista sostanziale, in grado di non creare squilibri all’interno del meccanismo concorrenziale.

Una concreta lesione del principio dell’unicità dell’offerta si verifica nelle ipotesi di più offerte, o di più proposte nell’ambito della medesima offerta, formulate in via alternativa o subordinata, in modo che tale scelta ricadente su una di esse escluda necessariamente la praticabilità delle altre.
Infatti, è palese che solo in queste ipotesi il concorrente munito di un’offerta plurima è effettivamente avvantaggiato rispetto agli altri, potendo contare su un più ampio ventaglio di soluzioni in grado di soddisfare le esigenze della stazione appaltante, a differenza dei rimanenti concorrenti che non possono fare altro che “scommettere” sull’unica proposta avanzata (TAR Campania, Napoli, sez. I, 26.09.2011, n. 4488).
Il suddetto pericolo non si coglie nel caso di offerta contenente alcune imprecisioni giacché in tale evenienza il candidato formula un’offerta unica dal punto di vista sostanziale, in grado di non creare squilibri all’interno del meccanismo concorrenziale.
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Secondo giurisprudenza costante, “in sede di valutazione comparativa delle offerte tecniche presentate nelle gare d’appalto le valutazioni tecniche, caratterizzate dalla complessità delle discipline specialistiche di riferimento e dall’opinabilità dell’esito della valutazione, sfuggono al sindacato intrinseco del giudice amministrativo, se non vengono in rilievo specifiche censure circa la plausibilità dei criteri valutativi o la loro applicazione” (Consiglio di Stato, sez. III, 19.01.2012, n. 249).
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Il punto III.2.3 del bando di gara, relativo alla capacità tecnica, alla lett. c), consente il ricorso all’avvalimento di cui all’art. 49 d.lgs. 163/2006, al fine di soddisfare la richiesta relativa al possesso dei requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico e organizzativo.
L’art. 49, comma 2, lett. c) del decreto citato, in particolare, espressamente richiede, ai fini di quanto sopra previsto, l’allegazione da parte del concorrente di: … “una dichiarazione sottoscritta da parte dell’impresa ausiliaria attestante il possesso da parte di quest’ultima dei requisiti generali di cui all’articolo 38, nonché il possesso dei requisiti tecnici e delle risorse oggetto di avvalimento”.
Ne consegue che “qualora l’impresa partecipante ad una gara d’appalto intenda avvalersi, ai fini del possesso del requisito della SOA in una determinata categoria, della corrispondente certificazione SOA posseduta da altra società, è obbligata al rispetto della prescrizione dell’art. 49, comma 2, lettera c) del D. Lgs. n. 163 del 12.04.2006 … in base al quale, in tali ipotesi”, si dispone, “sul piano dell’accertamento dei requisiti di ordine generale, una totale equiparazione fra gli operatori economici offerenti e gli operatori economici in rapporto di avvalimento" (TAR Sardegna, Cagliari, sez. I, 17.03.2010, n. 337).
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In termini generali, i soggetti esecutori di lavori pubblici devono essere “qualificati” e l’attestazione SOA è il documento obbligatorio unico, necessario e sufficiente a comprovare la capacità dell’impresa di eseguire opere pubbliche con importo a base d’asta superiore a €. 150.000,00; tale documento qualifica le aziende suddividendole in otto classi, espresse in valori crescenti di euro, abilitandole così a partecipare agli appalti con importi pari alla relativa classe, incrementata di un quinto (cfr., art. 40 del Codice dei contratti pubblici e artt. 60 e ss. del D.P.R. 5.10.2010, n. 207).
Detto sistema, di conseguenza, richiede che il requisito di partecipazione stabilito da un bando di gara attinente alla capacità tecnica minima -quindi, il possesso di una precisa classifica per la categoria dei lavori realizzandi- debba essere posseduto per l’intero da almeno un partecipante.
Diversamente opinando, si consentirebbe a chi non ha i requisiti minimi di partecipazione di presentare offerte e di impegnarsi ad eseguire lavori per i quali non ha i presupposti o, quanto meno, non ne è stata verificata la sussistenza da parte di un organismo di attestazione appositamente autorizzato, così eludendo il sistema di qualificazione per l’esecuzione dei lavori pubblici.
In questo senso, il Collegio condivide la lettura del comma 6 dell’art. 49 del Codice dei contratti pubblici effettuata dalla VI Sezione del Consiglio di Stato, con la pronuncia n. 3565, del 13.06.2011, la quale ha precisato che il divieto di utilizzo frazionato dei requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi di cui all’articolo 40, comma 3, lettera b), sancito al comma 6 dell’invocato art. 49, è riferito anche al caso in cui il concorrente si avvalga di una sola impresa ausiliaria. Tale interpretazione è confermata dalla intervenuta abrogazione del comma 7 del medesimo art. 49, ai sensi del d.lgs. n. 152 del 2008, in cui era anche previsto “che l’avvalimento possa integrare un preesistente requisito tecnico o economico già posseduto dall’impresa avvalente in misura o percentuale indicata nel bando stesso”, nonché dall’osservazione che la somma delle classifiche risulta espressamente prevista soltanto per i consorzi stabili (art. 36, comma 7, del d.lgs. n. 163 del 2006).
Va, pertanto, in conclusione escluso dalla gara il concorrente che, al fine di colmare la parziale carenza della qualificazione SOA si sia avvalso di impresa ausiliaria a sua volta priva dell’intero requisito richiesto dal bando. Infatti, la finalità dell’avvalimento non è quella di arricchire la capacità (tecnica o economica che sia) del concorrente, ma quella di consentire a soggetti che ne siano privi di concorrere alla gara ricorrendo ai requisiti di altri soggetti se e in quanto da questi integralmente e autonomamente posseduti, in coerenza con la normativa comunitaria sugli appalti pubblici che è volta in ogni sua parte a far sì che la massima concorrenza sia anche condizione per la più efficiente e sicura esecuzione degli appalti (TAR Trentino Alto Adige, Trento, sez. I, 21.03.2012, n. 90; Consiglio Stato, sez. VI, 13.06.2011, n. 3565)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 18.04.2012 n. 708 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALIE' vietato agli architetti la progettazione di opere di urbanizzazione primaria o di ingegneria idraulica quali una rete di distribuzione idrica o fognaria; può, invece, essere legittimamente progettata da un architetto una costruzione civile con sistema idrico-fognario pertinenziale, quale quella in esame, opera di edilizia civile con annessa parte tecnica, non coinvolgente conoscenze specifiche degli ingegneri.
In particolare, “la nozione di opere di edilizia civile, che ai sensi dell’art. 52, r.d. 23.10.1925 n. 2537 formano oggetto della professione sia dell’ingegnere che dell’architetto, si estende oltre gli ambiti più specificamente strutturali, fino a ricomprendere l’intero complesso degli impianti tecnologici a corredo del fabbricato, e quindi non solo gli impianti idraulici ma anche quelli di riscaldamento compresi nell’edificazione” .

Le previsioni contenute negli art. 51-54 r.d. 23.10.1925 n. 2537, individuanti le rispettive competenze degli ingegneri e degli architetti vietano a quest’ultimi la progettazione di opere di urbanizzazione primaria o di ingegneria idraulica quali una rete di distribuzione idrica o fognaria; può, invece, essere legittimamente progettata da un architetto una costruzione civile con sistema idrico-fognario pertinenziale, quale quella in esame, opera di edilizia civile con annessa parte tecnica, non coinvolgente conoscenze specifiche degli ingegneri (TAR Veneto, Venezia, sez. I, 08.07.2011, n. 1153; TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 09.04.2008).
In particolare, “la nozione di opere di edilizia civile, che ai sensi dell’art. 52, r.d. 23.10.1925 n. 2537 formano oggetto della professione sia dell’ingegnere che dell’architetto, si estende oltre gli ambiti più specificamente strutturali, fino a ricomprendere l’intero complesso degli impianti tecnologici a corredo del fabbricato, e quindi non solo gli impianti idraulici ma anche quelli di riscaldamento compresi nell’edificazione” (Consiglio Stato, sez. IV, 31.07.2009, n. 4866)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 18.04.2012 n. 708 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIl procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta è finalizzato ad assicurare che gli appalti vengano affidati a un prezzo che consenta un adeguato margine di guadagno per le imprese, visto che le acquisizioni in perdita porterebbero gli affidatari a una negligente esecuzione, oltre che a un probabile contenzioso.
In sede di giustificazioni delle offerte anomale:
   a) l’impresa concorrente deve giustificare la riduzione dell’utile di impresa solo mediante l’indicazione di specifiche e comprovate economie di scala realizzate, dato che grava sull’impresa offerente l’onere di fornire la congruità della propria offerta e cioè la dimostrazione che, nonostante il ridotto margine di utile, sia in grado di fornire una prestazione adeguata a soddisfare l’interesse pubblico alla regolare esecuzione dell’opera, essendo insufficiente il semplice richiamo generico all’abbattimento delle spese generali. Nella specie, una quota di costo indicata nell’offerta a titolo di spese generali non può essere invocata, nel corso del subprocedimento di giustificazione, per coprire costi diversi.
   b) non è possibile aggiustare le voci di costo cambiandole “ad libitum”. Il sub—procedimento di giustificazione dell’offerta anomala non è volto a consentire aggiustamenti dell’offerta “in itinere” ma mira, al contrario, a verificare la serietà di un’offerta consapevolmente già formulata e immutabile, come confermato dall’art. 86 comma 5, codice dei contratti pubblici il quale richiede che le offerte siano corredate dalle relative giustificazioni sin dalla loro presentazione.
Quello che non si può consentire è che, in sede di giustificazioni, vengano apoditticamente rimodulate le voci di costo senza alcuna motivazione, con un’operazione di finanza creativa, al solo scopo di “far quadrare i conti” ossia di assicurarsi che il prezzo complessivo offerto resti immutato e si superino le contestazioni sollevate dalla stazione appaltante su alcuni voci di costo.
Da ciò discende, in generale, l’inaccettabilità delle giustificazioni che, nel tentativo di far apparire seria un’offerta, che viceversa non è stata adeguatamente meditata, risultino tardivamente dirette ad un’allocazione dei costi diversa rispetto a quella originariamente enunciata;
   c) se l’amministrazione è tenuta a prendere in esame le giustificazioni rese dall’impresa la cui offerta sia sottoposta a verifica, e a esporre con chiarezza le ragioni della propria eventuale determinazione sfavorevole, ai fini del successivo scrutinio di legittimità su quest’ultima non possono tuttavia essere prese in considerazione eventuali integrazioni o modifiche postume delle stesse giustificazioni rese in sede giudiziale da parte dell’impresa.

Il Collegio, in accoglimento alle censure avanzate con i ricorsi incidentali, ritiene di non doversi discostare dall’orientamento prevalente, secondo il quale:
- il procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta è finalizzato ad assicurare che gli appalti vengano affidati a un prezzo che consenta un adeguato margine di guadagno per le imprese, visto che le acquisizioni in perdita porterebbero gli affidatari a una negligente esecuzione, oltre che a un probabile contenzioso (TAR Lombardia Milano, sez. I, 28.07.2008, n. 3049).
- in sede di giustificazioni delle offerte anomale:
   a) l’impresa concorrente deve giustificare la riduzione dell’utile di impresa solo mediante l’indicazione di specifiche e comprovate economie di scala realizzate, dato che grava sull’impresa offerente l’onere di fornire la congruità della propria offerta e cioè la dimostrazione che, nonostante il ridotto margine di utile, sia in grado di fornire una prestazione adeguata a soddisfare l’interesse pubblico alla regolare esecuzione dell’opera, essendo insufficiente il semplice richiamo generico all’abbattimento delle spese generali. Nella specie, una quota di costo indicata nell’offerta a titolo di spese generali non può essere invocata, nel corso del subprocedimento di giustificazione, per coprire costi diversi (TAR Campania Napoli, sez. I, 27.10.2006, n. 9178).
   b) non è possibile aggiustare le voci di costo cambiandole “ad libitum”. Il sub—procedimento di giustificazione dell’offerta anomala non è volto a consentire aggiustamenti dell’offerta “in itinere” ma mira, al contrario, a verificare la serietà di un’offerta consapevolmente già formulata e immutabile, come confermato dall’art. 86 comma 5, codice dei contratti pubblici il quale richiede che le offerte siano corredate dalle relative giustificazioni sin dalla loro presentazione.
Quello che non si può consentire è che, in sede di giustificazioni, vengano apoditticamente rimodulate le voci di costo senza alcuna motivazione, con un’operazione di finanza creativa, al solo scopo di “far quadrare i conti” ossia di assicurarsi che il prezzo complessivo offerto resti immutato e si superino le contestazioni sollevate dalla stazione appaltante su alcuni voci di costo.
Da ciò discende, in generale, l’inaccettabilità delle giustificazioni che, nel tentativo di far apparire seria un’offerta, che viceversa non è stata adeguatamente meditata, risultino tardivamente dirette ad un’allocazione dei costi diversa rispetto a quella originariamente enunciata (TAR Campania Napoli, sez. I, 18.03.2011, n. 1498; Consiglio Stato, sez. V, 12.07.2010, n. 4483).
   c) se l’amministrazione è tenuta a prendere in esame le giustificazioni rese dall’impresa la cui offerta sia sottoposta a verifica, e a esporre con chiarezza le ragioni della propria eventuale determinazione sfavorevole, ai fini del successivo scrutinio di legittimità su quest’ultima non possono tuttavia essere prese in considerazione eventuali integrazioni o modifiche postume delle stesse giustificazioni rese in sede giudiziale da parte dell’impresa (TAR Lazio, sez. I, 01.09.2004, n. 8228)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 18.04.2012 n. 707 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL’obbligo previsto dall’art 79, comma 5, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, di comunicare al partecipante a gara pubblica l’avvenuta sua esclusione dalla procedura selettiva entro un termine non superiore a cinque giorni, non contiene alcuna espressa sanzione; di conseguenza non può dedursi da un’omissione, che non ha arrecato alcun nocumento alla parte interessata, l’esistenza di un vizio tale da rendere annullabile il provvedimento recante l’esclusione stessa.
La tardività di tale comunicazione, pertanto, non incide sulla legittimità dell’aggiudicazione ma solamente sulla decorrenza del termine per l’impugnazione, anche in ragione della natura ordinatoria del termine previsto dall’art. 79, comma 5, del d.lgs. 12.04.2006 n. 163.
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Nella materia dei contratti pubblici, le formalità prescritte dal bando di gara sono dirette ad assicurare la trasparenza e l’imparzialità dell’Amministrazione e la parità di condizioni tra i concorrenti; dette formalità, pertanto, ove poste a pena di esclusione dalla gara, devono rispondere al comune canone di ragionevolezza, in stretta relazione con i richiamati principi. Ne deriva che l’inserimento di clausole che prevedono la sanzione dell’esclusione deve essere giustificata da un particolare interesse pubblico, evitando il mero formalismo non legato a finalità d’interesse pubblico e oneri procedimentali inutili ed eccessivi.
Trattasi, tuttavia, d’ipotesi che non ricorrono nel caso di specie, ove, come detto, la “lex specialis” di gara richiede, a pena di esclusione, la formalità della controfirma sui lembi di chiusura del plico, compresi quelli preincollati dal fabbricante. Tale modalità di autenticazione della chiusura della busta è, infatti, ragionevolmente finalizzata -ai fini della regolarità della procedura, interesse essenziale della Stazione Appaltante-, non solo a evitare il rischio della manomissione del plico e dell’alterazione del suo contenuto, e, quindi, ad assicurare la necessaria segretezza di tale offerta, a tutela della “par condicio”, funzione propria della sigillatura, ma anche a garantire che il contenuto della stessa sia quello approvato dal concorrente che lo ha presentato e, quindi, l’effettiva provenienza del plico e dell’offerta nel rispetto del principio dell’integrità e imputabilità dell’offerta che governa la materia delle gare pubbliche, senza con ciò imporre ai partecipanti alla gara di appalto oneri particolarmente gravosi.
Tale funzione non può essere assicurata, ad esempio, dalla mera apposizione del timbro sociale, che in teoria potrebbe essere stato apposto da un qualsiasi impiegato dell’impresa concorrente.
È conseguentemente legittima l’esclusione dalla gara dell’impresa che ometta la controfirma del plico contenente l’offerta sui lembi preincollati in sede di fabbricazione delle buste ove prevista a pena di irricevibilità dell’offerta (rectius, di esclusione del partecipante) dal bando di gara, indipendentemente dalla prova dell’effettiva manomissione.
Una volta esclusi i profili di illegittimità di esclusione di un concorrente da una gara d’appalto, non ricorrono gli estremi di un danno “iniuria datum”, che possa dare ingresso alla pretesa risarcitoria per perdita di chance.
L’obbligo previsto dall’art 79, comma 5, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, di comunicare al partecipante a gara pubblica l’avvenuta sua esclusione dalla procedura selettiva entro un termine non superiore a cinque giorni, non contiene alcuna espressa sanzione; di conseguenza non può dedursi da un’omissione, che non ha arrecato alcun nocumento alla parte interessata, l’esistenza di un vizio tale da rendere annullabile il provvedimento recante l’esclusione stessa (Consiglio di Stato, sez. IV, 06.10.2011, n. 5491).
La tardività di tale comunicazione, pertanto, non incide sulla legittimità dell’aggiudicazione ma solamente sulla decorrenza del termine per l’impugnazione, anche in ragione della natura ordinatoria del termine previsto dall’art. 79, comma 5, del d.lgs. 12.04.2006 n. 163 (TAR Campania Napoli, sez. I, 11.03.2011, n. 1441; TAR Sicilia Palermo, sez. I, 18.12.2008, n. 1761).
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Vero è che nella materia dei contratti pubblici, le formalità prescritte dal bando di gara sono dirette ad assicurare la trasparenza e l’imparzialità dell’Amministrazione e la parità di condizioni tra i concorrenti; dette formalità, pertanto, ove poste a pena di esclusione dalla gara, devono rispondere al comune canone di ragionevolezza, in stretta relazione con i richiamati principi. Ne deriva che l’inserimento di clausole che prevedono la sanzione dell’esclusione deve essere giustificata da un particolare interesse pubblico, evitando il mero formalismo non legato a finalità d’interesse pubblico e oneri procedimentali inutili ed eccessivi (TAR Lecce Puglia, sez. III, 13.01.2011, n. 15).
Trattasi, tuttavia, d’ipotesi che non ricorrono nel caso di specie, ove, come detto, la “lex specialis” di gara richiede, a pena di esclusione, la formalità della controfirma sui lembi di chiusura del plico, compresi quelli preincollati dal fabbricante. Tale modalità di autenticazione della chiusura della busta è, infatti, ragionevolmente finalizzata -ai fini della regolarità della procedura, interesse essenziale della Stazione Appaltante-, non solo a evitare il rischio della manomissione del plico e dell’alterazione del suo contenuto, e, quindi, ad assicurare la necessaria segretezza di tale offerta, a tutela della “par condicio”, funzione propria della sigillatura, ma anche a garantire che il contenuto della stessa sia quello approvato dal concorrente che lo ha presentato e, quindi, l’effettiva provenienza del plico e dell’offerta nel rispetto del principio dell’integrità e imputabilità dell’offerta che governa la materia delle gare pubbliche, senza con ciò imporre ai partecipanti alla gara di appalto oneri particolarmente gravosi.
Tale funzione non può essere assicurata, ad esempio, dalla mera apposizione del timbro sociale, che in teoria potrebbe essere stato apposto da un qualsiasi impiegato dell’impresa concorrente (TAR Valle d’Aosta, Aosta, sez. I, 17.02.2012, n. 15; Consiglio di Stato, sez. V, 23.05.2011, n. 3067; TAR Lazio, Roma, sez. II, 02.04.2008, n. 2818).
È conseguentemente legittima l’esclusione dalla gara dell’impresa che ometta la controfirma del plico contenente l’offerta sui lembi preincollati in sede di fabbricazione delle buste ove prevista a pena di irricevibilità dell’offerta (rectius, di esclusione del partecipante) dal bando di gara, indipendentemente dalla prova dell’effettiva manomissione.
Una volta esclusi i profili di illegittimità di esclusione di un concorrente da una gara d’appalto, non ricorrono gli estremi di un danno “iniuria datum”, che possa dare ingresso alla pretesa risarcitoria per perdita di chance (Consiglio Stato, sez. VI, 02.03.2011, n. 1288)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 18.04.2012 n. 706 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAConsiderata la natura di atto dovuto dell'ordine di demolizione di opere edilizie abusive -il cui presupposto è rappresentato solamente dalla constatata esecuzione di opere edilizie in assenza o in difformità dal titolo abilitativo- il procedimento non è inficiato dall'omissione della comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7, l. n. 241 del 1990, poiché nella fattispecie trova applicazione l'art. 21-octies della stessa legge che statuisce la non annullabilità del provvedimento adottato in violazione delle norme sul procedimento qualora, come nel caso di specie, sia palese che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente adottato.
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L'ingiunzione a demolire le opere edilizie abusive non deve essere preceduta dal parere della Commissione edilizia comunale, anche qualora questa non sia stata cancellata dall’organigramma comunale ai sensi dell’art. 96 del D.Lgs. n. 267 del 2000, dal momento che l'ordine di ripristino, quale atto vincolato, discende direttamente dalla violazione della disciplina edilizia vigente e non è inficiato, ai sensi dell’art. 21-octies L. 241/1990, da supposte violazioni procedimentali.
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Il provvedimento che ordina la demolizione di una costruzione abusiva costituisce atto dovuto e rigorosamente vincolato, affrancato dalla ponderazione discrezionale dell’opposto interesse privato al mantenimento dell’opera abusiva, in quanto la repressione dell'abuso corrisponde ipso facto all'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi illecitamente alterato.
Pertanto, l’ordinanza è da ritenersi sorretta da adeguata e autosufficiente motivazione, già solo rinvenibile nella compiuta descrizione delle strutture abusive e nella constatazione della loro esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo edilizio.
Inoltre anche nel caso di abuso risalente nel tempo l’ordine di demolizione di opere edilizie abusive costituisce atto dovuto non potendo il semplice trascorrere del tempo giustificare il legittimo affidamento del contravventore.
Il potere di ripristino dello status quo non è infatti soggetto a termine di prescrizione né è tacitamente rinunciabile, poiché il semplice trascorrere del tempo non può legittimare una situazione di illegalità, né imporre all’Amministrazione la necessità di una comparazione dell’interesse del privato alla conservazione dell’abuso con l’interesse pubblico alla repressione dell’illecito.

Secondo l’indirizzo consolidato della giurisprudenza anche di questa Sezione, considerata la natura di atto dovuto dell'ordine di demolizione di opere edilizie abusive -il cui presupposto è rappresentato solamente dalla constatata esecuzione di opere edilizie in assenza o in difformità dal titolo abilitativo- il procedimento non è inficiato dall'omissione della comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7, l. n. 241 del 1990, poiché nella fattispecie trova applicazione l'art. 21-octies della stessa legge che statuisce la non annullabilità del provvedimento adottato in violazione delle norme sul procedimento qualora, come nel caso di specie, sia palese che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente adottato.
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L'ingiunzione a demolire le opere edilizie abusive non doveva essere preceduta dal parere della Commissione edilizia comunale, anche qualora questa non sia stata cancellata dall’organigramma comunale ai sensi dell’art. 96 del D.Lgs. n. 267 del 2000, dal momento che l'ordine di ripristino, quale atto vincolato, discende direttamente dalla violazione della disciplina edilizia vigente e non è inficiato, ai sensi dell’art. 21-octies L. 241/1990, da supposte violazioni procedimentali.
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Il provvedimento che ordina la demolizione di una costruzione abusiva costituisce atto dovuto e rigorosamente vincolato, affrancato dalla ponderazione discrezionale dell’opposto interesse privato al mantenimento dell’opera abusiva, in quanto la repressione dell'abuso corrisponde ipso facto all'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi illecitamente alterato.
Pertanto, l’ordinanza è da ritenersi sorretta da adeguata e autosufficiente motivazione, già solo rinvenibile nella compiuta descrizione delle strutture abusive e nella constatazione della loro esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo edilizio.
Inoltre anche nel caso di abuso risalente nel tempo l’ordine di demolizione di opere edilizie abusive costituisce atto dovuto non potendo il semplice trascorrere del tempo giustificare il legittimo affidamento del contravventore.
Il potere di ripristino dello status quo non è infatti soggetto a termine di prescrizione né è tacitamente rinunciabile, poiché il semplice trascorrere del tempo non può legittimare una situazione di illegalità, né imporre all’Amministrazione la necessità di una comparazione dell’interesse del privato alla conservazione dell’abuso con l’interesse pubblico alla repressione dell’illecito
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 18.04.2012 n. 702 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di repressione degli abusi edilizi, l’ordinanza di sospensione dei lavori surroga utilmente la comunicazione di avvio del procedimento.
La realizzazione di interventi edilizi in assenza dei prescritti titoli abilitativi costituisce presupposto necessario e sufficiente per l’esercizio del potere sanzionatorio, trattandosi di attività doverosa e vincolata, idoneamente motivata con l’indicazione delle norme violate e il richiamo ai contenuti del verbale di accertamento dell’abuso formato dalla polizia locale e alla relazione del tecnico comunale.
Nel sistema delineato dagli artt. 27 ss. del d.p.r. n. 380 del 2001 è l’esecuzione di interventi privi del titolo amministrativo necessario (rectius: già il loro inizio) a giustificare l’esercizio dei poteri sanzionatori della p.a., eventualmente preceduti da quelli per così dire cautelari (e cioè dall’ordine di sospensione dei lavori): i termini ex art. 15 t.u. edilizia, d’altronde, riguardano l’efficacia temporale del p.d.c., fermo restando che anche medio tempore il titolare non può che attenersi ai contenuti dello stesso, risultando evidentemente irragionevole immaginare che, in presenza di lavori abusivi, l’amministrazione debba attendere il termine di decadenza del titolo e così consentire che gli stessi vengano portati alle ultime conseguenze.
L’indicazione dell’area di sedime, così come di quella necessaria per opere analoghe a quelle abusive, da acquisire al patrimonio comunale, non deve considerarsi requisito dell’ordinanza di demolizione -e dunque la mancanza non ne inficia la legittimità- giacché siffatta specificazione è elemento essenziale del distinto provvedimento con cui l’Amministrazione accerta la mancata ottemperanza alla demolizione da parte dell’ingiunto.

Deve osservarsi, in specie, che:
a) non può essere condivisa la censura formulata con riguardo all’art. 7 l. n. 241 del 1990, avendo i ricorrenti ricevuto, circa tre mesi prima dell’ingiunzione impugnata, l’ordinanza di sospensione dei lavori n. 189 del 03.06.2010, la quale, secondo il costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, surrogava utilmente la comunicazione di avvio del procedimento (fra le ultime, Tar Molise, I, 23.12.2011, n. 1000; Tar Campania Napoli, VIII, 01.09.2011, n. 4272; Tar Puglia Lecce, III, 10.09.2010, n. 1962).
b) la realizzazione di interventi edilizi in assenza dei prescritti titoli abilitativi costituiva presupposto necessario e sufficiente per l’esercizio del potere sanzionatorio, trattandosi di attività doverosa e vincolata, idoneamente motivata con l’indicazione delle norme violate e il richiamo ai contenuti del verbale di accertamento dell’abuso formato dalla polizia locale e alla relazione del tecnico comunale (cfr. Tar Campania Napoli, VII, 22.02.2012, n. 885; Consiglio di Stato, IV, 14.02.2012, n. 703).
c) nel sistema delineato dagli artt. 27 ss. del d.p.r. n. 380 del 2001 è l’esecuzione di interventi privi del titolo amministrativo necessario (rectius: già il loro inizio) a giustificare l’esercizio dei poteri sanzionatori della p.a., eventualmente preceduti da quelli per così dire cautelari (e cioè dall’ordine di sospensione dei lavori): i termini ex art. 15 t.u. edilizia, d’altronde, riguardano l’efficacia temporale del p.d.c., fermo restando che anche medio tempore il titolare non può che attenersi ai contenuti dello stesso, risultando evidentemente irragionevole immaginare che, in presenza di lavori abusivi, l’amministrazione debba attendere il termine di decadenza del titolo e così consentire che gli stessi vengano portati alle ultime conseguenze.
d) con riguardo, infine, alla dedotta violazione dell’art. 31, commi 2 ss., d.p.r. n. 380 citato, va sottolineato come secondo il prevalente indirizzo della giurisprudenza amministrativa (da ultimo Tar Campania Napoli, VII, 13.01.2012, n. 143) <<l’indicazione dell’area di sedime, così come di quella necessaria per opere analoghe a quelle abusive, da acquisire al patrimonio comunale, non deve considerarsi requisito dell’ordinanza di demolizione -e dunque la mancanza non ne inficia la legittimità- giacché siffatta specificazione è elemento essenziale del distinto provvedimento con cui l’Amministrazione accerta la mancata ottemperanza alla demolizione da parte dell’ingiunto>> (Tar Puglia Lecce, III, 27.03.2012, n. 558; III, 15.12.2011, n. 2172; III, 28.07.2011, n. 1461).
Né in questo caso mancava la prescritta analitica indicazione delle opere abusivamente realizzate, poiché il riferimento alla “costruzione realizzata abusivamente a primo piano in luogo dei volumi tecnici, con esclusione dell’area di sedime trattandosi di sopraelevazione”, non determinava a ben vedere alcuna incertezza sulle opere da acquisire (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 18.04.2012 n. 701 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa sanatoria giurisprudenziale non trova ormai alcuno spazio, trattandosi di istituto elaborato dalla giurisprudenza nel vigore della l. n. 10 del 1977 e in mancanza di una specifica regolamentazione legislativa ma che non ha più ragione di esistere nel vigente ordinamento, caratterizzato da una disciplina puntuale ed esaustiva delle ipotesi di condono e sanatoria edilizia.
Secondo il costante orientamento interpretativo, la sanatoria giurisprudenziale (alla quale, in definitiva, dovrebbe assimilarsi l’ipotesi di cui si controverte, con un titolo edilizio rilasciato illegittimamente ma conforme, secondo la prospettazione della p.a., alla normativa vigente al momento dell’esame successivo) non trova ormai alcuno spazio, trattandosi di istituto elaborato dalla giurisprudenza nel vigore della l. n. 10 del 1977 e in mancanza di una specifica regolamentazione legislativa ma che non ha più ragione di esistere nel vigente ordinamento, caratterizzato da una disciplina puntuale ed esaustiva delle ipotesi di condono e sanatoria edilizia (fra le ultime, Tar Toscana, III, 11.02.2011, n. 263) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 18.04.2012 n. 699 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa previsione dei requisiti di ammissione alle procedure di evidenza pubblica rientra nella sfera di discrezionalità dell'amministrazione, purché sia adeguata e pertinente alla tipologia ed oggetto della prestazione per la quale è stata indetta la gara.
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L’art. 38 D.lgs 163/2006 impone che anche in relazione agli amministratori cessati dalla carica siano assenti le cause ostative di cui alla lett. c) del medesimo articolo, relative essenzialmente all’assenza di condanne per determinate tipologie di reati; lo stesso art. 38 non richiede testualmente, che in relazione all’amministratore cessato non siano sussistenti altre cause ostative, applicabili invece agli amministratori in carica e richiamate alle lett. b) e m-ter) dello stesso articolo.
Nessun operazione interpretativa di tipo estensivo o analogico della norma di cui all’art. 38 può consentire l’allargamento delle ipotesi di esclusione e del relativo obbligo dichiarativo; la norma deve essere infatti oggetto di stretta interpretazione, dovendosi dare prevalenza alle espressioni letterali in essa contenuta e restando preclusa ogni lettura estensiva che contrasterebbe con i principi di affidamento dei partecipanti, di trasparenza della procedura e di massima partecipazione.
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Le clausole del bando che devono essere rispettate a pena di esclusione -posto che incidono sulla "par condicio" dei partecipanti- vincolano l’Amministrazione alla loro applicazione dovendosi in tal caso ritenere prevalente l’applicazione del principio di imperatività della "lex specialis" rispetto all'assicurazione del "favor partecipationis".

La previsione dei requisiti di ammissione alle procedure di evidenza pubblica rientra nella sfera di discrezionalità dell'amministrazione, purché sia adeguata e pertinente alla tipologia ed oggetto della prestazione per la quale è stata indetta la gara (cfr. da ultimo Con. Stato, sez. V, 09.04.2010 n. 1999).
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L’art. 38 D.lgs 163/2006 impone che anche in relazione agli amministratori cessati dalla carica siano assenti le cause ostative di cui alla lett. c) del medesimo articolo, relative essenzialmente all’assenza di condanne per determinate tipologie di reati; lo stesso art. 38 non richiede testualmente, che in relazione all’amministratore cessato non siano sussistenti altre cause ostative, applicabili invece agli amministratori in carica e richiamate alle lett. b) e m-ter) dello stesso articolo.
Nessun operazione interpretativa di tipo estensivo o analogico della norma di cui all’art. 38 può, come invece sostiene la difesa del controinteressato, consentire l’allargamento delle ipotesi di esclusione e del relativo obbligo dichiarativo; la norma deve essere infatti oggetto di stretta interpretazione, dovendosi dare prevalenza alle espressioni letterali in essa contenuta e restando preclusa ogni lettura estensiva che contrasterebbe con i principi di affidamento dei partecipanti, di trasparenza della procedura e di massima partecipazione.
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Non sussistono pertanto ragioni perché il Collegio si discosti dal saldo orientamento giurisprudenziale secondo cui le clausole del bando che devono essere rispettate a pena di esclusione -posto che incidono sulla "par condicio" dei partecipanti- vincolano l’Amministrazione alla loro applicazione dovendosi in tal caso ritenere prevalente l’applicazione del principio di imperatività della "lex specialis" rispetto all'assicurazione del "favor partecipationis" (ex multis TAR Puglia Lecce n. 1632/2010)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 18.04.2012 n. 696 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIE' illegittima l'aggiudicazione di una gara d'appalto in considerazione della mancata indicazione nell’offerta dell’importo relativo agli oneri di sicurezza.
Invero, l’art. 87, comma 4, del d.lgs 163/2006 impone, anche per gli appalti di servizi e forniture, la specifica indicazione nell’offerta economica di costi relativi alla sicurezza. In particolare, gli oneri di sicurezza –sia nel comparto dei lavori che in quelli dei servizi e delle forniture– devono essere indicati dai soggetti partecipanti nelle rispettive offerte, con il conseguente onere per la stazione appaltante di valutarne la congruità rispetto all’entità ed alle caratteristiche del servizio appaltato.
La mancanza di una specifica previsione sul tema in seno alla lex specialis non toglie che la disciplina legale contenuta nel citato art. 87 sia immediatamente precettiva e idonea ad eterointegrare le regole procedurali, imponendo agli offerenti di indicare separatamente i costi per la sicurezza sul lavoro.
Né può venire in considerazione la circostanza di natura fattuale, e comunque opinabile, in base alla quale nello svolgimento dello specifico servizio l’esigenze di sicurezza sarebbero minime; la norma ha infatti carattere imperativo e impone alle imprese partecipanti l’enucleazione degli oneri preventivati per la sicurezza a prescindere dall’ammontare, esiguo o meno, degli stessi in quanto la predetta omissione rende l’offerta incompleta sotto un profilo particolarmente rilevante alla luce della natura costituzionalmente sensibile degli interessi protetti.

L’aggiudicazione allo Studio Bonacchi risulta, altresì illegittima in considerazione della mancata indicazione nell’offerta dell’importo relativo agli oneri di sicurezza (quarto motivo del ricorso principale).
Invero, l’art. 87, comma 4, del d.lgs 163/2006 impone, anche per gli appalti di servizi e forniture, la specifica indicazione nell’offerta economica di costi relativi alla sicurezza. In particolare, gli oneri di sicurezza –sia nel comparto dei lavori che in quelli dei servizi e delle forniture– devono essere indicati dai soggetti partecipanti nelle rispettive offerte, con il conseguente onere per la stazione appaltante di valutarne la congruità rispetto all’entità ed alle caratteristiche del servizio appaltato (cfr. da ultimo Cons. Stato 212/2002).
La mancanza di una specifica previsione sul tema in seno alla lex specialis non toglie che la disciplina legale contenuta nel citato art. 87 sia immediatamente precettiva e idonea ad eterointegrare le regole procedurali, imponendo agli offerenti di indicare separatamente i costi per la sicurezza sul lavoro (cfr. in termini Cons. Stato 4849/2010).
Né può venire in considerazione la circostanza di natura fattuale, e comunque opinabile, in base alla quale nello svolgimento dello specifico servizio l’esigenze di sicurezza sarebbero minime; la norma ha infatti carattere imperativo e impone alle imprese partecipanti l’enucleazione degli oneri preventivati per la sicurezza a prescindere dall’ammontare, esiguo o meno, degli stessi in quanto la predetta omissione rende l’offerta incompleta sotto un profilo particolarmente rilevante alla luce della natura costituzionalmente sensibile degli interessi protetti
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 18.04.2012 n. 696 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi fini dell’ammissibilità o meno del condono edilizio, i vincoli paesistico-ambientali non implicano di per sé, almeno in termini generali, l’inedificabilità assoluta, e la p.a. preposta alla tutela degli stessi deve compiere una concreta valutazione sulla ravvisabilità o meno di ragioni ostative al rilascio del nulla osta.
Il provvedimento con cui il Comune, invece, ‘automaticamente’ ricollega alla presenza di vincoli anteriori alle opere abusive la non condonabilità delle stesse è dunque illegittimo e dev’essere annullato.

... per l’annullamento:
- della nota in data 02.05.2011, prot. n. 3923, a firma del Funzionario Responsabile dell’Ufficio Condono Edilizio del Comune di Castrignano del Capo;
- di ogni altro atto comunque connesso, presupposto e/o consequenziale;
- e per l’accertamento del condono edilizio ex lege 724/1994 relativo alle opere di cui si controverte e, in via consequenziale, del diritto dei ricorrenti a ottenere il richiesto provvedimento di sanatoria-condono edilizio con riferimento a tali opere, come da istanza acclarata al protocollo comunale in data 28.02.1995 al n. 1236.
...
Deve osservarsi, anzitutto, che l’Amministrazione giustificava il rigetto dell’istanza evidenziando che il lotto interessato dall’intervento abusivo era interessato da una pluralità di vincoli paesaggistici, in gran parte precedenti alle opere in parola.
Ciò scritto, non può tuttavia non evidenziarsi come siffatto iter motivazionale, adeguato e sufficiente ove si discutesse di un condono ex lege n. 326 del 2003, non lo è nel caso in esame, posto che l’art. 32 della legge n. 47 del 1985, richiamato nel sistema della legge n. 724 del 1994, ammetteva anche la condonabilità degli abusi commessi su immobili sottoposti a vincoli di inedificabilità relativa, pur subordinandola a una valutazione di compatibilità paesaggistica (e, ciò, a prescindere dalla anteriorità o posteriorità del vincolo rispetto alla realizzazione dell’abuso, sicché ciò che era compatibile con la tutela del paesaggio poteva essere condonato; cfr. Tar Lecce, III, 03.09.2009, n. 2058; 10.01.2009, n. 17; 06.03.2009, n. 385).
Ai fini dell’ammissibilità o meno del condono edilizio, dunque, i vincoli paesistico-ambientali non implicavano di per sé, almeno in termini generali, l’inedificabilità assoluta, e la p.a. preposta alla tutela degli stessi doveva (e tuttora deve, nei casi in cui venga in rilievo un procedimento ex lege n. 724/1994) compiere una concreta valutazione sulla ravvisabilità o meno di ragioni ostative al rilascio del nulla osta (Tar Lazio Roma, II, 03.11.2010, n. 33123): il provvedimento con cui il Comune di Castrignano del Capo, invece, ‘automaticamente’ ricollegava alla presenza di vincoli anteriori alle opere abusive la non condonabilità delle stesse era dunque illegittimo e dev’essere annullato (fermo restando, tuttavia, che la suddetta concreta valutazione dovrà essere comunque compiuta, sicché non v’è allo stato lo spazio per ‘accertare’ la sanabilità delle opere, come pure richiesto dai ricorrenti) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 18.04.2012 n. 695 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione di un’istanza di sanatoria -sia essa di accertamento di conformità sia essa di condono- produce l’effetto di rendere inefficace l’ordine di demolizione delle opere abusive oggetto di quest’ultima.
Invero il riesame dell’abusività dell’opera provocato dalla predetta istanza comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (o di accoglimento o di rigetto della richiesta sanatoria) che varrà comunque a superare quello sanzionatorio oggetto della presente impugnativa.
In caso di rigetto dell’istanza, l’Amministrazione sarà perciò tenuta a riprovvedere emanando le conseguenti sanzioni.
Conseguentemente il ricorso proposto avverso l’ingiunzione che ha dato adito al procedimento di sanatoria deve essere ritenuto improcedibile per carenza di interesse.

Il ricorso in oggetto è rivolto avverso il provvedimento del Comune di Melendugno 06.10.2006 n. 22/2006 con cui si è ingiunto alla ricorrente, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 31 del D.P.R. n. 380 del 2001, di demolire le opere eseguite abusivamente in località S. Andrea, su area sottoposta a vincolo paesaggistico e a vincolo idrogeologico, consistenti nella “ristrutturazione di un vecchio trullo di pietrame a secco suddiviso in vani della superficie di mq. 80 ca. e altezza di ml. 2,75 ca. con copertura in pannelli coibentati”, nonché nella realizzazione “di una tettoia in legno antistante il trullo, della superficie di mq. 40 e altezza di ml. 2,75.
A sostegno del gravame deduce con l’unico articolato motivo la violazione e falsa applicazione della legge n. 47 del 1985 e del D.P.R. n. 380 del 2001, l’eccesso di potere sotto i diversi profili dell’illogicità e contraddittorietà dell’azione amministrativa, del travisamento dei fatti e della carenza di motivazione.
Nessuno si è costituito in giudizio per il Comune di Melendugno e all’udienza del 14.03.2012, fissata per la discussione, la ricorrente dopo aver manifestato il proprio interesse alla decisione ai sensi e per gli effetti dell’articolo 85, comma 2 del c.p.a, ha chiesto che il ricorso fosse trattenuto in decisione.
Il Collegio rileva che il ricorso dev’essere dichiarato improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse, avendo la ricorrente avanzato, in data 17.12.2006, una domanda di sanatoria ex art. 36 d.p.r. n. 380 del 2001 per i lavori di cui all’impugnata ordinanza di demolizione.
Va infatti osservato che secondo il preferibile indirizzo della giurisprudenza amministrativa, la presentazione di un’istanza di sanatoria -sia essa di accertamento di conformità sia essa di condono- produce l’effetto di rendere inefficace l’ordine di demolizione delle opere abusive oggetto di quest’ultima.
Invero il riesame dell’abusività dell’opera provocato dalla predetta istanza comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (o di accoglimento o di rigetto della richiesta sanatoria) che varrà comunque a superare quello sanzionatorio oggetto della presente impugnativa.
In caso di rigetto dell’istanza, l’Amministrazione sarà perciò tenuta a riprovvedere emanando le conseguenti sanzioni (cfr., fra le molte, Tar Puglia Lecce, III, 16.12.2011, n. 2214).
Conseguentemente il ricorso proposto avverso l’ingiunzione che ha dato adito al procedimento di sanatoria deve essere ritenuto improcedibile per carenza di interesse (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 16.04.2012 n. 672 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANel caso di titoli edilizi, il dies a quo assume una particolare conformazione, essendo pacifico che, al fine della decorrenza del termine per l'impugnazione da parte di terzi, l'effettiva conoscenza dell'atto si verifica quando la costruzione realizzata rivela in modo certo e univoco le essenziali caratteristiche dell'opera e l'eventuale non conformità della stessa alla disciplina urbanistico-edilizia, onde, in mancanza di altri ed inequivoci elementi probatori il termine decorre non con il mero inizio dei lavori, bensì con il loro completamento.
Al riguardo va richiamato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui, nel caso di titoli edilizi, il dies a quo assume una particolare conformazione, essendo pacifico che, al fine della decorrenza del termine per l'impugnazione da parte di terzi, l'effettiva conoscenza dell'atto si verifica quando la costruzione realizzata rivela in modo certo e univoco le essenziali caratteristiche dell'opera e l'eventuale non conformità della stessa alla disciplina urbanistico-edilizia, onde, in mancanza di altri ed inequivoci elementi probatori il termine decorre non con il mero inizio dei lavori, bensì con il loro completamento (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 12.02.2007 n. 599) (TAR Marche, sentenza 14.04.2012 n. 274 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl silenzio-assenso previsto in tema di condono edilizio non si forma per il solo fatto dell'inutile decorso del termine indicato da tale norma (ventiquattro mesi dalla presentazione dell'istanza) e del pagamento dell'oblazione, senza alcuna risposta del Comune, ma occorre altresì la prova della ricorrenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi stabiliti dall’art. 32 comma 37 del d.l. 269/2003 convertito nella l. 326/2003 cui è subordinata l'ammissibilità del condono, che la domanda sia stata correlata dalla prescritta documentazione, non sia infedele, sia stata interamente pagata l'oblazione e, soprattutto, che l'opera sia stata ultimata nel termine di legge e non sia in contrasto con i vincoli di inedificabilità di cui all'art. 33, l. 28.02.1985 n. 47.
Il semplice decorso del termine per provvedere costituisce, pertanto, solo uno degli elementi necessari, ma di per sé non sufficiente, per il perfezionamento della fattispecie.
Il termine di ventiquattro mesi, fissato dall'amministrazione comunale per determinarsi sull'istanza di condono edilizio decorre, in caso di incompletezza della domanda o della documentazione inoltrata a suo corredo, soltanto dal momento in cui dette carenze sono state eliminate.
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L'art. 29, l. 28.02.1985 n. 47, nella parte in cui comprende l'adozione e l'approvazione di varianti agli strumenti urbanistici finalizzate al recupero urbanistico degli abusi, si riferisce agli insediamenti abusivi, con ciò intendendosi i nuclei di espansione di edilizia abitativa di una certa consistenza, cui si correla la difficoltà sociale di un ripristino generalizzato, e non alle situazioni di diffusione sul territorio rurale di piccoli abusi.
Invero, la ratio della norma non è quella di imporre alle Regioni e alle amministrazioni comunali, in sede di adozione e approvazione delle varianti generali agli strumenti urbanistici, l'obbligo di considerare gli insediamenti abusivi a fini del recupero; bensì quella di affiancare una speciale tipologia di variante a quelle già contemplate dall'ordinamento urbanistico, demandando alle regioni la disciplina di dettaglio.
Del resto, il terzo comma dell'art. 29 cit., laddove sancisce, in via transitoria, che fino all'emanazione delle leggi regionali, gli insediamenti in tutto o in parte abusivi possono formare oggetto di varianti urbanistiche ordinarie (fermi restando gli effetti della mancata presentazione della domanda di condono per gli immobili abusivi), ai fini del loro recupero dal punto di vista urbanistico, nel rispetto comunque degli obblighi relativi alla indicazione di criteri per la formazione di consorzi tra proprietari, del programma finanziario e alla definizione degli oneri di urbanizzazione, prevede una mera facoltà e non l'obbligo di contemplare all'interno delle varianti generali gli insediamenti abusivi.

Secondo pacifici orientamenti giurisprudenziali, dai quali non vi è motivo per discostarsi, il silenzio-assenso previsto in tema di condono edilizio non si forma per il solo fatto dell'inutile decorso del termine indicato da tale norma (ventiquattro mesi dalla presentazione dell'istanza) e del pagamento dell'oblazione, senza alcuna risposta del Comune, ma occorre altresì la prova della ricorrenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi stabiliti dall’art. 32 comma 37 del d.l. 269/2003 convertito nella l. 326/2003 cui è subordinata l'ammissibilità del condono (ex multis TAR Campania Napoli, sez. VI, 10.04.2009, n. 1944), che la domanda sia stata correlata dalla prescritta documentazione, non sia infedele, sia stata interamente pagata l'oblazione e, soprattutto, che l'opera sia stata ultimata nel termine di legge e non sia in contrasto con i vincoli di inedificabilità di cui all'art. 33, l. 28.02.1985 n. 47.
Il semplice decorso del termine per provvedere costituisce, pertanto, solo uno degli elementi necessari, ma di per sé non sufficiente, per il perfezionamento della fattispecie (TAR Campania Napoli, sez. III, 25.10.2010, n. 21436 Consiglio Stato, sez. IV, 22.07.2010, n. 4823).
In particolare, l’art. 32, c. 37, della citata l. 326/2003 prevede che “Il pagamento degli oneri di concessione, la presentazione della documentazione di cui al comma 35, della denuncia in catasto, della denuncia ai fini dell'imposta comunale degli immobili di cui al decreto legislativo 30.12.1992, n. 504, nonché, ove dovute, delle denunce ai fini della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani e per l'occupazione del suolo pubblico, entro il 31 ottobre 2005, nonché il decorso del termine di ventiquattro mesi da tale data senza l'adozione di un provvedimento negativo del comune, equivalgono a titolo abilitativo edilizio in sanatoria”.
Nella specie, come risulta dal provvedimento di diniego del 17.02.2011, la domanda del ricorrente è priva della documentazione prevista dalla normativa richiamata “in quanto mancante della prova dell’avvenuta iscrizione in catasto, delle denunce ai fini dell’imposta comunale sugli immobili e ai fini dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani”, oltre a ricadere nel regime vincolistico di cui alla variante al P.d.F. costituita dal Piano di recupero degli insediamenti abusivi e nel nucleo n. 2 ove è prevista una infrastruttura viaria con un’area a parcheggio.
Le circostanze suindicate escludono quindi la formazione del c.d. silenzio assenso in quanto parte ricorrente non ha fornito prova della ricorrenza di tutti i requisiti per la condonabilità delle opere oggetto dell'istanza di condono, né della completezza della documentazione, dato che il termine di ventiquattro mesi, fissato dall'amministrazione comunale per determinarsi sull'istanza stessa decorre, in caso di incompletezza della domanda o della documentazione inoltrata a suo corredo, soltanto dal momento in cui dette carenze sono state eliminate (TAR Basilicata Potenza, 03.05.2004, n. 305; TAR Sicilia Palermo, sez. II, 23.04.2004, n. 741).
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Può difatti farsi applicazione dei pacifici orientamenti giurisprudenziali che ritengono che “l'art. 29, l. 28.02.1985 n. 47, nella parte in cui comprende l'adozione e l'approvazione di varianti agli strumenti urbanistici finalizzate al recupero urbanistico degli abusi, si riferisce agli insediamenti abusivi, con ciò intendendosi i nuclei di espansione di edilizia abitativa di una certa consistenza, cui si correla la difficoltà sociale di un ripristino generalizzato, e non alle situazioni di diffusione sul territorio rurale di piccoli abusi” (TAR Umbria Perugia, sez. I, 29.07.2008, n. 453).
Invero, la ratio della norma non è quella di imporre alle Regioni e alle amministrazioni comunali, in sede di adozione e approvazione delle varianti generali agli strumenti urbanistici, l'obbligo di considerare gli insediamenti abusivi a fini del recupero; bensì quella di affiancare una speciale tipologia di variante a quelle già contemplate dall'ordinamento urbanistico, demandando alle regioni la disciplina di dettaglio.
Del resto, il terzo comma dell'art. 29 cit., laddove sancisce, in via transitoria, che fino all'emanazione delle leggi regionali, gli insediamenti in tutto o in parte abusivi possono formare oggetto di varianti urbanistiche ordinarie (fermi restando gli effetti della mancata presentazione della domanda di condono per gli immobili abusivi), ai fini del loro recupero dal punto di vista urbanistico, nel rispetto comunque degli obblighi relativi alla indicazione di criteri per la formazione di consorzi tra proprietari, del programma finanziario e alla definizione degli oneri di urbanizzazione, prevede una mera facoltà e non l'obbligo di contemplare all'interno delle varianti generali gli insediamenti abusivi (Consiglio Stato, sez. IV, 25.07.2001, n. 4078).
Non sussiste, dunque, alcun "diritto" della parte a ottenere la ricognizione del proprio abuso tanto più se lo tesso si presenti (come nella fattispecie) di lieve entità e tale da non stravolgere l’assetto urbanistico-edilizio della zona
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 12.04.2012 n. 625 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa piena conoscenza dell'attività amministrativa e della sua lesività, al fine del decorso del termine di impugnazione, non può essere affermata in via meramente presuntiva, ma deve formare oggetto di prova rigorosa da parte di chi eccepisce la tardività del gravame. Inoltre la conoscenza dell'atto deve essere, oltre che piena (con riferimento alla sua esistenza e lesività), anche personale (e quindi formarsi in capo al diretto interessato).
Al riguardo va richiamato l’ormai costante orientamento giurisprudenziale secondo cui la piena conoscenza dell'attività amministrativa e della sua lesività, al fine del decorso del termine di impugnazione, non può essere affermata in via meramente presuntiva, ma deve formare oggetto di prova rigorosa da parte di chi eccepisce la tardività del gravame. Inoltre la conoscenza dell'atto deve essere, oltre che piena (con riferimento alla sua esistenza e lesività), anche personale (e quindi formarsi in capo al diretto interessato) (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 08.06.2011 n. 3458; Sez. IV, 15.05.2008 n. 2236; 18.12.2008 n. 6365) (TAR Marche, sentenza 12.04.2012 n. 273 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIl Piano attuativo conserva efficacia in applicazione del principio di ultrattività disciplinato dall’art. 17 della stessa Legge n. 1150/1942, secondo cui resta comunque “fermo a tempo indeterminato l’obbligo di osservare nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso”.
La giurisprudenza ha chiarito il significato da attribuire agli artt. 16, 17 e 28 della Legge n. 1150/1942, affermando che l’imposizione del termine decennale va inteso nel senso che le attività dirette alla realizzazione dello strumento urbanistico attuativo, sia convenzionali che autoritative, non possono essere attuate oltre un certo termine, scaduto il quale l’autorità competente riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate, fermo restando che, fino a quando tale potere non verrà esercitato, l’assetto urbanistico dell’area rimane definito dal piano particolareggiato o di lottizzazione.

Come hanno giustamente osservato le parti resistenti, il citato Piano attuativo conserva efficacia in applicazione del principio di ultrattività disciplinato dall’art. 17 della stessa Legge n. 1150/1942, secondo cui resta comunque “fermo a tempo indeterminato l’obbligo di osservare nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti [come nel caso in esame] gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso”.
È pur vero che la L.r. n. 31/1979 aveva natura straordinaria, poiché riguardava gli edifici con impianto edilizio preesistente e compresi nelle zone residenziali di completamento, per consentire gli ampliamenti di quelli con un piano fuori terra e di quelli che, avuto riguardo alla struttura edilizia esistente e agli edifici circostanti, presentavano evidenti caratteristiche di non completezza.
Va tuttavia osservato che, fino a quando detto obiettivo di recupero urbanistico non viene realizzato (o non intervengono discipline urbanistiche difformi e incompatibili), non si intravedono ragioni affinché non possa essere raggiunto anche dopo la scadenza decennale del Piano attuativo, proprio in forza del principio di cui al sopra ricordato art. 17 volto a dare tendenziale stabilità alle previsioni pianificatorie particolareggiate.
Al riguardo la giurisprudenza ha chiarito il significato da attribuire agli artt. 16, 17 e 28 della Legge n. 1150/1942, affermando che l’imposizione del termine decennale va inteso nel senso che le attività dirette alla realizzazione dello strumento urbanistico attuativo, sia convenzionali che autoritative, non possono essere attuate oltre un certo termine, scaduto il quale l’autorità competente riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate, fermo restando che, fino a quando tale potere non verrà esercitato, l’assetto urbanistico dell’area rimane definito dal piano particolareggiato o di lottizzazione (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 30.04.2009 n. 2768; Sez. IV, 19.02.2007 n. 851)
(TAR Marche, sentenza 12.04.2012 n. 273 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIA fronte di un’ambiguità delle previsioni del bando di gara deve operare il principio di massima partecipazione alle gare.
Inoltre, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 46, comma 1-bis, del codice dei contratti pubblici (aggiunto dall’art. 4, comma 2, lett. d), del decreto-legge 13.05.2011, n. 70, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, legge 12.07.2011, n. 106), che ha introdotto il principio di tassatività delle cause di esclusione dalle gare di appalto, deve ritenersi illegittima l’esclusione di una ditta da una gara solo per irregolarità di carattere formale nelle presentazione della domanda di partecipazione.
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La verifica di anomalia non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, ma mira ad accertare se l’offerta, nel suo complesso, sia attendibile o inattendibile, e dunque se dia o meno serio affidamento circa la corretta esecuzione dell’appalto. Pertanto, sono stati affermati i seguenti principi:
- che il procedimento di verifica è avulso da ogni formalismo ed è improntato alla massima collaborazione tra stazione appaltante ed offerente;
- che il contraddittorio deve essere effettivo;
- che non vi sono preclusioni alla presentazione di giustificazioni, ancorate al momento della scadenza del termine di presentazione delle offerte;
- che mentre l’offerta è immodificabile, modificabili sono le giustificazioni e sono ammesse quelle sopravvenute e compensazioni tra sottostime e sovrastime, purché l'offerta risulti nel suo complesso affidabile al momento dell'aggiudicazione, a garanzia di una seria esecuzione del contratto.
Per cui, la Commissione giudicatrice, una volta che ritenga non soddisfacenti le giustificazioni rese dall’impresa la cui offerta è risultata sospetta di anomalia, può legittimamente procedere ad una nuova richiesta volta ad acquisire ulteriori chiarimenti integrativi rispetto a quelli già presentati in risposta al primo sollecito e può legittimamente esaminare anche le giustificazioni rese con ritardo, in quanto il procedimento di verifica è avulso da ogni formalismo ed è improntato alla massima collaborazione tra stazione appaltante ed offerente e le relative valutazioni sono rimesse alla discrezionalità della Commissione di gara.
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L’esame delle giustificazioni volte a dimostrare la non anomalia dell’offerta è vicenda che rientra nella discrezionalità tecnica dell'Amministrazione, per cui soltanto in caso di macroscopiche illogicità, vale a dire di errori di valutazione evidenti e gravi, oppure di valutazioni abnormi o affette da errori di fatto, il giudice della legittimità può intervenire, restando per il resto la capacità di giudizio confinata entro i limiti dell'apprezzamento tecnico proprio di tale tipo di discrezionalità.
E' precluso al giudice amministrativo sindacare le scelte di merito effettuate dall’Amministrazione, per cui la sostituzione da parte del giudice amministrativo della propria valutazione a quella riservata alla discrezionalità dell’amministrazione costituisce, in via generale, una ipotesi di sconfinamento vietato nelle ipotesi di giurisdizione di legittimità. Di conseguenza il controllo del giudice amministrativo sulle valutazioni discrezionali deve essere svolto ab estrinseco e non può essere mai sostitutivo; il sindacato sulla motivazione deve, pertanto, essere rigorosamente mantenuto sul piano della verifica della non erroneità della valutazione degli elementi di fatto e non può avvalersi di criteri che portano ad evidenziare la mera non condivisibilità della valutazione stessa.
Il giudizio di verifica della congruità di un’offerta ha natura globale e sintetica sulla serietà o meno dell’offerta nel suo insieme, con conseguente irrilevanza di eventuali “singole” voci di scostamento, e non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, mirando, invece, ad accertare se l’offerta nel suo complesso sia attendibile; inoltre, nell’ambito di tale giudizio il margine di utile richiesto è irrilevante ai fini della relativa affidabilità, con l’unico limite che lo stesso non venga del tutto azzerato.
Essendo tale indagine di natura sintetica e globale, in sede di verifica dell’anomalia delle offerte è possibile sia una modifica delle giustificazioni delle singole voci di costo (rispetto alle giustificazioni già fornite), lasciando le voci di costo invariate, oppure un aggiustamento di singole voci di costo.
Le tabelle sui costi del lavoro predisposte dal Ministero del Lavoro, in base ai valori previsti dalla contrattazione collettiva, non assumono valore di parametro assoluto ed inderogabile, ma sono suscettibili di scostamento in relazione a valutazioni statistiche e ad analisi aziendali svolte dall’offerente, che evidenzino una particolare organizzazione aziendale; cosicché è rimessa alla stazione appaltante la valutazione della congruità e dell’affidabilità dell’offerta, in caso di sensibile scostamento, mediante il procedimento di verifica delle anomalie

Secondo un costante e consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa a fronte di un’ambiguità delle previsioni del bando di gara deve operare il principio di massima partecipazione alle gare.
Inoltre, va anche ricordato che a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 46, comma 1-bis, del codice dei contratti pubblici (aggiunto dall’art. 4, comma 2, lett. d), del decreto-legge 13.05.2011, n. 70, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, legge 12.07.2011, n. 106), che ha introdotto il principio di tassatività delle cause di esclusione dalle gare di appalto, deve ritenersi illegittima l’esclusione di una ditta da una gara solo per irregolarità di carattere formale nelle presentazione della domanda di partecipazione (cfr., da ultimo, Cons. St., sez. III, 01.02.2012, n. 493, e TAR Calabria, sez. Reggio Calabria, sez. I, 22.03.2012, n. 245, TAR Valle d’Aosta 15.03.2012 n. 38, e TAR Lazio, Roma, sez. I, 08.03.2012, n. 2308).
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Va ricordato che la giurisprudenza amministrativa ha già chiarito che la verifica di anomalia non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, ma mira ad accertare se l’offerta, nel suo complesso, sia attendibile o inattendibile, e dunque se dia o meno serio affidamento circa la corretta esecuzione dell’appalto. Pertanto, sono stati affermati i seguenti principi:
- che il procedimento di verifica è avulso da ogni formalismo ed è improntato alla massima collaborazione tra stazione appaltante ed offerente;
- che il contraddittorio deve essere effettivo;
- che non vi sono preclusioni alla presentazione di giustificazioni, ancorate al momento della scadenza del termine di presentazione delle offerte;
- che mentre l’offerta è immodificabile, modificabili sono le giustificazioni e sono ammesse quelle sopravvenute e compensazioni tra sottostime e sovrastime, purché l'offerta risulti nel suo complesso affidabile al momento dell'aggiudicazione, a garanzia di una seria esecuzione del contratto (Cons. St., sez. V 20.02.2012 n. 875, e sez. VI, 24.08.2011, n. 4801).
Per cui, la Commissione giudicatrice, una volta che ritenga non soddisfacenti le giustificazioni rese dall’impresa la cui offerta è risultata sospetta di anomalia, può legittimamente procedere ad una nuova richiesta volta ad acquisire ulteriori chiarimenti integrativi rispetto a quelli già presentati in risposta al primo sollecito e può legittimamente esaminare anche le giustificazioni rese con ritardo, in quanto il procedimento di verifica è avulso da ogni formalismo ed è improntato alla massima collaborazione tra stazione appaltante ed offerente e le relative valutazioni sono rimesse alla discrezionalità della Commissione di gara.
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L’esame delle giustificazioni volte a dimostrare la non anomalia dell’offerta è vicenda che rientra nella discrezionalità tecnica dell'Amministrazione, per cui soltanto in caso di macroscopiche illogicità, vale a dire di errori di valutazione evidenti e gravi, oppure di valutazioni abnormi o affette da errori di fatto, il giudice della legittimità può intervenire, restando per il resto la capacità di giudizio confinata entro i limiti dell'apprezzamento tecnico proprio di tale tipo di discrezionalità (Cons. St., sez. V, 29.02.2012, n. 1183, e sez. III, 14.02.2012, n. 710).
Deve, invero, al riguardo ricordarsi che, come è noto, è precluso al giudice amministrativo sindacare le scelte di merito effettuate dall’Amministrazione, per cui la sostituzione da parte del giudice amministrativo della propria valutazione a quella riservata alla discrezionalità dell’amministrazione costituisce, in via generale, una ipotesi di sconfinamento vietato nelle ipotesi di giurisdizione di legittimità, che ricorre nel caso di specie. Di conseguenza -come è stato di recente anche chiarito dal Giudice della giurisdizione, chiamato a meglio definire il c.d. “eccesso di potere giurisdizionale” (cfr., da ultimo, Cass. Civ. SS.UU., 17.02.2012, nn. 2312 e 2313)- il controllo del giudice amministrativo sulle valutazioni discrezionali deve essere svolto ab estrinseco e non può essere mai sostitutivo; il sindacato sulla motivazione deve, pertanto, essere rigorosamente mantenuto sul piano della verifica della non erroneità della valutazione degli elementi di fatto e non può avvalersi di criteri che portano ad evidenziare la mera non condivisibilità della valutazione stessa.
Ciò premesso, va anche ricordato che il giudizio di verifica della congruità di un’offerta ha natura globale e sintetica sulla serietà o meno dell’offerta nel suo insieme, con conseguente irrilevanza di eventuali “singole” voci di scostamento, e non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, mirando, invece, ad accertare se l’offerta nel suo complesso sia attendibile (Cons. St., sez. III, 26.01.2012, n. 343); inoltre, nell’ambito di tale giudizio il margine di utile richiesto è irrilevante ai fini della relativa affidabilità, con l’unico limite che lo stesso non venga del tutto azzerato.
Essendo tale indagine di natura sintetica e globale, in sede di verifica dell’anomalia delle offerte è possibile sia una modifica delle giustificazioni delle singole voci di costo (rispetto alle giustificazioni già fornite), lasciando le voci di costo invariate, oppure un aggiustamento di singole voci di costo (Cons. St., sez. VI, 07.02.2012, n. 636).
Relativamente, infine al costo del lavoro la stessa giurisprudenza ha anche precisato che le tabelle sui costi del lavoro predisposte dal Ministero del Lavoro, in base ai valori previsti dalla contrattazione collettiva, non assumono valore di parametro assoluto ed inderogabile, ma sono suscettibili di scostamento in relazione a valutazioni statistiche e ad analisi aziendali svolte dall’offerente, che evidenzino una particolare organizzazione aziendale; cosicché è rimessa alla stazione appaltante la valutazione della congruità e dell’affidabilità dell’offerta, in caso di sensibile scostamento, mediante il procedimento di verifica delle anomalie (Cons. St., sez. III, 26.01.2012, n. 343)
(TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 10.04.2012 n. 162 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOL’art. 37 del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, recante norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, dispone testualmente che a decorrere dall'01.01.2000 i bandi di concorso per l’accesso alle pubbliche amministrazioni debbono prevedere l’accertamento della conoscenza dell’uso delle apparecchiature e delle applicazioni informatiche più diffuse e di almeno una lingua straniera.
La giurisprudenza amministrativa ha precisato che tale articolo impone a decorrere dall'01.01.2000 a tutte le amministrazioni pubbliche (statali, autonome, regionali, locali ecc.) di prevedere, in sede di redazione dei bandi di concorso, la conoscenza di almeno una lingua straniera e delle applicazioni ed apparecchiature informatiche e che la mancata emanazione delle previste disposizioni regolamentari non pregiudica la possibilità che i bandi dispongano direttamente le modalità di accertamento e i livelli delle conoscenze in questione; per cui tali bandi possono alternativamente prevedere o che l’accertamento di tali conoscenze costituisca parte integrante delle prove di esame ovvero che venga in rilievo quale requisito di ammissione al concorso.

Ai fini del decidere deve partirsi dal rilievo che l’art. 37 del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, recante norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, dispone testualmente che a decorrere dall'01.01.2000 i bandi di concorso per l’accesso alle pubbliche amministrazioni debbono prevedere l’accertamento della conoscenza dell’uso delle apparecchiature e delle applicazioni informatiche più diffuse e di almeno una lingua straniera.
Ora, interpretando tale normativa, la giurisprudenza amministrativa ha precisato che tale articolo impone a decorrere dall'01.01.2000 a tutte le amministrazioni pubbliche (statali, autonome, regionali, locali ecc.) di prevedere, in sede di redazione dei bandi di concorso, la conoscenza di almeno una lingua straniera e delle applicazioni ed apparecchiature informatiche e che la mancata emanazione delle previste disposizioni regolamentari non pregiudica la possibilità che i bandi dispongano direttamente le modalità di accertamento e i livelli delle conoscenze in questione; per cui tali bandi possono alternativamente prevedere o che l’accertamento di tali conoscenze costituisca parte integrante delle prove di esame ovvero che venga in rilievo quale requisito di ammissione al concorso (Cons. St., sez. V, 25.08.2008, n. 408, e TAR Veneto, sez. II, 07.10.2010, n. 5285) (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 10.04.2012 n. 158 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Provvedimenti repressivi di abusi edilizi: competenza del dirigente e non del Sindaco.
Lottizzazione abusiva: disciplina prevista dall’art. 18 della L. n. 47 del 1985.
Lottizzazione abusiva: provvedimento di sospensione dei lavori per pretesa lottizzazione.

Rientra nella competenza del dirigente di un Comune -e non già del Sindaco- l’adozione di provvedimenti repressivi di abusi edilizi, a nulla rilevando che le norme di cui alla l. n. 142/1990 in materia di competenze, rispettivamente, dei vertici politici e dei dirigenti non abbiano ricevuto ancora la necessaria attuazione nell’ambito del Comune (nella specie si trattava del Comune di Napoli), nel caso in cui risulti che lo statuto comunale preveda la competenza dei dirigenti comunali all’emanazione dei provvedimenti di autorizzazione, licenze, concessioni e di tutti gli atti che impegnano l’Amministrazione verso l’esterno e risulti comunque che i provvedimenti in questione sono stati emanati dopo la entrata in vigore della l. n. 191/1998, il cui art. 2, al comma 12, ha trasferito ai dirigenti la competenza ad adottare i provvedimenti repressivi in materia di abusivismo edilizio di competenza del Sindaco.
Il bene giuridico protetto dall’art. 18 della l. n. 47/1985, descrivente le caratteristiche della lottizzazione abusiva, non è tanto o solo la tutela dell’interesse al rispetto della pianificazione urbanistica, quanto, invece, la tutela dell’interesse all’effettività del controllo del territorio da parte del soggetto pianificatore (cioè gli organi comunali) tenuto a reprimere qualsiasi intervento lottizzatorio che non sia stato previamente assentito.
E’ ravvisabile l’ipotesi di lottizzazione abusiva cartolare o negoziale, ai sensi dell’art. 18 della l. n. 47/1985, solamente quando sussistono elementi precisi ed univoci da cui possa ricavarsi oggettivamente l’intento di asservire all'edificazione un’area non urbanizzata (1). Pertanto, ai fini dell’accertamento della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 18 della l. n. 47/1985, non è sufficiente il mero riscontro del frazionamento di un terreno collegato a plurime vendite, ma sussiste anche la necessità di acquisire un sufficiente quadro indiziario dal quale sia possibile desumere in maniera non equivoca la destinazione a scopo edificatorio degli atti posti in essere dalle parti (2), giustificandosi l’adozione del provvedimento repressivo anche a fronte della dimostrazione della sussistenza di almeno uno degli elementi precisi e univoci a tal fine occorrenti (3).
La cosiddetta lottizzazione cartolare o negoziale, ossia il tipo di lottizzazione che si realizza sulla base non tanto della realizzazione di alcune opere, quanto del frazionamento contrattuale di un vasto terreno con la creazione di lotti sufficienti per la costruzione di un singolo edificio, può concretizzare in astratto già di per sé il fenomeno della lottizzazione abusiva, purché si possa desumere in modo non equivoco dalle dimensioni e dal numero dei lotti, dalla natura del terreno, dall’eventuale revisione di opere di urbanizzazione e dalla loro destinazione a scopo edificatorio (4).
E’ illegittimo un provvedimento che ha ingiunto ai proprietari la sospensione di opere ritenute preordinate alla lottizzazione abusiva di terreni nel caso in cui, nel relativo provvedimento, non sia contenuta alcuna precisazione circa la consistenza dei lotti e lo stato dei terreni, né si faccia riferimento alla creazione di opere di urbanizzazione e ci si riferisca invece genericamente all’esistenza di strade, recinzioni dei lotti ed edificazioni, elementi questi oggettivamente del tutto insufficienti.
L’individuazione della lottizzazione abusiva presuppone l’accertamento di una serie di elementi, accertamento che implica indagini complesse che impongono la necessaria partecipazione dei soggetti interessati al relativo procedimento, per cui deve essere consentita ad essi la proposizione delle rispettive osservazioni e deduzioni (5); è pertanto illegittimo un provvedimento di sospensione dei lavori per asserita lottizzazione abusiva non preceduto da comunicazione di avvio del procedimento ai proprietari interessati, ove non sussistano esigenze di indifferibilità ed urgenza che avrebbero potuto giustificare l’omissione di detta comunicazione.
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(1) Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 11.10.2006 n. 6060 e Sez. V, 13.09.1991 n. 1157
(2) Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 20.10.2004, n. 6810
(3) Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 14.05.2004, n. 3136
(4) Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 11.09.2006, n. 6060
(5) Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 11.05.2004 n. 2953, 29.01.2004 n. 296 e 23.02.2000 n. 948
(
massima tratta da www.regione.piemonte.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.03.2012 n. 1374 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn presenza del chiaro disposto legislativo, non trova spazio la cosiddetta sanatoria giurisprudenziale, che ricorrerebbe allorquando la conformità dell’opera abusiva sussista rispetto alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento del rilascio del titolo sanante, ma non anche rispetto a quella del tempo in cui l’opera è stata realizzata; quest’ultimo istituto, infatti, elaborato dalla giurisprudenza quando era in vigore la legge n. 10/1977, in mancanza di una regolamentazione legislativa della sanatoria degli interventi abusivi, non ha più ragione di esistere nel vigente ordinamento, caratterizzato da una disciplina puntuale ed esaustiva delle ipotesi di condono e sanatoria edilizia.
L’art. 13 della legge n. 47/1985, l’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 e l’art. 140 della L.R. n. 1/2005 abilitano al rilascio della concessione edilizia in sanatoria quando l’intervento è conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda.
Secondo l’ormai costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, in presenza del chiaro disposto legislativo non trova spazio la cosiddetta sanatoria giurisprudenziale, che ricorrerebbe allorquando la conformità dell’opera abusiva sussista rispetto alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento del rilascio del titolo sanante, ma non anche rispetto a quella del tempo in cui l’opera è stata realizzata; quest’ultimo istituto, infatti, elaborato dalla giurisprudenza quando era in vigore la legge n. 10/1977, in mancanza di una regolamentazione legislativa della sanatoria degli interventi abusivi, non ha più ragione di esistere nel vigente ordinamento, caratterizzato da una disciplina puntuale ed esaustiva delle ipotesi di condono e sanatoria edilizia (Cons. Stato, IV, 26/04/2006, n. 2306; TAR Lombardia, Milano, II, 02/05/1989, n. 193; TAR Lombardia, Brescia, 23/06/2003, n. 873; TAR Toscana, III, 15/04/2002, n. 724; si veda anche Cons. Stato, IV, ordinanza cautelare, 06/11/2010, n.5046).
Nel caso di specie, tuttavia, il Comune di Firenze, con l’art. 9-bis del regolamento edilizio, ha aderito all’orientamento minoritario che riconosce l’istituto in questione sulla base dell’art. 97 della Costituzione (sull’assunto che sarebbe contrario al buon andamento demolire un’opera che può essere nuovamente assentita sulla base della differente disciplina urbanistica attualmente in vigore: Cass. pen., III, 26/11/2003, n. 291).
Tuttavia, concedere la sanatoria in questione senza applicare alcuna sanzione amministrativa significherebbe creare una disparità di trattamento rispetto a chi ottiene la sanatoria, ai sensi dell’art. 13 della legge n. 47/1985, e a chi, in caso di difformità parziale dalla concessione edilizia, conserva l’opera abusiva per impossibilità della demolizione ex art. 139, comma 2, della L.R. n. 1/2005.
Invero le opere abusive conformi sia alla disciplina urbanistica vigente al momento della realizzazione dell’intervento, sia a quella vigente al momento del rilascio del titolo sanante, e quindi rientranti nella sanatoria ordinaria, sono connotate da un minor disvalore rispetto a quelle assentibili con la cosiddetta sanatoria giurisprudenziale (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 11.02.2011 n. 263 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 07.05.2012

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SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Spending review - Secondo il Viceministro Grilli è solo una questione di personale (CGIL-FP di Bergamo, nota 26.04.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La contrattazione integrativa nel pubblico impiego - EE.LL.: la contrattazione integrativa nei CCNL e i limiti previsti dalle disposizioni finanziarie (CGIL-FP di Bergamo, nota aprile 2012).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Limiti alle assunzioni a tempo indeterminato applicabili agli enti non sottoposti al patto di stabilità (ANCI, nota 27.04.2012).

UTILITA'

APPALTI SERVIZIServizi pubblici: il timing dei vecchi affidamenti. Le scadenze per gli enti locali dopo la conversione del c.d. Dl liberalizzazioni (tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 4/2012).

LAVORI PUBBLICI: C. A. Crosato, La verifica va effettuata su ogni livello di progetto e progressivamente - La verifica del progetto proposta per una lista di controllo (tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 2/2012).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 18 del 04.05.2012, "Attuazione criteri per l’esercizio dei controlli in materia di certificazione energetica degli edifici: modifica della tabella 4 di cui al punto c) dell’allegato al decreto regionale n. 33 del 09.01.2012" (decreto D.U.O. 27.04.2012 n. 3673).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 18 del 02.05.2012, "Aggiornamento dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche loro attribuite dall’art. 80 della legge regionale 11.03.2005, n. 12" (decreto D.G. 18.04.2012 n. 3410).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 18 del 02.05.2012, "Comunicato regionale 14.02.2012, n. 9 “Direzione generale Agricoltura – Pubblicazione dei testi coordinati del regolamento regionale n. 4/2008 e del titolo X della l.r. 31/2008”, pubblicato sul BURL n. 8, Serie ordinaria di martedì 21.02.2012" (avviso di rettifica).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: L. Spallino, L.r. 7/2012: la Regione Lombardia introduce la categoria della sostituzione edilizia (link a http://studiospallino.blogspot.it).

LAVORI PUBBLICI: L. Bellagamba, Project financing: la funzione della subprocedura di selezione dei competitors del promotore - La non condivisibile tesi di TAR Toscana, Sez. I, 15.03.2012 n. 541, secondo cui l’unica offerta presentata andrebbe ammessa direttamente alla procedura negoziata finale, senza nessuna valutazione di merito (04.05.2012 - link a www.linobellagamba.it).

PUBBLICO IMPIEGO: F. Federici, Abuso d’ufficio, peculato d’uso e rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio - nota a Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 16.01.2012 n. 1208 (link a www.filodiritto.com).

ENTI LOCALI  - PUBBLICO IMPIEGO: G. Bertagna, Enti locali e part-time: soluzione o fonte di problemi? - Numerosi gli interventi restrittivi all’uso del tempo parziale, con molti dubbi di interpretazione (tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 4/2012).

EDILIZIA PRIVATA: G. G.A. Dato, Anche il locatore ha titolo al rilascio del permesso di costruire - Due recenti pronunce riaffrontano il tema della legittimazione al rilascio del permesso di costruire (tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 3/2012).

INCARICHI PROFESSIONALI: M. Gargano, Incarichi legali esterni solo in assenza di una struttura interna competente - Tutta la disciplina per il conferimento di incarichi esterni da parte delle PA (tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 3/2012).

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Baldanza, Inerzia della PA: arrivano sostituti e nuove responsabilità - Con il Dl semplificazioni ancora modifiche alla legge sul procedimento amministrativo (tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 3/2012).

INCARICHI PROFESSIONALI: G. G.A. Dato, Incarichi professionali: obbligatoria l’evidenza pubblica? Rimane divisa la giurisprudenza sulle modalità di “affidamento” degli incarichi professionali.
La sentenza del
TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 31.12.2011 n. 1680 racchiude una decisa presa di posizione sulla vexata quaestio della necessità (o meno) per il soggetto pubblico tenuto all’osservanza della c.d. evidenza pubblica di stimolare il confronto concorrenziale prima di conferire un incarico professionale.
Sulla questione la giurisprudenza appare divisa, probabilmente in conseguenza delle dissensiones che caratterizzano a monte la stessa qualificazione (in termini di appalto o meno) del rapporto negoziale fra soggetto pubblico e libero professionista.
Sono tre le tesi avanzate in giurisprudenza sulla questione che ci occupa:
a) secondo un primo orientamento, gli incarichi ai liberi professionisti vanno qualificati come contratti di lavoro autonomo, e non appalti; la disciplina che li governa è, quella dell’art. 7, comma 6 e ss., Dlgs n. 165/2001, il quale rinvia alla normativa degli artt. 2222 e ss. c.c., in tema di prestazione d’opera (Cons. Stato, sez. IV, n. 263/2008);
b) secondo altra ricostruzione (Tar Napoli, sez. II, n. 4855/2008; Corte dei conti, sez. reg. contr. Lombardia, delib. n. 29/pareri/2008; Corte dei conti, sez. reg. contr. Calabria, delib. n. 144/2008; Corte dei conti, sez. reg. contr. Veneto, delib. n. 7/2009) l’affidamento diretto di un incarico professionale viola i principi costituzionali di buon andamento e trasparenza e quelli comunitari di non discriminazione, parità di trattamento, pubblicità e proporzionalità, recepiti dal citato art. 7 del Dlgs n. 165/2001, nel testo novellato dall’art. 32 del Dl n. 223/2006 (c.d. decreto Bersani), conv. con legge n. 248/2006, che impone alle PA l’obbligo di concorrenza per il conferimento degli incarichi (cfr. circolare del ministero della Funzione pubblica n. 2 dell’11.03.2008), anche ove l’importo del compenso sia inferiore alle soglie comunitarie.
È stato osservato, altresì, che elementari e indefettibili canoni di legalità impongono alla PA che si determini a ricercare sul libero mercato le forniture (di servizi, beni, lavori, mano d’opera e collaborazione professionale) di cui ha bisogno per il suo funzionamento, di agire in modo imparziale e trasparente, predefinendo criteri di selezione e assicurando un minimo di pubblicità e un minimo di concorso dei soggetti interessati e titolati a stipulare il contratto (Tar Napoli, sez. V, n. 382/2008);
c) secondo una tesi intermedia (Corte dei conti, sez. reg. contr. Basilicata, parere n. 19/2009, con riferimento al caso degli incarichi ai legali), la disciplina riguardante gli appalti di servizi si applica nella sola ipotesi in cui, insieme all’esercizio della difesa, siano richieste ulteriori prestazioni; dunque, la sola prestazione del patrocinio è oggetto di un contratto di prestazione d’opera intellettuale che rientra nella disciplina dell’art. 19, comma 1, lett. e), del Dlgs n. 163/2001, a mente del quale i contratti di lavoro sono da considerare interamente esclusi dal campo di applicazione del c.d. codice dei contratti (cfr. anche Tar Lecce, sez. II, n. 5053/2006, e Tar Reggio Calabria, sez. I, n. 330/2007, che hanno ritenuto applicabile la disciplina codicistica in materia di appalti in caso di affidamento di un’articolata attività legale, che comprende l’assistenza e la consulenza, oltre l’eventualità del patrocinio legale).
La decisione in commento rafforza l’orientamento proconcorrenziale: non sussiste ragione alcuna che giustifichi un affidamento diretto dell’incarico professionale, dovendo l’ente rispettare le regole procedurali dell’evidenza pubblica (tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 2/2012).

QUESITI & PARERI

AMBIENTE-ECOLOGIAI soggetti che effettuano a titolo professionale attività di raccolta e trasporto dei rifiuti sono tenuti alla presentazione del “mudino”? Chi deve essere indicato come destinatario dei rifiuti? (02.05.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAÈ confermata l’Autorizzazione Unica Ambientale prevista dal D.L. n. 5/2012? (02.05.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIALe imprese che svolgono trasporti transfrontalieri dei rifiuti in Italia devono iscriversi all’Albo? Con quale modello? (02.05.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAQuali sono gli adempimenti del produttore e destinatario nel caso di carico parzialmente accettato o respinto? (02.05.2012 - link a www.ambientelegale.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI: Una “colazione di lavoro” può rientrare fra le spese di rappresentanza sostenute dagli organi di governo degli enti locali?
Al riguardo, appare preferibile attenersi ad un’interpretazione il più possibile restrittiva, alla luce del consolidato orientamento della Corte dei conti (fra le ultime, si vedano Sezione Friuli Venezia Giulia, sentenza 31.12.2010 n. 216 e sezione II centrale d’appello, sentenza 25.08.2010 n. 338).
Secondo la magistratura contabile, anzitutto, la mancata, rigorosa giustificazione e documentazione delle spese di rappresentanza sostenute comportano l’illiceità delle stesse sotto il profilo amministrativo contabile, in quanto non viene esplicitato caso per caso l’interesse istituzionale dell’ente, e configura il danno erariale.
La spesa, inoltre, deve essere in ogni caso sorretta dalla necessità dell’ente di una proiezione esterna o di intrattenere pubbliche relazioni con soggetti estranei, al fine di mantenere o accrescere il prestigio dell’amministrazione e richiamare l’attenzione di soggetti qualificati.
Deve viceversa escludersi che l’attività di rappresentanza possa configurarsi nell’ambito dei normali rapporti istituzionali o di servizio o nei confronti di soggetti i quali, ancorché esterni all’ente stesso, non siano tuttavia rappresentativi degli organismi di appartenenza. Va quindi riconosciuto carattere dirimente al ruolo e alle caratteristiche dell’ospite.
Questa impostazione trova conferma anche nel recente decreto ministeriale del 23.01.2012, di adozione dello schema di prospetto nel quale vanno elencate le spese di rappresentanza sostenute dagli organi di governo degli enti locali (tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 3/2012).

APPALTI SERVIZI: In che limiti è ancora oggi ammissibile la gestione diretta di servizi pubblici locali?
Entro ristretti limiti, anche temporali, appare per vero ancora consentita. Occorre tuttavia distinguere, al riguardo, fra i servizi pubblici locali diversi da quello idrico, da un lato, e quest’ultimo, dall’altro lato.
Con riferimento ai primi, l’articolo 25 del decreto legge n. 1/2012 ha fra l’altro modificato il comma 32 all’articolo 4 del decreto legge n. 138/2011 (convertito con modificazioni dalla legge n. 148/2011), il quale ora oltre a prevedere che gli affidamenti diretti relativi a servizi il cui valore economico sia superiore alla somma di cui al comma 13, ovvero non conformi a quanto previsto al medesimo comma, nonché gli affidamenti diretti che non rientrano nei casi di cui alle successive lettere da b) a d) cessano, improrogabilmente e senza necessità di apposita deliberazione dell'ente affidante, alla data del 31.12.2012 contempla anche un’eccezione.
In deroga alla regola della scadenza automatica del 31.12.2012, l’affidamento per la gestione in house può infatti avvenire a favore di azienda risultante dalla integrazione operativa, purché perfezionata entro il termine del 31.12.2012, di preesistenti gestioni dirette o in house tale da configurare un unico gestore del servizio a livello di ambito o di bacino territoriale ottimale ai sensi dell’art. 3-bis.
In tal caso, la valutazione dell’efficacia e dell’efficienza della gestione e il rispetto delle condizioni previste nel contratto di servizio sono peraltro sottoposti a verifica annuale.
La durata dell’affidamento in house all’azienda risultante dalla predetta integrazione non può essere in ogni caso superiore a tre anni.
Fermo restando che la norma in questione potrebbe subire cambiamenti in sede di conversione del decreto legge, essa allo stato delle cose, parla di azienda risultante dall’integrazione operativa, purché perfezionata entro il termine del 31.12.2012, “di preesistenti gestioni dirette o in house” (nel presupposto, corretto, che la gestione diretta è altro rispetto all’in house).
Ciò avrebbe evidentemente poco senso se alla data di entrata in vigore del decreto legge le gestioni dirette dovessero ritenersi definitivamente venute meno, in particolare ai sensi dell’art. 23-bis, comma 8, lett. e), decreto legge n. 112/2008, convertito dalla legge n. 133/2008.
Se, dunque, la nuova norma sembrerebbe produrre una sorta di sanatoria implicita per le gestioni dirette che, per effetto dell’univoca previsione di cui alla disposizione da ultimo citata, dovrebbero oggi risultare cessate, per altro verso essa individua una nuova data limite per le (in questo modo rilegittimate) gestioni dirette, ovvero il 31.12.2012, subordinatamente al ricorrere delle condizioni anzidette.
Del resto, l’impressione che già l’art. 4, comma 32, del decreto legge n. 138/2011 avesse realizzato una sorta di sanatoria implicita per le gestioni dirette sembra trarre conferma dal combinato disposto dell’ultima parte della lett. a) di quest’ultima norma e del nuovo comma 32-ter del medesimo articolo4, nella parte in cui specifica che per non pregiudicare la necessaria continuità nell'erogazione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, i soggetti pubblici e privati esercenti “a qualsiasi titolo” attività di gestione dei servizi pubblici locali assicurano l'integrale e regolare prosecuzione delle attività medesime anche oltre le scadenze previste nel comma 32, fino al subentro del nuovo gestore e comunque, in caso di liberalizzazione del settore, fino all'apertura del mercato alla concorrenza.
Diverso è invece il caso del servizio idrico integrato, poiché la gestione diretta resta possibile, ex articolo 148, comma 5, del decreto legislativo n. 152/2006, per i comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti inclusi nel territorio delle comunità montane, sempreché gestiscano l’intero servizio idrico integrato, e previo consenso della Autorità d'ambito competente (Sez. reg. controllo della Corte dei conti per la regione Abruzzo, parere 29/03/2011 n. 16, e parere, ministero dell’Ambiente del 26.01.2012).
Al di sopra di questa soglia e al di fuori di questo ambito, tale forma di gestione è da ritenere non più consentita, in quanto confluita nella categoria residuale di cui all’articolo 23-bis, comma 8, lett. e), per la quale, come noto, la cessazione dell’affidamento si è irreversibilmente verificata il 31.12.2010 (si veda anche il parere Conviri del 06.12.2011).
Resta fermo che per le gestioni in regime Cipe la definitiva cessazione dovrebbe ritenersi verificata ancor prima.
Più precisamente ai sensi dell’articolo 10, comma 28, del decreto legge n. 70 del 2011, convertito con modificazioni dalla legge n. 106 del 2011 con l’entrata in vigore del decreto legge n. 135 del 25.09.2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 166 del 20.11.2009, (in tema, si veda peraltro il parere Conviri n. 8338 dell’11.11.2011) (tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 3/2012).

APPALTI: In caso di omessa allegazione di un documento o di una dichiarazione previsti a pena di esclusione in una gara, a quali condizioni ne è permessa l’integrazione o la regolarizzazione postuma?
Si tratta di un’operazione non consentita. Per consolidato orientamento giurisprudenziale in tema di c.d. dovere di soccorso (codificato dall’art. 46 Dlgs n. 163/2006), l’omessa allegazione di un documento o di una dichiarazione previsti a pena di esclusione non può considerarsi alla stregua di un’irregolarità sanabile, e, quindi, non ne è permessa l’integrazione o la regolarizzazione postuma, non trattandosi di rimediare a vizi puramente formali, specie quando non sussistano equivoci o incertezze generati dall’ambiguità di clausole della legge di gara.
In presenza di una prescrizione chiara un’ammissione alla regolarizzazione costituirebbe una violazione della par condicio fra i concorrenti, che può esporre a responsabilità la stazione appaltante e il funzionario che vi procedesse. Ove pervenuta, pertanto, la richiesta di regolarizzazione va considerata inammissibile (tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 2/2012).

ATTI AMMINISTRATIVI: È di immediata applicazione l’art. 1 del Dl n. 5/2012, che prevede misure per sanzionare il ritardo nella conclusione dei procedimenti amministrativi?
Sì tale articolo è di immediata applicazione e ha sostituito i commi 8 e 9 dell’art. 2, l. n. 241/1990 con i seguenti:
8. La tutela in materia di silenzio dell’amministrazione è disciplinata dal codice del processo amministrativo. Le sentenze passate in giudicato che accolgono il ricorso proposto avverso il silenzio inadempimento dell’amministrazione sono trasmesse, in via telematica, alla Corte dei conti.
9. La mancata o tardiva emanazione del provvedimento nei termini costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente.
9-bis. L’organo di governo individua, nell’ambito delle figure apicali dell’amministrazione, il soggetto cui attribuire il potere sostitutivo in caso di inerzia. Nell’ipotesi di omessa individuazione il potere sostitutivo si considera attribuito al dirigente generale o, in mancanza, al dirigente preposto all’ufficio o in mancanza al funzionario di più elevato livello presente nell’amministrazione.
9-ter. Decorso inutilmente il termine per la conclusione del procedimento o quello superiore di cui al comma 7, il privato può rivolgersi al responsabile di cui al comma 9-bis perché, entro un termine pari alla metà di quello originariamente previsto, concluda il procedimento attraverso le strutture competenti o con la nomina di un commissario.
9-quater. Il responsabile individuato ai sensi del comma 9-bis, entro il 30 gennaio di ogni anno, comunica all’organo di governo i procedimenti, suddivisi per tipologia e strutture amministrative competenti, nei quali non è stato rispettato il termine di conclusione previsti dalla legge o dai regolamenti. Le Amministrazioni provvedono all’attuazione del presente comma, con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
9-quinquies. Nei provvedimenti rilasciati in ritardo su istanza di parte è espressamente indicato il termine previsto dalla legge o dai regolamenti di cui all’articolo 2 e quello effettivamente impiegato
”.
È necessario che le amministrazioni provvedano senza indugio a individuare il soggetto cui attribuire il potere sostitutivo in caso di inerzia, anche perché, in caso di omissione, detto potere sostitutivo si considera ex lege attribuito al dirigente generale o, in mancanza, al dirigente preposto all’ufficio o in mancanza al funzionario di più elevato livello presente nell’amministrazione.
Decorso inutilmente il termine per la conclusione del procedimento o quello superiore ex comma 7, il privato può  rivolgersi al soggetto cui è attribuito il potere sostitutivo in caso di inerzia, affinché, entro un termine pari alla metà di quello originariamente previsto, concluda il procedimento. La necessità dell’istanza di parte per attivare il potere sostitutivo non appare in grado di escludere le forme di responsabilità di cui al comma 9.
Dal combinato disposto dei commi si ricava l’impressione che, ove dall’inutile decorso del termine per la conclusione del procedimento o quello superiore di cui al comma 7 derivi un comprovato danno certo e attuale, la relativa pretesa risarcitoria sarà avanzabile nei confronti del responsabile (in via principale) del ritardo, mentre la responsabilità del soggetto cui è attribuito il potere sostitutivo esercitabile in caso di inerzia potrà concorrere specie nei casi in cui, attivato a istanza di parte il subprocedimento d’urgenza di cui al comma 9-ter, esso si concluda in un termine superiore alla metà di quello originariamente previsto, e parimenti da ciò derivi un comprovato danno certo e attuale.
Nell’ambito dei danni imputabili al responsabile (in via principale) del ritardo potrà risultare computabile anche quello (propriamente “erariale”) pari al compenso erogato all’eventuale commissario ad acta che venisse nominato ai sensi del comma 9-ter (tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 2/2012).

EDILIZIA PRIVATA: Si chiede un chiarimento in relazione al rispetto, per le richieste di nuove costruzioni, degli adempimenti di cui all’art. 11, Dlgs n. 28/2011: in particolare sebbene il decreto di che trattasi sia entrato in vigore il 29.03.2011, dalla lettura del citato art. 11 comma 1, sembrerebbe che per tali obblighi debbano osservarsi le ”decorrenze di cui all’allegato 3” (rif all. 3, art. 1 ovvero a partire dal 31.05.2012). In ultimo, tale condizione risulterebbe contrastare con quanto definito all’art. 2 lett. n) ovvero che è da intendersi quale ”nuovo fabbricato” l’edificio la cui richiesta di titolo edilizio sia stata presentata dopo il 29.03.2011.
Il Dlgs n. 28/2011 ha dato attuazione alla direttiva 2009/28/ CE sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili e recante modifica e successiva abrogazione delle direttive 2001/77/CE e 2003/30/CE. L’art. 2 comma 1 lett. n) definisce edifici di nuova costruzione ”edificio per il quale la richiesta del pertinente titolo edilizio, comunque denominato, sia stata presentata successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto”.
Il successivo art. 11 (Obbligo di integrazione delle fonti rinnovabili negli edifici di nuova costruzione e negli edifici esistenti sottoposti a ristrutturazioni rilevanti) prevede che ”i progetti di edifici di nuova costruzione ed i progetti di ristrutturazioni rilevanti degli edifici esistenti prevedono l’utilizzo di fonti rinnovabili per la copertura dei consumi di calore, di elettricità e per il raffrescamento secondo i principi minimi di integrazione e le decorrenze di cui all’allegato 3.”.
La decorrenza degli obblighi del presente decreto viene indicata, in base all’esplicito rinvio contenuto nell’art. 11, nell’allegato 3 il quale prevede che ”nel caso di edifici nuovi o edifici sottoposti a ristrutturazioni rilevanti, gli impianti di produzione di energia termica devono essere progettati e realizzati in modo da garantire il contemporaneo rispetto della copertura, tramite il ricorso ad energia prodotta da impianti alimentati da fonti rinnovabili, del 50% dei consumi previsti per l’acqua calda sanitaria e delle seguenti percentuali della somma dei consumi previsti per l’acqua calda sanitaria, il riscaldamento e il raffrescamento:
a) il 20% quando la richiesta del pertinente titolo edilizio è presentata dal 31.05.2012 al 31.12.2013;
b) il 35% quando la richiesta del pertinente titolo edilizio è presentata dall'01.01.2014 al 31.12.2016;
c) il 50% quando la richiesta del pertinente titolo edilizio è rilasciato dall'01.01.2017 ]...]
”.
Quindi, gli obblighi in materia di efficienza energetica dovranno essere rispettati a partire dal 31.05.2012, con percentuali variabili secondo il momento di presentazione della domanda per ottenere il titolo edilizio. Il presunto contrasto nella definizione di ”nuova costruzione” non sussiste considerato che l’art. 2 viene dedicato alle definizioni, e si inserisce all’interno del titolo I dedicato a Finalità e obiettivi, mentre il successivo art. 11 specifica, attraverso un preciso rinvio all’allegato 3, il momento in cui gli edifici dovranno rispettare i nuovi indici di risparmio energetico.
In conclusione, i termini di decorrenza degli obblighi di cui al Dlgs n. 28/2011 sono quelli fissati dall’allegato 3 (tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 1/2012).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI: La Corte dei Conti cambia indirizzo: il limite alle assunzioni vale anche per gli Enti non sottoposti al Patto di stabilità interno.
L'art. 14, comma 9, D.L. n. 78 del 2010, convertito in L. n. 122 del 2010, ha introdotto per tutti gli enti, sia quelli sottoposti al patto che quelli esclusi, una restrizione alle assunzioni di personale che possono essere effettuate nel limite del 20 per cento della spesa corrispondente alle cessazioni dell'anno precedente.
Resta fermo, inoltre, per gli enti non sottoposti al patto di stabilità l'obbligo di contenere la spesa entro il limite del 2004 (Corte dei conti, Sez. riunite di controllo, delibera 17.04.2012 n. 11).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Circa l’incarico di provvedere alla redazione dell’aggiornamento degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria:
1) è doveroso che sia affidato a risorse umane interne dell’ente;
2) sussiste l’impossibilità di attribuzione i compensi incentivanti di cui al codice dei contratti, essendo ricomprese le prestazioni in questione nell’ordinaria attività lavorativa già retribuita a norma di legge.

Il sindaco del comune di Cernusco sul Naviglio (MI) ha formulato alla Sezione una richiesta di parere concernente il regime giuridico degli incentivi alla realizzazione interna degli atti di pianificazione.
Il sindaco, nella richiesta di parere, riferiva in particolare della necessità di provvedere a uno studio relativo all’aggiornamento degli oneri di urbanizzazione, in adempimento della legge regionale 11.03.2005, n. 3, che prevede la determinazione degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria sulla base del piano dei servizi e del programma triennale delle opere pubbliche, emanato dai comuni interessati.
Era di presso sottolineato nella richiesta il rilievo normativo che riveste il piano dei servizi, il quale si pone sostanzialmente in rapporto di consequenzialità rispetto al programma triennale dei lavori pubblici, e di presupposizione rispetto alla successiva determinazione degli oneri di urbanizzazione, in quanto integra ai fini della determinazione del detto costo le statuizioni effettuate in sede di pianificazione urbanistica.
Tanto premesso, il comune richiedeva alla Sezione la possibilità di affidare a risorse già appartenenti all’Amministrazione l’incarico di provvedere alla redazione dell’aggiornamento degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, e la ricomprensione di detta attività nell’alveo degli atti di pianificazione di cui all’art. 92, comma 6, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163.
Il comune precisava, altresì, di essersi già dotato di atto regolamentare determinante la costituzione e la ripartizione del fondo incentivante. 
...
Il quesito promanante dal comune di Cernusco sul Naviglio concerne l’esatto perimetro applicativo dell’art. 92, comma 6, del d.lgs 163/2006 (codice dei contratti pubblici).
La disposizione prevede che “Il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato é ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto”.
Il codice dei contratti ha inteso in tal modo favorire l’affidamento di incarichi concretanti prestazioni d’opera professionale a dipendenti di ruolo dell’ente interessato, disponendo al contempo misure atte a remunerare le specifiche professionalità coinvolte.
La norma deve infatti essere letta in correlazione con la disposizione generale di cui all’art. 90, che consente, in relazione alle “prestazioni relative alla progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva di lavori, nonché alla direzione dei lavori e agli incarichi di supporto tecnico-amministrativo alle attività del responsabile del procedimento e del dirigente” che tali attività siano espletate da risorse interne alla stazione appaltante, purché in possesso dei requisiti di abilitazione professionale. In effetti, l’affidamento a soggetti comunque interni al plesso pubblicistico viene considerato dal codice dei contratti preferenziale, tanto che il comma 6 dello stesso articolo 90 stabilisce i casi in cui l’incarico di progettazione preliminare può essere legittimamente affidato a professionalità esterne all’Amministrazione.
Ciò posto, nella richiesta è evidenziato che ai predetti fini della determinazione degli oneri di urbanizzazione l’ente comunale dovrà provvedere:
i) alla costituzione di apposito gruppo di lavoro;
ii) alla determinazione dei costi reali sostenuti per la realizzazione delle opere di urbanizzazione;
iii) alla rielaborazione degli stessi anche in relazione alle scelte pianificatorie operate dal Piano dei servizi.
Il punto decisivo ai fini della resa del parere discende, sostanzialmente, dalla possibilità di ricondurre la prestazione espletanda ai fini della determinazione del costo di urbanizzazione alle attività di pianificazione, in relazione a cui il dettato del codice dei contratti prevede l’erogazione di un compenso incentivante; o alle ordinarie attività di carattere autoritativo e provvedimentale, il cui espletamento è ricompreso nei doveri di ufficio, e che pertanto sono già remunerati dalla retribuzione erogata ai dipendenti coinvolti in base al rapporto di impiego.
Sopperiscono in modo univoco, al riguardo, il criterio logico-sistematico e quello letterale.
Sotto il primo profilo, occorre evidenziare che la ragione fondante i compensi incentivanti disciplinati dall’art. 92 del codice dei contratti è quello di privilegiare l’opzione dell’affidamento a dipendenti di ruolo dell’Amministrazione di incarichi richiedenti specifiche competenze tecnico–professionali; al contempo, una volta raggiunto l’obiettivo dell’economia di spesa, una quota di detto risparmio è ritenuta dal legislatore legittimamente utilizzabile quale corrispettivo di una prestazione che ha coinvolto professionalità eccedenti quelle normalmente necessarie per l’espletamento dei doveri di ufficio.
La Sezione, con il
parere 27.01.2009 n. 9, ha infatti già avuto modo di precisare che gli atti di pianificazione richiamati dall'art. 92, comma 6, del codice dei contratti devono presentare un’attinenza con lo svolgimento di attività di governo del territorio, nonché un contenuto tecnico-documentale rientrante in specifiche competenze professionali.
Analoga impostazione era desumibile, tra l’altro, dall’orientamento dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture nella deliberazione n. 296, resa nell’adunanza del 25.10.2007. L’Autorità ha al riguardo sottolineato che “anche le prestazioni professionali relative alla redazione degli strumenti urbanistici rientrano, letteralmente, nella sfera degli appalti pubblici di servizi: essi infatti sono inclusi nei servizi di cui all’allegato II A del Codice dei contratti di cui al d.lgs. n. 163/2006 e s.m., ed in particolare nella categoria 12 (CPV n. 74250000-6, n. 74251000-3), dove sono enumerati i servizi assoggettati integralmente alla disciplina del Codice stesso (cfr. art. 20, comma 2, del Codice)”.
In altre parole, la disciplina incentivante risulta giustificata, come sopra premesso, nei limiti in cui l’incarico interno esoneri l’ente dal dispendio di risorse derivante dal ricorso ad appalto per il conseguimento della medesima professionalità.
Del resto, la norma riveste carattere eccezionale e non è quindi suscettibile di applicazione analogica (in tal senso Sez. Controllo Campania, 22.04.2008, n. 7), verificandosi infatti per le ipotesi eccettuate la riespansione del principio di onnicomprensività della retribuzione, e di sua definizione tramite i contratti collettivi, secondo quanto previsto dall’art. 45 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165.
Sotto il profilo letterale, invece, deve essere evidenziato come la qualificazione di funzione pianificatoria possa essere riferita alla sola attività di governo del territorio realizzato tramite l’emanazione di disposizioni generali, e non alla puntuale determinazione di oneri o contributi che discendono, in modo pressoché vincolato (ancorché a seguito di complessa attività di studio e ricerca) da scelte già operate a monte dall’amministrazione procedente.
Di conseguenza, l’incentivo di cui in premessa non può essere esteso alle ordinarie attività istituzionali, quali quelle regolatorie (così anche Sez. Controllo Toscana,
parere 18.10.2011 n. 213).
Dalla ricostruzione sopra operata sorgono quali corollari, da un lato:
i) non già la mera legittimità, ma addirittura la doverosità dell’affidamento a risorse interne dell’ente; e, dall’altro,
ii) l’impossibilità di attribuzione dei compensi incentivanti di cui al codice dei contratti, essendo ricomprese le prestazioni in questione nell’ordinaria attività lavorativa già retribuita a norma di legge (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 06.03.2012 n. 57).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Reati contro l’amministrazione. Danno all’immagine pubblica.
...
Il Procuratore regionale della Corte dei Conti per la Regione Lombardia ha promosso azione di responsabilità nei confronti del sig. C.M.P., all’epoca dei fatti Presidente della Commissione Sviluppo e Territorio del Comune di Milano, per un danno recato all’immagine del Comune medesimo.
In sintesi, l’attore espone che il convenuto è stato arrestato in flagranza di reato, in data 11.02.2010, per avere indotto un imprenditore, il sig. M.B., a consegnargli la complessiva somma di € 10.000/00 (suddivisa in due tranches da €. 5.000/00 ciascuna) per favorirlo nell’ambito di una concessione edilizia da costui a suo tempo richiesta.
...
e la Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Lombardia, definitivamente pronunciando, condanna C.M.P. al pagamento, in favore in favore del Comune di Milano, della somma di euro 45.000,00 (diconsi euro quarantacinquemila e zero centesimi), oltre interessi legali, da calcolare secondo le modalità indicate in parte motiva.
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La giurisdizione della Corte dei conti in materia di responsabilità amministrativa si esercita nei confronti di soggetti legati alla pubblica amministrazione da una relazione funzionale, il cd. rapporto di servizio; pertanto, per rapporto di servizio si intende la relazione con la pubblica amministrazione, caratterizzata per il tratto di investire un soggetto, altrimenti estraneo all'amministrazione, del compito di porre in essere in sua vece un'attività, senza che rilevi né la natura giuridica dell'atto di investitura, provvedimento, convenzione o contratto.
Nell’alveo della giurisdizione contabile è irragionevole ritenere che il danno all’immagine sia perseguibile nei confronti dei soli dipendenti pubblici, perché non sussiste alcuna valida motivazione che giustifichi tale discrimine, con particolare riferimento alla circostanza che il danno all’immagine dell’amministrazione è maggiore quando segue al comportamento illecito di un suo amministratore, perché in tal caso nell’opinione pubblica tende a essere più intensa l’identificazione tra soggetto agente e amministrazione da esso rappresentata.
Ai fini del ristoro del danno all’immagine pubblica il reato di concussione è uno dei reati contro la P.A. più gravi che un pubblico ufficiale possa commettere, perché oltre a sfruttare illecitamente le funzioni pubbliche svolte, il reo esercita una costrizione, più o meno intensa, sul soggetto passivo, che finisce per essere posto in una condizione di sudditanza, alterando in modo profondo il rapporto che, in un paese civile, deve intercorrere tra la pubblica amministrazione e il cittadino.
Sussiste il pregiudizio all’immagine della pubblica amministrazione quando un reato contro la stessa è commesso da chi svolge un ruolo apicale nell’ambito dell’apparato amministrativo, poiché è più facile che si diffonda all’esterno la convinzione che le pratiche illecite siano ampiamente estese nell’amministrazione con la conseguente preoccupante lesione del prestigio dell’amministrazione medesima che vede compromessi interessi di assoluto rilievo costituzionale, compendiati nell’imparzialità e nel buon andamento dell’azione amministrativa (massima tratta da www.regione.piemonte.it - Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lombardia, sentenza 20.02.2012 n. 96 - link a www.corteconti.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Compenso Merloni: va riconosciuto solo per le attività inerenti alle opere pubbliche.
Secondo un'interpretazione di natura sistematica, che tiene conto della collocazione della norma nel capo e nella sezione dedicata alla progettazione di opere pubbliche, deve ritenersi che l'art. 92, comma 6, D.Lgs. n. 163 del 2006, secondo cui il 30% della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento, tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto, trova applicazione esclusivamente in materia di lavori pubblici e non è quindi consentita alcuna interpretazione analogica atta ad includere nel sopracitato disposto normativo attività di pianificazione non attinenti alla progettazione di opere pubbliche.

Il Presidente della Provincia di Lecce, con la nota riportata in epigrafe, richiede il parere della Sezione in materia di interpretazione dell’art. 92, comma 6, del D.Lgs. 12/04/2006 n. 163 che prevede che il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato e' ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento, tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto.
In particolare, il Presidente della Provincia di Lecce specifica che i dubbi interpretativi si concentrano sull’espressione “atto di pianificazione comunque denominato” al fine di accertare se debba intendersi per tale solo un atto di pianificazione urbanistica come il Piano territoriale di coordinamento provinciale (P.T.C.P.) o anche qualsiasi altro atto che sia chiamato piano come ad esempio i cosiddetti piani strategici, i piani per l’ambiente, per il servizio rifiuti, per il turismo, per i trasporti, per la comunicazione, per la caccia, per le politiche comunitarie o per l’innovazione tecnologica.
Ad avviso del Presidente della Provincia di Lecce, sulla base di una lettura sistematica della norma che è inserita nella sezione dedicata a “progettazione interna ed esterna, livelli della progettazione” avente esclusivo riferimento ai lavori pubblici, si potrebbe dedurre che gli atti di pianificazione in parola siano quelli rientranti nelle competenze di architetti ed ingegneri per potenziali progetti di lavori pubblici e pertanto l’art. 92, comma 6, del D.Lgs. n. 163/2006 non dovrebbe riferirsi a piani di servizi pubblici.
Il Presidente della Provincia di Lecce chiede, quindi, se può essere oggetto di incentivazione, oltre al Piano territoriale di coordinamento provinciale, il piano triennale delle opere pubbliche ed, ai fini di una corretta interpretazione del sesto comma dell’art. 92 del D.Lgs. 163/2006, chiede il parere della Sezione in merito all’accezione “atti di pianificazione comunque denominati”.
...
L’art. 92, comma 6, del D.Lgs. 12/04/2006 n. 163 prevede che il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto.
La disposizione normativa su richiamata è dettata in materia di corrispettivi, incentivi per la progettazione e fondi a disposizione delle stazioni appaltanti ed è collocata nella sezione I dedicata alla “progettazione interna ed esterna, livelli della progettazione” del capo IV del codice dei contratti pubblici denominato “servizi attinenti all'architettura e all'ingegneria” e la prima norma del predetto capo, l’art. 90, è rubricata “progettazione interna ed esterna alle amministrazioni aggiudicatrici in materia di lavori pubblici”.
Inoltre, nello stesso testo del comma 6 dell’art. 92 del D.Lgs. n. 163/2006 è presente il riferimento ai dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice.
Pertanto il Collegio osserva che, secondo un’interpretazione di natura sistematica, che tiene conto della collocazione della norma nel capo e nella sezione dedicata alla progettazione di opere pubbliche, deve ritenersi che tale disposizione trova applicazione esclusivamente in materia di lavori pubblici e non è quindi consentita alcuna interpretazione analogica atta ad includere nel disposto del comma sesto dell’art. 92 attività di pianificazione non attinenti alla progettazione di opere pubbliche.
La Sezione Regionale di Controllo per la Campania, con parere 10.07.2008 n. 14 ha, infatti, chiarito che: “le disposizioni di cui all’art. 92 del D.Lgs. n.163/2006 (che per la loro puntualità descrittiva non sono suscettibili di interpretazione analogica) trovano applicazione unicamente in materia di lavori pubblici, per i casi in cui il Comune agisca in veste di Amministrazione aggiudicatrice di un’opera o di un lavoro rientrante in una delle ipotesi richiamate all’art. 3 del medesimo decreto”.
Anche la Sezione Regionale di Controllo per la Toscana, con il parere 18.10.2011 n. 213, ha specificato che lo stesso comma 6 dell’art. 92 prevede che l’incentivo alla progettazione venga ripartito “tra i dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto” e, dunque, è di palmare evidenza come il riferimento normativo e la conseguente voluntas legis sia ascrivibile solo alla materia dei lavori pubblici, presupponendosi una procedura ad evidenza pubblica finalizzata alla realizzazione di un’opera di pubblico interesse
(Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 16.01.2012 n. 1).

NEWS

PUBBLICO IMPIEGO: Licenziamenti disciplinari, per gli statali c’è solo il reintegro. In caso di illegittimità non c’è l’alternativa indennizzo.
Licenziamenti: per i dipendenti pubblici non cambierà nulla. Se il provvedimento viene giudicato illegittimo ci sarà sempre e comunque il reintegro.

Si chiude così la partita sulle tutele dell’articolo 18 per gli statali. Ovvero, senza modifiche. Nessuna convergenza quindi con le nuove norme previste dalla riforma del mercato del lavoro elaborata dal ministro Fornero per il settore privato. Dopo circa tre mesi di trattativa è stato raggiunto un protocollo di intesa tra il ministro della funzione Pubblica, Filippo Patroni Griffi, le amministrazioni locali e le organizzazioni sindacali tutte, compresa la Cgil.
Otto paginette che, dopo un passaggio formale nella riunione del 10 maggio della Conferenza unificata degli enti locali, verranno definitivamente siglate e portate in Consiglio dei ministri per il varo del relativo provvedimento: un disegno di legge delega, ma non è escluso che il premier possa optare per un emendamento al pacchetto lavoro all’esame del Senato.
La parte sui licenziamenti, naturalmente, è solo un pezzo dell’accordo. Che prevede un nuovo modello di relazioni industriali con un ruolo più significativo delle organizzazioni sindacali nei processi di mobilità e di riorganizzazione; la razionalizzazione e la semplificazione dei sistemi di valutazione e premialità; la valorizzazione del salario di produttività attraverso la contrattazione di secondo livello; una spinta alla formazione; un rafforzamento delle responsabilità dei dirigenti.
Non manca -e qui c’è il percorso di convergenza con la riforma Fornero- una nuova architettura della flessibilità in entrata. Basta con quella cattiva, basta con i co.co.co, basta con l’esercito dei duecentomila precari a vita: anche il datore di lavoro pubblico dovrà adeguarsi all’idea che «la forma ordinaria» di assunzione è «il lavoro subordinato a tempo indeterminato». Tipologie di lavoro flessibile saranno ancora utilizzabili, ma solo «per esigenze temporanee o eccezionali» e quindi per durate limitate.
Per gestire la fase di transizione entro il 30 maggio si apriranno una serie di tavoli ad hoc al ministero con i sindacati, in modo da superare gradualmente la selva di contratti di collaborazione, ma anche per consentire «la proroga e il rinnovo dei contratti esistenti nell’ambito delle risorse disponibili». Tra le idee dei sindacati c’è quella di introdurre anche nella pubblica amministrazione una sorta di concorso per gli apprendisti con contratti di 36 mesi e relativa certificazione valida ai fini di successive tornate concorsuali.
L’unica forma di licenziamento individuale prevista resta quella per motivi disciplinari. A questo proposito l’intesa, «fermo restando le competenze attribuite alla contrattazione collettiva nazionale» prevede «un rafforzamento dei doveri disciplinari dei dipendenti» e «al contempo garanzie di stabilità in caso di licenziamento illegittimo». Ovvero il reintegro.
Per quanto riguarda i processi di riorganizzazione e razionalizzazione che comportano esuberi o trasferimenti, anche in vista della spending review, i sindacati hanno chiesto la definizione di criteri trasparenti e hanno ottenuto il loro coinvolgimento nelle relative procedure.
«L’intesa sarà una buona base in vista della delega legislativa che a breve presenterò al Consiglio dei Ministri» dice Patroni Griffi. Per la Cgil «è un primo segnale di discontinuità che riapre, dopo le macerie prodotte dalla legge Brunetta, un percorso sindacale che riguarda il mondo del lavoro pubblico». Gianni Baratta, segretario confederale Cisl, parla di «importante traguardo, per la prima volta l’intesa è condivisa da tutti i pezzi della pubblica amministrazione».
Soddisfazione anche in casa Uil. Osserva il segretario confederale Paolo Pirani: «L’intesa rappresenta una positiva e importante risposta sia ai temi posti dalla Uil con lo sciopero generale delle categorie del pubblico impiego, svoltosi nei mesi scorsi, sia alla piattaforma presentata per il rilancio del valore e della qualità del lavoro pubblico» (articolo Il Messaggero del 05.05.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Licenziamenti disciplinari, l'accordo è più vicino.
Si profila un accordo sindacale articolato sul documento presentato ieri dal ministro della Pa e la Semplificazione, Filippo Patroni Griffi, per la traduzione in norme valide per il pubblico impiego  dei principi e criteri generali contenuti nel ddl di riforma del mercato del lavoro. ... (articolo Il Sole 24 Ore del 04.05.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Censimento, compensi fuori dal tetto della contrattazione.
I compensi che i comuni hanno corrisposto o corrisponderanno ai propri dipendenti per l'effettuazione del censimento della popolazione e che sono finanziati dall'Istat vanno al di fuori del tetto al fondo per la contrattazione decentrata.

E' questa la indicazione fornita dalla Ragioneria Generale dello Stato nel conto annuale del personale ... (articolo Il Sole 24 Ore del 04.05.2012 - tratto da www.corteconti.it).).

APPALTI SERVIZIAcquisti online, niente più diritti di segreteria. La novità è contenuta nel decreto legge sulla spending review.
I comuni e le province non potranno più chiedere il pagamento dei diritti di segreteria (comunemente conosciuti come diritti di rogito) per i contratti che regolino gli acquisti di beni e servizi scaturenti da modalità elettroniche.
Lo schema di decreto-legge pensato per determinare i poteri e le funzioni di Enrico Bondi ai fini della spending review sottrae alle amministrazioni locali il potere impositivo di acquisire i diritti di segreteria, previsti per la stipulazione dei contratti, nei quali intervenga il segretario comunale e provinciale, disapplicando le disposizioni dell'articolo 40 della legge 604/1962 ai casi di acquisti effettuati mediante sistemi informatici.
L'ipotesi è riferita alle forme di individuazione del contraente definite dal dlgs 163/2006 e riferibili al mercato elettronico della Consip (sia mediante confronto concorrenziale tra i beni e servizi presenti nel catalogo, sia mediante la procedura concorrenziale denominata “richiesta d'offerta"), alle aste elettroniche ed infine ai sistemi dinamici di acquisizione, e ad ogni altro sistema di selezione del contraente realizzato da centrali di committenza o da stazioni appaltanti con modalità informatiche.
La disapplicazione dell'esigibilità dei diritti di segreteria riguarda esclusivamente lo strumento selettivo, cioè la modalità di gara su basi informatiche e non è connessa al valore del contratto.
Dunque, qualunque sia l'importo del contratto, i diritti di segreteria non saranno esigibili, anche laddove la stipulazione avvenga mediante atto pubblico in forma amministrativa, redatto dal segretario comunale e provinciale.
Nel caso degli acquisti da mercato elettronico Consip, in effetti, i diritti di segreteria non potrebbero comunque essere esatti, perché la stipulazione del contratto avviene attraverso la sottoscrizione con firma digitale dell'ordine di acquisto informatico, prodotto al sistema. Da notare che il decreto estende agli acquisti da mercato elettronico il beneficio della possibilità di non attendere il termine dilatorio di 35 giorni appunto per la stipulazione del contratto. Il che consentirà di abbreviare i tempi di approvvigionamento e di pagamento.
Si tratta indubbiamente di disposizioni miranti alla semplificazione, che probabilmente avrebbero dovuto trovare il loro posto nel d.l. 5/2012, più che nella disciplina della spending review.
A ben guardare, infatti, la previsione non comporta alcun taglio della spesa per le amministrazioni locali, ma anzi implica una mancata entrata, dal momento che i diritti di segreteria costituiscono una fonte di acquisizione di risorse per comuni e province. Un po' un controsenso, controbilanciato da una maggiore speditezza delle procedure e, soprattutto, dalla riduzione degli oneri a carico delle imprese appaltatrici (articolo ItaliaOggi del 04.05.2012).

ENTI LOCALI - VARIAree edificabili, caos Imu. Il pagamento non esclude l'accertamento dell'ente. Se il comune ravvisa che il valore venale è superiore scatta l'azione di recupero.
Altra tegola sui contribuenti: anche se pagheranno l'Imu sui valori delle aree edificabili indicati dall'amministrazione comunale, non saranno comunque al riparo da possibili accertamenti. È l'effetto dell'abrogazione, disposta dalla legge di conversione del decreto fiscale, dell'art. 59 del dlgs 446/1997.
Che consentiva ai comuni di individuare i valori delle aree fabbricabili «al fine della limitazione del potere di accertamento» qualora l'imposta fosse stata versata sulla base di un valore non inferiore a quello predeterminato dal comune. Ciò non significa che ai municipi sia ora preclusa la possibilità di fornire dei parametri di riferimento utili a indirizzare i contribuenti nella quantificazione della base imponibile, ma qualora l'ufficio tributi reperisse elementi atti a dimostrare che il valore venale è superiore a quello a suo tempo indicato dallo stesso comune, l'azione accertatrice diventerebbe necessaria, stante il principio di irrinunciabilità del prelievo tributario di cui una parte (pari al 3,8 per mille del valore) è dovuta allo stato.
La norma abrogata. L'art. 59, c. 1 lett. g), del dlgs 446/1997, con l'intento di ridurre l'insorgenza del contenzioso in materia di Ici, riconosceva ai comuni la possibilità di predeterminare i valori presunti dei terreni edificabili. Con la conseguenza che, laddove tale potere veniva esercitato, il contribuente che versava l'imposta sulla base degli elementi forniti dall'ente non poteva essere accertato: neppure nell'ipotesi in cui l'ufficio tributi fosse entrato in possesso di riscontri oggettivi (per esempio perizie di stima o atti di compravendita) idonei confutare l'inattendibilità del parametro di riferimento.
Lo scenario attuale. Dall'art. 14, c. 6, del dlgs n. 23/2011, che in materia di Imu riconosceva ai comuni la stessa potestà regolamentare Ici di cui agli art. 52 e 59 del dlgs 446/1997, la legge (n. 44/2012) di conversione del dl 16/2012 ha espunto il richiamo all'art. 59. Cosicché l'unico riferimento normativo resta ora l'art. 52, il quale, riconoscendo ai comuni la possibilità di disciplinare le proprie entrate tributarie (salvo per quanto attiene all'individuazione e alla definizione delle fattispecie imponibili, dei soggetti passivi e dell'aliquota massima), potrebbe indurre a ritenere che quanto prima previsto dall'art. 59, c. 1, lett. g) sia, comunque, ricompreso nella più ampia portata dell'art. 52.
In realtà, oltre al rispetto del principio di riserva di legge di cui all'art. 23 della Costituzione, occorre evidenziare che la potestà regolamentare dei comuni non può neppure travalicare i principi generali dell'ordinamento tributario, tra cui, ai fini che qui interessano, vanno ricordati quello di indisponibilità dell'obbligazione tributaria e quello di irrinunciabilità del prelievo tributario.
Il che sta a significare che i comuni potranno ancora fissare i valori presunti delle aree edificabili ai fini Imu, ma, in assenza di una specifica norma di legge, sarà precluso ai regolamenti limitare l'attività di accertamento dell'ufficio nei casi in cui la base imponibile dichiarata dal contribuente, ancorché in linea con i parametri comunali, risulti inferiore a quella effettiva di mercato determinata in ossequio all'art. 5, c. 5, del dlgs n. 504/1992.
Circolare esplicativa del Mef. Intanto, l'attesa circolare esplicativa del Mef sulla disciplina Imu prende tempo. Attesa per oggi, la nota molto probabilmente arriverà la prossima settimana (articolo ItaliaOggi del 04.05.2012).

CONSIGLIERI COMUNALIOsservatorio Viminale/ Trasferimento non di diritto.
È applicabile a un consigliere comunale il beneficio di cui all'art. 78, comma 6, del Tuel, in ordine alla richiesta di trasferimento temporaneo, fino al termine del mandato, in una località prossima a quella nella quale svolge il mandato stesso?

La disposizione normativa richiamata prevede che la richiesta degli amministratori lavoratori dipendenti pubblici e privati, «di avvicinamento al luogo in cui viene svolto il mandato amministrativo deve essere esaminata dal datore di lavoro con criteri di priorità». Priorità che tuttavia non si identifica con un dovere assoluto di provvedere in senso favorevole.
Infatti, l'articolo 78, comma 6, del citato decreto legislativo, che è norma di garanzia a favore di tutti i lavoratori dipendenti per evitare loro restrizioni o limitazioni all'esercizio delle funzioni connesse all'espletamento del proprio mandato, se garantisce agli amministratori lavoratori dipendenti l'inamovibilità dal posto di lavoro già coperto, non assicura, tuttavia, agli stessi il diritto ad essere trasferiti, su domanda, presso la sede nella quale espletano il mandato elettorale, dovendo la richiesta di avvicinamento soltanto «essere esaminata dal datore di lavoro con criteri di priorità».
In occasione della richiesta di avvicinamento, proposta ai sensi del riferito art. 78, l'amministrazione/datore di lavoro deve, pertanto, effettuare una valutazione comparativa tra le esigenze dell'amministratore/dipendente e quelle organizzative dell'azienda/l'amministrazione, quanto meno riconoscendo al lavoratore investito del mandato amministrativo il godimento di un titolo preferenziale.
Il testo della norma conferma, quindi, che si tratta di una disposizione di stretta interpretazione che non autorizza a concludere che al lavoratore, che ricopre una carica politica, sia riconosciuto il diritto al trasferimento, bensì attribuisce allo stesso il solo diritto ad un esame prioritario della sua istanza, nel rispetto della specifica disciplina recata dall''ordinamento speciale dell'amministrazione di appartenenza (articolo ItaliaOggi del 04.05.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONiente incentivi agli uffici tributi. L'Anutel non condivide la scelta del governo.
Tra gli effetti prodotti dall'abrogazione dell'art. 59 rientra l'inapplicabilità della disposizione che consentiva ai comuni di riconoscere compensi incentivanti nell'ambito della lotta all'evasione Ici, applicabile in ambito Imu grazie al richiamo dell'art. 59 a opera del dlgs 23/2011.
È una scelta che non mancherà di produrre conseguenze negative tra gli addetti agli uffici tributi e che contraddice lo spirito iniziale che aveva portato all'istituzione di quell'incentivo, in un paese ove il fenomeno dell'evasione fiscale sembra aver raggiunto livelli altissimi.
Secondo il legislatore, il contributo che i comuni possono dare nella gestione della fiscalità locale è di fondamentale importanza. Anche la stessa Agenzia delle entrate, al fine di una maggiore lotta all'evasione, riconosce un incentivo ai comuni per le segnalazioni qualificate, quindi implicitamente viene riconosciuto un maggiore ruolo degli enti locali che sono conoscitori dei territori, ma che non hanno gli strumenti propri dell'Agenzia. Allora perché sminuire il ruolo di funzionari e operatori che s'ingegnano a costruire sistemi di controllo e incrocio di banche dati per il solo fine di conseguire l'equità fiscale?
Rincorrere un contribuente che si diletta nell'evasione o elusione fiscale non è uno sport così gratificante. La gratifica economica serviva per dare anche un briciolo di dignità professionale. Sarebbe stato più saggio regolare l'incentivo piuttosto che falciarlo. Ma, caso molto strano, l'incentivo a determinate figure operanti nella p.a. viene salvaguardato, operando così una evidente discriminazione tra i diversi settori. Se oggi, attraverso l'eliminazione degli incentivi al personale, il governo ritiene di ridurre i costi deve farlo per tutti gli appartenenti alla p.a. iniziando proprio dai ministeri, dalle Agenzie, e da tutte le figure che oggi possono usufruire di norme specifiche di tutela, in poche parole i sacrifici li fanno tutti. Non bastavano alcuni provvedimenti dell'ex ministro Brunetta, relativamente all'uso dei mezzi propri da parte dei dipendenti della p.a. per partecipare alle attività formative?
L'Anutel non può tacere davanti alla dispersione di un patrimonio accumulato dai dipendenti negli anni e dimostrerà come moltissimi comuni saranno costretti a esternalizzare le attività accertative, con rimunerazioni che a oggi raggiungono anche cifre del 40% sulle somme riscosse, con evidente danno economico (articolo ItaliaOggi del 04.05.2012).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATAIl Durc dalla cassa edile. Il rilascio solo se l'ente ha valenza nazionale. Il ministero chiarisce i requisiti richiesti: reciprocità e rappresentatività.
Il Durc è un'esclusiva delle casse edili. Infatti, non può essere emesso da organismi operativi al solo livello territoriale, non costituiti sulla base di ccnl comparativamente più rappresentativi e non in possesso di collegamento con la Cnce (che garantisce l'osservanza del principio di reciprocità tra le diverse casse edili provinciali).
A precisarlo è il Ministero del Lavoro nella nota 02.05.2012 n. 8367 di prot., in risposta alle richieste di chiarimenti in merito ai criteri di individuazione delle casse edili ai fini della verifica della legittimazione al rilascio del documento unico di regolarità contributiva.
Enti bilaterali. Il ministero ribadisce, prima di tutto, che ai fini della costituzione di un ente bilaterale (qual è una cassa edile) legittimato allo svolgimento dell'attività certificativa, la fonte normativa di riferimento è l'articolo 2, lettera h, del dlgs n. 276/2003 (riforma Biagi), il quale individua tali organismi come quelli «costituiti a iniziativa di una o più associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative»; nonché il dm 24.10.2007, attuativo della legge n. 296/2006, il quale specifica che il requisito della maggiore rappresentatività comparata deve essere posseduto da ciascuna organizzazione, sia datoriale sia sindacale, che concorre alla costituzione della cassa edile (articolo 2, comma 2).
Principio di reciprocità. In secondo luogo, aggiunge il ministero, le casse abilitate sono quelle che osservano il cosiddetto principio di reciprocità in base al quale, al fine di armonizzare le dichiarazioni di regolarità contributiva rilasciate dalle diverse casse edili operanti sul territorio nazionale, si ha un reciproco riconoscimento dei versamenti operati presso ciascuna di esse.
Si tratta, precisa il ministero, di un requisito imprescindibile poiché il dlgs n. 163/2006 stabilisce che «le casse edili che non applicano la reciprocità con altre case edili regolarmente costituite non possono rilasciare dichiarazioni liberatorie di regolarità contributiva» (articolo 252, comma 5). Tale principio, spiega il ministero, è oggi assicurato attraverso la cooperazione telematica con la commissione nazionale paritetica per le casse edili (Cnce).
L'esclusiva delle casse edili. In conclusione, il ministero spiega che il possesso dei predetti requisiti è «elemento di carattere costitutivo ai fini della possibilità per le casse di svolgere gli adempimenti certificativi» legati alla regolarità contributiva (Durc).
Ne deriva che gli organismi che non ne sono in possesso, perché operanti al solo livello territoriale, non costituiti da contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative e non in possesso del requisito della reciprocità assicurato dal collegamento con la Cnce, «non possono definirsi casse edili ai sensi del dlgs n. 276/2003 e, conseguentemente, non possono rilasciare il Durc». Pertanto, eventuali attestazioni di regolarità rilasciate da tali casse devono considerarsi giuridicamente inefficaci a tutti gli effetti di legge (articolo ItaliaOggi del 03.05.2012).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVILa disposizione di cui all'art. 10, lett. b), della L. 241/1990 impone all'amministrazione procedente di "valutare" le osservazioni, ovvero di tenerne conto e di non ignorarle.
Peraltro, l'obbligo per l'amministrazione di tenere conto delle osservazioni presentate a seguito della comunicazione di avvio del procedimento non impone la puntuale e analitica confutazione delle argomentazioni svolte dalla parte privata, essendo sufficiente, ai fini della giustificazione del provvedimento adottato, la motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno dell'atto stesso.

La disposizione di cui all'art. 10, lett. b), della L. 241/1990 impone all'amministrazione procedente di "valutare" le osservazioni, ovvero di tenerne conto e di non ignorarle.
Peraltro, l'obbligo per l'amministrazione di tenere conto delle osservazioni presentate a seguito della comunicazione di avvio del procedimento non impone la puntuale e analitica confutazione delle argomentazioni svolte dalla parte privata, essendo sufficiente, ai fini della giustificazione del provvedimento adottato, la motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno dell'atto stesso (Cfr. TAR Sardegna Sez. II, 23.02.2012 n. 181; TAR Liguria, Sez. I, 21.03.2011 n. 432; TAR Campania, Sez. VII, 07.05.2010 n. 3072; TAR Lazio, Sez. I, 04.08.2006 n. 6950)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 04.05.2012 n. 772 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALaddove intercorra un breve lasso temporale intercorso tra il rilascio del premesso di costruire, e la comunicazione di avvio del procedimento di annullamento, e non sia ancora iniziata la realizzazione dell’opera, è da ritenersi sufficiente, quale presupposto per l'esercizio del potere di autotutela, l'esigenza di ripristino della legalità ed una motivazione che faccia unicamente riferimento alla disposizione violata.
In tale contesto, infatti, non si è ingenerato alcun legittimo affidamento nel destinatario del provvedimento, posto che l'annullamento d'ufficio interviene a breve distanza di tempo dall'adozione del provvedimento illegittimo, sicché la giurisprudenza è concorde nel non ritenere necessaria una penetrante motivazione sull'interesse pubblico all'annullamento, né una comparazione di tale interesse con l'interesse privato sacrificato.

Laddove, come nel caso all’esame, intercorra un breve lasso temporale intercorso tra il rilascio del premesso di costruire (che è avvenuto in data 25.03.2011), e la comunicazione di avvio del procedimento di annullamento (effettuata in data 21.04.2011), e non sia ancora iniziata la realizzazione dell’opera, è da ritenersi sufficiente, quale presupposto per l'esercizio del potere di autotutela, l'esigenza di ripristino della legalità ed una motivazione che faccia unicamente riferimento alla disposizione violata.
In tale contesto, infatti, non si è ingenerato alcun legittimo affidamento nel destinatario del provvedimento, posto che l'annullamento d'ufficio interviene a breve distanza di tempo dall'adozione del provvedimento illegittimo, sicché la giurisprudenza è concorde nel non ritenere necessaria una penetrante motivazione sull'interesse pubblico all'annullamento, né una comparazione di tale interesse con l'interesse privato sacrificato (cfr. TAR Milano, Sez. IV, 13.04.2011 , n. 971; TAR Lecce Sez. III 06.06.2008 n. 1680; TAR Campania, Sez. VII, 04.07.2007, n. 6461; TRGA, Bolzano, 07.10.2006, n. 379; TAR Brescia, 04.06.2004, n. 609)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 04.05.2012 n. 772 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Secondo i consolidati principi forgiati dalla giurisprudenza in relazione all’individuazione dei presupposti per la proposizione dell’azione di accertamento dell’illegittimità del silenzio–inadempimento:
a) i provvedimenti di autotutela sono manifestazione dell’esercizio di un potere tipicamente discrezionale dell’amministrazione che non ha alcun obbligo di attivarlo e, qualora intenda farlo, deve valutare la sussistenza o meno di un interesse che giustifichi la rimozione dell’atto, valutazione della quale essa sola è titolare e che non può ritenersi dovuta nel caso di una situazione già definita con provvedimento inoppugnabile; pertanto, una volta che il privato, o per aver esaurito i mezzi di impugnazione che l’ordinamento gli garantisce, o per aver lasciato trascorrere senza attivarsi il termine previsto a pena di decadenza, si trovi di fronte ad un provvedimento inoppugnabile a fronte del quale può solo sollecitare l’esercizio del potere da parte dell’amministrazione, quest’ultima, a fronte della domanda di riesame non ha alcun obbligo di rispondere;
b) è esclusa la possibilità di fare ricorso alla procedura del silenzio rifiuto allo scopo di provocare il ricorso dell’amministrazione all’autotutela; tale divieto trova il proprio fondamento nell’esigenza di evitare il superamento della regola della necessaria impugnazione dell’atto amministrativo nel termine di decadenza; siffatto escamotage presuppone in definitiva una sequenza procedimentale in cui sussista un provvedimento non impugnato, e l’intrapresa della procedura del silenzio rifiuto allo scopo di provocare l’adozione di un secondo provvedimento, volto a mettere nel nulla quello non tempestivamente impugnato;
c) la richiesta dei privati, rivolta all’amministrazione, di esercizio dell’autotutela, è una mera denuncia, con funzione sollecitatoria, ma non fa sorgere in capo all’amministrazione alcun obbligo di provvedere.
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Per quanto concerne la violazione dell’obbligo di preavviso di rigetto sancito dall’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, è sufficiente evidenziare che:
a) non ha carattere tassativo l’elenco delle ipotesi, di cui all’ultimo periodo dell’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, per le quali non è necessaria la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda;
b) la mancata comunicazione del preavviso di rigetto non comporta ex se l’illegittimità del provvedimento finale in quanto la norma sancita dall’art. 10-bis cit., và interpretata alla luce del successivo art. 21-octies, co. 2, l. n. 241 del 1990, il quale, nell’imporre al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare l’atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo, rende irrilevante la violazione delle disposizioni sul procedimento o sulla forma dell’atto allorché il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato;
c) la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda non è necessaria in relazione alle decisioni di ricorsi gerarchici per le seguenti ragioni:
   I) il preavviso di rigetto si applica ai procedimenti ad «istanza di parte»; invece il ricorso amministrativo non è assimilabile a un’istanza di provvedimento perché costituisce la contestazione di un provvedimento già emanato;
   II) la previsione del preavviso di rigetto è diretta a promuovere il contraddittorio prima dell’adozione di un provvedimento di amministrazione attiva; invece nel caso del ricorso amministrativo il provvedimento di amministrazione attiva è già stato emanato e impugnato;
   III) prima del provvedimento impugnato il privato, di regola, ha già potuto interloquire con l’amministrazione; pertanto un ulteriore preavviso di rigetto introdurrebbe una ulteriore fase di contraddittorio, sostanzialmente inutile e in contrasto con le esigenze di buon andamento, economicità e celerità dell’azione amministrativa;
   IV) la comunicazione del preavviso di rigetto interrompe i termini per l’emanazione del provvedimento finale; questo effetto è però incompatibile con la disciplina del ricorso amministrativo perché comporterebbe il raddoppio dei termini di decisione del ricorso;
   V) il procedimento avviato col ricorso gerarchico può concludersi col «silenzio», con l’effetto di consentire al ricorrente di impugnare in sede giurisdizionale il provvedimento già impugnato in sede amministrativa; tale disciplina è incompatibile con la necessità del preavviso di rigetto;
   VI) la decisione dell’amministrazione sul ricorso gerarchico ha carattere di segretezza fino alla sua emanazione, e pertanto non ammette un preavviso di rigetto.

Il diniego opposto dal comune, da qualificarsi come rifiuto espresso di autotutela, si è limitato, nella sostanza, ad esplicitare quanto stabilito, in modo vincolante per l’ente, dai presupposti provvedimenti rimasti inoppugnati; esso, come tale, risulta privo di autonoma lesività in considerazione della sua oggettiva natura non provvedimentale e del suo contenuto interamente vincolato.
Il potere di autotutela amministrativa mediante annullamento è un potere di merito dell’amministrazione, incoercibile da parte del giudice amministrativo.
L’art. 21-nonies l. n. 241 del 1990 ha disciplinato i presupposti e le forme dell’annullamento d’ufficio, ma non ha modificato la natura del potere, e non lo ha trasformato da discrezionale in obbligatorio, né ha previsto un interesse legittimo dei privati all’autotutela amministrativa.
Il potere di autotutela resta un potere di merito, che si esercita previa valutazione delle ragioni di pubblico interesse, valutazione riservata alla p.a. e insindacabile da parte del giudice.
Si deve anzitutto osservare che, di regola, il diniego di autotutela è privo di autonoma portata lesiva, e pertanto difetta, in relazione ad esso, un interesse concreto e attuale a contestarlo.
Infatti la lesione discende già dal provvedimento originario, in relazione al quale viene invocata l’autotutela, ed è tale atto che deve (avrebbe dovuto) essere tempestivamente impugnato.
Ordinariamente, il diniego espresso di autotutela è un atto meramente confermativo dell’originario provvedimento, che non compie una nuova valutazione degli interessi in gioco, e che pertanto non può essere un mezzo per una sostanziale rimessione in termini quanto alla contestazione dell’originario provvedimento.
In secondo luogo il diniego di autotutela si fonda su ragioni di merito amministrativo, che esulano dalla giurisdizione di qualsivoglia giudice.
Il giudice non può valutare se il diniego di autotutela è stato bene o male esercitato, perché se ciò facesse la conseguenza sarebbe un ordine, rivolto all’amministrazione, di riesercizio del potere di autotutela secondo parametri fissati dal giudice, ma è evidente che questo sarebbe uno sconfinamento in un potere di merito riservato esclusivamente all’amministrazione e incoercibile; il diniego espresso di autotutela non è impugnabile per l’assorbente ragione che si tratta di atto espressione di un potere di merito, su cui il giudice amministrativo non ha giurisdizione.
Solo nel caso –che nella specie non ricorre– in cui l’amministrazione, sollecitata ad esercitare l’autotutela –riesamina l’originario provvedimento e a seguito di appropriato procedimento amministrativo conferma –con una nuova valutazione degli interessi in gioco e con una motivazione nuova– l’originario provvedimento, si ha un atto di conferma in senso proprio, autonomamente lesivo e pertanto impugnabile.
Sul piano sistematico tali conclusioni sono coerenti con i consolidati principi forgiati dalla giurisprudenza in relazione all’individuazione dei presupposti per la proposizione dell’azione di accertamento dell’illegittimità del silenzio–inadempimento (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2010, n. 1469; sez. IV, 16.09.2008 n. 4362; sez. IV, 09.08.2005, n. 4227; sez. VI, 04.02.2002, n. 4453; sez. VI, 01.04.1992, n. 201, cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d), c.p.a.), in forza dei quali:
a) i provvedimenti di autotutela sono manifestazione dell’esercizio di un potere tipicamente discrezionale dell’amministrazione che non ha alcun obbligo di attivarlo e, qualora intenda farlo, deve valutare la sussistenza o meno di un interesse che giustifichi la rimozione dell’atto, valutazione della quale essa sola è titolare e che non può ritenersi dovuta nel caso di una situazione già definita con provvedimento inoppugnabile; pertanto, una volta che il privato, o per aver esaurito i mezzi di impugnazione che l’ordinamento gli garantisce, o per aver lasciato trascorrere senza attivarsi il termine previsto a pena di decadenza, si trovi di fronte ad un provvedimento inoppugnabile a fronte del quale può solo sollecitare l’esercizio del potere da parte dell’amministrazione, quest’ultima, a fronte della domanda di riesame non ha alcun obbligo di rispondere;
b) è esclusa la possibilità di fare ricorso alla procedura del silenzio rifiuto allo scopo di provocare il ricorso dell’amministrazione all’autotutela; tale divieto trova il proprio fondamento nell’esigenza di evitare il superamento della regola della necessaria impugnazione dell’atto amministrativo nel termine di decadenza; siffatto escamotage presuppone in definitiva una sequenza procedimentale in cui sussista un provvedimento non impugnato, e l’intrapresa della procedura del silenzio rifiuto allo scopo di provocare l’adozione di un secondo provvedimento, volto a mettere nel nulla quello non tempestivamente impugnato;
c) la richiesta dei privati, rivolta all’amministrazione, di esercizio dell’autotutela, è una mera denuncia, con funzione sollecitatoria, ma non fa sorgere in capo all’amministrazione alcun obbligo di provvedere.
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Per quanto concerne, infine, la violazione dell’obbligo di preavviso di rigetto sancito dall’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, è sufficiente evidenziare, in una con la giurisprudenza di questo Consiglio (cfr., ex plurimis, Cons. giust. amm., 04.07.2011, n. 472; 03.03.2011, n. 161; Cons. Stato, sez. III, 11.01.2011, n. 1638/2010; com. spec., 26.02.2008, n. 2518/2007, cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d), c.p.a.), che:
a) non ha carattere tassativo l’elenco delle ipotesi, di cui all’ultimo periodo dell’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, per le quali non è necessaria la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda;
b) la mancata comunicazione del preavviso di rigetto non comporta ex se l’illegittimità del provvedimento finale in quanto la norma sancita dall’art. 10-bis cit., và interpretata alla luce del successivo art. 21-octies, co. 2, l. n. 241 del 1990, il quale, nell’imporre al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare l’atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo, rende irrilevante la violazione delle disposizioni sul procedimento o sulla forma dell’atto allorché il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato;
c) la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda non è necessaria in relazione alle decisioni di ricorsi gerarchici per le seguenti ragioni:
   I) il preavviso di rigetto si applica ai procedimenti ad «istanza di parte»; invece il ricorso amministrativo non è assimilabile a un’istanza di provvedimento perché costituisce la contestazione di un provvedimento già emanato;
   II) la previsione del preavviso di rigetto è diretta a promuovere il contraddittorio prima dell’adozione di un provvedimento di amministrazione attiva; invece nel caso del ricorso amministrativo il provvedimento di amministrazione attiva è già stato emanato e impugnato;
   III) prima del provvedimento impugnato il privato, di regola, ha già potuto interloquire con l’amministrazione; pertanto un ulteriore preavviso di rigetto introdurrebbe una ulteriore fase di contraddittorio, sostanzialmente inutile e in contrasto con le esigenze di buon andamento, economicità e celerità dell’azione amministrativa;
   IV) la comunicazione del preavviso di rigetto interrompe i termini per l’emanazione del provvedimento finale; questo effetto è però incompatibile con la disciplina del ricorso amministrativo perché comporterebbe il raddoppio dei termini di decisione del ricorso;
   V) il procedimento avviato col ricorso gerarchico può concludersi col «silenzio», con l’effetto di consentire al ricorrente di impugnare in sede giurisdizionale il provvedimento già impugnato in sede amministrativa; tale disciplina è incompatibile con la necessità del preavviso di rigetto;
   VI) la decisione dell’amministrazione sul ricorso gerarchico ha carattere di segretezza fino alla sua emanazione, e pertanto non ammette un preavviso di rigetto.
Le conclusioni cui è pervenuto questo Consiglio, circa l’inapplicabilità dell’art. 10-bis cit. ai ricorsi amministrativi nonché ai procedimenti di carattere vincolato, si attagliano al caso di specie, caratterizzato dalla presenza di un procedimento attivato in sede di autotutela (che presenta, nella sostanza, alcune delle sopra evidenziate caratteristiche del procedimento giustiziale), il quale interviene su un assetto di interessi pubblici e privati interamente definito da un contesto provvedimentale ormai intangibile
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 03.05.2012 n. 2550 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’annullamento d’ufficio (ndr: della concessione edilizia) presuppone una congrua motivazione sull’interesse pubblico attuale e concreto a sostegno dell’esercizio discrezionale dei poteri di autotutela, con un’adeguata ponderazione comparativa la quale tenga anche conto dell’interesse dei destinatari dell’atto al mantenimento delle posizioni che su di esso si sono consolidate, e del conseguente affidamento derivante dal comportamento seguito dall’amministrazione.
Per costante giurisprudenza, l’annullamento d’ufficio (ndr: della concessione edilizia) presuppone una congrua motivazione sull’interesse pubblico attuale e concreto a sostegno dell’esercizio discrezionale dei poteri di autotutela, con un’adeguata ponderazione comparativa la quale tenga anche conto dell’interesse dei destinatari dell’atto al mantenimento delle posizioni che su di esso si sono consolidate, e del conseguente affidamento derivante dal comportamento seguito dall’amministrazione (cfr. ex plurimis, TAR Campania Salerno, sez. I – 03/01/2012 n. 3; Consiglio di Stato, sez. IV – 16/04/2010 n. 2178) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 03.05.2012 n. 740 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa giurisprudenza scinde gli effetti caducatori derivanti dall’annullamento dell’atto a contenuto generale –i quali espandono la propria efficacia erga omnes– dagli effetti conformativi del giudicato che statuiscono vincoli e limiti alla successiva azione amministrativa, producendo effetti preclusivi (e vietando pertanto di assumere nuovi provvedimenti di contenuto analogo a quelli annullati) solo nei confronti di coloro che sono stati parti in quel giudizio.
E’ stato puntualmente osservato che “la sfera di efficacia soggettiva di una pronuncia giurisdizionale amministrativa di annullamento va differenziatamente individuata a seconda che si abbia riguardo alla sua parte dispositiva-cassatoria dell’atto, ovvero a quella ordinatoria-prescrittiva, statuente limiti e vincoli per la successiva azione dell’Amministrazione. Infatti, in ordine alla prima parte, in quanto comportante l’eliminazione dal mondo giuridico di una entità obiettiva quale il provvedimento impugnato, la pronuncia non può che operare, necessariamente, erga omnes, essendo l'istituto dell'annullamento ontologicamente insuscettibile di produrre la caducazione di un atto per taluni e non per altri.
Al contrario, relativamente alla parte ordinatoria-prescrittiva, la pronuncia si atteggia come tipicamente inerente al rapporto giuridico dedotto in giudizio …., che viene esaminato ed in ordine al quale prescrizioni e vincoli sono posti negli stretti limiti degli interessi sostanziali fatti valere dall'istante, delle censure dedotte e delle contrapposte eccezioni sollevate. Donde l'applicabilità in parte qua … del principio proprio delle pronunce giurisdizionali civili -pur esse, di norma, tipicamente inerenti a rapporti- secondo cui il giudicato fa stato unicamente fra le parti, i loro eredi ed aventi causa (art. 2909 del c.c.)
”.
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A seguito dell’annullamento in sede giurisdizionale di un provvedimento, quello precedente non rivive in quanto definitivamente abrogato e sostituito dal successivo. In altri termini l’atto soppresso da un successivo provvedimento (poi annullato dal giudice) è definitivamente venuto meno (e non semplicemente posto in stato di quiescenza) e non può “riaffiorare” nel mondo giuridico a seguito della caducazione dell’effetto abrogante.
Più in generale questo Tribunale, nell’affrontare una questione di successione di leggi in materia urbanistica, ha affermato che l’abrogazione di disposizioni abrogative non fa rivivere le disposizioni da queste ultime soppresse: se il legislatore intende far rivivere una disposizione abrogata, infatti, non deve soltanto espungere dall’ordinamento la disposizione abrogativa, ma è necessario che disponga altresì la reviviscenza della prima in modo espresso ed univoco, derogando alla regola generale per cui, in linea di principio, l’abrogazione degli atti normativi ha carattere di definitività.

La giurisprudenza scinde gli effetti caducatori derivanti dall’annullamento dell’atto a contenuto generale –i quali espandono la propria efficacia erga omnes– dagli effetti conformativi del giudicato che statuiscono vincoli e limiti alla successiva azione amministrativa, producendo effetti preclusivi (e vietando pertanto di assumere nuovi provvedimenti di contenuto analogo a quelli annullati) solo nei confronti di coloro che sono stati parti in quel giudizio (cfr. TAR Veneto, sez. III – 04/08/2011 n. 1346; 21/04/2010 n. 1494; TAR Campania Salerno, sez. II – 18/2/2010 n. 1510).
E’ stato puntualmente osservato (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV – 15/06/2004 n. 3939) che “la sfera di efficacia soggettiva di una pronuncia giurisdizionale amministrativa di annullamento va differenziatamente individuata a seconda che si abbia riguardo alla sua parte dispositiva-cassatoria dell’atto, ovvero a quella ordinatoria-prescrittiva, statuente limiti e vincoli per la successiva azione dell’Amministrazione. Infatti, in ordine alla prima parte, in quanto comportante l’eliminazione dal mondo giuridico di una entità obiettiva quale il provvedimento impugnato, la pronuncia non può che operare, necessariamente, erga omnes, essendo l'istituto dell'annullamento ontologicamente insuscettibile di produrre la caducazione di un atto per taluni e non per altri.
Al contrario, relativamente alla parte ordinatoria-prescrittiva, la pronuncia si atteggia come tipicamente inerente al rapporto giuridico dedotto in giudizio …., che viene esaminato ed in ordine al quale prescrizioni e vincoli sono posti negli stretti limiti degli interessi sostanziali fatti valere dall'istante, delle censure dedotte e delle contrapposte eccezioni sollevate. Donde l'applicabilità in parte qua … del principio proprio delle pronunce giurisdizionali civili -pur esse, di norma, tipicamente inerenti a rapporti- secondo cui il giudicato fa stato unicamente fra le parti, i loro eredi ed aventi causa (art. 2909 del c.c.)
”.
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In linea generale, a seguito dell’annullamento in sede giurisdizionale di un provvedimento, quello precedente non rivive in quanto definitivamente abrogato e sostituito dal successivo. In altri termini l’atto soppresso da un successivo provvedimento (poi annullato dal giudice) è definitivamente venuto meno (e non semplicemente posto in stato di quiescenza) e non può “riaffiorare” nel mondo giuridico a seguito della caducazione dell’effetto abrogante (cfr. TAR Sicilia Palermo, sez. III – 15/02/2011 n. 277).
Più in generale questo Tribunale, nell’affrontare una questione di successione di leggi in materia urbanistica, ha affermato che l’abrogazione di disposizioni abrogative non fa rivivere le disposizioni da queste ultime soppresse: se il legislatore intende far rivivere una disposizione abrogata, infatti, non deve soltanto espungere dall’ordinamento la disposizione abrogativa, ma è necessario che disponga altresì la reviviscenza della prima in modo espresso ed univoco, derogando alla regola generale per cui, in linea di principio, l’abrogazione degli atti normativi ha carattere di definitività (cfr. sentenze TAR Brescia, sez. I – 24/06/2009 n. 1321; 12/02/2010 n. 732; 05/04/2007 n. 349, che richiama ampia giurisprudenza ossia Consiglio di Stato, sez. VI – 15/04/1987 n. 254; Consiglio di Stato, sez. VI – 31/03/1981 n. 133; Corte di cassazione, sez. lavoro – 08/06/1979 n. 3284)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 03.05.2012 n. 739 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTINelle gare pubbliche il giudizio di verifica delle congruità di un'offerta anomala ha natura globale e sintetica sulla serietà dell'offerta stessa nel suo insieme e costituisce espressione di un potere tecnico-discrezionale dell'Amministrazione di per sé insindacabile in sede di legittimità, salvo che nelle ipotesi in cui le valutazioni siano manifestamente illogiche o fondate su insufficiente motivazione o affette da errori di fatto.
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In sede di presentazione delle giustificazioni sulle offerte anomale, l’impresa partecipante può operare modulazioni dell’offerta a suo tempo presentata con la conseguenza che, mentre l’offerta economica in quanto tale resta immodificabile, possono invece essere modificate e integrate le giustificazioni, sino a consentire (ad esempio) compensazioni fra sovrastime e sottostime, purché l’offerta risulti nel suo complesso coerente ed affidabile al momento dell’aggiudicazione.
Tuttavia, se ciò è vero, è anche vero che l’impresa la cui offerta è assoggettata a verifica di anomalia è tenuta a fornire dati concreti ed attendibili, idonei a descrivere in modo univoco il contenuto dell’offerta e a confermarne la complessiva attendibilità e sostenibilità sotto il profilo economico-finanziario.
In caso contrario (ossia, laddove si ammettesse la possibilità di giustificare in vari modi fra loro alternativi una determinata struttura di costi), verrebbe meno la ratio stessa dell’istituto della verifica dell’anomalia, il quale consiste nel consentire all’amministrazione di verificare sulla base di elementi concreti ed attendibili la sostenibilità dell’offerta.

Giova premettere al riguardo che, secondo un consolidato (e qui condiviso) orientamento giurisprudenziale, nelle gare pubbliche il giudizio di verifica delle congruità di un'offerta anomala ha natura globale e sintetica sulla serietà dell'offerta stessa nel suo insieme e costituisce espressione di un potere tecnico-discrezionale dell'Amministrazione di per sé insindacabile in sede di legittimità, salvo che nelle ipotesi in cui le valutazioni siano manifestamente illogiche o fondate su insufficiente motivazione o affette da errori di fatto (fra le molte: Cons. Stato, III, 15.07.2011, n. 4322).
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Secondo un condiviso orientamento, in sede di presentazione delle giustificazioni sulle offerte anomale, l’impresa partecipante può operare modulazioni dell’offerta a suo tempo presentata con la conseguenza che, mentre l’offerta economica in quanto tale resta immodificabile, possono invece essere modificate e integrate le giustificazioni, sino a consentire (ad esempio) compensazioni fra sovrastime e sottostime, purché l’offerta risulti nel suo complesso coerente ed affidabile al momento dell’aggiudicazione (Cons. Stato, V, 20.02.2012, n. 875; id., VI, 24.08.2011, n. 4801).
Tuttavia, se ciò è vero, è anche vero che l’impresa la cui offerta è assoggettata a verifica di anomalia è tenuta a fornire dati concreti ed attendibili, idonei a descrivere in modo univoco il contenuto dell’offerta e a confermarne la complessiva attendibilità e sostenibilità sotto il profilo economico-finanziario.
In caso contrario (ossia, laddove si ammettesse la possibilità di giustificare in vari modi fra loro alternativi una determinata struttura di costi), verrebbe meno la ratio stessa dell’istituto della verifica dell’anomalia, il quale consiste nel consentire all’amministrazione di verificare sulla base di elementi concreti ed attendibili la sostenibilità dell’offerta
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 02.05.2012 n. 2506 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Di per sé, la mera pendenza di un procedimento sanzionatorio non è ostativa al rilascio dell’agibilità, a meno che, come prevede la legge, non si ravvisino differenze tra l’autorizzato (o il dichiarato) ed il realizzato.
Per quanto concerne il diniego di agibilità, si osserva che le norme di riferimento sono gli artt. 24 e 25 del D.Lgs. 380/2001; il primo stabilisce che “il certificato di agibilità attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, valutate secondo quanto dispone la normativa vigente”, quindi pare renderlo del tutto indipendente dal rapporto che il manufatto ha con la disciplina urbanistica; tuttavia il successivo art. 26 impone che tra la documentazione presentata vi sia anche una “dichiarazione, sottoscritta dallo stesso richiedente il certificato di agibilità, di conformità dell’opera rispetto al progetto approvato, nonché in ordine alla avvenuta prosciugatura dei muri e della salubrità degli ambienti”, il che può far, invece, ritenere che la mancata conformità di quanto edificato al relativo progetto (e, quindi, anche alle norme che disciplinano l’edificabilità nella zona) sia, di per sé, ostativa al rilascio dell’abitabilità.
La non perfetta coerenza delle due norme ha portato la giurisprudenza a differenti soluzioni, quanto alla legittimità del diniego di certificato di agibilità per ragioni esclusivamente o prevalentemente urbanistico/edilizie ovvero per pendenza di procedimenti sanzionatori; infatti, accanto a decisioni che negano la rilevanza di tali motivazioni (si veda, per tutti: TAR Liguria n. 1754/2011, secondo cui, “essendo finalizzato -il certificato di agibilità- al controllo di tipo igienico-sanitario ed escludendo qualsiasi riferimento alla conformità dell’edificio al progetto approvato, non assume alcun rilievo sotto il profilo urbanistico-edilizio, onde la pendenza di un procedimento repressivo edilizio di per sé non costituisce idonea motivazione di diniego del certificato”), ve ne sono altre che ritengono corretto il diniego motivato (prevalentemente o esclusivamente) con riferimento a violazioni urbanistiche.
Ad esempio, TAR Lombardia-Milano n. 332/2010, ritiene che “l’agibilità possa essere negata non solo in caso di mancanza di condizioni igieniche ma anche in caso di contrasto con gli strumenti urbanistici o con il titolo edilizio (DIA o permesso di costruire)”, precisando che “a tale conclusione perviene gran parte della giurisprudenza (TAR Lazio, n. 4129/2005, Consiglio di Stato, n. 6174/2008 e n. 1542/2005; TAR Lombardia-Milano, n. 4672/2009), senza contare che questa interpretazione ha anche un supporto normativo nell’art. 25, comma 1, del Testo Unico dell'Edilizia”; dovendo, per l’appunto, la domanda di agibilità deve essere corredata anche da una dichiarazione del richiedente di conformità dell'opera rispetto al progetto approvato, il che “significa che in caso di difformità dell’opera dal progetto edilizio, ma anche evidentemente in caso di assenza di idoneo progetto, l’agibilità dovrà essere negata”.
Soggiunge poi la decisione che “appare assurdo che il Comune rilasci l’agibilità a fronte di un’opera magari palesemente abusiva e destinata quindi con certezza alla demolizione, apparendo tale comportamento dell'Amministrazione contraddittorio rispetto al perseguimento del pubblico interesse”, con la conseguenza che “il diniego di agibilità non può essere reputato illegittimo per la sola circostanza che è motivato con riferimento a presunte violazioni della normativa urbanistica o edilizia”.
Il Collegio (che condivide questo orientamento) è dell’avviso che, di per sé, la mera pendenza di un procedimento sanzionatorio non sia ostativa al rilascio dell’agibilità, a meno che, come prevede la legge, non si ravvisino differenze tra l’autorizzato (o il dichiarato) ed il realizzato, come è nel presente caso, ove la DIA rappresentava cose diverse rispetto a quanto poi (in pretesa applicazione delle norme sull’edilizia libera) di fatto è stato posto in essere.
Il diniego di agibilità, a tenore del citato art. 25, appare pertanto correttamente emesso, anche trascurando di considerare che la ricorrente non pare avere un apprezzabile interesse a lamentare il mancato rilascio del certificato di agibilità di un manufatto di cui è stata ordinata la demolizione per violazione delle norme urbanistiche. Infatti, se otterrà il titolo a sanatoria, l’istante potrà riproporre la domanda, alla quale il Comune risponderà previa valutazione dei soli requisiti igienico-sanitari dell’edificio (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 30.04.2012 n. 146 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa determinazione degli oneri di urbanizzazione si correla a una precisa disciplina normativa, di modo che i provvedimenti applicativi di essa non richiedono di per sé alcuna puntuale motivazione allorché le scelte dell’Amministrazione si conformino a detti criteri.
Per ciascun titolo concessorio gli oneri dovuti sono calcolati applicando la normativa e i parametri vigenti al momento in cui esso è rilasciato, esclusa quindi ogni ultrattività della disciplina in vigore all’epoca del rilascio del titolo originario.
La tesi del Comune, che ha operato un ricalcolo degli oneri già corrisposti per la prima concessione applicando anche ad essi la nuova disciplina (fermo restando, come è ovvio, lo scomputo delle somme già corrisposte), trova un aggancio nella pregressa giurisprudenza in materia, secondo cui un tale ricalcolo è legittimo nella sola ipotesi in cui le opere assentite col secondo permesso comportino un mutamento di destinazione d’uso ovvero una variazione essenziale del manufatto con passaggio da una categoria urbanistica ad altra funzionalmente autonoma, in tale caso giustificandosi col maggior carico urbanistico conseguente il ricalcolo degli oneri dovuto.

Innanzi tutto, è opportuno sottolineare come la questione dell’adeguatezza o meno della motivazione con cui il Comune ha esplicitato i criteri di calcolo applicati è destinata a restare recessiva rispetto a quella della correttezza o meno di tali criteri: al riguardo, infatti, va richiamato il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui la determinazione degli oneri di urbanizzazione si correla a una precisa disciplina normativa, di modo che i provvedimenti applicativi di essa non richiedono di per sé alcuna puntuale motivazione allorché le scelte dell’Amministrazione si conformino a detti criteri (cfr. Cons. Stato, sez. V, 09.02.2001, nr. 584).
Nel caso che qui occupa, non è dubbio che il Comune odierno appellante abbia fin dal primo grado depositato documentazione illustrativa dei criteri applicati per la commisurazione degli oneri richiesti per la concessione edilizia rilasciata nel 2003; di modo che, a prescindere da ogni approfondimento circa la conoscenza o conoscibilità di tali criteri da parte della società destinataria, l’eventuale correttezza degli stessi rileverebbe nel senso dell’irrilevanza del vizio ex art. 21-octies della legge 07.08.1990, nr. 241, in considerazione della natura vincolata dell’atto.
Di conseguenza, la questione centrale del presente giudizio attiene alle modalità con cui deve avvenire il calcolo degli oneri di urbanizzazione in sede di rilascio di un nuovo permesso di costruire dopo che quello originario è decaduto ai sensi dell’art. 15, comma 3, del d.P.R. 06.06.2001, nr. 380 (e, prima, dell’art. 4 della legge 28.01.1977, nr. 10).
Più specificamente, l’ipotesi che qui interessa è quella in cui una parte del manufatto assentito col primo titolo concessorio sia stato effettivamente realizzato, e gli oneri relativi siano stati integralmente pagati, di modo che il nuovo provvedimento abilitativo ha a oggetto solo il completamento dell’opera.
In un caso del genere, sembra pacifico (e sul punto le parti convengono) che non possa addivenirsi ad alcuna duplicazione, non essendo possibile accollare all’istante per due volte gli oneri relativi alle medesime opere.
Al di là di ciò, alla Sezione non paiono altrettanto scontati gli ulteriori due assunti su cui si regge la prospettazione del ricorso introduttivo (condivisa dal primo giudice): e cioè che, in occasione del rilascio del secondo permesso, non sia possibile calcolare gli oneri dovuti in base alla disciplina eventualmente innovativa che sia sopravvenuta dopo il rilascio del primo titolo ad aedificandum, e che in ogni caso detti oneri debbano sempre essere limitati a quelli inerenti la parte di opere non realizzata nei termini e oggetto del secondo permesso, escluso ogni “ricalcolo” degli oneri già corrisposti.
Quanto al primo profilo, il Collegio reputa del tutto ragionevole –anche in applicazione del principio tempus regit actum– che per ciascun titolo concessorio gli oneri dovuti siano calcolati applicando la normativa e i parametri vigenti al momento in cui esso è rilasciato, esclusa quindi ogni ultrattività della disciplina in vigore all’epoca del rilascio del titolo originario (poi decaduto).
Per quanto concerne il secondo aspetto, una rigorosa accettazione della tesi dell’odierna appellata porterebbe, nella specie, a un sostanziale azzeramento degli oneri dovuti, dal momento che –come già accennato– la nuova concessione edilizia rilasciata nel 2003 concerne unicamente opere interne e di finitura, essendo stato già illo tempore l’immobile interamente realizzato nella sua struttura.
La tesi del Comune, che invece ha operato un ricalcolo degli oneri già corrisposti per la prima concessione applicando anche ad essi la nuova disciplina (fermo restando, come è ovvio, lo scomputo delle somme già corrisposte), trova un aggancio nella pregressa giurisprudenza in materia, secondo cui un tale ricalcolo è legittimo nella sola ipotesi in cui le opere assentite col secondo permesso comportino un mutamento di destinazione d’uso ovvero una variazione essenziale del manufatto con passaggio da una categoria urbanistica ad altra funzionalmente autonoma, in tale caso giustificandosi col maggior carico urbanistico conseguente il ricalcolo degli oneri dovuto (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29.04.2004, nr. 2611; Cons. Stato, sez. V, 25.05.2004, nr. 6289; id., 23.01.2004, nr. 174; id., 29.01.2004, nr. 295; id., 24.09.2001, nr. 1427).
Orbene, non risulta specificamente contestato dalla parte privata l’assunto dell’Amministrazione appellante secondo cui la nuova richiesta di permesso di costruire comportava, oltre che la realizzazione di opere interne, anche un rilevante mutamento di destinazione d’uso dell’immobile rispetto al progetto originario (tale essendo, nella prospettazione del Comune, la ragione del ricalcolo degli oneri dovuti); e, anzi, la circostanza trova conferma nella stessa documentazione depositata in primo grado, dalla quale è dato evincere che effettivamente la diversa distribuzione degli spazi interni comportava anche una diversa ripartizione tra i locali a destinazione residenziale e quelli a destinazione direzionale, con conseguente variazione del carico urbanistico rispetto a quello originario.
Dal che consegue l’infondatezza delle censure articolate nel ricorso introduttivo, con riguardo sia all’indebita duplicazione degli oneri percepiti sia all’assenza di ogni giustificazione a sostegno del ricalcolo delle somme già corrisposte (fermo restando che esula dalla presente sede la verifica della correttezza del calcolo in concreto compiuto dall’Amministrazione, non risultando formulata alcuna specifica censura sul punto) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.04.2012 n. 2471 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIUna distanza superiore al chilometro è tale da far seriamente dubitare, specialmente in assenza di puntuali allegazioni ad opera della stessa parte, dell’esistenza del presupposto della vicinitas: e questo pur tenendo nel debito conto il principio per cui la vicinitas che legittima la proposizione di un’impugnativa non va necessariamente intesa come stretta contiguità, bensì nel senso di uno stabile e significativo collegamento del ricorrente, da verificare caso per caso, con la zona il cui ambiente s'intende proteggere.
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L'azione innanzi al Giudice amministrativo non rappresenta un'azione popolare che possa essere esercitata dal quisque de populo. Essa, al contrario, richiede l'esistenza sia della legittimazione al ricorso (da intendersi come titolarità di una posizione giuridica differenziata rispetto alla collettività indifferenziata, quale quella che può radicarsi in una particolare vicinitas), sia di un interesse al ricorso (da intendersi come utilità, anche strumentale, che possa derivare dal suo accoglimento).
Il ricorso giurisdizionale è dunque proponibile solo da chi abbia la titolarità di un interesse legittimo e dimostri, inoltre, che tale interesse possa subire una lesione per la illegittimità dell'atto impugnato.
La mera vicinanza di un fondo ad una discarica non legittima per ciò solo ed automaticamente il proprietario frontista ad insorgere avverso il provvedimento autorizzativo dell'opera, essendo necessaria, al riguardo, anche la prova del danno che egli da questa possa ricevere, per quanto non sia permesso addossare su chi agisca il gravoso onere della prova dell'effettività del danno subendo allorché la stessa prova non possa prescindere, in concreto, dall'effettiva realizzazione dell'impianto, il che finirebbe per svuotare il principio costituzionale del diritto di difesa.
La mera vicinanza di un'abitazione ad una discarica non legittima, pertanto, il proprietario frontista ad insorgere avverso il provvedimento di approvazione dell'opera, essendo al riguardo necessaria la prova del danno che da questa egli riceva nella sua sfera giuridica, o per il fatto che la localizzazione dell'impianto riduce il valore economico del fondo situato nelle sue vicinanze, o perché le prescrizioni dettate dall'autorità competente in ordine alle modalità di gestione dell'impianto sono inidonee a salvaguardare la salute di chi vive nelle sue vicinanze, o, infine, per il significativo incremento del traffico veicolare, potenzialmente idoneo ad incidere in senso pregiudizievole sui terreni limitrofi. Da ciò la conferma che il mero collegamento di un fondo con il territorio sul quale è localizzata una discarica non è da solo sufficiente a legittimare il suo proprietario a provocare uti singulus il sindacato di legittimità su qualsiasi provvedimento amministrativo preordinato alla tutela di interessi generali che nel territorio trovano la loro esplicazione.

Osserva la Sezione che queste deduzioni non possono essere condivise.
Le stesse lasciano infatti integro il nucleo fondamentale della pronuncia appellata, quale si trova compendiato nella notazione che “nessuno dei ricorrenti è stato in grado di precisare il concreto pregiudizio che deriverebbe alla propria sfera giuridica dalla realizzazione dell’impianto in relazione al quale va, peraltro, sottolineato che tutti gli accertamenti tecnici svolti dall’ARPA e dall’ASL hanno consentito di individuare valori di emissioni inquinanti ampiamente inferiori ai limiti prescritti dalla legge.”
Una distanza superiore al chilometro è tale da far seriamente dubitare, specialmente in assenza di puntuali allegazioni ad opera della stessa parte, dell’esistenza del presupposto della vicinitas: e questo pur tenendo nel debito conto il principio per cui la vicinitas che legittima la proposizione di un’impugnativa non va necessariamente intesa come stretta contiguità, bensì nel senso di uno stabile e significativo collegamento del ricorrente, da verificare caso per caso, con la zona il cui ambiente s'intende proteggere (v. tra le più recenti C.d.S., V, 26.02.2010, n. 1134).
Ancor più evidente, peraltro, è l’assorbente carenza, nella fattispecie, dell’estremo dell’interesse a ricorrere.
E’ appena il caso di ricordare che l'azione innanzi al Giudice amministrativo non rappresenta un'azione popolare che possa essere esercitata dal quisque de populo. Essa, al contrario, richiede l'esistenza sia della legittimazione al ricorso (da intendersi come titolarità di una posizione giuridica differenziata rispetto alla collettività indifferenziata, quale quella che può radicarsi in una particolare vicinitas), sia di un interesse al ricorso (da intendersi come utilità, anche strumentale, che possa derivare dal suo accoglimento) (C.d.S, VI, 01.02.2010, n. 413).
Il ricorso giurisdizionale è dunque proponibile solo da chi abbia la titolarità di un interesse legittimo e dimostri, inoltre, che tale interesse possa subire una lesione per la illegittimità dell'atto impugnato.
Sulla base di tale principio, la mera vicinanza di un fondo ad una discarica non legittima per ciò solo ed automaticamente il proprietario frontista ad insorgere avverso il provvedimento autorizzativo dell'opera, essendo necessaria, al riguardo, anche la prova del danno che egli da questa possa ricevere (C.d.S., V, 20.05.2002, n. 2714), per quanto non sia permesso addossare su chi agisca il gravoso onere della prova dell'effettività del danno subendo allorché la stessa prova non possa prescindere, in concreto, dall'effettiva realizzazione dell'impianto, il che finirebbe per svuotare il principio costituzionale del diritto di difesa (cfr. V, 18.08.2010, n. 5819).
La mera vicinanza di un'abitazione ad una discarica non legittima, pertanto, il proprietario frontista ad insorgere avverso il provvedimento di approvazione dell'opera (cfr. V, 16.04.2003, n. 1948), essendo al riguardo necessaria la prova del danno che da questa egli riceva nella sua sfera giuridica, o per il fatto che la localizzazione dell'impianto riduce il valore economico del fondo situato nelle sue vicinanze, o perché le prescrizioni dettate dall'autorità competente in ordine alle modalità di gestione dell'impianto sono inidonee a salvaguardare la salute di chi vive nelle sue vicinanze, o, infine, per il significativo incremento del traffico veicolare, potenzialmente idoneo ad incidere in senso pregiudizievole sui terreni limitrofi (su quest’ultimo profilo cfr. V, 16.06.2009 n. 3849). Da ciò la conferma che il mero collegamento di un fondo con il territorio sul quale è localizzata una discarica non è da solo sufficiente a legittimare il suo proprietario a provocare uti singulus il sindacato di legittimità su qualsiasi provvedimento amministrativo preordinato alla tutela di interessi generali che nel territorio trovano la loro esplicazione (cfr. C.d.S., IV, 13.07.1998, n. 1088; V, 23.04.2007, n. 1830) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.04.2012 n. 2460 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZISe nella nozione di “affidamento diretto” di cui all'art. 23-bis d.l. n. 112/2008 rientri, o meno, la proroga che segue un primo affidamento con gara.
La previsione preclude l'acquisizione della gestione di servizi ulteriori, con o senza gara, ai soggetti che gestiscono servizi pubblici locali ad essi affidati senza il rispetto dei principi dell'evidenza pubblica che si condensano nei principi comunitari di tutela della concorrenza, e, segnatamente, nei principi di "economicità, efficacia, imparzialità, trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità", elencati nel co. 2, richiamato espressamente dal co. 9 del citato art. 23-bis.”.
All'affidamento senza una procedura competitiva deve essere equiparato il caso in cui ad un affidamento con gara segua, dopo la sua scadenza, un regime di proroga diretta che non trovi fondamento nel diritto comunitario. Infatti le proroghe dei contratti affidati con gara sono consentite se già previste ab origine, e comunque entro termini determinati. Una volta che il contratto scada e si proceda ad una sua proroga senza che essa sia prevista ab origine, o oltre i limiti temporali consentiti, la proroga è da equiparare ad un affidamento senza gara.

Il divieto previsto dall’art. 23-bis, comma 9, del d.l. 25.06.2008, n. 112, convertito con la legge n. 133 del 2008, colpisce, per quanto qui interessa, le società che gestiscano “di fatto o per disposizione di legge, di atto amministrativo o per contratto servizi pubblici locali in virtù di affidamento diretto”, o comunque “di una procedura non ad evidenza pubblica”, e comporta che le medesime società “non possono acquisire la gestione di servizi ulteriori ovvero in ambiti territoriali diversi, né svolgere servizi o attività per altri enti pubblici o privati, né direttamente, né tramite loro controllanti o altre società che siano da essi controllate o partecipate, né partecipando a gare". Divieto che opera per tutta la durata della loro gestione.
Ora, questo Consiglio ha già avuto modo di prendere posizione sulla questione se nella nozione di “affidamento diretto” di cui all'art. 23-bis d.l. n. 112/2008 rientri, o meno, la proroga che segue un primo affidamento con gara (VI, 16.02.2010, n. 850).
Nell’occasione, questo Consesso ha rammentato introduttivamente che “la previsione preclude l'acquisizione della gestione di servizi ulteriori, con o senza gara, ai soggetti che gestiscono servizi pubblici locali ad essi affidati senza il rispetto dei principi dell'evidenza pubblica che si condensano nei principi comunitari di tutela della concorrenza, e, segnatamente, nei principi di "economicità, efficacia, imparzialità, trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità", elencati nel co. 2, richiamato espressamente dal co. 9 del citato art. 23-bis.”
Posta questa premessa, sulla problematica il Consiglio ha assunto la seguente, univoca posizione.
All'affidamento senza una procedura competitiva deve essere equiparato il caso in cui ad un affidamento con gara segua, dopo la sua scadenza, un regime di proroga diretta che non trovi fondamento nel diritto comunitario. Infatti le proroghe dei contratti affidati con gara sono consentite se già previste ab origine, e comunque entro termini determinati. Una volta che il contratto scada e si proceda ad una sua proroga senza che essa sia prevista ab origine, o oltre i limiti temporali consentiti, la proroga è da equiparare ad un affidamento senza gara” (VI, n. 850/2010 cit.) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.04.2012 n. 2459 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVILa domanda di risarcimento del danno non sostenuta dalle allegazioni necessarie all’accertamento della responsabilità dell’Amministrazione deve essere disattesa: grava infatti sul danneggiato l’onere di provare gli elementi costitutivi della domanda di risarcimento del danno e dunque in materia di appalti, almeno successivamente alle recenti pronunce della Corte di Giustizia UE in materia di elemento soggettivo, l’entità del danno e il nesso causale.
Se colui che agisce può eventualmente offrire al giudice elementi anche solo indiziari in ordine alla gravità della violazione o all’univocità della normativa di riferimento, il medesimo deve almeno indicare la prova dell’esistenza di un danno, ovverosia di una diminuzione patrimoniale o di perdita di chance, ma la totale assenza di queste ultime indicazioni priva il giudice anche della possibilità di una valutazione equitativa.

Pacifica giurisprudenza afferma il principio che la domanda di risarcimento del danno non sostenuta dalle allegazioni necessarie all’accertamento della responsabilità dell’Amministrazione deve essere disattesa: grava infatti sul danneggiato l’onere di provare gli elementi costitutivi della domanda di risarcimento del danno e dunque in materia di appalti, almeno successivamente alle recenti pronunce della Corte di Giustizia UE in materia di elemento soggettivo, l’entità del danno e il nesso causale (Cons. Stato, V, 04.03.2011 n. 1408; id., 06.04.2009 n. 2143; id., 13.06.2008 n. 2967).
Se colui che agisce può eventualmente offrire al giudice elementi anche solo indiziari in ordine alla gravità della violazione o all’univocità della normativa di riferimento, il medesimo deve almeno indicare la prova dell’esistenza di un danno, ovverosia di una diminuzione patrimoniale o di perdita di chance, ma la totale assenza di queste ultime indicazioni priva il giudice anche della possibilità di una valutazione equitativa (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.04.2012 n. 2449 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASe l’espressione “intervento urbanistico”, di cui al quinto comma del R.D. 338/1934 (ndr: area di vincolo cimiteriale), debba intendersi in senso letterale oppure –estensivamente- come riferita a qualsiasi attività di trasformazione del territorio, comprensiva di opere private di nuova edificazione.
Orbene, è
chiara, nell’ordinamento, la distinzione tra l’attività urbanistica e quella edilizia.
La prima concerne la pianificazione dell’uso del territorio a mezzo dei vari strumenti urbanistici generali ed attuativi, ed implica scelte altamente discrezionali in ordine –per esempio- all’indicazione delle vie di comunicazione, alla divisione in zone del territorio comunale, alla fissazione dei relativi indici di edificabilità, etc.; la seconda riguarda più propriamente i singoli interventi costruttivi e, dovendo svolgersi nel rispetto della prima, ha carattere sostanzialmente vincolato.
La natura discrezionale o vincolata delle relative scelte si riflette anche nelle rispettive competenze, posto che l’approvazione dei piani territoriali ed urbanistici, che costituiscono atti generali di pianificazione e di indirizzo, è demandata ai consigli comunali (art. 42, comma 2, lett. b, D.Lgs. 18.08.2000, n. 267), mentre i titoli abilitativi sono rilasciati dal dirigente competente (art. 13, comma 1, D.P.R. 06.06.2001, n. 380), proprio sul presupposto che trattasi di attività vincolata, comportando il mero accertamento della sua conformità alla disciplina urbanistica in vigore.

Giova preliminarmente riportare il testo dell’art. 338 R.D. 27.07.1934 n. 1265, a mente del quale “1. I cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato. È vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge.
2. Le disposizioni di cui al comma precedente non si applicano ai cimiteri militari di guerra quando siano trascorsi 10 anni dal seppellimento dell'ultima salma.
3. Il contravventore è punito con l'ammenda fino a lire 1000 e deve inoltre, a sue spese, demolire l'edificio o la parte di nuova costruzione, salvi i provvedimenti di ufficio in caso di inadempienza.
4. Il consiglio comunale può approvare, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la costruzione di nuovi cimiteri o l'ampliamento di quelli già esistenti ad una distanza inferiore a 200 metri dal centro abitato, purché non oltre il limite di 50 metri, quando ricorrano, anche alternativamente, le seguenti condizioni:
   a) risulti accertato dal medesimo consiglio comunale che, per particolari condizioni locali, non sia possibile provvedere altrimenti;
   b) l'impianto cimiteriale sia separato dal centro urbano da strade pubbliche almeno di livello comunale, sulla base della classificazione prevista ai sensi della legislazione vigente, o da fiumi, laghi o dislivelli naturali rilevanti, ovvero da ponti o da impianti ferroviari.
5. Per dare esecuzione ad un'opera pubblica o all'attuazione di un intervento urbanistico, purché non vi ostino ragioni igienico-sanitarie, il consiglio comunale può consentire, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto degli elementi ambientali di pregio dell'area, autorizzando l'ampliamento di edifici preesistenti o la costruzione di nuovi edifici. La riduzione di cui al periodo precedente si applica con identica procedura anche per la realizzazione di parchi, giardini e annessi, parcheggi pubblici e privati, attrezzature sportive, locali tecnici e serre.
6. Al fine dell'acquisizione del parere della competente azienda sanitaria locale, previsto dal presente articolo, decorsi inutilmente due mesi dalla richiesta, il parere si ritiene espresso favorevolmente.
7. All'interno della zona di rispetto per gli edifici esistenti sono consentiti interventi di recupero ovvero interventi funzionali all'utilizzo dell'edificio stesso, tra cui l'ampliamento nella percentuale massima del 10 per cento e i cambi di destinazione d'uso, oltre a quelli previsti dalle lettere a), b), c) e d) del primo comma dell'articolo 31 della legge 05.08.1978, n. 457
”.
La questione sottoposta al collegio consiste nello stabilire se l’espressione “intervento urbanistico”, di cui al quinto comma, debba intendersi in senso letterale oppure –estensivamente- come riferita a qualsiasi attività di trasformazione del territorio, comprensiva di opere private di nuova edificazione, come quella oggetto dell’istanza di permesso di costruire avanzata dal ricorrente.
Orbene, ritiene il collegio che sia chiara, nell’ordinamento, la distinzione tra l’attività urbanistica e quella edilizia.
La prima concerne la pianificazione dell’uso del territorio a mezzo dei vari strumenti urbanistici generali ed attuativi, ed implica scelte altamente discrezionali in ordine –per esempio- all’indicazione delle vie di comunicazione, alla divisione in zone del territorio comunale, alla fissazione dei relativi indici di edificabilità, etc.; la seconda riguarda più propriamente i singoli interventi costruttivi e, dovendo svolgersi nel rispetto della prima, ha carattere sostanzialmente vincolato.
La natura discrezionale o vincolata delle relative scelte si riflette anche nelle rispettive competenze, posto che l’approvazione dei piani territoriali ed urbanistici, che costituiscono atti generali di pianificazione e di indirizzo, è demandata ai consigli comunali (art. 42, comma 2, lett. b, D.Lgs. 18.08.2000, n. 267), mentre i titoli abilitativi sono rilasciati dal dirigente competente (art. 13, comma 1, D.P.R. 06.06.2001, n. 380), proprio sul presupposto che trattasi di attività vincolata, comportando il mero accertamento della sua conformità alla disciplina urbanistica in vigore (Cons. di St., V, 24.08.2007, n. 4507) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 27.04.2012 n. 594 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl rilascio del certificato di abitabilità di un fabbricato, conseguente al condono edilizio, può legittimamente avvenire in deroga solo a norme regolamentari e non anche quando siano carenti condizioni di salubrità richieste invece da fonti normative di livello primario, in quanto la disciplina del condono edilizio, per il suo carattere di eccezionalità e derogatorio, non è suscettibile di interpretazioni estensive e, soprattutto, tali da incidere sul fondamentale principio della tutela della salute, con evidenti riflessi sul piano della legittimità costituzionale.
La deroga introdotta dall’art. 35, comma 20, L. 47/1985 "non riguarda i requisiti richiesti da disposizioni legislative e deve, pertanto, escludersi una automaticità assoluta nel rilascio del certificato di abitabilità ... a seguito di concessione in sanatoria, dovendo invece il Comune verificare che al momento del rilascio del certificato di abitabilità siano osservate non solo le disposizioni di cui all'art. 221 T.U. delle leggi sanitarie (rectius, di cui all'art. 4 del D.p.r. 425/1994), ma, altresì quelle previste da altre disposizioni di legge in materia di abitabilità e servizi essenziali relativi e rispettiva normativa tecnica .... Permangono, infatti, in capo ai Comuni tutti gli obblighi inerenti alla verifica delle condizioni igienico-sanitarie per l'abitabilità degli edifici, con l'unica possibile deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari".
Deve ritenersi che le disposizioni di cui al D.M. 05.07.1975 integrino una normativa di rango primario in virtù del rinvio disposto dall’art. 218 del R.D. 27.07.1934, n. 1265, e pertanto, diversamente dalle disposizioni integrative e supplementari portate dai regolamenti comunali di igiene (espressione di esigenze locali e comunque non attuative di norme di legge gerarchicamente sovraordinate), anch’esse –al pari delle disposizioni in materia di sicurezza statica e di prevenzione degli incendi e degli infortuni- siano inderogabili in sede di rilascio del certificato di abitabilità a seguito del condono.

Ai sensi della disposizione di cui all’art. 35, comma 20, L. n. 47/1985 (1° condono), richiamata dall’art. 32, comma 25, del D.L. 30.9.2003, n. 269 (3° condono), “a seguito della concessione o autorizzazione in sanatoria viene altresì rilasciato il certificato di abitabilità o agibilità anche in deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari, qualora le opere sanate non contrastino con le disposizioni vigenti in materia di sicurezza statica, attestata dal certificato di idoneità di cui alla lettera b) del terzo comma e di prevenzione degli incendi e degli infortuni”.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato, in merito all’interpretazione di detta norma, ha già avuto modo di affermare che il rilascio del certificato di abitabilità di un fabbricato, conseguente al condono edilizio, può legittimamente avvenire in deroga solo a norme regolamentari e non anche quando siano carenti condizioni di salubrità richieste invece da fonti normative di livello primario, in quanto la disciplina del condono edilizio, per il suo carattere di eccezionalità e derogatorio, non è suscettibile di interpretazioni estensive e, soprattutto, tali da incidere sul fondamentale principio della tutela della salute, con evidenti riflessi sul piano della legittimità costituzionale (Cons. Stato, IV, 30.05.2011, n. 2620, di cui di seguito è riportato ampio stralcio; id., V, 15.04.2004 n. 2140).
Tale orientamento –è stato chiarito- risulta peraltro coerente con quello espresso dalla Corte Costituzionale, che, con sentenza 18.07.1996 n. 256, ha affermato che la deroga introdotta dall’art. 35, comma 20, "non riguarda i requisiti richiesti da disposizioni legislative e deve, pertanto, escludersi una automaticità assoluta nel rilascio del certificato di abitabilità ... a seguito di concessione in sanatoria, dovendo invece il Comune verificare che al momento del rilascio del certificato di abitabilità siano osservate non solo le disposizioni di cui all'art. 221 T.U. delle leggi sanitarie (rectius, di cui all'art. 4 del D.p.r. 425/1994), ma, altresì quelle previste da altre disposizioni di legge in materia di abitabilità e servizi essenziali relativi e rispettiva normativa tecnica .... Permangono, infatti, in capo ai Comuni tutti gli obblighi inerenti alla verifica delle condizioni igienico-sanitarie per l'abitabilità degli edifici, con l'unica possibile deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari".
Orbene, alla luce della giurisprudenza riportata e della lettura costituzionalmente orientata della norma, resa dalla Corte Costituzionale, appare evidente che non è possibile ritenere che l’art. 35, comma 20, L. n. 47/1985 contenga una deroga generale ed indiscriminata alle norme che presidiano i requisiti di abitabilità degli edifici, e ciò proprio perché –come chiarito sempre dalla Corte Costituzionale con la sentenza citata (e già prima con sentenza n. 427/1995)– detta legge intende contemperare valori tutti costituzionalmente garantiti, quali, tra gli altri, da un lato il diritto alla salute e dall’altro il diritto all’abitazione e al lavoro.
Una interpretazione che validi una deroga “generale” alla normativa a tutela della salute, con particolare riguardo al luogo di abitazione, si porrebbe, dunque, in contrasto non solo con l’art. 32 Cost., ma anche con quelle stesse esigenze di contemperamento tra diversi valori costituzionali, proprie della legge n. 47/1995.
Pertanto, mentre possono essere derogate norme regolamentari, non possono esserlo norme di legge, in quanto rispetto ad esse la deroga non è evocata nell’art. 35, comma 20.
Tanto precisato, appare evidente come –nel definire l’ambito della deroga– non può assumere esclusiva rilevanza il mero dato formale dell’appartenenza della disposizione (e della norma da essa espressa) ad una fonte primaria (come tale non derogabile) ovvero ad una fonte secondaria (quindi derogabile), ma occorre verificare se le specifiche condizioni igienico-sanitarie violino norme regolamentari imposte, ad esempio, dai regolamenti comunali, quale ulteriore e specifica esigenza da essi rappresentata con riferimento a specificità di quel singolo territorio, ovvero si tratti di norme regolamentari che attuano precedenti disposizioni primarie.
L’art. 35, comma 20, l. n. 47/1985 ha inteso evitare che singole, specifiche disposizioni regolamentari –espressione di esigenze locali e comunque non attuative di norme di legge gerarchicamente sovraordinate– possano costituire, ex post, mediante il diniego del certificato di abitabilità, ostacolo al condono, e quindi alla regolarizzazione, delle costruzioni abusive, frustrando l’esigenza di “rientro nella legalità”, che, per il tramite della detta legge, si è inteso attuare.
Ma, allo stesso tempo, la citata disposizione non ha inteso porre nel nulla la tutela igienico-sanitaria degli edifici e, quindi, il diritto alla salute dei cittadini.
In altre parole, deve ritenersi che le disposizioni di cui al D.M. 05.07.1975 integrino una normativa di rango primario in virtù del rinvio disposto dall’art. 218 del R.D. 27.07.1934, n. 1265, e pertanto, diversamente dalle disposizioni integrative e supplementari portate dai regolamenti comunali di igiene (espressione di esigenze locali e comunque non attuative di norme di legge gerarchicamente sovraordinate), anch’esse –al pari delle disposizioni in materia di sicurezza statica e di prevenzione degli incendi e degli infortuni- siano inderogabili in sede di rilascio del certificato di abitabilità a seguito del condono.
In tal senso si è –ancora recentemente– espressa la giurisprudenza della Sezione (cfr. TAR Liguria, I, 23.03.2012, n. 422).
Nel caso di specie, è pacifico e non contestato che l’alloggio in questione, della superficie complessiva utile di mq. 13,00 (cfr. la perizia giurata 14.03.2012, produzione 19.03.2012 di parte ricorrente), non raggiunge la dimensione minima di 28 mq. stabilita dall’art. 3 del D.M. 05.07.1975 per l’abitabilità degli alloggi monostanza (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 27.04.2012 n. 593 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALa destinazione di zona F a servizi (attrezzature ed impianti di interesse generale, tra le quali rientrano quelle religiose) corrisponde a destinazione di zona di p.r.g. di natura conformativa.
Con ricorso notificato in data 30.11.2005 la Parrocchia di N.S. del Rosario ha impugnato la deliberazione del consiglio comunale di Genova 20.09.2005, n. 89, di controdeduzione alla osservazione presentata alla variante di P.U.C. adottata con deliberazione C.C. 11.05.2004, n. 60 e di definitiva approvazione della variante stessa, che ha destinato la porzione di area di proprietà della società controinteressata Park Tennis Club s.c.r.l., compresa tra via Zara e via Rosselli, a zona AV (edifici, giardini o parchi di pertinenza di pregio storico contraddistinti da valore paesistico e ambientale costituenti un sistema unitario da conservare), con conseguente eliminazione del vincolo a servizi di quartiere derivante dalla precedente disciplina urbanistica.
...
Il ricorso è inammissibile per difetto di interesse a ricorrere, sotto un duplice profilo.
Innanzitutto, come eccepito da entrambe le difese del comune e della controinteressata, con deliberazione C.C. 10.09.2010, n. 73 doc. 6 delle produzioni 09.03.2012 di parte comunale), il comune di Genova ha approvato la variante generale al P.U.C., con la quale è stata confermata la disciplina urbanistica dell’area in questione.
Orbene, se è vero che la disciplina dell’area ivi contenuta è meramente confermativa della variante impugnata, nondimeno essa ha comportato una novazione della fonte procedimentale del rapporto.
Ne consegue che non trova applicazione al caso di specie la giurisprudenza formatasi circa gli effetti automaticamente caducanti dell’annullamento della delibera comunale di adozione del piano regolatore sul successivo provvedimento di approvazione.
L’effetto di caducazione automatica opera infatti pur sempre nell’ambito di distinte fasi di un unico procedimento urbanistico, mentre nel caso di specie ci si trova in presenza di due distinti procedimenti urbanistici.
Secondariamente, non risulta provato che la previgente disciplina urbanistica contemplasse sull’area in questione un vero e proprio vincolo preordinato all’esproprio.
Un vincolo di tal fatta sorge infatti soltanto con la specifica indicazione di una determinata opera pubblica o di interesse collettivo o sociale (ex art. 7, comma 1, n. 4 L. 17.08.1942, n. 1150), non già per effetto della semplice operazione di zonizzazione (ex art. 7, comma 1, n. 2 L. 17.08.1942, n. 1150), cioè della suddivisione del territorio comunale in zone con destinazione urbanistica omogenea, la quale ha la precipua finalità di indicare la tipologia di interventi edificatori assentibili e, conseguentemente, di conformare l'attività edilizia (TAR Lazio, II, 24.04.2008, n. 3535).
E ciò, ovviamente, anche con riguardo alla destinazione a zona F ex art. 2 D.M. 02.04.1968 (sottozona FF per servizi di quartiere di livello urbano o territoriale destinati a istruzione, interesse comune, verde, gioco e sport e attrezzature pubbliche di interesse generale, secondo la terminologia adottata dal P.U.C. di Genova), che, in mancanza della specifica previsione e localizzazione di un determinato intervento di interesse generale realizzabile soltanto ad iniziativa pubblica, costituisce nient’altro che un vincolo di carattere conformativo.
La giurisprudenza –anche della Sezione- si è più volte espressa in tal senso, affermando che la destinazione di zona F a servizi (attrezzature ed impianti di interesse generale, tra le quali rientrano quelle religiose) corrisponde a destinazione di zona di p.r.g. di natura conformativa (Cons. di St., IV, 03.08.2010, n. 5155; TAR Liguria, I, 22.02.2010, n. 663; TAR Puglia-Lecce, I, 06.12.2006, n. 5720).
Né –in senso contrario- risulta decisivo il tenore delle controdeduzioni all’osservazione n. 180 al P.R.G. adottato con deliberazione C.C. 16.07.1997 presentata dalla controinteressata Park Tennis Club s.c.r.l. (doc. 12 delle produzioni 05.03.2012 di parte ricorrente), giacché, al di là dell’improprio riferimento alla reiterazione del vincolo, la finalità di dotare la chiesa di un accesso consono attiene, propriamente, ai motivi della scelta pianificatoria a sottozona FF.
Stando così le cose, è evidente la carenza di interesse a ricorrere, in quanto da un lato la precedente disciplina non conteneva un vincolo preordinato all’esproprio, dall’altro anche la nuova disciplina urbanistica consente a sua volta la realizzazione dell’intervento auspicato dalla ricorrente, soltanto che questa esperisca il procedimento specificamente previsto dall’art. 10, comma 1, del D.P.R. n. 327/2001 e dall’art. 59 della L.U.R., per l’approvazione di un’opera di pubblica utilità non specificamente e direttamente prevista dal piano urbanistico generale.
Non è provato -in conclusione- che la nuova destinazione di zona concernente un’area non appartenente alla ricorrente incida direttamente su suoi interessi propri e specifici (Cons. di St., IV, 24.12.2007, n. 6619), nel senso di precluderle oggettivamente –come lamentato- la realizzazione dell’intervento auspicato (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 27.04.2012 n. 592 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' necessario il rilascio di una concessione edilizia in caso di apertura di un dehor destinato all'esercizio dell'attività di ristorazione o di somministrazione di alimenti e bevande, perché le caratteristiche tecniche della struttura, realizzata su suolo pubblico, nonché il perdurante previsto utilizzo della stessa nel tempo per il ricevimento della clientela, costituiscono elementi sufficienti ad escludere il carattere della c.d. precarietà strutturale.
Inoltre, trattandosi a tutti gli effetti di nuova costruzione, trova senz’altro applicazione l’art. 907 c.c..

Con il secondo ed il terzo motivo la società ricorrente deduce che l’intervento in oggetto, concretandosi in opere di manutenzione di un preesistente manufatto di natura pertinenziale, non sarebbe subordinato al previo rilascio di permesso di costruire, ma unicamente a denuncia di inizio attività.
Orbene, la ricorrente non ha provato affatto la regolarità edilizia del preesistente manufatto, onde la realizzazione del dehor sanzionato non può in alcun modo qualificarsi come opera di manutenzione.
Inoltre, anche a voler considerare (il che non è, come si vedrà infra) l’opera in questione come una pertinenza, essa, ricadendo in zona sottoposta a vincolo, era soggetta a concessione edilizia già nel vigore dell’art. 7, comma 2, D.L. 23.01.1982, n. 9 (convertito in legge 25.03.1982, n. 94).
In ogni caso, in relazione a casi analoghi, la giurisprudenza amministrativa ha ripetutamente affermato che é necessario il rilascio di una concessione edilizia in caso di apertura di un dehor destinato all'esercizio dell'attività di ristorazione o di somministrazione di alimenti e bevande, perché le caratteristiche tecniche della struttura, realizzata su suolo pubblico, nonché il perdurante previsto utilizzo della stessa nel tempo per il ricevimento della clientela, costituiscono elementi sufficienti ad escludere il carattere della c.d. precarietà strutturale (TAR Sicilia-Palermo, III, 06.07.2010, n. 8269; nello stesso senso cfr. TAR Campania-Napoli, IV, 12.01.2009, n. 68; id., 15.09.2008, n. 10138; sempre con specifico riferimento a gezebo destinati alla ristorazione, cfr. Cons. di St., V. 01.12.2003, n. 7822; id., VI, 27.01.2003, n. 419).
Trattandosi a tutti gli effetti di nuova costruzione, trova senz’altro applicazione l’art. 907 c.c.
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 27.04.2012 n. 591 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPresupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato.
E ciò –a maggior ragione– nel caso in cui vi sia stato a monte il rigetto dell'istanza di sanatoria, ciò che esclude in radice che, all'atto dell'adozione dell'ingiunzione di demolizione, possa reputarsi sussistente un qualsiasi affidamento circa la assentibilità del manufatto.

Con l’ultimo motivo è censurata la mancanza di motivazione circa l’interesse pubblico alla demolizione dell’opera.
Anch’esso è infondato.
Per costante giurisprudenza, anche della Sezione, presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato (TAR Campania-Napoli, VII, 08.04.2011, n. 1999).
E ciò –a maggior ragione– nel caso in cui vi sia stato a monte il rigetto dell'istanza di sanatoria, ciò che esclude in radice che, all'atto dell'adozione dell'ingiunzione di demolizione, possa reputarsi sussistente un qualsiasi affidamento circa la assentibilità del manufatto (TAR Liguria, I, 21.03.2011, n. 432)
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 27.04.2012 n. 591 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza sulle piscine è molto variegata e questo stesso tribunale ha affermato che le piscine in generale hanno la natura di opere pertinenziali che non implicano consumo dei suoli per le loro caratteristiche; vi è comunque una giurisprudenza maggioritaria che afferma l’illegittimità degli atti di diniego assunti dall’amministrazione motivati con espressioni stereotipate, generiche che non facciano riferimento ad elementi concreti della fattispecie considerata quali la visibilità o l’impatto del manufatto le dimensioni della piscina in relazione alla estensione del terreno circostante in cui la stessa è collocata.
Invero, l'Amministrazione, nell'adottare un provvedimento di diniego del richiesto nulla-osta per la costruzione in area soggetta a vincolo paesaggistico, non può limitare la sua valutazione al mero riferimento ad un pregiudizio ambientale, utilizzando espressioni vaghe o formule stereotipate, ma tale motivazione deve contenere una sufficiente esternazione delle specifiche ragioni per le quali si ritiene che un'opera non sia idonea ad inserirsi nell'ambiente, attraverso l'individuazione degli elementi di contrasto; pertanto, occorre un concreto ed analitico accertamento del disvalore delle valenze paesaggistiche (nel caso di specie, la motivazione del diniego era del tutto generica e stereotipata, non essendovi nel provvedimento alcun riferimento puntuale al progetto presentato o alla situazione dei luoghi in cui si sarebbe dovuta realizzare la piscina).

Premesso che la giurisprudenza sulle piscine è molto variegata e questo stesso tribunale ha affermato che le piscine in generale hanno la natura di opere pertinenziali che non implicano consumo dei suoli per le loro caratteristiche (TAR Liguria Genova, sez. I, 16.02.2008, n. 299); vi è comunque una giurisprudenza maggioritaria che afferma l’illegittimità degli atti di diniego assunti dall’amministrazione motivati con espressioni stereotipate, generiche che non facciano riferimento ad elementi concreti della fattispecie considerata quali la visibilità o l’impatto del manufatto le dimensioni della piscina in relazione alla estensione del terreno circostante in cui la stessa è collocata.
Si è infatti affermato che “L'Amministrazione, nell'adottare un provvedimento di diniego del richiesto nulla osta per la costruzione in area soggetta a vincolo paesaggistico, non può limitare la sua valutazione al mero riferimento ad un pregiudizio ambientale, utilizzando espressioni vaghe o formule stereotipate, ma tale motivazione deve contenere una sufficiente esternazione delle specifiche ragioni per le quali si ritiene che un'opera non sia idonea ad inserirsi nell'ambiente, attraverso l'individuazione degli elementi di contrasto; pertanto, occorre un concreto ed analitico accertamento del disvalore delle valenze paesaggistiche (nel caso di specie, la motivazione del diniego era del tutto generica e stereotipata, non essendovi nel provvedimento alcun riferimento puntuale al progetto presentato o alla situazione dei luoghi in cui si sarebbe dovuta realizzare la piscina)" (TAR Lazio Roma, sez. II, 08.10.2008, n. 8829).
Ora senza giungere a quelle affermazioni perentorie che pure si trovano in giurisprudenza secondo le quali “L'introduzione dell'elemento «piscina» in uno scenario naturalistico bello come quello dell'Isola di Capri non comporta, di regola, l'eliminazione di essenze arboree (o comunque ne comporta un'eliminazione assai limitata) e migliora significativamente l'impatto ambientale” (TAR Campania Napoli, sez. VI, 06.11.2008, n. 19288), tuttavia va riconosciuto come afferma il ricorso che nel caso di specie, non vi è alcun elemento di specificità nel provvedimento impugnato che consenta al lettore neppure di immaginare le dimensioni del manufatto ed il suo rapporto con l’ambiente circostante.
Ciò denuncia l’esistenza dei numerosi profili di eccesso di potere lamentati con il primo motivo di ricorso in relazione alle notevoli dimensioni del terreno (17.000 mq.) mantenuto a giardino e parco alberato, all’interno del quale la piscina di modeste dimensioni (m. 10,25 per m. 5,30) è collocata.
La documentazione fotografica mostra poi come il muro di sostegno regolarmente autorizzato mascheri l’impatto della piscina risultando pertanto apodittiche e smentite dai documenti sia “le notevoli dimensioni del manufatto” apprezzabili solo in relazione all’estensione ed alla destinazione dell’ambiente circostante, sia con riferimento all’affermazione senza ulteriori specificazioni secondo la quale la piscina “non si inserirebbe in maniera appropriata” nel contesto naturalistico sottoposto a tutela (TAR Liguria. Sez. I, sentenza 27.04.2012 n. 582 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa natura di locale tecnico presuppone in materia edilizia un’oggettiva relazione di funzionalità tra il locale e l'edificio, desumibile dalla dislocazione in esso d’impianti di servizio.
Quanto al secondo e più delicato aspetto in cui si afferma che il locale tecnico ove sono collocate le pompe sarebbe stato realizzato attraverso un movimento di terra e la costruzione di un locale interrato in violazione degli artt. 7 e 13 delle NdA del PRG del monte di Portofino, va anzitutto evidenziato che in assenza di costituzione dell’amministrazione intimata, la documentazione depositata propone una ricostruzione dei fatti differenti.
Il locale pompe risulta infatti dal progetto oltre che totalmente interrato, realizzato all’interno di un muro di contenimento di una piccola terrazza esistente.
Pertanto nessuna costruzione né movimento di terra appare posto in essere sulla base del progetto presentato.
Inoltre la funzione e le dimensioni del locale (m. 2,55 lunghezza per m. 1,35 largh. Per m.1,20 di h.) ne testimoniano la natura puramente tecnica, a servizio della piscina.
La giurisprudenza recente di questa sezione ha in proposito avuto modo di affermare che “la natura di locale tecnico presuppone in materia edilizia un’oggettiva relazione di funzionalità tra il locale e l'edificio, desumibile dalla dislocazione in esso d’impianti di servizio" (TAR Liguria Genova, sez. I, 18.11.2010, n. 10389).
Ciò premesso va ricordato che l’art. 64, del codice del processo amministrativo (D.lgs. 02.07.2010 n. 104) dopo aver affermato che spetta alle parti l’onere di fornire gli elementi di prova che sono nella loro disponibilità, impone al giudice di porre a fondamento della lite, secondo il suo prudente apprezzamento, le prove proposte dalle parti, nonché desumere argomenti di prova dal comportamento processuale tenuto dalle parti nel corso del processo.
Nel caso di specie, a fronte del progetto presentato dalla parte e dalla documentazione versata in atti vi è l’assenza di costituzione dell’amministrazione che pure lamenta la compromissione di un bene tutelato, ma che in oltre dieci anni non si è costituita né ha depositato documentazione integrativa a sostegno del provvedimento impugnato (TAR Liguria. Sez. I, sentenza 27.04.2012 n. 582 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - LAVORI PUBBLICI: Ai sensi dell'art. 48, d.lgs. 18.08.2000 n. 267 rientra nella competenza della giunta municipale l'approvazione dello schema del programma triennale e del suo aggiornamento annuale, quale atto di proposta e di impulso, mentre per l'approvazione definitiva del programma e dell'elenco annuale delle opere da realizzare è competente solo il consiglio comunale, ai sensi del precedente art. 42, trattandosi di atto di programmazione e di indirizzo.
Come si afferma in giurisprudenza, “ai sensi dell'art. 48, d.lgs. 18.08.2000 n. 267 rientra nella competenza della giunta municipale l'approvazione dello schema del programma triennale e del suo aggiornamento annuale, quale atto di proposta e di impulso, mentre per l'approvazione definitiva del programma e dell'elenco annuale delle opere da realizzare è competente solo il consiglio comunale, ai sensi del precedente art. 42, trattandosi di atto di programmazione e di indirizzo” (cfr. C. Stato, sez. IV, 12.05.2009, n. 2910)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 24.04.2012 n. 802 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: E' il progetto definitivo ad assumere la valenza di dichiarazione di pubblica utilità ed urgenza e pertanto la sua approvazione richiede la contestuale variazione della disciplina urbanistica affinché vi sia sempre perfetta simmetria tra l’opera pubblica approvata e le previsioni dello strumento urbanistico generale.
L’infondatezza del sesto motivo di ricorso, con il quale si lamenta la pretermissione del momento dialogico scolpito dall’art. 7 della legge n. 241/1990, si deve alla circostanza, più volte peraltro evidenziata in ricorso, della nuova comunicazione di avviso procedimentale del 23.01.2006 a seguito della riapprovazione del progetto preliminare; non assume l’auspicato rilievo viziante la circostanza della successione cronologica tra approvazione del progetto preliminare e la successiva variante allo strumento urbanistico, in quanto è il progetto definitivo ad assumere la valenza di dichiarazione di pubblica utilità ed urgenza (TAR Campania Salerno, sez. I, 09.11.2007, n. 2482) e pertanto la sua approvazione richiede la contestuale variazione della disciplina urbanistica affinché vi sia sempre perfetta simmetria tra l’opera pubblica approvata e le previsioni dello strumento urbanistico generale (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 24.04.2012 n. 802 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione dell'istanza di accertamento di conformità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, produce l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione dell'ordine di demolizione dell'opera edilizia ritenuta abusiva per sopravvenuta carenza di interesse; tanto perché l'esercizio della facoltà di regolarizzare la propria posizione da parte del privato impedisce l'esercizio del potere repressivo dell'amministrazione, almeno fino a quando la stessa non si pronunci in senso negativo sull'istanza medesima, ed, inoltre, in quanto l'applicazione di detto principio, determina, sotto l'aspetto processuale, la sopravvenuta carenza di interesse all'annullamento dell'atto sanzionatorio in relazione al quale è stata prodotta la suddetta domanda di sanatoria e la traslazione e differimento dell'interesse ad impugnare verso il futuro provvedimento che, eventualmente, respinga la domanda medesima, disponendo nuovamente la demolizione dell'opera edilizia ritenuta abusiva.
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La circostanza che l'immobile abusivamente realizzato sia sottoposto a sequestro penale non osta all'adozione dell'ordine di demolizione, dal momento che è possibile motivatamente domandare all'autorità giudiziaria il dissequestro dell'immobile proprio al fine di ottemperare al predetto ordine. Pertanto è legittima l'ingiunzione a demolire emessa in pendenza di sequestro penale sul manufatto abusivo, dal momento che è onere del responsabile motivatamente domandare all'autorità giudiziaria il dissequestro dell'immobile e, pertanto, qualora il soggetto obbligato neppure dimostri di aver richiesto il dissequestro del bene allo scopo di demolirlo, non può successivamente far valere il fatto del sequestro quale causa di forza maggiore impeditiva della demolizione.

Il ricorso va dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse dopo la presentazione di istanza di accertamento di conformità prot. n. 938 del 12.01.2010.
E’ noto, infatti, che “La presentazione dell'istanza di accertamento di conformità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, produce l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione dell'ordine di demolizione dell'opera edilizia ritenuta abusiva per sopravvenuta carenza di interesse; tanto perché l'esercizio della facoltà di regolarizzare la propria posizione da parte del privato impedisce l'esercizio del potere repressivo dell'amministrazione, almeno fino a quando la stessa non si pronunci in senso negativo sull'istanza medesima, ed, inoltre, in quanto l'applicazione di detto principio, determina, sotto l'aspetto processuale, la sopravvenuta carenza di interesse all'annullamento dell'atto sanzionatorio in relazione al quale è stata prodotta la suddetta domanda di sanatoria e la traslazione e differimento dell'interesse ad impugnare verso il futuro provvedimento che, eventualmente, respinga la domanda medesima, disponendo nuovamente la demolizione dell'opera edilizia ritenuta abusiva” (cfr. TAR Campania Salerno, sez. I, 22.02.2011, n. 350).
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Va osservato, secondo costante giurisprudenza, che “La circostanza che l'immobile abusivamente realizzato sia sottoposto a sequestro penale non osta all'adozione dell'ordine di demolizione, dal momento che è possibile motivatamente domandare all'autorità giudiziaria il dissequestro dell'immobile proprio al fine di ottemperare al predetto ordine. Pertanto è legittima l'ingiunzione a demolire emessa in pendenza di sequestro penale sul manufatto abusivo, dal momento che è onere del responsabile motivatamente domandare all'autorità giudiziaria il dissequestro dell'immobile e, pertanto, qualora il soggetto obbligato neppure dimostri di aver richiesto il dissequestro del bene allo scopo di demolirlo, non può successivamente far valere il fatto del sequestro quale causa di forza maggiore impeditiva della demolizione” (cfr TAR Campania Napoli, sez. IV, 13.01.2011, n. 84)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 24.04.2012 n. 802 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per accertare se sussistono o meno i presupposti per la decadenza di un permesso di costruire o di una concessione edilizia l'effettivo inizio dei lavori deve essere valutato non in via generale ed astratta, ma con specifico riferimento all'entità ed alle dimensioni dell'intervento edificatorio programmato ed autorizzato, all'evidente scopo di evitare che il termine prescritto possa essere eluso con ricorso a lavori fittizi e simbolici e non oggettivamente significativi di un effettivo intendimento del titolare della concessione di procedere alla realizzazione dell'opera assentita.
Si afferma condivisibilmente in giurisprudenza che “Per accertare se sussistono o meno i presupposti per la decadenza di un permesso di costruire o di una concessione edilizia l'effettivo inizio dei lavori deve essere valutato non in via generale ed astratta, ma con specifico riferimento all'entità ed alle dimensioni dell'intervento edificatorio programmato ed autorizzato, all'evidente scopo di evitare che il termine prescritto possa essere eluso con ricorso a lavori fittizi e simbolici e non oggettivamente significativi di un effettivo intendimento del titolare della concessione di procedere alla realizzazione dell'opera assentita” (cfr. T.A.R Abruzzo Pescara, sez. I, 29.03.2011, n. 193).
Proprio l’assai ridotta consistenza dello scavo realizzato (mq. 6 per una profondità di cm. 90), peraltro unico intervento riscontrato nell’area di cantiere, rispetto a quello programmato (mq. 250 per una profondità di mt. 9,00) non consente di configurare un effettivo inizio dei lavori secondo i criteri enucleati in giurisprudenza.
Né può assumere l’auspicato rilievo la circostanza del ridotto lasso temporale intercorrente tra la data di rilascio del permesso di costruire (11.03.2010) e l’entrata in vigore delle nuove disposizioni del P.U.C. (13.03.2010) in quanto essa può al più rilevare nell’ambito di un giudizio di colpevolezza che non ha diritto di cittadinanza rispetto al dato obiettivo -il solo preso in considerazione dalla norma di cui all’art. 15, comma 4, del D.P.R. n. 380/2001,- del mancato inizio dei lavori quale causa ex se giustificativa ai fini della decadenza del permesso di costruire in caso di sopravvenienza di contrastanti disposizioni urbanistiche (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 24.04.2012 n. 799 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presenza sull’area interessata dai lavori abusivi del vincolo archeologico non assume carattere ineluttabilmente ostativo al rilascio del titolo edilizio in sanatoria, come evidenziato in giurisprudenza.
Invero, l’art. 32, co. 27, lett. d), d.l. 269/2003, convertito dalla l. 326/2003, “fermo restando quanto previsto dagli artt. 32 e 33 della l. 47/1985, prescrive l'insuscettibilità della sanatoria di opere edilizie non autorizzate, realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali istituiti prima della esecuzione di dette opere, ove le stesse non siano conformi alle norme urbanistiche ed alle prescrizioni degli strumenti urbanistici; quest'ultima condizione, che costituisce una novità rispetto alle precedenti leggi sul condono edilizio, ha dato vita ad un meccanismo di sanatoria che si avvicina fortemente all'istituto dell'accertamento di conformità, previsto dall'art. 36 T.U. 380 /2001”.
Il complessivo tenore della disciplina di riferimento, segnatamente l’art. 32 comma 27, lett. d), d.l. n. 269 del 2003 convertito dalla l. n. 326 del 2003, consente quindi di affermare che “il condono delle opere realizzate su aree vincolate è ammissibile solo in due ipotesi, previste disgiuntamente, costituite dalla realizzazione delle opere abusive prima dell'imposizione dei vincoli (e in questo caso trattasi della mera riproposizione di una caratteristica propria della disciplina posta dalle due precedenti leggi sul condono con riferimento ai vincoli di inedificabilità assoluta di cui all'art. 33, comma 1, l. n. 47 del 1985); dal fatto che le opere oggetto di sanatoria, benché non assentite o difformi dal titolo abilitativo, risultino comunque conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”.

Invero, la presenza sull’area interessata dai lavori abusivi del vincolo archeologico non assume carattere ineluttabilmente ostativo al rilascio del titolo edilizio in sanatoria, come evidenziato in giurisprudenza.
Invero, l’art. 32, co. 27, lett. d), d.l. 269/2003, convertito dalla l. 326/2003, espressamente citato nel provvedimento impugnato, “fermo restando quanto previsto dagli artt. 32 e 33 della l. 47/1985, prescrive l'insuscettibilità della sanatoria di opere edilizie non autorizzate, realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali istituiti prima della esecuzione di dette opere, ove le stesse non siano conformi alle norme urbanistiche ed alle prescrizioni degli strumenti urbanistici; quest'ultima condizione, che costituisce una novità rispetto alle precedenti leggi sul condono edilizio, ha dato vita ad un meccanismo di sanatoria che si avvicina fortemente all'istituto dell'accertamento di conformità, previsto dall'art. 36 T.U. 380 /2001”.
Il complessivo tenore della disciplina di riferimento, segnatamente l’art. 32 comma 27, lett. d), d.l. n. 269 del 2003 convertito dalla l. n. 326 del 2003, consente quindi di affermare che “il condono delle opere realizzate su aree vincolate è ammissibile solo in due ipotesi, previste disgiuntamente, costituite dalla realizzazione delle opere abusive prima dell'imposizione dei vincoli (e in questo caso trattasi della mera riproposizione di una caratteristica propria della disciplina posta dalle due precedenti leggi sul condono con riferimento ai vincoli di inedificabilità assoluta di cui all'art. 33, comma 1, l. n. 47 del 1985); dal fatto che le opere oggetto di sanatoria, benché non assentite o difformi dal titolo abilitativo, risultino comunque conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”. E’ proprio questo profilo che l’Amministrazione ha omesso di considerare in sede di diniego del condono edilizio, per tal via consolidandosi il difetto di motivazione, come denunciato dal ricorrente.
Il provvedimento impugnato è quindi illegittimo, risultando assorbita ogni altra censura, ivi compresa quella di cui al terzo motivo di gravame, relativa all’ordinanza di demolizione, avendo tale atto carattere conseguenziale al precedente diniego (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 24.04.2012 n. 786 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Secondo quanto stabilito dal comma 13 dell’art. 37 del d.lgs. n. 163/2006, “i concorrenti riuniti in raggruppamenti temporanei devono eseguire le prestazioni nella percentuali corrispondente alla quota di partecipazione”. Tale norma pone la regola del parallelismo tra quote di partecipazione e quote di esecuzione e quindi tra quote di qualificazione e quote di partecipazione all'A.T.I. affinché la stazione appaltante possa concretamente verificare la serietà ed affidabilità dell’offerta.
La indicazione delle rispettive quote percentuali di partecipazione ai lavori in seno all’offerta del concorrente raggruppato, ha la specifica finalità di consentire alla stazione appaltante di verificare che tale indicazione venga concretamente rispettata nella fase di attuazione del programma contrattuale, ancorché la fase dell’esecuzione non sia connotata da una rigida e meccanica applicazione di tale regola della corrispondenza, in quanto, qualora dopo la stipulazione del contratto si verifichino eventi sopravvenuti idonei ad incidere sul contenuto del contratto, è possibile, nei limiti consentiti dal Codice degli appalti, adeguare il contenuto stesso, anche eventualmente in ordine alla distribuzione delle quote di esecuzione, alla nuova situazione fattuale.
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Deve ritenersi sussistente lo specifico obbligo delle imprese associate in ATI orizzontale di dichiarare espressamente le quote di partecipazione, di svolgere la corrispondente percentuale del lavoro ed altresì di essere qualificata, ciascuna, per un importo non inferiore alla quota assunta: ciò in quanto l'associazione orizzontale serve bensì a consentire a più imprese associate di potersi aggiudicare gare per cui non sarebbero state singolarmente idonee sotto il profilo tecnico o finanziario, ma senza che ciò consenta loro di aggirare le norme sulla qualificazione che, appunto, deve sussistere in capo a ciascuna in misura almeno pari all'entità di lavoro che essa dovrà svolgere.
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Va escluso dalla gara, in applicazione dell'art. 3 del D.P.R. n. 34/2000, il Raggruppamento nel quale una delle imprese mandanti non possiede qualificazione sufficiente ad effettuare la quota pari al cinquanta per cento dei lavori relativi alla categoria prevalente che il programma dell'associazione l'aveva designata a svolgere. Infatti, l'attuale sistema si propone di perseguire la finalità di evitare le distorsioni del precedente, in cui non vi era necessaria correlazione tra quota di lavori svolta da ciascuna associata e quota di partecipazione della stessa nell'ambito dell'associazione, e privilegia il principio di effettiva corrispondenza tra quota di qualificazione, quota di partecipazione all'ATI e quota di esecuzione dei lavori.
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La disposizione dell'art. 13 della legge n. 109/1994 impone a tutte le imprese di una costituenda ATI partecipante alle procedure ad evidenza pubblica che la mandataria e le altre imprese associate siano già in possesso dei requisiti di qualificazione per la rispettiva quota percentuale, essendo necessaria la previa indicazione delle quote di partecipazione di tutte e di ciascuna impresa fin dall'ammissione alla gara.
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Ai sensi dell'art. 13, comma 5, della legge n. 109/1994 e dell'art. 93, comma 1, del D.P.R. n. 554/1999, deve ritenersi che sussista l'obbligo per le imprese di un Raggruppamento temporaneo di imprese, orizzontale o verticale, di indicare l'importo dei lavori in relazione alle singole partecipanti, anche in assenza di previsione in seno alla lex specialis, in modo da permettere subito la verifica dei requisiti di partecipazione alla gara, atteso che la normativa vigente si impernia su un principio di corrispondenza sostanziale, già nella fase della offerta, tra quote di qualificazione e quote di partecipazione all'A.T.I. (art. 13, comma 1, della legge n. 109/1994) e tra quote di partecipazione e quote di esecuzione (art. 93, comma 4, del D.P.R. 554/1999).
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Ai sensi dell'art. 37, d.lgs. 12.04.2006 n. 163, nelle gare indette per l'aggiudicazione di appalti di lavori pubblici, ai fini dell'ammissione alla gara di un raggruppamento consortile o di un'A.T.I. occorre che già nella fase di offerta sia evidenziata la corrispondenza sostanziale tra quote di qualificazione e quote di partecipazione, nonché tra quote di partecipazione e quote di esecuzione, trattandosi di obbligo costituente espressione di un principio generale che prescinde dall'assoggettamento o meno della gara alla disciplina comunitaria e non consente distinzioni legate alla natura morfologica del raggruppamento (verticale o orizzontale), o alla tipologia delle prestazioni (principali o secondarie, scorporabili o unitarie).

La ricorrente principale osserva di non aver costituito un’ATI verticale, ma orizzontale, sicché sarebbe rilevante ai fini della partecipazione unicamente la qualificazione complessiva dell’ATI costituenda, stante il regime di responsabilità solidale che avvince le rispettive posizioni delle singole imprese.
Un tale ragionamento non può essere condiviso, trovando applicazione anche nel caso di specie quanto stabilito dal comma 13 dell’art. 37 del d.lgs. n. 163/2006, il quale prevede che “i concorrenti riuniti in raggruppamenti temporanei devono eseguire le prestazioni nella percentuali corrispondente alla quota di partecipazione”. Tale norma pone la regola del parallelismo tra quote di partecipazione e quote di esecuzione e quindi tra quote di qualificazione e quote di partecipazione all'A.T.I. affinché la stazione appaltante possa concretamente verificare la serietà ed affidabilità dell’offerta.
La indicazione delle rispettive quote percentuali di partecipazione ai lavori in seno all’offerta del concorrente raggruppato, ha la specifica finalità di consentire alla stazione appaltante di verificare che tale indicazione venga concretamente rispettata nella fase di attuazione del programma contrattuale, ancorché la fase dell’esecuzione non sia connotata da una rigida e meccanica applicazione di tale regola della corrispondenza, in quanto, qualora dopo la stipulazione del contratto si verifichino eventi sopravvenuti idonei ad incidere sul contenuto del contratto, è possibile, nei limiti consentiti dal Codice degli appalti, adeguare il contenuto stesso, anche eventualmente in ordine alla distribuzione delle quote di esecuzione, alla nuova situazione fattuale (TAR Calabria Catanzaro, sez. II, 28.07.2008, n. 1101).
È invero assolutamente consolidata la giurisprudenza che afferma che “...deve ritenersi sussistente lo specifico obbligo delle imprese associate in ATI orizzontale di dichiarare espressamente le quote di partecipazione, di svolgere la corrispondente percentuale del lavoro ed altresì di essere qualificata, ciascuna, per un importo non inferiore alla quota assunta: ciò in quanto l'associazione orizzontale serve bensì a consentire a più imprese associate di potersi aggiudicare gare per cui non sarebbero state singolarmente idonee sotto il profilo tecnico o finanziario, ma senza che ciò consenta loro di aggirare le norme sulla qualificazione che, appunto, deve sussistere in capo a ciascuna in misura almeno pari all'entità di lavoro che essa dovrà svolgere” (cfr., C.G.A., nn. 88 dell'08.03.2005 e 221 del 21.03.2007).
Della questione si è occupato spesso il TAR Palermo, che ha costantemente affermato che "va escluso dalla gara, in applicazione dell'art. 3 del D.P.R. n. 34/2000, il Raggruppamento nel quale una delle imprese mandanti non possiede qualificazione sufficiente ad effettuare la quota pari al cinquanta per cento dei lavori relativi alla categoria prevalente che il programma dell'associazione l'aveva designata a svolgere. Infatti, l'attuale sistema si propone di perseguire la finalità di evitare le distorsioni del precedente, in cui non vi era necessaria correlazione tra quota di lavori svolta da ciascuna associata e quota di partecipazione della stessa nell'ambito dell'associazione, e privilegia il principio di effettiva corrispondenza tra quota di qualificazione, quota di partecipazione all'ATI e quota di esecuzione dei lavori" (Sez. 3^, n. 2368 del 25.10.2006).
Con altra sentenza (la n. 1001 dell'01.03.2007), la VI Sezione del Consiglio di Stato ha affermato che "...la disposizione dell'art. 13 della legge n. 109/1994 impone a tutte le imprese di una costituenda ATI partecipante alle procedure ad evidenza pubblica che la mandataria e le altre imprese associate siano già in possesso dei requisiti di qualificazione per la rispettiva quota percentuale, essendo necessaria la previa indicazione delle quote di partecipazione di tutte e di ciascuna impresa fin dall'ammissione alla gara".
Ed ancora: il Consiglio di Stato ha statuito che "ai sensi dell'art. 13, comma 5, della legge n. 109/1994 e dell'art. 93, comma 1, del D.P.R. n. 554/1999, deve ritenersi che sussista l'obbligo per le imprese di un Raggruppamento temporaneo di imprese, orizzontale o verticale, di indicare l'importo dei lavori in relazione alle singole partecipanti, anche in assenza di previsione in seno alla lex specialis, in modo da permettere subito la verifica dei requisiti di partecipazione alla gara, atteso che la normativa vigente si impernia su un principio di corrispondenza sostanziale, già nella fase della offerta, tra quote di qualificazione e quote di partecipazione all'A.T.I. (art. 13, comma 1, della legge n. 109/1994) e tra quote di partecipazione e quote di esecuzione (art. 93, comma 4, del D.P.R. 554/1999") (Consiglio di Stato-Sezione 6^, n. 2310 dell'11.05.2007; C.G.A., n. 116 del 31.03.2006).
Tale orientamento è stato di recente confermato dal Supremo Consesso di Giustizia Amministrativa, laddove ha affermato che “Ai sensi dell'art. 37, d.lgs. 12.04.2006 n. 163, nelle gare indette per l'aggiudicazione di appalti di lavori pubblici, ai fini dell'ammissione alla gara di un raggruppamento consortile o di un'A.T.I. occorre che già nella fase di offerta sia evidenziata la corrispondenza sostanziale tra quote di qualificazione e quote di partecipazione, nonché tra quote di partecipazione e quote di esecuzione, trattandosi di obbligo costituente espressione di un principio generale che prescinde dall'assoggettamento o meno della gara alla disciplina comunitaria e non consente distinzioni legate alla natura morfologica del raggruppamento (verticale o orizzontale), o alla tipologia delle prestazioni (principali o secondarie, scorporabili o unitarie)” (cfr. C. Stato sez. IV, 27.01.2011, n. 606)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 24.04.2012 n. 785 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'interesse strumentale del partecipante ad una gara pubblica di appalto ad ottenerne la riedizione non sussiste in capo al soggetto legittimamente escluso, dato che esso, per effetto dell'esclusione è privo non solo del titolo legittimante a partecipare alla gara, ma anche a contestarne gli esiti e la legittimità delle distinte scansioni procedimentali; ed invero il suo interesse, da qualificare di mero fatto, non è diverso da quello di qualsiasi operatore del settore che, non avendo partecipato alla gara, non ha titolo ad impugnarne gli atti, pur essendo titolare di un interesse di mero fatto alla caducazione dell'intera selezione, al fine di poter presentare la propria offerta nel caso di riedizione della medesima gara.
Invero, “L'interesse strumentale del partecipante ad una gara pubblica di appalto ad ottenerne la riedizione non sussiste in capo al soggetto legittimamente escluso, dato che esso, per effetto dell'esclusione è privo non solo del titolo legittimante a partecipare alla gara, ma anche a contestarne gli esiti e la legittimità delle distinte scansioni procedimentali; ed invero il suo interesse, da qualificare di mero fatto, non è diverso da quello di qualsiasi operatore del settore che, non avendo partecipato alla gara, non ha titolo ad impugnarne gli atti, pur essendo titolare di un interesse di mero fatto alla caducazione dell'intera selezione, al fine di poter presentare la propria offerta nel caso di riedizione della medesima gara” (cfr. C. Stato. sez. IV, 12.01.2011, n. 127).
La domanda risarcitoria non può che essere disattesa, fondandosi sulla pretesa illegittimità degli atti impugnati
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 24.04.2012 n. 785 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione della domanda di condono o di accertamento di conformità in data successiva all’impugnazione dell’ordinanza di demolizione produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione stessa per carenza sopravvenuta di interesse, in quanto l’istanza di sanatoria comporta il riesame dell’abusività dell’opera mediante l’emanazione di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di rigetto, che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
Rileva il Tribunale che –stante l’ottenuta sanatoria per gli abusi, contestati sub-3) dell’impugnata ordinanza, e la presentazione di domanda di accertamento di conformità, ex art. 37 d.P.R. 380/2011, relativamente alle altre opere abusive, sanzionate con la medesima– il ricorso è divenuto improcedibile, per sopravvenuta carenza d’interesse, conformemente al fermissimo orientamento della giurisprudenza, espresso, ex multis, nella massima che segue: “La presentazione della domanda di condono o di accertamento di conformità in data successiva all’impugnazione dell’ordinanza di demolizione produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione stessa per carenza sopravvenuta di interesse, in quanto l’istanza di sanatoria comporta il riesame dell’abusività dell’opera mediante l’emanazione di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di rigetto, che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa” (TAR Lazio Roma, sez. II, 13.12.2010, n. 36294) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 24.04.2012 n. 770 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La denunzia di inizio attività non ha valore di provvedimento amministrativo né lo acquista in virtù del decorso del termine previsto per l’attività di riscontro della p. a., sicché la sua impugnativa è inammissibile.
La d.i.a. in materia di edilizia costituisce un atto soggettivamente ed oggettivamente privato che in presenza delle condizioni richieste attribuisce al privato una legittimazione ex lege allo svolgimento di una determinata attività, che viene quindi liberalizzata. Da quanto detto deriva che, decorso il termine senza l’esercizio, da parte della p. a., del potere inibitorio, il terzo controinteressato potrà avvalersi solo dei provvedimenti sanzionatori previsti, facendo ricorso, in caso di inerzia, alla procedura del silenzio–rifiuto, che avrà quindi come riferimento solo il generale potere sanzionatorio e non quello inibitorio, dato che il giudice non potrebbe comunque costringere l’amministrazione ad esercitare un potere da cui è decaduta; pertanto, deve essere dichiarato inammissibile il ricorso con cui il controinteressato impugna il c. d. atto abilitativo tacito formatosi sulla d.i.a. anziché chiedere al Comune direttamente la rimozione dell’atto, una volta scaduto il termine di esercizio del potere inibitorio dell’amministrazione.

Secondo la giurisprudenza prevalente, infatti: “La denunzia di inizio attività non ha valore di provvedimento amministrativo né lo acquista in virtù del decorso del termine previsto per l’attività di riscontro della p. a., sicché la sua impugnativa è inammissibile” (TAR Campania Napoli, sez. III, 01.12.2008, n. 20723).
Né, del resto, potrebbe giungersi a diverse conclusioni, ove si ritenesse che la ricorrente (che afferma, a fol. 5 del ricorso, d’aver interesse ad impugnare “il provvedimento emesso dal Comune di Pollica”), abbia inteso gravare l’atto abilitativo tacito, formatosi a cagione del mancato esercizio da parte del Comune, nel termine di legge, del proprio potere inibitorio.
Tanto, in conformità all’ulteriore massima che segue: “La d.i.a. in materia di edilizia costituisce un atto soggettivamente ed oggettivamente privato che in presenza delle condizioni richieste attribuisce al privato una legittimazione ex lege allo svolgimento di una determinata attività, che viene quindi liberalizzata.
Da quanto detto deriva che, decorso il termine senza l’esercizio, da parte della p. a., del potere inibitorio, il terzo controinteressato potrà avvalersi solo dei provvedimenti sanzionatori previsti, facendo ricorso, in caso di inerzia, alla procedura del silenzio–rifiuto, che avrà quindi come riferimento solo il generale potere sanzionatorio e non quello inibitorio, dato che il giudice non potrebbe comunque costringere l’amministrazione ad esercitare un potere da cui è decaduta; pertanto, deve essere dichiarato inammissibile il ricorso con cui il controinteressato impugna il c. d. atto abilitativo tacito formatosi sulla d.i.a. anziché chiedere al Comune direttamente la rimozione dell’atto, una volta scaduto il termine di esercizio del potere inibitorio dell’amministrazione
” (TAR Calabria Catanzaro, sez. II, 10.05.2007, n. 404; conforme: TAR Puglia Lecce, sez. I, 10.11.2006, n. 5284) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 24.04.2012 n. 769 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 146, comma 12 –nella versione modificata dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 157 del 2006– prevede che non possano più essere rilasciate autorizzazioni paesaggistiche “in sanatoria”, ossia successive alla realizzazione, anche parziale, degli interventi, salvo le ipotesi tassative volte a sanare “ex post” gli interventi abusivi di cui all’art. 167; in tali casi deve essere instaurata un’apposita procedura ad istanza della parte interessata che contempla –a differenza dell’ordinario procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (in vigore in via transitoria)– l’accertamento della compatibilità paesaggistica, demandato all’amministrazione preposta alla gestione del vincolo, previa acquisizione del parere della Soprintendenza che nella particolare fattispecie in esame assume carattere non solo obbligatorio, ma vincolante.
Il Collegio osserva come l’art. 167 del d. l.vo 42/04, ai commi 4 e 5, stabilisca:
L’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei seguenti casi:
a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l’impiego di materiali in difformità dall’autorizzazione paesaggistica;
c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell’articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380.
Il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile o dell’area interessati dagli interventi di cui al comma 4 presenta apposita domanda all’autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini dell’accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi. L’autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni. Qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione. L’importo della sanzione pecuniaria è determinato previa perizia di stima. In caso di rigetto della domanda si applica la sanzione demolitoria di cui al comma 1. La domanda di accertamento della compatibilità paesaggistica presentata ai sensi dell'articolo 181, comma 1-quater, si intende presentata anche ai sensi e per gli effetti di cui al presente comma
”.
Rileva poi il Collegio che l’art. 181, commi 1-ter e quater, dello stesso d. l.vo, prevede, poi, quanto segue:
Ferma restando l’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie di cui all’articolo 167, qualora l’autorità amministrativa competente accerti la compatibilità paesaggistica secondo le procedure di cui al comma 1-quater, la disposizione di cui al comma 1 non si applica:
a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l’impiego di materiali in difformità dall’autorizzazione paesaggistica;
c) per i lavori configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell’articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380.
Il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile o dell’area interessati dagli interventi di cui al comma 1-ter presenta apposita domanda all’autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini dell’accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi. L’autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni
”.
Dall’esposizione che precede risulta evidente come la richiesta del ricorrente di compatibilità paesaggistico-ambientale, avanzata ai sensi dell’art. 181 comma 1-quater d. l.vo 42/2004, andasse necessariamente istruita mercé l’acquisizione di parere vincolante da parte della Soprintendenza di Salerno, competente per territorio; ma detto adempimento procedurale, come dedotto in ricorso e come si ricava altresì dallo stesso tenore letterale del provvedimento gravato, è stato nella specie completamente pretermesso (né alcunché in contrario è stato osservato da parte dell’Amministrazione intimata, rimasta estranea al giudizio).
Si cfr. quanto statuito, in giurisprudenza, con riferimento al procedimento in oggetto: “L’art. 146, comma 12 –nella versione modificata dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 157 del 2006– prevede che non possano più essere rilasciate autorizzazioni paesaggistiche “in sanatoria”, ossia successive alla realizzazione, anche parziale, degli interventi, salvo le ipotesi tassative volte a sanare “ex post” gli interventi abusivi di cui all’art. 167; in tali casi deve essere instaurata un’apposita procedura ad istanza della parte interessata che contempla –a differenza dell’ordinario procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (in vigore in via transitoria)– l’accertamento della compatibilità paesaggistica, demandato all’amministrazione preposta alla gestione del vincolo, previa acquisizione del parere della Soprintendenza che nella particolare fattispecie in esame assume carattere non solo obbligatorio, ma vincolante” (TAR Veneto Venezia, sez. II, 23.04.2010, n. 1550) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 24.04.2012 n. 759 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: In una società mista al socio privato deve essere affidata ogni attività necessaria all'esecuzione dell'appalto che sia suscettibile di rendere una utilità economica.
Il criterio guida nella utilizzazione della società mista è quello della salvaguardia della libera concorrenza, che risulta garantita solo se il capitale pubblico interviene senza sottrarre all'imprenditoria privata le utilità che questa potrebbe trarre da un affidamento del medesimo appalto al di fuori dello schema societario, in esito al semplice esperimento della gara per la scelta del contraente.
Ne consegue che, la conformità allo schema delineato impone che al socio privato sia affidata -non un qualunque compito operativo, purché precisamente determinato- bensì ogni attività necessaria all'esecuzione dell'appalto che sia suscettibile di rendere una utilità economica.
Appare evidente, nel caso di specie, -in base agli atti di gara- che Idra Patrimonio (società ad integrale capitale pubblico locale, proprietaria delle reti, impianti e dotazioni per lo svolgimento del servizio idrico integrato), nell'ambito della società mista, e quindi ai fini dell'esecuzione dell'appalto, ha riservato a sé stessa rilevanti compiti operativi, quali l'amministrazione della società con locazione dei locali, la provvista del personale e i relativi beni strumentali; la direzione dei lavori; la redazione dei progetti esecutivi.
Tale modalità, non corrisponde al modello di affidamento legittimo di opere pubbliche a società mista come sopra delineato, posto che la società appaltatrice a capitale pubblico non ha la facoltà di affidare direttamente alla propria controllata quote di attività nell'ambito dell'esecuzione di opere pubbliche, in violazione del principio di libera concorrenza (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.04.2012 n. 2348 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Non sussiste alcun vincolo normativo che limiti la ponderazione da attribuire ai fattori nel sistema dell'offerta economicamente più vantaggiosa, purché non ne venga azzerato il peso ponderale.
In materia di appalti, non sussiste alcun tipo di preclusione in capo all'amministrazione, in ordine alla valutazione dei fattori inerenti l'attendibilità dell'offerente e la qualità del servizio oggetto dell'offerta. Trattasi, invero, di elementi rimessi all'ampio potere discrezionale dell'amministrazione, pertanto ne è preclusa la sindacabilità ove corrispondano e siano coerenti a precise scelte dell'amministrazione, non esistendo alcun vincolo normativo che limiti la ponderazione da attribuire ai fattori nel sistema dell'offerta economicamente più vantaggiosa, purché non ne venga azzerato il peso ponderale.
Pertanto, nel caso di specie, poiché l'amministrazione ha specificato nel bando di gara i singoli elementi di valutazione sì da rendere possibile un'offerta del servizio conforme ai criteri che l'amministrazione riteneva maggiormente apprezzabili, deve riconoscersi che il bando e il comportamento dell'amministrazione non sono censurabili, perché risultano correttamente individuati gli elementi qualificanti del progetto ed i punteggi da assegnare per ciascuno dei tre aspetti principali componenti l'offerta tecnica ed i punteggi per l'offerta economica, nonché l'ambito entro cui si sarebbe esplicata la discrezionalità dell'amministrazione.
Ne consegue che la lex di gara è tutt'altro che generica e tanto meno può ritenersi che abbia impedito la valutazione di convenienza dell'offerta da parte dei potenziali partecipanti (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.04.2012 n. 2339 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Non appare conforme alla piena esplicazione del diritto alla difesa e del diritto di libertà di iniziativa economica privata, nonché del principio di libera concorrenza, subordinare la legittimazione di un soggetto sostanzialmente leso in via immediata da una clausola del bando che gli preclude la partecipazione alla gara, al mero formalismo della presentazione di una domanda che ne comporterebbe la sua esclusione.
La questione sulla necessità della presentazione della domanda di partecipazione alla gara da parte dell'impresa che lamenti l'illegittimità di clausole del bando di gara, è stata più volte affrontata dalla giurisprudenza, con decisioni non sempre univoche.
E' comunque indubbio che ove le clausole del bando siano ex se immediatamente lesive e tali da precludere la partecipazione alla gara, la presentazione della domanda di partecipazione finisce con l'essere un adempimento inutile meramente formale cui seguirebbe l'estromissione dalla gara con appesantimento della tutela dell'interessato obbligato ad aspettare l'esclusione dalla gara, onde impugnare anche tale provvedimento (Cons. Stato, sez. II, parere n. 149 del 07.03.2011; sez. IV, 30.05.2005, n. 2804; sez. V, 11.11.2004, n. 7341) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.04.2012 n. 2339 - link a http://www.mediagraphic.it).

APPALTI: Non sussiste un'equipollenza tra la firma di un documento in calce e quella apposta solo in apertura di esso ("in testa").
"La sottoscrizione dell'offerta di gara, che si configura come lo strumento mediante il quale l'autore fa propria la dichiarazione contenuta nel documento, serve a rendere nota la paternità ed a vincolare l'autore alla manifestazione di volontà in esso contenuta.
Essa assolve la funzione di assicurare provenienza, serietà, affidabilità e insostituibilità dell'offerta e costituisce elemento essenziale per la sua ammissibilità, sia sotto il profilo formale che sotto quello sostanziale, potendosi solo ad essa riconnettere gli effetti dell'offerta come dichiarazione di volontà volta alla costituzione di un rapporto giuridico. La sua mancanza inficia, pertanto, la validità e la ricevibilità della manifestazione di volontà contenuta nell'offerta senza che sia necessaria, ai fini dell'esclusione, una espressa previsione della legge di gara (Cons. St. Sez. V, 07.11.2008, n. 5547)
" (C.d.S., V, 25.01.2011 n. 528).
Tanto premesso, osserva la Sezione che una "sottoscrizione" deve per definizione essere apposta in calce al documento al quale si riferisce (nel senso che per "sottoscrizione" debba intendersi la firma in calce, e che questa nemmeno "può essere sostituita dalla sottoscrizione solo parziale delle pagine precedenti quella conclusiva della dichiarazione stessa" v. C.d.S., IV, 31.03.2010, n. 1832).
Non si può pertanto condividere l'idea che esista un'equipollenza tra la firma di un documento in calce e quella apposta solo in apertura di esso ("in testa"), o tanto meno sul mero frontespizio di un testo di più pagine, dal momento che è soltanto con la firma in calce che si esprime il senso della consapevole assunzione della paternità di un testo e della responsabilità in ordine al suo contenuto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.04.2012 n. 2317 - link a www.mediagraphic.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Contro le determinazioni e contro il silenzio sulle istanze di accesso ai documenti amministrativi il ricorso è proposto entro 30 giorni dalla conoscenza della determinazione impugnata o dalla formazione del silenzio, mediante notificazione all’amministrazione e ad almeno un controinteressato.
Non è consentito superare il regime decadenziale previsto dall'art. 25, l. n. 241 del 1990, reiterando l'istanza di accesso a fronte della mancata impugnazione del silenzio serbato dall'Amministrazione sulla prima istanza di accesso, in specie allorché la nuova domanda non sia giustificata da circostanze nuove.
Dalla natura impugnatoria del processo in materia di accesso ai documenti amministrativi, nonostante la qualificazione dell'accesso come diritto, deriva l'inammissibilità del ricorso per mancata tempestiva impugnazione del diniego o del silenzio e l'impossibilità di reiterare la medesima istanza se non è stata contestata giudizialmente la precedente risposta negativa; sicché una nuova istanza di accesso può ritenersi ammissibile solo per fatti nuovi, sopravvenuti o meno, non rappresentati nell'originaria istanza o anche a fronte di una diversa prospettazione dell'interesse giuridicamente rilevante.
Non può eludersi, mediante la riproposizione della stessa domanda e la tempestiva impugnazione del secondo diniego, meramente confermativo, la perentorietà del termine per impugnare un diniego di accesso ai documenti amministrativi. Infatti, il termine per la presentazione del ricorso, previsto dall'art. 25, comma 5, legge 07.08.1990, n. 241, non può riprendere a decorrere per effetto della presentazione di un'ulteriore domanda di accesso avente a oggetto i medesimi documenti: si consentirebbe, altrimenti, l'elusione di un termine perentorio previsto dalla legge ai fini della presentazione di un ricorso giurisdizionale, a prescindere dalla qualificazione della situazione giuridica soggettiva lesa (diritto soggettivo o interesse legittimo), di per sé ininfluente sul carattere perentorio del termine, previsto dalla legge a pena di decadenza.

- Rilevato che il ricorso in esame attiene alla materia dell’accesso ai documenti detenuti dalla P.A., sebbene l’oggetto della domanda sia prospettato come rivolto a contestare il silenzio dell’amministrazione intimata (a fronte dell’istanza di accesso presentata in data 25.03.2011 dai ricorrenti e reiterata in data 23.12.2011);
- Evidenziato che, ai sensi dell’art. 116, comma 1, cod. proc. amm., “contro le determinazioni e contro il silenzio sulle istanze di accesso ai documenti amministrativi il ricorso è proposto entro 30 giorni dalla conoscenza della determinazione impugnata o dalla formazione del silenzio, mediante notificazione all’amministrazione e ad almeno un controinteressato”;
- Richiamato il condivisibile orientamento giurisprudenziale secondo cui (cfr. TAR Lazio, Sez. I, 04.01.2012, n. 63) “non è consentito superare il regime decadenziale previsto dall'art. 25, l. n. 241 del 1990, reiterando l'istanza di accesso a fronte della mancata impugnazione del silenzio serbato dall'Amministrazione sulla prima istanza di accesso, in specie allorché la nuova domanda non sia giustificata da circostanze nuove (Consiglio Stato, sez. VI, 30.07.2009, n. 4810).
Dalla natura impugnatoria del processo in materia di accesso ai documenti amministrativi, nonostante la qualificazione dell'accesso come diritto, deriva l'inammissibilità del ricorso per mancata tempestiva impugnazione del diniego o del silenzio e l'impossibilità di reiterare la medesima istanza se non è stata contestata giudizialmente la precedente risposta negativa; sicché una nuova istanza di accesso può ritenersi ammissibile solo per fatti nuovi, sopravvenuti o meno, non rappresentati nell'originaria istanza o anche a fronte di una diversa prospettazione dell'interesse giuridicamente rilevante (TAR Marche Ancona, sez. I, 30.09.2009, n. 913). (…)
Va dunque ribadito il costante orientamento giurisprudenziale richiamati secondo cui non può eludersi, mediante la riproposizione della stessa domanda e la tempestiva impugnazione del secondo diniego, meramente confermativo, la perentorietà del termine per impugnare un diniego di accesso ai documenti amministrativi (TAR Lazio Roma Sez. III, 2003, n. 223). Infatti, il termine per la presentazione del ricorso, previsto dall'art. 25, comma 5, legge 07.08.1990, n. 241, non può riprendere a decorrere per effetto della presentazione di un'ulteriore domanda di accesso avente a oggetto i medesimi documenti: si consentirebbe, altrimenti, l'elusione di un termine perentorio previsto dalla legge ai fini della presentazione di un ricorso giurisdizionale, a prescindere dalla qualificazione della situazione giuridica soggettiva lesa (diritto soggettivo o interesse legittimo), di per sé ininfluente sul carattere perentorio del termine, previsto dalla legge a pena di decadenza (Cons. di Stato, sez. VI, sent. del 07.06.2006 n. 3431)
”;
- Rilevato che in data 23.12.2011, dopo il decorso del termine di trenta giorni concesso agli interessati per impugnare il silenzio serbato dal Comune intimato a fronte dell’istanza di accesso del 25.3.20110, i ricorrenti hanno reiterato quest’ultima, mediante la sua mera rinotificazione;
- Rilevato che, in applicazione dei citati principi interpretativi, il ricorso deve quindi essere dichiarato inammissibile ... (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 20.04.2012 n. 750 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: E' legittima l'aggiudicazione di un appalto a favore di un concorrente che ha conseguito il decreto di omologazione del concordato da parte del Tribunale fallimentare prima della presentazione della domanda di partecipazione.
L'art. 38 del D.Lgs. 163/2006 prevede che: "sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere affidatari di subappalti, e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti: a) che si trovano in stato di….concordato preventivo, o nei cui riguardi sia in corso un procedimento per la dichiarazione di una di tali situazioni."
L'art. 181 L.F., pur dopo talune modifiche intervenute nel tempo, prevede, che "la procedura di concordato preventivo si chiude...con l'omologazione". Il dato testuale delle norme summenzionate fa esplicito riferimento, allo stato di concordato preventivo "in corso" e alla "chiusura" della procedura con il decreto di omologazione del concordato. Non è dato quindi procedere a una lettura estensiva di tali previsioni pervenendo a conclusioni ermeneutiche che non si rinvengono nelle stesse se non con inammissibili forzature, essendo pacifico che ogni restrizione della capacità giuridica in generale e di quella a contrarre in particolare deve trovare espressa copertura normativa ovvero in esplicite prescrizioni della lex specialis.
Ne consegue che, la dizione "in corso" non può che riferirsi alla fase precedente alla "omologazione" del concordato, la quale "chiude" pertanto la procedura dell'ammissione al concordato stesso, posto che il decreto di autorizzazione alla chiusura emesso dal Tribunale nelle funzioni di sorveglianza e controllo attribuite agli organi fallimentari costituisce atto conseguenziale ed esecutivo del concordato riguardo al complesso di obbligazioni assunte dal debitore con il concordato.
Nel caso di specie, pertanto, l'aggiudicazione dell'appalto a favore della società era da ritenersi legittima, in quanto lo "stato" del concordato era definito e il procedimento era "chiuso" all'atto della domanda per cui la fattispecie non era da ricomprendersi nell'esclusione prevista dalla citata norma (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 19.04.2012 n. 2305 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: In caso di annullamento in sede giurisdizionale di una concessione edilizia, considerata illegittima per vizio sostanziale, l’amministrazione non può ricorrere all’art. 38 d.p.r. 380/2001, norma che consente di rimediare ai soli vizi formali o procedurali.
La regola posta dal richiamato art. 38, comma 1, è rappresentata dall'operatività della sanzione reale che, in quanto effetto primario e naturale derivante dall'annullamento del permesso di costruire, non richiede all'amministrazione un particolare onere della motivazione, ma rinviene la sua giustificazione, in re ipsa, nella legalità violata. Ne consegue che la sanzione alternativa pecuniaria deve intendersi riferita alle sole costruzioni assentite mediante titoli abilitativi annullati per vizi formali.

In caso di annullamento in sede giurisdizionale di una concessione edilizia, considerata illegittima per vizio sostanziale, l’amministrazione non può ricorrere all’art. 38 d.p.r. 380/2001, norma che consente di rimediare ai soli vizi formali o procedurali.
Come chiarito da questo Tar (sez. I, 31.05.2011, n. 1029 ), la regola posta dal richiamato art. 38, comma 1, è rappresentata dall'operatività della sanzione reale che, in quanto effetto primario e naturale derivante dall'annullamento del permesso di costruire, non richiede all'amministrazione un particolare onere della motivazione, ma rinviene la sua giustificazione, in re ipsa, nella legalità violata. Ne consegue che la sanzione alternativa pecuniaria deve intendersi riferita alle sole costruzioni assentite mediante titoli abilitativi annullati per vizi formali (cfr. anche TAR Genova, Liguria, sez. I, 05.02.2011, n. 235) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 19.04.2012 n. 738 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: È inammissibile il ricorso proposto avverso l’ingiunzione di demolizione di edificio abusivamente realizzato ove sia passato in giudicato il diniego di sanatoria dello stesso.
È inammissibile l’impugnazione giurisdizionale del provvedimento di demolizione di opere edilizie abusivamente realizzate, che surrettiziamente tenti di rimettere in discussione la legittimità del presupposto diniego di concessione edilizia in sanatoria non impugnato ed ormai divenuto inoppugnabile
.

... Tanto, in conformità all’orientamento giurisprudenziale dominante, espresso, ex multis, nelle seguenti massime: “È inammissibile il ricorso proposto avverso l’ingiunzione di demolizione di edificio abusivamente realizzato ove sia passato in giudicato il diniego di sanatoria dello stesso” (TAR Piemonte Torino, sez. I, 25.03.2011, n. 289); “È inammissibile l’impugnazione giurisdizionale del provvedimento di demolizione di opere edilizie abusivamente realizzate, che surrettiziamente tenti di rimettere in discussione la legittimità del presupposto diniego di concessione edilizia in sanatoria non impugnato ed ormai divenuto inoppugnabile” (TAR Emilia Romagna Parma, sez. I, 01.07.2008, n. 342) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 19.04.2012 n. 737 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Legittimazione ad agire del progettista e del direttore dei lavori avverso l'atto che ha denegato il titolo abilitativo.
E' inammissibile il ricorso proposto dal progettista dell'opera non assentita avverso l’atto che ha denegato la relativa abilitazione, difettando questi di legittimazione attiva.
Si è, infatti, ritenuto che detta legittimazione spetti soltanto a coloro che sono titolari di un interesse legittimo differenziato, ma "…tra costoro non rientra il progettista che è, invece, titolare di un mero interesse semplice o di fatto alla realizzazione dell'opera secondo il progetto, per cui non può impugnare in via autonoma il diniego di concessione edilizia...".
Quanto alla legittimazione del direttore dei lavori, se essa in astratto è ammissibile le quante volte si colleghi ad atti e comportamenti che la legge direttamente riconnette alla responsabilità del direttore dei lavori (e dunque non in via generale per tutti gli atti connessi all’attività edilizia, come affermato dall’appellante), nella fattispecie non può ritenersi sussistente una posizione differenziata dalla generalità del geom. G., quale direttore dei lavori, così come anche per l’interesse a ricorrere, perché difetta il necessario collegamento tra l’atto che si censura di illegittimità e la posizione giuridica di detto direttore dei lavori, sia nel contesto della generale procedura di abilitazione all’edificazione, sia nel segmento più limitato dell’autorizzazione sismica.
In entrambi tali procedimenti, infatti, il direttore dei lavori non è portatore di alcun interesse diretto, attuale e concreto al conseguimento delle abilitazioni, permessi ed autorizzazioni richieste dalla legge per la legittima edificazione di manufatti edilizi, siccome tutte riconducibili, invece, esclusivamente alla posizione giuridica del proprietario dell’area o del committente (se diverso dal primo) che ha richiesto alle competenti Autorità i relativi provvedimenti.
E’ appellata la sentenza del TAR Toscana con la quale è stato dichiarato inammissibile il ricorso proposto dal Geom. M.G., nella sua dichiarata qualità di progettista e direttore dei lavori per la costruzione di un fabbricato per civili abitazioni assentito dal Comune di Poggibonsi alla Due Erre s.r.l., avverso il diniego di autorizzazione sismica opposto dalla competente Regione Toscana, siccome carente del necessario interesse a ricorrere.
...
La non titolarità del progettista ad impugnare gli atti che non abilitano la parte interessata alla edificazione è affermata da giurisprudenza ormai consolidata che è condivisa dal Collegio e ben può essere applicata al caso in esame.
In particolare, detta giurisprudenza è ferma nel ritenere inammissibile il ricorso proposto dal progettista dell'opera non assentita avverso l’atto che ha denegato la relativa abilitazione, difettando questi di legittimazione attiva (cfr. ex multis, TAR Puglia, sede di Lecce, sez. III, n. 225 del 02.02.2011; TAR Liguria Genova, sez. II, 12.04.2007, n. 629 e sez. I, 17.03.2006, n. 251; TAR Sicilia Catania, sez. I, 06.03.2001, n. 523, TAR Piemonte, sez. I, 18.06.2003, n. 924 e Consiglio Stato, sez. V, 05.03.2001, n. 1250).
Si è, infatti, ritenuto che detta legittimazione spetti soltanto a coloro che sono titolari di un interesse legittimo differenziato, ma "…tra costoro non rientra il progettista che è, invece, titolare di un mero interesse semplice o di fatto alla realizzazione dell'opera secondo il progetto, per cui non può impugnare in via autonoma il diniego di concessione edilizia...".
Quanto alla legittimazione del direttore dei lavori, se essa in astratto è ammissibile le quante volte si colleghi ad atti e comportamenti che la legge direttamente riconnette alla responsabilità del direttore dei lavori (e dunque non in via generale per tutti gli atti connessi all’attività edilizia, come affermato dall’appellante), nella fattispecie non può ritenersi sussistente una posizione differenziata dalla generalità del geom. G., quale direttore dei lavori, così come anche per l’interesse a ricorrere, perché difetta il necessario collegamento tra l’atto che si censura di illegittimità e la posizione giuridica di detto direttore dei lavori, sia nel contesto della generale procedura di abilitazione all’edificazione, sia nel segmento più limitato dell’autorizzazione sismica.
In entrambi tali procedimenti, infatti, il direttore dei lavori non è portatore di alcun interesse diretto, attuale e concreto al conseguimento delle abilitazioni, permessi ed autorizzazioni richieste dalla legge per la legittima edificazione di manufatti edilizi, siccome tutte riconducibili, invece, esclusivamente alla posizione giuridica del proprietario dell’area o del committente (se diverso dal primo) che ha richiesto alle competenti Autorità i relativi provvedimenti.
Né può valere l’eventuale posizione di responsabilità sotto il profilo sanzionatorio, anche penale, del direttore dei lavori poiché essa rileva su un distinto ed autonomo piano ed in ragione di altrettanta distinta ed autonoma responsabilità personale per gli atti ed i comportamenti posti in essere in violazione di norme vigenti.
Così pure, non può farsi riferimento all’interesse collegato all’eventuale ipotesi di sanatoria di abusi edilizi poiché ogni questione su tale tipo di interesse è, comunque, inconferente nella specie, in disparte il rilievo che anche in tale eventuali ipotesi occorre pur sempre verificare che si sia in presenza di una posizione giuridica differenziata del soggetto che assume di essere legittimato.
Inoltre, ritiene il Collegio che il ricorrente sia, in ogni caso, anche carente di interesse ad impugnare il diniego in esame tenuto conto che esso non ha valenza provvedimentale, bensì di atto di mera comunicazione, avuto presente che il Comune di Poggibonsi è classificato di “bassa sismicità” e che, dunque, ex art. 94 del d.P.R. n. 380 del 2001 e della speculare norma regionale, le opere edilizie in questione non avevano bisogno di una preventiva autorizzazione sismica, come ha spiegato la Regione nell’atto di diniego impugnato che, giova ribadirlo, ha solo carattere di informazione della disciplina applicabile
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.04.2012 n. 2275 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: L'ininterrotta efficacia della certificazione SOA per tutto il periodo quinquennale di validità, previsto dal c. 5 dell'art. 15 d.p.r. n. 34/2000, postula la tempestiva richiesta di verifica triennale.
L'ininterrotta efficacia della certificazione SOA per tutto il periodo quinquennale di validità, previsto dal c. 5 dell'art. 15 d.p.r. n. 34/2000, postula la tempestiva richiesta di verifica triennale, secondo quanto prescritto dal c. 1 dell'art. 15-bis del citato d.p.r. n. 34/2000. Inoltre, ai fini della suddetta efficacia della certificazione senza soluzione di continuità non è sufficiente il mero esito positivo della verifica triennale, occorrendo che il procedimento di revisione si concluda entro la scadenza triennale di iniziale validità.
Oltre a ciò, secondo l'incontrastata interpretazione dell'art. 40 d.lgs. n 163/2006 i requisiti di qualificazione SOA devono sussistere non solo al momento della presentazione dell'offerta, ma permanere anche in ogni successiva fase del procedimento ad evidenza pubblica, a tutela dell'affidamento della stazione appaltante sulla capacità tecnico-organizzativa dei partecipanti alle procedure di affidamento di contratti e di parità di trattamento tra questi ultimi.
Pertanto, nel caso di specie, è l'illegittima l'ammissione in gara della concorrente priva dei requisiti di qualificazione SOA, in quanto all'atto della presentazione della domanda, non ha adempiuto all'onere di richiesta della verifica triennale di validità della certificazione SOA, ma ha solo richiesto il rinnovo, il quale, peraltro, interveniva in data successiva alla presentazione della domanda di partecipazione, risultando quindi l'impresa priva di corrente attestazione nel periodo intercorrente tra la scadenza del termine triennale e il successivo rinnovo.
La richiesta di rinnovo è cosa diversa dalla verifica triennale e non è idonea ad assicurare il periodo di validità quinquennale della SOA, che invece è subordinato alla tempestiva richiesta della verifica triennale (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 18.04.2012 n. 2247 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di una tettoia, soggetta a concessione edilizia ai sensi dell’art. 1, l. 28.01.1977 n. 10 (oggi permesso di costruire), incide sull’assetto edilizio preesistente, incisione particolarmente significativa ove, come nel caso di specie, insista su un territorio vincolato.
Si è, infatti, chiarito che la realizzazione di una tettoia, indipendentemente dalla sua eventuale natura pertinenziale, è configurabile come intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi dell’articolo 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. n. 380/2001, nella misura in cui realizza impianti ed elementi nuovi ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell’articolo 10, comma primo, lettera c), dello stesso D.P.R., laddove comporti una modifica della sagoma o del prospetto del fabbricato cui inerisce. E ciò viepiù nei casi in cui le dimensioni della tettoia siano di entità tale da non poter più ritenersi assorbite, ovvero ricomprese in ragione dell’accessorietà, dell’edificio principale o della parte dello stesso cui accedono, al quale, viceversa, arrecano un’apprezzabile alterazione.

Il diniego di autorizzazione paesaggistica “postuma”, richiesto dalla ricorrente ai sensi dell’art. 181, comma 1-ter, dlgs 42/2004, risulta motivato sulla base della circostanza che gli interventi edilizi per i quali si richiede l’autorizzazione non rientrano tra quegli abusi minori per i quali il legislatore ha previsto la deroga alla regola della insanabilità delle violazioni alla disciplina paesaggistica.
Gli interventi per i quali, in forza dell’art. 181, comma 1-ter, dlgs 42/2004, è possibile presentare domanda ai fini dell’accertamento della compatibilità paesaggistica sono solo i seguenti:
a) i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica;
c) i lavori configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380
.”
L’intervento per il quale la sig.ra B. chiede l’accertamento di conformità è una tettoia, costruita ex novo, di rilevanti dimensioni (pianta m. 72,30 x 25,00, con altezza alla gronda di m. 9,20 ed al colmo di m. 10,20), da destinarsi a ricovero mezzi agricoli.
L’opera, quindi, non rientra tra quelle di cui alla lettera a) atteso che la stessa crea comunque una superficie utile di dimensioni almeno pari alla sua pianta, né è configurabile come intervento di manutenzione straordinaria atteso che si può parlare di manutenzione di un manufatto preesistente, legittimamente realizzato, ma non certo di un manufatto costruito ex novo.
La giurisprudenza ha, poi, reiteratamente evidenziato come il legislatore, partito da una posizione di rigore che escludeva l'estensione nell'ambito della materia della tutela del paesaggio della norma sull'accertamento di conformità propria della materia edilizia, stante la rilevanza costituzionale del bene paesaggio, ha successivamente introdotto un temperamento alla assolutezza, prevedendo la sanatoria tassativamente per i c.d. "abusi minori".
In considerazione del bene da tutelare, la scelta di una previsione tassativa dei casi suscettibili di sanatoria è stata, anche, ritenuta scevra da profili di illegittimità (Così TAR Lombardia Milano, sez. II, 09.12.2008, n. 5737).
Con riguardo al tipo di costruzione, la giurisprudenza ha ripetutamente evidenziato che la realizzazione di una tettoia, soggetta a concessione edilizia ai sensi dell’art. 1, l. 28.01.1977 n. 10 (oggi permesso di costruire), incide sull’assetto edilizio preesistente, incisione particolarmente significativa ove, come nel caso di specie, insista su un territorio vincolato (cfr. ex multis TAR Campania Napoli, sez. VI, 16.12.2009, n. 8781).
Si è, infatti, chiarito che la realizzazione di una tettoia, indipendentemente dalla sua eventuale natura pertinenziale, è configurabile come intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi dell’articolo 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. n. 380/2001, nella misura in cui realizza impianti ed elementi nuovi ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell’articolo 10, comma primo, lettera c), dello stesso D.P.R., laddove comporti una modifica della sagoma o del prospetto del fabbricato cui inerisce (TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 21.12.2007, n. 16493; 17.02.2010, n. 968). E ciò viepiù nei casi –com’è quello di specie– in cui le dimensioni della tettoia siano di entità tale da non poter più ritenersi assorbite, ovvero ricomprese in ragione dell’accessorietà, dell’edificio principale o della parte dello stesso cui accedono, al quale, viceversa, arrecano un’apprezzabile alterazione (così, Tar Napoli 3510/2011).
Tutto ciò premesso, è evidente che il provvedimento adottato dal Comune riguarda un profilo assolutamente pregiudiziale dell’accertamento di compatibilità, ovvero l’ammissibilità della domanda.
Ne consegue che il Comune non era tenuto ad inoltrarla alla Soprintendenza per il parere, con conseguente infondatezza della censura di cui al primo motivo di ricorso.
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E’, infatti, insuperabile la esclusione dell’opera da quelle per le quali può chiedersi la sanatoria postuma.
Non può parlarsi di riqualificazione di ciò che non esisteva prima della commissione dell’abuso. Si finirebbe per aggirare la disposizione di cui all’art. 181 dlgs 42/2004 che vieta, in assenza della prescritta autorizzazione, ogni modificazione dell'assetto del territorio, attuata attraverso qualsiasi opera non soltanto edilizia, ma di qualunque genere, ad eccezione degli interventi espressamente e tassativamente elencati nel comma 1-ter del predetto articolo (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 12.04.2012 n. 728 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Laddove una determinazione amministrativa di segno negativo tragga forza da una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali sia di per sé idonea a supportarla in modo autonomo, è sufficiente che anche una sola di esse passi indenne alle censure mosse in sede giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso resti esente dall’annullamento.
Il terzo ed ultimo motivo è invece inammissibile per carenza di interesse, atteso che il provvedimento risulta fondato su più motivi, e quello sopra menzionato è idoneo e sufficiente ad integrare l’onere motivazionale.
Soccorre, al riguardo, il condiviso principio secondo il quale, laddove una determinazione amministrativa di segno negativo tragga forza da una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali sia di per sé idonea a supportarla in modo autonomo, è sufficiente che anche una sola di esse passi indenne alle censure mosse in sede giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso resti esente dall’annullamento (cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. VI, 05.07.2010 n. 4243; Consiglio di Stato, Sez. V, 27.09.2004 n. 6301) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 12.04.2012 n. 728 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di una tettoia (di non irrilevante consistenza dimensionale) ancorata al suolo costituisce opera idonea ad alterare lo stato dei luoghi e a trasformare il territorio permanentemente ed è tale da richiedere il rilascio del permesso di costruire.
La nozione di costruzione, ai fini del rilascio del permesso di costruire, si configura in presenza di opere che attuino una trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, con perdurante modifica dello stato dei luoghi, a prescindere dal fatto che essa avvenga mediante realizzazione di opere murarie, essendo irrilevante che le opere siano state realizzate in metallo, in laminati di plastica, in legno o altro materiale, ove si sia in presenza di un'evidente trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio e le opere siano preordinate a soddisfare esigenze non precarie sotto il profilo funzionale. In altri termini, rilevano non soltanto gli elementi strutturali (composizione dei materiali, smontabilità o meno del manufatto) ma anche i profili funzionali dell'opera.
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La nozione di pertinenza in materia edilizia è più ristretta di quella civilistica ed è riferibile ai soli manufatti di dimensioni tanto modeste e ridotte rispetto alla cosa cui ineriscono da potersi considerare sostanzialmente irrilevanti sotto il profilo edilizio, non potendosi, conseguentemente, attribuire carattere pertinenziale ai fini edilizi ad opere di rilevante consistenza, anche se destinate al servizio od ornamento del bene principale.

● Considerato, in punto di diritto, che le disposizioni della legge n. 326 del 2003 subordinano il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria –tra l’altro- alla:
   - riconducibilità delle opere realizzate alle tipologie d’illecito descritte nell’allegato 1, con la precisazione, contenuta nell’art. 32, comma 26, lett. a), della legge n. 326 del 2003, che, nell'ambito degli immobili soggetti a vincolo di cui all'articolo 32 della legge 28.02.1985, n. 47, sono ammesse (unicamente) le tipologie descritte ai numeri 4, 5 e 6 ovvero:
a) opere di restauro e risanamento conservativo come definite dall'articolo 3, comma 1, lettera c) del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, realizzate in assenza o in difformità dal titolo abilitativo edilizio, nelle zone omogenee A di cui all'articolo 2 del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444;
b) opere di restauro e risanamento conservativo come definite dall'articolo 3, comma 1, lettera c) del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, realizzate in assenza o in difformità dal titolo abilitativo edilizio;
c) opere di manutenzione straordinaria, come definite all'articolo 3, comma 1, lettera b) del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, realizzate in assenza o in difformità dal titolo abilitativo edilizio; opere o modalità di esecuzione non valutabili in termini di superficie o di volume;
   - insussistenza di preclusioni alla sanatoria ai sensi dell’art. 32, comma 27, della legge medesima e degli artt. 32 e 33 della L. 28.02.1985, n. 47;
● Considerato che il punto nodale della vicenda oggetto di contenzioso consiste, ad avviso del Collegio, nello stabilire se le opere per le quali il ricorrente ha invocato il condono siano da considerarsi “nuova costruzione”, dato che la riconducibilità o meno a tale categoria appare dirimente ai fini della valutazione in ordine alla loro condonabilità, anche avuto riguardo a quanto stabilito dall’art. 2 della L.R. 10.11.2004, n. 33, recante disposizioni regionali per l’attuazione della sanatoria edilizia degli abusi edilizi prevista dall'articolo 32 del decreto-legge 30.09.2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla legge 24.11.2003, n. 326, che precisa, per l’appunto, che “ai fini della presente legge si intende per nuova costruzione il manufatto che risulti realizzato in forma autonoma non connesso o pertinente ad altro manufatto esistente”, lasciando, conseguentemente, intendere che la sola “nuova costruzione” incontra i limiti imposti dalla normativa sul condono;
● Considerato che la realizzazione di una tettoia (di non irrilevante consistenza dimensionale) ancorata al suolo costituisce opera idonea ad alterare lo stato dei luoghi e a trasformare il territorio permanentemente ed è tale da richiedere il rilascio del permesso di costruire (TAR Piemonte, sez. I, 16.03.2009, n. 752);
● Considerato che è noto, del resto, che la nozione di costruzione, ai fini del rilascio del permesso di costruire, si configura in presenza di opere che attuino una trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, con perdurante modifica dello stato dei luoghi, a prescindere dal fatto che essa avvenga mediante realizzazione di opere murarie, essendo irrilevante che le opere siano state realizzate in metallo, in laminati di plastica, in legno o altro materiale, ove si sia in presenza di un'evidente trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio e le opere siano preordinate a soddisfare esigenze non precarie sotto il profilo funzionale (TAR Campania Napoli, sez. II, 26.09.2008, n. 11309; C.d.S., sez. IV, n. 2705 del 2008). In altri termini, rilevano non soltanto gli elementi strutturali (composizione dei materiali, smontabilità o meno del manufatto) ma anche i profili funzionali dell'opera (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. I-quater, n. 11679 del 23.11.2007);
● Considerato che, applicando le coordinate su indicate al caso di specie, si può affermare che il manufatto realizzato, ancorché collocato all’interno della proprietà del ricorrente e deputato a servizio dell’edificio principale, per i materiali utilizzati, le caratteristiche strutturali e le dimensioni (copre una superficie di mq. 50,40), sia tale da configurare una nuova costruzione, integrando un organismo edilizio suscettibile di autonomo utilizzo, preordinato a soddisfare esigenze non precarie sotto il profilo funzionale, in quanto tale idoneo ad alterare lo stato dei luoghi ed a comportare una significativa trasformazione del territorio (cfr., ex multis, C.d.S., sez. V, 13.06.2006, n. 3490; TAR Lazio, Roma, sez. I, 18.06.2008, n. 5965; id., sez. I-quater, 23.11.2007, n. 11679), dato –tra l’altro- che non appare condivisibile la riduttiva definizione dell’intervento sopra descritto come mera pertinenza, atteso che, per principio pacifico, la nozione di pertinenza in materia edilizia è più ristretta di quella civilistica ed è riferibile ai soli manufatti di dimensioni tanto modeste e ridotte rispetto alla cosa cui ineriscono da potersi considerare sostanzialmente irrilevanti sotto il profilo edilizio, non potendosi, conseguentemente, attribuire carattere pertinenziale ai fini edilizi ad opere di rilevante consistenza, anche se destinate al servizio od ornamento del bene principale (fra le tante, TAR Lombardia Milano, sez. II, 17.06.2008, n. 2045);
● Considerato, in ogni caso, che non sono stati offerti in questa sede elementi per poter verificare la sussumibilità della tettoia realizzata tra gli interventi pertinenziali non costituenti nuova costruzione, secondo la definizione ritraibile dalla lettura “a contrario” dell’art. 3, comma 1, lett. e.6), del d.P.R. n. 380 del 2001, dato che il ricorrente non ha ritenuto di portare a conoscenza di questo giudice il volume dell’edificio principale, sì da consentire di accertare che quello dell’opera abusiva realizzata è effettivamente inferiore al 20% del primo, come dallo stesso, invero, solo ripetutamente affermato;
● Considerato, inoltre, che, nella zona ove è stata realizzata l’opera, il PRGC non consente la realizzazione di parcheggi, se non nel sottosuolo o al piano terra degli edifici, derivandone, anche per tale motivo, che le opere deputate a tale funzione realizzate isolatamente, come la tettoia in questione, costituiscono nuova costruzione;
● Considerato, altresì, che, ai fini della qualificazione di una costruzione, rilevano le caratteristiche oggettive della stessa, prescindendosi dall’intento dichiarato dal privato di voler destinare l’opera ad utilizzazioni più ristrette di quelle alle quali il manufatto potenzialmente si presta (fra le tante TAR Campania-Napoli, sez. II, sentenza 31.10.2011 n. 5093);
● Ritenuto, conseguentemente, che, alla luce delle considerazioni innanzi svolte, debba ritenersi corretta la qualificazione dell’illecito quale nuova costruzione, riconducibile alla tipologia n. 1 (“opere realizzate in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”) dell’allegato 1 alla legge n. 326 del 2003, in quanto tale non suscettibile di sanatoria edilizia ai sensi dell’art. 32, comma 26, lett. a), della legge medesima, data la sottoposizione della zona nell’ambito della quale è ubicato il manufatto abusivo a vincolo ambientale e paesaggistico ai sensi del D.Lgs. n. 42/2004, ove sono ammesse a sanatoria solo le tipologie di illecito 4, 5 e 6 descritte nel medesimo allegato 1;
● Ritenuto, invero, che le censure svolte dal ricorrente (“Violazione e/o falsa applicazione di legge con rifermento agli artt. 3 e 10-bis della legge 07.08.1990, n. 241 e s.m.i.; all’art. 4 della L.R. Piemontese 08.07.1999, n. 19; all’art. 4 della L.R. Piemontese 10.11.2004, n. 33; nonché all’art. 1, commi 37 e 39, della legge 15.12.2004, n. 308 e s.m.i.; violazione del principio del giusto procedimento e del legittimo affidamento. Eccesso di potere per travisamento dei fatti e dei presupposti; difetto e/o insufficienza di istruttoria e di motivazione; irragionevolezza, contraddittorietà, ingiustizia grave e manifesta; illogicità, perplessità, sviamento”) non siano in grado di inficiare la legittimità del diniego opposto (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 11.04.2012 n. 438 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La specialità del procedimento di condono edilizio rispetto all'ordinario procedimento di rilascio della concessione ad edificare e l'assenza di una specifica previsione in ordine alla sua necessità rendono, per il rilascio della concessione in sanatoria c.d. straordinaria (o condono), il parere della Commissione edilizia non obbligatorio, ma, tutt'al più, facoltativo, in quelle specifiche ipotesi in cui l'amministrazione ritenga discrezionalmente di acquisire eventuali informazioni e valutazioni con riguardo a particolari e sporadici casi incerti e complessi. In assenza dei predetti casi di acquisizione facoltativa del parere dell'organo collegiale, il rilascio della concessione in sanatoria è subordinato alla semplice verifica dei (pur numerosi) presupposti e condizioni espressamente e chiaramente fissati dal legislatore.
● Ritenuto, in particolare, che:
   - l’omessa espressa considerazione del contributo partecipativo offerto dal ricorrente dopo il ricevimento del preavviso di diniego, peraltro volto unicamente ad evidenziare l’avvenuta presentazione della “domanda di accertamento di compatibilità paesaggistica” e, dunque, in ogni caso non idoneo ad incidere sulla qualificazione data all’intervento dal Comune, è da ritenersi vizio non invalidante ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990 e s.m.i., dato che l’acclarata non sussumibilità dell’illecito commesso tra le tipologie ammesse a sanatoria nell’ambito degli immobili soggetti a vincolo ambientale e paesistico rende palese che, data la natura necessariamente vincolata del provvedimento, il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato;
   - l’eventuale ottenimento dell’accertamento della compatibilità ambientale dell’intervento non fa venire meno il vincolo esistente, ma attesta, unicamente, la compatibilità del primo con il secondo. Non incide, dunque, né sulla qualificazione dell’intervento medesimo, posto che sempre di nuova opera abusiva realizzata in area soggetta a vincolo si tratta, né sulle tipologie di interventi che la legge ammette a sanatoria in tale aree;
   - la verifica della sussumibilità dell’opera realizzata tra le tipologie ammesse a sanatoria deve, necessariamente, precedere ogni ulteriore valutazione, inclusa quella della sua compatibilità con gli eventuali vincoli da cui è gravata l’area, dato che la sua riconducibilità all’astratta previsione normativa costituisce pre-requisito fondamentale del condono;
   - risultano, conseguentemente, del tutto condivisibili le ragioni, rappresentate dalla difesa del Comune, che hanno indotto il competente dirigente ad omettere di svolgere le valutazioni in ordine alla compatibilità dell’opera con il vincolo ambientale e paesistico insistente sull’area, dato che le stesse si sarebbero tradotte in un inutile aggravio istruttorio-procedimentale;
   - correttamente, dunque, il Comune ha omesso di avviare il procedimento di cui all’art. 4 della L.R. 33/2004 e di sentire la commissione edilizia integrata, ai fini del rilascio del parere di cui all'articolo 32 della legge 28.02.1985, n. 47;
   - per costante indirizzo giurisprudenziale, espresso dal Consiglio di Stato (ex multis sez. IV, 30.06.2010, n. 4178) e da una cospicua giurisprudenza del Giudice di primo grado, è stato sempre ed univocamente ritenuto che la specialità del procedimento di condono edilizio rispetto all'ordinario procedimento di rilascio della concessione ad edificare e l'assenza di una specifica previsione in ordine alla sua necessità rendono, per il rilascio della concessione in sanatoria c.d. straordinaria (o condono), il parere della Commissione edilizia non obbligatorio, ma, tutt'al più, facoltativo, in quelle specifiche ipotesi in cui l'amministrazione ritenga discrezionalmente di acquisire eventuali informazioni e valutazioni con riguardo a particolari e sporadici casi incerti e complessi. In assenza dei predetti casi di acquisizione facoltativa del parere dell'organo collegiale, il rilascio della concessione in sanatoria è subordinato alla semplice verifica dei (pur numerosi) presupposti e condizioni espressamente e chiaramente fissati dal legislatore (cfr. C.d.S.,. IV, 12.02.2010, n. 772 ; id., IV, 15.05.2009, n. 3010; id., VI, 27.06.2008, n. 3282; id., V, 04.10.2007, n. 5153);
   - non va sottaciuto, inoltre, che l'art. 4 d.P.R. n. 380/2001, nel rendere per i comuni facoltativa l'istituzione della commissione edilizia, ha introdotto un principio fondamentale in materia di governo del territorio, al quale deve sottostare la normativa regionale, ai sensi dell'art. 117 Cost. (cfr. C.d.S., IV, 02.10.2008, n. 4793), conseguendone che le norme regionali in materia devono essere interpretate in senso costituzionalmente coerente con i principi generali introdotti in materia dal predetto Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia n. 380 (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 02.10.2008, n. 4793) e, dunque, devono ritenersi implicitamente abrogate ai sensi dell’art. 10 della L.n. 62/1953, laddove, eventualmente, prevedano ancora l’obbligatorietà del parere della CEC (cfr. C.d.S., IV, 23.02.2012, n. 974) (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 11.04.2012 n. 438 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICIa. 1) il fenomeno della cd. occupazione appropriativa, che ha il carattere dell'illiceità, si consuma alla scadenza del periodo di occupazione legittima o, se più breve, alla scadenza del termine stabilito dalla dichiarazione di pubblica utilità, sempre che, però, nel frattempo, l'opera pubblica sia stata realizzata, con la corrispondente irreversibile trasformazione del suolo;
a. 2) si consuma, invece, al momento di detta trasformazione qualora l'ingerenza nella proprietà privata abbia già carattere abusivo o se essa acquisti tale carattere perché la trasformazione medesima avviene dopo la scadenza del periodo di occupazione legittima o, se più breve, del termine stabilito dalla dichiarazione di pubblica utilità;
b. 1) il termine di prescrizione quinquennale del relativo diritto al risarcimento del danno, ex art. 2947 c.c., decorrendo dal momento in cui si perfeziona la vicenda ablatoria, è ancorato alla data di scadenza dell'occupazione legittima o, se anteriore, a quello di scadenza del termine stabilito nella dichiarazione di pubblica utilità, qualora l'opera pubblica venga realizzata nel corso di tale occupazione o di tale termine;
b. 2) il termine di prescrizione decorre, invece, dal momento dell'irreversibile trasformazione del fondo qualora quest'ultima risulti avvenuta dopo quelle scadenze.

... per la dichiarazione e l’accertamento:
- dell’illegittima occupazione appropriativa, operata dal comune di Policoro, delle aree di proprietà dell’istante occorrenti per la realizzazione dei lavori di ampliamento e completamento per la costruzione di cappelle gentilizie e loculi a colombaio ubicate nel medesimo comune;
- del diritto della ricorrente all’indennità di occupazione legittima ed al risarcimento dei danni quantificati nella misura pari ad euro 27.981,74 o nella diversa somma che risulterà in corso di causa a seguito dell’espletanda C.T.U. oltre agli interessi legali e alla rivalutazione monetaria dal dì del dovuto al dì del soddisfo.
...
Il Collegio ritiene che la domanda risarcitoria proposta sia infondata per effetto dell’intervenuta prescrizione, eccepita della difesa del Comune.
Poiché si tratta di opere assistite da dichiarazione di pubblica utilità, vanno applicati i principi elaborati dalla giurisprudenza in materia di occupazione appropriativa o acquisitiva e tuttora condivisi da questo TAR.
In particolare, viene affermato (cfr. TAR Campania Salerno, sez. I, 08.11.2006, n. 1968) che:
a. 1) il fenomeno della cd. occupazione appropriativa, che ha il carattere dell'illiceità, si consuma alla scadenza del periodo di occupazione legittima o, se più breve, alla scadenza del termine stabilito dalla dichiarazione di pubblica utilità, sempre che, però, nel frattempo, l'opera pubblica sia stata realizzata, con la corrispondente irreversibile trasformazione del suolo;
a. 2) si consuma, invece, al momento di detta trasformazione qualora l'ingerenza nella proprietà privata abbia già carattere abusivo o se essa acquisti tale carattere perché la trasformazione medesima avviene dopo la scadenza del periodo di occupazione legittima o, se più breve, del termine stabilito dalla dichiarazione di pubblica utilità;
b. 1) il termine di prescrizione quinquennale del relativo diritto al risarcimento del danno, ex art. 2947 c.c., decorrendo dal momento in cui si perfeziona la vicenda ablatoria, è ancorato alla data di scadenza dell'occupazione legittima o, se anteriore, a quello di scadenza del termine stabilito nella dichiarazione di pubblica utilità, qualora l'opera pubblica venga realizzata nel corso di tale occupazione o di tale termine;
b. 2) il termine di prescrizione decorre, invece, dal momento dell'irreversibile trasformazione del fondo qualora quest'ultima risulti avvenuta dopo quelle scadenze (cfr. Cass., SS.UU., 06.05.2003, n. 6853; Cass., 29.05.2003, n. 8593; Cass., 08.02.2006, n. 2824) (TAR Basilicata, sentenza 06.04.2012 n. 144 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nulla-osta paesaggistico. Illegittimo annullamento in sede statale da parte della Soprintendenza.
E’ illegittimo il provvedimento con il quale la Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici ha annullato un nulla osta paesaggistico emesso in sede locale ai sensi dell’art. 39 l. n. 724/1994, nel caso in cui risulti che non sia stato dato specifico avviso agli interessati dell’avvio del procedimento di controllo (1). Né tale vizio è superabile con il richiamo all’art. 21-octies l. n. 241/1990, non trattandosi di atto vincolato.
Anche se l’avviso di inizio del procedimento di controllo in sede statale del nulla osta paesaggistico può surrogato da atti equipollenti, tuttavia non può costituire di regola equipollente la dizione, nel nulla osta paesaggistico, che l’atto sarà trasmesso alla Soprintendenza per il controllo (2).
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(1) Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 20.01.2003 n. 203; Cons. Stato, sez. VI, 29.03.2002 n. 1790; Cons. Stato, sez. VI, 17.09.2002 n. 4709, secondo le quali sussiste dell’obbligo dell’autorità statale di dare notizia all’interessato, anche nell’ipotesi in cui il nulla osta rechi l’avviso che l’atto sarà trasmesso alla Soprintendenza, dell’avvio del procedimento preordinato all’eventuale annullamento del nulla-osta paesaggistico.
(2) Cfr. Cons. Stato, sez. VI, n. 1790/2002, cit.
Ha osservato la sentenza in rassegna che la impossibilità di ritenere equipollente la dizione, nel nulla osta paesaggistico, che l’atto sarà trasmesso alla Soprintendenza per il controllo, deriva dal fatto che l’atto comunale costituisce l’oggetto della nuova fase procedimentale destinata ad aprirsi di fronte all’autorità statale, sicché la stessa non può, strutturalmente, essere considerata equivalente all’avviso dell’inizio di tale nuova fase, dal momento che esso non contiene alcuna generica informazione circa l’oggetto, il responsabile del procedimento, le modalità di partecipazione, ed in genere lo svolgimento della predetta nuova fase.
E’ stato quindi ribadito che l’onere di cui all’art. 7, comma 1, della l. n. 241/1990, viene soddisfatto soltanto dalla formale comunicazione ad opera dell’autorità statale competente a pronunciare l’eventuale annullamento dell’autorizzazione paesaggistica, così come, del resto, esplicitamente previsto dalla normativa regolamentare attuativa della l. n. 241/1990 appositamente dettata dal Ministero dei beni culturali ed ambientali, con d.m. n. 495 del 13.06.1994 (art. 4 e tabella A punto 4)
(massima tratta da www.regione.piemonte.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 08.03.2012 n. 1318 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Diritto di accesso delle organizzazioni sindacali - Condizioni - Limiti - Diniego - Ricorso avverso il diniego - Individuazione dei controinteressati titolari del diritto alla riservatezza.
Le organizzazioni sindacali sono legittimate ad agire a tutela sia degli interessi di cui sono dirette titolari, sia degli interessi giuridicamente rilevanti di loro appartenenza, sicché sono titolari del diritto ad accedere agli atti adottati dal datore di lavoro, ove coinvolgano tanto le prerogative sovraindividuali di cui sono portatrici, quanto le posizioni dei singoli iscritti nel cui interesse operano.
In caso di ricorso avverso il diniego opposto all’ostensione in parola, dopo la novella introdotta all’art. 116, primo comma, c.p.a. con il Dlgs n. 195 del 15.11.2011 l’atto introduttivo, a pena di inammissibilità, deve essere notificato ad almeno un controinteressato, che, in ipotesi, alla stregua del Dlgs n. 196 del 30.06.2003 recante il Codice di protezione dei dati personali, è agevolmente individuabile nel titolare dei dati personali, afferenti la propria vita lavorativa, contenuti nei documenti oggetto dell’istanza di accesso interdetta (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.02.2012 n. 1034 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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Precedenti
Sulla legittimazione all’accesso Consiglio di Stato, sezione V, dec. n. 3000 del 30.05.2003; id. sezione VI, dec. n. 2938 del 27.05.2003; Consiglio di Stato, sezione VI, dec. n. 24 dell’11.01.2010. Sull’accesso a dati sensibili, in particolare in materia di accesso alle offerte tecniche, Consiglio di Stato, sezione VI, dec. n. 5062 del 30.07.2010 e in punto di ostensione delle cartelle cliniche id. sezione V, dec. n. 7166 del 28.09.2010.

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Il sindacato può fare l’accesso, purché non sia un preventivo e generalizzato controllo dell’attività della PA
Sindacati: sì al diritto di accesso per la tutela di posizioni individuali.

Con la pronuncia in commento i Giudici di Palazzo Spada delineano i contorni del diritto di accesso delle organizzazioni sindacali, ormai ampliato fino a ricomprendere tutti gli atti strumentali a garantire la tutela sia degli interessi collettivi di cui sono esponenti, sia delle posizioni lavorative dei loro iscritti, non senza un’interessante digressione sulle modalità dell’azione esperibile avverso il diniego opposto dal datore di lavoro. Il caso trae origine dalla richiesta avanzata da un sindacato indipendente nei confronti dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato di accedere a tutti gli atti di assunzione a tempo determinato, anche mediante comando di personale proveniente da altre pubbliche amministrazioni, nonché ai relativi atti di assegnazione ai diversi uffici e alle mansioni espletate, al trattamento economico loro riservato e ai titoli professionali dagli stessi posseduti, allo scopo di verificarne la conformità agli accordi collettivi e alla normativa vigente in materia.
Ostensione denegata dal datore di lavoro in ragione della presunta carenza di legittimazione del sindacato istante, esulando gli atti dall’interesse collettivo di sua spettanza, ma accordata dal Tribunale amministrativo di prossimità in sede di ricorso, con pronuncia(1) integralmente confermata in secondo grado con la sentenza in epigrafe.
Legittimazione all’accesso In disparte l’annosa e mai sopita questione intorno alla natura dell’istituto dell’accesso, di diritto soggettivo(2) o interesse legittimo(3), peraltro ritenuta pragmaticamente irrilevante anche dal Consiglio di Stato in Adunanza Plenaria(4), nelle due occasioni di intervento, ciò che risulta di maggiore interesse in sede applicativa è l’esatta individuazione del novero dei soggetti legittimati a esercitarlo, avuto riguardo all’interesse di cui sono portatori, di non agevole demarcazione soprattutto quante volte essi non siano persone fisiche e si rivolgano ad atti recanti dati personali alieni, più o meno sensibili, spesso artata trincea del diniego opposto dall’ente detentore, smodatamente affezionato alla più comoda gestione segretata della propria attività, ancorché di interesse pubblico, presidiata dal Dpr n. 3 del 10.01.1957, prima dell’entrata in vigore della legge n. 241/1990, fatti salvi specifici obblighi di trasparenza introdotti da leggi settoriali. Obblighi di trasparenza, ritenuti viceversa coerenti con i canoni democratici di imparzialità e buon andamento introdotti dalla Carta Costituzionale, che hanno ricevuto ulteriore impulso dapprima con la legge n. 15 dell’11.02.2005 e, da ultimo, con quello più radicale della legge n. 69 del 18.06.2009 che ne ha modificato l’art. 29, definendo la prerogativa in disamina come prestazione di livello essenziale, ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. m), Cost., come tale non comprimibile dalle leggi regionali e da regolamenti locali, potendo questi soltanto innovarne la disciplina in senso ampliativo.
Probabilmente è da ricondursi al citato rafforzamento lo sforzo mostrato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, ferma la legittimazione attiva delle persone giuridiche e delle associazioni, di rendere più elastici i caratteri di attualità, personalità e concretezza del relativo interesse all’ostensione, di cui al regolamento approvato con Dpr n. 184 del 12.04.2006 (in parte qua confermativo del precedente di cui al Dpr n. 352 del 27.06.1992) così da ampliarne le ipotesi di assenso.
Se, infatti, risulta confermato l’orientamento che esclude che il legislatore abbia voluto riconoscere alle associazioni di categoria la legittimazione a scrutinare, in via generale, l’intero operato della pubblica amministrazione per tramite di un accesso indiscriminato, solo in ragione del loro essere portatori di interessi collettivi, non essendo il diritto de quo un’azione popolare(5), non di meno, la giurisprudenza amministrativa si è mostrata sempre più incline ad ampliare le maglie dell’interesse sindacale riconducendovi non solo quello sovraindividuale in senso stretto, ma anche quello individuale dei suoi iscritti(6).
Segnatamente per le associazioni sindacali, il diritto pretorio, in fase di prima applicazione, nel mentre ne ha riconosciuto il diritto ad accedere, ad esempio agli atti di distribuzione degli incrementi salariali e dei premi di produzione corrisposti ai dipendenti dell’amministrazione, in quanto rientranti nelle materie oggetto di concertazione, lo ha viceversa escluso con riferimento ai provvedimenti di avanzamento di carriera in considerazione del fatto che “nella materia in questione non si versa in una ipotesi di tutela dell’interesse indifferenziato della categoria, che, nel corso di una situazione rilevante e tutelabile secondo l’ordinamento giuridico, legittimerebbe l’accesso alla documentazione amministrativa ai fini della tutela dell’interesse stesso, ma di interessi propri, diretti e personali dei singoli associati”.
Gli approdi del Consiglio di Stato Si inserisce nel predetto solco, ampliativo, la decisione dei Giudici di Palazzo Spada di accordare al sindacato l’accesso non solo a tutti quei documenti che possano coinvolgere le sue prerogative, quale istituzione esponenziale di una determinata categoria di lavoratori, ma anche a tutti quelli che afferiscano alle posizioni di lavoro di singoli iscritti nel cui interesse e rappresentanza opera, purché “l’accesso non finisca per costituire un preventivo e generalizzato controllo dell’intera attività dell’amministrazione datrice di lavoro, sovrapponendosi e duplicando compiti e funzioni demandati ai soggetti istituzionalmente e ordinariamente preposti nel settore di impiego alla gestione del rapporto di lavoro”.
Rispondendo, peraltro, tale assunto ai principi fissati dall’Adunanza Plenaria in punto di interesse ad agire degli enti esponenziali di interessi collettivi, esistente ogniqualvolta sia riconducibile al c.d. interesse istituzionalizzato, ovverossia a quello che ha determinato la creazione dell’associazione medesima. Né a ciò osta la presenza negli atti richiesti di dati personali di terzi, lavoratori, dovendo gli opposti interessi dell’ostensione e della riservatezza ricomporsi alla stregua dei principi e dei limiti dettati dal Dlgs n. 196 del 30.06.2003, recante il c.d. Codice della privacy.
La riservatezza, che esprime l’esigenza, avvertita in tempi più recenti, di tutelare l’interesse privatistico a che sia mantenuto il riserbo in ordine a vicende o atti che coinvolgano la sfera personale o economicopatrimoniale di singoli soggetti, sia persone fisiche, che giuridiche, può, infatti, essere potenzialmente collidente con quello alla partecipazione e trasparenza che connota l’agere publicum, quante volte esso si intersechi con attività o atti riconducibili a privati di cui dà contezza l’art. 24 della legge n. 241/1990, che infatti al da contemplare con regolamento governativo, ai sensi dell’art. 17, comma 2, della legge n. 400/1988, quello dei documenti concernenti “la vita privata o la riservatezza di persone fisiche … con particolare riferimento agli interessi … sanitario, professionale … di cui siano in concreto titolari, ancorché i relativi dati siano forniti all’amministrazione dagli stessi soggetti cui si riferiscono”, mentre, al successivo comma 7, prescrive che “deve essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici. Nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l’accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti dall’art. 60, Dlgs n. 196 del 30.06.2003, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”.
Con ciò significando che non soffrono i citati limiti gli atti che pur contenendo dati personali, non rivelino lo stato di salute o la vita sessuale, ossia dati sensibili o sensibilissimi, che, se del caso, potrebbero essere debitamente oscurati dall’ente detentore in sede di ostensione, comunque assentibile per la restante parte del documento, onde evitare che costituiscano surrettizio velo all’esibizione della restante documentazione richiesta.
Tanto, anche considerando che la posizione del titolare dei dati riceve adeguata tutela, in sede procedimentale, con l’art. 25 della legge n. 241/1990, che contempla il parere del Garante della privacy e, in sede processuale, con l’art. 116 c.p.a., come novellato dal Dlgs n. 195 del 15.11.2011, a tenore del quale, a pena di inammissibilità il ricorso avverso il diniego di accesso va notificato ad almeno un controinteressato, nella specie, evidentemente, del lavoratore i cui dati personali siano riportati nell’atto da esibirsi.
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(1) Tar Lazio, Roma, sezione I, dec. n. 8014 del 12.10.2011.
(2) Consiglio di Stato, sezione VI, dec. n. 2938 del 27.05.2003, id. dec. n. 14 del 03.01.2004; Tar Roma, sez. II, dec. n. 2206 dell’08.03.2004; Tar Valle d’Aosta, dec. n. 102 del 23.05.2003.
(3) Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, dec. n. 16 del 24.06.1999.
(4) Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, dec. n. 16 del 18.04.2006.
(5) Sul punto deve segnalarsi che la Commissione Nigro nello schema di legge originario della legge n. 214/1990 prevedeva il diritto d’accesso a “tutti i cittadini”, con ciò intendendo istituire una vera e propria “azione popolare”, successivamente stralciata nel testo definitivamente approvato.
(6) Infatti nel primo decennio di applicazione della normativa in materia, la giurisprudenza era tesa a escludere la legittimazione dei soggetti portatori di interessi diffusi ad accedere agli atti a tutela degli interessi dei propri iscritti. Per tutte: Consiglio di Stato, sezione VI, dec. n. 1683 del 16.12.1998, id. sezione IV, dec. n. 32 del 14.01.1999
(commento tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 4/2012 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Decadenza del permesso di costruire per mancata osservanza del termine annuale per l’inizio dei lavori e di quello triennale per il loro completamento. Termini di efficacia del Permesso di costruire. Istituzione della commissione edilizia comunale e sue competenze.
La decadenza del permesso di costruire, per mancata osservanza del termine annuale per l’inizio dei lavori e di quello triennale per il loro completamento, disciplinata dall’art. 15 del t.u. 06.06.2001 n. 380: a) è espressione di un potere strettamente vincolato; b) ha una natura ricognitiva, perché accerta il venir meno degli effetti del titolo edilizio in conseguenza dell'inerzia del titolare ovvero della sopravvenienza di un nuovo piano regolatore; c) pertanto ha decorrenza ex tunc (1).
Il termine di durata del permesso edilizio non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo, al contrario, sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un provvedimento da parte della stessa amministrazione che ha rilasciato il titolo ablativo, che accerti l’impossibilità del rispetto del termine; e solamente nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un "factum principis" ovvero l’insorgenza di una causa di forza maggiore (2).
Una istanza con la quale il titolare di un permesso di costruire ha dichiarato di aver iniziato le opere, è meramente formale ed è comunque ininfluente ai fini del rispetto del termine di decadenza per l’inizio dei lavori, nel caso in cui sia stata effettuata in totale assenza di una qualsiasi attività edilizia per la realizzazione dell'edificio, non testimoniando affatto un effettivo e significativo inizio dei lavori edilizi nel termine stabilito (3).
Nel caso in cui sia stata presentata una istanza di proroga del termine annuale per l’inizio dei lavori previsti dal permesso di costruire, il Comune deve comunque valutare l'idoneità delle opere realizzande a costituire un inizio effettivo dei lavori edilizi in rapporto al contesto complessivo del progetto stesso (4).
L'art. 4 del d.P.R. n. 380/2001 (T.U. edilizia), nel rendere per i Comuni facoltativa l'istituzione della Commissione edilizia, ha introdotto un principio fondamentale in materia di governo del territorio, al quale deve sottostare la normativa regionale, ai sensi dell'art. 117 Cost. (5). A seguito dell’entrata in vigore di tale disposizione, le norme regionali in materia devono essere interpretate in senso costituzionalmente coerente con i principi generali introdotti in materia dal predetto T.U. (6) e deve quindi ritenersi che le eventuali norme legislative regionali che prevedano l’obbligatorietà del parere della C.E.C. sono state implicitamente abrogate ai sensi dell’art. 10 della L. n. 62/1953.
La Commissione edilizia comunale ha competenza in materia di specifiche valutazioni sul merito tecnico, urbanistico, costruttivo ed architettonico dei progetti, ma non è titolare di alcun potere in ordine alla verifica dell'inesistenza o al venir meno dei presupposti legali dell’edificazione effettuata (7); ne discende che la dichiarazione di decadenza della concessione di costruzione non richiede l'acquisizione del parere della Commissione edilizia comunale (8).
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(1) Cfr. infra multa: Cons. Stato, sez. IV, 10.08.2007, n. 4423; Cons. Stato, sez. IV, 18.06.2008, n. 3030
(2) Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 15 luglio 2008, n. 3527; Cons. Stato, sez. IV, 08.02.2008, n. 434.
(3) Cfr. Cons. Stato, sez. V, 29.11.2004, n. 7748
(4) Cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 18.06.2008, n. 3030; Cons. Stato, sez. IV, 15.07.2008, n. 3527.
(5) Cfr, Cons. Stato, sez. IV, 02.10.2008, n. 4793
(6) Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 02.10.2008, n. 4793
(7) Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 01.10.2007, n. 5049.
(8) V. per tutte Cons. Stato, sez. IV, 31.08.2010, n. 3955 e Cons. Stato, sez. V, 11.01.2011, n. 79
(massima tratta da www.regione.piemonte.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.02.2012 n. 974 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La Cassazione chiarisce i significati di volume tecnico e pertinenza urbanistica. Il titolo edilizio non può essere eluso parcellizzando l’attività.
Il regime dei titoli abilitativi edilizi non può essere eluso attraverso la suddivisione dell’attività edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a realizzarla. L’opera deve essere considerata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i suoi singoli componenti.
Volumi tecnici sono quelli non utilizzabili né adattabili a uso abitativo strettamente necessari a consentire l’eccesso di quelle parti degli impianti tecnici che non possono, per esigenze tecniche di funzionalità degli stessi non altrimenti soddisfabili, trovare allocazione all’interno della parte abitativa dell’edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche. I volumi tecnici, dovendosi porre rispetto alla costruzione come elementi tecnicamente essenziali per l’utilizzazione della stessa, non possono ricomprendere gli spazi destinati ad assolvere a funzioni complementari.
La pertinenza urbanistica ha peculiarità sue proprie che la distinguono da quella civilistica: trattasi di un’opera avente propria individualità fisica e conformazione strutturale, che non è parte integrante di altro fabbricato e che è preordinata a un’oggettiva esigenza dell’edificio principale, funzionalmente e oggettivamente inserita al servizio dello stesso allo scopo di renderne più agevole e funzionale l’uso (nesso di strumentalità funzionale), come tale sfornita di un autonomo valore di mercato e non valutabile in termini di cubatura o comunque dotata di un volume minimo, tale da non consentire una sua destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell’immobile cui accede.
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Con la
sentenza 14.02.2012 n. 5618 la Corte di Cassazione, Sez. III penale, fa nuovamente il punto su alcune importanti questioni in materia di titoli abilitativi edilizi e di inerenti fattispecie criminose, con particolare riguardo a quelle realizzate mediante pratiche elusive.
Le questioni rilevanti.
Vengono in rilevo, segnatamente, le seguenti questioni:
- l’individuazione dell’ambito di riferimento del permesso di costruire, se come intervento complessivo ovvero come singole opere in cui esso si estrinseca, con quanto ne consegue in ordine al fenomeno della parcellizzazione dell’attività edificatoria;
- la nozione di “volume tecnico” e la sua riferibilità o meno alle parti di edificio destinate all’assolvimento di funzioni complementari;
- la puntualizzazione del concetto di “pertinenza urbanistica”, con particolare riferimento ai profili della strumentalità funzionale e della individualità strutturale rispetto all’edificio principale.
Le soluzioni.
La pronuncia in commento riafferma, ponendosi in linea di continuità con una consolidata giurisprudenza sia di legittimità che amministrativa, la rilevanza penale degli interventi edilizi che non trovino abilitazione in un corrispondente permesso di costruire, nonché l’approccio sostanziale che deve guidare tali riscontri.
La suddivisione dell’attività edificatoria.
 Viene ribadito, segnatamente, che la realizzazione di opere riguardanti un preesistente fabbricato necessita sempre di un permesso di costruire, la cui valenza abilitativa va riferita all’intervento complessivo, al fine di evitare che i vincoli urbanistici possano essere aggirati per il tramite di pratiche elusive consistenti nella artificiosa parcellizzazione dell’attività edificatoria.
Invero, il regime dei titoli abilitativi edilizi non può essere eluso attraverso la suddivisione dell’attività edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a realizzarla, facendo leva sul fatto che le stesse sono astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo più limitate, in ragione della loro più modesta incisività sull’assetto territoriale. Per contro, l’opera deve essere sempre “considerata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i suoi singoli componenti” (Cass., sez. III, sent. 29.01.2003; sent. 11.10.2005).
Al citato fine antielusivo, la Cassazione puntualizza inoltre i contenuti di alcune nozioni urbanistiche che sovente sono invocate al fine, per l’appunto stigmatizzato dal Giudice della legittimità, di reperirvi una pretesa giustificazione in ordine a interventi edilizi sostanzialmente ampliativi dei fabbricati preesistenti.
Il volume tecnico.
Un primo concetto in tal senso esaminato è quello di volume tecnico. La Cassazione ne ribadisce una interpretazione restrittiva, rigorosamente ancorata al dato funzionale e perimetrata in termini di effettiva indispensabilità tecnica. In questa prospettiva, richiamandosi la risalente e consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato (sez. V, sent. n. 6038 del 16.09.2004), vengono individuati come tali esclusivamente i volumi che siano “strettamente necessari a consentire l’eccesso di quelle parti degli impianti tecnici che non possono, per esigenze tecniche di funzionalità degli impianti stessi, trovare allocazione all’interno della parte abitativa dell’edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche”.
Trattasi, in altri termini, di volumi “che, per funzione e dimensione, si pongono rispetto alla costruzione come elementi tecnici essenziali per l’utilizzazione della stessa” (Cons. Stato, sez. V, sent. n. 239/1982; sez. V, sent. n. 44/1991) e ai quali, soltanto e nella misura delineata dalla necessità tecnica ineludibile, è consentito eccedere rispetto ai limiti urbanistici posti alla parte abitativa, la quale, diversamente, si vedrebbe pregiudicata con riferimento a profili funzionali essenziali.
Dalle esposte premesse discende una serie di più articolate conseguenze. In primis, quella per cui i volumi tecnici, quali “parti di edificio destinate a comprendere gli impianti tecnici che, per la loro funzionalità, non possono essere contenuti entro i limiti volumetrici previsti dalla legge” (Cass., sez. III, sent. 28.10.1981), non possono mai fare riferimento all’intero edificio, legittimandone indifferenziati e generalizzati aumenti di volume, bensì soltanto a porzioni ben individuate dell’edificio stesso, la cui eccedenza rispetto ai limiti urbanistici non può che essere commisurata e perimetrata in ragione di quanto necessario e sufficiente ad assicurare la funzionalità degli impianti.
Ne discende, ancora, che possono qualificarsi come volumi tecnici soltanto quelli destinati a ospitare “le parti degli impianti tecnici che non possono, per esigenze tecniche di funzionalità degli impianti stessi, trovare allocazione all’interno della parte abitativa dell’edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche”, con esclusione dunque di ogni ampliamento volumetrico che fosse invece finalizzato a contenere parti di impianti
che ben potrebbero, senza alcun pregiudizio funzionale, essere localizzate e contenute all’interno della parte abitativa.
Ulteriore corollario attiene al fatto che i volumi tecnici “non sono utilizzabili né adattabili a uso abitativo” (Cons. Stato, sez. V, sent. n. 638/2004, richiamata da Cass., sez. III, sent. n. 5618/2012 in commento), non potendosi, in buona sostanza, approfittare della copertura offerta dal regime abilitativo di favore consentito, in via di stretta eccezione, per fronteggiare le necessità tecniche essenziali ineludibili degli impianti al fine distorto ed elusivo dei vincoli urbanistici e, come tale, illecito di espandere il volume della parte abitativa oltre quanto obiettivamente indispensabile in relazione alle necessità tecniche suddette.
Un’altra importante conseguenza è quella per cui i volumi tecnici “non ricomprendono quelli suscettibili di assolvere a funzioni complementari” (Cons. Stato, sez. V, sent. n. 239 del 19.03.1982; sez. V, sent. n. 44 del 14.01.1991). Ciò è connesso al carattere di “funzionalità essenziale” che il volume tecnico deve rivestire, dovendo trattarsi, ai fini dell’esclusione del calcolo della volumetria ammissibile, di spazi destinati e “strettamente necessari a contenere o a consentire l’accesso a quelle parti degli impianti (es. idrico, termico, elevatoio, televisivo, di parafulmine, di ventilazione ecc.)” che pur non potendo “per esigenze tecniche di funzionalità degli impianti stessi, trovare luogo entro il corpo dell’edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche” “si pongono rispetto alla costruzione come elementi tecnici essenziali per l’utilizzazione della stessa”, il cui difetto ne pregiudicherebbe pertanto l’obiettiva attitudine all’uso essenziale (abitativo) cui essa è destinata (Cons. Stato, sent. n. 6038/2004). Non può quindi invocarsi il regime di favore in relazione ad ampliamenti volumetrici connessi alla realizzazione di finalità complementari, stante la non essenzialità ad assicurare la funzionalità del fabbricato, attenendo piuttosto gli stessi a una maggiore valorizzazione del costrutto che non trova giustificazione in termini di ineludibile necessità e che, come tale, è soggetta all’ordinario regime abilitativo.
La suddetta caratteristica di strumentalità necessaria è inoltre presidiata per il tramite della remissione dell’individuazione della tipologia e della volumetria delle parti di impianti qualificabili come volumi tecnici, cui consegue l’ammissione al regime derogatorio di favore, alle specifiche elencazioni e ai relativi indici come definiti, per ciascuna zona, a opera dei competenti strumenti urbanistici. Elencazioni e prescrizioni alle quali la giurisprudenza riconosce “natura tassativa” (Cons. Stato, sent. n. 6038/2004), con conseguente esclusione della invocabilità del favorevole regime derogatorio di non computo del volume tecnico con riferimento sia a tipologie di impianti che esulino da quelle tassativamente elencate e sia a volumi eccedenti rispetto agli indici altrettanto tassativamente prescritti.
In tale prospettiva, è stato escluso dalla sentenza penale in commento che l’insediamento di tipologia di impianto esulante dalla tassativa elencazione contenuta nello strumento urbanistico potesse giustificare la maggiore altezza di tutto l’edificio in termini di destinazione al volume tecnico, ritenendosi piuttosto che si trattasse di una vera e propria sopraelevazione, assolvente a funzioni complementari all’abitazione e non invece “alla necessaria funzionalità degli impianti del fabbricato preesistente”.
A tale ultimo riguardo va sottolineata l’importanza del riferimento della funzionalità necessaria al fabbricato preesistente, che sottende l’esclusione del beneficio della scomputabilità del volume tecnico con riferimento alla sopraelevazione o ultraedificazione a beneficio di parte del fabbricato che non sia sorretta da un corrispondente titolo abilitante. In altri termini, il volume tecnico può riferirsi soltanto agli spazi eccedentari che sono necessari ad assicurare la funzionalità degli impianti a servizio essenziale del preesistente fabbricato, sul presupposto e nella misura in cui lo stesso sia conforme alle abilitazioni edilizie, dovendo invece escludersi che lo scomputo volumetrico possa invocarsi anche con riferimento agli spazi destinati a servire la sopraelevazione o ultraedificazione illegittima.
Ciò in quanto l’illiceità della stessa, conseguente al difetto ab origine di un idoneo titolo abilitante, si estende automaticamente e conseguenzialmente anche a ogni opera che sia servente rispetto a quella abusiva. In tal senso la giurisprudenza ha precisato che “Il regime delle pertinenze urbanistiche … non è applicabile allorché l’accessorio acceda a un manufatto principale abusivo non sanato ex art. 13 della legge n. 47/1985 e non condonato. […] Infatti: il regime pertinenziale è un regime eccezionale di favore che non può essere esteso a situazioni non corrispondenti alla sua ratio; l’accessorio è intimamente connesso al principale, per cui se quest’ultimo è abusivo non vi è alcuna ragione per agevolare la costruzione di altra opera destinata a produrre una compromissione del territorio ulteriore rispetto a quella causata dal manufatto principale; la non conformità, o comunque la mancata verifica di conformità allo strumento urbanistico dell’opera principale, realizzata in assenza di concessione edilizia, priva il comune del parametro di legalità in relazione al quale può essere esercitato il potere di autorizzare opere pertinenziali che costituiscono completamento di quanto conserva caratteristiche di contrarietà all’assetto urbanistico del territorio” (Cass. pen., sez. VI, sent. n. 4164 del 19.07.1995, richiamata da Cass. pen., sez. III, sent. n. 4087 del 28.01.2008).
La pertinenza urbanistica.
L’ulteriore nozione disaminata dalla sentenza penale in commento, con il fine di puntualizzarne i contenuti in senso antielusivo, è quella di pertinenza urbanistica, anch’essa sovente invocata nella prassi quale possibile escamotage, per l’appunto stigmatizzato dal giudice della legittimità, per la pretesa giustificazione di abusi edilizi. Anche per le pertinenze urbanistiche nonché per le costruzioni di natura accessoria è previsto un regime di favore, potendo le stesse essere sottratte alle disposizioni degli strumenti urbanistici relative ai fabbricati e alle norme sulle distanze integrative del codice civile sulla base e nei limiti delle espresse previsioni derogatoria che siano in tal senso eventualmente sancite dagli strumenti urbanistici (Cass. civ., sez. II, sent. n. 4208 del 06.05.1987).
La giurisprudenza ha meglio delineato i tratti distintivi della pertinenza urbanistica rispetto alla nozione civilistica.
Quest’ultima è fornita dall’art. 817 c.c., che definisce tali “le cose destinate in modo durevole a servizio od ornamento di un’altra cosa”; il nesso funzionale stabile che contrassegna ontologicamente il rapporto pertinenziale si traduce nella regola generale, salvo diversa disposizione legislativa o contrattuale, dell’assoggettamento della pertinenza al medesimo regime e destino giuridico del bene principale (artt. 818, 819 c.c.).
Più articolato è il concetto di pertinenza urbanistica,  che riflette “il preminente rilievo che nel settore urbanistico hanno le esigenze di tutela del territorio”. In tale prospettiva, “mentre nella pertinenza civilistica rilevano sia l’elemento obiettivo che quello soggettivo, nella pertinenza urbanistica acquista rilevanza solo l’elemento oggettivo”.
Proprio con riferimento all’elemento oggettivo il Legislatore, “con il Testo unico dell’edilizia approvato con Dpr n. 380/2001, per superare le incertezze derivanti dal criterio quantitativo indicato dalla giurisprudenza per le pertinenze, ha fissato due criteri per precisare quando l’intervento perde le caratteristiche della pertinenza per assumere i caratteri della nuova costruzione: il primo rinvia alla determinazione delle norme tecniche degli strumenti urbanistici, che dovranno tenere conto della zonizzazione e del pregio ambientale e paesistico delle aree; il secondo, alternativo al primo, qualifica come nuova opera gli interventi che comportino la realizzazione di un volume superiore al 20% di quello dell’edificio principale” (Cass. pen., sez. III, sent. n. 28504 del 18.07.2007).
A ogni modo, va precisato che “una trasformazione urbanistica e/o edilizia per essere assoggettata all’intervento
autorizzatorio in senso ampio dell’autorità amministrativa non deve essere ‘precaria’: un’opera oggettivamente finalizzata a soddisfare esigenze improvvise o transeunti non è destinata a produrre, infatti, quegli effetti sul territorio che la normativa urbanistica è rivolta a regolare.
Restano esclusi, pertanto, dal regime del permesso di costruire i manufatti di assoluta ed evidente precarietà, destinati cioè a soddisfare esigenze di carattere contingente e a essere presto eliminati
” (Cass. pen., sez. III, sent. n. 24241 del 24.06.2010).
Anche con riferimento al profilo della precarietà, l’approccio valutativo, trattandosi di “tutela del territorio”, deve essere sempre “oggettivo e non soggettivo”. Segnatamente, detta caratteristica “non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all’opera dal costruttore, ma deve ricollegarsi alla intrinseca destinazione materiale dell’opera a un uso realmente precario e temporaneo per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con conseguente possibilità di successiva e sollecita eliminazione” (Cass., sez. III, sentenze n. 26573 del 26.06.2009; n. 25965 del 22.06.2009; n. 22054 del 25.02.2009; tutte richiamate da sent. n. 24241 del 24.06.2010).
Inoltre “la natura precaria di una costruzione non dipende dalla natura dei materiali adottati e quindi dalla facilità
della rimozione, ma dalle esigenze che il manufatto è destinato a soddisfare e cioè dalla stabilità dell’insediamento indicativa dell’impegno effettivo e durevole del territorio
”. La precarietà va esclusa “quando trattasi di struttura destinata a dare un’utilità prolungata nel tempo, indipendentemente dalla facilità della sua rimozione, a nulla rilevando la temporaneità della destinazione data all’opera del proprietario, in quanto occorre valutare la stessa alla luce della sua obiettiva e intrinseca destinazione naturale” (Cons. Stato, sez. V, sent. n. 3321 del 15.06.2000; sent. n. 97 del 23.01.1995).
Anche a tale fine, l’approccio valutativo deve essere globale e non parcellizzato: invero, “l’opera deve essere considerata unitariamente e non nelle sue singole componenti” (Cass., sez. III, sent. del 27.05.2004). “La stabilità non va confusa con l’irremovibilità della struttura o con la perpetuità della funzione a essa assegnata, ma si estrinseca nell’oggettiva destinazione dell’opera a soddisfare bisogni non provvisori, ossia nell’attitudine a una utilizzazione che non sia temporanea e contingente” (Cass., sez. III, sent. del 07.06.2006).
È stato anche precisato che “la precarietà non va confusa con la stagionalità, vale a dire con l’utilizzo annualmente ricorrente della struttura, poiché un utilizzo siffatto non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo” (Cass., sez. III, sent. n. 24241 del 24.06.2010).
Proseguendo nel solco tracciato dagli esposti orientamenti giurisprudenziali, la pronuncia n. 5618/2012 in commento, individua la pertinenza urbanistica nella “opera che abbia comunque una propria individualità fisica e una propria conformazione strutturale e non sia parte integrante o costitutiva di altro fabbricato preordinata a un’oggettiva esigenza dell’edificio principale, funzionalmente e oggettivamente inserita al servizio dello stesso, sfornita di un autonomo valore di mercato, non valutabile in termini di cubatura o comunque dotata di un volume minimo tale da non consentire, in relazione anche alle caratteristiche dell’edificio principale, una sua destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell’immobile cui accede” (artt. 22, 100 e 101 del Dpr n. 380/2001; Cass. pen., sez. III, sent. n. 32939/2010, sent. n. 4134/1998). Due, in sostanza, i requisiti, uno di carattere strutturale e l’altro di carattere funzionale.
Sotto il profilo strutturale, l’opera deve essere dotata di una individualità sua propria, che sia distinta, autonoma e separata dall’edificio principale, così come da ogni altro fabbricato; in relazione al detto requisito strutturale, la pronuncia in commento esclude la qualificabilità in termini pertinenziali di ogni opera che sia fisicamente parte integrante o costitutiva di altro fabbricato nonché dell’“ampliamento di un edificio che per la relazione di connessione fisica costituisce parte di esso quale elemento che attiene all’essenza dell’immobile e lo completa affinché soddisfi i bisogni cui è destinato” (in tal senso anche Cass. pen., sez. III, sent. n. 36941/2007, e 40843/2005 e Cass. pen., sez. III, n. 24241/2010, che ha escluso la natura pertinenziale della edificazione di una tettoia-portico, che, per la relazione di connessione fisica con l’edificio, ne costituisce parte integrante, attenendo all’essenza dell’immobile e completandola affinché lo stesso soddisfi i bisogni cui è destinato, dovendo pertanto qualificarsi in termini di ampliamento).
Invero, è incompatibile con la nozione di pertinenza che la stessa possa essere parte integrante della cosa principale ovvero rappresentare un elemento indispensabile per la sua esistenza. In tal senso, “L’elemento distintivo tra la parte e la pertinenza non consiste solo in una relazione di congiunzione fisica, normalmente presente nella prima e assente nella seconda, ma anche e soprattutto in un diverso atteggiamento del collegamento funzionale della parte al tutto e della pertinenza alla cosa principale: tale collegamento si esprime per la parte come necessità di questa per completare la cosa affinché essa soddisfi ai bisogni cui è destinata: la parte quindi è elemento della cosa. Nella pertinenza, invece, il collegamento funzionale consiste in un servizio od ornamento che viene realizzato in una cosa già completa e utile di per sé: la funzione pertinenziale attiene non all’essenza della cosa ma alla sua gestione economica e alla sua forma estetica. Inoltre […] la pertinenza si riferisce a un’opera autonoma dotata di propria individualità mentre la parte di un edificio è compresa nella struttura di esso ed è quindi priva di autonomia” (Cass. pen., sez. III, sent. n. 28504/2007).
Per quanto concerne il profilo funzionale, l’unità pertinenziale, strutturalmente separata da quella principale, deve essere caratterizzata da una destinazione servente alle obiettive esigenze dell’edificio principale, “allo scopo di renderne più agevole e funzionale l’uso (carattere di strumentalità funzionale)”. Tale destinazione funzionale servente deve essere ineludibile e trovare rispondenza, da un lato, nella congruità della struttura della pertinenza rispetto alle obiettive esigenze della struttura principale e, dall’altro lato, nella altrettanto oggettiva impossibilità di destinare la pertinenza stessa, proprio in relazione alla sua conformazione strutturale inevitabilmente servente, ad alcuna destinazione autonoma o diversa da quella a servizio dell’immobile cui accede.
L’esposta configurazione funzionale ineludibilmente servente della pertinenza urbanistica si riflette nella sua non negoziabilità in via autonoma e nella conseguente assenza di un autonomo valore di mercato, che sola può giustificare, unitamente alla modestia dimensionale del volume rispetto all’edificio principale “in modo da evitare il cosiddetto carico urbanistico”, la non valutabilità della stessa in termini di cubatura e la diversità di regime abilitativo (Cons. Stato, sez. VI, sent. n. 1174/2000; sez. V, sent. n. 2325/2001; sez. V, sent. n. 7822/2003). In assenza invece degli esposti stringenti requisiti strutturali e funzionali, la nozione di pertinenza urbanistica, nonché il corrispondente regime derogatorio di non computo volumetrico, non sono invocabili e torna quindi a riespandersi la regola generale della necessità del permesso di costruire.
Resta a ogni modo fermo che il regime agevolato delle pertinenze non può mai trovare applicazione in caso di contrasto con gli strumenti urbanistici (Cass. pen., sez. III, sent. n. 32939/2010).
Una chiara concretizzazione dei principi suesposti la si ha, ad esempio, in relazione alla diversa disciplina che la giurisprudenza ha individuato con riferimento al muro di contenimento ovvero al muro di cinta, che costituisce specifico oggetto della pronuncia n. 5618/2012 in commento.
In proposito, costituisce orientamento consolidato che, “mentre il muro di cinta può essere ricondotto alla categoria delle pertinenze, non così il muro di contenimento  che viene assimilato alla categoria delle costruzioni”.
Infatti “Nel caso in cui lo scopo della realizzazione sia la delimitazione della proprietà si ricade nell’ipotesi della pertinenza, per cui non è necessario il rilascio della concessione (Tar Emilia Romagna, Parma, n. 106/2001; Tar Liguria, sez. I, sent. n. 492/1996; Tar Liguria, sent. n. 345/1994). Diversa è la situazione, allorché il muro è destinato non solo a recingere un fondo, ma contiene o sostiene esso stesso dei volumi ulteriori (Tar Emilia Romagna, Parma, sent. n. 246/2001; Tar Lazio, sez. II, sent. n. 8923/2000); in tal caso il manufatto ha una funzione autonoma, dal punto di vista edilizio e da quello economico” (Tar Piemonte, sent. n. 657/2003)”, “si eleva al di sopra del suolo ed è destinato a trasformare durevolmente l’area impegnata, come tale qualificabile intervento di nuova costruzione”, con conseguente necessità del permesso di costruire (Tar Liguria, sez. I, sent. n. 4131/2009; Cass., sez. III, sent. n. 35898/2008) (commento tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 4/2012 -
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.02.2012 n. 5618 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Accertamento della natura di strada pubblica o privata. Autorizzazione edilizia per l’installazione di una barra di accesso ad una strada.
L’accertamento giurisdizionale dell’effettiva esistenza della servitù di pubblico passaggio compete all’autorità giudiziaria ordinaria, trattandosi di materia di diritto soggettivo e non di interesse legittimo. Il Giudice amministrativo può invece esercitare, al riguardo, esclusivamente una cognizione incidentale sulla questione (ex art. 8, comma 1, c.p.a.), senza poter fare stato sulla medesima con la propria decisione, e al solo fine di pronunciarsi sulla legittimità di un provvedimento che riguarda la strada (nella specie è stata ritenuta sussistente la giurisdizione amministrativa, atteso che la controversia riguardava il diniego di autorizzazione per l’installazione di una sbarra automatizzata destinata a regolare il traffico di una strada, rispetto al quale la determinazione della natura -privata o pubblica- della strada costituiva accertamento incidentale).
Costituisce una strada pubblica quel tratto viario che non è cieco, ma assume una esplicita finalità di collegamento, essendo destinato al transito di un numero indifferenziato di persone (1). Il connotato di interclusione dell'area servita, infatti, esclude che vi possa sorgere un uso stradale in favore di una collettività indeterminata, e fa invece concludere per un'utilità limitata ai soli proprietari frontisti (2).
Un'area privata può ritenersi assoggettata ad uso pubblico di passaggio quando l'uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di soggetti considerati uti cives, ossia quali titolari di un pubblico interesse di carattere generale, e non uti singuli, ossia quali soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene gravato; oppure quando vi sia stato, con la cosiddetta dicatio ad patriam, l'asservimento del bene da parte del proprietario all'uso pubblico, analogamente, di una comunità indeterminata di soggetti considerati sempre uti cives, di talché il bene stesso viene ad assumere caratteristiche analoghe a quelle di un bene demaniale (3).
E’ illegittimo un provvedimento con cui un dirigente comunale ha negato l’assenso all’installazione di una sbarra automatizzata destinata a regolare il traffico in entrata e in uscita da una strada privata appartenente a un condominio, limitandosi ad affermare che si tratta di una strada pubblica, senza argomentare ulteriormente dagli indici che la giurisprudenza ha da tempo individuato per dedurre la natura pubblica di una via, atteso peraltro che nella specie il terreno destinato a via consente l’accesso ed il recesso da alcuni condomini alla via pubblica, e non risulta provato che sia stato destinato all’uso pubblico indifferenziato da tempo immemore.
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(1) Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 07.12.2010, n. 8624
(2) Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 18.12.2006, n. 7601
(3) Cfr. Cass. civile, sez. II, 21.05.2001, n. 6924; v. anche Cass. civ., II, 13.02.2006, n. 3075 secondo cui, ai fini della dicatio ad patriam, occorre pur sempre il requisito dell’idoneità intrinseca del bene a soddisfare un’esigenza comune della collettività dei consociati uti cives.
V. inoltre Cass. civ., II, 23.05.1995, n. 5637, secondo cui, perché un'area privata possa ritenersi sottoposta ad una servitù pubblica di passaggio, è necessario, oltre all'intrinseca idoneità del bene, che l'uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di persone e per soddisfare un pubblico, generale interesse. Ne consegue che deve escludersi l'uso pubblico quando il passaggio venga esercitato unicamente dai proprietari di determinati fondi in dipendenza della particolare ubicazione degli stessi, o da coloro che abbiano occasione di accedere ad essi per esigenze connesse alla loro privata utilizzazione, oppure, infine, rispetto a strade destinate al servizio di un determinato edificio o complesso di edifici (Cass. civ., I, 22.06.1985, n. 3761).
In applicazione del principio nella specie è stato escluso l’uso pubblico della strada, trattandosi di strada per la quale l’unico uso possibile era quello funzionale alla mera utilità dei residenti dei condomini interessati; tale strada, infatti, non era mai proseguita oltre tali edifici, nel collegamento dei quali alla strada pubblica ha dunque sempre visto esaurita la propria concreta funzione.
Mancavano quindi i presupposti perché sulla strada potesse effettivamente svolgersi un uso generale, facendo difetto, in particolare, il requisito dell’idoneità intrinseca del bene a soddisfare un’esigenza comune della collettività dei consociati.
In senso contrario, secondo la sentenza in rassegna, non valeva opporre l’inclusione della previsione della strada nell’ambito dell’antica lottizzazione, in quanto i relativi piani possono prevedere anche strade private non soggette a transito pubblico, quali sono, appunto, tutte quelle che abbiano il mero scopo di dare accesso solo a singoli edifici privati
(massima tratta da www.regione.piemonte.it -
Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.02.2012 n. 728 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICADirettiva 2001/42/CE – Art. 6 – Designazione, a fini di consultazione, delle autorità che possono essere interessate dagli effetti sull’ambiente dovuti all’applicazione di piani e programmi – Possibilità per un’autorità consultiva di concepire piani o programmi – Obbligo di designazione di un’autorità distinta – Modalità relative all’informazione e alla consultazione delle autorità e del pubblico.
1) In circostanze come quelle della causa principale, l’art. 6, n. 3, della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 27.06.2001, 2001/42/CE, concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente, non impone che sia creata o designata un’altra autorità consultiva ai sensi di tale disposizione, purché, in seno all’autorità normalmente incaricata di procedere alla consultazione in materia ambientale e designata a tal fine, sia organizzata una separazione funzionale in modo tale che un’entità amministrativa, interna a tale autorità, disponga di un’autonomia reale, la quale implichi, segnatamente, che essa abbia a disposizione mezzi amministrativi e risorse umane propri, e sia in tal modo in grado di svolgere i compiti attribuiti alle autorità consultive ai sensi di tale art. 6, n. 3, e, in particolare, di fornire in modo oggettivo il proprio parere sul piano o programma previsto dall’autorità dalla quale essa promana.
2) L’art. 6, n. 2, della direttiva 2001/42 dev’essere interpretato nel senso che esso non impone che siano fissati in modo preciso nella normativa nazionale di recepimento di tale direttiva i termini entro i quali le autorità designate e il pubblico che ne è o probabilmente ne verrà toccato, ai sensi dei nn. 3 e 4 di tale articolo, devono poter esprimere il proprio parere su una determinata proposta di piano o di programma nonché sul rapporto ambientale e, di conseguenza, il citato n. 2 non osta a che siffatti termini siano stabiliti di volta in volta dall’autorità che elabora un piano o un programma.
Tuttavia, in quest’ultimo caso, tale medesimo n. 2 prescrive che, ai fini della consultazione di tali autorità e di tale pubblico su un progetto di piano o di programma determinato, il termine effettivamente stabilito sia congruo e consenta quindi di dare loro un’effettiva opportunità di esprimere, tempestivamente, il loro parere su tale proposta di piano o di programma nonché sul rapporto ambientale che lo accompagna (Corte di Giustizia, Sez. IV, sentenza 20.10.2011 n. C-474/10 - link a http://curia.europa.eu).

AGGIORNAMENTO AL 02.05.2012

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DOTTRINA E CONTRIBUTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: A. Barbiero, Come gestire i limiti alla spesa per la formazione delle risorse umane nelle amministrazioni pubbliche (art. 6, comma 13, della legge n. 122/2010) (24.04.2012 - tratto da www.albertobarbiero.net).

APPALTI: L. Bellagamba, LA CAUSA DI ESCLUSIONE INERENTE AL «CONCORDATO PREVENTIVO» (link a www.linobellagamba.it).

APPALTI: P. Leozappa, I RITARDATI PAGAMENTI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE ED I RIMEDI OFFERTI DALL’ORDINAMENTO GIURIDICO NAZIONALE (Intervento al Convegno - I ritardati pagamenti tra allarmismi e realtà: i rimedi offerti dall'ordinamento - organizzato da IGI in Roma il 17.04.2012) (link a www.osservatorioappalti.unitn.it).

APPALTI: I. Sala e A. Borroni, LA PARTECIPAZIONE AGLI APPALTI PUBBLICI: PROFILI CIVILISTICI E FISCALI DEL CONTRATTO DI RETE (link a www.osservatorioappalti.unitn.it).

APPALTI: C. Contaldi La Grotteria, LA DICHIARAZIONE SUI REQUISITI DI MORALITÀ PROFESSIONALE PER LA PARTECIPAZIONE ALLE PROCEDURE DI AFFIDAMENTO DEGLI APPALTI PUBBLICI (intervento al Seminario - Requisiti generali di partecipazione e cause di esclusione: problematiche applicative - organizzato presso l'Università degli Studi di Trento, 16.03.2012) (link a www.osservatorioappalti.unitn.it).

ENTI LOCALI: A. Santuari, LE AZIENDE SPECIALI: UN MODELLO ANCORA VIVO? (link a www.osservatorioappalti.unitn.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, SCIA in edilizia e tutela del terzo (esegesi dell’art. 19 della legge n. 241/1990 e ss.mm.ii., con invito alla chiarezza normativa rivolto al Presidente del Consiglio dei Ministri) (link a www.lexambiente.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI: G.U. 30.04.2012 n. 100 "Patto di stabilità interno per il triennio 2012-2014 per le province e i comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti, e, a decorrere dal 2013, per i comuni con popolazione compresa tra 1.001 e 5.000 abitanti (articoli 30, 31 e 32 della legge 12.11.2011, n. 183)" (Ragioneria Generale dello Stato, circolare 14.02.2012 n. 5).

APPALTI - ENTI LOCALI - VARI: G.U. 28.04.2012 n. 99, suppl. ord. n. 85/L, "Testo del decreto-legge 02.03.2012, n. 16 coordinato con la legge di conversione 26.04.2012, n. 44 recante: «Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento»."

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 17 del 27.04.2012, "Linee guida regionali per l’autorizzazione degli impianti per la produzione di energia elettrica da fonti energetiche rinnovabili (FER) mediante recepimento della normativa nazionale in materia" (deliberazione G.R. 18.04.2012 n. 3298).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il conferimento di incarichi dirigenziali a termine negli Enti Locali (ANCI e UPI, nota 21.12.2010).

QUESITI & PARERI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Emissioni nocive.
Domanda.
La semplice inerzia degli amministratori locali di fronte al superamento delle concentrazioni massime di inquinanti ammessi dalla legislazione comunitaria può configurare un rifiuto di atti d'ufficio di cui all'articolo 328 del codice penale?
Risposta.
La Corte di cassazione, sezione VI, con la sentenza del 20.02.1998, numero 5482, ha affermato: «Se, invero, non c'è dubbio che la nozione di rifiuto di cui al comma 1, dell'articolo 328 del codice penale, come novellato dalla legge numero 86, del 1990, implica, di per sé, un atteggiamento di diniego (esplicito od implicito) a fronte di una qualche sollecitazione “esterna”, dall'altro il pregnante rilievo dato dalla norma alla oggettiva impellenza di determinati interventi induce a ritenere che la sollecitazione stessa, ove non sia espressamente prevista la necessità di una richiesta o di un ordine, possa anche essere costituita dalla evidente sopravvenienza in sé dei presupposti oggettivi che richiedono l'intervento. A fronte di una urgenza sostanziale impositiva dell'atto, resa evidente dai fatti oggettivi posti all'attenzione del soggetto obbligato ad intervenire, non c'è dubbio che l'inerzia omissiva del medesimo assuma intrinsecamente valenza di rifiuto ed integri quindi la condotta punita dalla norma scaturente dalla novella».
Il Tribunale di Firenze, sezione II penale, con la sentenza del 23.11.2010, numero 3217, in tema di emissioni nocive e di responsabilità degli amministratori locali, ha affermato che, alla luce della normativa sulle polveri sottili, che ha per scopo ultimo la protezione della salute umana, ha affermato che, alla luce della normativa sulle polveri sottili, che ha per scopo ultimo la protezione della salute umana, non è possibile «stabilire quanta inerzia segnalino i (_) superamenti, e a quale conseguente livello di debba fissare la soglia medesima, se non facendo scelte del tutto arbitrarie e soggettive, cioè violando sostanzialmente il principio di legalità» con la conseguenza di dar luogo ad «una norma penale a contenuto variabile, da completarsi secondo la più assoluta discrezionalità della pubblica accusa».
Il Gup di Palermo, in tema di sindacato sull'esercizio della discrezionalità amministrativa, con la pronuncia del 10.03.2009, ha affermato, per un caso simile, «ovviamente la natura discrezionale tecnica della maggior parte dei contenuti dei provvedimenti (ordinanze d'urgenza, delibere consiliari), espressione di poteri degli enti territoriali del genere enunciato, non toglie nulla alla obbligatorietà del loro esercizio, ed alle responsabilità civili e penali che ne possono derivare, proprio in considerazione della preminenza sociale e dell'essenzialità costituzionale dei diritti soggettivi implicati nelle vicende del loro esercizio e delle finalità strettamente connesse, per i quali la legge li attribuisce».
Pertanto, per il predetto giudice, «potrà sempre sindacarsi da parte del giudice, sotto profili penali civili e amministrativi, come palesemente inadeguata, ed equivalente al nulla e lesiva degli interessi e dei diritti soggettivi implicati, l'azione amministrativa assolutamente illogica rispetto ad un intervento conforme ai dettami delle elaborazioni del settore ed alle esperienze di tecnici competenti» (articolo ItaliaOggi Sette del 30.04.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Abbandono di rifiuti.
Domanda.
In caso di abbandono di rifiuti su una area di proprietà, che rapporto sussiste tra funzionalità dell'area e soggetto che la gestisce?
Risposta.
Il Tribunale regionale amministrativo (Tar), Sicilia, sezione I, con la sentenza del 14.02.2011, numero 262, ha affermato che l'articolo articolo 192, comma 3, del decreto legislativo numero 152, del 03.04.2006, presuppone il parametro soggettivo del dolo o della colpa, ivi compresa la colposa inosservanza del dovere di vigilanza e custodia, per l'imputabilità a carico del proprietario dell'area dell'obbligo di rimozione dei rifiuti abbandonati da terzi.
Detto parametro, per i giudici siciliani, va applicato in concreto, distinguendo la situazione del proprietario che ha adottato le normali cautele per impedire l'altrui illecito, da quella di un ente che ha per oggetto sociale e per dovere istituzionale la custodia e la cura di una rete viaria. Pertanto, sempre secondo i predetti giudici, va ravvisato un dovere di prevenzione attiva e di vigilanza sull'utilizzazione del bene quando al mero diritto dominicale si affianchi una specifica destinazione funzionale del bene ed un connesso dovere istituzionale.
Con detta sentenza, il Tribunale regionale amministrativo (Tar), Sicilia, richiede un criterio di diligenza legato alla funzionalità dell'area all'attività del proprietario stesso. Per i giudici, quando sussiste, in capo al proprietario, un obbligo civilistico specifico di custodia o di vigilanza discendente da un obbligo contrattuale o da un ruolo istituzionale, esso viene rispondere per l'abbandono dei rifiuti da parte dei terzi. L'obbligo non sussiste se il proprietario dimostri di avere posto in essere specifiche misure preventive di vigilanza e di custodia.
È da puntualizzare che l'obbligo di vigilanza e di custodia, scaturente da contratto, eleva il normale livello di diligenza richiesto dalla normativa vigente al proprietario del bene. Infatti, assumendo tale obbligo, il proprietario del bene viene a trovarsi in una particolare posizione di garanzia, derivante dalla funzione, che esso ha assunto, di vigilanza. La fattispecie afferisce il caso in cui il bene di proprietà sia in uso anche a terzi (luoghi aperti al pubblico, rispetto ai quali il proprietario/gestore ha l'obbligo, per contratto o istituzionalmente, di esercitare un ruolo di controllo e manutenzione).
In questi casi, il legislatore richiede, nella custodia del bene, un maggiore livello di vigilanza in relazione a possibili comportamenti nocivi che potrebbero essere posti in essere da terzi.
Il lettore può consultare, pure, la sentenza del 04.05.2011, numero 2677, del consiglio di stato, sezione IV (articolo ItaliaOggi Sette del 30.04.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Polveri sottili.
Domanda.
Agli amministratori locali, quali soggetti garanti, è da imputare, ai sensi dell'articolo 40 del codice penale, il superamento delle concentrazioni massime di inquinanti ammessi dalla legislazione comunitaria?
Risposta.
L'articolo 40 del codice penale dispone, in tema di rapporto di causalità, che: «Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l'evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l'esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione».
Il Tribunale di Firenze, sezione II penale, con la sentenza del 23.11.2010, numero 3217, in tema di emissioni nocive e di responsabilità degli amministratori locali, ha affermato che, alla luce della normativa sulle polveri sottili, che ha per scopo ultimo la protezione della salute umana, «agli amministratori imputati non può essere addebitata la totale omissione di misure volte a impedire la concentrazione di inquinanti in atmosfera superiore ai limiti, perché di misure dirette a tali fini ne sono state emesse moltissime; peraltro la eventuale, presunta omissione di ulteriori misure intese a quello scopo non è equiparabile in alcun modo, né concettualmente né praticamente, al mancato impedimento dell'evento perché, sotto il primo profilo, la mera omissione di atti e l'impedimento di un evento criminoso non sono teoricamente corrispondenti né sono la inevitabile conseguenza l'uno dell'altra, ed inoltre perché, sotto il secondo profilo, non vi è prova alcuna nel processo che l'adozione di misure ulteriori volte a limitare le emissioni potenzialmente inquinanti avrebbe sicuramente impedito l'evento, cioè il superamento dei limiti delle concentrazioni».
Aggiungono, poi, i Giudici fiorentini, «in realtà, per potere configurare il reato contestato sotto il profilo dell'articolo 40 codice penale, la condotta tenuta o l'evento verificatosi, entrambi da impedire da parte di chi avesse avuto il dovere di farlo, devono necessariamente essere di per sé condotte o eventi criminosi, e non potrà essere la contestazione dell'articolo 40 a produrre “il miracolo” di trasformare in reato condotte o eventi che tali di per sé non sono sin dall'origine».
Nella fattispecie è da provare, sempre secondo il tribunale di Firenze, la indispensabile correlazione (il nesso di causa) tra la presunta condotta omissiva degli amministratori locali e l'evento, cioè: il superamento dei limiti delle concentrazioni (articolo ItaliaOggi Sette del 30.04.2012).

NEWS

ENTI LOCALI - VARIPratiche anagrafiche da casa. Basta una mail al comune. Allegando la carta d'identità. Circolare del ministero dell'interno attua il decreto semplificazioni. Si parte il 9 maggio.
Dal prossimo 9 maggio, i cittadini potranno presentare le istanze di variazione anagrafica stando comodamente seduti davanti al proprio personal computer. Sarà infatti possibile trasmetterle attraverso il proprio indirizzo di posta elettronica certificata, ovvero, in mancanza della Pec, attraverso la mail personale allegando la fotocopia del documento di identità. Senza dimenticare che sarà altresì possibile, a tali fini, l'utilizzo del fax o della raccomandata.
È quanto mette nero su bianco il dipartimento dei servizi demografici del Ministero dell'Interno, nel testo della circolare 27.04.2012 n. 9 che fornisce i necessari chiarimenti attuativi delle disposizioni contenute all'articolo 5 del decreto legge semplificazioni (il decreto legge del 09.02.2012, numero 5) in materia di cambio di residenza in tempo reale.
In attesa dell'imminente regolamento attuativo, pertanto, la circolare del Viminale ricorda che le disposizioni ivi contenute acquistano efficacia a decorrere da 90 giorni dalla data di pubblicazione del decreto stesso, ovvero dal 9 maggio. Ne consegue che alle dichiarazioni anagrafiche presentate da tale data, dovranno applicarsi le disposizioni semplificative che, nel caso in esame, eviteranno ai cittadini il disturbo di presentarsi agli sportelli degli uffici anagrafe del comune di residenza.
In pratica, tra otto giorni, oltre alla consueta presentazione diretta allo sportello, i cittadini avranno la possibilità di presentare le variazioni anagrafiche anche per il tramite della raccomandata, del fax e per via telematica. Quest'ultima rappresenta una vera e propria rivoluzione nel rapporto tra utente e amministrazione comunale, facendo risparmiare tempo e garantendo al tempo stesso la veridicità e la certezza dei dati che si intendono variare.
Infatti, sarà possibile variare i propri dati anagrafici per via telematica al realizzarsi di una delle seguenti condizioni. Ovvero che la dichiarazione sia sottoscritta dall'utente con firma digitale, oppure che il sottoscrittore sia identificato tramite carta d'identità elettronica, con carta nazionale dei servizi o con strumenti che consentano l'individuazione del soggetto che effettua la dichiarazione. In alternativa, sarà considerata valida anche la dichiarazione trasmessa attraverso la casella di posta elettronica certificata o, in assenza, attraverso una casella di posta elettronica semplice. In quest'ultimo caso, è necessario che la copia della dichiarazione con firma autografa e la copia della carta d'identità del soggetto dichiarante siano allegati all'istanza con l'ausilio di uno scanner.
È quindi ovvio che in questi giorni alle amministrazioni comunali verrà chiesto uno sforzo non indifferente in quanto dovranno implementare le funzioni e i contenuti dei propri siti internet istituzionali. A tal fine, la circolare in oggetto ricorda che gli enti locali dovranno obbligatoriamente indicare nei propri siti web, tutti gli indirizzi esatti ai quali inoltrare le dichiarazioni, con particolare riferimento all'indirizzo di posta, di posta elettronica, nonché al numero di fax. Adempimenti che sono considerati essenziali per i comuni, in quanto, come previsto dal dpr in corso di adozione, questi dovranno registrare le dichiarazioni entro due giorni lavorativi dal ricevimento delle stesse.
In particolare, sia a coloro che si presentano allo sportello che nei confronti di chi utilizza le altre modalità, l'ufficiale di anagrafe dovrà rilasciare all'interessato un'apposita comunicazione di avvio del procedimento con l'apposita formula «si comunica che a seguito della variazione anagrafica, quest'ufficio provvederà ad accertare la sussistenza dei requisiti previsti e che, trascorsi 45 giorni dalla dichiarazione resa in assenza di comunicazione in merito alla mancanza dei requisiti, la variazione (ovvero l'iscrizione o la registrazione) si intende confermata» (articolo ItaliaOggi del'01.05.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPersonale. Deroga ampia su scuola e polizia. Dal 2013 i vincoli sui rapporti flessibili si possono evitare per tutto il settore. In nessun caso però i Comuni possono superare la spesa sostenuta per le stesse finalità nel 2009.
APPLICAZIONE GENERALE/ Anche negli enti «minori» il via libera offerto dalla Corte dei conti non può oltrepassare i tetti relativi alle uscite.

Si ampliano le possibilità per gli enti locali di effettuare assunzioni flessibili, ma rimangono i limiti di spesa che determinano una contrazione nel ricorso a questo istituto: possono essere così sintetizzati gli effetti del delle novità contenute nell'articolo 4-ter della legge di conversione del Dl 16/2012 e nel parere delle sezioni riunite di controllo della Corte dei Conti n. 11/2012.
Le nuove regole prevedono che dal 2013 il tetto del 50% della spesa sostenuta nel 2009 non si applichi alle assunzioni con contratti flessibili del personale «strettamente necessario a garantire l'esercizio delle funzioni di polizia locale, di istruzione pubblica e del settore sociale». Si amplia quindi la deroga prevista dal Milleproroghe per il 2012, che riguarda solo il personale educativo e docente, la polizia municipale (non provinciale) e le stabilizzazioni di Lsu in corso.
La deroga tocca ora negli enti locali tutti i dipendenti impegnati nelle funzioni istruzione (quindi non solo i docenti), della vigilanza (e non solo la polizia municipale) e dei servizi sociali. L'applicazione è rimessa all'autonomia delle amministrazioni. A fronte dell'ampliamento delle deroghe, il legislatore ha previsto -a differenza del 2012- il divieto di superamento della spesa per le assunzioni flessibili del 2009.
Le deroghe previste dalla Sezioni unite di controllo della magistratura contabile sono limitate: si consente agli enti locali di derogare ai vincoli dettati dall'articolo 9, comma 28, del Dl 78/2010, ma questo non può evitare la riduzione del tetto alla spesa. La deroga riguarda, in particolare, gli «enti di minore dimensione per salvaguardare particolari esigenze operative». Essa può essere prevista per imporre un limite cumulativo al complesso delle assunzioni flessibili, senza la suddivisione indicata dalla norma. Il carattere limitato è dato dalla precisazione che «resta comunque ferma l'esigenza che vengano raggiunti gli obiettivi di fondo della disciplina e che venga assicurata la riduzione di spesa nell'esercizio finanziario per le forme di assunzione temporanea elencate».
Le interpretazioni fornite dalle sezioni regionali di controllo includono infine nel tetto le assunzioni di dirigenti e responsabili ex articolo 110 e del personale dell'ufficio di staff degli organi politici ex articolo, 90 sempre del Dlgs 267/2000. In modo prevalente, viene detto che la spesa necessaria per garantire l'esercizio associato tramite convenzioni ex articolo 30 del Tuel non va inclusa nel tetto. Vanno invece inclusi gli oneri per l'utilizzo di personale in modo associato tra più enti, sia che ciò avvenga attraverso l'articolo 14 del contratto del 22.01.2004, sia che si realizzi attraverso il comma 557 della Finanziaria 2005 (utilizzazione extra orario da parte dei piccoli comuni di dipendenti di altri enti locali).
Rimane da chiarire se gli oneri derivanti dalla utilizzazione di personale di altra Pa in comando debba essere compresa nel tetto alla spesa per le assunzioni flessibili. E se quelle che sono interamente finanziate da altri soggetti, pubblici o privati (ad esempio i vigili stagionali i cui oneri sono sostenuti attraverso una quota dei proventi derivanti dalle sanzioni per le inosservanze al codice della strada), siano da includere nel tetto o se si debba applicare in modo estensivo la esclusione prevista in questi casi dal tetto alla spesa del personale.
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I passaggi
01 | GLI AMBITI
La normativa particolare riguarda i settori della Polizia locale, dell'istruzione
e il settore sociale
02 | IL PROBLEMA
In questi settori, soprattutto nell'istruzione e nei servizi sociali, l'incidenza dei contratti a termine è molto alta. Per questa ragione l'estensione ai contratti a termine dei vincoli del turn over previsti per le assunzioni stabili avrebbe determinato grossi problemi di operatività
03 | IL PRIMO INTERVENTO
Il decreto «Milleproroghe» (articolo 1, comma 6-bis, del Dl 216/2011) aveva rimandato al 2013 l'applicazione dei vincoli di turn over al personale educativo, scolastico e di vigilanza
04 | IL DECRETO FISCALE
Il nuovo intervento amplia le deroghe, permettendo agli enti locali di superare dal 2013 i tetti in relazione ai contratti «strettamente necessari a garantire l'esercizio delle funzioni di polizia locale, di istruzione pubblica e del settore sociale». In questo modo, la deroga può riguardare tutte le tipologie di personale nei settori indicati
05 | LA SPESA
Mentre amplia i confini della deroga, la norma introduce però un nuovo limite, in virtù del quale in nessun caso, gli enti locali possono però superare la spesa registrata per le stesse finalità nel 2009 (articolo Il Sole 24 Ore del 30.04.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Niente assunzioni solo con il Patto. Nota Anci sui limiti per gli enti locali.
I limiti nell'assunzione di personale a tempo indeterminato, previsti dal decreto legge 78/2010, non riguardano gli enti non sottoposti al Patto di stabilità.
È quanto sostiene la nota 27.04.2012 dell'Anci, in cui si spiega che sebbene le sezioni riunite della Corte dei conti abbiano di recente sostenuto che i limiti alle assunzioni riguardino tutti gli enti, «a oggi la normativa vigente per gli enti non sottoposti al Patto è quella di cui alla legge 27.12.2006, n. 296», che stabilisce altre modalità di contenimento delle spese per il personale.
In particolare, all'articolo 1, comma 562, si prevede che: «Per gli enti non sottoposti alle regole del patto di stabilità interno, le spese di personale, al lordo degli oneri riflessi a carico delle amministrazioni e dell'Irap, con esclusione degli oneri relativi ai rinnovi contrattuali, non devono superare il corrispondente ammontare dell'anno 2004. Gli enti di cui al primo periodo possono procedere all'assunzione di personale nel limite delle cessazioni di rapporti di lavoro a tempo indeterminato complessivamente intervenute nel precedente anno, ivi compreso il personale di cui al comma 558».
Insomma, regole ad hoc, che secondo l'Anci la Corte dei conti non tiene in considerazione, contraddicendo peraltro, nel parere n. 11/2012 reso dalle sezioni riunite, e senza fornire alcuna motivazione, quanto precedentemente affermato in diverse pronunce in relazione al rapporto fra il comma 562 della Finanziaria 2007 ed il comma 7 dell'art. 76 del dl n. 78 del 31.05.2010. Norme che, relativamente alla parti che dispongono limitazioni alle assunzioni, non sono state modificate da alcun intervento successivo.
A tal proposito, l'Anci cita le delibere n. 3, 4 e 20 del 2011. Per giungere infine alla conclusione che ad oggi, non essendo stato modificato il quadro normativo di riferimento, relativamente alle assunzioni a tempo indeterminato negli enti non sottoposti al patto di stabilità trova appunto applicazione il comma 562 dell'articolo unico alla legge 27.12.2006, 296 (articolo ItaliaOggi del 28.04.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALIOsservatorio Viminale/ Decadenze nell'unione in scioglimento.
Quesito.
Nel caso di un'Unione di Comuni che si scioglierà a decorrere dal 1° gennaio, e per la quale le attività di liquidazione si concluderanno oltre il 31 dicembre dell'anno precedente, gli organi di gestione dell'ente decadono alla data di cessazione dell'ente stesso o rimangono in carica fino alla conclusione delle operazioni di liquidazione?

Risposta.
L'Unione di comuni, disciplinata dall'articolo 32 del Testo unico n. 267/2000, si configura come una forma di associazione volontaria tra comuni, la quale attraverso l'adozione dell'atto costitutivo e dello statuto, dà vita ad un ente locale a tutti gli effetti, distinto dagli enti che la compongono, che gode di un'ampia potestà organizzativa e funzionale, posto che il legislatore ha delineato solo gli elementi essenziali, inderogabili dell'istituto, demandando all'autonomia statutaria e regolamentare la disciplina degli organi e della propria organizzazione (art. 32 citato, comma 4).
Se lo statuto dell'ente, in merito alle procedure di scioglimento prevede un termine entro il quale il consiglio di amministrazione deve nominare un commissario liquidatore, da tale data gli organi dell'Unione non hanno più alcuna competenza e decadono, trovandosi l'ente in fase di gestione liquidatoria, affidata al commissario appositamente nominato.
Si reputa, pertanto, che l'organo che dovrebbe essere mantenuto in vita è il consiglio di amministrazione, al quale il commissario liquidatore presenterà la proposta di bilancio e il piano di riparto delle risorse strumentali, patrimoniali e del personale, indicante la parte spettante a ciascun comune, per l'approvazione.
Nel caso in cui il termine assegnato convenzionalmente al liquidatore dalla norma statutaria per la predisposizione degli atti consenta che le operazioni si protraggano oltre la data prevista, e pertanto proseguano per tutto il tempo necessario alla loro conclusione, decorso infruttuosamente detto termine, il Prefetto valuterà, ove la normativa regionale non disponga diversamente, la sussistenza dei presupposti per avviare le procedure di cui alle disposizioni dell'articolo 141, comma 8, del Testo unico n. 267/2000 (articolo ItaliaOggi del 27.04.2012).

APPALTIDl fiscale. Si ampliano i vincoli di solidarietà per le somme che sono dovute all'amministrazione finanziaria
Appalti, responsabilità estesa. Il committente paga Irpef e Iva se non versano appaltatore e subappaltatori.
IL PUNTO CRITICO/ Difficile dimostrare che l'irregolarità è avvenuta pur avendo preso tutte le precauzioni necessarie per evitarla.

La responsabilità solidale nei contratti di appalto fra appaltatore e subappaltatori ora si estende anche al committente per quanto riguarda i versamenti all'Erario delle ritenute Irpef sul lavoro dipendente e dell'Iva dovuta sulle prestazioni oggetto dell'appalto.
Lo prevede l'articolo 2, comma 5-bis, del decreto fiscale 16/2012 convertito in legge che sostituisce il comma 28, dell'articolo 35 del Dl 223/2006. In confronto alla norma preesistente viene estesa la solidarietà a carico del committente o datore di lavoro anche in relazione al versamento dell'Iva da parte del prestatore. La solidarietà permane anche per l'appaltatore che è committente per i contratti di subappalto. La responsabilità del committente opera per tutta la durata del contratto e ha effetto fino al secondo anno successivo alla cessazione dell'appalto.
La nuova norma è fortemente penalizzante per il committente di opere o di servizi il quale, di fatto, assume la responsabilità in ordine al versamento delle ritenute fiscali e dell'Iva sia da parte dell'appaltatore che degli eventuali subappaltatori. Però viene anche disposto che se il committente ha messo in atto tutte le cautele possibili per evitare l'inadempimento è liberato dalle responsabilità.
Il vero problema a carico del committente, quindi, rimane la dimostrabilità del fatto che il mancato versamento dell'Iva e delle ritenute si è verificato pur avendo adottando gli opportuni accorgimenti: a noi pare una prova diabolica.
Ci si chiede, infatti, quale sia il mezzo che dovrà essere adottato dal committente per non cadere nella responsabilità solidale, alla luce del dato letterale del comma 5-bis: «che dimostri di aver messo in pratica tutte le cautele possibili per evitare l'inadempimento». In pratica, in un contratto di appalto, il committente dovrebbe richiedere ai propri appaltatori e ai subappaltori un documento equipollente al Documento unico di regolarità contributiva previsto per gli obblighi previdenziali. Diversamente il committente può essere chiamato al versamento all'Erario dell'Iva, peraltro già pagata al fornitore e delle ritenute Irpef sul reddito da lavoro dei dipendenti altrui.
Relativamente alle ritenute fiscali, la prova più semplice può essere l'inoltro da parte degli appaltatori e subappaltatori dei modelli F24 relativi ai suddetti versamenti. Invece la prova del versamento dell'Iva è pressoché impossibile, in quanto il versamento è il risultato della liquidazione Iva che comprende molte altre operazioni. Anche il ricorso al cassetto fiscale dell'appaltatore e del subappaltatore non è possibile essendo vietato l'accesso a soggetti non autorizzati.
Si ricorda che in materia di Iva (e non per le ritenute) il Dpr 633/1972 prevede già per alcune fattispecie la solidarietà nel pagamento dell'imposta. L'articolo 60-bis stabilisce che il cessionario è solidamente obbligato al pagamento dell'imposta non versata dal cedente. Tale regola opera solo con riferimento alle operazioni di cessione individuate dal Dm 22/12/2005 ( auto, moto e rimorchi; prodotti di telefonia e accessori; pc, componenti ed accessori; bovini, ovini e suini vivi e loro carni fresche) ma solo nel caso in cui la cessione sia avvenuta a un prezzo inferiore al valore normale.
La modifica introdotta dal decreto fiscale è molto più forte e sostituisce il committente a un obbligo dell'appaltatore o subappaltatore che potrebbe aver omesso il versamento anche per gravi difficoltà finanziarie. La nuova disposizione ricalca le regole previste per il versamento dei contributi previdenziali e dei contributi assicurativi obbligatori per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali dei dipendenti a cui sono tenuti in prima linea l'appaltatore e l'eventuale subappaltatore.
Questi adempimenti sono stati più volte oggetto di chiarimenti da parte del ministero del Lavoro e dell'Inps. La certificazione del corretto adempimento previdenziale avviene mediante la presentazione da parte del subappaltatore all'appaltante del modello Durc.
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Il nuovo regime
01 | LA NORMA
L'articolo 2 del Dl 16/2012 prevede l'estensione al committente della responsabilità solidale nei contratti di appalto fra appaltatore e subappaltatori per quanto concerne i versamenti all'Erario delle ritenute Irpef sul lavoro dipendente e dell'Iva prevista sulle prestazioni oggetto di appalto
02 | AMBITO DI APPLICAZIONE
La responsabilità si applica ad appalti di opere e servizi per tutta la durata del contratto e fino al secondo anno successivo alla cessazione dell'appalto. L'Iva dovuta in base alla dichiarazione e le ritenute fiscali sono accertabili entro il quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione dell'appaltatore e del subappaltatore
03 | ONERE DELLA PROVA
Il committente evita la solidarietà se dimostra di aver messo in atto tutte le cautele possibili per evitare l'inadempimento. Tuttavia tale prova appare di difficile attuazione, in particolare per quanto riguarda il versamento dell'Iva
04 | L'ANALOGIA
La nuova norma ricalca gli obblighi in tema di versamento dei contributi previdenziali e assicurativi obbligatori per gli infortuni (articolo Il Sole 24 Ore del 27.04.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPa, licenziamenti disciplinari più semplici.
In arrivo la delega sull'articolo 18 per gli statali: tipizzazione dei casi che fanno scattare la sanzione
ADDIO AI CO.CO.CO/ Più autonomia per i dirigenti, taglio delle consulenze, riordino del reclutamento e cambio di politica sui contratti a termine.

Un disegno di legge con una delega per la regolazione dei licenziamenti disciplinari nelle pubbliche amministrazioni, per i quali dovrà essere razionalizzata la struttura attuale delle sanzioni e introdotta una tipizzazione delle ipotesi che possono giustificare il licenziamento per motivi soggettivi.
Parte da qui la proposta operativa che il ministro della Pa e della Semplificazione, Filippo Patroni Griffi, sta mettendo a punto per la traduzione in norme dei «principi e criteri generali» contenuti nella riforma Fornero. La ri-regolazione del pubblico impiego si muoverà su un indice articolato e complesso, che i tecnici di palazzo Vidoni stanno ancora limando in vista del prossimo incontro con i sindacati (la data è da confermare ma dovrebbe essere il 4 maggio) sapendo che tutto dovrà essere pronto entro la metà di maggio.
Oltre all'armonizzazione delle norme sul mercato del lavoro, vale a dire i contratti flessibili in entrata e le regole sui licenziamenti, si punta a un nuovo insieme di misure per rafforzare la responsabilità e l'autonomia dei dirigenti; un taglio delle consulenze esterne; una nuova impostazione delle politiche di reclutamento che passa anche per il rilancio del vecchio progetto di riordino delle scuole superiori della Pa; una rivisitazione del ciclo della performance, che prevede una condivisione con i sindacati nella gestione delle scelte organizzative delle amministrazioni.
Licenziamenti disciplinari.
Se per i licenziamenti discriminatori (o nulli) non serviranno norme di equiparazione tra pubblico e privato e se per i licenziamenti per giustificati motivi oggettivi (quelli economici) la cornice regolatoria già esiste ed è l'articolo 33 del Dlgs 165/2001 con la prevista mobilità del personale in disponibilità (dichiarato in eccedenza a conclusione della relativa procedura), un intervento ad hoc servirà per i disciplinari.
Tenendo conto dei vincoli costituzionali, della diversa natura della funzione pubblica che prevede maggiori doveri e pretende diverse garanzie ai dipendenti di un'amministrazione pubblica rispetto a quelli di un'azienda privata, con la delega si punta a introdurre una serie di ipotesi di giustificato motivo soggettivo e a ricalibrare il sistema delle sanzioni conservative o espulsive che, tra l'altro, sono differenziate a seconda che si tratti di funzionari o di dirigenti.
Una delega, insomma, per rendere più certe le situazioni che fanno scattare il licenziamento in casi disciplinari. Con la prospettiva, in caso di sentenza che boccia il licenziamento, del reintegro del dipendente piuttosto che del suo indennizzo; ipotesi peraltro già bollata da incostituzionalità dal Giudice delle leggi.
Dirigenza con più autonomia.
Nel quadro della privatizzazione del contratto dei dirigenti con il Ddl Patroni Griffi si punterebbe a rafforzare l'autonomia dei dirigenti dall'indirizzo politico e la responsabilità nella gestione dell'organizzazione e delle risorse dell'amministrazione.
Probabilmente verrà proposto un meccanismo di conferma automatica a fine incarico (fatti salvi casi oggettivi di inadempienza) per mettere a riparo i direttori generali da logiche non regolate di spoil system. Misure che verrebbero affiancate da un forte giro di vite sugli incarichi esterni, da limitare esclusivamente a casi di assoluta eccellenza e per posizioni particolari.
Sempre sulla dirigenza, il ministro vuole proporre una riforma dell'attuale sistema di reclutamento che passa anche per un riordino delle cinque scuole di alta formazione: ai nuovi dirigenti dello Stato dovrebbe essere assicurata una formazione comune, come nelle esperienze di Francia e Regno Unito, in maniera da poter garantire reali possibilità di trasferimento da un'amministrazione a un'altra superando canali impropri come il reclutamento esterno o il «comando» di dirigenti fuori dai ruoli.
Contratti a termine.
L'idea è di abbandonare il contratto coordinato e continuativo con un'equiparazione stretta con il settore privato. I contratti a termine, che comunque non potranno essere trasformati in contratti a tempo indeterminato perché resta il vincolo dell'accesso per concorso nella Pa, verranno molto ricalibrati: per quelli molto brevi verrà recepita la riforma Fornero mentre per quelli fino a 36 mesi si penseranno formule tipo il corso-concorso, mirate per qualificare il più possibile questi rapporti temporanei d'impiego.
Ciclo della performance.
Per superare alcune difficoltà applicative del sistema di valutazione introdotto dalla riforma Brunetta si punta poi a un superamento delle analisi delle performance basate sulla logica dell'adempimento. L'idea è quella di favorire un maggior coinvolgimento delle organizzazioni sindacali nella definizione dei criteri di valutazione e delle scelte organizzative delle amministrazioni che, dopo l'ultima riforma, dovrebbero essere invece semplicemente comunicate ai sindacati (articolo Il Sole 24 Ore del 26.04.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAPer insegna di esercizio si intende quella che -con le modalità prescritte dall’art. 47, comma 1, del d.P.R. 16.12.1992, n. 495- serve esclusivamente a segnalare il luogo ove si esercita l’attività di impresa.
Invero, la scritta in oggetto che espone anche, e chiaramente, l’indirizzo web della società adempie a una funzione che va oltre quella di indicare di un luogo, in quanto intende pure rendere conoscibile al pubblico il sito aziendale e, come tale, è da intendersi quale insegna pubblicitaria.

... per la riforma della sentenza breve del TAR ABRUZZO - SEZ. STACCATA DI PESCARA: SEZIONE I n. 00472/2011, resa tra le parti, concernente RIMOZIONE DI UN CARTELLO PUBBLICITARIO ABUSIVO ...
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Con sentenza in forma semplificata 22.07.2011, n. 472, il Tribunale amministrativo regionale per l’Abruzzo – Pescara, Sezione I, respingeva il ricorso proposto dalla Dema Service s.r.l. nei riguardi dell’atto con cui Autostrade per l’Italia s.p.a. aveva ad essa ingiunto la rimozione di un manufatto considerato cartello pubblicitario abusivo, collocato lungo l’autostrada A/14, nel territorio del Comune di Silvi Marina.
La Dema Service interponeva appello contro la sentenza, chiedendone al tempo stesso la sospensione dell’efficacia.
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Si controverte sulla natura del manufatto di cui è causa. Per la Dema Service si tratterebbe di una insegna di esercizio debitamente autorizzata dagli enti locali competenti; per Autostrade sarebbe invece un cartello pubblicitario. Tale tesi è sostanzialmente quella fatta propria dalla sentenza impugnata.
L’esame delle foto contenute del fascicolo fa ritenere che l’opera non costituisca una semplice insegna di esercizio, dovendosi intendere per tale quella che -con le modalità prescritte dall’art. 47, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 16.12.1992, n. 495- serve esclusivamente a segnalare il luogo ove si esercita l’attività di impresa. Infatti la scritta in oggetto espone anche, e chiaramente, l’indirizzo web della società: con ciò adempie a una funzione che va oltre quella di indicare di un luogo, in quanto intende pure rendere conoscibile al pubblico il sito aziendale. L’obiettiva destinazione pubblicitaria non può dunque essere negata.
Questo punto –vale a dire la valutazione delle caratteristiche intrinseche del manufatto– non è però dirimente ai fini della decisione della controversia.
A tale riguardo, occorre prendere in considerazione l’art. 23 del codice della strada (decreto legislativo 30.04.1982, n. 285), dedicato alla disciplina della “pubblicità sulle strade e sui veicoli”. Con particolare riferimento alla “pubblicità lungo e in vista degli itinerari internazionali, delle autostrade e delle strade extraurbane principali e relativi accessi”, il comma 7 stabilisce un divieto di principio, temperato da talune limitate deroghe. Nell’ambito di queste consente le insegne di esercizio “purché autorizzate dall’ente proprietario della strada”.
Ora, nel caso di specie, la società appellante aveva sì acquisito le autorizzazioni degli enti locali (comune e provincia) a diverso titolo competenti circa la strada dove lo stabilimento sorge. Non ha invece mai chiesto autorizzazione ad Autostrade, come invece avrebbe dovuto, essendo quest’ultima proprietaria della A/14, in vista della quale il cartello è posto. Circostanza, questa, confermata dalla stessa Dema Service, là dove essa dichiara che “l’insegna in questione … è soltanto una delle tante insegne visibili anche dall’autostrada” e prima ancora, nello svalutare il significato delle foto prodotte da controparte, rileva che sono state scattate “dalla parte più interna della stazione di servizio adiacente all’autostrada”.
In conclusione: comunque debba definirsi il manufatto, questo è stato installato senza la necessaria, preventiva autorizzazione di Autostrade, che pertanto legittimamente –ai sensi dell’art. 23, comma 13-bis, del citato decreto legislativo n. 285 del 1992– ne ha imposto la rimozione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.04.2012 n. 2480 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAL'obbligo giuridico di provvedere -ai sensi dell'art. 2 della legge 07.08.1990, n. 241, come modificato dall’art. 7 della legge 18.06.2009, n. 69- sussiste in tutte quelle fattispecie particolari nelle quali ragioni di giustizia e di equità impongano l'adozione di un provvedimento e quindi, tutte quelle volte in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano) dell'Amministrazione.
In particolare, poi, il proprietario confinante con l’immobile, nel quale si assuma essere stato realizzato un abuso edilizio, ha comunque un interesse alla definizione dei procedimenti relativi all’immobile medesimo entro il termine previsto dalla legge, tenendo conto dell’interesse sostanziale che, in relazione alla vicinanza, egli può nutrire in ordine all’esercizio dei poteri repressivi e ripristinatori da parte dell’organo competente.

... per la riforma della sentenza breve del TAR PIEMONTE - TORINO: SEZIONE I n. 00848/2011, resa tra le parti, concernente SILENZIO DELL'AMMINISTRAZIONE RELATIVA A SEGNALAZIONE OCCUPAZIONE STRADA COMUNALE E IRREGOLARITA' EDILIZIE ...
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La sentenza impugnata collega l’interesse a ricorrere contro il silenzio dell’Amministrazione ad una lesione del diritto del privato. Nel caso di specie, non vi sarebbe la prova che l’area su cui si controverte presenti natura pubblica; neppure vi sarebbe la prova –e, ancor prima, nemmeno l’allegazione– dell’uso pubblico; al più l’area potrebbe essere oggetto di contestazioni di carattere privatistico (come in effetti è avvenuto, avendo il ricorrente proposto giudizio possessorio innanzi al Giudice civile); mancherebbe perciò la legittimazione ad agire in questa sede.
Alla luce della giurisprudenza del Consiglio di Stato, il Collegio non condivide tale impostazione restrittiva.
In linea di massima, infatti, l'obbligo giuridico di provvedere -ai sensi dell'art. 2 della legge 07.08.1990, n. 241, come modificato dall’art. 7 della legge 18.06.2009, n. 69- sussiste in tutte quelle fattispecie particolari nelle quali ragioni di giustizia e di equità impongano l'adozione di un provvedimento e quindi, tutte quelle volte in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano) dell'Amministrazione (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 03.06.2010, n. 3487).
In particolare, poi, il proprietario confinante con l’immobile, nel quale si assuma essere stato realizzato un abuso edilizio, ha comunque un interesse alla definizione dei procedimenti relativi all’immobile medesimo entro il termine previsto dalla legge, tenendo conto dell’interesse sostanziale che, in relazione alla vicinanza, egli può nutrire in ordine all’esercizio dei poteri repressivi e ripristinatori da parte dell’organo competente (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 20.07.2006, n. 4609; Id., IV Sez., 07.07.2008, n. 3384) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.04.2012 n. 2468 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La disciplina nazionale in materia di installazione degli impianti di carburante e, segnatamente, quella relativa agli obblighi di distanze minime (d.lgs. n. 32 del 1998 e legislazione regionale attuativa cui è rimessa, ai sensi dell’art. 1, co. 2, del medesimo decreto, l’adozione di norme di indirizzo programmatico attraverso le quali sono introdotti gli obblighi di rispetto delle distanze minime), deve essere ritenuta del tutto superata alla luce di recente pronuncia della Corte di giustizia UE in relazione alle norme ed ai principi posti a tutela della liberà di stabilimento.
Una normativa di diritto interno come quella italiana, che prevede distanze minime obbligatorie fra gli impianti stradali di distribuzione di carburanti, costituisce una restrizione alla libertà di stabilimento sancita dal trattato; una disciplina del genere, infatti, applicandosi unicamente ad impianti nuovi e non ad impianti già esistenti prima della sua entrata in vigore, pone condizioni all’accesso all’attività della distribuzione di carburanti e, favorendo gli operatori già presenti sul territorio italiano, è idonea a scoraggiare, se non ad impedire, l’accesso al mercato da parte di imprenditori comunitari.
Deve ritenersi superato quell’orientamento giurisprudenziale di questa Sezione antecedente la pronuncia della Corte UE 11.03.2010, n. 384/2008, secondo cui le autorizzazioni all’apertura degli impianti di distribuzione di carburanti vanno rilasciate alla luce dell’intero apparato distributivo locale esistente, nel quale la distanza minima tra i distributori costituisce un parametro da verificare e che la stessa distanza è un criterio utile per valutare sia la possibilità di sopravvivenza sul mercato del singolo esercizio, sia l’esigenza di assicurare agli utenti condizioni ottimali per la fruizione del servizio.

La disciplina nazionale in materia di installazione degli impianti di carburante e, segnatamente, quella relativa agli obblighi di distanze minime (d.lgs. n. 32 del 1998 e legislazione regionale attuativa cui è rimessa, ai sensi dell’art. 1, co. 2, del medesimo decreto, l’adozione di norme di indirizzo programmatico attraverso le quali sono introdotti gli obblighi di rispetto delle distanze minime), deve essere ritenuta del tutto superata alla luce di recente pronuncia della Corte di giustizia UE in relazione alle norme ed ai principi posti a tutela della liberà di stabilimento (cfr. Corte giustizia Unione europea, 11.03.2010, n. 384/2008).
L’art. 43 Ce (ora art. 49 TFUE), letto in combinato disposto con l’art. 48 Ce (ora art. 54 TFUE), è stato interpretato nel senso che una normativa di diritto interno come quella italiana, che prevede distanze minime obbligatorie fra gli impianti stradali di distribuzione di carburanti, costituisce una restrizione alla libertà di stabilimento sancita dal trattato; una disciplina del genere, infatti, applicandosi unicamente ad impianti nuovi e non ad impianti già esistenti prima della sua entrata in vigore, pone condizioni all’accesso all’attività della distribuzione di carburanti e, favorendo gli operatori già presenti sul territorio italiano, è idonea a scoraggiare, se non ad impedire, l’accesso al mercato da parte di imprenditori comunitari.
Né sono stati riconosciuti seriamente applicabili i motivi imperativi di interesse generale idonei a giustificare restrizioni alla concorrenza e ciò per diversi ordini di ragioni.
E’ stato infatti evidenziato che:
a) i limiti rinvenibili nella normativa italiana a tutela della salute, dell’ambiente, della sicurezza stradale non sono adeguati e proporzionati posto che si applicano solo ai nuovi impianti di distribuzione e non a quelli preesistenti;
b) i controlli per la tutela dei suindicati interessi pubblici possono essere efficacemente demandati al concreto riscontro dell’autorità competente, senza inadeguate limitazioni generali basate sul calcolo delle distanze;
c) la tutela dei consumatori, sub specie di “razionalizzazione del servizio reso agli utenti della rete distributiva”, costituisce un motivo economico e non un motivo imperativo di interesse generale;
d) in ogni caso tale “razionalizzazione” si rivela, sul piano pratico, un espediente per favorire gli operatori già presenti sul territorio (cfr. per tutto Cons. Stato, V, 23.05.2011 n. 3084).
Quindi, in base ai principi ora esposti, deve ritenersi superato quell’orientamento giurisprudenziale di questa Sezione antecedente la pronuncia della Corte UE, secondo cui le autorizzazioni all’apertura degli impianti di distribuzione di carburanti vanno rilasciate alla luce dell’intero apparato distributivo locale esistente, nel quale la distanza minima tra i distributori costituisce un parametro da verificare e che la stessa distanza è un criterio utile per valutare sia la possibilità di sopravvivenza sul mercato del singolo esercizio, sia l’esigenza di assicurare agli utenti condizioni ottimali per la fruizione del servizio (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.04.2012 n. 2456 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAnche l’attività di spargimento di ghiaia, su di un’area che ne era precedentemente priva, è soggetta a concessione edilizia, allorché appaia preordinata alla modifica della precedente destinazione d’uso (nel caso in esame, pacificamente agricola).
Tale indirizzo, peraltro, risulta corroborato dalla risalente interpretazione del Giudice penale, secondo cui deve ritenersi soggetto a concessione lo spianamento di un terreno agricolo ed il riporto di sabbia e ghiaia, al fine di ottenerne un piazzale per deposito e smistamento di autocarri e containers (Cass. pen., 09/06/1982; cfr. altresì <<è legittimo il provvedimento del sindaco che ordini la riduzione in pristino di un'area destinata, in base al piano regolatore, a verde pubblico, che sia stata coperta di ghiaia, per essere destinata a parcheggio>> Cons. Stato, sez. II, 15/02/1989, n. 18/1989), e, per altro verso, che esso “…sembra, oggi, avere un testuale riscontro nel nuovo Testo unico in materia edilizia -D.P.R. n. 380/2001- (che non ha certo potenzialità applicativa e di risoluzione del caso in esame, ma che può rappresentare un valido ausilio interpretativo, specie ove "codifica" un orientamento giurisprudenziale pregresso): l'art. 3, in materia di definizione degli interventi edilizi, assoggetta a permesso di costruire -ascrivendole al genus delle nuove costruzioni- <<la realizzazione di infrastrutture e di impianti, anche per pubblici servizi, che comporti la trasformazione in via permanente di suolo inedificato>> (lett. e. 3) e <<la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato>> (e. 7); si tratta, come è facile rilevare, di interventi privi di connotazione strettamente edilizia e, nondimeno, assoggettati a titolo abilitativo (oggi permesso di costruire).
Significativa è, poi, la previsione dell'art. 10, comma 2, secondo cui <<Le regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività>>”.

Non vi è infatti motivo per discostarsi dal condivisibile indirizzo giurisprudenziale (C.d.S., sez. V, 22.12.2005, n. 7343; 11.11.2004, n. 7324) secondo cui anche l’attività di spargimento di ghiaia, su di un’area che ne era precedentemente priva, è soggetta a concessione edilizia, allorché appaia preordinata, come nel caso di specie, alla modifica della precedente destinazione d’uso (nel caso in esame, pacificamente agricola).
Nei citati precedenti giurisprudenziali è stato puntualmente sottolineato, per un verso, che “Tale indirizzo, peraltro, risulta corroborato dalla risalente interpretazione del Giudice penale, secondo cui deve ritenersi soggetto a concessione lo spianamento di un terreno agricolo ed il riporto di sabbia e ghiaia, al fine di ottenerne un piazzale per deposito e smistamento di autocarri e containers (Cass. pen., 09/06/1982; cfr. altresì <<è legittimo il provvedimento del sindaco che ordini la riduzione in pristino di un'area destinata, in base al piano regolatore, a verde pubblico, che sia stata coperta di ghiaia, per essere destinata a parcheggio>> Cons. Stato, sez. II, 15/02/1989, n. 18/1989), e, per altro verso, che esso “…sembra, oggi, avere un testuale riscontro nel nuovo Testo unico in materia edilizia -D.P.R. n. 380/2001- (che non ha certo potenzialità applicativa e di risoluzione del caso in esame, ma che può rappresentare un valido ausilio interpretativo, specie ove "codifica" un orientamento giurisprudenziale pregresso): l'art. 3, in materia di definizione degli interventi edilizi, assoggetta a permesso di costruire -ascrivendole al genus delle nuove costruzioni- <<la realizzazione di infrastrutture e di impianti, anche per pubblici servizi, che comporti la trasformazione in via permanente di suolo inedificato>> (lett. e. 3) e <<la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato>> (e. 7); si tratta, come è facile rilevare, di interventi privi di connotazione strettamente edilizia e, nondimeno, assoggettati a titolo abilitativo (oggi permesso di costruire).
Significativa è, poi, la previsione dell'art. 10, comma 2, secondo cui <<Le regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività>>
”.
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Correttamente pertanto i primi giudici hanno ritenuto legittimi i provvedimenti impugnati in primo grado, non potendo dubitarsi che attraverso lo spargimento di ghiaione sull’area in questione il proprietario intendeva effettivamente modificare la destinazione agricola dell’area utilizzandola quale piazzale di sosta e ricovero dell’auto e delle due roulottes di sua proprietà, determinando così una trasformazione urbanistica che necessitava di concessione edilizia (sulla necessità di concessione edilizia per ogni intervento che determini una perdurante modifica dello stato dei luoghi con materiale posto sul suolo, pur in assenza di opera in muratura, anche C.d.S., sez. V, 21.10.2003, n. 6519)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.04.2012 n. 2450 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’ordinanza di acquisizione gratuita al patrimonio comunale di un’opera abusiva si configura quale atto dovuto, privo di discrezionalità, subordinato al solo accertamento dell’inottemperanza di ingiunzione di demolizione ed al decorso del termine di legge (che ne costituiscono i presupposti), così che la censura è destituita di qualsiasi fondamento giuridico, non essendovi alcuna valutazione discrezionale da compiere (e di conseguenza da giustificare).
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E' legittima l’ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive effettuata nei confronti del responsabile dell’abuso e non anche del proprietario dell’immobile, in quanto l’articolo 7, comma 3, della legge 28.02.1985, n. 47, si riferisce esclusivamente all’uno e non all’altro, per l’evidente ragione di ancorare l’attività riparatoria del responsabile, quale autore dell’illecito, al rapido ripristino dello stato dei luoghi.

... Quanto al preteso vizio del provvedimento di acquisizione al patrimonio comunale dell’abuso realizzato per la carenza di motivazione in ordine alla valutazione dell’interesse pubblico, è sufficiente osservare che l’ordinanza di acquisizione gratuita al patrimonio comunale di un’opera abusiva si configura quale atto dovuto, privo di discrezionalità, subordinato al solo accertamento dell’inottemperanza di ingiunzione di demolizione ed al decorso del termine di legge (che ne costituiscono i presupposti) (C.d.S., sez. V, 01.10.2001, n. 5179), così che la censura è destituita di qualsiasi fondamento giuridico, non essendovi alcuna valutazione discrezionale da compiere (e di conseguenza da giustificare).
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Quanto al primo aspetto è sufficiente rilevare che è stata ritenuta legittima l’ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive effettuata nei confronti del responsabile dell’abuso e non anche del proprietario dell’immobile, in quanto l’articolo 7, comma 3, della legge 28.02.1985, n. 47, si riferisce esclusivamente all’uno e non all’altro, per l’evidente ragione di ancorare l’attività riparatoria del responsabile, quale autore dell’illecito, al rapido ripristino dello stato dei luoghi (C.d.S., sez. V, 01.10.1999, n. 1228) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.04.2012 n. 2450 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa precarietà (e mobilità) di un manufatto, che rende non necessaria la concessione edilizia, dipende non dal suo sistema di ancoraggio al terreno, ma dalla sua inidoneità a determinare una stabile trasformazione del territorio, con la conseguente necessità del titolo edilizio allorquando, come nel caso di specie, la struttura, ancorché prefabbricata, sia destinata a dare un’utilità prolungata nel tempo, circostanza giammai contestata dagli appellanti, e non meramente occasionale.
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quanto al secondo profilo, poi, anche a voler prescindere dalle significative dimensioni della struttura prefabbricata realizzata (oltre 80 metri quadrati, per un volume di 257,78 metri quadrati, il che esclude in radice la sua stessa amovibilità (sul cui carattere insistono gli appellanti), deve ricordarsi che in ogni caso anche la precarietà (e mobilità) di un manufatto, che rende non necessaria la concessione edilizia, dipende non dal suo sistema di ancoraggio al terreno, ma dalla sua inidoneità a determinare una stabile trasformazione del territorio, con la conseguente necessità del titolo edilizio allorquando, come nel caso di specie, la struttura, ancorché prefabbricata, sia destinata a dare un’utilità prolungata nel tempo, circostanza giammai contestata dagli appellanti, e non meramente occasionale (C.d.S., sez. V, 15.06.2000, n. 3321; 03.04.1990, n. 317) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.04.2012 n. 2450 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPosto che la concessione in sanatoria rilasciata per effetto di un condono edilizio produce l’effetto della regolarizzazione della costruzione dal punto di vista urbanistico, attribuendo ad essa un regime giuridico che in nulla si differenzia da quello proprio di una normale concessione, presupposto fattuale indispensabile per l’accoglimento della domanda di condono (e per il rilascio della relativa concessione in sanatoria) è la stessa esistenza del manufatto abusivo, non solo al momento della domanda di condono, ma anche al momento del rilascio della concessione: è stata così ritenuta legittima l’archiviazione della domanda di condono (relativa ad un edificio demolito e non fedelmente ricostruito) per essere venuto meno la stessa opera cui si riferiva la richiesta.
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Legittimamente l’amministrazione denega il condono per la struttura prefabbricato ad uso abitativo realizzata abusivamente, essendo la stessa andata distrutta nell’incendio del 25.07.1995, dopo la presentazione della domanda di condono, ma prima dell’eventuale rilascio della concessione in sanatoria.

Anche il terzo motivo di gravame, con cui è stato contestato l’erroneo rigetto in parte del ricorso NRG. 491/1996 (concernente l’impugnativa del diniego di condono edilizio) per “Violazione di legge (art. 39 L. n. 724 del 23.12.1994 e successivi decreti di reiterazione, compreso il D.L. 25.11.1994 n. 649, artt. 31, 33, 35 capo IV L. 28.02.85, n. 47); eccesso di potere per difetto di motivazione, per travisamento dei fatti, per illogicità, per contraddittorietà, per sviamento, per difetto di istruttoria” è destituito di fondamento giuridico.
Occorre premettere che, come esposto in fatto, i primi giudici hanno ritenuto legittimo l’impugnato diniego per il fatto che il manufatto oggetto di condono era andato distrutto, laddove lo hanno invece annullato per quanto attiene il pozzo artesiano (non configurabile come opera edilizia) e quanto alle restanti opere per la asserita impossibilità di determinare la reale volumetria dell’abuso.
Ciò posto, deve rilevarsi che, diversamente da quanto opinato dagli appellanti, posto che la concessione in sanatoria rilasciata per effetto di un condono edilizio produce l’effetto della regolarizzazione della costruzione dal punto di vista urbanistico, attribuendo ad essa un regime giuridico che in nulla si differenzia da quello proprio di una normale concessione (C.d.S., sez. IV, 30.11.2009, n. 7491; sez. V, 07.05.2008, n. 2086), presupposto fattuale indispensabile per l’accoglimento della domanda di condono (e per il rilascio della relativa concessione in sanatoria) è la stessa esistenza del manufatto abusivo, non solo al momento della domanda di condono, ma anche al momento del rilascio della concessione (C.d.S., sez. V, 18.11.2004, n. 7538): è stata così ritenuta legittima l’archiviazione della domanda di condono (relativa ad un edificio demolito e non fedelmente ricostruito) per essere venuto meno la stessa opera cui si riferiva la richiesta (C.d.S., sez. IV, 28.12.2008, n. 6550).
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Del tutto legittimamente, come ritenuto anche dai primi giudici, l’amministrazione ha denegato il condono per la struttura prefabbricato ad uso abitativo realizzata abusivamente, essendo la stessa andata distrutta nell’incendio del 25.07.1995, dopo la presentazione della domanda di condono, ma prima dell’eventuale rilascio della concessione in sanatoria
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.04.2012 n. 2450 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In base all’art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000, la non veridicità della dichiarazione sostitutiva presentata comporta la decadenza dai benefici eventualmente conseguiti, non lasciando tale disposizione alcun margine di discrezionalità alle Amministrazioni che si avvedano della non veridicità delle dichiarazioni.
Inoltre, l’art. 75, comma 1, del d.P.R. 28.12.2000, n. 445 prescinde, per la sua applicazione, dalla condizione soggettiva del dichiarante, attestandosi sul dato oggettivo della non veridicità, rispetto al quale sono irrilevanti il complesso delle giustificazioni addotte dal dichiarante.
In altre parole, la disposizione in esame non richiede alcuna valutazione circa il dolo o la grave colpa del dichiarante, poiché, se così fosse, verrebbe meno la ratio della disciplina che è volta a semplificare l’azione amministrativa, facendo leva sul principio di autoresponsabilità del dichiarante: il corollario che deve trarsi da tale constatazione è che la non veridicità di quanto autodichiarato rileva sotto un profilo oggettivo e conduce alla decadenza dei benefici ottenuti con l’autodichiarazione non veritiera, indipendentemente da ogni indagine dell’Amministrazione sull’elemento soggettivo del dichiarante, perché non vi sono particolari risvolti sanzionatori in giuoco, ma solo le necessità di spedita esecuzione della legge sottese al sistema della semplificazione.
L’accertamento dell’elemento soggettivo, peraltro, può essere rilevante sotto altri profili, ad es. per verificare la sussistenza di un eventuale reato di truffa (art. 640 del c.p.), ma non per applicare le conseguenze decadenziali legate alla non veridicità obiettiva della dichiarazione.
Pertanto, occorre ribadire che è irrilevante la disciplina di cui all’art. 48 del Codice appalti, in quanto la disposta esclusione è dipesa non dai fatti che all’epoca avevano dato luogo alla suddetta annotazione o dall’annotazione in sé, bensì dalla mancata dichiarazione ditale circostanza da parte del concorrente in gara.

La giurisprudenza amministrativa ha più volte rilevato che, in base all’art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000, la non veridicità della dichiarazione sostitutiva presentata comporta la decadenza dai benefici eventualmente conseguiti, non lasciando tale disposizione alcun margine di discrezionalità alle Amministrazioni che si avvedano della non veridicità delle dichiarazioni.
Inoltre, l’art. 75, comma 1, del d.P.R. 28.12.2000, n. 445 prescinde, per la sua applicazione, dalla condizione soggettiva del dichiarante, attestandosi sul dato oggettivo della non veridicità, rispetto al quale sono irrilevanti il complesso delle giustificazioni addotte dal dichiarante.
In altre parole, la disposizione in esame non richiede alcuna valutazione circa il dolo o la grave colpa del dichiarante, poiché, se così fosse, verrebbe meno la ratio della disciplina che è volta a semplificare l’azione amministrativa, facendo leva sul principio di autoresponsabilità del dichiarante: il corollario che deve trarsi da tale constatazione è che la non veridicità di quanto autodichiarato rileva sotto un profilo oggettivo e conduce alla decadenza dei benefici ottenuti con l’autodichiarazione non veritiera, indipendentemente da ogni indagine dell’Amministrazione sull’elemento soggettivo del dichiarante, perché non vi sono particolari risvolti sanzionatori in giuoco, ma solo le necessità di spedita esecuzione della legge sottese al sistema della semplificazione.
L’accertamento dell’elemento soggettivo, peraltro, può essere rilevante sotto altri profili, ad es. per verificare la sussistenza di un eventuale reato di truffa (art. 640 del c.p.), ma non per applicare le conseguenze decadenziali legate alla non veridicità obiettiva della dichiarazione.
Pertanto, occorre ribadire che è irrilevante la disciplina di cui all’art. 48 del Codice appalti, in quanto la disposta esclusione è dipesa non dai fatti che all’epoca avevano dato luogo alla suddetta annotazione o dall’annotazione in sé, bensì dalla mancata dichiarazione ditale circostanza da parte del concorrente in gara.
Nella specie, è pacifico e risulta documentalmente dall’annotazione iscritta presso l’Osservatorio in data 19.11.2009, che il Consiglio dell’Autorità per la Vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, con decisione dell'08.10.2009, n. 126, ha disposto che l’operatore economico Politecnica Ingegneria e Architettura Soc. Coop. è sospeso per un mese dalla partecipazione alle procedure di affidamento dalla data di iscrizione della presente annotazione nel Casellario informatico.
Pertanto, l’attuale appellante aveva l’onere e l’obbligo di dichiarare la sanzione irrogata che decorreva non dalla data di commissione dell’illecito, bensì da quella di annotazione nel casellario.
Infatti, la data da cui decorre il periodo di un anno antecedente la data di pubblicazione del bando di gara in cui è necessario che le imprese non abbiano reso false dichiarazioni in merito ai requisiti e alle condizioni rilevanti per la partecipazione alle procedure di gara, richiamato dall’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006, coincide con quella di iscrizione nel casellario delle notizie riguardanti le false dichiarazioni, venendo sorretta la suddetta esigenza di certezza altresì dalla lettura della disposizione, che pur in apparenza facendo riferimento al mero fatto storico delle dichiarazioni mendaci, immediatamente precisa che deve trattarsi in ogni caso di dichiarazioni risultanti dai dati in possesso dell’Osservatorio (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.04.2012 n. 2447 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: Geologi, competenze univoche.
I percorsi professionali di geologi, ingegneri e architetti non sono totalmente equiparabili. Così, per assegnare un incarico dirigenziale in un ambito specifico di una delle tre professioni non si può non tenere conto della differente preparazione e competenza.

Lo ha stabilito il TAR Lazio-Roma, Sez. III, con la sentenza 26.04.2012 n. 3757, annullando la circolare del ministero delle infrastrutture e dei trasporti (presidenza del Consiglio superiore dei lavori pubblici n. 7618/Stc dell'08.09.2010), recante i «Criteri per il rilascio dell'autorizzazione ai laboratori per l'esecuzione e certificazione di prove su terre e rocce di cui all'art. 59 del dpr n. 380/2001».
In particolare, il Tar ha accolto parzialmente il ricorso presentato, tra gli altri, dal Consiglio nazionale dei geologi, guidato da Gian Vito Graziano, contestando la circolare nella parte in cui prevedeva, per il direttore di tali laboratori, indifferentemente il possesso della laurea in geologia, ingegneria e architettura. Questo perché, secondo i giudici, sia la legge n. 112/1963 (Disposizioni per la tutela del titolo e della professione di geologo), sia il dpr n. 328/2001, indicano tali prove come specifiche dell'attività del geologo. «Invece», prosegue la sentenza, «tali attività, non figurano rispetto alla disciplina degli architetti (art. 16 dpr 328/2001) e solo in parte per gli ingeneri (art. 46 dpr 328/2001 che fa riferimento alle opere geotecniche solo per l'ingegneria civile)».
Lo stesso Tribunale, comunica il Cng in una nota, con la sentenza n. 3761/2012 ha annullato anche la circolare del ministero delle infrastrutture e dei trasporti, recante i Criteri per il rilascio dell'autorizzazione ai laboratori per l'esecuzione e certificazione di indagini geognostiche, prelievo di campioni e prove in sito di cui all'art. 59 del dpr n. 380/2001, «ritenendo che l'art. 59 del dpr 380/2001 e le norme tecniche per le costruzioni si riferiscono alle indagini e prove geotecniche, ma non alle indagini geognostiche, al prelievo di campioni e alle prove in sito» (articolo ItaliaOggi del 28.04.2012).

ATTI AMMINISTRATIVIIn presenza di una motivazione “per relationem” basta che l'interessato sia posto in condizione di conoscere gli atti dai quali emergono i presupposti di fatto e di diritto della determinazione assunta, mentre non occorre l'allegazione da parte dell'Amministrazione dei singoli documenti istruttori sottesi al provvedimento.
In presenza di una motivazione “per relationem”, come nel caso di specie, basta che l'interessato sia posto in condizione di conoscere gli atti dai quali emergono i presupposti di fatto e di diritto della determinazione assunta, mentre non occorre l'allegazione da parte dell'Amministrazione dei singoli documenti istruttori sottesi al provvedimento (TAR Lombardia, Milano, Sez. III, 29.04.2009 n. 3595) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 26.04.2012 n. 1231 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIPer "Documento unico di regolarità contributiva" (d.u.r.c.) si intende il certificato che attesta contestualmente la regolarità di un operatore economico per quanto concerne i versamenti dovuti a INPS, INAIL, nonché Cassa Edile per i lavori dell’edilizia, verificati sulla base della rispettiva normativa di riferimento.
L’articolo 16-bis, comma 10, decreto legge n. 185/2008, così come modificato dalla legge di conversione n. 2/2009, stabilisce che le Stazioni appaltanti acquisiscono d’ufficio il DURC, anche attraverso gli strumenti informatici, dagli istituti o dagli enti abilitati al rilascio in tutti i casi in cui è richiesto dalla legge.
Muovendo da tale presupposto, la giurisprudenza ha chiarito che, ai sensi dell'art. 16-bis, comma 10, d.l. 29.11.2008 n. 185, conv. nella l. 28.01.2009 n. 2, il procedimento di rilascio del DURC è stato semplificato attraverso l'introduzione dell'obbligo in capo alle stazioni appaltanti pubbliche di acquisirlo d'ufficio, anche attraverso strumenti informatici, dagli istituti o dagli enti abilitati al rilascio in tutti i casi in cui è richiesto dalla legge, sicché l'obbligo (illegittimo) fissato dal bando di gara di produrre il d.u.r.c. va ritenuto assorbito dalla generica dichiarazione di essere in regola con le norme in materia di contributi previdenziali ed assistenziali, ferma restando la richiamata acquisizione d'ufficio che la stazione appaltante potrà disporre.
Ciò detto, i rilievi mossi da parte ricorrente si appalesano infondati:
- sotto il primo profilo, perché il d.m. 24.10.2007 ha finito per disciplinare il d.u.r.c. in termini generali, quale che sia lo scopo per cui il d.u.r.c. è richiesto, compreso il d.u.r.c. necessario per l'affidamento di appalti pubblici, indipendentemente dalla circostanza che l'art. 1 continui a distinguere le varie ipotesi, stabilendo che "il possesso del Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC) è richiesto ai datori di lavoro ai fini della fruizione dei benefici normativi e contributivi in materia di lavoro e legislazione sociale previsti dall'ordinamento nonché ai fini della fruizione dei benefici e sovvenzioni previsti dalla disciplina comunitaria" ed invece "ai sensi della vigente normativa il DURC è inoltre richiesto ai datori di lavoro ed ai lavoratori autonomi nell'ambito delle procedure di appalto di opere, servizi e forniture pubblici e nei lavori privati dell'edilizia".

L’art. 16-bis, comma 10, del D.L. n. 185/2008 (Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale), inserito dalla legge di conversione n. 2/2009, così recita: “In attuazione dei principi stabiliti dall'articolo 18, comma 2, della legge 07.08.1990, n. 241 e successive modificazioni, e dall'articolo 43, comma 5, del testo unico delle disposizioni legislative e rego-lamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445, le stazioni appaltanti pubbliche acquisiscono d'ufficio, anche attraverso strumenti informatici, il documento unico di regolarità contributiva (DURC) dagli istituti o dagli enti abilitati al rilascio in tutti i casi in cui è richiesto dalla legge”.
La disposizione in questione si applica anche in Sicilia, in quanto costituisce applicazione della Legge 241/1990, per come recepita nella Regione con legge reg. n. 10/1991 (cfr. Tar Palermo, Ord. n. 1036 del 2009).
Quindi, essendo comunque onere della Stazione appaltante acquisire d’ufficio il DURC, i rilievi di inidoneità non assumono valore nel senso evidenziato da parte ricorrente.
Sul punto cfr. Tar Catania n. 116 del 2012 che il Collegio condivide e fa propria e che così recita:
<<Quanto al primo motivo di ricorso (con il quale si sostiene che il DURC prodotto in gara dalla aggiudicataria, oltre ad essere incompleto per la dicitura che l’INPS “non si è pronunciato”, sarebbe irregolare sotto il profilo della tipologia per la quale è stato richiesto, cioè “ per agevolazioni, finanziamenti, sovvenzioni e agevolazioni”), il Collegio lo ritiene infondato.
Per "Documento unico di regolarità contributiva" (d.u.r.c.) si intende il certificato che attesta contestualmente la regolarità di un operatore economico per quanto concerne i versamenti dovuti a INPS, INAIL, nonché Cassa Edile per i lavori dell’edilizia, verificati sulla base della rispettiva normativa di riferimento.
L’articolo 16-bis, comma 10, decreto legge n. 185/2008, così come modificato dalla legge di conversione n. 2/2009, stabilisce che le Stazioni appaltanti acquisiscono d’ufficio il DURC, anche attraverso gli strumenti informatici, dagli istituti o dagli enti abilitati al rilascio in tutti i casi in cui è richiesto dalla legge.
Muovendo da tale presupposto, la giurisprudenza ha chiarito che, ai sensi dell'art. 16-bis, comma 10, d.l. 29.11.2008 n. 185, conv. nella l. 28.01.2009 n. 2, il procedimento di rilascio del DURC è stato semplificato attraverso l'introduzione dell'obbligo in capo alle stazioni appaltanti pubbliche di acquisirlo d'ufficio, anche attraverso strumenti informatici, dagli istituti o dagli enti abilitati al rilascio in tutti i casi in cui è richiesto dalla legge, sicché l'obbligo (illegittimo) fissato dal bando di gara di produrre il d.u.r.c. va ritenuto assorbito dalla generica dichiarazione di essere in regola con le norme in materia di contributi previdenziali ed assistenziali, ferma restando la richiamata acquisizione d'ufficio che la stazione appaltante potrà disporre (TAR Sicilia Palermo, sez. III, 26.10.2010 , n. 13564).
Ciò detto, i rilievi mossi da parte ricorrente si appalesano infondati:
- sotto il primo profilo, perché il d.m. 24.10.2007 ha finito per disciplinare il d.u.r.c. in termini generali, quale che sia lo scopo per cui il d.u.r.c. è richiesto, compreso il d.u.r.c. necessario per l'affidamento di appalti pubblici, indipendentemente dalla circostanza che l'art. 1 continui a distinguere le varie ipotesi, stabilendo che "il possesso del Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC) è richiesto ai datori di lavoro ai fini della fruizione dei benefici normativi e contributivi in materia di lavoro e legislazione sociale previsti dall'ordinamento nonché ai fini della fruizione dei benefici e sovvenzioni previsti dalla disciplina comunitaria" ed invece "ai sensi della vigente normativa il DURC è inoltre richiesto ai datori di lavoro ed ai lavoratori autonomi nell'ambito delle procedure di appalto di opere, servizi e forniture pubblici e nei lavori privati dell'edilizia" (in termini, TAR Calabria Reggio Calabria, 23.03.2010, n. 291)
>> (TAR Sicilia-Catania, Sez. IV, sentenza 26.04.2012 n. 1158 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAnche nei rapporti di lavoro "privatizzati" alle dipendenze di pubblica amministrazione, il recesso del datore di lavoro nel corso del periodo di prova ha natura discrezionale e dispensa dall'onere di provarne la giustificazione (altrimenti sarebbe equiparato ad un recesso assoggettato alla L. n. 604 del 1966), fermo restando che l'esercizio del potere di recesso deve essere coerente con la causa del patto di prova, che consiste nel consentire alle parti del rapporto di lavoro di verificarne la reciproca convenienza.
Non sarebbe, pertanto, configurabile un esito negativo della prova ed un valido recesso qualora le modalità dell'esperimento non risultassero adeguate ad accertare la capacità lavorativa del prestatore in prova, ovvero risultasse il perseguimento di finalità discriminatorie o altrimenti illecite, ma è sul lavoratore che incombe l'onere di dimostrare la contraddizione tra recesso e funzione dell'esperimento.
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In tema di obbligo di motivare il recesso in periodo di prova, contrattualmente previsto, con specifico riferimento al lavoro pubblico la giurisprudenza della Corte di Cassazione ammette la verificabilità giudiziale della coerenza delle ragioni del recesso rispetto, da un lato, alla finalità della prova e, dall'altro, all'effettivo andamento della prova stessa, ma senza che resti escluso il potere di valutazione discrezionale dell'amministrazione datrice di lavoro, non potendo omologarsi la giustificazione del recesso per mancato superamento della prova a quella della giustificazione del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, dovendosi, di conseguenza, escludere che l'obbligo di motivazione possa spostare l'onere della prova sul datore di lavoro.

... il ricorso è infondato e, pertanto, va rigettato.
Il ricorrente deduce l’illegittimità del recesso dell’Amministrazione durante il periodo di prova. In tema di periodo di prova nel settore del pubblico impiego la Corte Costituzionale ha precisato che l'art. 2096 c.c., ed i principi elaborati dalla giurisprudenza sulla base di detta norma, non sono applicabili allo "speciale" (vedi Corte Costituzionale, decisioni n. 313/1996; 309/1997, 89/2003, 199/2003) rapporto di lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni, risultando l'istituto della prova regolato da diverse, specifiche, disposizioni, secondo la salvezza formulata dal D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, art. 2, comma 2.
In tema di disciplina applicabile ratione temporis al rapporto di lavoro pubblico in argomento l'art. 17 del D.P.R. 09.05.1994, n. 487, peraltro richiamato dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 70, in tema di "assunzioni in servizio", prevede che i candidati dichiarati vincitori sono invitati, a mezzo assicurata convenzionale, ad assumere servizio in via provvisoria, sotto riserva di accertamento del possesso dei requisiti prescritti per la nomina e sono assunti in prova nel profilo professionale di qualifica o categoria per il quale risultano vincitori. La durata del periodo di prova è differenziata in ragione della complessità delle prestazioni professionali richieste e sarà definita in sede di contrattazione collettiva. I provvedimenti di nomina in prova sono immediatamente esecutivi.
La regola è poi ripetuta dall'art. 28, comma 1, con riguardo alle assunzioni degli avviati al lavoro dagli uffici di collocamento: le amministrazioni e gli enti interessati procedono a nominare in prova e ad immettere in servizio i lavoratori utilmente selezionati, anche singolarmente o per scaglioni, nel rispetto dell'ordine di avviamento e di graduatoria integrata. Come ha chiarito la giurisprudenza di legittimità (cfr., Cass., Sez. I, Sentenza n. 21586 del 2008) "il richiamato quadro normativo rende evidente che tutte le assunzioni alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche sono assoggettate all'esito positivo di un periodo di prova, e ciò avviene ex lege e non per effetto di patto inserito nel contratto di lavoro dall'autonomia contrattuale".
L'autonomia contrattuale è abilitata esclusivamente alla determinazione della durata del periodo di prova, ma tale abilitazione è data dalle norme esclusivamente alla contrattazione collettiva, restando escluso che il contratto individuale possa discostarsene (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 3). Ed anche questa regolamentazione conduce ad escludere che il contratto individuale possa validamente stabilire i contenuti del patto di prova. Coerentemente con tale quadro normativo l'art. 4 del contratto di lavoro stipulato tra le parti prevede che "la stabilità del rapporto di lavoro è subordinata al positivo superamento del periodo di prova della durata di sei mesi di lavoro effettivo dalla data di assunzione. Il periodo di prova è regolato dalla disciplina specifica contenuta nei Contratti Collettivi Nazionali vigenti". L'art. 14, co. 5, del CCNL prevede che decorso la metà del periodo di prova ciascuna delle parti può recedere in qualsiasi momento senza obbligo di preavviso né di indennità sostitutiva del preavviso.
Così delineata la cornice normativa applicabile al caso di specie, va condivisa l'impostazione ermeneutica seguita dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, secondo cui "anche nei rapporti di lavoro "privatizzati" alle dipendenze di pubblica amministrazione, il recesso del datore di lavoro nel corso del periodo di prova ha natura discrezionale e dispensa dall'onere di provarne la giustificazione (altrimenti sarebbe equiparato ad un recesso assoggettato alla L. n. 604 del 1966), fermo restando che l'esercizio del potere di recesso deve essere coerente con la causa del patto di prova, che consiste nel consentire alle parti del rapporto di lavoro di verificarne la reciproca convenienza.
Non sarebbe, pertanto, configurabile un esito negativo della prova ed un valido recesso qualora le modalità dell'esperimento non risultassero adeguate ad accertare la capacità lavorativa del prestatore in prova, ovvero risultasse il perseguimento di finalità discriminatorie o altrimenti illecite, ma è sul lavoratore che incombe l'onere di dimostrare la contraddizione tra recesso e funzione dell'esperimento
" (vedi Cass. 13.09.2006, n. 19558).
In tema, poi, di obbligo di motivare il recesso in periodo di prova, contrattualmente previsto (nella specie, dal contratto collettivo di comparto), con specifico riferimento al lavoro pubblico la giurisprudenza della Corte di Cassazione ammette la verificabilità giudiziale della coerenza delle ragioni del recesso rispetto, da un lato, alla finalità della prova e, dall'altro, all'effettivo andamento della prova stessa, ma senza che resti escluso il potere di valutazione discrezionale dell'amministrazione datrice di lavoro, non potendo omologarsi la giustificazione del recesso per mancato superamento della prova a quella della giustificazione del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, dovendosi, di conseguenza, escludere che l'obbligo di motivazione possa spostare l'onere della prova sul datore di lavoro (Cass. 05.11.2007, n. 23061; 08.01.2008, n. 143).
Alla luce di tale impostazione ermeneutica va esaminata la legittimità del recesso dell'Amministrazione.
L'Amministrazione in base al CCNL e al contratto di lavoro stipulato con il ricorrente poteva recedere decorso la metà del periodo di prova stabilito e, quindi, considerato che il periodo di prova era stato fissato in sei mesi, il recesso era consentito dal 22.06.1997. L'Amministrazione ha, invece, esercitato la facoltà di recesso tredici giorni prima la scadenza del periodo massimo di prova (il 09.09.1997). Il ricorrente ha contestato la legittimità del recesso, deducendo di aver lavorato proficuamente nell’amministrazione e che, in ogni caso, era stato adibito ad un settore diverso da quello per il quale era stato assunto.
Quanto a quest’ultimo profilo, il ricorrente è stato assegnato ad un settore diverso in base a sua richiesta e in linea con l’art. 3 del contratto individuale di lavoro, il quale prevede che il contratto individuale di lavoro è assoggettato ai criteri di massima mobilità e flessibilità. Il citato motivo di doglianza è, pertanto, infondato, anche perché il lavoratore è stato, comunque, assegnato ad un settore compatibile con il suo profilo professionale.
Riguardo, invece, alla dedotta illegittimità e mancata motivazione del recesso, lo stesso è stato determinato sulla base della relazione del coordinatore del Settore Gestione Territorio e Ambiente del 05.08.1997, che ha evidenziato la “carenza di esperienza e formazione non pienamente compatibile col ruolo ricoperto” e “carenza propositiva ed incapacità di partecipazione attiva alla gestione delle problematiche ordinarie e straordinarie”. Inoltre, “nel periodo trascorso non si è notato nessun miglioramento significativo nonostante gli indirizzi e gli stimoli, anche energici”, e si è riscontrata “un’incapacità di fornire soluzioni e indirizzi anche a problemi ordinari”.
Tali argomentazioni dimostrano che il recesso dell’Amministrazione è stato ampiamente motivato e, pertanto, lo stesso è stato legittimamente operato. Non può, del resto, essere sottaciuto che il periodo di prova concesso al ricorrente era adeguato per verificare l’idoneità dello stesso per le mansioni a lui attribuite; inoltre, è sintomatica in tal senso anche la diffida che l’amministrazione ha presentato in data 16.06.1997 nei confronti del lavoratore, da cui emerge che nonostante una dotazione di addetti più che sufficiente non corrisponde da parte del ricorrente un’adeguata risposta operativa.
Ne deriva che il recesso dell’Amministrazione è stato legittimamente effettuato, anche in considerazione dell’irrinunciabile discrezionalità che spetta in tale ambito all’Amministrazione e che non consente a questa A.G. un sindacato intrinseco sull’attività dell’Amministrazione. Il ricorso, pertanto, va rigettato (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 24.04.2012 n. 1210 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOLe mansioni già qualificate come dirigenziali nell’ordinamento precedente non sono automaticamente equiparabili alle mansioni che caratterizzano lo status dirigenziale configurato dal decreto legislativo 29/1993 (e divenuto operativo con l’applicazione del contratto collettivo per la separata area dirigenziale); pertanto, il fatto in sé della prosecuzione delle attività svolte in precedenza non comprova automaticamente la natura dirigenziale delle mansioni stesse, nel nuovo contesto definito dal decreto legislativo 29/1993 e dal contratto collettivo.
Ed invero, lo status impiegatizio-funzionariale e quello dirigenziale assumono ora connotati di sensibile diversificazione (ulteriore rispetto al precedente discrimine di solo tipo funzionale), soprattutto con riguardo al nuovo regime delle responsabilità e della cessazione del rapporto di lavoro.
Particolare riguardo va dato all’accertamento del risultato della gestione dirigenziale di cui all’articolo 20, comma 9, del decreto legislativo 29/1993, atteso che l’eventuale esito negativo costituisce giusta causa di recesso, anche ai sensi dell’art. 27, comma 4, del contratto collettivo.
Si tratta di un sistema sanzionatorio del tutto estraneo all’area non dirigenziale dei funzionari, sottoposti invece alle ordinarie e consuete regole disciplinari.
Sono sufficienti questi elementi per comprendere che l’effettività della funzione dirigenziale non può (ora) prescindere dal possesso della relativa qualifica, poiché –diversamente opinando- mancherebbero nello svolgimento di tale funzione (quantomeno) gli essenziali connotati di responsabilità. Il funzionario incaricato verrebbe così a percepire una retribuzione di risultato, senza tuttavia rischiare in alcun modo –nei casi di insufficiente rendimento- la cessazione del rapporto di lavoro (ma al più, il solo rientro nella ordinaria mansione di provenienza).
Pertanto, anche nei casi in cui i dipendenti avessero mantenuto il mansionario “superiore” che era stato loro a suo tempo conferito, non si tratterebbe più di funzione dirigenziale, ma semmai di parziale esercizio di mansione superiore, fattispecie disciplinata dall’art. 55, comma 4, del decreto legislativo 29/1993, secondo cui “non costituisce esercizio di mansioni superiori l’attribuzione di alcuni soltanto dei compiti propri delle mansioni stesse disposta ai sensi dell’art. 56, comma 2 (il quale, a sua volta, prevede che “il dipendente può essere adibito a svolgere compiti specifici non prevalenti della qualifica superiore”).

Con il presente ricorso gli istanti (unitamente ad altri soggetti i cui ricorsi sono stati dichiarati perenti con decreto presidenziale n. 484/2011 del 13.04.2011), funzionari di VIII livello, assumendo di aver espletato mansioni dirigenziali, impugnano la deliberazione indicata in epigrafe, avente ad oggetto la prima fase applicativa del C.C.N.L. per il personale dirigente e la conseguente cessazione degli incarichi di svolgimento delle mansioni superiori, chiedendo il conseguente riconoscimento del diritto alla retribuzione di posizione e la condanna dell’Amministrazione al suo pagamento, deducendo la violazione degli artt. 36 della Costituzione, 2126 c.c., 57 d.lgs. n. 29/1993 e 36 e 40 C.C.N.L. per il personale dirigenziale del comparto Regioni-Autonomie locali, oltre all’eccesso di potere per assoluto difetto di motivazione e disparità di trattamento.
...
Il collegio ritiene di assorbire l’eccezione preliminare di irricevibilità del ricorso in considerazione dell’infondatezza nel merito del medesimo, come risulta dalla costante giurisprudenza, anche di questo Tribunale, alla quale il collegio si riporta.
In particolare, è stato affermato che: “le mansioni già qualificate come dirigenziali nell’ordinamento precedente non sono automaticamente equiparabili alle mansioni che caratterizzano lo status dirigenziale configurato dal decreto legislativo 29/1993 (e divenuto operativo con l’applicazione del contratto collettivo per la separata area dirigenziale); pertanto, il fatto in sé della prosecuzione delle attività svolte in precedenza non comprova automaticamente la natura dirigenziale delle mansioni stesse, nel nuovo contesto definito dal decreto legislativo 29/1993 e dal contratto collettivo.
Ed invero, lo status impiegatizio-funzionariale e quello dirigenziale assumono ora connotati di sensibile diversificazione (ulteriore rispetto al precedente discrimine di solo tipo funzionale), soprattutto con riguardo al nuovo regime delle responsabilità e della cessazione del rapporto di lavoro.
Particolare riguardo va dato all’accertamento del risultato della gestione dirigenziale di cui all’articolo 20, comma 9, del decreto legislativo 29/1993, atteso che l’eventuale esito negativo costituisce giusta causa di recesso, anche ai sensi dell’art. 27, comma 4, del contratto collettivo.
Si tratta di un sistema sanzionatorio del tutto estraneo all’area non dirigenziale dei funzionari, sottoposti invece alle ordinarie e consuete regole disciplinari.
Sono sufficienti questi elementi per comprendere che l’effettività della funzione dirigenziale non può (ora) prescindere dal possesso della relativa qualifica, poiché –diversamente opinando- mancherebbero nello svolgimento di tale funzione (quantomeno) gli essenziali connotati di responsabilità. Il funzionario incaricato verrebbe così a percepire una retribuzione di risultato, senza tuttavia rischiare in alcun modo –nei casi di insufficiente rendimento- la cessazione del rapporto di lavoro (ma al più, il solo rientro nella ordinaria mansione di provenienza).
Pertanto, anche nei casi in cui i dipendenti avessero mantenuto il mansionario “superiore” che era stato loro a suo tempo conferito, non si tratterebbe più di funzione dirigenziale, ma semmai di parziale esercizio di mansione superiore, fattispecie disciplinata dall’art. 55, comma 4, del decreto legislativo 29/1993, secondo cui “non costituisce esercizio di mansioni superiori l’attribuzione di alcuni soltanto dei compiti propri delle mansioni stesse disposta ai sensi dell’art. 56, comma 2 (il quale, a sua volta, prevede che “il dipendente può essere adibito a svolgere compiti specifici non prevalenti della qualifica superiore”) (TAR Lombardia, sez. II, n. 4326/1999)
” (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 24.04.2012 n. 1207 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL’art. 46, comma 1-bis, del D.Lgs. 163/2006 stabilisce che “la stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte; i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione. Dette prescrizioni sono comunque nulle.”
Se ne desume che la stazione appaltante non può con gli atti di gara costituire nuove cause di esclusione, rispetto a quelle previste dalla vigente normativa.
La norma ha, poi, esteso il cosiddetto potere di soccorso, stabilendo che ogni vizio della documentazione è sanabile se non confligge con una norma specifica o con gli interessi espressamente considerati dalla norma, tra i quali non rientra la par condicio formale invocata dalla ricorrente incidentale.
L’art. 38, comma 1, inoltre, sanziona con l’esclusione l’effettivo difetto dei requisiti ivi indicati da parte dei concorrenti; al contrario il successivo comma 2, in punto di relative dichiarazioni, non prevede, in caso di inosservanza, il medesimo effetto, con la conseguenza che la mancanza delle dichiarazioni può essere sanata con la successiva richiesta da parte della stazione appaltante. Né in contrario può valere la distinzione tra integrazione e regolarizzazione delle dichiarazioni alla quale si ispirava la precedente giurisprudenza in materia di soccorso procedimentale, stante l’avvenuto ampliamento di tale compito dell’amministrazione ad opera della legge, sempre meno incline a valutazioni meramente formalistiche.
Infine, non possono diversamente provvedere gli atti di gara, escludendo la norma espressamente che i bandi e le lettere di invito possano contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione, che in tal caso sono comunque nulle.

Occorre rilevare che l’Amministrazione si è autovincolata all’osservanza della normativa recata dal d.lgs. n. 163 del 2006, in punto di cause di esclusione, con ciò dovendosi applicare sia l’art. 38, sia l’art. 46 in materia di obbligo di soccorso.
L’art. 46, comma 1-bis, del D.Lgs. 163/2006, applicabile ratione temporis alla fattispecie, stabilisce che “la stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte; i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione. Dette prescrizioni sono comunque nulle.”
Se ne desume che la stazione appaltante non può con gli atti di gara costituire nuove cause di esclusione, rispetto a quelle previste dalla vigente normativa.
La norma ha, poi, esteso il cosiddetto potere di soccorso, stabilendo che ogni vizio della documentazione è sanabile se non confligge con una norma specifica o con gli interessi espressamente considerati dalla norma, tra i quali non rientra la par condicio formale invocata dalla ricorrente incidentale.
L’art. 38, comma 1, inoltre, sanziona con l’esclusione l’effettivo difetto dei requisiti ivi indicati da parte dei concorrenti; al contrario il successivo comma 2, in punto di relative dichiarazioni, non prevede, in caso di inosservanza, il medesimo effetto, con la conseguenza che la mancanza delle dichiarazioni può essere sanata con la successiva richiesta da parte della stazione appaltante. Né in contrario può valere la distinzione tra integrazione e regolarizzazione delle dichiarazioni alla quale si ispirava la precedente giurisprudenza in materia di soccorso procedimentale (es. Cons. Stato, V, 06.03.2006, n. 1068), stante l’avvenuto ampliamento di tale compito dell’amministrazione ad opera della legge, sempre meno incline a valutazioni meramente formalistiche.
Infine, non possono diversamente provvedere gli atti di gara, escludendo la norma espressamente che i bandi e le lettere di invito possano contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione, che in tal caso sono comunque nulle (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 24.04.2012 n. 1204 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn tema di abuso edilizio vale il principio dell’ambulatorietà dell’obbligo di ripristino dello status quo ante, in caso di riscontro dell’esistenza di opere non assentite.
Infatti, l’ordine di demolizione e gli altri provvedimenti repressivi devono essere rivolti nei confronti di chi abbia la disponibilità dell’opera, indipendentemente dal fatto che l’abbia concretamente realizzata, considerato che l'abuso edilizio costituisce illecito permanente e che l'ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio e non prevede l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la trasgressione.

- rilevato che l’odierno ricorso nasce dall’impugnazione di un ordine di demolizione in seguito alla realizzazione di opere edilizie realizzate in difformità rispetto alla DIA n. 29/2005;
- rilevato che i motivi di doglianza proposti dal ricorrente non mettono in discussione la presenza degli abusi riscontrati dall’amministrazione;
- rilevato che tutte le censure mosse al provvedimento impugnato valorizzano, esclusivamente, il profilo dell’estraneità dell’esponente alla realizzazione degli abusi contestati con l’ordinanza di cui si discute;
- rilevato, infatti, che l’esponente ha dedotto di non essere proprietario, né locatore, né usufruttuario dell’unità immobiliare per cui è causa, né di averla detenuta ad alcun titolo al momento della realizzazione degli abusi in esame;
- rilevato che, l’attività sanzionatoria demandata in materia edilizia alla p.a. ha carattere vincolato;
- rilevato inoltre che, in tema di abuso edilizio, vale il principio dell’ambulatorietà dell’obbligo di ripristino dello status quo ante, in caso di riscontro dell’esistenza di opere non assentite;
- rilevato, infatti, che l’ordine di demolizione e gli altri provvedimenti repressivi devono essere rivolti nei confronti di chi abbia la disponibilità dell’opera, indipendentemente dal fatto che l’abbia concretamente realizzata, considerato che l'abuso edilizio costituisce illecito permanente e che l'ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio e non prevede l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la trasgressione (TAR Lazio– Roma, Sez. I-quater 26.03.2012 n. 2830);
- rilevato, sulla scorta delle considerazioni sopra esposte, che appaiono infondati i motivi su cui è basato il presente ricorso ... (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.04.2012 n. 1196 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’atto di asservimento dei suoli comporta la cessione di cubatura tra fondi contigui ed è funzionale ad accrescere la potenzialità edilizia di un’area per mezzo dell’utilizzo della cubatura realizzabile in una particella contigua e del conseguente computo anche della superficie di quest’ultima, ai fini della verifica del rispetto dell’indice di fabbricabilità fondiaria.
Dal punto di vista urbanistico, i caratteri e gli effetti dell'asservimento sono stati precisati dalla giurisprudenza nel senso che i fondi non debbono necessariamente essere adiacenti, potendo la computabilità di più particelle intendersi nel senso dell’effettiva e significativa vicinanza tra i fondi asserviti per raggiungere la cubatura desiderata.
E’ stato, inoltre, ritenuto ammissibile l'asservimento, allo scopo di raggiungere una più consistente volumetria edificabile, di un'area ad un'altra, ancorché tra i due fondi si interpongano una strada o un fosso di scolo delle acque.
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Una questione molto dibattuta è quella della cd “sterilizzazione” delle potenzialità edificatorie dei terreni a seguito della modificazione della pianificazione urbanistica.
Da una parte si è ritenuto che l'asservimento di un terreno per realizzare una costruzione non rende lo stesso definitivamente inedificabile anche per il futuro, poiché la destinazione ed utilizzazione delle aree rappresenta, un dato dinamico ed evolutivo, potendo mutare nel tempo l'indice fondiario, nonché la stessa previsione di lotti minimi, per cui la potenzialità edificatoria di un terreno va necessariamente valutata ed esaminata alla stregua della modificazione della pianificazione urbanistica e della normativa sopravvenuta; dall’altra parte, il Consiglio di Stato ha recentemente negato (sentenza n. 4134/2011) la possibilità, per le aree asservite, di esprimere ulteriore capacità edificatoria in caso di variante del P.R.G. migliorativa degli indici di fabbricabilità.
Va comunque evidenziato come il dato comune che caratterizza l’istituto dell’asservimento va rinvenuto nella sostanziale neutralità per il Comune, ai fini del corretto sviluppo della densità edilizia per come configurato negli atti pianificatori, della materiale collocazione dei fabbricati, giacché per il rispetto dell'indice di fabbricabilità fondiaria, assume esclusiva rilevanza il fatto che il rapporto tra area edificabile e volumetria realizzabile nella zona di riferimento resti nei limiti fissati dal piano, risultando del tutto indifferente, l’effettiva l'ubicazione degli edifici all'interno del comparto, fatti salvi, ovviamente, il rispetto delle distanze e di eventuali prescrizioni sulla superficie minima dei lotti.
Ora proprio lo stretto e inscindibile legame tra atti di asservimento e rispetto delle prescrizioni della normativa urbanistica, quale espressione del governo e della pianificazione del territorio comunale induce a ritenere non ammissibili -ai fini del rilascio di provvedimenti autorizzativi in materia edilizia- atti di asservimento tra terreni ubicati in comuni diversi. Sul punto il Collegio condivide quanto espresso dal Dipartimento Regionale urbanistica nel parere del 15/04/2011 laddove ritiene non ammissibile l’asservimento tra aree ubicate in Comuni di versi poiché “il rilascio della concessione edilizia è consentito per l’esecuzione di qualsiasi attività comportante trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio comunale; ciò anche nel rispetto delle attribuzioni di responsabilità sulla gestione del territorio …”.

L’atto di asservimento dei suoli comporta la cessione di cubatura tra fondi contigui ed è funzionale ad accrescere la potenzialità edilizia di un’area per mezzo dell’utilizzo della cubatura realizzabile in una particella contigua e del conseguente computo anche della superficie di quest’ultima, ai fini della verifica del rispetto dell’indice di fabbricabilità fondiaria. Dal punto di vista urbanistico, i caratteri e gli effetti dell'asservimento sono stati precisati dalla giurisprudenza nel senso che i fondi non debbono necessariamente essere adiacenti, potendo la computabilità di più particelle intendersi nel senso dell’ effettiva e significativa vicinanza tra i fondi asserviti per raggiungere la cubatura desiderata (Cons. Stato, V, 30.10.2003 n. 6734 e 01.04.1998, n. 400). E’ stato, inoltre, ritenuto ammissibile l'asservimento, allo scopo di raggiungere una più consistente volumetria edificabile, di un'area ad un'altra, ancorché tra i due fondi si interpongano una strada o un fosso di scolo delle acque (Cons. Stato, Sezione V, 04.01.1993, n. 26).
Una questione molto dibattuta è quella della cd “sterilizzazione” delle potenzialità edificatorie dei terreni a seguito della modificazione della pianificazione urbanistica. Da una parte si è ritenuto che l'asservimento di un terreno per realizzare una costruzione non rende lo stesso definitivamente inedificabile anche per il futuro, poiché la destinazione ed utilizzazione delle aree rappresenta, un dato dinamico ed evolutivo, potendo mutare nel tempo l'indice fondiario, nonché la stessa previsione di lotti minimi, per cui la potenzialità edificatoria di un terreno va necessariamente valutata ed esaminata alla stregua della modificazione della pianificazione urbanistica e della normativa sopravvenuta (TAR Lazio, Roma, Sez. II-bis - 10.09.2010, n. 32217); dall’altra parte, il Consiglio di Stato ha recentemente negato (sentenza n. 4134/2011) la possibilità, per le aree asservite, di esprimere ulteriore capacità edificatoria in caso di variante del P.R.G. migliorativa degli indici di fabbricabilità.
Va comunque evidenziato come il dato comune che caratterizza l’istituto dell’asservimento va rinvenuto nella sostanziale neutralità per il Comune, ai fini del corretto sviluppo della densità edilizia per come configurato negli atti pianificatori, della materiale collocazione dei fabbricati, giacché per il rispetto dell'indice di fabbricabilità fondiaria, assume esclusiva rilevanza il fatto che il rapporto tra area edificabile e volumetria realizzabile nella zona di riferimento resti nei limiti fissati dal piano, risultando del tutto indifferente, l’effettiva l'ubicazione degli edifici all'interno del comparto, fatti salvi, ovviamente, il rispetto delle distanze e di eventuali prescrizioni sulla superficie minima dei lotti.
Ora proprio lo stretto e inscindibile legame tra atti di asservimento e rispetto delle prescrizioni della normativa urbanistica, quale espressione del governo e della pianificazione del territorio comunale induce a ritenere non ammissibili -ai fini del rilascio di provvedimenti autorizzativi in materia edilizia- atti di asservimento tra terreni ubicati in comuni diversi. Sul punto il Collegio condivide quanto espresso dal Dipartimento Regionale urbanistica nel parere del 15/04/2011 (parere che contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente si riferisce espressamente alla fattispecie in esame), laddove ritiene non ammissibile l’asservimento tra aree ubicate in Comuni di versi poiché “il rilascio della concessione edilizia è consentito per l’esecuzione di qualsiasi attività comportante trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio comunale; ciò anche nel rispetto delle attribuzioni di responsabilità sulla gestione del territorio …” (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 24.04.2012 n. 1129 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASulla prescrizione -o meno- di ogni diritto dell’amministrazione a richiedere somme integrative a distanza di oltre vent’anni dall’inoltro della domanda di sanatoria e dal pagamento dell’oblazione autoliquidata.
Il Collegio ritiene fondato il ricorso in base all’assorbente censura con la quale si deduce l’intervenuta prescrizione di ogni diritto dell’amministrazione a richiedere somme integrative a distanza di oltre vent’anni dall’inoltro della domanda di sanatoria e dal pagamento dell’oblazione autoliquidata.
In proposito, vanno in questa sede richiamate sinteticamente le disposizioni di legge che disciplinano la prescrizione delle pretese creditorie dei Comuni in tema di sanatoria edilizia: da un lato, è stato stabilito dall’art. 35, co. 12, della L. 47/1985 in trentasei mesi il termine di prescrizione “breve” per richiedere integrazioni o conguagli dell’oblazione; mentre, dall’altra parte, soggiace all’ordinario termine di prescrizione decennale il diritto dell’ente pubblico a richiedere eventuali maggiorazioni degli oneri concessori. Si richiama, sul punto, la seguente giurisprudenza, anche di questa Sezione: Tar Catania, I, 1633/2007, 1987/2007, 4363/2010 e 557/2011; Tar Trentino Alto Adige 234/2010; Tar Latina 1043/2009 e 1249/2008.
Il Collegio non ignora la più recente giurisprudenza del giudice d’appello (sentenza C.G.A. n. 320/2011) in base alla quale il termine di prescrizione breve (trentasei mesi) del diritto al conguaglio previsto dall’art. 35, co. 12, per la sanatoria disciplinata dalla L. 47/1985, non inizia a decorrere prima che la documentazione da allegare alla domanda sia completa.
Tuttavia, non può esser sottaciuto il fatto che nel caso di specie –a fronte di una domanda di sanatoria presentata dalla ricorrente nell’anno 1986– il Comune si sia attivato per esaminare l’istanza e richiedere integrazione dei documenti solo in data 16.12.2009, cioè a distanza di oltre ventitre anni. Ciò consente di affermare che, da una parte, ogni diritto ai conguagli richiesti sia definitivamente estinto per l’avvenuta decorrenza del termine ordinario di prescrizione decennale; né dall’altra parte potrebbe predicarsi una diversa soluzione, perché sarebbe contrario ad ogni principio buon andamento, efficienza e trasparenza dell’azione amministrativa consentire in ogni tempo –anche a distanza di molti anni- all’ente pubblico di formulare una tardiva richiesta di integrazione documentale, all’evidente fine di scongiurare il decorso di una prescrizione di fatto già ampiamente maturata. Si ritiene, in altri termini, che la richiesta proveniente dal Comune, avente ad oggetto l’integrazione della documentazione necessaria al rilascio della sanatoria edilizia, utile al fine di impedire il perfezionarsi della prescrizione breve del diritto al conguaglio dell’oblazione, non possa intervenire a distanza di oltre vent’anni, quando già ogni pretesa risulta comunque “coperta” dal decorso della prescrizione ordinaria decennale.
In conclusione, allora, possono dirsi pacificamente decorsi sia il termine breve di trentasei mesi che condiziona il conguaglio dell’oblazione, sia quello ordinario decennale che determina l’impossibilità giuridica di ridefinire gli oneri concessori. Le pretese del Comune resistente vanno in conclusione dichiarate prescritte, non rinvenendosi peraltro negli scritti difensivi alcuna confutazione in ordine all’eccepita prescrizione (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 24.04.2012 n. 1118 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn merito al versamento rateizzato degli oo.uu. e del costo di costruzione, le espressioni “a dodici mesi dal rilascio della concessione edilizia” ovvero, per la terza rata, “a diciotto mesi”, contenute nel titolo edilizio, vanno interpretate, ad avviso del Collegio, come recanti un termine iniziale decorrente dalla consegna del documento al destinatario dello stesso.
Militano in tal senso le seguenti ragioni:
a) la valenza lessicale ed eziologica del termine “rilascio”, che esprime dinamicamente una azione di passaggio e di trasmissione;
b) ovvie esigenze di certezza rinvenibili nell’elemento oggettivo dell’attestazione, congiunta, della data di trasmissione del documento all’obbligato, ben potendo, per le più svariate ragioni, l’atto de quo essere portato nella sfera di conoscibilità del destinatario –obbligato al pagamento- ben oltre la data della sua adozione–sottoscrizione da parte del Dirigente competente (cfr., in tema di decadenza della C.E. per omesso tempestivo inizio dei lavori, TAR Salerno, II, 05.04.2006 n. 435 e l’orientamento giurisprudenziale ivi richiamato, secondo il quale il relativo termine inizia a decorrere soltanto dal momento in cui il titolo abilitativo edilizio viene comunicato al destinatario);
c) in ogni caso, la detta clausola di cui ai punti 19 e 20 della C.E., ove si potesse ritenere di dubbio significato, andrebbe, secondo i principi desumibili dagli artt. 1369, 1370 e 1371 c.c., interpretata nel senso suindicato, sia perché discrezionalmente, in tale formulazione sintetica, predisposta ed inserita unilateralmente dall’Amministrazione e sia perché la normativa di settore prevede già, concretando un contemperamento delle esigenze delle parti, un notevole ristoro economico sotto forma di “penale”, in caso di consistente ritardo nel pagamento dei contributi afferenti al rilascio della concessione edilizia.

... per l'accertamento della non debenza delle sanzioni di € 3.340,30 e di € 22.268,61, menzionate nella nota del Dirigente dell’UTC –Area IV- Comune di Giarre- del 18.04.2008 prot. 2591 per il ritardato pagamento, rispettivamente della seconda e terza rata, afferente agli oneri di urbanizzazione e al costo di costruzione relativi alla concessione edilizia n. 2435 del 04.08.2006, cointestata ai ricorrenti, e per l’annullamento dei relativi provvedimenti e degli atti presupposti tra cui la citata nota del 18.04.2008 e quella del 17.01.2008, prot. 7256 del medesimo Dirigente dell’UTC - Area IV°;
...
Eccesso di potere per travisamento di fatto in ordine al dies a quo per il computo del termine di pagamento, con conseguente insussistenza di ritardo del pagamento della seconda rata e di un ritardo di soli giorni venti nel pagamento della terza, che avrebbe comportato la minore sanzione del doppio degli interessi legali di cui alla lett. b) dell’art. 50 L.R. n. 71/1978.
...
Quarta censura –subordinatamente proposta-
Le espressioni “a dodici mesi dal rilascio della concessione edilizia” ovvero, per la terza rata, “a diciotto mesi”, contenute nel titolo edilizio, vanno interpretate, ad avviso del Collegio, come recanti un termine iniziale decorrente dalla consegna del documento al destinatario dello stesso.
Militano in tal senso le seguenti ragioni:
a) la valenza lessicale ed eziologica del termine “rilascio”, che esprime dinamicamente una azione di passaggio e di trasmissione;
b) ovvie esigenze di certezza rinvenibili nell’elemento oggettivo dell’attestazione, congiunta, della data di trasmissione del documento all’obbligato, ben potendo, per le più svariate ragioni, l’atto de quo essere portato nella sfera di conoscibilità del destinatario –obbligato al pagamento- ben oltre la data della sua adozione–sottoscrizione da parte del Dirigente competente (cfr., in tema di decadenza della C.E. per omesso tempestivo inizio dei lavori, TAR Salerno, II, 05.04.2006 n. 435 e l’orientamento giurisprudenziale ivi richiamato, secondo il quale il relativo termine inizia a decorrere soltanto dal momento in cui il titolo abilitativo edilizio viene comunicato al destinatario);
c) in ogni caso, la detta clausola di cui ai punti 19 e 20 della C.E., ove si potesse ritenere di dubbio significato, andrebbe, secondo i principi desumibili dagli artt. 1369, 1370 e 1371 c.c., interpretata nel senso suindicato, sia perché discrezionalmente, in tale formulazione sintetica, predisposta ed inserita unilateralmente dall’Amministrazione e sia perché la normativa di settore prevede già, concretando un contemperamento delle esigenze delle parti, un notevole ristoro economico sotto forma di “penale”, in caso di consistente ritardo nel pagamento dei contributi afferenti al rilascio della concessione edilizia.
Ne segue che la data di rilascio della concessione nella fattispecie deve individuarsi in quella del 24.08.2006, quando cioè il documento è stato consegnato al soggetto incaricato dal destinatario dello stesso. Ciò determina la conseguenza che il pagamento della seconda rata risulta, in ogni caso, tempestivo, mentre per la terza andrebbe applicata la sanzione di cui alla lettera b) dell’art. 50 L.R. n. 71/1978 e non quella prevista dalla successiva lettera c) del medesimo articolo 50
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 24.04.2012 n. 1115 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl potere di applicare misure repressive in materia urbanistica ed edilizia può essere esercitato in ogni tempo, senza necessità, per i relativi provvedimenti, di alcuna specifica motivazione in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico a disporre una demolizione.
Il Collegio non ignora l’esistenza di un orientamento difforme secondo il quale invece “il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso” e “il protrarsi dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza” potrebbero ingenerare un affidamento del privato, rispetto al quale sussisterebbe un “onere di congrua motivazione” circa il “pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato”; ritiene però che tale orientamento non vada condiviso.
In proposito, si impone anzitutto il rilievo che di affidamento si può parlare solo ove il privato, il quale abbia correttamente e in modo compiuto reso nota la propria posizione alla p.a., venga indotto da un provvedimento della stessa a ritenere la legittimità del proprio operato, non già nel caso che rileva, in cui si commette un abuso a tutta insaputa della p.a. medesima.
Inoltre, come osservato dalla Sezione nella pure citata sentenza 860/2010, l’abuso edilizio integra un illecito permanente, rappresentato dalla violazione dell’obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare in conformità a diritto lo stato dei luoghi; di talché ogni provvedimento repressivo dell’amministrazione non è emanato a distanza di tempo da un illecito ormai esaurito, ma interviene su una situazione antigiuridica che perdura sino a quel momento.

Costante giurisprudenza della Sezione, fra le molte si cita TAR Brescia sez. I 22.02.2010 n. 860, afferma infatti che il potere di applicare misure repressive in materia urbanistica ed edilizia può essere esercitato in ogni tempo, senza necessità, per i relativi provvedimenti, di alcuna specifica motivazione in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico a disporre una demolizione; in senso poi conforme si sono espresse anche numerose decisioni del C.d.S., ad esempio sez. IV, 15.09.2009, n. 5509, che si cita per tutte.
Il Collegio non ignora l’esistenza di un orientamento difforme, espresso ad esempio da C.d.S. sez. V 04.03.2008 n. 883, secondo il quale invece “il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso” e “il protrarsi dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza” potrebbero ingenerare un affidamento del privato, rispetto al quale sussisterebbe un “onere di congrua motivazione” circa il “pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato”; ritiene però che tale orientamento non vada condiviso.
In proposito, si impone anzitutto il rilievo fatto proprio dalla citata decisione C.d.S. 5509/2009, ovvero che di affidamento si può parlare solo ove il privato, il quale abbia correttamente e in modo compiuto reso nota la propria posizione alla p.a., venga indotto da un provvedimento della stessa a ritenere la legittimità del proprio operato, non già nel caso che rileva, in cui si commette un abuso a tutta insaputa della p.a. medesima.
Inoltre, come osservato dalla Sezione nella pure citata sentenza 860/2010, l’abuso edilizio integra un illecito permanente, rappresentato dalla violazione dell’obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare in conformità a diritto lo stato dei luoghi; di talché ogni provvedimento repressivo dell’amministrazione non è emanato a distanza di tempo da un illecito ormai esaurito, ma interviene su una situazione antigiuridica che perdura sino a quel momento (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 24.04.2012 n. 703 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl certificato di destinazione urbanistica, di cui ai commi 2° e seguenti dell'art. 30 del D.Lgs. 380/2001, Testo Unico dell'Edilizia, si configura come una certificazione redatta da un pubblico ufficiale, avente natura ed effetti meramente dichiarativi e non costitutivi di posizioni giuridiche, le quali discendono invece da altri provvedimenti, che hanno a loro volta determinato la situazione giuridica acclarata dal certificato stesso.
Pertanto, il certificato, in quanto privo di efficacia provvedimentale, non ha alcuna concreta lesività, il che rende impossibile la sua autonoma impugnazione. Gli eventuali errori contenuti in esso potranno essere corretti dalla stessa Amministrazione, su istanza del privato, oppure quest'ultimo potrà impugnare davanti al giudice amministrativo gli eventuali successivi provvedimenti concretamente lesivi, adottati in base all'erroneo certificato di destinazione urbanistica.
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Circa la domanda di risarcimento del danno derivante dall’erronea indicazione resa nel certificato di destinazione urbanistica, vale ricordare quanto statuito con l’ordinanza 23.09.2010 n. 20072 dalle SS.UU. della Cassazione civile.
In detta ordinanza si è rilevato che “Parte ricorrente si duole della (incontroversa) erroneità del certificato di destinazione urbanistica, erroneità che ne aveva indotto una falsa rappresentazione della realtà (la legittimità di un intervento edilizio relativo all'intera area in questione) cui era conseguita la decisione di acquistare il terreno - decisione che non sarebbe mai stata adottata se fossero stata fedelmente e correttamente riportate, nella certificazione de qua, le reali condizioni del terreno quoad inaedificationis.
La controversia esula, dunque, dal campo (impropriamente evocato dal comune resistente) riservato alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, non controvertendosi, nella specie, in ordine ad alcuna ipotesi di gestione del territorio, che del D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 34, riserva alla competenza esclusiva del G.A. Diversamente da quanto opinato dal resistente (secondo il quale il certificato in parola era un semplice attestato rilasciato a richiesta del privato, tale, pertanto, da non esonerare quest'ultimo dallo svolgimento di ulteriori attività di verifica e controllo), il rilascio della certificazione in parola integra gli estremi non già dello svolgimento di una qualsivoglia attività provvedimentale della P.A., bensì del comportamento (sicuramente colposo) del funzionario, riconducibile all'ente di appartenenza, astrattamente idoneo a risolversi in un illecito civile, con la conseguenza che spetta al giudice ordinario la cognizione (e l'accertamento in concreto) della sussistenza e della tutelabilità, sul piano risarcitorio, delle posizioni di diritto soggettivo che si assumono lese nella specie.”

... per l’accertamento del diritto della ricorrente al risarcimento del danno causato dall’emissione, da parte dell’Amministrazione convenuta, di un certificato di destinazione urbanistica dal contenuto non corrispondente alla realtà, che ha indotto la ricorrente ad acquistare un terreno qualificato erroneamente come edificabile e per la contestuale condanna dell’Amministrazione al risarcimento dei danni subiti a causa dell’illegittimo comportamento dell’Amministrazione convenuta, da quantificarsi in corso di causa.
...
La Sezione ha avuto recentemente modo di affermare (cfr. Sez. I , 21.12.2011 n. 1779) che il certificato di destinazione urbanistica, di cui ai commi 2° e seguenti dell'art. 30 del D.Lgs. 380/2001, Testo Unico dell'Edilizia, si configura -secondo l'indirizzo giurisprudenziale prevalente- come una certificazione redatta da un pubblico ufficiale, avente natura ed effetti meramente dichiarativi e non costitutivi di posizioni giuridiche, le quali discendono invece da altri provvedimenti, che hanno a loro volta determinato la situazione giuridica acclarata dal certificato stesso. Pertanto, il certificato, in quanto privo di efficacia provvedimentale, non ha alcuna concreta lesività, il che rende impossibile la sua autonoma impugnazione. Gli eventuali errori contenuti in esso potranno essere corretti dalla stessa Amministrazione, su istanza del privato, oppure quest'ultimo potrà impugnare davanti al giudice amministrativo gli eventuali successivi provvedimenti concretamente lesivi, adottati in base all'erroneo certificato di destinazione urbanistica.
Nel caso all’esame, si domanda il risarcimento del danno derivante dall’erronea indicazione resa nel certificato sicché la fattispecie è del tutto identica a quella sulla quale si sono pronunciate, con l’ordinanza 23.09.2010 n. 20072, le SS.UU. della Cassazione civile.
In detta ordinanza si è rilevato che “Parte ricorrente si duole della (incontroversa) erroneità del certificato di destinazione urbanistica, erroneità che ne aveva indotto una falsa rappresentazione della realtà (la legittimità di un intervento edilizio relativo all'intera area in questione) cui era conseguita la decisione di acquistare il terreno - decisione che non sarebbe mai stata adottata se fossero stata fedelmente e correttamente riportate, nella certificazione de qua, le reali condizioni del terreno quoad inaedificationis.
La controversia esula, dunque, dal campo (impropriamente evocato dal comune resistente) riservato alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, non controvertendosi, nella specie, in ordine ad alcuna ipotesi di gestione del territorio, che del D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 34, riserva alla competenza esclusiva del G.A. Diversamente da quanto opinato dal resistente (secondo il quale il certificato in parola era un semplice attestato rilasciato a richiesta del privato, tale, pertanto, da non esonerare quest'ultimo dallo svolgimento di ulteriori attività di verifica e controllo), il rilascio della certificazione in parola integra gli estremi non già dello svolgimento di una qualsivoglia attività provvedimentale della P.A., bensì del comportamento (sicuramente colposo) del funzionario, riconducibile all'ente di appartenenza, astrattamente idoneo a risolversi in un illecito civile, con la conseguenza che spetta al giudice ordinario la cognizione (e l'accertamento in concreto) della sussistenza e della tutelabilità, sul piano risarcitorio, delle posizioni di diritto soggettivo che si assumono lese nella specie
.” (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 24.04.2012 n. 687 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 35 T.U. 380/2001 consente di irrogare la sanzione demolitoria “solo in presenza… di opere abusive che avrebbero richiesto permesso di costruire -nonché per opere eseguite in totale difformità o con variazioni essenziali rispetto a tale permesso”, non già per opere minori, alle quali è applicabile la semplice sanzione pecuniaria.
... per l’annullamento, previa sospensione, dell’ordinanza 02.03.2006 n. 14, prot. n. 2439, notificata il 02.03.2006, con la quale il Responsabile del servizio urbanistica e sportello unico edilizia del Comune di Roverbella ha ingiunto al ricorrente la demolizione dei lavori abusivamente realizzati presso l’immobile sito in Castiglione Mantovano, via Machiavelli, identificato catastalmente al foglio 32 mappale ..., asseritamente consistenti nella realizzazione di porzione di recinzione realizzata senza titolo su area pubblica di proprietà comunale;
...
In termini invero non chiarissimi, l’ordinanza impugnata richiama a proprio fondamento in motivazione anzitutto l’art. 35 del T.U. 380/2001, che prevede il potere generale di ordinare la demolizione di “interventi in assenza di permesso di costruire, ovvero in totale o parziale difformità dal medesimo, su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato o di enti pubblici”, che costituisce all’evidenza norma speciale rispetto al generale potere di autotutela amministrativa conferito alle pubbliche amministrazioni ai sensi dell’art. 823 c.c.. La norma, peraltro, appare all’evidenza non pertinente alla fattispecie, in cui si ragiona, come detto, di opera che insiste su terreno di privati, il che esclude la possibilità che l’amministrazione solo perché tale vi intervenga: in tal senso, con riguardo a fattispecie regolata dall’art. 823 c.c., TAR Campania Napoli sez. VII 04.12.2008 n. 20998.
Per completezza, va comunque ricordato che secondo la giurisprudenza l’art. 35 T.U. 380/2001 consente di irrogare la sanzione demolitoria –nella specie come si è detto scelta dal Comune- “solo in presenza… di opere abusive che avrebbero richiesto permesso di costruire -nonché per opere eseguite in totale difformità o con variazioni essenziali rispetto a tale permesso”, non già per opere minori, alle quali è applicabile la semplice sanzione pecuniaria: così in motivazione TAR Lazio-Roma sez. I 05.10.2005 n. 7851, proprio con riguardo al caso di una cancellata di recinzione insistente sul suolo pubblico.
Sempre l’ordinanza in motivazione richiama a proprio sostegno l’art. 27 T.U. 380/2001, ritenendo comunque integrata la fattispecie prevista dal comma 2 di tale norma, che consente all’autorità comunale di far demolire, fra l’altro, opere “eseguite senza titolo su aree destinate ad opere e spazi pubblici”, in quanto sarebbe interessata un’area a standard, in zona classificata come “zona F – attrezzature di interesse pubblico”, ancorché non soggetta ad alcun vincolo specifico (doc. 1 ricorrente, cit., p. 1 terzo capoverso; p. 2 settimo capoverso).
Il Comune, nella più volte citata relazione 22.05.2006 e nel certificato ad essa allegato sub-1 ha poi precisato in che sarebbe consistita tale destinazione ad uso pubblico, chiarendo che il mappale 453 nella variante generale al PRG approvata il 20.09.1996 era classificato in zona C di espansione con obbligo di piano esecutivo; era stato poi riclassificato come “servizi ad uso pubblico – verde di quartiere” nella successiva variante generale approvata il 24.11.2005.
Ciò posto, la citata norma dell’art. 27 T.U. 380/2001 risulta inapplicabile alla fattispecie concreta. In primo luogo, come appena spiegato, nel 1998, data non contestata di realizzazione dell’abuso come detto in narrativa, il mappale 453 ad esso interessato non risulta aver rivestito il carattere di area “destinata ad opere e spazi pubblici”. In secondo luogo, quand’anche ciò si volesse per ipotesi ammettere, la giurisprudenza esclude, analogamente a quanto detto a proposito dell’art. 35, che nel caso di opere come quella per cui è causa la sanzione demolitoria sia comunque applicabile: in tal senso C.d.S. sez. V 30.04.2009 n. 2768, in un caso analogo, in cui il privato proprietario aveva recintato abusivamente un’area a standard. E’ implicito ovviamente che il Comune ha comunque la possibilità di far cessare l’abuso espropriando l’area, o ottenendone la cessione eventualmente prevista, e tutelandosi come proprietario.
Solo per completezza, si precisa infine che l’ordinanza di demolizione per cui è causa nemmeno potrebbe legittimarsi in base alle norme generali, art. 31 T.U. 380/2001, che disciplinano la repressione per tale via degli abusi edilizi, dato che le stesse non si applicano ad opere come le recinzioni, soggette a d.i.a. e, in caso di abuso, alla sola sanzione pecuniaria di cui all’art. 37 del medesimo T.U., come del resto riconosce anche il Comune nell’ultima pagina della relazione 22.05.2006 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 24.04.2012 n. 683 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROGETTUALI: Opere, il progettista non coordina i lavori.
Il progettista di un'opera non può essere affidatario dell'incarico di coordinatore dei lavori.

È quanto affermato dal Consiglio di Stato che, con la sentenza 23.04.2012 n. 2402 della IV Sez., si è pronunciato sulla gara di Autovie venete per l'affidamento del servizio di coordinatore per l'esecuzione dei lavori di un tratto della terza corsia dell'A4, aggiudicata con il 52% di ribasso, per un totale di circa 2 milioni di euro.
Il raggruppamento aggiudicatario della commessa contava fra i propri partecipanti anche alcune società che avevano partecipato alla redazione di parti del progetto preliminare e definitivo. Gli articoli 5 e 12 del disciplinare di gara precludevano, richiamando l'articolo 90, comma 8, del Codice dei contratti pubblici, la partecipazione a tutti coloro che avessero concorso alla redazione del progetto preliminare e/o definitivo dell'opera, ancorché non vi fosse una norma specifica nel Codice (che contempla espressamente soltanto l'incompatibilità fra progettista e appaltatore o concessionario).
In primo grado il Tar del Lazio (sentenza n. 3707/2011) aveva accolto il ricorso del secondo classificato. Il Consiglio di stato ha confermato la pronuncia affermando che la disciplina contenuta nell'art. 90, comma 8, del Codice dei contratti «va reputata quale espressione di un principio generale in forza del quale ai concorrenti deve essere riconosciuta un'omogenea posizione, implicante la più rigorosa parità di trattamento». In particolare occorre, valutare «se lo svolgimento di pregressi affidamenti presso la stessa stazione appaltante possa aver creato, per taluno dei concorrenti stessi, degli speciali vantaggi incompatibili con i principi, propri non soltanto dell'ordinamento italiano, ma anche di quello comunitario, di libera concorrenza e di parità di trattamento». Per i giudici, quindi, non rileva l'assenza di una espressa copertura normativa perché la verifica sulla posizione di vantaggio è comunque funzionale al rispetto dei principi comunitari in materia di libera prestazione di servizi, non discriminazione e trasparenza.
Nel caso di specie, si legge nella sentenza, da un lato il progetto, «ancorché formalmente intestato ad Autovie Venete, risulta elaborato per una parte consistente dalle società aggiudicatarie del contratto» e, dall'altro, «i giudizi dei commissari di gara dimostrano che la positiva valutazione delle offerte tecniche poggia proprio sull'approfondita conoscenza degli elaborati progettuali». Da ciò la dimostrazione del vantaggio competitivo e quindi la conferma della sentenza di primo grado (articolo ItaliaOggi del 28.04.2012).

APPALTIL’esclusione dalla gara di una determinata offerta, a causa della sua stessa gravità, non può essere disposta se non in presenza di un’apposita ed univoca clausola, non potendo invece dipendere genericamente da una qualsiasi prescrizione della lex specialis.
La circostanza che un concorrente in una gara di appalto abbia seguito le indicazioni della stazione appaltante nel predisporre la modulistica ai fini della partecipazione alla procedura non può ridondare in suo danno, dovendo in tal caso la stazione invitare il concorrente stesso all'integrazione della documentazione carente.
A fronte dell'incertezza interpretativa di una clausola della lex specialis di gara, giammai la stazione appaltante può sic et simpliciter disporre l'esclusione per la mancata o incompleta presentazione della richiamata documentazione, dovendo piuttosto esercitare i poteri di richiesta di integrazione e chiarimenti che non determinano alcuna violazione del principio della par condicio dei concorrenti nella sua effettiva e reale portata sostanziale, dal momento che operano in relazione a situazioni di mera e non imputabile irregolarità a carattere puramente formale, connesse all'imprecisa formulazione della lex specialis.
Con specifico riferimento alla omessa dichiarazione delle situazioni di collegamento societario ai sensi dell'art. 2359 c.c., da parte di un'impresa partecipante alla gara per l'affidamento di un appalto di lavori pubblici, la Giurisprudenza ha pure ritenuto illegittima, per violazione dell'art. 28 direttiva 93/37/Cee, che introduce un vero e proprio obbligo, per la stazione appaltante, di invitare l'imprenditore a completare i certificati e i documenti presentati o a chiarirli, l'esclusione di un'impresa da una gara per l'aggiudicazione di lavori, motivata con riferimento alla omessa dichiarazione di eventuali situazioni di controllo ex art. 2359 c.c..
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In tema di affidamento di un appalto pubblico, non va esclusa dalla gara l'impresa il cui legale rappresentante non abbia presentato, in uno all'offerta economica, copia del documento di identità, qualora il disciplinare di gara abbia operato una chiara diversificazione tra le due sottoscrizioni -quella relativa alla domanda di partecipazione e quella relativa all'offerta economica-, imponendo la produzione della copia del documento di identità del sottoscrittore solo per la domanda di partecipazione, senza richiederla anche per l'offerta economica.

Il Collegio ritiene la censura infondata, in quanto l’omessa dichiarazione di cui all’art. 2359 c.c. non avrebbe potuto essere sanzionata con l’esclusione dalla gara in carenza di espressa previsione contenuta nel bando di gara, costituente la lex specialis della gara, alla quale correttamente i concorrenti si sono attenuti; sicché, legittimamente l’Amm.ne ha ammesso a regolarizzazione.
Fin di recente la Giurisprudenza ha ribadito che l’esclusione dalla gara di una determinata offerta, a causa della sua stessa gravità, non può essere disposta se non in presenza di un’apposita ed univoca clausola, non potendo invece dipendere genericamente da una qualsiasi prescrizione della lex specialis (Consiglio di Stato - Sezione V - Sentenza 28.02.2012 n. 1150).
Inoltre, la Giurisprudenza ha, in materia, espresso principi che il Collegio condivide, e, in particolare, ha affermato che:
- la circostanza che un concorrente in una gara di appalto abbia seguito le indicazioni della stazione appaltante nel predisporre la modulistica ai fini della partecipazione alla procedura non può ridondare in suo danno, dovendo in tal caso la stazione invitare il concorrente stesso all'integrazione della documentazione carente (TAR Toscana Firenze, sez. I, 21.06.2010 , n. 2006);
- a fronte dell'incertezza interpretativa di una clausola della lex specialis di gara, giammai la stazione appaltante può sic et simpliciter disporre l'esclusione per la mancata o incompleta presentazione della richiamata documentazione, dovendo piuttosto esercitare i poteri di richiesta di integrazione e chiarimenti che non determinano alcuna violazione del principio della par condicio dei concorrenti nella sua effettiva e reale portata sostanziale, dal momento che operano in relazione a situazioni di mera e non imputabile irregolarità a carattere puramente formale, connesse all'imprecisa formulazione della lex specialis (TAR Lazio Roma, sez. II, 02.12.2010, n. 35031) ;
- con specifico riferimento alla omessa dichiarazione delle situazioni di collegamento societario ai sensi dell'art. 2359 c.c., da parte di un'impresa partecipante alla gara per l'affidamento di un appalto di lavori pubblici, la Giurisprudenza ha pure ritenuto illegittima, per violazione dell'art. 28 direttiva 93/37/Cee, che introduce un vero e proprio obbligo, per la stazione appaltante, di invitare l'imprenditore a completare i certificati e i documenti presentati o a chiarirli, l'esclusione di un'impresa da una gara per l'aggiudicazione di lavori, motivata con riferimento alla omessa dichiarazione di eventuali situazioni di controllo ex art. 2359 c.c. (TAR Veneto Venezia, sez. I, 12.11.2003, n. 5678).
Pertanto, correttamente l’Amm.ne, a fronte di una carenza nel bando, ha fatto uso del c.d. soccorso istruttorio, di cui all'art. 146, d.lgs. n. 163 del 2006 e art. 6, l. n. 241 del 1990, il quale consente di richiedere all'impresa partecipante di procedere alla regolarizzazione della documentazione già presentata, in quanto, in assenza di previsioni univoche della lex specialis, i concorrenti non potevano essere tenuti alla presentazione di ulteriori documenti oltre quelli chiesti nel bando.
Peraltro, l’integrazione in questione non ha comportato alcuna lesione del principio di "par condicio", non potendosi alle concorrenti, nel caso in questione, contestare l’elusione di prescrizioni tassative, imposte a tutti i concorrenti a pena di esclusione.
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La Giurisprudenza ha avuto occasione di affermare che in tema di affidamento di un appalto pubblico, non va esclusa dalla gara l'impresa il cui legale rappresentante non abbia presentato, in uno all'offerta economica, copia del documento di identità, qualora il disciplinare di gara abbia operato una chiara diversificazione tra le due sottoscrizioni -quella relativa alla domanda di partecipazione e quella relativa all'offerta economica-, imponendo la produzione della copia del documento di identità del sottoscrittore solo per la domanda di partecipazione, senza richiederla anche per l'offerta economica (TAR Sicilia Palermo, sez. III, 10.03.2010, n. 2648) (TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza 23.04.2012 n. 1089 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI - PUBBLICO IMPIEGOIl RUP deve avvalersi, nello svolgimento dei propri compiti, del supporto dei dipendenti delle amministrazioni aggiudicatrici.
In caso di inadeguatezza dell’organico, per le attività di supporto si può ricorrere, ai sensi del comma 7 dell’art. 10 del D.lvo n. 163/2006, a soggetti aventi le specifiche competenze di carattere tecnico, economico, finanziario, amministrativo, organizzativo e legale, che abbiano stipulato adeguata polizza assicurativa a copertura dei rischi professionali .
Al riguardo, per “attività di supporto” devono intendersi un insieme di prestazioni tecniche ed amministrative relative al corretto svolgimento delle funzioni del medesimo R.U.P., quali analiticamente elencate all’art. 10 del D.Lgs. n. 163/2006 e agli artt. 7 e 8 del regolamento di esecuzione ed attuazione, e quindi tutte quelle attività strumentali –mediante l’esercizio di specifiche competenze (tecniche, economico-finanziarie, amministrative, organizzative e legali)- che costituiscano il presupposto per il corretto esercizio dei compiti funzionalmente attribuiti al RUP (quali supervisione, coordinamento e verifica alla progettazione, supervisione alla direzione dei lavori, supervisione alla sicurezza, funzioni amministrative, validazione progetto).

La legge 109/1994, al comma 1 dell’art. 7, disponeva che i soggetti di cui all’art. 2, comma 2, lett. a), della medesima legge, nominassero –ai sensi della legge 241/1990– un Responsabile Unico del Procedimento (di seguito RUP o Responsabile del Procedimento) di attuazione di ogni singolo intervento previsto dal programma triennale dei lavori pubblici, per le fasi della progettazione, dell’affidamento e dell’esecuzione.
La previsione è stata riformulata dal vigente Codice dei Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e Forniture di cui al D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 .
In particolare, l’art. 10 del Codice 163/2006 conferma che, per ogni singolo intervento da realizzarsi mediante un contratto pubblico, le Amministrazioni aggiudicatrici devono nominare, ai sensi della legge 241/1990, un responsabile del procedimento unico per le fasi della progettazione, dell’affidamento e dell’esecuzione.
Ai sensi del comma 1, lett. a), dell’art. 90 del D.Lgs n. 163/2006, il RUP deve avvalersi, nello svolgimento dei propri compiti, del supporto dei dipendenti delle amministrazioni aggiudicatrici.
In caso di inadeguatezza dell’organico, per le attività di supporto si può ricorrere, ai sensi del comma 7 dell’art. 10 del D.lvo n. 163/2006, a soggetti aventi le specifiche competenze di carattere tecnico, economico, finanziario, amministrativo, organizzativo e legale, che abbiano stipulato adeguata polizza assicurativa a copertura dei rischi professionali .
Al riguardo, per “attività di supporto” devono intendersi un insieme di prestazioni tecniche ed amministrative relative al corretto svolgimento delle funzioni del medesimo R.U.P., quali analiticamente elencate all’art. 10 del D.Lgs. n. 163/2006 e agli artt. 7 e 8 del regolamento di esecuzione ed attuazione, e quindi tutte quelle attività strumentali –mediante l’esercizio di specifiche competenze (tecniche, economico-finanziarie, amministrative, organizzative e legali)- che costituiscano il presupposto per il corretto esercizio dei compiti funzionalmente attribuiti al RUP (quali supervisione, coordinamento e verifica alla progettazione, supervisione alla direzione dei lavori, supervisione alla sicurezza, funzioni amministrative, validazione progetto).
Ciò premesso, ad avviso del Collegio, al fine di accertare se un incarico conferito ad un professionista attenga ad un’unica prestazione (nel caso in esame, relazione geologica) ovvero ad “attività di supporto” del Rup, occorre aver riguardo alla consistenza dell’incarico conferito, ed in particolare alla presenza, o meno, di una molteplicità di attività, indicative delle funzioni di supporto, consistenti in una prestazione di assistenza e collaborazione con il Rup.
La legge, come visto, prevede che, nelle ipotesi dalla stessa contemplate, il responsabile del procedimento possa avvalersi di un supporto tecnico per lo svolgimento delle attività che allo stesso competono. Poiché si fa ricorso a professionalità esterne per sopperire a carenze di organico o per acquisire specializzazioni particolari di cui l'amministrazione non è dotata, l'incarico afferisce all'espletamento di compiti tipici dell'ufficio in questione, sicché può ritenersi connaturato all’incarico, tra l’altro, l’obbligo per il professionista prescelto di assicurare una certa presenza in ufficio e quindi di recarsi presso la sede dell’Ente per lo svolgimento, in tutto o in parte, delle attività in questione.
Le ragioni del contendere contenute negli atti difensivi delle parti impongono di verificare se l'attività di cui si controverte sia effettivamente una complessa consulenza di supporto all'operato del Rup o sia, invece, semplicemente, la Relazione Geologica.
Nel caso specifico, il Collegio non ritiene che dall’esame della documentazione prodotta -in particolare il disciplinare relativo all’unico incarico che risulta essere stato conferito al dr. D’Urso- possano ricavarsi elementi caratteristici di quella complessità e molteplicità di funzioni indicative di un’attività di supporto, in quanto la raccolta di dati, gli accertamenti, compilazioni, valutazioni e la sintesi finale delle indagini effettuate nella Relazione Geologica costituiscono (ed esauriscono) l'intero contenuto della prestazione commissionata al geologo.
In primo luogo, il dato testuale, ricavabile dall’esame sia dell’avviso del 19.10.2006 che del disciplinare dell’incarico conferito al dr. D’Urso, indica una prestazione professionale limitata allo studio geologico tecnico, senza che dal contesto dei vari articoli del disciplinare si evincano elementi che inducano a dubitare circa il complessivo contenuto dell’incarico affidato; anche l’avviso relativo al pagamento della fattura n. 3/2008 dell’importo di euro 7.588,80 indica una somma contenuta nei limiti dell’impegno di spesa di cui alla determina dirigenziale n. 131/2006, pari ad euro 7.688,00 per il conferimento dell’incarico per la relazione geologica (e senza che, al riguardo, rilevino le fatture prodotte dallo stesso dr. D’Urso il 29.02.2012, relative all’incarico conferito a seguito della gara oggetto di ricorso).
Del resto, anche la determina di incarico fa riferimento all’unica prestazione in questione (studio geologico tecnico).
Conseguentemente, in carenza di elementi dai quali possa desumersi che il dr. D’Urso avesse in precedenza espletato un incarico di supporto per il Rup, la censura risulta infondata
(TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza 23.04.2012 n. 1089 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEIn base ai principi generali, la mancata notifica al proprietario del decreto di esproprio non costituisce motivo di carenza del potere espropriativo che legittimi il proprietario stesso ad invocare l'illiceità dell'occupazione del fondo, ma comporta soltanto che quest'ultimo non sia soggetto al termine di decadenza per l'opposizione alla stima (impedendone il decorso).
Infatti, l'effetto traslativo della proprietà alla mano pubblica si verifica alla data della pronuncia del decreto anzidetto, indipendentemente dalla sua successiva notificazione. Il decreto medesimo ha natura di atto non recettizio, per cui la sua comunicazione non è né elemento integrativo, né requisito di validità, né condizione di efficacia, avendo solo la funzione di far appunto decorrere il termine di opposizione alla stima.

Condivisibile giurisprudenza, dalla quale il Collegio non ravvisa motivo di discostarsi, ha affermato, in fattispecie analoga, che «...In base ai principi generali, la mancata notifica al proprietario del decreto di esproprio non costituisce motivo di carenza del potere espropriativo che legittimi il proprietario stesso ad invocare l'illiceità dell'occupazione del fondo, ma comporta soltanto che quest'ultimo non sia soggetto al termine di decadenza per l'opposizione alla stima (impedendone il decorso).
Infatti, l'effetto traslativo della proprietà alla mano pubblica si verifica alla data della pronuncia del decreto anzidetto, indipendentemente dalla sua successiva notificazione. Il decreto medesimo ha natura di atto non recettizio, per cui la sua comunicazione non è né elemento integrativo, né requisito di validità, né condizione di efficacia, avendo solo la funzione di far appunto decorrere il termine di opposizione alla stima (cfr. Cassazione civile, sez. I, 15.11.2004, n. 21622)…
» (Cons. Stato, Sez. IV, 14.02.2012, n. 702; analogamente, ex plurimis, CGARS, 04.11.2005, n. 730) (TAR Sicilia-Catania, Sez. II, sentenza 23.04.2012 n. 1076 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICIIn merito alla fattispecie secondo cui il comune si è immesso nel possesso degli immobili di proprietà dei ricorrenti trasformandoli in maniera irreversibile mediante la realizzazione di una strada, e ciò senza il supporto di legittima procedura espropriativa.
Fino a non molto tempo fa, la giurisprudenza riconduceva situazioni analoghe a quella oggetto del presente giudizio all'istituto della c.d. occupazione “appropriativa” o “acquisitiva”, che determinava l'acquisizione della proprietà del fondo a favore della Pubblica Amministrazione per “accessione invertita”, allorché si fosse verificata l'irreversibile trasformazione dell'area; come noto, tale istituto, di origine pretoria, è sorto con la sentenza della Corte di Cassazione del 26.02.1983, n. 1464.
Tale istituto, pur essendo stato ampiamente utilizzato per quasi un ventennio, è stato criticato; in particolare, in seguito alle pronunce della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo a partire dall'anno 2000, si è consolidato un orientamento giurisprudenziale secondo cui, in mancanza di un atto adottato nelle forme di legge, non si verifica l'acquisizione dell'area da parte della pubblica amministrazione; tanto che oggi si ritiene che l’attuale contesto ordinamentale «…non prevede più l’istituto dell’occupazione appropriativa...».
Pertanto, l'irreversibile trasformazione del fondo, per la giurisprudenza prevalente, non produce più l'effetto di trasferire la proprietà.
In particolare, questa Sezione ha, con alcune pronunce, accolto l’orientamento secondo cui il privato potesse chiedere il risarcimento per equivalente, in alternativa alla restituzione del bene, «…in presenza di una evidente volontà dell'amministrazione di acquisire l'area, concretizzatasi in atti concludenti quali l'avvio alla procedura espropriativa, l'occupazione del suolo alla realizzazione dell'opera pubblica, nonché in presenza di altrettante inequivoca volontà dei privati di non volere la restituzione dell'area ma l'equivalente in denaro…».
Tale orientamento è stato recentemente sottoposto a revisione critica, nel solco di un orientamento del Consiglio di Stato, che ha da ultimo condivisibilmente affermato che «…La realizzazione dell'opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato è in sé un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell'acquisto, come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà, per cui solo il formale atto di acquisizione dell'amministrazione può essere in grado di limitare il diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi (rinunziativi o abdicativi, che dir si voglia) della proprietà in altri comportamenti, fatti o contegni. Ne discende che, tranne che l’amministrazione intenda comunque acquisire il bene seguendo i sistemi che di seguito saranno evidenziati, è suo obbligo primario procedere alla restituzione della proprietà illegittimamente detenuta (…) l’amministrazione può legittimamente apprendere il bene facendo uso unicamente dei due strumenti tipici, ossia il contratto, tramite l’acquisizione del consenso della controparte, o il provvedimento, e quindi anche in assenza di consenso ma tramite la riedizione del procedimento espropriativo con le sue garanzie…», e che «…Nonostante l'irreversibile modificazione delle aree illecitamente occupate, la proprietà delle stesse rimane, quindi, in capo agli originari titolari e non può esservi luogo per risarcimenti connessi alla "perdita" della proprietà, trattandosi di evento non realizzatosi e non realizzabile…».
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Nel caso di specie, i ricorrenti hanno chiesto, «…Attesa la irreversibilità della ablazione e la destinazione d’uso che è stata data al suolo in oggetto…», la corresponsione del valore venale dell’immobile e di una somma per l’occupazione del bene, a titolo di risarcimento dei danni per equivalente.
Al di là della formulazione letterale, è inequivoca la volontà dei ricorrenti di trovare tutela del loro diritto di proprietà, che questo Collegio, condividendo l’orientamento giurisprudenziale di cui si è dato conto nella presente motivazione, ritiene non essere stato trasferito nel patrimonio giuridico di altri dalla azione dell’Amministrazione, cui pertanto incombe l’obbligo di cessare il comportamento contra legem.
A tali fini, si rende quindi necessaria un’ulteriore attività della Amministrazione che dovrà esplicarsi, sussistendone i presupposti, nell’utilizzo dello strumento di cui all’art. 42-bis del DPR 08.06.2011, n. 327, o nella conclusione di un accordo fra le parti teso al trasferimento della proprietà, essendo comunque obbligo dell’Amministrazione porre fine all'occupazione senza titolo.
Conseguentemente, perché possa essere soddisfatto l’interesse primario della parte lesa, volto alla tutela del proprio diritto di proprietà, sempre salva la possibilità per le parti di concludere un accordo teso al trasferimento della proprietà, deve imporsi all’Amministrazione di rinnovare, nel termine di giorni novanta dalla notificazione, a cura di parte, della presente sentenza (ovvero, se anteriore, dalla sua comunicazione in via amministrativa), la valutazione di attualità e prevalenza dell’interesse pubblico all’eventuale acquisizione del fondo per cui è causa, adottando, all’esito, un provvedimento con cui lo stesso sia, alternativamente:
A) acquisito non retroattivamente al patrimonio indisponibile comunale, liquidando il risarcimento anche in relazione ai danni per il periodo di illegittima occupazione del bene;
B) restituito in tutto od in parte ai legittimi proprietari, previo ripristino dello stato di fatto, esistente al momento dell’apprensione,
tanto nel termine di giorni novanta, di cui sopra.
Nel caso in cui l’Amministrazione ritenga di dover restituire il terreno, dovrà comunque emettere un provvedimento per il risarcimento del danno derivante dalla illegittima occupazione del fondo.
... risulta provato che il Comune di Vittoria si è immesso nel possesso degli immobili di proprietà dei ricorrenti di cui si tratta trasformandoli in maniera irreversibile mediante la realizzazione di una strada, e ciò senza il supporto di legittima procedura espropriativa, secondo quanto descritto in fatto.
Fino a non molto tempo fa, la giurisprudenza riconduceva situazioni analoghe a quella oggetto del presente giudizio all'istituto della c.d. occupazione “appropriativa” o “acquisitiva”, che determinava l'acquisizione della proprietà del fondo a favore della Pubblica Amministrazione per “accessione invertita”, allorché si fosse verificata l'irreversibile trasformazione dell'area; come noto, tale istituto, di origine pretoria, è sorto con la sentenza della Corte di Cassazione del 26.02.1983, n. 1464.
Tale istituto, pur essendo stato ampiamente utilizzato per quasi un ventennio, è stato criticato (si vedano in proposito TAR Campania–Napoli, Sez. V, 29.04.2009, n. 2212 e TAR Puglia–Bari, Sez. III, 22.09.2008, n. 2176); in particolare, in seguito alle pronunce della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo a partire dall'anno 2000, si è consolidato un orientamento giurisprudenziale secondo cui, in mancanza di un atto adottato nelle forme di legge, non si verifica l'acquisizione dell'area da parte della pubblica amministrazione; tanto che oggi si ritiene che l’attuale contesto ordinamentale «…non prevede più l’istituto dell’occupazione appropriativa...» (CGARS, 18.02.2009, nn. 49, 51 e 52).
Pertanto, l'irreversibile trasformazione del fondo, per la giurisprudenza prevalente, non produce più l'effetto di trasferire la proprietà (ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 16.03.2012, n. 1514).
In particolare, questa Sezione ha, con alcune pronunce, accolto l’orientamento secondo cui il privato potesse chiedere il risarcimento per equivalente, in alternativa alla restituzione del bene, «…in presenza di una evidente volontà dell'amministrazione di acquisire l'area, concretizzatasi in atti concludenti quali l'avvio alla procedura espropriativa, l'occupazione del suolo alla realizzazione dell'opera pubblica, nonché in presenza di altrettante inequivoca volontà dei privati di non volere la restituzione dell'area ma l'equivalente in denaro…» (ex plurimis, 02.02.2011, n. 231).
Tale orientamento è stato recentemente sottoposto a revisione critica (TAR Sicilia–Catania, Sez. II, sentenza 07.12.2011, n. 2911), nel solco di un orientamento del Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. IV, sentenze 28.01.2011, n. 676, 29.08.2011, n. 4834, 02.09.2011, n. 4970, 16.03.2012, n. 1514), che ha da ultimo condivisibilmente affermato che «…La realizzazione dell'opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato è in sé un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell'acquisto, come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà, per cui solo il formale atto di acquisizione dell'amministrazione può essere in grado di limitare il diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi (rinunziativi o abdicativi, che dir si voglia) della proprietà in altri comportamenti, fatti o contegni. Ne discende che, tranne che l’amministrazione intenda comunque acquisire il bene seguendo i sistemi che di seguito saranno evidenziati, è suo obbligo primario procedere alla restituzione della proprietà illegittimamente detenuta (…) l’amministrazione può legittimamente apprendere il bene facendo uso unicamente dei due strumenti tipici, ossia il contratto, tramite l’acquisizione del consenso della controparte, o il provvedimento, e quindi anche in assenza di consenso ma tramite la riedizione del procedimento espropriativo con le sue garanzie…» (sentenza 4970/2011), e che «…Nonostante l'irreversibile modificazione delle aree illecitamente occupate, la proprietà delle stesse rimane, quindi, in capo agli originari titolari e non può esservi luogo per risarcimenti connessi alla "perdita" della proprietà, trattandosi di evento non realizzatosi e non realizzabile…» (sentenza 1514/2012).
Nel caso di specie, i ricorrenti hanno chiesto, «…Attesa la irreversibilità della ablazione e la destinazione d’uso che è stata data al suolo in oggetto…» (ricorso, pag. 3), la corresponsione del valore venale dell’immobile e di una somma per l’occupazione del bene, a titolo di risarcimento dei danni per equivalente.
Al di là della formulazione letterale, è inequivoca la volontà dei ricorrenti di trovare tutela del loro diritto di proprietà, che questo Collegio, condividendo l’orientamento giurisprudenziale di cui si è dato conto nella presente motivazione, ritiene non essere stato trasferito nel patrimonio giuridico di altri dalla azione dell’Amministrazione, cui pertanto incombe l’obbligo di cessare il comportamento contra legem.
A tali fini, si rende quindi necessaria un’ulteriore attività della Amministrazione che dovrà esplicarsi, sussistendone i presupposti, nell’utilizzo dello strumento di cui all’art. 42-bis del DPR 08.06.2011, n. 327 (TAR Campania–Salerno, Sez. II, 07.11.2011, n. 1763; Cons. Stato, Sez. IV, 16.03.2012, n. 1514), o nella conclusione di un accordo fra le parti teso al trasferimento della proprietà, essendo comunque obbligo dell’Amministrazione porre fine all'occupazione senza titolo (TAR Sicilia–Catania, Sez. III, 10.02.2011, n. 290; TAR Sicilia–Catania, Sez. II, sentenze 07.12.2011, n. 2911, e 21.03.2012, n. 741).
Conseguentemente, perché possa essere soddisfatto l’interesse primario della parte lesa, volto alla tutela del proprio diritto di proprietà, sempre salva la possibilità per le parti di concludere un accordo teso al trasferimento della proprietà, deve imporsi all’Amministrazione di rinnovare, nel termine di giorni novanta dalla notificazione, a cura di parte, della presente sentenza (ovvero, se anteriore, dalla sua comunicazione in via amministrativa), la valutazione di attualità e prevalenza dell’interesse pubblico all’eventuale acquisizione del fondo per cui è causa, adottando, all’esito, un provvedimento con cui lo stesso sia, alternativamente:
A) acquisito non retroattivamente al patrimonio indisponibile comunale, liquidando il risarcimento anche in relazione ai danni per il periodo di illegittima occupazione del bene;
B) restituito in tutto od in parte ai legittimi proprietari, previo ripristino dello stato di fatto, esistente al momento dell’apprensione,
tanto nel termine di giorni novanta, di cui sopra.
Nel caso in cui l’Amministrazione ritenga di dover restituire il terreno, dovrà comunque emettere un provvedimento per il risarcimento del danno derivante dalla illegittima occupazione del fondo (sul punto, Cons. Stato, Sez. IV, 16.03.2012, n. 1514) (TAR Sicilia-Catania, Sez. II, sentenza 23.04.2012 n. 1075 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sistema informatico: è reato accedervi abusivamente con la password ed il computer del collega.
Così ha deciso la V Sez. penale della Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 15016/2012, pronunciandosi su di un ricorso presentato da un impiegata, accusata di essersi abusivamente introdotta nel sistema informatico di una scuola dell’amministrazione penitenziaria, allo scopo di visionare la cartella personale dell’ispettore, utilizzando indebitamente la password rilasciata per l’assistenza tecnica alla ditta di manutenzione dei software.
A nulla è valsa la difesa della donna, la quale, pur ammettendo gli accessi al sistema informatico, ne sottolineava da un lato la brevità e dall’altro la compatibilità con le funzioni da lei svolte all’interno della scuola, ossia quelle di direttore amministrativo-contabile.
La Suprema Corte, infatti, rigettando il ricorso proposto, ha ritenuto che ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 615-ter del codice penale (accesso abusivo ad un sistema informatico e telematico), non rilevano le finalità specificamente perseguite dal soggetto agente, essendo viceversa determinante il profilo oggettivo dell’accesso o del trattenimento nel sistema informatico di un soggetto che a ciò non possa ritenersi sostanzialmente autorizzato o per la violazione delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema ovvero per il compimento di operazioni ontologicamente diverse da quelle per le quali l’accesso è consentito.
La motivazione della sentenza impugnata, nell’escludere la prova evidente dell’insussistenza dell’addebito, si muoveva coerentemente all’interno di questa prospettiva giuridica, osservando come l’imputata avesse effettuato gli accessi da un computer attribuito in uso esclusivo ad altri, mediante una password rilasciata unicamente alla ditta incaricata dall’assistenza tecnica per funzioni diverse da quelle amministrative svolte dall’impiegata. Irrilevanti, infine, risultano i rilievi dell’imputata sulla durata degli accessi e sulla mancanza di prova della duplicazione dei dati contenuti nelle cartelle visionate, posto che la visione stessa dei dati è in sé inquadrabile come fatto penalmente rilevante in presenza delle descritte connotazioni di abusività dell'accesso (tratto da www.diritto.it).

APPALTILa condanna riportata dal legale rappresentante (per il delitto di incendio colposo) appare certamente riconducibile ad un reato grave contro lo Stato che incide sulla moralità professionale dell’eventuale aggiudicatario, trattandosi di applicazione della pena senza sospensione condizionale per un reato (incendio colposo) che, a tutti gli effetti, deve essere anche considerato strettamente correlato all’oggetto della gara in questione (manutenzione straordinaria per la prevenzione incendi e sicurezza).
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Vanno considerati illegittimi e annullati gli atti con i quali l’amministrazione ha richiesto la corresponsione dell’importo vincolato a cauzione provvisoria e contestualmente segnalato all’Autorità di Vigilanza la comunicazione dell’esclusione ai fini della valutazione di cui all’art. 38 comma 1-ter del codice dei contratti pubblici.
Invero, da un lato, l’incameramento della cauzione, in quanto atto di natura sanzionatoria -come tale soggetto al principio di tassatività-, non può essere disposto per carenza dei requisiti di ordine generale, essendo esclusivamente legato, ai sensi dell’art. 48, comma 1, del d.lgs. n. 163/2006, alla mancata prova del possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa, né appare applicabile al caso di specie la norma di cui all’art. 75, comma 6, del d.lgs. n. 163 del 2006, in quanto non si è trattato di “mancata sottoscrizione del contratto per fatto dell’affidatario”, bensì di esclusione dovuta ad una valutazione operata dall’amministrazione ex post in relazione ai requisiti generali posseduti dall’aggiudicatario, cui non risulta addebitabile alcun specifico profilo di colpa causalmente connesso alla mancata stipulazione.
D’altra parte, la segnalazione all’Autorità di Vigilanza di cui all’art. 38, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163/2006 va effettuata in caso di falsa dichiarazione o falsa documentazione, con esclusione, pertanto, da tali ipotesi, della omissione di una dichiarazione non tassativamente richiesta nel bando di gara e legata, come nel caso di specie, ad una preminente valutazione di natura soggettiva sui suoi presupposti (gravità dei reati e incidenza di essi sulla moralità professionale).

Rilevato:
- che la ricorrente ha impugnato, chiedendone la sospensione in via incidentale, il provvedimento con il quale il comune di Milano ha disposto la sua esclusione dalla procedura concorsuale avente ad oggetto l’affidamento in appalto della progettazione ed esecuzione di interventi di manutenzione straordinaria per la prevenzione degli incendi e la sicurezza;
- che la ricorrente ha impugnato, altresì, la richiesta di pagamento dell’importo garantito a titolo di cauzione provvisoria formulata dall’amministrazione resistente, congiuntamente alla nota con cui ha inviato segnalazione dell’esclusione all’Autorità di Vigilanza sui contratti pubblici;
- che, in particolare, Adico S.r.l. ha dedotto l’illegittimità del provvedimento di esclusione per erronea applicazione dell’art. 38, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 163/2006, oltre che per eccesso di potere caratterizzato da ingiustizia manifesta e da violazione del principio di proporzionalità e ragionevolezza;
- che, a tale riguardo, la ricorrente, il cui legale rappresentante era cessato dalla carica nelle more della gara e, in particolare, dopo la scadenza del termine di presentazione dell’offerta, ha contestato l’interpretazione adottata dalla commissione giudicatrice in ordine alla riconducibilità della sentenza di condanna emessa in data 30.09.2010 dal Tribunale di Bassano del Grappa a carico del predetto legale rappresentante, per il delitto di incendio colposo, nel novero di quei “reati gravi in danno dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità professionale”, ai sensi dell’art. 38 del codice dei contratti pubblici;
- che, altresì, la ricorrente ha dedotto l’illegittimità della valutazione operata dall’amministrazione, laddove ha ritenuto “falsa” la omessa attestazione dell’esistenza di tale condanna nei documenti di gara da parte di Adico S.r.l., e l’erronea applicazione dell’art. 48 del d.lgs. n. 163/2006 con riferimento all’incameramento della cauzione e alla segnalazione all’Autorità di Vigilanza;
Ritenuto:
- che l’esclusione disposta è da considerarsi legittima in quanto congruamente motivata e non affetta da illogicità o irragionevolezza di sorta;
- che, in effetti, la condanna riportata dal legale rappresentante della ricorrente –soggetto ancora in carica al momento della scadenza del termine di presentazione delle offerte-, appare certamente riconducibile ad un reato grave contro lo Stato che incide sulla moralità professionale dell’eventuale aggiudicatario, trattandosi di applicazione della pena senza sospensione condizionale per un reato (incendio colposo) che, a tutti gli effetti, deve essere anche considerato strettamente correlato all’oggetto della gara in questione (manutenzione straordinaria per la prevenzione incendi e sicurezza);
- che, peraltro, nella motivazione addotta dalla commissione di gara, sono stati adeguatamente esplicitati i parametri concreti (modalità ed effetti della condotta penalmente rilevante, oltre all’ambito di attività in cui tale condotta si è manifestata) in base ai quali sono stati valutati, da un lato, la gravità del reato oggetto di “patteggiamento”, dall’altro, l’incidenza di tale reato sulla cosiddetta “moralità professionale”;
- che la predetta valutazione., non appare né illogica né sproporzionata, ma per quanto suesposto congrua e coerente rispetto alle assunte premesse;
- che, ad ogni modo, non è applicabile al caso di specie la norma di favore sulla dissociazione dell’impresa dal reato commesso dal suo rappresentante legale, in quanto tale soggetto non è cessato dalla carica nell’anno antecedente la data di pubblicazione del bando di gara, bensì solo in data successiva alla scadenza del termine di presentazione delle offerte;
- che, peraltro, vanno considerati illegittimi e annullati gli atti con i quali l’amministrazione resistente ha richiesto la corresponsione dell’importo vincolato a cauzione provvisoria e contestualmente segnalato all’Autorità di Vigilanza la comunicazione dell’esclusione ai fini della valutazione di cui all’art. 38 comma 1-ter del codice dei contratti pubblici;
- che, da un lato, l’incameramento della cauzione, in quanto atto di natura sanzionatoria -come tale soggetto al principio di tassatività-, non può essere disposto per carenza dei requisiti di ordine generale, essendo esclusivamente legato, ai sensi dell’art. 48, comma 1, del d.lgs. n. 163/2006, alla mancata prova del possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa (cfr. TAR Lombardia, sede di Milano, sezione III, sent. n. 22/2012), né appare applicabile al caso di specie la norma di cui all’art. 75, comma 6, del d.lgs. n. 163 del 2006, in quanto non si è trattato di “mancata sottoscrizione del contratto per fatto dell’affidatario”, bensì di esclusione dovuta ad una valutazione operata dall’amministrazione ex post in relazione ai requisiti generali posseduti dall’aggiudicatario, cui non risulta addebitabile alcun specifico profilo di colpa causalmente connesso alla mancata stipulazione;
- che, d’altra parte, la segnalazione all’Autorità di Vigilanza di cui all’art. 38, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163/2006 va effettuata in caso di falsa dichiarazione o falsa documentazione, con esclusione, pertanto, da tali ipotesi, della omissione di una dichiarazione non tassativamente richiesta nel bando di gara e legata, come nel caso di specie, ad una preminente valutazione di natura soggettiva sui suoi presupposti (gravità dei reati e incidenza di essi sulla moralità professionale) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 20.04.2012 n. 1179 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini della decorrenza del termine per l'impugnazione, da parte di terzi, di provvedimenti di concessione in sanatoria di manufatti abusivi, deve aversi esclusivo riguardo alla data di scadenza della pubblicazione del provvedimento a sanatoria, essendo già compiutamente nota la lesione materiale subita.
Nel caso di concessione edilizia in sanatoria, infatti, si pone la necessità della individuazione del dies a quo dell'impugnativa al fine di assicurare stabilità e certezza agli atti amministrativi, non potendo gli stessi rimanere sine die soggetti ad una eventuale impugnativa contestazione giurisdizionale, né potendosi consentire che il privato confinante -attraverso l'utilizzo ad libitum dello strumento dell'accesso- possa decidere di impugnare i relativi atti in qualsiasi momento.

Ai fini della decorrenza del termine per l'impugnazione, da parte di terzi, di provvedimenti di concessione in sanatoria di manufatti abusivi, deve aversi esclusivo riguardo alla data di scadenza della pubblicazione del provvedimento a sanatoria, essendo già compiutamente nota la lesione materiale subita; nel caso di concessione edilizia in sanatoria, infatti, si pone la necessità della individuazione del dies a quo dell'impugnativa al fine di assicurare stabilità e certezza agli atti amministrativi, non potendo gli stessi rimanere sine die soggetti ad una eventuale impugnativa contestazione giurisdizionale, né potendosi consentire che il privato confinante -attraverso l'utilizzo ad libitum dello strumento dell'accesso- possa decidere di impugnare i relativi atti in qualsiasi momento (TAR Puglia-Lecce, sez. III, 21.05.2009, n. 1200) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 20.04.2012 n. 885 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il potere di applicare le sanzioni di cui all’art. 15 della legge n. 1497/1939, in cui è compresa quella pecuniaria, permane finché perdura l’illecito, che ha natura permanente e tale permanenza cessa soltanto con la rimessione in pristino o con il pagamento della sanzione, ipotesi nel caso non verificatesi.
Il potere di esigere l’indennità sussiste pertanto finché perdura l’illiceità della condotta: la permanenza dell’illecito paesaggistico comporta la permanenza di tale attributo anche oltre il momento di realizzazione dell’opera, e fintantoché condotta non siano posti nel nulla gli effetti di quella attività.
Tale permanenza cessa con il venir meno della situazione della illiceità, coincidente con il rilascio delle autorizzazioni ancorché postume; in particolare, la sanzione pecuniaria di tipo ambientale (c.d. indennità risarcitoria), ex art. 167 d.lgs. n. 42 del 2004, attesa la natura della medesima, sconta il regime prescrizionale quinquennale (sia pure con i temperamenti propri della materia) di cui all'art. 28 l. n. 689 del 1981.

In materia un recente arresto del giudice d’appello (C.G.A., decisione n. 554 del 13.09.2011), relativo alla previgente disciplina dell’indennità in parola, ha affermato che “il potere di applicare le sanzioni di cui all’art. 15 della citata legge n. 1497/1939, in cui è compresa quella pecuniaria, permane finché perdura l’illecito, che ha natura permanente e tale permanenza cessa soltanto con la rimessione in pristino o con il pagamento della sanzione, ipotesi nel caso non verificatesi (cfr. decisione C.G.A., sezione giurisdizionale, 02.03.2006, n. 79)”.
Il potere di esigere l’indennità sussiste pertanto finché perdura l’illiceità della condotta: la permanenza dell’illecito paesaggistico comporta la permanenza di tale attributo anche oltre il momento di realizzazione dell’opera, e fintantoché condotta non siano posti nel nulla gli effetti di quella attività.
Come però pure precisato in giurisprudenza, tale permanenza cessa con il venir meno della situazione della illiceità, coincidente con il rilascio delle autorizzazioni ancorché postume; in particolare, la sanzione pecuniaria di tipo ambientale (c.d. indennità risarcitoria), ex art. 167 d.lgs. n. 42 del 2004, attesa la natura della medesima, sconta il regime prescrizionale quinquennale (sia pure con i temperamenti propri della materia) di cui all'art. 28 l. n. 689 del 1981 (TAR Toscana, Firenze, sez. III, sentenza 18.12.2009, n. 3851) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 20.04.2012 n. 884 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI - COMPETENZE GESTIONALIE' legittima la delibera di Giunta Comunale con la quale è stato deciso di non procedere al rinnovo di una convenzione.
Invero, stabilisce l’art. 42, comma primo, del d.lgs. 18.08.2000 n. 267 che “Il consiglio è l'organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo”. Aggiunge il secondo comma della stessa disposizione che “Il consiglio ha competenza limitatamente ai seguenti atti fondamentali: (…) e) organizzazione dei pubblici servizi, costituzione di istituzioni e aziende speciali, concessione dei pubblici servizi, partecipazione dell'ente locale a società di capitali, affidamento di attività o servizi mediante convenzione”.
Come si vede, in base alle norme illustrate, sono attribuite alla competenza del consiglio comunale le decisioni afferenti la materia degli affidamenti in convenzione dei pubblici servizi.

Va tuttavia osservato che, nel caso concreto, sebbene la questione sulla quale è intervenuta la Giunta Comunale riguardi proprio la materia degli affidamenti in convenzione dei pubblici servizi, non è possibile affermare l’incompetenza del predetto organo. Ciò in quanto il provvedimento impugnato non ha fatto altro che ribadire una volontà già manifestata dall’ente che, con la sottoscrizione della convenzione stipulata con la Fondazione Asilo Infantile Umberto I, aveva stabilito che tale convenzione dovesse avere scadenza in data 31.12.2012.
L’atto della Giunta non ha dunque introdotto disposizioni innovative riguardanti aspetti fondamentali delle modalità di erogazione del servizio (che avrebbero dovuto queste sì essere introdotte solo con atto adottato dal consiglio comunale); ma costituisce, a ben guardare, null’altro che una presa d’atto di quanto già precedentemente deliberato; per questo motivo, esso si pone quale atto meramente esecutivo
di decisioni già assunte, come tale sottratto alla competenza dell’organo consiliare.

... per l'annullamento della delibera della Giunta Comunale (GC) n. 193 del 19.12.2011, esposta all'albo comunale fino al 06/01//2012, con cui è stato deciso di non procedere al rinnovo della convenzione con la Fondazione Asilo Infantile Umberto I repertoriata al nr. 31/3, alla prossima scadenza prevista al 31.12.2012, nonché di tutti gli atti connessi.
...
Il ricorso è infondato.
Stabilisce l’art. 42, comma primo, del d.lgs. 18.08.2000 n. 267 che “Il consiglio è l'organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo”.
Aggiunge il secondo comma della stessa disposizione che “Il consiglio ha competenza limitatamente ai seguenti atti fondamentali: (…) e) organizzazione dei pubblici servizi, costituzione di istituzioni e aziende speciali, concessione dei pubblici servizi, partecipazione dell'ente locale a società di capitali, affidamento di attività o servizi mediante convenzione”.
Come si vede, in base alle norme illustrate, sono attribuite alla competenza del consiglio comunale le decisioni afferenti la materia degli affidamenti in convenzione dei pubblici servizi.
Va tuttavia osservato che, nel caso concreto, sebbene la questione sulla quale è intervenuta la Giunta Comunale riguardi proprio la materia degli affidamenti in convenzione dei pubblici servizi, non è possibile affermare l’incompetenza del predetto organo. Ciò in quanto il provvedimento impugnato non ha fatto altro che ribadire una volontà già manifestata dall’ente che, con la sottoscrizione della convenzione stipulata con la Fondazione Asilo Infantile Umberto I, aveva stabilito che tale convenzione dovesse avere scadenza in data 31.12.2012.
L’atto della Giunta non ha dunque introdotto disposizioni innovative riguardanti aspetti fondamentali delle modalità di erogazione del servizio (che avrebbero dovuto queste sì essere introdotte solo con atto adottato dal consiglio comunale); ma costituisce, a ben guardare, null’altro che una presa d’atto di quanto già precedentemente deliberato; per questo motivo, esso si pone quale atto meramente esecutivo di decisioni già assunte, come tale sottratto alla competenza dell’organo consiliare (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 19.04.2012 n. 1150 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZILa clausola della convenzione secondo cui v'è il rinnovo automatico del contratto operante in caso di mancata disdetta è da ritenersi nulla ai sensi dell’art. 6, comma 2, della legge 24.12.1993 n. 537 (oggi abrogata ma applicabile alla fattispecie di causa ratione temporis), in base alla quale “è vietato il rinnovo tacito dei contratti delle pubbliche amministrazioni per la fornitura di beni e servizi, ivi compresi quelli affidati in concessione a soggetti iscritti in appositi albi.
I contratti stipulati in violazione del predetto divieto sono nulli”; norma che, secondo la giurisprudenza, costituisce espressione di un principio generale attuativo di un vincolo comunitario discendente dal Trattato e, come tale, valevole per tutti gli atti negoziali della pubblica amministrazione e non solo per quelli concernenti gli appalti di servizi, opere e forniture, come sembrerebbe evincersi dal suo tenore letterale.

In senso contrario non può invocarsi l’art. 1 della predetta convenzione, nella parte in cui prevede una clausola di rinnovo automatico del contratto operante in caso di mancata disdetta.
Tale clausola invero è da ritenersi nulla ai sensi dell’art. 6, comma 2, della legge 24.12.1993 n. 537 (oggi abrogata ma applicabile alla fattispecie di causa ratione temporis), in base alla quale “è vietato il rinnovo tacito dei contratti delle pubbliche amministrazioni per la fornitura di beni e servizi, ivi compresi quelli affidati in concessione a soggetti iscritti in appositi albi. I contratti stipulati in violazione del predetto divieto sono nulli”; norma che, secondo la giurisprudenza, costituisce espressione di un principio generale attuativo di un vincolo comunitario discendente dal Trattato e, come tale, valevole per tutti gli atti negoziali della pubblica amministrazione e non solo per quelli concernenti gli appalti di servizi, opere e forniture, come sembrerebbe evincersi dal suo tenore letterale (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 07.04.2011 n. 2151) (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 19.04.2012 n. 1150 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ai fini della determinazione del contenuto lesivo di un provvedimento, deve aversi riguardo alla sua capacità di determinare un arresto del procedimento, a prescindere dalla sua natura di atto endoprocedimentale non autonomamente impugnabile.
In tale caso, infatti, si verifica una eccezione alla regola della non impugnabilità degli atti endoprocedimentali, in particolar modo quando si chiede la tutela di interessi pretensivi, i quali non altrimenti potrebbe essere garantiti se non azionando l'interesse strumentale all'eliminazione dell'atto o del comportamento preclusivo del successivo sviluppo del procedimento amministrativo. Ciò che conta, infatti, è l'effetto preclusivo del successivo sviluppo del procedimento.
Sono atti autonomamente impugnabili quegli atti interlocutori idonei a cagionare un arresto procedimentale capace di frustrare l'aspirazione dell'istante ad un celere soddisfacimento dell'interesse pretensivo prospettato ovvero ancora gli atti soprassessori, che, rinviando ad un avvenimento futuro ed incerto nell'an e nel quando il soddisfacimento del suddetto interesse pretensivo, determinano un arresto del procedimento che lo stesso privato ha attivato con la sua istanza.

Ai fini della determinazione del contenuto lesivo di un provvedimento, deve aversi riguardo alla sua capacità di determinare un arresto del procedimento, a prescindere dalla sua natura di atto endoprocedimentale non autonomamente impugnabile.
In tale caso, infatti, si verifica una eccezione alla regola della non impugnabilità degli atti endoprocedimentali, in particolar modo quando si chiede la tutela di interessi pretensivi, i quali non altrimenti potrebbe essere garantiti se non azionando l'interesse strumentale all'eliminazione dell'atto o del comportamento preclusivo del successivo sviluppo del procedimento amministrativo. Ciò che conta, infatti, è l'effetto preclusivo del successivo sviluppo del procedimento (TAR Bari, sez. III, 26.01.2012 n. 246).
Ed infatti la giurisprudenza ha in più occasioni stabilito che sono atti autonomamente impugnabili quegli atti interlocutori idonei a cagionare un arresto procedimentale capace di frustrare l'aspirazione dell'istante ad un celere soddisfacimento dell'interesse pretensivo prospettato ovvero ancora gli atti soprassessori, che, rinviando ad un avvenimento futuro ed incerto nell'an e nel quando il soddisfacimento del suddetto interesse pretensivo, determinano un arresto del procedimento che lo stesso privato ha attivato con la sua istanza (così TAR Salerno, sez. II, 12.12.2011 n. 1983; Cons. St., sez. IV, 16.05.2011 n. 2961; TAR Campania, sez. VII, 05.05.2011 n. 2460) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 19.04.2012 n. 821 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In linea generale, a seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 259/2003 (Codice delle Comunicazioni) le valutazioni urbanistico-edilizie sono assorbite nel procedimento delineato dall'art. 87, che prevede un unico procedimento autorizzatorio per l'installazione delle infrastrutture di comunicazione elettronica.
Detto procedimento è finalizzato a garantire, tramite procedure tempestive e semplificate, la parità delle condizioni concorrenziali fra i diversi gestori nella realizzazione delle proprie reti di comunicazione sul territorio nazionale, nonché la osservanza di livelli uniformi di compatibilità ambientale delle emissioni radioelettriche, stante che l'intento perseguito dal legislatore comunitario e da quello nazionale è quello di consentire la installazione di “stazioni radio base” in forza di un unico provvedimento autorizzatorio, che deve essere rilasciato sulla base di un procedimento unitario, nel contesto del quale devono essere fatte confluire le valutazioni sia di tipo ambientale che di tipo urbanistico.
L'installazione di stazioni radio base per la telefonia mobile risulta compiutamente disciplinata dalla normativa summenzionata, che prevede che tutte le problematiche coinvolte vengano valutate nell'ambito di un unico procedimento attivato dall'interessato, che assorbe in sé le valutazioni a carattere edilizio.
Non fa eccezione a tale conclusione neanche la valutazione dell’impatto della stazione radio base sui limiti previsti dalla legge per limitare l’inquinamento elettromagnetico: da un lato, infatti, l’art. 87, nel disciplinare unitariamente il procedimento autorizzatorio, non ammette eccezioni; dall’altro, fa espresso riferimento all’A.R.P.A. ai fini della valutazione della compatibilità del progetto con i limiti di esposizione, i valori di attenzione e gli obiettivi di qualità, stabiliti uniformemente a livello nazionale dalla legge 36 del 2001.
Pertanto, è illegittimo il provvedimento di rigetto dell’autorizzazione alla installazione di un impianto di trasmissione presentata ai sensi dell'art. 87, d.lgs. 01.08.2003 n. 259, ove esso contrasti con le valutazioni favorevoli al progetto rassegnate dell’A.R.P.A., unica autorità competente a pronunciarsi per gli aspetti strettamente tecnici in ordine alla compatibilità dell'impianto, al rispetto dei limiti di esposizione, dei valori di attenzione e degli obiettivi di qualità relativi alle emissioni elettromagnetiche.
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La valutazione di compatibilità edilizio-urbanistica dell'intervento per l’installazione di un impianto di telefonia costituisce un sub-procedimento del Comune da compiersi nell'ambito dei 90 giorni complessivi previsti dal comma 9 dell'art. 87 per la formazione del silenzio assenso, ed è subordinata soltanto all'autorizzazione prevista dall'art. 87, d.lgs. n. 259 del 2003, che pone una normativa speciale ed esaustiva che include anche la valutazione della compatibilità urbanistico-edilizia dell'intervento.
D’altra parte laddove il nuovo procedimento fosse destinato non a sostituire, ma ad abbinarsi a quello edilizio ordinario, verrebbero di fatto vanificati i principi ispiratori del Codice delle Comunicazioni Elettroniche, in particolare quelli della previsione di procedure tempestive, non discriminatorie e trasparenti per la concessione del diritto di installazione e della riduzione dei termini per la conclusione dei procedimenti, nonché della regolazione uniforme dei medesimi.
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Il comma 9 dell’art. 87 del d.lgs. 259 del 2003 stabilisce che “le istanze di autorizzazione e le denunce di attività di cui al presente articolo (…) si intendono accolte qualora, entro novanta giorni dalla presentazione del progetto e della relativa domanda, fatta eccezione per il dissenso di cui al comma 8, non sia stato comunicato un provvedimento di diniego o un parere negativo da parte dell'organismo competente ad effettuare i controlli, di cui all'articolo 14 della legge 22.02.2001, n. 36”.
Tale termine, ai sensi del comma 5, può essere interrotto solo per una sola volta, entro quindici giorni dalla data di ricezione dell'istanza, per consentire il rilascio di dichiarazioni e l'integrazione della documentazione prodotta.
Tale termine, per giurisprudenza pacifica, decorre, infatti, dalla presentazione della domanda.
Ne consegue che è illegittimo il provvedimento impugnato, laddove nega l’esistenza del titolo abilitativo e impone la demolizione delle opere realizzate, non essendo tale ordine preceduto da alcuna valutazione in ordine all’interesse pubblico esistente nonché da alcun provvedimento di annullamento dell’atto tacitamente formatosi, e non essendo neppure necessario il rispetto delle disposizioni di cui all'art. 20, comma 4, della legge n. 241/1990, stante il principio di specialità vigente nel nostro ordinamento giuridico.

Anche recentemente questa Sezione (sentenze 09.03.2011, n. 419; 11.01.2011 n. 22; 08.07.2009, n. 1213, confermata dal C.G.A. con decisione n.1448 del 02.12.2010) ha affermato che, in linea generale, a seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 259/2003 (Codice delle Comunicazioni), recepito nella Regione Siciliana con l'art. 103 della l.r. 28.12.2004, n. 17, le valutazioni urbanistico-edilizie sono assorbite nel procedimento delineato dall'art. 87, che prevede un unico procedimento autorizzatorio per l'installazione delle infrastrutture di comunicazione elettronica.
Detto procedimento è finalizzato a garantire, tramite procedure tempestive e semplificate, la parità delle condizioni concorrenziali fra i diversi gestori nella realizzazione delle proprie reti di comunicazione sul territorio nazionale, nonché la osservanza di livelli uniformi di compatibilità ambientale delle emissioni radioelettriche, stante che l'intento perseguito dal legislatore comunitario e da quello nazionale è quello di consentire la installazione di “stazioni radio base” in forza di un unico provvedimento autorizzatorio, che deve essere rilasciato sulla base di un procedimento unitario, nel contesto del quale devono essere fatte confluire le valutazioni sia di tipo ambientale che di tipo urbanistico (cfr. Corte Costituzionale, 28.03.2006, n. 129; 06.07.2006, n. 265).
In particolare, il comma 1 dell’art. 87 del d.lgs. 259/2003 stabilisce espressamente che l’installazione di “(…) stazioni radio base per reti di comunicazioni elettroniche mobili GSM/UMTS (…) , viene autorizzata dagli Enti locali, previo accertamento, da parte dell'Organismo competente ad effettuare i controlli, di cui all'articolo 14 della legge 22.02.2001, n. 36, della compatibilità del progetto con i limiti di esposizione, i valori di attenzione e gli obiettivi di qualità, stabiliti uniformemente a livello nazionale in relazione al disposto della citata legge 22.02.2001, n. 36, e relativi provvedimenti di attuazione.”
Detto organismo altri non è che l’A.R.P.A. (Agenzia regionale per la protezione dell'ambiente), espressamente deputata, per legge, alla tutela dei cittadini dall’esposizione ai campi elettromagnetici.
Ai sensi del comma 3 “l'istanza, conforme al modello di cui al modello A dell'allegato n. 13, realizzato al fine della sua acquisizione su supporti informatici e destinato alla formazione del catasto nazionale delle sorgenti elettromagnetiche di origine industriale, deve essere corredata della documentazione atta a comprovare il rispetto dei limiti di esposizione, dei valori di attenzione e degli obiettivi di qualità, relativi alle emissioni elettromagnetiche, di cui alla legge 22.02.2001, n. 36, e relativi provvedimenti di attuazione, attraverso l'utilizzo di modelli predittivi conformi alle prescrizioni della CEI, non appena emanate. (…) Nel caso di installazione di impianti, con tecnologia UMTS od altre, con potenza in singola antenna uguale od inferiore ai 20 Watt, fermo restando il rispetto dei limiti di esposizione, dei valori di attenzione e degli obiettivi di qualità sopra indicati, è sufficiente la denuncia di inizio attività”.
Appare dunque evidente che l'installazione di stazioni radio base per la telefonia mobile risulta compiutamente disciplinata dalla normativa summenzionata, che prevede che tutte le problematiche coinvolte vengano valutate nell'ambito di un unico procedimento attivato dall'interessato, che assorbe in sé le valutazioni a carattere edilizio (ex multis Cons. St., sez. VI, 12.01.2011 n. 98; id., 08.06.2010 n. 3412; id., 03.06.2010 n. 3492; C.G.A., 17.08.2009 n. 678; Tar Campania, sez. VII, 28.10.2011 n. 5030; Tar Palermo, sez. II, 09.03.2011, n. 419; id., 14.02.2011 n. 267; id., 19.02.2009, n. 374; Tar Lazio, sez. II, 19.07.2006 n. 6056).
Non fa eccezione a tale conclusione neanche la valutazione dell’impatto della stazione radio base sui limiti previsti dalla legge per limitare l’inquinamento elettromagnetico: da un lato, infatti, l’art. 87, nel disciplinare unitariamente il procedimento autorizzatorio, non ammette eccezioni; dall’altro, fa espresso riferimento all’A.R.P.A. ai fini della valutazione della compatibilità del progetto con i limiti di esposizione, i valori di attenzione e gli obiettivi di qualità, stabiliti uniformemente a livello nazionale dalla legge 36 del 2001.
Pertanto, in fattispecie simili, la giurisprudenza amministrativa ha ritenuto che sia illegittimo il provvedimento di rigetto dell’autorizzazione alla installazione di un impianto di trasmissione presentata ai sensi dell'art. 87, d.lgs. 01.08.2003 n. 259, ove esso contrasti con le valutazioni favorevoli al progetto rassegnate dell’A.R.P.A., unica autorità competente a pronunciarsi per gli aspetti strettamente tecnici in ordine alla compatibilità dell'impianto, al rispetto dei limiti di esposizione, dei valori di attenzione e degli obiettivi di qualità relativi alle emissioni elettromagnetiche (TAR Latina, 02.07.2007, n. 468).
È quindi altamente probabile che il Comune abbia confuso la fase autorizzatoria dell’impianto con la successiva fase di controllo e di verifica del rispetto dei valori di campo elettromagnetico dell'impianto già attivato, per la quale occorre rinviare alla fase successiva di monitoraggio dei valori e controllo, quest’ultima legittimamente demandata alla competenza di autorità diverse dall’A.R.P.A., i cui pareri si inseriscono nel procedimento per l'installazione degli impianti di telefonia ope legis, alla stregua di pareri tecnici sulla base del riscontro del progetto e della documentazione presentata dalla società che intende installare e sono richiesti soltanto ed esclusivamente per la concreta attivazione dell'impianto, ciò al fine anche di stabilire se il volume complessivo delle emissioni prodotte da tutti gli impianti insistenti sullo stesso sito risulti superiore ai limiti fissati dal d.P.C.M. 08.07.2003 (Tar Napoli, sez. VII, 22.03.2007 n. 2702).
Sul punto, recentemente il Consiglio di Stato (sez. VI, 24.09.2010 n. 7128) ha ribadito che la circostanza che il parere dell'A.R.P.A. sia richiesto solo ed esclusivamente ai fini della concreta attivazione dell'impianto, rende insussistente l’onere per il richiedente di allegare il parere dell’amministrazione suddetta in sede di presentazione dell'istanza (ovvero della d.i.a.), né un puntuale obbligo di far pervenire il parere medesimo all'Ente procedente entro il termine di novanta giorni di cui al comma 9 dell'art. 87, d.lgs. n. 259/2003.
Parimenti, è anche possibile che il Comune abbia sovrapposto alla disciplina dell’art. 87 del d.lgs. 259/2003, quella del d.P.R. 380/2001 (testo Unico in materia Edilizia), che all’art. 5, comma 3, lett. a) prevede il rilascio del parere della ASL ai fini del rilascio del certificato di agibilità degli edifici, ossia di quel certificato che, ai sensi dell’art. 24 del T.U., attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, valutate secondo quanto dispone la normativa vigente.
Tuttavia, come ormai pacificamente stabilito dalla giurisprudenza amministrativa consolidata, la valutazione di compatibilità edilizio-urbanistica dell'intervento per l’installazione di un impianto di telefonia costituisce un sub procedimento del Comune da compiersi nell'ambito dei 90 giorni complessivi previsti dal comma 9 dell'art. 87 per la formazione del silenzio assenso, ed è subordinata soltanto all'autorizzazione prevista dall'art. 87, d.lgs. n. 259 del 2003, che pone una normativa speciale ed esaustiva che include anche la valutazione della compatibilità urbanistico-edilizia dell'intervento (Tar Bari, sez. III, 06.10.2011 n. 1488)
D’altra parte laddove il nuovo procedimento fosse destinato non a sostituire, ma ad abbinarsi a quello edilizio ordinario, verrebbero di fatto vanificati i principi ispiratori del Codice delle Comunicazioni Elettroniche, in particolare quelli della previsione di procedure tempestive, non discriminatorie e trasparenti per la concessione del diritto di installazione e della riduzione dei termini per la conclusione dei procedimenti, nonché della regolazione uniforme dei medesimi (Cons. St., 98/2011, cit.).
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Deve essere accolta anche la prima censura dei motivi aggiunti, con la quale la Vodafone prospetta la avvenuta formazione del silenzio assenso.
Infatti, il comma 9 dell’art. 87 del d.lgs. 259 del 2003 stabilisce che “le istanze di autorizzazione e le denunce di attività di cui al presente articolo (…) si intendono accolte qualora, entro novanta giorni dalla presentazione del progetto e della relativa domanda, fatta eccezione per il dissenso di cui al comma 8, non sia stato comunicato un provvedimento di diniego o un parere negativo da parte dell'organismo competente ad effettuare i controlli, di cui all'articolo 14 della legge 22.02.2001, n. 36”.
Tale termine, ai sensi del comma 5, può essere interrotto solo per una sola volta, entro quindici giorni dalla data di ricezione dell'istanza, per consentire il rilascio di dichiarazioni e l'integrazione della documentazione prodotta.
Nel caso concreto, la Vodafone ha presentato l’istanza in data 10.03.2009, ed ha integrato la documentazione l’11.12.2009.
Considerando che il provvedimento impugnato è stato adottato il 28.02.2011, è evidente che il termine di novanta giorni per la formazione del silenzio assenso è decorso, con conseguente formazione dell’atto.
Tale termine, per giurisprudenza pacifica, decorre, infatti, dalla presentazione della domanda (tra le più recenti Tar Bari, sez. III, 25.02.2012 n. 402; id., 06.10.2011 n. 1488; Tar Catania, sez. I, 24.02.2012 n. 485).
Ne consegue che è illegittimo il provvedimento impugnato, laddove nega l’esistenza del titolo abilitativo e impone la demolizione delle opere realizzate, non essendo tale ordine preceduto da alcuna valutazione in ordine all’interesse pubblico esistente nonché da alcun provvedimento di annullamento dell’atto tacitamente formatosi, e non essendo neppure necessario il rispetto delle disposizioni di cui all'art. 20, comma 4, della legge n. 241/1990, stante il principio di specialità vigente nel nostro ordinamento giuridico (Cons. St., sez. III, 30.09.2011 n. 4294)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 19.04.2012 n. 821 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Grava sul danneggiato l'onere di provare tutti gli elementi costitutivi della domanda di risarcimento del danno per fatto illecito (danno, nesso causale e colpa); sicché il risarcimento del danno non è una conseguenza automatica e costante dell'annullamento giurisdizionale, richiedendo la positiva verifica, oltre che della lesione della situazione soggettiva di interesse tutelata dall'ordinamento, della sussistenza della colpa o del dolo dell'Amministrazione e del nesso causale tra l'illecito e il danno subito.
La domanda di risarcimento dei danni deve invece essere rigettata in quanto formulata in modo labiale e generico in violazione del principio dell'onere della prova di cui all'art. 2697 c.c. dal quale essa è regolata, e in base al quale chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento, per cui grava sul danneggiato l'onere di provare, ai sensi del citato articolo, tutti gli elementi costitutivi della domanda di risarcimento del danno per fatto illecito (danno, nesso causale e colpa); sicché il risarcimento del danno non è una conseguenza automatica e costante dell'annullamento giurisdizionale, richiedendo la positiva verifica, oltre che della lesione della situazione soggettiva di interesse tutelata dall'ordinamento, della sussistenza della colpa o del dolo dell'Amministrazione e del nesso causale tra l'illecito e il danno subito (cfr. ex plurimis, Consiglio Stato, sez. V, 15.09.2010, n. 6797; Tar Palermo, sez. II, 09.03.2011 n. 427) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 19.04.2012 n. 821 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente alla impugnazione dell'ordinanza di demolizione -o alla notifica del provvedimento di irrogazione delle altre sanzioni per gli abusi edilizi- produce l'effetto di rendere inefficace tale provvedimento e, quindi, improcedibile l'impugnazione stessa, per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto il riesame dell'abusività dell'opera, sia pure al fine di verificarne la eventuale sanabilità, provocato da detta istanza, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito od implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
Da ciò consegue:
- che il ricorso giurisdizionale avverso un provvedimento sanzionatorio, proposto anteriormente all'istanza di concessione in sanatoria, deve ritenersi improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, “spostandosi” l'interesse del responsabile dell'abuso edilizio dall'annullamento del provvedimento già adottato, all'eventuale annullamento del provvedimento (esplicito o implicito) di rigetto;
- che, applicando siffatti principi alla controversia in esame, nella quale la presentazione dell'istanza di sanatoria ex art. 36 T.U. n. 380/2001, in data 09.10.2008, segue la proposizione del presente ricorso, notificato in data 10.06.2008, deve dichiararsi l'improcedibilità di quest’ultimo, stante la sopravvenuta carenza di interesse, da parte del ricorrente, al conseguimento di una qualche decisione avverso l'atto impugnato, destinato comunque ad essere sostituito dalle determinazioni esplicite od implicite adottate sulla proposta istanza dovendo l’Amministrazione, nell’ipotesi di rigetto di detta istanza, emanare un nuovo provvedimento sanzionatorio, eventualmente di demolizione, con l’assegnazione, in tal caso, di un nuovo termine per adempiere.

In base alla giurisprudenza consolidata di questa Sezione la presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente alla impugnazione dell'ordinanza di demolizione -o alla notifica del provvedimento di irrogazione delle altre sanzioni per gli abusi edilizi- produce l'effetto di rendere inefficace tale provvedimento e, quindi, improcedibile l'impugnazione stessa, per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto il riesame dell'abusività dell'opera, sia pure al fine di verificarne la eventuale sanabilità, provocato da detta istanza, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito od implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa (cfr. TAR Sicilia, sez. I, 22.12.2004, n. 2921; sez. II, 06.07.2011 n. 1290 e 1292; id., 01.07.2011 n. 1282; id., 31.03.2011, n. 620; id., 09.03.2011, n. 432; id., 26.01.2011 n. 140; Cons. Stato Sez. IV, Sent., 12.05. n. 2844; id., sez. V, 21.04.1997, n. 3563; sez. IV, 11.12.1997, n. 1377; sez. V, 14.06.2004, n. 3794; C.G.A. 27.05.1997, n. 187; TAR Liguria, sez. II, 14.12.2000, n. 1310; TAR Toscana, sez. III, 18.12.2001, n. 2024; TAR Puglia, Bari, sez. II, 11.01.2002, n. 154; TAR Campania, Sez. IV, 02.02.2004, n. 1239, 18.03.2005, n. 1835, TAR Sez. III, 02.03.2004, n. 257).
Da ciò consegue:
- che il ricorso giurisdizionale avverso un provvedimento sanzionatorio, proposto anteriormente all'istanza di concessione in sanatoria, deve ritenersi improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, “spostandosi” l'interesse del responsabile dell'abuso edilizio dall'annullamento del provvedimento già adottato, all'eventuale annullamento del provvedimento (esplicito o implicito) di rigetto (Cons. Stato, sez. V, 26.06.2007, n. 3659; TAR Sicilia, Catania, Sez. II, 16.03.1991, n. 67, Palermo, Sez. II, 16.03.2004, n. 499; TAR Campania, Sez. IV, 24.09.2002, n. 5559, 22.02.2003, n. 1310; Tar Lazio, sez. II-ter, 04.11.2005, n. 10412, 09.07.2008, n. 6476);
- che, applicando siffatti principi alla controversia in esame, nella quale la presentazione dell'istanza di sanatoria ex art. 36 T.U. n. 380/2001, in data 09.10.2008, segue la proposizione del presente ricorso, notificato in data 10.06.2008, deve dichiararsi l'improcedibilità di quest’ultimo, stante la sopravvenuta carenza di interesse, da parte del ricorrente, al conseguimento di una qualche decisione avverso l'atto impugnato, destinato comunque ad essere sostituito dalle determinazioni esplicite od implicite adottate sulla proposta istanza dovendo l’Amministrazione, nell’ipotesi di rigetto di detta istanza, emanare un nuovo provvedimento sanzionatorio, eventualmente di demolizione, con l’assegnazione, in tal caso, di un nuovo termine per adempiere (Cons. Stato, sez. V, 04.08.2000, n. 4305; TAR Lazio, Latina, 28.11.2000, n. 826; TAR Lazio, sez. II, 17.01.2001, n. 230; TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 12.12.2001, n. 2424; TAR Puglia, Bari, sez. II, 11.01.2002, n. 154; TAR Emilia Romagna, sez. II, 11.06.2002, n. 857; TAR Campania, sez. IV, 26.07.2002, n. 4399; TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 17.05.2005, n. 751) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 19.04.2012 n. 820 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl potere comunale di adottare norme regolamentari per il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti, che trova la sua specifica fonte nell’art. 8, comma 6, della legge n. 36 del 2001, non può tradursi in una sostanziale previsione di divieto generalizzato di installazione nell’intero territorio comunale ovvero nella previsione volta a relegare in limitate zone dello stesso la relativa installazione.
Al contrario la potestà regolamentare comunale deve essere esercitata in modo da farne derivare regole ragionevoli, motivate e certe, poste a presidio di interessi di rilievo pubblico e di stampo urbanistico, tenuto conto che la tutela della popolazione dalle immissioni radioelettriche è riservata, dall’art. 4 della legge n. 36 del 2001, allo Stato, attraverso l’individuazione di limiti di esposizione, di valori di attenzione e di obiettivi di qualità.

È noto che le stazioni radio base per la telefonia mobile, al fine di dar luogo alla c.d. “rete di telecomunicazione”, richiedono per definizione una capillare distribuzione sul territorio, in particolare laddove, com’è proprio nel caso della telefonia mobile, alla debolezza del segnale d’antenna si associa un rapporto di maggiore contiguità tra le varie s.r.b. (in termini Cons. Stato, sez. VI, 20.10.2010, n. 7588).
A ciò si correla il fatto che il potere comunale di adottare norme regolamentari per il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti, che trova la sua specifica fonte nell’art. 8, comma 6, della legge n. 36 del 2001, non può tradursi in una sostanziale previsione di divieto generalizzato di installazione nell’intero territorio comunale ovvero nella previsione volta a relegare in limitate zone dello stesso la relativa installazione (TAR Toscana, sez. II; 17.02.2011, n. 335).
Al contrario la potestà regolamentare comunale deve essere esercitata in modo da farne derivare regole ragionevoli, motivate e certe, poste a presidio di interessi di rilievo pubblico e di stampo urbanistico, tenuto conto che la tutela della popolazione dalle immissioni radioelettriche è riservata, dall’art. 4 della legge n. 36 del 2001, allo Stato, attraverso l’individuazione di limiti di esposizione, di valori di attenzione e di obiettivi di qualità (in termini anche TAR Toscana, sez. II, 06.07.2011, n. 1156) (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 18.04.2012 n. 751 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Violazioni paesaggistiche (art. 734 cod. pen. e 181 d.lgs. 42/2004).
La contravvenzione punita dall'articolo 734 C.P. e quella contemplata dall'articolo 181 D.Lv. 42/2004 possono pacificamente concorrere tra loro in quanto quella prevista dal Codice dei beni culturali e del paesaggio sanziona penalmente la violazione del divieto di intervento in determinate zone senza la preventiva autorizzazione, mentre la contravvenzione prevista dal codice penale presuppone l’effettivo danneggiamento delle zone protette.
L’articolo 181 D.Lv. 42/2004, il quale si pone in sostanziale continuità con la previgente Legge 431/1985 e la normativa introdotta con il D.Lv. 490/1999 ora abrogato, contempla un reato formale e di pericolo che si perfeziona, indipendentemente dal danno arrecato al paesaggio, con la semplice esecuzione di interventi non autorizzati idonei ad incidere negativamente sull’originario assetto dei luoghi sottoposti a protezione.
E’ di tutta evidenza, attesa la posizione di estremo rigore del legislatore in tema di tutela del paesaggio, che assume rilevo, ai fini delle configurabilità del reato contemplato dal menzionato articolo 181, ogni intervento astrattamente idoneo ad incidere, modificandolo, sull’originario assetto del territorio sottoposto a vincolo paesaggistico ed eseguito in assenza o in difformità della prescritta autorizzazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.04.2012 n. 14746 - massima e file tratti da www.lexambiente.it).

APPALTIIl risarcimento del danno non è una conseguenza automatica dell’annullamento giurisdizionale dell’aggiudicazione, richiedendosi la positiva verifica di tutti i requisiti previsti, e cioè la lesione della situazione soggettiva tutelata, la colpa dell’Amministrazione, l’esistenza di un danno patrimoniale e la sussistenza di un nesso causale tra l’illecito ed il danno subito.
Vale a dire che in caso di domanda di risarcimento dei danni proposta nei confronti di una pubblica Amministrazione, al fine di stabilire se la fattispecie concreta integri una ipotesi di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., si è sempre affermato che il giudice deve procedere, in ordine successivo, a svolgere le seguenti indagini:
a) accertare la sussistenza di un evento dannoso;
b) stabilire se il danno accertato sia qualificabile come danno ingiusto, in relazione alla sua incidenza su un interesse rilevante per l’ordinamento, tale essendo l’interesse indifferentemente tutelato nelle forme del diritto soggettivo, dell’interesse legittimo e dell’interesse di altro tipo, pur se non immediato oggetto di tutela in quanto preso in considerazione dall’ordinamento a fini diversi da quelli risarcitori;
c) accertare sotto il profilo causale, facendo applicazione dei noti criteri generali, se l’evento dannoso sia riferibile ad una condotta dell’Amministrazione;
d) stabilire se l’evento dannoso sia riferibile a dolo o colpa dell’Amministrazione.
Per quanto riguarda l’elemento soggettivo, in particolare, in precedenza la giurisprudenza sosteneva che ai fini della risarcibilità del danno ingiusto causato dall’Amministrazione al privato –a seguito di un atto amministrativo dichiarato illegittimo– la presenza dell’elemento soggettivo della colpa, ai fini dell’imputabilità, fosse di per sé ravvisabile nell’accertata illegittimità del provvedimento; e anzi che il risarcimento del danno conseguente all’illegittimità dell’atto spettasse a prescindere dall’indagine sulla colpa dell’Amministrazione.
Oggi non è più invocabile il principio secondo il quale la colpa della struttura pubblica sarebbe in re ipsa nel caso di esecuzione volontaria di atto amministrativo illegittimo, poiché tale principio, enunciato dalla giurisprudenza con riferimento all’ipotesi di attività illecita, per lesione di un diritto soggettivo, secondo la tradizionale interpretazione dell'art. 2043 c.c., non è conciliabile con la lettura di tale disposizione svincolata dalla lesione di un diritto soggettivo; e l’imputazione non può quindi avvenire sulla base del mero dato obiettivo della illegittimità dell’azione amministrativa, ma il giudice deve svolgere una più penetrante indagine, non limitata al solo accertamento dell’illegittimità del provvedimento in relazione alla normativa ad esso applicabile, bensì estesa anche alla valutazione della colpa, non del funzionario agente (da riferire ai parametri della negligenza o imperizia), ma della P.A. intesa come apparato, che sarà configurabile nel caso in cui l’adozione e l’esecuzione dell’atto illegittimo (lesivo dell’interesse del danneggiato) sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l'esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi, e che il giudice può valutare, in quanto si pongono come limiti esterni alla discrezionalità.
Una nozione oggettiva, cioè, che tenga conto dei vizi che inficiano il provvedimento, nonché, in linea con le indicazioni della giurisprudenza comunitaria, della gravità della violazione commessa dall’Amministrazione, anche alla luce dell’ampiezza delle valutazioni discrezionali ad essa rimesse, dei precedenti giurisprudenziali, delle condizioni concrete e dell’apporto dato dai privati nel procedimento.
Pertanto, si è precisato che la responsabilità vada affermata quando la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimenti normativi e giuridici tale da palesare la negligenza e l’imperizia dell’organo nell’assunzione del provvedimento viziato, e che viceversa vada negata quando l’indagine conduca al riconoscimento di un errore scusabile, per la sussistenza di contrasti giurisprudenziali, per l’incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto.
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Secondo la Corte di Giustizia l’accertamento, a fini risarcitori, della responsabilità di una pubblica Amministrazione per violazione del diritto comunitario deve prescindere da qualsiasi forma di colpevolezza, anche laddove tale accertamento sia, come era finora, di tipo oggettivo, in quanto legata alla gravità della violazione stessa.

Per quanto riguarda il risarcimento del danno, appunto, in giurisprudenza si specifica tradizionalmente che esso non è una conseguenza automatica dell’annullamento giurisdizionale dell’aggiudicazione, richiedendosi la positiva verifica di tutti i requisiti previsti, e cioè la lesione della situazione soggettiva tutelata, la colpa dell’Amministrazione, l’esistenza di un danno patrimoniale e la sussistenza di un nesso causale tra l’illecito ed il danno subito (cfr., ex multis, Cons. St., sez. V, 28.05.2004 n. 3465).
Vale a dire che in caso di domanda di risarcimento dei danni proposta nei confronti di una pubblica Amministrazione, al fine di stabilire se la fattispecie concreta integri una ipotesi di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., si è sempre affermato che il giudice deve procedere, in ordine successivo, a svolgere le seguenti indagini:
a) accertare la sussistenza di un evento dannoso;
b) stabilire se il danno accertato sia qualificabile come danno ingiusto, in relazione alla sua incidenza su un interesse rilevante per l’ordinamento, tale essendo l’interesse indifferentemente tutelato nelle forme del diritto soggettivo, dell’interesse legittimo e dell’interesse di altro tipo, pur se non immediato oggetto di tutela in quanto preso in considerazione dall’ordinamento a fini diversi da quelli risarcitori;
c) accertare sotto il profilo causale, facendo applicazione dei noti criteri generali, se l’evento dannoso sia riferibile ad una condotta dell’Amministrazione;
d) stabilire se l’evento dannoso sia riferibile a dolo o colpa dell’Amministrazione.
Per quanto riguarda l’elemento soggettivo, in particolare, in precedenza la giurisprudenza sosteneva che ai fini della risarcibilità del danno ingiusto causato dall’Amministrazione al privato –a seguito di un atto amministrativo dichiarato illegittimo– la presenza dell’elemento soggettivo della colpa, ai fini dell’imputabilità, fosse di per sé ravvisabile nell’accertata illegittimità del provvedimento (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. III, 09.06.1995 n. 6542); e anzi che il risarcimento del danno conseguente all’illegittimità dell’atto spettasse a prescindere dall’indagine sulla colpa dell’Amministrazione (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. un., 22.10.1984 n. 5361).
Cass. Civ., Sez. Un., 22.07.1999 n. 500 ha modificato il precedente tradizionale orientamento, affermando che non è più invocabile il principio secondo il quale la colpa della struttura pubblica sarebbe in re ipsa nel caso di esecuzione volontaria di atto amministrativo illegittimo (cfr. anche Cass., sez. I civ., 22.02.2008 n. 4539), poiché tale principio, enunciato dalla giurisprudenza con riferimento all’ipotesi di attività illecita, per lesione di un diritto soggettivo, secondo la tradizionale interpretazione dell'art. 2043 c.c., non è conciliabile con la lettura di tale disposizione svincolata dalla lesione di un diritto soggettivo; e l’imputazione non può quindi avvenire sulla base del mero dato obiettivo della illegittimità dell’azione amministrativa, ma il giudice deve svolgere una più penetrante indagine, non limitata al solo accertamento dell’illegittimità del provvedimento in relazione alla normativa ad esso applicabile, bensì estesa anche alla valutazione della colpa, non del funzionario agente (da riferire ai parametri della negligenza o imperizia), ma della P.A. intesa come apparato, che sarà configurabile nel caso in cui l’adozione e l’esecuzione dell’atto illegittimo (lesivo dell’interesse del danneggiato) sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l'esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi, e che il giudice può valutare, in quanto si pongono come limiti esterni alla discrezionalità.
Una nozione oggettiva, cioè, che tenga conto dei vizi che inficiano il provvedimento, nonché, in linea con le indicazioni della giurisprudenza comunitaria, della gravità della violazione commessa dall’Amministrazione, anche alla luce dell’ampiezza delle valutazioni discrezionali ad essa rimesse, dei precedenti giurisprudenziali, delle condizioni concrete e dell’apporto dato dai privati nel procedimento.
Pertanto, si è precisato che la responsabilità vada affermata quando la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimenti normativi e giuridici tale da palesare la negligenza e l’imperizia dell’organo nell’assunzione del provvedimento viziato, e che viceversa vada negata quando l’indagine conduca al riconoscimento di un errore scusabile, per la sussistenza di contrasti giurisprudenziali, per l’incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto (cfr., ex multis, Cons. St., sez. V, 13.04.2010 n. 2029).
Tale nozione della colpa di tipo oggettivo, del resto, derivava dal recepimento di analogo orientamento della giurisprudenza comunitaria, secondo cui:
- gli Stati membri sono responsabili per i danni derivati ai singoli a causa di violazioni del diritto comunitario;
- tale principio trova applicazione anche nel caso in cui la violazione sia riferibile al legislatore nazionale;
- il risarcimento dei danni per la violazione di diritti riconosciuti ai singoli dalla normativa comunitaria non può essere subordinato a comportamenti dolosi o colposi dell’organo statale, essendo sufficiente che l’inadempimento sia grave e manifesto e in connessione diretta con i danni derivati (cfr., ex multis, Corte giustizia CE, 05.03.1996 n. 46).
In altri termini, secondo il diritto comunitario perché sussista responsabilità extracontrattuale dello Stato è necessario che sia stata compiuta una violazione grave e manifesta del diritto comunitario, e una violazione va considerata tale anche quando lo Stato membro interessato (e, se del caso, l’ente pubblico sub-statale) dispone di un margine di discrezionalità considerevolmente ridotto, se non addirittura inesistente, nel porre in essere l’atto all’origine del danno. L’esistenza e l’ampiezza di questo margine di discrezionalità devono essere determinate con riferimento esclusivo al diritto comunitario, e per stabilire se la violazione del diritto comunitario sia qualificabile come grave e manifesta il giudice nazionale deve tener conto di tutti gli elementi che la caratterizzano, tra cui figurano il carattere intenzionale o involontario della violazione e del conseguente danno, la scusabilità o inescusabilità di un eventuale errore di diritto, il fatto che i comportamenti di un’istituzione comunitaria abbiano concorso all’adozione o al mantenimento in vigore del provvedimento contrario al diritto comunitario (cfr. Corte giustizia CE, 04.07.2000 n. 424).
Tali criteri sono stati in tutti questi anni utilizzati sia nella materia degli appalti, nell’ambito della quale vengono più facilmente in rilievo disposizioni comunitarie da applicare che riconoscono diritti ai singoli, e sia in qualsiasi altra materia in cui fosse da accertare la responsabilità di una pubblica Amministrazione a fini risarcitori.
Tale orientamento ha visto modificare i suoi principi cardine ad opera della pronuncia della Corte Giustizia CE, sez. III, 30.09.2010 (causa C-314/2009), a seguito della quale il profilo dell’accertamento della sussistenza della colpa, sebbene nel senso oggettivo sopra chiarito, è destinato a perdere ogni importanza (in applicazione di tale pronuncia vedi TAR Lombardia–Brescia, sez. II 04.11.2010 n. 4552), essendosi affermato che “la direttiva del Consiglio 21.12.1989, 89/665/CEE, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18.06.1992, 92/50/CEE, deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale, la quale subordini il diritto ad ottenere un risarcimento, a motivo di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte di un’Amministrazione aggiudicatrice, al carattere colpevole di tale violazione, anche nel caso in cui l’applicazione della normativa in questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo all’Amministrazione suddetta, nonché sull’impossibilità per quest’ultima di far valere la mancanza di proprie capacità individuali e, dunque, un difetto di imputabilità soggettiva della violazione lamentata”.
In sostanza, la Corte ha ritenuto che gli Stati membri non possono subordinare la concessione di un risarcimento al riconoscimento del carattere colpevole della violazione della normativa sugli appalti pubblici commessa dall’amministrazione aggiudicatrice.
In primo luogo la Corte, dopo aver premesso che la direttiva 89/665 impone agli Stati membri di adottare le misure necessarie per garantire l’esistenza di procedure di ricorso efficaci e, in particolare, quanto più rapide possibile contro le decisioni delle amministrazioni aggiudicatrici che abbiano «violato» il diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici o le norme nazionali di trasposizione di quest’ultimo, e che per quanto riguarda, in particolare, il mezzo di ricorso inteso ad ottenere il risarcimento dei danni, la direttiva 89/665 stabilisce che gli Stati membri fanno sì che i provvedimenti presi ai fini dei ricorsi prevedano i poteri che permettano di accordare tale risarcimento ai soggetti lesi da una violazione, ha chiarito che, tuttavia, la direttiva 89/665 stabilisce solamente i requisiti minimi che le procedure di ricorso istituite negli ordinamenti giuridici nazionali devono rispettare al fine di garantire l’osservanza delle prescrizioni del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici, e che in mancanza di una disposizione specifica in merito spetta all’ordinamento giuridico interno di ogni Stato membro determinare le misure necessarie per garantire che le procedure di ricorso consentano effettivamente di accordare un risarcimento ai soggetti lesi da una violazione della normativa sugli appalti pubblici.
Ora, per la Corte “il tenore letterale degli artt. 1, n. 1, e 2, nn. 1, 5 e 6, nonché del sesto ‘considerando’ della direttiva 89/665 non indica in alcun modo che la violazione delle norme sugli appalti pubblici atta a far sorgere un diritto al risarcimento a favore del soggetto leso debba presentare caratteristiche particolari, quale quella di essere connessa ad una colpa, comprovata o presunta, dell’amministrazione aggiudicatrice, oppure quella di non ricadere sotto alcuna causa di esonero di responsabilità”. E tale conclusione sarebbe suffragata, da un lato, dal fatto che gli Stati membri possono prevedere per questo tipo di ricorsi termini ragionevoli da osservarsi a pena di decadenza, e ciò per evitare che i candidati e gli offerenti possano in qualsiasi momento allegare violazioni della normativa suddetta, e dall’altro dalla circostanza che gli stessi hanno la facoltà di prevedere che, dopo la conclusione del contratto successiva all’aggiudicazione dell’appalto, i poteri dell’organo responsabile delle procedure di ricorso siano limitati alla concessione di un risarcimento.
In tale contesto, ha precisato la Corte, “il rimedio risarcitorio può costituire un’alternativa procedurale compatibile con il principio di effettività, sotteso all’obiettivo di efficacia dei ricorsi perseguito dalla citata direttiva […], soltanto a condizione che la possibilità di riconoscere un risarcimento in caso di violazione delle norme sugli appalti pubblici non sia subordinata –così come non lo sono gli altri mezzi di ricorso…– alla constatazione dell’esistenza di un comportamento colpevole tenuto dall’amministrazione aggiudicatrice”.
Da questo punto di vista, la Corte ha rimarcato che, come rilevato dalla Commissione europea, poco importa al riguardo che la disciplina di riferimento “non faccia gravare sul soggetto leso l’onere della prova dell’esistenza di una colpa dell’amministrazione aggiudicatrice, bensì imponga a quest’ultima di vincere la presunzione di colpevolezza su di essa gravante, limitando i motivi invocabili a tal fine”, perché “quest’ultima normativa genera anch’essa il rischio che l’offerente pregiudicato da una decisione illegittima di un’amministrazione aggiudicatrice venga comunque privato del diritto di ottenere un risarcimento per il danno causato da tale decisione, nel caso in cui l’amministrazione suddetta riesca a vincere la presunzione di colpevolezza su di essa gravante”.
In definitiva, secondo la Corte di Giustizia l’accertamento, a fini risarcitori, della responsabilità di una pubblica Amministrazione per violazione del diritto comunitario deve prescindere da qualsiasi forma di colpevolezza, anche laddove tale accertamento sia, come era finora, di tipo oggettivo, in quanto legata alla gravità della violazione stessa (vedi le precisazioni di Cons. St., sez. VI, 09.03.2007 n. 1114, secondo cui dalla sentenza della Corte di Giustizia [14.10.2004, C-275/03] –che ha sanzionato lo Stato del Portogallo per aver subordinato la condanna al risarcimento dei soggetti lesi in seguito alle violazioni del diritto comunitario che regola la materia dei pubblici appalti all’allegazione della prova, da parte dei danneggiati, che gli atti illegittimi dello Stato o degli enti di diritto pubblico siano stati commessi colposamente o dolosamente– non può trarsi la conclusione che non sia più richiesto il requisito della colpa della P.A., dal momento che la decisione del giudice comunitario pare riferirsi all’onere della prova in relazione all’elemento soggettivo della responsabilità della P.A., e non all’esigenza di accertare la responsabilità, prescindendo dalla colpa dell’Amministrazione, perché nell’ordinamento italiano la possibilità per il privato danneggiato di utilizzare presunzioni pone sostanzialmente a carico della P.A. l’onere di dimostrare l’esistenza di un errore scusabile, senza alcuna lesione, quindi, dei principi comunitari)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. IV, sentenza 17.04.2012 n. 1028 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAnche se le procedure specifiche e rigorose previste dalle direttive comunitarie che coordinano le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici si applicano soltanto ai contratti il cui valore supera la soglia espressamente prevista, e che pertanto le disposizioni di tali direttive non si applicano agli appalti il cui valore non raggiunge la soglia fissata da queste ultime, ciò non significa che questi appalti siano del tutto esclusi dall’ambito di applicazione del diritto comunitario, in quanto le amministrazioni aggiudicatrici sono comunque tenute a rispettare le norme fondamentali del trattato Ce, con particolare riferimento al principio di parità di trattamento e non discriminazione.
Il principio espresso dalla sentenza della Corte di Giustizia 30.09.2010 –circa l’irrilevanza, al fine di riconoscere il risarcimento in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, della colpevolezza della riscontrata violazione di legge– non può che essere applicato anche in relazione agli appalti il cui importo si collochi al di sotto della c.d. soglia comunitaria; pena una ingiustificabile disparità di trattamento tra imprese che partecipano a gare sopra la soglia, che si vedrebbero riconoscere il risarcimento in base a tale nuovo principio, ed imprese che, partecipando a gare sotto quella soglia, se lo vedrebbero invece negare a causa di difficoltà interpretative della normativa, o della riscontrata esistenza di un qualsivoglia errore scusabile dell’Amministrazione.

Il Collegio osserva che in numerose occasioni la stessa giurisprudenza comunitaria ha affermato che anche se le procedure specifiche e rigorose previste dalle direttive comunitarie che coordinano le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici si applicano soltanto ai contratti il cui valore supera la soglia espressamente prevista, e che pertanto le disposizioni di tali direttive non si applicano agli appalti il cui valore non raggiunge la soglia fissata da queste ultime, ciò non significa che questi appalti siano del tutto esclusi dall’ambito di applicazione del diritto comunitario, in quanto le amministrazioni aggiudicatrici sono comunque tenute a rispettare le norme fondamentali del trattato Ce, con particolare riferimento al principio di parità di trattamento e non discriminazione (cfr. Tribunale I grado CE, sez. V, 20.05.2010 n. 258; vedi anche Corte giustizia CE, sez. I, 14.06.2007 n. 6; Id., sez. IV, 23.12.2009 n. 376).
In base a tali affermazioni, il Collegio ritiene che il principio espresso dalla citata sentenza della Corte di Giustizia 30.09.2010 –circa l’irrilevanza, al fine di riconoscere il risarcimento in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, della colpevolezza della riscontrata violazione di legge– non possa che essere applicato anche in relazione agli appalti il cui importo si collochi al di sotto della c.d. soglia comunitaria; pena una ingiustificabile disparità di trattamento tra imprese che partecipano a gare sopra la soglia, che si vedrebbero riconoscere il risarcimento in base a tale nuovo principio, ed imprese che, partecipando a gare sotto quella soglia, se lo vedrebbero invece negare a causa di difficoltà interpretative della normativa, o della riscontrata esistenza di un qualsivoglia errore scusabile dell’Amministrazione (in termini vedi già TAR Catania, Sez. IV, 07.12.2010 n. 4624).
D’altra parte, nell’ordinamento giuridico italiano un fenomeno interpretativo analogo si è già riscontrato, ad esempio con riferimento alla risarcibilità del danno da violazione di interessi legittimi, che, come è noto, è stata sempre tradizionalmente negata dalla giurisprudenza, per la quale non era configurabile un diritto al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi, con conseguente improponibilità della relativa domanda per difetto assoluto di giurisdizione (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. un., 21.01.1988 n. 436).
La L. 19.02.92 n. 142, recante “disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee (legge comunitaria per il 1991)”, all’art. 13, relativo proprio alle “violazioni del diritto comunitario in materia di appalti e forniture”, aveva però previsto che i soggetti che avessero “subìto una lesione a causa di atti compiuti in violazione del diritto comunitario in materia di appalti pubblici di lavori o di forniture o delle relative norme interne di recepimento” potessero “chiedere all’Amministrazione aggiudicatrice il risarcimento del danno”, e che la domanda di risarcimento fosse “proponibile dinanzi al giudice ordinario”, da chi avesse ottenuto l’annullamento dell’atto lesivo con sentenza del giudice amministrativo.
Ma pur dopo tale disposizione, la giurisprudenza continuava a sostenere che il principio generale della irrisarcibilità della lesione dell’interesse legittimo non potesse ritenersi superato a seguito dell’entrata in vigore del citato art. 13 della L. n. 142/1992, “trattandosi di innovazione espressamente limitata al settore della aggiudicazione degli appalti, come confermato dalla successiva legislazione in materia ed in particolare dall’art. 32, comma 3, della l. 11.02.1994 n. 109 (legge quadro in materia di appalti pubblici) –che estende espressamente il principio innovativo alle lesioni derivanti da atti compiuti in violazione della nuova legge sui lavori pubblici e del relativo regolamento– e dall'art. 11, lett. i), della l. 22.02.1994 n. 146 (legge comunitaria per il 1993), che testualmente estende la disposizione anche agli appalti di servizio” (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. un., 16.12.1994 n. 10800; vedi anche Cons. St., sez. IV, 11.12.1998 n. 1627, secondo cui l’art. 13 L. 142/1992, introducendo nell’ordinamento la possibilità del risarcimento per la lesione dell’interesse legittimo in materia di appalti, avesse natura sostanziale, ed in quanto tale non potesse trovare applicazione relativamente a fattispecie realizzatesi prima della sua entrata in vigore, perché all’applicazione retroattiva della norma ostava “la mancanza di una disposizione in tal senso e la non sussistenza nell'ordinamento di un principio generale in ordine alla reintegrazione per equivalente pecuniario della lesione di interessi legittimi”).
Per la prima volta, e ben prima del suo riconoscimento normativo generalizzato, Cass. Civ., Sez. Un., 22.07.1999 n. 500, ha però affermato il principio per cui anche la lesione di un interesse legittimo, al pari di quella di un diritto soggettivo o di altro interesse giuridicamente rilevante, può essere fonte di responsabilità aquiliana, e quindi dar luogo a risarcimento del danno ingiusto, a condizione che risulti danneggiato, per effetto dell’attività illegittima dell’Amministrazione, l’interesse al bene della vita al quale il primo si correla, e che detto interesse risulti meritevole di tutela alla stregua del diritto positivo. E questo perché ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana non assume rilievo determinante la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto, visto che la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione alla ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante.
Tale principio, come è noto, è stato consacrato in via generale dal legislatore, dapprima con l’art. 7 della L. n. 205/2000, che, nel sostituire l’art. 35 del D.Lgs. n. 80/1998, ha previsto che “il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto”, e, nel sostituire il primo periodo del terzo comma dell'art. 7 della L. n. 1034/1971 ha previsto che “il tribunale amministrativo regionale, nell'ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali”.
E, da ultimo, con il D.Lgs. n. 104/2010, di approvazione del codice del processo amministrativo, che all’art. 7, commi 4 e 5, dispone che “sono attribuite alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo le controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni, comprese quelle relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma. Nelle materie di giurisdizione esclusiva, indicate dalla legge e dall’articolo 133, il giudice amministrativo conosce, pure ai fini risarcitori, anche delle controversie nelle quali si faccia questione di diritti soggettivi”.
E il successivo art. 34, comma 1, lett. c), prevede che “in caso di accoglimento del ricorso il giudice, nei limiti della domanda,…condanna al pagamento di una somma di denaro, anche a titolo di risarcimento del danno, all’adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio e dispone misure di risarcimento in forma specifica ai sensi dell’articolo 2058 del codice civile”.
Vale a dire che nel tempo la giurisprudenza, ma anche il legislatore, si sono sempre orientati nel senso di evitare le disparità di trattamento che potrebbero derivare dal differenziare, all’interno di un genere più ampio quale può essere quello degli appalti, quelle fattispecie alle quali alcune normative, come quelle comunitarie, trovano applicazione solo in ragione di presupposti quali l’importo dell’appalto; differenziazione che non può essere ritenuta giuridicamente ammissibile quando a venire in rilievo non sono le normative in senso stretto, ma i principi di cui quelle sono espressione, o che sono finanche esplicitati nello stesso Trattato istitutivo della Comunità Europea.
È proprio sulla base di considerazioni di questo tipo, ad esempio, che in giurisprudenza si afferma spesso che, introdotto il principio della risarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi nel campo degli appalti pubblici disciplinati dal diritto comunitario, risulterebbe in insanabile contrasto con il principio di uguaglianza il mantenimento di un orientamento di segno negativo in merito alla tutelabilità aquiliana delle stesse posizioni soggettive coinvolte in procedure di gara regolate dalle norme di diritto interno, in quanto concernenti lavori o forniture di livello economico anche lievemente inferiore rispetto allo standard che rende operante la disciplina comunitaria; per cui le procedure di evidenza pubblica vanno applicate anche se l’importo è al di sotto della soglia comunitaria, in rispetto dei principi del trattato CE a tutela della concorrenza (cfr. Cons. St., sez. VI, 15.06.2009 n. 3829).
Sembra utile rilevare, in quest’ottica, che il D.Lgs. 12.04.2006 n. 163 (“Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE”), all’art. 27, relativo ai “principi relativi ai contratti esclusi”, dispone che (anche) “l’affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi forniture, esclusi, in tutto o in parte, dall’applicazione del presente codice, avviene nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità. L’affidamento deve essere preceduto da invito ad almeno cinque concorrenti, se compatibile con l’oggetto del contratto (…)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. IV, sentenza 17.04.2012 n. 1028 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTISul pregiudizio risarcibile all'impresa che si è vista lesionata dal non corretto svolgimento della gara d'appalto.
L’operato dell’Amministrazione ha violato l’interesse legittimo della ricorrente ad un corretto svolgimento della gara, al quale era sotteso l’interesse pretensivo al c.d. “bene della vita”, rappresentato, in questo caso, dall’aggiudicazione della gara stessa.
Il nesso causale sussiste anch’esso, perché con una corretta applicazione delle disposizioni regolatrici della procedura, la ricorrente si sarebbe vista aggiudicare la gara. E tale violazione ha poi determinato un sicuro danno patrimoniale alla ricorrente, perché avrebbe lucrato il c.d utile d’impresa.
Si tratta allora di liquidare concretamente il danno, cioè determinare la misura dell’obbligazione pecuniaria dovuta in sostituzione del bene della vita perduto.
Appare utile, a tal riguardo, rammentare che, in generale, il pregiudizio risarcibile si compone, secondo la definizione dell’art. 1223 cod. civ., del danno emergente e del lucro cessante, e cioè della diminuzione reale del patrimonio del privato, per effetto di esborsi connessi alla (inutile) partecipazione al procedimento, e della perdita di un’occasione di guadagno o, comunque, di un’utilità economica connessa all’adozione o all’esecuzione del provvedimento illegittimo.
Se per la prima voce di danno non si pongono particolari problemi nell’assolvimento dell'onere della prova, perché è sufficiente documentare le spese sostenute, che in questo caso non sono state provate, e che comunque il Collegio non ritiene risarcibili (cfr. Cons. St., sez. IV, 07.09.2010 n. 6485), per la seconda si configurano, viceversa, rilevanti difficoltà.
Per avere accesso al risarcimento, infatti, il privato deve dimostrare non solo che la sua sfera giuridica ha subito una diminuzione per effetto dell’atto illegittimo, ma che non si è accresciuta nella misura che avrebbe raggiunto se il provvedimento viziato non fosse stato adottato o eseguito.
In precedenza, sia il legislatore che la giurisprudenza hanno sentito l’esigenza di ricorrere a criteri presuntivi ed astratti di determinazione del danno.
Il primo ha individuato un preciso canone per la determinazione del pregiudizio connesso alla perdita di un’occasione di successo in una procedura concorsuale, definendo, con l’art. 35 del D.Lgs. n. 80/1998 (ora abrogato dal n. 20 del comma 1 dell’art. 4 dell’allegato 4 al D.Lgs. 02.07.2010 n. 104), un peculiare metodo di liquidazione del danno fondato proprio sulla definizione giudiziale di parametri valutativi indeterminati.
La giurisprudenza amministrativa ha invece individuato in via equitativa, ex art. 1226 c.c., un riferimento positivo, applicato analogicamente in materia di appalti sia di servizi che di forniture, prima nell’art. 345 della L. 20.03.1865 n. 2248, allegato F, poi nell’art. 122 del D.P.R. 21.12.1999 n. 554, nell’art. 37-septies, comma 1, lett. c, della l. 11.02.1994 n. 109, e infine nell’art. 134 del D.Lgs. 163/2006; tutte disposizioni che quantificano nel 10% “dell’importo delle opere non eseguite” l’importo da corrispondere all’appaltatore in caso di recesso facoltativo dell’Amministrazione, nella determinazione forfettaria ed automatica del margine di guadagno presunto nell’esecuzione di appalti di lavori pubblici (cfr., ex multis, Cons. St., sez. IV, 06.07.2004 n. 5012; Id., sez. V, 30.07.2008 n. 3806).
Tale orientamento, peraltro molto diffuso, non era però seguito in maniera unanime, sostenendosi anche che ai fini del risarcimento dei danni provocati da illegittimo esercizio del potere amministrativo il soggetto che avanza la domanda di risarcimento deve fornire in modo rigoroso la prova dell'esistenza del danno, non potendosi invocare il c.d. principio acquisitivo, perché tale principio attiene allo svolgimento dell'istruttoria e non all'allegazione dei fatti. Inoltre, nel processo amministrativo non sarebbero ammissibili domande di condanna generica ex art. 278 c.p.c., e il ricorso alla c.d. "sentenza sui criteri" –ex art. 35, comma 2, d.lgs. n. 80/1998– di liquidazione del danno postula che sia stata accertata l’esistenza del danno stesso e che il giudice sia in grado di individuare i criteri generali che saranno di guida per la formulazione dell'offerta da parte della P.A. (cfr. Cons. St., sez. V, 13.06.2008 n. 2967).
Alla luce di quanto ora disposto dall’art. 124 del citato D.Lgs. 104/2010, relativo alla “tutela in forma specifica e per equivalente”, ai sensi del quale “se il giudice non dichiara l’inefficacia del contratto dispone il risarcimento del danno per equivalente, subìto e provato”, il Collegio ritiene che tale orientamento più rigoroso vada condiviso, ma che esso non sia incompatibile con il precedente indirizzo.
Vale a dire che secondo il Collegio la ricorrente ha assolto l’onere probatorio previsto dall’art. 2697 c.c., secondo cui chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda, poiché l’esistenza ("an") del danno è stata provata in modo univoco, dato che con la corretta applicazione delle regole di gara la ricorrente sarebbe stata l’aggiudicataria, e avrebbe quindi lucrato il c.d utile d’impresa, visto che deve darsi come dato acquisito quello per cui ogni impresa esercita la propria attività perché vi realizza un guadagno.
E gli elementi prodotti in giudizio sono quindi sufficienti ad emettere una pronuncia che statuisca sul "quantum" spettante a titolo di riparazione pecuniaria, tenendo conto del fatto che, in materia di illeciti civili in generale, la prova del danno può essere articolata con ogni mezzo, ivi comprese le allegazioni e le presunzioni semplici di cui agli artt. 2727 e 2729 c.c. (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. III, 13.06.2008 n. 15986, con la precisazione che la relativa dimostrazione deve comunque risultare idonea a consentire al giudice, in applicazione della regula iuris di cui all'art. 116 c.p.c., una valutazione in concreto –e cioè caso per caso, anche a prescindere da mere regole statistiche– dell’assunto attoreo, rappresentato in termini consequenziali di verificazione dell’evento di danno/conseguenza ingiustamente dannosa, secondo la regola di inferenza probatoria del «più probabile che non»).
Pertanto, per quanto già precisato, il Collegio ritiene che sia stata accertata l’esistenza del danno stesso, e in particolare di quello derivante dal mancato guadagno inevitabilmente derivante dalla mancata esecuzione dei lavori, e anche del danno legato all’impossibilità di vantare in futuro quello specifico appalto nel proprio curriculum d’impresa, cioè la mancata acquisizione di requisiti di qualificazione e di valutazione, invocabili in successive gare.
C’è anche da dire che nel caso in cui le circostanze di fatto relative ad una fattispecie sottoposta a sindacato giurisdizionale siano state analiticamente ricostruite da una delle parti in causa, e non siano state espressamente contestate dall’altra nella loro veridicità, tali circostanze possono anche essere considerate argomenti di prova, alla luce del principio di necessaria valutazione del contegno globale delle parti e delle loro tesi difensive, ex art. 116, comma 2, c.p.c.: infatti, il comportamento processuale della parte può costituire unica e sufficiente fonte di prova e di convincimento del giudice, e non soltanto elemento di valutazione delle prove già acquisite al processo (cfr. Cons. St., sez. V, 13.06.2008 n. 2967).
Pertanto, per quanto riguarda il mancato utile d’impresa in relazione alla parte di lavori non eseguiti, il Collegio ritiene di dover riconoscere, ai sensi del citato art. 1226 c.c., un risarcimento del danno nella misura del 10% dell’importo delle stesse, come determinato a seguito del ribasso offerto dalla ricorrente.
C’è poi da dire che l’impresa ingiustamente privata dell’esecuzione di un appalto può rivendicare, a titolo di lucro cessante, anche la perdita della specifica possibilità concreta di incrementare il proprio avviamento per la parte relativa al curriculum professionale, da intendersi anche come immagine e prestigio professionale, al di là dell’incremento degli specifici requisiti di qualificazione e di partecipazione alle singole gare (cfr., ex multis, Cons. St., sez. IV, 27.11.2010 n. 8253).
In particolare, il danno che l’impresa riceverà in futuro dal mancato inserimento di questo specifico appalto nel proprio curriculum d’impresa, cioè il risarcimento del danno futuro, sia in termini di danno emergente che di lucro cessante, non può compiersi in base ai medesimi criteri di certezza che presiedono alla liquidazione del danno già completamente verificatosi nel momento del giudizio, e deve avvenire secondo un criterio di rilevante probabilità; a tal fine, il rischio concreto di pregiudizio è configurabile come danno futuro ogni volta che l’effettiva diminuzione patrimoniale appaia come il naturale sviluppo di fatti concretamente accertati ed inequivocamente sintomatici di quella probabilità, secondo un criterio di normalità fondato sulle circostanze del caso concreto (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. III, 27.04.2010 n. 10072).
Probabilità che, in fattispecie come quella in esame, è certamente elevata, essendo legata alla normale attività d’impresa, fondata su una necessaria costante partecipazione alle gare d’appalto.
Motivo per il quale il Collegio ritiene che la voce di danno in questione possa essere ragionevolmente quantificata in misura pari al 3% dell’offerta economica avanzata
(TAR Sicilia-Catania, Sez. IV, sentenza 17.04.2012 n. 1028 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIn caso di annullamento dell’aggiudicazione, e di certezza dell’aggiudicazione in favore del ricorrente, il mancato utile spetta nella misura integrale solo se il ricorrente dimostri di non aver potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, tenuti a disposizione in vista dell’aggiudicazione; in difetto di tale dimostrazione, è da ritenere che l’impresa possa aver ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori o servizi, e di qui la decurtazione del risarcimento. Si tratta di un’applicazione del principio dell’aliunde perceptum, in base al quale, onde evitare che a seguito del risarcimento il danneggiato possa trovarsi in una situazione addirittura migliore rispetto a quella in cui si sarebbe trovato in assenza dell’illecito, dall’importo dovuto a titolo risarcitorio va detratto quanto da lui percepito grazie allo svolgimento di diverse attività lucrative, nel periodo in cui avrebbe dovuto eseguire l’appalto in contestazione.
In sostanza, l’onere di provare (l’assenza del)l’aliunde perceptum viene fatto gravare non sull’Amministrazione, ma sull’impresa, e tale ripartizione muove dalla presunzione, a sua volta fondata sull’id quod plerumque accidit, secondo cui l’imprenditore (specie se in forma societaria), in quanto soggetto che esercita professionalmente una attività economica organizzata finalizzata alla produzione di utili, normalmente non rimane inerte in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, ma si procura prestazioni contrattuali alternative, dalla cui esecuzione trae utili.
Ma come già precisato da questa Sezione, in base all’art. 2697 c.c., “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”, e “chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda”.
Quindi, non è condivisibile che debba essere l’impresa a fornire tale dimostrazione, perché in generale l’attore-danneggiato deve provare i fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio, ma non anche dimostrare che non ricorrono, nel caso, fatti impeditivi, modificativi o estintivi; e questo sia perché l’onere di provare i fatti estintivi e modificativi del credito spetta alla parte debitrice, cioè nella fattispecie al Comune, nei cui confronti è stata indirizzata la domanda di risarcimento, sia perché la regola di giudizio seguita di solito dalla giurisprudenza conduce a manifeste aporie applicative.

Spesso la giurisprudenza afferma che in caso di annullamento dell’aggiudicazione, e di certezza dell’aggiudicazione in favore del ricorrente, il mancato utile spetta nella misura integrale solo se il ricorrente dimostri di non aver potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, tenuti a disposizione in vista dell’aggiudicazione; in difetto di tale dimostrazione, è da ritenere che l’impresa possa aver ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori o servizi, e di qui la decurtazione del risarcimento (cfr., ex multis, Cons. St., sez. VI, 21.09.2010 n. 7004). Si tratta di un’applicazione del principio dell’aliunde perceptum, in base al quale, onde evitare che a seguito del risarcimento il danneggiato possa trovarsi in una situazione addirittura migliore rispetto a quella in cui si sarebbe trovato in assenza dell’illecito, dall’importo dovuto a titolo risarcitorio va detratto quanto da lui percepito grazie allo svolgimento di diverse attività lucrative, nel periodo in cui avrebbe dovuto eseguire l’appalto in contestazione.
In sostanza, l’onere di provare (l’assenza del)l’aliunde perceptum viene fatto gravare non sull’Amministrazione, ma sull’impresa, e tale ripartizione muove dalla presunzione, a sua volta fondata sull’id quod plerumque accidit, secondo cui l’imprenditore (specie se in forma societaria), in quanto soggetto che esercita professionalmente una attività economica organizzata finalizzata alla produzione di utili, normalmente non rimane inerte in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, ma si procura prestazioni contrattuali alternative, dalla cui esecuzione trae utili (cfr. Cons. St., sez. VI, 09.06.2008 n. 2751).
Ma come già precisato da questa Sezione (vedi sentenza 07.12.2010 n. 4624), in base all’art. 2697 c.c., “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”, e “chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda”.
Quindi, non è condivisibile che debba essere l’impresa a fornire tale dimostrazione, perché in generale l’attore-danneggiato deve provare i fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio, ma non anche dimostrare che non ricorrono, nel caso, fatti impeditivi, modificativi o estintivi (cfr. Cass. civ., sez. III, 25.09.1998 n. 9588); e questo sia perché l’onere di provare i fatti estintivi e modificativi del credito spetta alla parte debitrice, cioè nella fattispecie al Comune, nei cui confronti è stata indirizzata la domanda di risarcimento, sia perché la regola di giudizio seguita di solito dalla giurisprudenza conduce a manifeste aporie applicative.
Infatti, il principio messo a punto dalla giurisprudenza, qualora portato alle estreme conseguenze logiche, finirebbe per precludere in ogni caso il risarcimento del danno per mancato utile, e ciò perché, anche nell’ipotesi in cui l’impresa non avesse percepito alcunché per attività lucrative diverse da quelle derivanti dall’esecuzione del contratto non aggiudicato, la stessa non potrebbe mai sperare nell’attribuzione giurisdizionale di un qualunque ristoro in ragione dell’impossibilità, o quanto meno della eccessiva difficoltà, di provare un fatto negativo (consistente, per l’appunto, nel non aver beneficiato di alcun aliunde perceptum).
Inoltre, si perverrebbe al riconoscimento di una legittimazione sostanziale al risarcimento soltanto in capo a quelle imprese le quali, durante l’intero svolgimento della vicenda procedimentale e del processo, siano rimaste del tutto inattive, o, peggio, siano fallite, perché soltanto in questo caso sarebbe, forse, dimostrabile il mancato guadagno (cfr. in termini Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., sez giurisd., 21.09.2010 n. 1226).
E d’altra parte, anche in materia di determinazione dei danni conseguenti a licenziamento illegittimo, in cui frequentemente viene in rilievo il problema di eventuale guadagno aliunde perceptum, si afferma che è il datore di lavoro, che eccepisca l’"aliunde perceptum" in relazione a redditi del lavoratore maturati dopo la proposizione della domanda, ad avere l’onere della allegazione e della relativa prova (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. lav., 01.09.2000 n. 11487; Id., sez. lav., 19.01.2006 n. 945).
Ciò non toglie che nel valutare il danno il giudice ha il potere –in base a contrari elementi acquisiti al giudizio o eventualmente anche a dati di comune conoscenza– di negare il risarcimento, o di ridurlo, nella misura in cui ritenga dimostrato, rispettivamente, che con l’uso dell’ordinaria diligenza questa perdita avrebbe potuto essere in tutto o in parte evitata, o lo è stata effettivamente (cfr. Cass. civ., sez. III, 25.09.1998 n. 9588)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. IV, sentenza 17.04.2012 n. 1028 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa tutela dell'istante, prima limitata alla visione degli atti, viene oggi estesa all'onnicomprensivo concetto di "accesso" che –secondo la definizione contenuta nell'art. 22, comma 1, lettera a), della L. 241/1990, come sostituito dall'art. 15 della L. 15/2005– include sia la visione degli atti che l'estrazione di copia.
E a dimostrazione del fatto che non vi è una sfera considerata di assoluta riservatezza lo stesso comma 7 aggiunge che l'accesso, sebbene solo “nei limiti in cui sia strettamente indispensabile”, è consentito anche “nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari”, e finanche “in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”, in quest’ultimo caso “nei termini previsti dall'articolo 60 del decreto legislativo 30.06.2003, n. 196”, ai sensi del quale “quando il trattamento concerne dati idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale, il trattamento è consentito se la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la richiesta di accesso ai documenti amministrativi è di rango almeno pari ai diritti dell'interessato, ovvero consiste in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile”.
Senza contare poi che l’art. 59 del medesimo D. Lgs.vo 196/2003, relativo proprio all’”accesso a documenti amministrativi”, dispone che “fatto salvo quanto previsto dall'articolo 60, i presupposti, le modalità, i limiti per l'esercizio del diritto di accesso a documenti amministrativi contenenti dati personali, e la relativa tutela giurisdizionale, restano disciplinati dalla legge 07.08.1990, n. 241, e successive modificazioni e dalle altre disposizioni di legge in materia, nonché dai relativi regolamenti di attuazione, anche per ciò che concerne i tipi di dati sensibili e giudiziari e le operazioni di trattamento eseguibili in esecuzione di una richiesta di accesso. Le attività finalizzate all'applicazione di tale disciplina si considerano di rilevante interesse pubblico”.

L’art. 22 della L. n. 241/1990, ai commi 2 e 3, precisa che “l’accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell'attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l'imparzialità e la trasparenza, ed attiene ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale…”, e che “tutti i documenti amministrativi sono accessibili, ad eccezione di quelli indicati all'articolo 24, commi 1, 2, 3, 5 e 6”.
In precedenza, e cioè prima delle recenti modifiche normative, l’art. 24 prevedeva in effetti, al comma 4, l’obbligo per le singole amministrazioni “di individuare, con uno o più regolamenti…, le categorie di documenti da esse formati o comunque rientranti nella loro disponibilità sottratti all'accesso per le esigenze di cui al comma 2”, tra le quali era compresa, alla lett. d), quella di salvaguardare “la riservatezza di terzi, persone, gruppi ed imprese, garantendo peraltro agli interessati la visione degli atti relativi ai procedimenti amministrativi, la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i loro interessi giuridici”.
Ma il nuovo art. 24, come sostituito dall'art. 16 L. 11.02.2005 n. 15, al comma 1 esclude il diritto di accesso (solo):
a) per i documenti coperti da segreto di Stato, e nei casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge, dal regolamento governativo di cui al comma 6 e dalle pubbliche amministrazioni ai sensi del comma 2;
b) nei procedimenti tributari;
c) nei confronti dell'attività della pubblica amministrazione diretta all'emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione;
d) nei procedimenti selettivi, nei confronti dei documenti amministrativi contenenti informazioni di carattere psicoattitudinale relativi a terzi.
Per il comma 2, “le singole pubbliche amministrazioni individuano le categorie di documenti da esse formati o comunque rientranti nella loro disponibilità sottratti all'accesso ai sensi del comma 1”, e quindi solo per quei documenti che rientrino nelle categorie espressamente previste dal legislatore, fermo restando, come chiarito dal comma 3, che “non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell'operato delle pubbliche amministrazioni”.
Oltretutto, il comma 5 precisa che gli stessi “documenti contenenti informazioni connesse agli interessi di cui al comma 1 sono considerati segreti solo nell'ambito e nei limiti di tale connessione”.
Infine, il comma 6 disciplina i casi in cui il Governo può, con proprio regolamento, prevedere casi di sottrazione all'accesso di documenti amministrativi, e anche per tutelare la vita privata o la riservatezza di persone fisiche e giuridiche.
In definitiva, con specifico riferimento ai rapporti tra accesso e riservatezza, la nuova disciplina contenuta nell'art. 24 della L. 241/1990, come sostituito dall'art. 16 della L. 15/2005, appresta al primo una tutela più ampia che in passato, sotto due distinti profili.
Innanzitutto, l'individuazione dei casi in cui l'accesso può essere escluso per ragioni, tra l'altro, di riservatezza, può aver luogo solo con il regolamento governativo (comma 6, lett. d), mentre alle singole amministrazioni viene sottratta ogni potestà d'intervento in materia. Tale conclusione si trae inequivocabilmente dalla scomparsa, nel nuovo testo normativo, della disposizione in precedenza contenuta nel comma 4 (obbligo per le singole amministrazioni "di individuare con uno o più regolamenti da emanarsi entro i sei mesi successivi le categorie di documenti da esse formati o comunque rientranti nella loro disponibilità sottratti all'accesso per le esigenze di cui al comma 2"), mentre la nuova similare disposizione ora introdotta nel comma 2 ("Le singole pubbliche amministrazioni individuano le categorie di documenti da esse formati o comunque rientranti nella loro disponibilità sottratti all'accesso ai sensi del comma 1") è tuttavia riferita alle sole ipotesi di cui al primo comma, tra le quali non rientra la tutela della riservatezza (cfr. TAR Piemonte, sez. II, 25.02.2006 n. 1127).
In secondo luogo, mentre nell'originaria versione dell'art. 24, secondo quanto prevedeva il comma 2, lettera d), l'accesso a documenti riservati era limitato alla sola “visione” degli atti amministrativi necessari alla cura dei propri interessi, nell'attuale versione dell'art. 24, come sostituito dall'art. 16 della legge 15/2005, tale previsione è stata sostituita dal nuovo comma 7, ai sensi del quale "deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici".
In sostanza, la tutela dell'istante, prima limitata alla visione degli atti, viene quindi estesa all'onnicomprensivo concetto di "accesso" che –secondo la definizione contenuta nell'art. 22, comma 1, lettera a), della L. 241/1990, come sostituito dall'art. 15 della L. 15/2005– include sia la visione degli atti che l'estrazione di copia.
E a dimostrazione del fatto che non vi è una sfera considerata di assoluta riservatezza lo stesso comma 7 aggiunge che l'accesso, sebbene solo “nei limiti in cui sia strettamente indispensabile”, è consentito anche “nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari”, e finanche “in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”, in quest’ultimo caso “nei termini previsti dall'articolo 60 del decreto legislativo 30.06.2003, n. 196”, ai sensi del quale “quando il trattamento concerne dati idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale, il trattamento è consentito se la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la richiesta di accesso ai documenti amministrativi è di rango almeno pari ai diritti dell'interessato, ovvero consiste in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile”.
Senza contare poi che l’art. 59 del medesimo D. Lgs.vo 196/2003, relativo proprio all’”accesso a documenti amministrativi”, dispone che “fatto salvo quanto previsto dall'articolo 60, i presupposti, le modalità, i limiti per l'esercizio del diritto di accesso a documenti amministrativi contenenti dati personali, e la relativa tutela giurisdizionale, restano disciplinati dalla legge 07.08.1990, n. 241, e successive modificazioni e dalle altre disposizioni di legge in materia, nonché dai relativi regolamenti di attuazione, anche per ciò che concerne i tipi di dati sensibili e giudiziari e le operazioni di trattamento eseguibili in esecuzione di una richiesta di accesso. Le attività finalizzate all'applicazione di tale disciplina si considerano di rilevante interesse pubblico” (per considerazioni identiche a quelle finora espresse, cfr. Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 04.07.2007 n. 558, che ha confermato la sentenza di questa Sezione n. 1194 del 20.07.2006).
Oltretutto, la ricorrente ha dimostrato di essere titolare di un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata ai documenti ai quali è chiesto l'accesso, in quanto ha la necessità di conoscere gli atti relativi al procedimento di realizzazione del Primo bacino in Riposto, al fine di avere contezza della reale possibilità che sia data corso alla sua istanza di concessione del suddetto "Primo Bacino" (TAR Sicilia-Catania, Sez. IV, sentenza 17.04.2012 n. 1025 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittima l'ordinanza di demolizione la quale dispone l’acquisizione al patrimonio indisponibile del Comune oltre che delle opere abusive (sopraelevazione del piano terra, con una superficie di mq. 60,44), anche dell’“area su cui le medesime insistono”.
Invero, la predetta acquisizione, disposta come conseguenza della mancata ottemperanza all'ingiunzione di demolizione, non comporta affatto l'ablazione anche dell'area di sedime del preesistente fabbricato posto al piano, in quanto l'art. 7 della legge 28.02.1985, n. 47, se rende necessaria anche l'acquisizione gratuita della sopraelevazione abusiva di un fabbricato che per la restante parte risulta legittimamente realizzato, la estende esclusivamente alla parte del lastrico solare che rappresenta l'effettiva area di sedime dell'abuso, senza incidere sull'area materialmente e giuridicamente impegnata urbanisticamente dalle altre parti dell'edificio che possono essere viceversa conservate.
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L’atto di acquisizione gratuita delle opere abusive deve considerarsi consequenziale e connesso all'ordine di demolizione delle opere e ripristino dello stato primitivo dei luoghi, per cui la mancata impugnativa nei termini dell’ingiunzione a demolire determina l’inammissibilità del ricorso proposto avverso l’acquisizione al patrimonio indisponibile comunale.

Il presente ricorso merita accoglimento limitatamente al secondo motivo di gravame, con il quale si censura per vizi propri l’impugnata ordinanza, nella parte in cui dispone l’acquisizione al patrimonio indisponibile del Comune, oltre che delle opere abusive (sopraelevazione del piano terra, con una superficie di mq. 60,44), anche dell’“area su cui le medesime insistono”.
Ed invero, la predetta acquisizione, disposta come conseguenza della mancata ottemperanza all'ingiunzione di demolizione, non comporta affatto l'ablazione anche dell'area di sedime del preesistente fabbricato posto al piano, in quanto l'art. 7 della legge 28.02.1985, n. 47, se rende necessaria anche l'acquisizione gratuita della sopraelevazione abusiva di un fabbricato che per la restante parte risulta legittimamente realizzato, la estende esclusivamente alla parte del lastrico solare che rappresenta l'effettiva area di sedime dell'abuso, senza incidere sull'area materialmente e giuridicamente impegnata urbanisticamente dalle altre parti dell'edificio che possono essere viceversa conservate (in tal senso, TAR Lazio Latina, 26.03.1997, n. 236; TAR Campania Napoli, sez. VII, 19.02.2009, n. 970).
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L’atto di acquisizione gratuita delle opere abusive deve considerarsi consequenziale e connesso all'ordine di demolizione delle opere e ripristino dello stato primitivo dei luoghi, per cui la mancata impugnativa nei termini dell’ingiunzione a demolire determina l’inammissibilità del ricorso proposto avverso l’acquisizione al patrimonio indisponibile comunale (cfr., da ultimo, TAR Sicilia, sez. II, 09.09.2008; n. 1155, 29.04.2009, n. 806; 10.06.2011, n. 1099) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 17.04.2012 n. 789 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAver nascosto le proprie intenzioni al cedente non configura una violazione dei doveri di buona fede. Niente danno per l'area edificabile. Il venditore non va risarcito se il compratore trasferisce la volumetria realizzabile.
Il venditore di un terreno non può chiedere i danni al compratore che, dopo la stipula, trasferisce su quell'area l'edificabilità di un altro suolo di sua proprietà, facendo così lievitare notevolmente il valore dell'immobile.
L'incremento derivante dal rilascio della concessione edilizia, infatti, deriva solo dalle capacità manageriali dell'acquirente e non danneggia in alcun modo il venditore che ha trasferito il bene al prezzo di mercato in base alla diversa qualificazione giuridica dell'area. Né, ai fini del risarcimento del danno, si possono considerare violate le regole della buona fede e della lealtà nel corso della trattativa, dal momento che l'obbligo informativo non arriva a comprendere l'esternazione dei motivi in base ai quali si intende concludere una transazione immobiliare.

Sono queste le importanti conclusioni raggiunte dalla Corte di Cassazione con la sentenza 16.04.2012 n. 5965, che ha respinto il ricorso per risarcimento del danno in conseguenza della vendita di un terreno per vizio del consenso.
I giudizi di merito
Il tribunale ravvisava la violazione dell'obbligo di buona fede e tutela dell'affidamento da parte dell'acquirente per avere taciuto che sul terreno oggetto della vendita, prima del rogito, era stata trasferita una potenzialità edificatoria. Il terreno, in sostanza, era stato ceduto al prezzo di un'area non edificabile e non a quello maggiore che sarebbe stato richiesto se il venditore ne avesse conosciuto la nuova natura.
I giudici di appello, però, nel riformare la decisione hanno rilevato che la società acquirente aveva presentato al Comune un progetto per la riqualificazione di un capannone industriale. Il progetto, su richiesta dell'ente locale, era stato modificato e la società aveva assunto l'impegno di trovare una nuova area sulla quale trasferire l'edificabilità di un altro terreno, sempre di sua proprietà. Per questo motivo aveva stipulato il preliminare con il venditore per l'acquisto dell'area che, in base al certificato di destinazione urbanistica, risultava a verde pubblico.
La stessa classificazione sussisteva anche al momento della stipula del definitivo, mentre solo dopo due anni era stata concessa l'edificabilità. Pertanto, la concessione edilizia era il frutto di un'attività nell'ambito di un progetto imprenditoriale che, pertanto, non valeva nessun risarcimento al ricorrente.
Il giudizio di legittimità
Anche la Cassazione ha respinto il ricorso del venditore e stabilito stabilito che non è ravvisabile né la violazione di un obbligo di informazione, né la volontà di ottenere migliori condizioni di prezzo. Infatti, il programmato utilizzo del bene da parte dell'acquirente è divenuto possibile solo grazie al fatto che era proprietario di altri terreni con un'edificabilità suscettibile di essere trasferita. In sostanza, il maggior valore del suolo è «conseguenza del minor valore di altri terreni dell'acquirente che hanno definitivamente perso l'attitudine edificatoria», con la conseguenza che «non solo il venditore non può dirsi danneggiato, ma addirittura l'accoglimento della sua pretesa si risolverebbe in un suo ingiustificato arricchimento con danno della controparte».
Durante la trattativa il contraente non ha diritto di occultare i fatti la cui conoscenza è indispensabile alla controparte per una corretta formazione della volontà, ma l'obbligo informativo non può essere esteso fino al punto di dover manifestare anche i motivi per i quali si stipula il contratto consentendo all'altra parte di trarne vantaggio.
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Il caso
01|IL FATTO
Dopo la stipula, l'acquirente di un'area non edificabile ne aumenta di molto il valore trasferendovi l'edificabilità di un'altra area di sua proprietà. Il venditore chiede i danni per violazione della buona fede
02|LA SENTENZA
La Cassazione nega i danni in quanto non si configura la violazione dell'obbligo di informazione (che non si può spingere fino a dover manifestare i motivi per cui si intende acquistare) e il maggior valore del terreno in questione è stato ottenuto diminuendo il valore di un altro terreno dell'acquirente di cui è stata trasferita l'edificabilità (articolo Il Sole 24 Ore del 30.04.2012).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione della domanda di rilascio di concessione in sanatoria per abusi edilizi impone al Comune la sua disamina e l'adozione dei provvedimenti conseguenti, di talché gli atti, repressivi dell'abuso, in precedenza adottati perdono efficacia, restando ferma la necessità di riproposizione di motivi aggiunti in caso di rigetto dell'istanza di sanatoria.
E’ dunque improcedibile il ricorso introduttivo per sopravvenuta carenza di interesse, e ciò in quanto il riesame dell'abusività dell'opera provocato da tale istanza, sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di quanto costruito, ha comportato ex se la formazione di un nuovo provvedimento di rigetto che supera il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa iniziale.

Per giurisprudenza costante la presentazione della domanda di rilascio di concessione in sanatoria per abusi edilizi impone al Comune la sua disamina e l'adozione dei provvedimenti conseguenti, di talché gli atti, repressivi dell'abuso, in precedenza adottati perdono efficacia, restando ferma la necessità di riproposizione di motivi aggiunti in caso di rigetto dell'istanza di sanatoria.
E’ dunque improcedibile il ricorso introduttivo per sopravvenuta carenza di interesse, e ciò in quanto il riesame dell'abusività dell'opera provocato da tale istanza, sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di quanto costruito, ha comportato ex se la formazione di un nuovo provvedimento di rigetto che supera il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa iniziale (cfr. infra multa: Consiglio di Stato, Sez. IV 16.09.2011 n. 5228; Consiglio Stato, Sez. VI 26.03.2010 n. 1750)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.04.2012 n. 2185 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa norma dell'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122, consente di realizzare gratuitamente parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari solo se realizzati “nel sottosuolo per l’intera altezza”. La predetta norma, ponendosi in deroga “…agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti…”, è di stretta interpretazione e di rigorosa applicazione. In altre parole, la deroga per la realizzazione di autorimesse e parcheggi prevista dall'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122, opera solo ed esclusivamente nel caso in cui i detti garage (oltre ad essere formalmente vincolati a pertinenza di singole unità immobiliari) siano totalmente realizzati al di sotto dell’originario piano naturale di campagna, senza alcuna tolleranza di sorta.
La deroga alla disciplina urbanistica prevista dall'art. 9, L. 24.03.1989 n. 122, opera solo per i parcheggi da destinare a pertinenza di singole unità immobiliari che siano realizzati integralmente nel sottosuolo degli immobili (ovvero nei locali siti a piano terra degli stessi) mentre la realizzazione di autorimesse e parcheggi, non totalmente al di sotto del piano naturale di campagna, è soggetta alla disciplina urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra.
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L'art. 9 l. 24.03.1989 n. 122, nel consentire la costruzione di parcheggi, da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, nel sottosuolo degli immobili o nei locali siti al piano terreno anche in deroga alla vigente disciplina urbanistica, necessariamente fa implicito riferimento ai soli fabbricati già esistenti e non anche le concessioni edilizie rilasciate per realizzare edifici nuovi, per i quali invece provvede l'art. 2, comma 2, della stessa L. n. 122 che, nel novellare l'art. 41-sexies, l. 17.08.1942 n. 1150, stabilisce l'obbligo di riservare appositi spazi per parcheggi di misura non inferiore a 1 mq. per ogni 10 mc. di costruzione.
In tal senso l'art. 9 della cit. L. n. 122, è norma di carattere straordinario finalizzata alla diminuzione dell’ingombro dei veicoli parcheggiati nelle pubbliche vie ed è diretta a rimediare agli inconvenienti conseguenti alla conformazione dei nostri centri storici, risalenti ad epoca antecedenti l’avvento delle automobili. Tale finalità, allo stato, non è assolutamente venuta meno, ed è per questo che la legge è stata mantenuta in vigore con l’art. 137 del T.U. n. 380/2001, ma la sua attuale applicazione resta pur sempre comunque limitata agli edifici già esistenti.

Come la Sezione ha avuto modo di recente di ricordare (cfr. Sez. IV, 13.07.2011 n. 4234), la norma dell'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122, consente di realizzare gratuitamente parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari solo se realizzati “nel sottosuolo per l’intera altezza”. La predetta norma, ponendosi in deroga “…agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti…”, è di stretta interpretazione e di rigorosa applicazione. In altre parole, la deroga per la realizzazione di autorimesse e parcheggi prevista dall'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122, opera solo ed esclusivamente nel caso in cui i detti garage (oltre ad essere formalmente vincolati a pertinenza di singole unità immobiliari) siano totalmente realizzati al di sotto dell’originario piano naturale di campagna, senza alcuna tolleranza di sorta.
La deroga alla disciplina urbanistica prevista dall'art. 9, L. 24.03.1989 n. 122, opera solo per i parcheggi da destinare a pertinenza di singole unità immobiliari che siano realizzati integralmente nel sottosuolo degli immobili (ovvero nei locali siti a piano terra degli stessi) mentre la realizzazione di autorimesse e parcheggi, non totalmente al di sotto del piano naturale di campagna, è soggetta alla disciplina urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 27.11.2010, n. 8260; Consiglio Stato, sez. IV, 23.02.2009, n. 1070).
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L'art. 9 l. 24.03.1989 n. 122, nel consentire la costruzione di parcheggi, da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, nel sottosuolo degli immobili o nei locali siti al piano terreno anche in deroga alla vigente disciplina urbanistica, necessariamente fa implicito riferimento ai soli fabbricati già esistenti e non anche le concessioni edilizie rilasciate per realizzare edifici nuovi, per i quali invece provvede l'art. 2, comma 2, della stessa L. n. 122 che, nel novellare l'art. 41-sexies, l. 17.08.1942 n. 1150, stabilisce l'obbligo di riservare appositi spazi per parcheggi di misura non inferiore a 1 mq. per ogni 10 mc. di costruzione (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 10.03.2011 n. 1565; Consiglio Stato, sez. V, 24.10.2000, n. 5676; Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 26.06.2000, n. 299; Consiglio Stato, sez. V, 03.06.1996, n. 621).
In tal senso l'art. 9 della cit. L. n. 122, è norma di carattere straordinario finalizzata alla diminuzione dell’ingombro dei veicoli parcheggiati nelle pubbliche vie ed è diretta a rimediare agli inconvenienti conseguenti alla conformazione dei nostri centri storici, risalenti ad epoca antecedenti l’avvento delle automobili. Tale finalità, allo stato, non è assolutamente venuta meno, ed è per questo che la legge è stata mantenuta in vigore con l’art. 137 del T.U. n. 380/2001, ma la sua attuale applicazione resta pur sempre comunque limitata agli edifici già esistenti
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.04.2012 n. 2185 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione di strutture in muratura, anche parzialmente fuori terra con copertura, per il suo carattere di stabilità e permanenza costituisce una vera e propria "costruzione" in senso tecnico del termine e deve essere ricondotto alla categoria degli "interventi di nuova costruzione", ai sensi della lett. e) dell'art. 3 t.u. 21.06.2001 n. 380 (ed a maggior ragione quanto è staccato dall'edificio di cui costituisce "pertinenza").
Implicando una trasformazione edilizia del territorio ed un’alterazione del regime delle acque pluviali, tali edificazioni restano totalmente soggette alle regole sulle distanze che tutelano i reciproci diritti dei confinanti.

E' del tutto inesatta, in linea di principio, l’affermazione per cui una edificazione fuori terra non debba essere considerata edificio.
Come la Sezione ha avuto modo di precisare (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV 25.05.2011 n. 3134) la realizzazione di strutture in muratura, anche parzialmente fuori terra con copertura, per il suo carattere di stabilità e permanenza costituisce una vera e propria "costruzione" in senso tecnico del termine e deve essere ricondotto alla categoria degli "interventi di nuova costruzione", ai sensi della lett. e) dell'art. 3 t.u. 21.06.2001 n. 380 (ed a maggior ragione quanto è staccato dall'edificio di cui costituisce "pertinenza").
Implicando una trasformazione edilizia del territorio ed un’alterazione del regime delle acque pluviali, tali edificazioni restano totalmente soggette alle regole sulle distanze che tutelano i reciproci diritti dei confinanti
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.04.2012 n. 2185 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato alla constatata abusività, il quale non richiede né alcuna specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico; né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati; e né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto.
Per costante giurisprudenza, l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato alla constatata abusività, il quale non richiede né alcuna specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico; né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati; e né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 13.07.2011 n. 4254 Consiglio di Stato sez. V 27.04.2011 n. 2497; Consiglio Stato sez. V 11.01.2011 n. 79) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.04.2012 n. 2185 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIIl consigliere comunale, o di altro ente locale, esercita il potere di autentica delle sottoscrizioni esclusivamente in relazione alle operazioni elettorali dell’ente.
Di conseguenza, il consigliere di un ente locale non è legittimato ad autenticare le firme degli elettori e dei candidati di una competizione elettorale al quale l’ente in cui sono incardinate le sue funzioni sia estraneo, come un quelle per il rinnovo del consiglio di altro comune per il consigliere comunale o di altra provincia per il consigliere provinciale

Con l’odierno appello viene censurata la gravata sentenza del TAR per la Lombardia, laddove ha ritenuto che l’autenticazione delle firme dei delegati di lista non possa essere effettuata da un pubblico ufficiale che esercita la propria funzione in ambito territoriale differente (nella specie Consigliere comunale di Rovato) rispetto a quello in cui detta consultazione elettorale si svolge (Comune di Desenzano del Garda).
L’argomento principale a sostegno della tesi degli appellanti è costituito dalla mancanza di un’espressa previsione di legge che escluda la legittimazione dei consiglieri di enti locali ad autenticare le firme degli elettori per competizioni diverse da quelle relative allo svolgimento di elezioni per lo stesso ente del cui consiglio fanno parte.
Tale limitazione non è infatti contenuta espressamente nell’art. 14, novellato della legge 21.03.1990, n. 53, della cui applicazione ora si discute, che ha attribuito ai consiglieri comunali e provinciali il potere di autentica delle sottoscrizioni relative al procedimento elettorale, e nemmeno in altre norme.
Al riguardo, osserva il Collegio come la giurisprudenza della Sezione abbia già avuto modo di chiarire che la legittimazione ad autenticare le sottoscrizioni è limitata ad un determinato territorio di riferimento (cfr. Sez. V 20.03.2012, n. 1889).
Il principio vale anche per i consiglieri di comuni e province.
Deve infatti essere sottolineato come, sul piano normativo-ordinamentale, il territorio costituisce elemento costitutivo di ogni ente territoriale, per cui necessariamente i suoi organi esercitano le proprie funzioni nei limiti di questo.
Sulla base di tale osservazione afferma il Collegio che il consigliere comunale, o di altro ente locale, esercita il potere di autentica delle sottoscrizioni esclusivamente in relazione alle operazioni elettorali dell’ente (cfr. anche C.S. V, 31.05.2007, n. 2817).
Di conseguenza, il consigliere di un ente locale non è legittimato ad autenticare le firme degli elettori e dei candidati di una competizione elettorale al quale l’ente in cui sono incardinate le sue funzioni sia estraneo, come un quelle per il rinnovo del consiglio di altro comune per il consigliere comunale o di altra provincia per il consigliere provinciale (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 16.04.2012 n. 2180 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIDalla previsione della partecipazione di un ente ad un procedimento amministrativo si deve evincere la sua legittimazione ad impugnare il provvedimento conclusivo ritenuto lesivo. Non invece il contrario.
Posto che è incontestabile che la Provincia venne invitata ai lavori della conferenza di servizi convocata, pare al Collegio indubitabile la legitimatio ad causam della stessa ed il proprio interesse ad avversarne le determinazioni.

Parimenti infondata è l’eccezione di inammissibilità del gravame proposto dalla Provincia per carenza di interesse e di legittimazione.
Nel rammentare che la Provincia manifestò comunque il proprio orientamento contrario alla realizzazione del progetto (e nell’evidenziare che la problematica della eventuale –o meno- qualificazione dell’assenza di questa ai lavori quale forma di assenso integra al più questione di merito), rimarca il Collegio il condivisibile –troncante- orientamento giurisprudenziale secondo il quale dalla previsione della partecipazione di un ente ad un procedimento amministrativo si deve evincere la sua legittimazione ad impugnare il provvedimento conclusivo ritenuto lesivo. Non invece il contrario (Cons. Stato, sez. V, 02.03.1999, n. 217; sez. IV, 03.12.1992, n. 1001 Consiglio di stato, sez. IV, 06.10.2001, n. 5296).
Posto che è incontestabile che la Provincia venne invitata ai lavori della conferenza di servizi convocata, pare al Collegio indubitabile la legitimatio ad causam della stessa ed il proprio interesse ad avversarne le determinazioni (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.04.2012 n. 2170 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa proposta di variante dello strumento urbanistico, formulata ai sensi dell'art. 5, d.P.R. 20.10.1998 n. 447 dalla conferenza dei servizi al fine di favorire e semplificare la realizzazione di una struttura commerciale in zona tipizzata come agricola, non è vincolante per il Consiglio comunale, il quale deve autonomamente valutare se aderire o meno alla stessa.
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Per risalente quanto condiviso convincimento della giurisprudenza in punto di potestà discrezionale che “assiste” l’ente locale allorché questo si determina all’adozione di una variante, “i provvedimenti con i quali i comuni ripartiscono in zone il territorio in sede di pianificazione urbanistica hanno natura ampiamente discrezionale e possono pertanto incidere anche su precedenti difformi destinazioni delle zone stesse, sempre che la nuova suddivisione non sia affetta da errori di fatto o da gravi vizi di illogicità, irrazionalità o contraddittorietà. È legittima, pertanto, la variante dell'originario programma di fabbricazione con la quale si muta la classificazione di un'area, da industriale in agricola, motivata con riferimento all'appesantimento che la destinazione industriale avrebbe indotto sulla precaria viabilità esistente -nella specie il comune, avendo verificato l'esistenza di gravi inconvenienti su una strada statale nei pressi della quale era localizzata l'area in questione, aveva mutato l'originaria destinazione industriale tenuto anche conto che l'area stessa non era stata utilizzata nel corso di un decennio per ampliamenti dell'insediamento produttivo-".
Secondo avveduta giurisprudenza il procedimento disegnato in materia di SUAP non fa eccezione ai detti principi, essendosi condivisibilmente rilevato che “il d.P.R. 20.10.1998 n. 447 esprime un favor verso la realizzazione, la ristrutturazione ovvero l'ampliamento degli impianti industriali ed a tale scopo delinea un procedimento semplificato -che si risolve in un procedimento che, attraverso la conferenza di servizi indetta dal responsabile del procedimento, porta alla formazione di una proposta di variante sulla quale il Consiglio comunale si pronuncia "definitivamente"- per giungere, con una variante urbanistica adottata nell'ambito della conferenza di servizi, alla rapida realizzazione di tali iniziative, anche quando esse siano in contrasto con gli strumenti urbanistici in vigore, purché il relativo progetto sia conforme alle norme in materia ambientale, sanitaria e di sicurezza del lavoro e lo strumento urbanistico non individui aree destinate all'insediamento di impianti produttivi ovvero queste siano insufficienti in relazione al progetto presentato.”
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A fronte della richiesta del privato di realizzare ovvero ampliare, ristrutturare o riconvertire un impianto industriale, l'art. 5, d.P.R. n. 447/1998 non consente di ipotizzare alcuna abdicazione del Comune alla sua istituzionale potestà pianificatoria, sì da rendere l'approvazione della variante pressoché obbligatoria, restando al contrario integra per l'organo consiliare la possibilità di discostarsi motivatamente dalla determinazione finale assunta dalla conferenza di servizi. Al consiglio comunale compete infatti una valutazione ulteriore, necessaria a giustificare sul piano urbanistico la deroga, per il caso singolo, alle regole poste dallo strumento vigente.

Tutti gli ulteriori argomenti contenuti nel primo motivo di appello non incidono su tale considerazione.
Ed invero, non è pertinente il richiamo (già confutato dalla sentenza impugnata, per il vero, alle cui argomentazioni l’appellante non ha opposto alcun decisivo profilo di critica) al termine di 60 giorni contenuto nell’art. 5, comma 2, del d.P.R. 20.10.1998 n. 447 (“Qualora il progetto presentato sia in contrasto con lo strumento urbanistico, o comunque richieda una sua variazione, il responsabile del procedimento rigetta l'istanza. Tuttavia, allorché il progetto sia conforme alle norme vigenti in materia ambientale, sanitaria e di sicurezza del lavoro ma lo strumento urbanistico non individui aree destinate all'insediamento di impianti produttivi ovvero queste siano insufficienti in relazione al progetto presentato, il responsabile del procedimento può, motivatamente convocare una conferenza di servizi, disciplinata dall'articolo 14 della legge 07.08.1990, n. 241, come modificato dall'articolo 17 della legge 15.05.1997, n. 127, per le conseguenti decisioni, dandone contestualmente pubblico avviso. Alla conferenza può intervenire qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, individuali o collettivi nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dalla realizzazione del progetto dell'impianto industriale. Qualora l'esito della conferenza di servizi comporti la variazione dello strumento urbanistico, la determinazione costituisce proposta di variante sulla quale, tenuto conto delle osservazioni, proposte e opposizioni formulate dagli aventi titolo ai sensi della legge 17.08.1942, n. 1150, si pronuncia definitivamente entro sessanta giorni il consiglio comunale. Non è richiesta l'approvazione della regione, le cui attribuzioni sono fatte salve dall'articolo 14, comma 3-bis della legge 07.08.1990, n. 241”).
Posto che la disciplina applicabile ratione temporis ai fatti di causa fa riferimento alla conferenza di servizi, infatti, ogni interrogativo in ordine alla perentorietà –o meno- dei termini previsti nel detto procedimento di cui al d.P.R. 20.10.1998 n. 447 non assume carattere dirimente, al più potendosi sostenere che rientrava nelle valutazioni latamente discrezionali (e come tali sostanzialmente insindacabili) del Comune eventualmente tenere conto del detto parere negativo, sebbene tardivamente pervenuto (anche in considerazione del fatto che lo scostamento temporale tra il momento di chiusura dei lavori della conferenza e quello in cui pervenne il detto parere era veramente minimo).
Ma ciò non potrebbe certo connotare di illegittimità le successive deliberazioni comunali (delle quali, incidenter tantum, si rammenta la lata discrezionalità: “la proposta di variante dello strumento urbanistico, formulata ai sensi dell'art. 5, d.P.R. 20.10.1998 n. 447 dalla conferenza dei servizi al fine di favorire e semplificare la realizzazione di una struttura commerciale in zona tipizzata come agricola, non è vincolante per il Consiglio comunale, il quale deve autonomamente valutare se aderire o meno alla stessa.” (Consiglio Stato, sez. IV, 27.06.2007, n. 3772).
Ne discende che la complessiva censura (le cui ulteriori articolazioni, soffermandosi sulla natura del procedimento SUAP alla luce della disciplina vigente nella Regione, non forniscono elementi per affermare che del parere della Provincia, seppur tardivamente espresso, dovesse necessariamente tenersi conto) deve essere disattesa.
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Neppure persuasive, ad avviso del Collegio, appaiono le argomentazioni raggruppate nella terza censura (nel cui ambito sono stati riproposti gli originari motivi n. 4 e 5 del ricorso di primo grado), laddove la Provincia ribadisce la tesi secondo cui non v’erano le condizioni ed i presupposti per l’avvio dello speciale procedimento di cui al d.P.R. 20.10.1998 n. 447 ed in ogni caso l’amministrazione avrebbe dovuto vagliare sotto il profilo dell’opportunità la possibilità di adottare la variante urbanistica.
La doglianza (come anche, per il vero, i corrispondenti motivi contenuti nel mezzo di primo grado) appare formulata in termini generici e non tiene conto –seppure in chiave critica- del convincimento del primo giudice.
Invero si rammenta che per risalente quanto condiviso convincimento della giurisprudenza in punto di potestà discrezionale che “assiste” l’ente locale allorché questo si determina all’adozione di una variante, “i provvedimenti con i quali i comuni ripartiscono in zone il territorio in sede di pianificazione urbanistica hanno natura ampiamente discrezionale e possono pertanto incidere anche su precedenti difformi destinazioni delle zone stesse, sempre che la nuova suddivisione non sia affetta da errori di fatto o da gravi vizi di illogicità, irrazionalità o contraddittorietà. È legittima, pertanto, la variante dell'originario programma di fabbricazione con la quale si muta la classificazione di un'area, da industriale in agricola, motivata con riferimento all'appesantimento che la destinazione industriale avrebbe indotto sulla precaria viabilità esistente -nella specie il comune, avendo verificato l'esistenza di gravi inconvenienti su una strada statale nei pressi della quale era localizzata l'area in questione, aveva mutato l'originaria destinazione industriale tenuto anche conto che l'area stessa non era stata utilizzata nel corso di un decennio per ampliamenti dell'insediamento produttivo-.” (Consiglio Stato, sez. V, 10.06.1989, n. 375).
Secondo avveduta giurisprudenza il procedimento disegnato in materia di SUAP non fa eccezione ai detti principi, essendosi condivisibilmente rilevato che “il d.P.R. 20.10.1998 n. 447 esprime un favor verso la realizzazione, la ristrutturazione ovvero l'ampliamento degli impianti industriali ed a tale scopo delinea un procedimento semplificato -che si risolve in un procedimento che, attraverso la conferenza di servizi indetta dal responsabile del procedimento, porta alla formazione di una proposta di variante sulla quale il Consiglio comunale si pronuncia "definitivamente"- per giungere, con una variante urbanistica adottata nell'ambito della conferenza di servizi, alla rapida realizzazione di tali iniziative, anche quando esse siano in contrasto con gli strumenti urbanistici in vigore, purché il relativo progetto sia conforme alle norme in materia ambientale, sanitaria e di sicurezza del lavoro e lo strumento urbanistico non individui aree destinate all'insediamento di impianti produttivi ovvero queste siano insufficienti in relazione al progetto presentato.” (Consiglio Stato, sez. IV, 11.01.2007, n. 1644).
Nel caso di specie il vaglio circa l’inesistenza di aree alternative è stato svolto, e non appare carente sotto il profilo del vizio del difetto di istruzione; parimenti la deliberazione sottesa alla variante non appare connotata da profili di arbitrarietà ovvero abnormità (fatto salvo quanto si dirà esaminando il secondo motivo d’appello): non pare, conclusivamente, che ci si sia discostati dal procedimento di deliberazione ordinaria, né che l’adozione della variante sia stata percepita come “obbligatoria”, come pare adombrarsi a pag. 22 del ricorso in appello, essendosi invece il Comune conformato al principio espresso dalla giurisprudenza di merito, secondo cui “a fronte della richiesta del privato di realizzare ovvero ampliare, ristrutturare o riconvertire un impianto industriale, l'art. 5, d.P.R. n. 447/1998 non consente di ipotizzare alcuna abdicazione del Comune alla sua istituzionale potestà pianificatoria, sì da rendere l'approvazione della variante pressoché obbligatoria, restando al contrario integra per l'organo consiliare la possibilità di discostarsi motivatamente dalla determinazione finale assunta dalla conferenza di servizi. Al consiglio comunale compete infatti una valutazione ulteriore, necessaria a giustificare sul piano urbanistico la deroga, per il caso singolo, alle regole poste dallo strumento vigente.” (TAR Lombardia Milano, sez. II, 11.11.2010, n. 7244).
Lo strumento prescelto, quindi, non poteva essere che quello di cui al sopracitato d.P.R. n. 447/1998 e non ritiene il Collegio che, sotto il generico profilo del vizio deliberativo evidenziato nel motivo di ricorso in appello le censure siano fondate
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.04.2012 n. 2170 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 9, lett. a), della legge n. 10/1977, ai fini del rilascio della concessione gratuita, presuppone il concomitante concorso di due requisiti:
a) sul piano soggettivo, la qualitas di imprenditore agricolo secondo la definizione di cui alla art. 12 L. 09.05.1975, n. 153;
b) sul piano oggettivo, il nesso di preordinazione funzionale delle opere alla conduzione del fondo.
La sussistenza di tale duplice condizione deve ricorrere al momento in cui l'interessato produce la relativa istanza, che deve essere corredata da una sufficiente prova documentale circa il possesso di tali presupposti; ne consegue che la sussistenza di una soltanto di essi non può ritenersi requisito sufficiente per la gratuità nell'intervento edilizio.

L'art. 9, lett. a), della legge n. 10/1977, ai fini del rilascio della concessione gratuita, presuppone il concomitante concorso di due requisiti:
a) sul piano soggettivo, la qualitas di imprenditore agricolo secondo la definizione di cui alla art. 12 L. 09.05.1975, n. 153;
b) sul piano oggettivo, il nesso di preordinazione funzionale delle opere alla conduzione del fondo.
La sussistenza di tale duplice condizione deve ricorrere al momento in cui l'interessato produce la relativa istanza, che deve essere corredata da una sufficiente prova documentale circa il possesso di tali presupposti; ne consegue che la sussistenza di una soltanto di essi non può ritenersi requisito sufficiente per la gratuità nell'intervento edilizio (cfr. TAR Lazio Latina, 12.07.2002, n. 774) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 13.04.2012 n. 770 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini della classificazione di un’opera prefabbricata posta su ruote, occorre stabilire se il manufatto in questione possa ritenersi costruzione o edificazione a fini urbanistici. Al riguardo si rientra nella fattispecie delle modificazioni durevoli dello stato dei luoghi, che, come chiarito dalla giurisprudenza, sono prodotte anche da strutture meramente appoggiate sul suolo, anche con ruote, qualora dette strutture siano destinate ad uso prolungato nel tempo e non quindi realmente precario, cioè temporaneo o occasionale.
In altri termini, a prescindere da un sistema di ancoraggio al suolo, i prefabbricati vanno considerati vere e proprie costruzioni, ove, comunque, siano destinati a durare nel tempo; tale considerazione, del resto, discende dall’alterazione dello stato dei luoghi e dalla destinazione in genere di tale tipo di struttura alla soddisfazione di esigenze di carattere durevole, a prescindere dalla tecnica e dai materiali impiegati per la realizzazione della struttura stessa.

Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale dal quale questo Tribunale non ravvisa ragioni di discostarsi, ai fini della classificazione di un’opera prefabbricata posta su ruote, occorre stabilire se il manufatto in questione possa ritenersi costruzione o edificazione a fini urbanistici. Al riguardo si rientra nella fattispecie delle modificazioni durevoli dello stato dei luoghi, che, come chiarito dalla giurisprudenza, sono prodotte anche da strutture meramente appoggiate sul suolo, anche con ruote, qualora dette strutture siano destinate ad uso prolungato nel tempo e non quindi realmente precario, cioè temporaneo o occasionale (cfr. Consiglio di stato, sez. V, 20.12.1999, n. 2125; Tar Catania I, 29.11.2007, n. 1921).
In altri termini, a prescindere da un sistema di ancoraggio al suolo, i prefabbricati vanno considerati vere e proprie costruzioni, ove, comunque, siano destinati a durare nel tempo; tale considerazione, del resto, discende dall’alterazione dello stato dei luoghi e dalla destinazione in genere di tale tipo di struttura alla soddisfazione di esigenze di carattere durevole, a prescindere dalla tecnica e dai materiali impiegati per la realizzazione della struttura stessa (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 03.04.1990, n. 317).
Nel caso di specie, dall’esame del verbale redatto dalla Polizia Municipale e recepito nell’ordinanza impugnata si evince -contrariamente a quanto affermato dalla ricorrente e senza che essa abbia fornito un principio di prova al riguardo- che la struttura mobile è utilizzata ad “uso abitativo” tanto che risulta suddivisa in più vani completamente arredati, nonché munita di w.c. chimico. Ne consegue, ai fini urbanistici, che la casa mobile oggetto dell’ordinanza di demolizione impugnata deve essere qualificata alla stregua di una costruzione necessitante di titolo edilizio
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 13.04.2012 n. 769 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I provvedimenti che ordinano la demolizione di manufatti abusivi non abbisognano di congrua motivazione in ordine all’attualità dell'interesse pubblico alla rimozione dell’abuso che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato.
Pertanto, l'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente motivata con riferimento all'oggettivo riscontro dell'abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime concessorio. Tali provvedimenti, infatti, prescindono da qualsiasi valutazione discrezionale dei fatti e sono subordinati al solo verificarsi dei presupposti stabiliti dalla legge, così che, una volta accertata la consistenza dell'abuso, non vi è alcun margine di ponderazione per l'interesse pubblico eventualmente collegato.

Il Collegio, in adesione ad un consolidato indirizzo giurisprudenziale, rileva che i provvedimenti che ordinano la demolizione di manufatti abusivi non abbisognano di congrua motivazione in ordine all’attualità dell'interesse pubblico alla rimozione dell’abuso che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato (C.G.A. 05.12.2002, n. 651; TAR Sicilia, sez. III, 26.10.2005, n. 4105; sez. II, 27.03.2007, n. 979).
Pertanto, l'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente motivata con riferimento all'oggettivo riscontro dell'abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime concessorio. Tali provvedimenti, infatti, prescindono da qualsiasi valutazione discrezionale dei fatti e sono subordinati al solo verificarsi dei presupposti stabiliti dalla legge, così che, una volta accertata la consistenza dell'abuso, non vi è alcun margine di ponderazione per l'interesse pubblico eventualmente collegato (Consiglio Stato, sez. IV, 27.04.2004, n. 2529; TAR Sicilia, sez. II, 08.06.2007, n. 1653; sez. III, n. 504/2008)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 13.04.2012 n. 769 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Comune non può, mediante il formale utilizzo degli strumenti di natura edilizia-urbanistica, adottare misure le quali nella sostanza costituiscono una deroga ai limiti di esposizione ai campi elettromagnetici fissati dallo Stato.
In particolare è stato ribadito che non può essere consentito al Comune prevedere, esemplificativamente, il divieto generalizzato di installare stazioni radio-base per telefonia cellulare in tutte le zone territoriali omogenee, ovvero stabilire criteri con i quali introdurre distanze fisse da osservare rispetto alle abitazioni e ai luoghi destinati alla permanenza prolungata delle persone o al centro cittadino.
Tali disposizioni sono, infatti, funzionali non al governo del territorio, ma alla tutela della salute dai rischi dell'elettromagnetismo e si trasformano in una misura surrettizia di tutela della popolazione da immissioni radioelettriche, che l’art. 4 della legge n. 36/2000 riserva allo Stato attraverso l’individuazione di puntuali limiti di esposizione, valori di attenzione ed obiettivi di qualità, da introdursi con D.P.C.M., su proposta del Ministro dell’Ambiente di concerto con il Ministro della Salute.
Per altro è stato ribadito che le stazioni radio base, attesa la loro natura di opere di urbanizzazione, possono essere installate sull’intero territorio comunale, non assumendo carattere ostativo le specifiche destinazioni di zona rispetto ad impianti di carattere generale che, quali quello di telefonia mobile, presuppongono la realizzazione di una rete che dia uniforme copertura al territorio.

La questione attiene al diniego di autorizzazione in sanatoria ex art. 13 L. 47/1985 di un impianto di telefonia mobile istallato dalla OMNITEL su un terreno di proprietà dell’interveniente ad adiuvandum (giusto contratto di affitto stipulato tra le parti) in assenza di titolo idoneo. Il diniego, nonché gli ulteriori atti connessi presupposti e conseguenti, sono motivati in ragione della modifica apportata al regolamento edilizio comunale ai sensi del quale non possono essere autorizzati impianti di tal fatta ad una distanza inferiore ai mt.1000 dalle abitazioni.
Occorre quindi sindacare preliminarmente tale aspetto della questione qui dibattuta, sia in ordine al ricorso R.G.4991/2001 che al ricorso R.G. 1499/2002.
...
Questa Sezione, in fattispecie analoghe alla presente (fra le tante, 02.07.2011, n. 194; 21.07.2006, n. 1743; 12.03.2008, n. 340; 06.04.2009, n. 661, 27.10.2010, n. 13720), ha già infatti evidenziato come il Comune non possa, mediante il formale utilizzo degli strumenti di natura edilizia-urbanistica, adottare misure le quali nella sostanza costituiscano una deroga ai limiti di esposizione ai campi elettromagnetici fissati dallo Stato. In particolare è stato ribadito che non può essere consentito al Comune prevedere, esemplificativamente, il divieto generalizzato di installare stazioni radio-base per telefonia cellulare in tutte le zone territoriali omogenee, ovvero stabilire criteri con i quali introdurre distanze fisse da osservare rispetto alle abitazioni e ai luoghi destinati alla permanenza prolungata delle persone o al centro cittadino.
Tali disposizioni sono, infatti, funzionali non al governo del territorio, ma alla tutela della salute dai rischi dell'elettromagnetismo e si trasformano in una misura surrettizia di tutela della popolazione da immissioni radioelettriche, che l’art. 4 della legge n. 36/2000 riserva allo Stato attraverso l’individuazione di puntuali limiti di esposizione, valori di attenzione ed obiettivi di qualità, da introdursi con D.P.C.M., su proposta del Ministro dell’Ambiente di concerto con il Ministro della Salute (in tal senso, tra le tante, Consiglio di Stato, sez. VI, 15.06.2006, n. 3534, C.G.A. 12.11.2009, n. 929; TAR Sicilia, sez. II, 06.04.2009, n. 661).
Per altro è stato ribadito che le stazioni radio base, attesa la loro natura di opere di urbanizzazione, possono essere installate sull’intero territorio comunale, non assumendo carattere ostativo le specifiche destinazioni di zona rispetto ad impianti di carattere generale che, quali quello di telefonia mobile, presuppongono la realizzazione di una rete che dia uniforme copertura al territorio (C.G.A. 14.04.2010, n. 514).
Alla stregua delle considerazioni che precedono, le modifiche apportate al regolamento edilizio comunale, approvato con provvedimento regionale, non resistono alle censure articolate nei ricorsi qui riuniti risultando quindi illegittime. Per l’effetto detta modifica va annullata in accoglimento di entrambi i ricorsi. L’annullamento della suddetta modifica al regolamento edilizio travolge altresì il diniego opposto dal Comune di Valederice all’istanza di accertamento di conformità ex art. 13 l. 47/1985 (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 13.04.2012 n. 767 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATABeni Ambientali. Prefabbricato in legno e violazioni paesaggistiche.
Il reato ambientale di cui all'art. 181 d.lgs. 22.01.2004, n. 42 è pacificamente un reato di pericolo, integrato dalla sola mancata richiesta di autorizzazione alla autorità competente, senza che occorra anche il verificarsi di un danno ambientale.
E' evidente che un manufatto prefabbricato in legno di circa 150 mq., non possa sicuramente ritenersi anche in astratto potenzialmente non idoneo ad arrecare danno al bene protetto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.04.2012 n. 13978 - massima e file tratti da www.lexambiente.it).

ATTI AMMINISTRATIVILe categorie della nullità ed annullabilità, quali vizi che inficiano un atto giuridico costituente manifestazione di volontà, si presentano nel diritto amministrativo in relazione invertita rispetto alle omologhe figure valevoli per i negozi giuridici di diritto privato, costituendo la prima l'eccezione rispetto alla seconda; ciò in ragione delle note esigenze di certezza dell'azione amministrativa, che mal si conciliano con la possibilità che questa possa restare esposta ad impugnative non assoggettate a termini di decadenza o prescrizione quale quella di nullità disciplinata dal codice civile, tanto è vero che il codice del processo amministrativo assoggetta la medesima azione ad un preciso termine decadenziale, sebbene più ampio di quello valevole per l'azione di annullamento.
Sulla base di queste premesse, oltre alla nullità testuale ed a quella derivante da difetto di attribuzione, l'art. 21-septies L. n. 241 del 1990 ha previsto la nullità dell'atto amministrativo nel caso in cui questo sia carente di un elemento essenziale: si tratta, sulla falsariga di quanto previsto dall'art. 1418 c.c. per il contratto, in combinato con l'art. 1325 c.c., della c.d. nullità strutturale, ravvisabile nel caso in cui l'atto amministrativo sia privo di uno degli elementi necessari perché lo stesso possa essere giuridicamente qualificato come tale.
L'essenza della nullità, infatti, risiede proprio nell'inconfigurabilità della fattispecie concreta rispetto a quella astratta, accertabile con pronuncia giudiziale meramente dichiarativa, donde i noti corollari della radicale inefficacia (da intendersi in senso ampio, quale inidoneità dell'atto a produrre gli effetti da esso tipicamente discendenti), della generale legittimazione all'impugnativa e della insuscettibilità di sanatoria attraverso convalida.
Trattandosi di patologia più grave rispetto all'annullabilità, appare evidente come la stessa richieda una sua agevole riconoscibilità in concreto, attraverso un mero riscontro estrinseco del deficit dell'atto rispetto al suo paradigma legale (ad es.: mancata indicazione dell'autorità emanante, assenza del dispositivo o della motivazione; mancanza assoluta, in senso strutturale, dell'oggetto), ragione per cui la nullità strutturale di cui all'art. 21-septies per mancanza di elementi essenziali è tutt'ora nel diritto amministrativo una forma speciale di invalidità, potendosi configurare solo nei limitatissimi casi in cui il difetto strutturale dell’atto sia immediatamente percepibile ed accertabile all’esterno.
Per contro, laddove il vizio attenga al concreto svolgimento della funzione amministrativa sfociata nella determinazione provvedimentale, si configura un'ipotesi di cattivo esercizio del potere, contro il quale è data la tradizionale azione di annullamento: il vizio in questione è evidentemente meno riconoscibile rispetto al difetto strutturale dell'atto, atteso che il suo accertamento non si riduce ad un mero riscontro esterno nei termini sopra accennati, ma si indirizza alle concrete modalità con le quali la funzione amministrativa si è manifestata e, dunque, al contenuto intrinseco dell'atto in cui essa si compendia.

Deve sottolinearsi, in linea generale, che le categorie della nullità ed annullabilità, quali vizi che inficiano un atto giuridico costituente manifestazione di volontà, si presentano nel diritto amministrativo in relazione invertita rispetto alle omologhe figure valevoli per i negozi giuridici di diritto privato, costituendo la prima l'eccezione rispetto alla seconda; ciò in ragione delle note esigenze di certezza dell'azione amministrativa, che mal si conciliano con la possibilità che questa possa restare esposta ad impugnative non assoggettate a termini di decadenza o prescrizione quale quella di nullità disciplinata dal codice civile, tanto è vero che il codice del processo amministrativo assoggetta la medesima azione ad un preciso termine decadenziale, sebbene più ampio di quello valevole per l'azione di annullamento.
Sulla base di queste premesse, oltre alla nullità testuale ed a quella derivante da difetto di attribuzione, l'art. 21-septies L. n. 241 del 1990 ha previsto la nullità dell'atto amministrativo nel caso in cui questo sia carente di un elemento essenziale: si tratta, sulla falsariga di quanto previsto dall'art. 1418 c.c. per il contratto, in combinato con l'art. 1325 c.c., della c.d. nullità strutturale, ravvisabile nel caso in cui l'atto amministrativo sia privo di uno degli elementi necessari perché lo stesso possa essere giuridicamente qualificato come tale.
L'essenza della nullità, infatti, risiede proprio nell'inconfigurabilità della fattispecie concreta rispetto a quella astratta, accertabile con pronuncia giudiziale meramente dichiarativa, donde i noti corollari della radicale inefficacia (da intendersi in senso ampio, quale inidoneità dell'atto a produrre gli effetti da esso tipicamente discendenti), della generale legittimazione all'impugnativa e della insuscettibilità di sanatoria attraverso convalida.
Trattandosi di patologia più grave rispetto all'annullabilità, appare evidente come la stessa richieda una sua agevole riconoscibilità in concreto, attraverso un mero riscontro estrinseco del deficit dell'atto rispetto al suo paradigma legale (ad es.: mancata indicazione dell'autorità emanante, assenza del dispositivo o della motivazione; mancanza assoluta, in senso strutturale, dell'oggetto) (Cons. Stato Sez. V, 16-02-2012, n. 792), ragione per cui la nullità strutturale di cui all'art. 21-septies per mancanza di elementi essenziali è tutt'ora nel diritto amministrativo una forma speciale di invalidità (Consiglio di Stato, sez VI, 13.06.2007 n. 3173, TAR Campania Napoli sez III, 01.03.2011, n. 1248), potendosi configurare solo nei limitatissimi casi in cui il difetto strutturale dell’atto sia immediatamente percepibile ed accertabile all’esterno.
Per contro, laddove il vizio attenga al concreto svolgimento della funzione amministrativa sfociata nella determinazione provvedimentale, si configura un'ipotesi di cattivo esercizio del potere, contro il quale è data la tradizionale azione di annullamento: il vizio in questione è evidentemente meno riconoscibile rispetto al difetto strutturale dell'atto, atteso che il suo accertamento non si riduce ad un mero riscontro esterno nei termini sopra accennati, ma si indirizza alle concrete modalità con le quali la funzione amministrativa si è manifestata e, dunque, al contenuto intrinseco dell'atto in cui essa si compendia (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 12.04.2012 n. 1006 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL’annullamento di un provvedimento amministrativo per vizi formali o, comunque, per difetto d'istruttoria o di motivazione che non escludono, ma, anzi, prevedono il riesercizio del potere, comporta che la domanda di risarcimento del danno non può essere valutata che all'esito della nuova manifestazione di detto potere, poiché la facoltà di rideterminazione che residua in capo al soggetto pubblico esclude il carattere di definitività del rapporto, quale necessario presupposto dell'azione risarcitoria.
L’annullamento di un provvedimento amministrativo per vizi formali o, comunque, per difetto d'istruttoria o di motivazione che non escludono, ma, anzi, prevedono il riesercizio del potere, comporta che la domanda di risarcimento del danno non può essere valutata che all'esito della nuova manifestazione di detto potere, poiché la facoltà di rideterminazione che residua in capo al soggetto pubblico esclude il carattere di definitività del rapporto, quale necessario presupposto dell'azione risarcitoria (cfr. sentenza n. 36/2010 citata; TAR Bologna, II, 27.04.2005, n. 668) (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 12.04.2012 n. 1005 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’obbligo gravante sui Comuni di procedere alla revisione periodica dei contributi urbanistici va coniugato col rispetto del divieto di applicazione retroattiva nei confronti delle concessioni edilizie già in precedenza rilasciate.
Ma il principio di irretroattività riguarda le concessioni già rilasciate, per le quali il regime degli oneri economici è già definito in base alla regolamentazione vigente al momento della loro emissione, e fa sì che non si possano applicare retroattivamente criteri di determinazione dei contributi introdotti in epoca successiva al rilascio del titolo.

Va premesso che l’istituto dell’adeguamento periodico dei contributi urbanistici (per opere di urbanizzazione e per costo di costruzione) della cui applicazione si discute oggi ha subìto diversi rimaneggiamenti nel corso degli anni ad opera del legislatore regionale (l’art. 34 della L.R. 37/1985 è stato infatti modificato prima dall’art. 14 della L.R. 19/1994, poi dall’art. 24 della L.R. 25/1997, ed infine dall’art. 17, co. 12, della L.R. 4/2003); il testo attualmente vigente così recita: “L'adeguamento degli oneri di urbanizzazione di cui all'articolo 5 della legge 28.01.1977, n. 10 e del costo di costruzione di cui all'articolo 6 della medesima legge sostituito dall'articolo 7 della legge 24.12.1993, n. 537, è determinato dai comuni entro il 30 ottobre di ogni anno.
I comuni sono tenuti ad applicare gli oneri di concessione aggiornati dal 1° gennaio dell'anno successivo. Nelle more della determinazione dell'adeguamento degli oneri di cui al presente articolo, le concessioni edilizie sono rilasciate con salvezza del conguaglio degli oneri stessi
”.
In relazione a tale norma, la giurisprudenza ha costantemente affermato che l’obbligo gravante sui Comuni di procedere alla revisione periodica dei contributi urbanistici va coniugato col rispetto del divieto di applicazione retroattiva nei confronti delle concessioni edilizie già in precedenza rilasciate (in tal senso, CGA parere a sezioni riunite 392/1995; CGA sentenza 67/2007; CGA sentenza 364/2007; Tar Palermo 559/2008; Tar Catania 305/1993 e 787/1996).
Ma, come attentamente evidenzia la difesa del Comune resistente, il principio di irretroattività riguarda le concessioni già rilasciate, per le quali il regime degli oneri economici è già definito in base alla regolamentazione vigente al momento della loro emissione, e fa sì che non si possano applicare retroattivamente criteri di determinazione dei contributi introdotti in epoca successiva al rilascio del titolo.
Nella fattispecie in esame –è importante sottolinearlo- la questione invece è diversa, in quanto la concessione non era stata ancora rilasciata quando è stata approvata ed è entrata in vigore la recentissima deliberazione consiliare 86/2010 che ha aggiornato l’entità dei contributi.
La peculiare vicenda, allora, potrebbe trovare soluzione con l’ausilio dei principi interpretativi contenuti nella citata sentenza del CGA n. 462/2008. Va premesso che la sentenza in questione ha definito un contenzioso sorto perché il Comune aveva, in origine, determinato gli oneri dovuti dal concessionario sulla base dei criteri vigenti alla data di deposito della domanda e di svolgimento dell’attività istruttoria, ed aveva poi in un secondo momento richiesto al concessionario una integrazione, facendo applicazione delle tariffe aggiornate vigenti nell’anno in cui la concessione era stata effettivamente rilasciata.
In tale contesto il giudice d’appello ha precisato che il principio tempus regit actum applicato alle questioni del tipo oggi in esame implica l’applicazione del regime tariffario vigente al momento del rilascio della concessione ed il conseguente divieto di applicazione retroattiva di disposizioni sopravvenute (anche se di poco) rispetto a tale evento. Tale divieto discenderebbe dal principio generale di irretroattività degli atti amministrativi sancito nell’art. 15 delle “preleggi”, e sarebbe stato confermato con specifico riguardo alla materia in esame dall’art. 14 della L.R. 19/1994 che ha modificato il testo dell’art. 34 della L.R. 37/1985.
Più in particolare, posto che la legge regionale pospone l’efficacia delle delibere di adeguamento degli oneri urbanistici al primo gennaio dell’anno successivo a quello di deliberazione, secondo la sentenza in esame le tariffe aggiornate possono essere applicate solo alle concessioni rilasciate a far data dal primo gennaio, e non a quelle rilasciate in precedenza.
Riguardo al momento di determinazione degli oneri urbanistici, la decisione in esame precisa che la individuazione del quantum dovuto debba essere fatta dall’amministrazione prima (ed in funzione) del rilascio del titolo (cfr. art. 11 della L. 10/1977).
Con riguardo poi alla possibilità per i Comuni di rilasciare le concessioni con la clausola di “riserva di conguaglio” prevista dall’ultimo periodo della norma in esame (nel testo risultante dalla L.R. 4/2003), la sentenza ha ulteriormente precisato che si tratta di un conguaglio da applicare nelle sole ipotesi in cui la rideterminazione degli oneri sia effettuata dal Consiglio comunale al di là del termine del 30 ottobre (o, in ipotesi, anche ad anno solare già iniziato), trattandosi di termine non perentorio ma ordinatorio. La funzione del conguaglio sarebbe, quindi, solo quella di rendere applicabili all’anno di competenza le tariffe aggiornate; non già quella di renderle applicabili in via retroattiva.
Schematizzando e riassumendo i principi appena esposti, emerge il seguente sistema:
a) le tariffe aggiornate in un determinato anno, riguardanti gli oneri urbanistici, non possono essere applicate alle concessioni precedentemente rilasciate;
b) le stesse deliberazioni consiliari di aggiornamento hanno efficacia ex lege dal primo gennaio dell’anno successivo a quello di deliberazione, e si applicano quindi alle concessioni rilasciate successivamente alla suddetta data;
c) le deliberazioni di aggiornamento possono essere eventualmente approvate anche dopo il termine (che ha carattere ordinatorio) del 30 ottobre di ogni anno stabilito dalla legge, ed anche il tal caso avranno efficacia dal successivo primo gennaio;
d) nella ipotesi sub c, se la delibera interviene dopo il 30 ottobre e ad anno successivo già iniziato, il Comune rilascia la concessione in base alle tariffe previgenti, ma gode del diritto a richiedere il conguaglio per applicare gli oneri tardivamente aggiornati; in tal caso si deroga (in via eccezionale) al principio di irretroattività (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 12.04.2012 n. 989 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALISindaci inerti alla Corte dei conti. Rischia l'amministratore che non dà esecuzione a sentenze. Dal Tar Sicilia prima applicazione del decreto semplificazioni, in vigore dal 7 aprile scorso.
Gli amministratori, i dirigenti e i funzionari del Comune rischiano di finire davanti alla Corte dei conti se l'ente non dà esecuzione alle sentenze dei giudici.
È la novità introdotta dal dl semplificazioni convertito dalla legge 35/2012, entrata in vigore il 7 aprile scorso, che subito trova applicazione nella sentenza 12.04.2012 n. 983 del TAR Sicilia-Catania, Sez. I.
L'amministrazione di un paese dell'Isola latita: è divenuto esecutivo, perché non opposto, il decreto ingiuntivo emesso a carico del Comune dalla sezione lavoro del Tribunale etneo. Ma dalle casse del municipio continua a non uscire un euro. Allora chi ha conseguito il provvedimento monitorio si rivolge al Tar per ottenere che la controparte adempia una volta per tutte alla sentenza del giudice attraverso il giudizio di ottemperanza.
Il Tar ordina al Comune di eseguire il giudicato entro 60 giorni e indica un commissario ad acta che dovrà provvedere, entro altri 60 giorni, nell'ipotesi di persistente inerzia dell'amministrazione condannata: il dirigente pubblico tenuto a provvedere è individuato nel segretario generale di un Comune più grande, limitrofo a quello «incriminato». Alla fine del suo lavoro, il commissario invierà una relazione dettagliata alla procura regionale della Corte dei conti, per l'accertamento di eventuali responsabilità a carico di amministratori e funzionari, derivanti dall'inottemperanza al giudicato.
Dipendenti e politici locali, dunque, cominciano a fare i conti con le nuove responsabilità del dl «Semplifica Italia» che ha riscritto i commi 8 e 9 dell'articolo 2 della 241/1990: le sentenze passate contro il silenzio-inadempimento dell'amministrazione sono trasmesse alla Corte dei conti. La mancata o tardiva emanazione del provvedimento è elemento di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente (articolo ItaliaOggi del 27.04.2012 - tratto da www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATALa repressione dell’abuso edilizio si qualifica quale atto vincolato, che non necessita di alcun preavviso ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990. Tuttavia, parte della giurisprudenza ha evidenziato come la suddetta comunicazione sia necessaria tutte le volte in cui il confronto procedimentale col destinatario del provvedimento possa rivelarsi utile o necessario ai fini della esatta determinazione della consistenza dell’abuso di cui viene intimata la demolizione.
L’interesse pubblico alla repressione degli abusi edilizi ed al ripristino della legalità è in re ipsa, non sussistendo alcun affidamento del privato meritevole di tutela, e non potendosi certamente consentire l’utilizzo libero ed indiscriminato delle facoltà edificatorie sul territorio, sol perché le autorità preposte al controllo siano intervenute a reprimerle con ritardo.
E' illegittima l'ordinanza di demolizione che sia priva di un'adeguata motivazione, non specificando né rendendo in alcun modo comprensibile, sotto quale profilo o per quali caratteri l'opera si sia discostata dagli atti progettuali.

Si premette che l’impugnata ordinanza/ingiunzione di demolizione n. 1 del 02.04.2009 –come rilevano le ricorrenti– si limita ad indicare le misure del fabbricato in concreto realizzato evidenziando, in maniera invero un po’ criptica, le differenze con quelle indicate nel progetto assentito con la concessione edilizia n. 26/1984, ed ordinando quindi in modo altrettanto poco determinato la “demolizione dell’opera abusiva sopradescritta”. In particolare, non risulta chiaro se l’ampliamento misurato riguardi tutti e tre i piani; se l’abusivismo si riscontri, in tutto od in parte, anche nella realizzazione del secondo piano; se l’ampliamento verso il lato sud riguardi o meno l’intero fabbricato.
A fronte di un provvedimento repressivo così poco esplicativo in ordine alla consistenza materiale dell’abuso edilizio, risultano fondate le censure proposte dalle ricorrenti che di seguito si analizzano:
  
1.- In relazione al mancato invio della comunicazione di avvio del procedimento.
Il Collegio conosce e condivide la giurisprudenza che qualifica la repressione dell’abuso edilizio quale atto vincolato, che non necessita di alcun preavviso ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990. Tuttavia, parte della giurisprudenza ha evidenziato come la suddetta comunicazione sia necessaria tutte le volte in cui il confronto procedimentale col destinatario del provvedimento possa rivelarsi utile o necessario ai fini della esatta determinazione della consistenza dell’abuso di cui viene intimata la demolizione.
E’ l’esigenza che connota il caso oggi in esame, nel quale una preventiva comunicazione di avvio del procedimento avrebbe consentito alle parti di confrontarsi sulla determinazione delle parti realmente illegittime della costruzione, ed avrebbe quindi contribuito alla redazione di una ordinanza di demolizione analitica e definita nei suoi esatti contenuti.
  
2.- In relazione al denunciato travisamento dei fatti concernente l’esistenza dei presunti lavori in corso.
Anche il secondo motivo di ricorso appare fondato laddove mette in evidenza il fatto che l’impugnata ordinanza, da una parte, muove dal presupposto che siano stati realizzati lavori edilizi, definiti come fatto ormai compiuto, ma dall’altra parte e contraddittoriamente, dispone la sospensione dei lavori, come se questi fossero ancora in itinere.
Il provvedimento impugnato è, quindi, illegittimo nella parte in cui ordina la sospensione di una attività edificatoria che non risulta essere attuale.
  
3.- In ordine alla denunciata carenza di motivazione del provvedimento.
Risulta infondata la censura che postula la necessaria indicazione dell’interesse pubblico perseguito col provvedimento repressivo nei casi in cui la demolizione dell’abuso sia stata ordinata a distanza di molti anni dalla realizzazione del manufatto.
Pacifica giurisprudenza evidenzia che l’interesse pubblico alla repressione degli abusi edilizi ed al ripristino della legalità è in re ipsa, non sussistendo alcun affidamento del privato meritevole di tutela, e non potendosi certamente consentire l’utilizzo libero ed indiscriminato delle facoltà edificatorie sul territorio, sol perché le autorità preposte al controllo siano intervenute a reprimerle con ritardo (tra le più recenti si veda Tar Lecce 240/2011; Tar Brescia 69/2011; Tar Napoli 26797/2010; Tar Bari 3902/2010; Tar Bologna 7898/2010).
  
4.- In relazione alla dedotta violazione degli artt. 12 L. 47/1985 e 7 L.R. 37/1985, a causa della mancata irrogazione della sanzione alternativa di carattere pecuniario in vece di quella ripristinatoria.
La censura risulta infondata per difetto di prova.
Infatti, l’art. 12, co. 2, della L. 47/1985 stabilisce che –nei casi di parziale difformità dal titolo edilizio– se la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il Sindaco applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione. Tuttavia, parte ricorrente omette di fornire la prova che le componenti abusive dell’immobile non possano essere soppresse e scorporate senza pregiudizio per l’intero fabbricato. Ne consegue l’infondatezza del rilievo, in relazione al quale -eventualmente- l’amministrazione potrà svolgere specifica istruttoria nella successiva attività provvedimentale che eserciterà sulla vicenda.
  
5.- con riguardo alla censura di genericità del provvedimento impugnato, che non consentirebbe di distinguere le parti legittime del fabbricato rispetto ai lavori abusivi.
Si è già detto in premessa che l’impugnata ordinanza appare illegittima sotto il profilo considerato. Senza la analitica ed esatta determinazione del rilevato abuso edilizio (nelle sue componenti orizzontali e verticali) la parte obbligata non è posta in condizione di procedere alla demolizione; ma analoga difficoltà incontrerebbe successivamente lo stesso ente pubblico che intervenisse ai sensi dell’art. 7 della L. 47/1985 per acquisire al proprio patrimonio la res abusiva e per disporne in proprio la demolizione a spese del responsabile.
In proposito si richiama la giurisprudenza che ha ritenuto “(…) illegittima l'ordinanza di demolizione che sia priva di un'adeguata motivazione, non specificando né rendendo in alcun modo comprensibile, sotto quale profilo o per quali caratteri l'opera si sia discostata dagli atti progettuali.” (Tar Catanzaro, 2835/2010).
  
6.- In ordine al censurato perseguimento di un interesse privato, in luogo di quello pubblico.
La censura è infondata. Si fa rinvio a quanto chiarito al precedente punto 3 dove si è evidenziata l’insussistenza di un obbligo di specifica individuazione dell’interesse pubblico perseguito con l’ordinanza di demolizione. Per quanto concerne le asserite motivazioni collaterali, od “occulte”, che avrebbero spinto i funzionari comunali ad emettere l’ordinanza, si rileva che si tratta appunto di ragioni non esternate nell’atto, né percepibili in modo diretto ed inequivocabile. Pertanto, non si rileva sotto tale profilo un vizio sindacabile in sede di processo amministrativo.
Sulla base di quanto esposto, l’ingiunzione di demolizione appare illegittima per i vizi sopra enumerati. Anche il successivo provvedimento di immissione in possesso, censurato coi motivi aggiunti, risulta affetto da invalidità derivata, trattandosi di atto consequenziale a quello annullato. Ne consegue che il ricorso ed i motivi aggiunti possono essere accolti nella parte in cui postulano l‘annullamento degli atti impugnati; fermo restando naturalmente il potere/dovere degli organi comunali di adottare ulteriori e nuovi provvedimenti, rispettosi delle norme di cui si è censurata la violazione.
Non può essere invece accolta la domanda risarcitoria avanzata dalle ricorrenti: sia perché, la vicenda non è ancora conclusa, sussistendo i presupposti per l’adozione di nuovi provvedimenti repressivi; sia perché il pregiudizio potenzialmente generato è stato eliminato immediatamente ed in radice, attraverso l’intervento cautelare di questo giudice.
Inammissibile risulta, infine, la subordinata domanda di condanna alla corresponsione dell’indennizzo previsto dall’art. 21-quinquies della L. 241/1990: come è noto, la citata norma prevede l’obbligo di corrispondere un indennizzo ai soggetti che hanno subito pregiudizio per effetto della revoca in autotutela di un provvedimento amministrativo, determinata da sopravvenuti motivi di pubblico interesse. Nel caso oggi in esame, difettano tutti i presupposti predetti dato che non si è in presenza di alcun procedimento di secondo grado avviato in funzione di autotutela (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 12.04.2012 n. 982 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: L’approvazione del piano di lottizzazione costituisce espressa prerogativa dell’organo assembleare al quale, comunque, il responsabile del procedimento (ovvero il competente organo dirigenziale) è tenuto ad inoltrare la proposta di deliberazione, sia essa di accoglimento dell’istanza o di rigetto. Solo a seguito di approvazione del piano è possibile rilasciare, in conformità, la concessione edilizia da parte del competente dirigente ex art. 107 d.lgs. n. 267 del 2000.
Il Collegio non ignora l’orientamento giurisprudenziale (cfr., tra le diverse, C.d.S. Sez. VI Sent. n. 2862 del 17.05.2006; C.d.S. Sez. V Sent. n. 888 del 05.06.1991; TAR Piemonte Sez. I Sent. n. 2253 del 04.09.2009; TAR Bolzano Sent. n. 200 del 25.07.2000; TAR Basilicata Sent. n. 695 del 05.12.2007), che al contrario ritiene l'atto di comunicazione del parere negativo della commissione edilizia equivalga all'emanazione del provvedimento conclusivo del procedimento, poiché -secondo tale tesi- deve ritenersi che da tale atto di comunicazione si evincerebbe che l'organo titolare del potere di emanazione del provvedimento conclusivo del procedimento condivida pienamente il parere negativo dell'organo consultivo. Da ciò deriverebbe che l’atto di comunicazione conterrebbe, per implicito, il provvedimento di rigetto dell'istanza e perciò costituirebbe, in tesi, un provvedimento immediatamente lesivo, che deve essere impugnato entro il termine decadenziale di impugnazione.
Sul punto questa Sezione ha, recentemente, preso una diversa posizione che ritiene di dover confermare:
«9. L'ordinamento degli enti locali della Regione Siciliana, con una disposizione inserita nell'ambito della disciplina urbanistica (art. 14, l.r. 27.12.1978, n. 71), ha previsto tra le competenze del consiglio comunale, notoriamente limitate all'adozione dei cd. atti fondamentali (art. 1 l.r. 11.12.1991, n. 48), quella relativa al provvedimento approvativo del piano di lottizzazione.
In tutte le materie di sua competenza il consiglio comunale delibera -di regola- sulla base delle proposte formulate dai competenti responsabili dei procedimenti una volta esaurita la fase dell'istruttoria ed una volta acquisiti i pareri di regolarità tecnica e di regolarità contabile ove previsti. Le proposte vengono quindi inoltrate all'organo consiliare per l'iscrizione all'ordine del giorno della competente commissione consiliare permanente ovvero del plenum del medesimo consiglio comunale, secondo le prescrizioni dettate dallo specifico regolamento di funzionamento dell'organo assembleare, di cui peraltro ogni comune deve essere dotato (l.r. n. 30/2000).
La fase di trasmissione della proposta è financo regolata dalla legge regionale sul procedimento amministrativo, la quale stabilisce che "Qualora l'adozione del provvedimento finale rientri nella competenza del responsabile del procedimento, questi è tenuto ad adottare il provvedimento stesso subito dopo la definizione del procedimento. Se l'adozione medesima rientra, invece, nella competenza di altro organo, il responsabile del procedimento, entro tre giorni lavorativi dalla definizione dell'istruttoria, trasmette la proposta, corredata degli atti necessari, [...] al funzionario con qualifica apicale, il quale, ove lo stesso rientri nella propria competenza, adotta il provvedimento entro dieci giorni, oppure lo sottopone immediatamente all'organo competente per l'adozione, che provvede anch'esso entro il termine di dieci giorni" (art. 6, comma 2, l.r. 30.04.1991, n. 10, come modificato dall'art. 9, comma 7, della l.r. 05.04.2011, n. 5). Ciò precisato, è indubbio che il parere della commissione edilizia comunale non coincida con il provvedimento conclusivo del procedimento di approvazione del piano di lottizzazione (cfr. Tar Sicilia, Palermo, 31.05.2010, n. 7051), la cui adozione era in ogni caso riservata alla competenza (esclusiva) del consiglio comunale.
Il dirigente tecnico sarebbe stato, infatti, tenuto a trasmettere una proposta di deliberazione, congiuntamente al parere della commissione edilizia , al Consiglio comunale per le successive valutazioni di competenza, le quali avrebbero dovuto concretizzarsi in una specifica deliberazione (di accoglimento o di reiezione, stante la non vincolatività del parere di che trattasi), di guisa che nessun effetto lesivo esterno può essere imputato all'atto impugnato.
È ben noto al Collegio che la regola dell'inammissibilità dell'impugnativa di atti endoprocedimentali incontra un'eccezione nell'ipotesi in cui gli stessi siano suscettibili di incidere immediatamente sulla posizione giuridica dell'interessato, come nel caso di atti di natura vincolata, idonei come tali ad imprimere un indirizzo ineluttabile alla determinazione conclusiva, di atti interlocutori, idonei a determinare un arresto procedimentale capace di frustrare l'aspirazione dell'istante ad un celere soddisfacimento dell'interesse pretensivo prospettato. Nel caso di specie proprio l'assenza di vincolatività del parere della Commissione edilizia imponeva la prosecuzione del procedimento con una tutela rispetto all'inerzia del Consiglio comunale [...]
» (TAR Sicilia, Palermo, III, 27.10.2011, n. 1876).
L’approvazione del piano di lottizzazione, come visto, costituisce espressa prerogativa dell’organo assembleare al quale, comunque, il responsabile del procedimento (ovvero il competente organo dirigenziale) è tenuto ad inoltrare la proposta di deliberazione, sia essa di accoglimento dell’istanza o di rigetto. Solo a seguito di approvazione del piano è possibile rilasciare, in conformità, la concessione edilizia da parte del competente dirigente ex art. 107 d.lgs. n. 267 del 2000 (art. 6, comma 2, l. n. 127 del 1997, nel testo richiamato dall’art. 2, comma 3, l.r. n. 23 del 1998).
Va detto per completezza che tale competenza consiliare è venuta meno, per espressa scelta legislativa (art. 22, c. 12, della legge regionale 22.12.2005 n. 19), per poi essere reintrodotta per volere dello stesso legislatore regionale (cfr. art. 12, comma 20, L.R. 30.01.2006, n. 1).
La separazione di competenze tra l’organo preposto all’istruttoria e di quello chiamato a svolgere una funzione consultiva -quale la commissione edilizia comunale, peraltro ormai soppressa dall’ordinamento regionale- e tra questi e l’organo consiliare, non può dar luogo all’attribuzione di significati impliciti alle determinazioni del primo, di guisa che le stesse decisioni rimangono relegate al rango di atti infraprocedimentali non suscettivi di autonoma lesività (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 12.04.2012 n. 751 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCorte costituzionale. Meccanismo impossibile nelle strutture più piccole. Progressioni, riserva del 50% da assicurare in ogni profilo.
Il 50% dei posti riservati all'esterno nella copertura dei posti vacanti deve essere garantito a livello di singolo profilo professionale e non di programmazione complessiva.

È quanto afferma la Corte Costituzionale, con la sentenza 12.04.2012 n. 90.
La questione viene sollevata dalla presidenza del Consiglio dei ministri, che ha sottoposto al giudizio di legittimità costituzionale una legge della Regione Trentino Alto Adige. In questa legge era previsto che il rispetto della quota dei posti vacanti da destinare all'accesso all'esterno, in sede di copertura degli stessi, poteva avvenire per compensazione fra i vari profili professionali.
In pratica, alcuni concorsi erano riservati totalmente al personale interno, ovvero alla progressione di carriera in quanto attinenti a professionalità che si sviluppavano su più livelli giuridico-economici. Altre procedure selettive erano, invece, aperte solo ai soggetti non già appartenenti all'amministrazione. La compensazione fra i concorsi pubblici e le progressioni di carriera non eccedeva il limite del 50% previsto dalla giurisprudenza consolidata prima e dall'articolo 24 del Dlgs 150/2009 poi. La Corte interviene su questo impianto e abbraccia la tesi proposta da Palazzo Chigi.
Riconosce così l'illegittimità costituzionale della disposizione in questione in quanto contraria ai principi di uguaglianza e di buon andamento della Pubblica amministrazione: la norma poteva essere utilizzata per aggirare il principio del pubblico concorso, previsto dagli articoli 3 e 97 della Costituzione. Mentre rigetta la tesi della Regione, la quale aveva sottolineato come la stessa Corte Costituzionale avesse ammesso, con la sentenza 213/2000, che per «peculiari situazioni giustificatrici» si potesse derogare dal concorso pubblico. Quindi, concorsi con riserva massima del 50% agli interni, ma calcolata per singolo profilo professionale.
Aggiunge la Corte che il rispetto del 50% dei posti da destinare all'esterno per compensazione porterebbe ad avvantaggiare il personale interno nelle categorie superiori e riservare agli esterni solo i posti che richiedono mansioni inferiori. Inoltre, evidenzia come il calcolo della riserva non possa prendere in considerazione i posti coperti con concorsi in anni passati, ma deve far riferimento al momento «genetico».
Si può affermare, quindi, che le progressioni di carriera, negli enti medio-piccoli, sono praticamente morte. Considerati i vincoli in materia di assunzioni, oggi per poter procedere ad una progressione di carriera si devono verificare cinque cessazioni per assumere dall'esterno ed un'altra per la
differenza di stipendio tabellare per la progressione; tutte del medesimo profilo professionale. Situazione del tutto irrealizzabile, viste anche le strette in materia di pensioni, se non in enti dove il numero di dipendenti arriva alle quattro cifre. Anche qualora venga approvata definitivamente la proposta di elevare dal 20 al 40% il limite delle assunzioni rispetto alla spesa dei cessati dell'anno precedente, modifica in discussione in Parlamento, il quadro migliora, ma resta sempre molto critico (articolo Il Sole 24 Ore del 30.04.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' soggetta a concessione edilizia l'edificazione del muro di contenimento.
Nel caso in cui la funzione del muro sia quella di sostenere, il muro stesso deve essere autorizzato mediante il rilascio di una concessione edilizia.
I muri di contenimento, invero, hanno una consistenza diversa dalle recinzioni, dalle quali si differenziano per funzione (che non è quella di delimitare, proteggere ed eventualmente abbellire la proprietà, ma, essenzialmente, di sostenere il terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso) e struttura (che deve, appunto, essere idonea per consistenza e modalità costruttive ad assolvere alla funzione di contenimento).
Ne consegue che mentre il muro di cinta può essere ricondotto alla categoria delle pertinenze, il muro di contenimento, destinato a contenere o sostenere esso stesso dei volumi ulteriori, invece, viene assimilato alla categoria delle costruzioni: in tal caso, infatti, il manufatto ha una funzione autonoma, dal punto di vista edilizio e da quello economico.

Contrariamente a quanto dedotto da parte ricorrente, la giurisprudenza è, da tempo, attestata nel ritenere soggetta a concessione edilizia l'edificazione del muro di contenimento.
In proposito è sufficiente richiamare, ex multis, la sentenza del C.G.A. 05.05.1993, n. 165, secondo la quale, nel caso in cui la funzione del muro sia quella di sostenere, il muro stesso deve essere autorizzato mediante il rilascio di una concessione edilizia.
I muri di contenimento, invero, hanno una consistenza diversa dalle recinzioni, dalle quali si differenziano per funzione (che non è quella di delimitare, proteggere ed eventualmente abbellire la proprietà, ma, essenzialmente, di sostenere il terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso) e struttura (che deve, appunto, essere idonea per consistenza e modalità costruttive ad assolvere alla funzione di contenimento).
Ne consegue che mentre il muro di cinta può essere ricondotto alla categoria delle pertinenze, il muro di contenimento, destinato a contenere o sostenere esso stesso dei volumi ulteriori, invece, viene assimilato alla categoria delle costruzioni: in tal caso, infatti, il manufatto ha una funzione autonoma, dal punto di vista edilizio e da quello economico (cfr. TAR Emilia Romagna, Parma, 12.03.2001, n. 106; 27.04.2001, n. 246; TAR Piemonte 07.05.2003, n. 657; TAR Liguria, sez. I, 14.11.1996, n. 492; 19.10.1994, n. 345) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 06.04.2012 n. 742 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Acque. Disciplina delle acque pubbliche.
La disciplina delle acque pubbliche, quale risulta prima dalla L. 05.01.1994 n. 36 e nel DPR 238/2999 (regolamento recante norme per l'attuazione di alcune disposizioni della predetta legge 36/1994) e poi dal D.Lgs. 152/2006, è indubbiamente innovativa poiché le "definizioni" riportate, indiscutibilmente, non fanno più riferimento alle "caratteristiche" delle acque pubbliche di cui all'art. 1 R.D. 1775/1933, non richiedendosi più che esse, per la loro portata o per l'ampiezza del loro bacino imbrifero, abbiano od acquistino attitudine ad usi di pubblico generale interesse.
Bisogna, però, considerare che la nuova normativa prevede anche che le acque costituiscono una risorsa che va tutelata ed utilizzata secondo criteri di solidarietà: qualsiasi loro uso è effettuato salvaguardando le aspettative ed i diritti delle generazioni future a fruire di un integro patrimonio ambientale (art. 144, comma 2, D.L.vo 152/2006 e, negli stessi termini, art. 1 commi 1 e 2 L. 36/1994).
E proprio sotto il profilo di tale tutela ambientale gli artt. 76 e 77 del medesimo D.L.vo 152/2006 introducono dei limiti in relazione alla capacità dei corpi idrici e quindi alla significatività degli stessi (vale a dire l'attitudine ad usi di pubblico generale interesse) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.04.2012 n. 12998 - massima e file tratti da www.lexambiente.it).
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La Cassazione penale e la nozione di "acque pubbliche", ai sensi dell'art. 144 del Codice dell'ambiente (D.Lgs 152/2006).
La Cassazione è stata adita dal PM presso il Tribunale di Firenze, al fine di ottenere l’annullamento dell’ordinanza con cui il medesimo Tribunale aveva accolto la richiesta di riesame proposta dagli imputati (tra cui il Dirigente del servizio impianti sportivi del Comune di Firenze) avverso il provvedimento di sequestro disposto dal G.I.P.
Il Giudice penale è stato chiamato a valutare se sussistesse nel caso concreto la fattispecie di reato di cui all’art. 96 del R.D. 25/07/1904, n. 523 (“Testo unico delle disposizioni di legge intorno alle opere idrauliche delle diverse categorie”), che punisce la violazione del divieto di inedificabilità assoluta all’interno della fascia di rispetto di 10 metri dal piede dell’argine dei corsi di’acqua pubblici.
Il Tribunale di Firenze aveva ritenuto inesistente il fumus del reato, in considerazione della circostanza che il corso d’acqua in questione risulta completamente intubato ed interrato per più di 2 kilometri e, quindi, avrebbe perso le caratteristiche di corso d’acqua pubblico.
Il P.M. ricorrente sosteneva che, a seguito dell’entrata in vigore della legge 05.01.1994, n. 36 e del relativo regolamento di attuazione (D.P.R. 238/1999), tutte le acque sotterranee e le acque superficiali, anche raccolte in invasi o cisterne, sono acque pubbliche soggette all’art. 96 citato, comprese, dunque, anche il corso d’acqua in questione (ancorché tombinato). Ciò troverebbe conferma nell’art. 144 del D.Lgs. n. 152/2006 (Codice dell’Ambiente) che contiene analoga definizione di acque pubbliche.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso, ma sulla scorta delle seguenti argomentazioni, che sono diverse da quelle del P.M. ricorrente:
- L’art. 1 del R.D. 11/12/1933 n. 1775 definiva pubbliche tutte le acque che, considerate sia isolatamente o per la portata o per l’ampiezza del rispettivo bacino imbrifero, sia in relazione al sistema idrografico al quale appartengono, abbiano od acquistino attitudine ad usi di pubblico generale interesse (Cassazione civile, I, 15/03/1975, n. 1014; Cassazione penale, III, 15/02/1974, n. 1508);
- con l’entrata in vigore del D.P.R. n. 238/1999 e del D.Lgs. n. 152/2006, è cambiata la definizione di acqua pubblica: non si fa più riferimento alle caratteristiche del corso d’acqua (ad esempio l’ampiezza);
- tuttavia, dalla lettera dell’art. 1 della L. 346/1994 da quella dell’art. 144 del D.Lgs. 152/2006 non può ricavarsi un generalizzato assoggettamento al regime pubblicistico demaniale di ogni superficie su cui cadono o defluiscono acque meteoriche (Cassazione S.U. 27/07/1999, n. 507); infatti, le nuove norme sulle acque pubbliche hanno comunque mantenuto fermo il requisito dell’interesse pubblico, come è fatto palese dal concetto di “utilizzazione secondo criteri si solidarietà” di cui all’art. 144, comma 2, del D.Lgs. 152/2006, che presuppone comunque l’idoneità delle acque a soddisfare usi di pubblico generale interesse.
Ritorna, dunque, la nozione di cui all’art. 1 del R.D. 1775/1933. Viene citata, in proposito, la sentenza della Corte Costituzionale n. 259/1996, che ha precisato come la dichiarazione di pubblicità di tutte le acque non debba indurre in equivoco, poiché l’interesse generale è alla base della qualificazione di pubblicità di un’acqua, intesa come risorsa suscettibile di uso previsto e consentito. Viene anche citata la sentenza della Cassazione Penale, sez. I, 26/2011 n. 9331, secondo cui una considerazione letterale degli artt. 1 e 34 L. 36/1994 potrebbe indurre ad una conclusione drastica (secondo cui tutte le acque hanno natura pubblica), mentre la lettura dell’intero testo normativo consente di rilevare come non sia stato modificato il dettato del R.D. 11.12.1933 n. 1775, art. 1, mantenendo in realtà fermo il concetto secondo cui l’attitudine ad usi di pubblico generale interesse è elemento indefettibile a conferire la natura di acque pubbliche ad ogni specie di acqua.
Conclude la Corte che, poiché il corso d’acqua del caso di specie presenta attitudine a soddisfare interessi pubblici, esso costituisce acqua pubblica, a cui va applicato l’art. 96 del R.D. 523/1904 (commento tratto da e link a http://venetoius.myblog.it).

EDILIZIA PRIVATA: Presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo. Ne consegue che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato.
Ai sensi dell’art. 7 l.r. n. 47/1985 l’ingiunzione di demolizione va notificata al “responsabile dell’abuso”; d’altra parte, spetta solo al comproprietario eventualmente pretermesso far valere con autonoma impugnativa le proprie doglianze entro il termine decorrente dalla piena conoscenza del provvedimento di demolizione.
L'ordine di demolizione può essere adottato senza la previa acquisizione del parere della Commissione Edilizia nel caso in cui non debba procedersi a valutazioni tecniche del progetto per acclarare la conformità dell'opera alle prescrizioni normative, ma devono farsi esclusivamente valutazioni di natura giuridica.

Invero:
- presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo. Ne consegue che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato (cfr., ex multis, Tar Campania-Napoli, sez. VII, 08.04.2011, n. 1999; Tar Campania-Napoli, sez. VIII, 06.04.2011, n. 1941).
- ai sensi dell’art. 7 l.r. n. 47/1985, per come recepita in Sicilia con l.r. n. 37/1985, l’ingiunzione di demolizione va notificata al “responsabile dell’abuso”; d’altra parte, spetta solo al comproprietario eventualmente pretermesso far valere con autonoma impugnativa le proprie doglianze entro il termine decorrente dalla piena conoscenza del provvedimento di demolizione (cfr., ex multis, TAR Liguria-Genova, sez. I, 22.01.2011, n. 150; Tar Puglia-Bari, sez. II, 15.12.2010, n. 4196);
- l’ordine di demolizione può essere adottato senza la previa acquisizione del parere della Commissione Edilizia nel caso in cui non debba procedersi, come nel caso di specie, a valutazioni tecniche del progetto per acclarare la conformità dell'opera alle prescrizioni normative, ma devono farsi esclusivamente valutazioni di natura giuridica (nel caso di specie, la totale assenza della concessione edilizia) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 04.04.2012 n. 735 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non può essere condivisa la tesi secondo cui il diniego di sanatoria sarebbe illegittimo in quanto intervenuto dopo la scadenza del termine di 24 mesi fissato dall’art. 35 della legge n. 47/1985 per la pronuncia dell’autorità amministrativa.
Invero, è costante e consolidata ormai la giurisprudenza, secondo la quale non solo tale termine non può essere considerato perentorio (con conseguente “consumazione” del potere della pubblica amministrazione), bensì acceleratorio e quindi ordinatorio, ma soprattutto il prodursi del silenzio-accoglimento, in ipotesi di richiesta di sanatoria non evasa entro detto termine, è escluso in radice nei casi in cui non sussistano i presupposti che dovrebbero invece ricorrere per legittimare l’adozione del provvedimento positivo.
Ciò in quanto “L’eventuale inerzia dell'amministrazione nel provvedere sulle domande di condono edilizio, non può far guadagnare agli interessati un risultato che gli stessi non potrebbero mai conseguire in virtù di provvedimento espresso”.

Non può essere condivisa, infine, la tesi secondo cui il diniego di sanatoria sarebbe illegittimo in quanto intervenuto dopo la scadenza del termine di 24 mesi fissato dall’art. 35 della legge n. 47/1985 (art. 26, comma 15, della L.r. 10.08.1985, n. 37) per la pronuncia dell’autorità amministrativa.
Come ha avuto occasione di osservare questa Sezione Sezione in fattispecie analoghe alla presente (fra le tante, 31.01.2006, n. 280; 06.06.2066, n. 1406), è costante e consolidata ormai la giurisprudenza, secondo la quale non solo tale termine non può essere considerato perentorio (con conseguente “consumazione” del potere della pubblica amministrazione), bensì acceleratorio e quindi ordinatorio, ma soprattutto il prodursi del silenzio-accoglimento, in ipotesi di richiesta di sanatoria non evasa entro detto termine, è escluso in radice nei casi in cui non sussistano i presupposti che dovrebbero invece ricorrere per legittimare l’adozione del provvedimento positivo.
Ciò in quanto “L’eventuale inerzia dell'amministrazione nel provvedere sulle domande di condono edilizio, non può far guadagnare agli interessati un risultato che gli stessi non potrebbero mai conseguire in virtù di provvedimento espresso” (cfr. altresì, Cons. Stato, sez. VI, 26.01.2001, n. 249, TAR Sicilia Catania, sez. I, 29.06.2004, n. 1750; TAR Campania Napoli, sez. IV, 19.06.2003, n. 7596) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 04.04.2012 n. 730 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell’art. 7, comma 3, della legge 28.02.1985, n. 47, l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’immobile abusivo, del sedime e della relativa area di pertinenza costituisce effetto automatico della mancata ottemperanza all’ordinanza di ingiunzione della demolizione, ha natura meramente dichiarativa e non implica scelte di tipo discrezionale.
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Il provvedimento di acquisizione al patrimonio del comune di un'opera abusivamente realizzata ha come unico presupposto l'accertata inottemperanza ad un ordine di demolizione del manufatto abusivo, di cui è meramente dichiarativo, con la conseguenza che, essendo atto dovuto, è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata inottemperanza, essendo "in re ipsa" l'interesse pubblico alla sua adozione.
Inoltre, non richiede alcuna preliminare determinazione inerente l'esercizio di una scelta da parte del Comune sull'applicabilità della stessa più grave misura acquisitiva, rispetto alla semplice demolizione del manufatto abusivo.

...
- ai sensi dell’art. 7, comma 3, della legge 28.02.1985, n. 47, l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’immobile abusivo, del sedime e della relativa area di pertinenza costituisce effetto automatico della mancata ottemperanza all’ordinanza di ingiunzione della demolizione, ha natura meramente dichiarativa e non implica scelte di tipo discrezionale. Peraltro, nell’impugnato provvedimento di acquisizione (10.03.1998) si prende atto della circostanza che “l’ulteriore area di mq. 490,08” è “inferiore a dieci volte la superficie utile complessiva dell’opera;
- secondo costante orientamento giurisprudenziale (seguito anche da questo Tribunale) il provvedimento di acquisizione al patrimonio del comune di un'opera abusivamente realizzata ha come unico presupposto l'accertata inottemperanza ad un ordine di demolizione del manufatto abusivo, di cui è meramente dichiarativo, con la conseguenza che, essendo atto dovuto, è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata inottemperanza, essendo "in re ipsa" l'interesse pubblico alla sua adozione.
Inoltre, non richiede alcuna preliminare determinazione inerente l'esercizio di una scelta da parte del Comune sull'applicabilità della stessa più grave misura acquisitiva, rispetto alla semplice demolizione del manufatto abusivo (cfr., TAR Lazio, sez. II, 12.04.2002, n. 3160; TAR Sicilia, sez. III, 06.03.2009, n. 480; sez. II, 11.01.2011, 26.07.2011, n. 1485).
Nella specie, l’ordinanza di acquisizione appare perfetta, in quanto contiene il riferimento all’ordine di demolizione e alla notifica dell’accertamente della relativa inottemperanza, a seguito del verbale redatto dalla Polizia Municipale in data 18.11.1996, ed è, quindi, corredato di tutti i presupposti necessari (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 04.04.2012 n. 729 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Le norme in materia di partecipazione al procedimento amministrativo non debbono essere applicate meccanicamente e a fini meramente strumentali, ma solo quando la comunicazione di avvio sia suscettibile di apportare una qualche utilità all'azione amministrativa, coerentemente con la funzione di arricchimento sul piano del merito e della legittimità che possa derivare dalla partecipazione del destinatario del provvedimento.
Pertanto, l’omissione della comunicazione comporta l'illegittimità del provvedimento finale solo se il soggetto non avvisato possa provare che, ove avesse avuto la possibilità di partecipare, avrebbe potuto presentare osservazioni ed opposizioni anche solo eventualmente idonee ad incidere, in termini a lui favorevoli, sul provvedimento finale.

Le norme in materia di partecipazione al procedimento amministrativo non debbono essere applicate meccanicamente e a fini meramente strumentali, ma solo quando la comunicazione di avvio sia suscettibile di apportare una qualche utilità all'azione amministrativa, coerentemente con la funzione di arricchimento sul piano del merito e della legittimità che possa derivare dalla partecipazione del destinatario del provvedimento; pertanto, l’omissione della comunicazione comporta l'illegittimità del provvedimento finale solo se il soggetto non avvisato possa provare che, ove avesse avuto la possibilità di partecipare, avrebbe potuto presentare osservazioni ed opposizioni anche solo eventualmente idonee ad incidere, in termini a lui favorevoli, sul provvedimento finale (cfr. TAR Sicilia, sez. II, 23.10.2006, n. 2347; sez. III, 06.08.2010, n. 9216) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 04.04.2012 n. 727 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato.
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- che l’unico profilo di censura che residua e che investe l’impugnata ordinanza di demolizione, consistente nel difetto di motivazione, deve ritenersi infondato, stante che (e a tacer d’altro), per costante giurisprudenza, presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato (tra le tante, C.S., Sez. IV, 12.04.2011 n. 2266; TAR Campania-Napoli, Sez. VII, 08.04.2011 n. 1999) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 03.04.2012 n. 679 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini della legittimità dell’ordine di demolizione è sufficiente l’accertamento dell’abuso edilizio.
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La descrizione del prefabbricato contenuta nell’ordinanza di demolizione consente un’adeguata individuazione dell’opera abusiva, mentre una più puntuale specificazione (per mezzo dei dati catastali riferiti alle particelle dei terreni sui quali insiste l’opera abusiva) è elemento essenziale soltanto del successivo provvedimento di accertamento della mancata ottemperanza alla demolizione: requisito dell'ingiunzione di demolizione è, infatti, l'esistenza della condizione che la rende vincolata, cioè l'accertata esecuzione di opere abusive e non anche la specificazione puntuale della portata delle successive sanzioni, recate con successivo, eventuale provvedimento.

Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal quale non si ravvisa motivo di discostarsi, ai fini della legittimità dell’ordine di demolizione è sufficiente l’accertamento dell’abuso edilizio e, a tal riguardo, l’opera abusivamente realizzata dai ricorrenti è sufficientemente identificata nell’ordinanza impugnata nella quale si precisa che: “Più specificatamente, subito dopo l’ingresso su un ampio spiazzo, parzialmente cementato, erano posizionati un prefabbricato etc...”.
In definitiva, la descrizione del prefabbricato contenuta nell’ordinanza di demolizione consente un’adeguata individuazione dell’opera abusiva, mentre una più puntuale specificazione (per mezzo dei dati catastali riferiti alle particelle dei terreni sui quali insiste l’opera abusiva) è elemento essenziale soltanto del successivo provvedimento di accertamento della mancata ottemperanza alla demolizione: requisito dell'ingiunzione di demolizione è, infatti, l'esistenza della condizione che la rende vincolata, cioè l'accertata esecuzione di opere abusive e non anche la specificazione puntuale della portata delle successive sanzioni, recate con successivo, eventuale provvedimento (cfr., ex multis, Cons. St., sez. V, 26.01.2000, n. 341; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 26.06.2009, n. 3530)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 03.04.2012 n. 676 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’accertata realizzazione del prefabbricato in assenza di titolo edilizio costituisce attività sanzionabile ai sensi degli artt. 4 ss., della legge 28.02.1985, n. 47; sicché è senz’altro legittimo l’ordine di demolizione del prefabbricato.
Invero, ove si tratti di struttura realizzata per soddisfare esigenze aziendali di carattere permanente (come nel caso in esame) prescindendo da qualsiasi valutazione in ordine alla facile amovibilità o meno di tale struttura alla stessa non potrà attribuirsi carattere di opera precaria, con conseguente infondatezza del ricorso giurisdizionale proposto avverso il connesso provvedimento sanzionatorio-ripristinatorio che necessariamente colpisce –trattandosi di zona soggetta a vincoli sismico e paesaggistico- oltre al manufatto edilizio, anche i materiali depositati a cielo aperto, ordinandone lo sgombero.
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Il deposito a cielo aperto di mezzi d’opera e materiali per l’edilizia, al pari del prefabbricato costituiscono interventi –come si evince da quanto dichiarato nel ricorso dagli stessi ricorrenti– da lungo tempo destinati a far fronte ad esigenze continuative connesse all’attività d’impresa e come tali, complessivamente considerati, determinano una trasformazione permanente dell'assetto edilizio del territorio in zona soggetta a vincoli sismico e paesaggistico.
Ne consegue che la realizzazione del prefabbricato in assenza di valido titolo edilizio, peraltro in area soggetta ai predetti vincoli, rende necessitato l’intervento del Comune e legittimo il provvedimento sanzionatorio-ripristinatorio adottato dall’Amministrazione sia con riferimento all’ordine di demolizione, sia con riferimento allo sgombero dei materiali.
Infatti la generale funzione di vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia, disciplinata negli articoli 4 e seguenti della legge 28.02.1985, n. 47 ed ora riordinata nel titolo IV del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia approvato con D.P.R. 06.06.2001, n. 380, spetta esclusivamente al Comune, che ha il potere/dovere di vigilanza ed eventuale repressione sull'attività urbanistico-edilizia svolta all'interno del territorio comunale.

Superata la questione della nullità parziale dell’ordinanza, l’accertata realizzazione del prefabbricato in assenza di titolo edilizio costituisce attività sanzionabile ai sensi degli artt. 4 ss., della legge 28.02.1985, n. 47; sicché è senz’altro legittimo l’ordine di demolizione del prefabbricato, in ordine al quale l'orientamento pressoché univoco della giurisprudenza è nel senso che ove si tratti di struttura realizzata per soddisfare esigenze aziendali di carattere permanente (come nel caso in esame) prescindendo da qualsiasi valutazione in ordine alla facile amovibilità o meno di tale struttura –che i ricorrenti non hanno peraltro nemmeno dedotto- alla stessa non potrà attribuirsi carattere di opera precaria, con conseguente infondatezza del ricorso giurisdizionale proposto avverso il connesso provvedimento sanzionatorio-ripristinatorio che necessariamente colpisce –trattandosi di zona soggetta a vincoli sismico e paesaggistico- oltre al manufatto edilizio, anche i materiali depositati a cielo aperto, ordinandone lo sgombero.
Risulta dirimente la considerazione che il deposito a cielo aperto di mezzi d’opera e materiali per l’edilizia, al pari del prefabbricato (e delle ulteriori opere abusive non oggetto del presente gravame) costituiscono interventi –come si evince da quanto dichiarato nel ricorso dagli stessi ricorrenti– da lungo tempo destinati a far fronte ad esigenze continuative connesse all’attività d’impresa e come tali, complessivamente considerati, determinano una trasformazione permanente dell'assetto edilizio del territorio in zona soggetta a vincoli sismico e paesaggistico: infatti, il prefabbricato abusivo ed i materiali a cielo aperto insistono su particelle catastali che nell’impugnato provvedimento il comune dichiara ricadere “nel P.R.G. vigente in zona F3-Parco Urbano e Territoriale interessate, ad eccezione delle p.lle 264- 261-356 e 357 in parte, dalla fascia di rispetto dell’asta fluviale, con l’intero territorio comunale soggetto ai vincoli sismico e paesaggistico”. Sul punto i ricorrenti non hanno fornito alcun principio di prova in ordine alla contestata individuazione delle particelle effettivamente utilizzate come deposito a cielo aperto ma si sono limitati soltanto a genericamente dichiarare, nel ricorso, che i beni erano per la gran parte accatastati –al momento del sopralluogo eseguito dalla Polizia Municipale– nelle particelle di terreno non incluse nella zona Parco.
Ne consegue che la realizzazione del prefabbricato in assenza di valido titolo edilizio, peraltro in area soggetta ai predetti vincoli, rende necessitato l’intervento del Comune e legittimo il provvedimento sanzionatorio-ripristinatorio adottato dall’Amministrazione sia con riferimento all’ordine di demolizione, sia con riferimento allo sgombero dei materiali.
Infatti la generale funzione di vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia, disciplinata negli articoli 4 e seguenti della legge 28.02.1985, n. 47 ed ora riordinata nel titolo IV del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia approvato con D.P.R. 06.06.2001, n. 380, spetta esclusivamente al Comune, che ha il potere/dovere di vigilanza ed eventuale repressione sull'attività urbanistico-edilizia svolta all'interno del territorio comunale
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 03.04.2012 n. 676 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Attesa la configurabilità di interventi edilizi anche nel caso di deposito a cielo aperto nelle ipotesi in cui per la complessiva entità degli interventi realizzati vi è una modificazione permanente del territorio soggetto a vincoli sismico e paesaggistico, ne consegue che il Comune, oltre al ripristino dello stato dei luoghi, legittimamente irroga anche la sanzione pecuniaria nella misura di 516 euro ex art. 37, comma 1, D.P.R. 380/2001 (che ha sostituito l’art. 10 L. 47/1985), senza che tale conclusione possa ritenersi preclusa dalla mancanza attivazione del sub procedimento per la determinazione del valore venale dell’immobile, atteso che la sanzione pecuniaria è irrogata nella misura minima edittale e, dunque, nessuna modificazione migliorativa i ricorrenti avrebbero potuto sortire.
Infatti, alla stregua delle raggiunte conclusioni ed in applicazione dell'art. 21-octies della legge n. 241 del 1990, siffatta circostanza non è assolutamente idonea a paralizzare l'efficacia di un provvedimento repressivo che non può avere alcun altro diverso contenuto da quello reso, inderogabilmente necessitato dalle previsioni normative riportate, costituenti presupposto dell'ordine di demolizione e di sgombero impartito dal Comune e da cui prende le mosse la vicenda processuale qui in via di definizione.

Con il secondo motivo di ricorso, i ricorrenti sostengono l’inapplicabilità della sanzione pecuniaria irrogata nella misura di 516 euro ex art. 37, comma 1, D.P.R. 380/2001 che ha sostituito l’art. 10 L. 47/1985, per la mancata richiesta di preventiva autorizzazione sull’assunto, errato, della insussistenza del presupposto dell’esecuzione di “interventi edilizi” con riferimento al deposito di materiali a cielo aperto.
Il motivo di ricorso è infondato.
Attesa la configurabilità di interventi edilizi anche nel caso di deposito a cielo aperto nelle ipotesi, quale quella in esame, in cui per la complessiva entità degli interventi realizzati vi è una modificazione permanente del territorio soggetto a vincoli sismico e paesaggistico, ne consegue che il Comune, oltre al ripristino dello stato dei luoghi, ha legittimamente irrogato anche la sanzione pecuniaria nella misura di 516 euro ex art. 37, comma 1, D.P.R. 380/2001 (che ha sostituito l’art. 10 L. 47/1985), senza che tale conclusione possa ritenersi preclusa dalla mancanza attivazione del sub procedimento per la determinazione del valore venale dell’immobile, atteso che la sanzione pecuniaria è stata irrogata nella misura minima edittale e, dunque, nessuna modificazione migliorativa i ricorrenti avrebbero potuto sortire.
Infatti, alla stregua delle raggiunte conclusioni ed in applicazione dell'art. 21-octies della legge n. 241 del 1990, siffatta circostanza non è assolutamente idonea a paralizzare l'efficacia di un provvedimento repressivo che non può avere alcun altro diverso contenuto da quello reso, inderogabilmente necessitato dalle previsioni normative riportate, costituenti presupposto dell'ordine di demolizione e di sgombero impartito dal Comune e da cui prende le mosse la vicenda processuale qui in via di definizione
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 03.04.2012 n. 676 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Demolizione abusiva di un bene artistico della parrocchia – Dichiarazione di interesse culturale – Preesistenza – Non è necessaria – Artt. 10 e 169, c. 1, lett. a), d.lgs. n. 42/2004.
In tema di protezione delle bellezze naturali, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 169, comma 1, lett. a), del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, che punisce l’abusiva demolizione, rimozione, modifica, restauro od esecuzione di opere di qualunque genere su beni culturali, non è necessaria per i beni artistici appartenenti alle parrocchie la preesistenza della dichiarazione di interesse culturale del bene, giacché si presumono per legge beni culturali, se questi posseggono valore artistico, storico, archeologico, ecc….
Sicché, l’affermazione secondo la quale i beni delle chiese aperte al pubblico sono stati sempre considerati beni culturali, se aventi valore artistico, è conforme alle disposizioni normative che si sono succedute nel tempo in materia di tutela di beni artistici.
Beni artistici e culturali appartenenti ad Istituti ecclesiastici – Alienazione – Impossibilità.
Le cose che presentano un interesse artistico, storico, archeologico o etnografico, appartenenti ad Enti o Istituti legalmente riconosciuti -fra i quali vanno annoverati anche gli Istituti ecclesiastici cui fanno capo le Chiese aperte al culto- non possono essere alienate se non previa autorizzazione del Ministero competente.
Beni appartenenti ad Istituti ecclesiastici – Decreto impositivo del vincolo culturale – Notifica – Necessità – Esclusione – Alienazione – Assenza di autorizzazione – Costituisce reato – Art. 3 L. n. 1089/1939 e s.m..
Ai sensi dell’art. 3 l. 1.06.1939, n. 1089, il decreto impositivo del vincolo culturale deve essere notificato solo se relativo a cose appartenenti a privati, mentre per quelle appartenenti ad Istituto legalmente riconosciuto, il vincolo é efficace a prescindere da qualsiasi notifica del provvedimento ed anche se le cose non sono state comprese negli elenchi che i rappresentanti degli Enti sono obbligati a presentare; pertanto, commette il reato di cui all’art. 62 l. n. 1089 cit. (che è di dolo generico e richiede soltanto la coscienza e volontà della alienazione) il titolare di una Parrocchia che alieni senza autorizzazione una cosa di interesse artistico appartenente ad una Chiesa aperta al pubblico.
Reati contro i beni artistici e culturali – Art. 59 l. n. 1089/1939 – Ratio.
In tema di reati contro il patrimonio archeologico, storico ed artistico, l’art. 59 L. 01.06.1939 n. 1089, ha come destinatari non solo i proprietari del bene vincolato, ed i soggetti a questi equiparati, ma anche tutti gli altri soggetti che, pur non essendo titolari di poteri o facoltà sul bene medesimo, possono di fatto, con il loro comportamento (demolizione, rimozione, modifica, restauro non autorizzato), modificare la condizione materiale o giuridica della “res” nel senso vietato dalla norma, che, infatti, tutela direttamente i beni, come si desume dall’inciso “i beni non possono” e solo indirettamente si riferisce ai titolari sui quali ricadono gli effetti giuridici; pertanto, la tesi che circoscrive la responsabilità solo ai soggetti che possono chiedere l’autorizzazione sposta la ratio della tutela dal bene al potere di controllo riservato alla P.A. che deve rilasciare l’autorizzazione che “ha valore per la sua funzionalità alla tutela del bene” e non di per sé, in quanto oggetto diretto della tutela è il bene, che può essere aggredito da chiunque, e non il potere di controllo riservato alla P.A. (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.03.2012 n. 11412 - link a www.ambientediritto.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa Cassazione blocca le assunzioni. I contratti ripetuti danno diritto solo all'indennizzo.
LE RAGIONI/ L'interpretazione confermata dalla Suprema corte serve a tutelare il principio dell'accesso unicamente per concorso.
In caso di utilizzo di contratti a termine senza soluzione di continuità, un Comune deve pagare i danni, ma non è obbligato all'assunzione. Deve infatti ritenersi conforme ai principi Ue e alla Costituzione il divieto di conversione in rapporti a tempo indeterminato dei contratti a tempo determinato sottoscritti dalla Pa in modo illecito.

Questo il principio ribadito dalla Corte di Cassazione nella sentenza 20.03.2012 n. 4417, con cui ha respinto il ricorso presentato da alcuni soggetti che avevano avuto rapporti continuativi a tempo determinato con un Comune.
Nel caso, un ente aveva assunto alcuni lavoratori, quali assistenti bagnini, con contratto a tempo determinato per una stagione estiva e alla scadenza li aveva riassunti immediatamente, con lo stesso contratto e per le stesse mansioni. I dipendenti hanno impugnato gli atti dell'ente, sostenendo che il rapporto doveva considerarsi a tempo indeterminato sin dalla stipula del primo contratto e richiedendo il pagamento della differenza retributiva.
Il giudice di primo grado ha respinto il ricorso, chiarendo che si trattava di due contratti a termine, e non di proroga di un unico contratto, e che la violazione di disposizioni imperative sulle assunzioni da parte della Pa non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, ma solo il risarcimento del danno, condannando il Comune a un indennizzo pari a tredici mensilità della retribuzione netta prevista nel contratto di lavoro, oltre alle differenze retributive spettanti per la durata dei contratti a termine. Anche la Corte di appello ha confermato l'interpretazione.
La Cassazione ha ribadito il principio che, in materia di pubblico impiego, un rapporto di lavoro a tempo determinato non è suscettibile di conversione in uno a tempo indeterminato, stante il divieto posto dall'articolo 36 del Dlgs 165/2001, il cui disposto è stato ritenuto legittimo dalla Corte costituzionale (sentenza 98/2003).
I giudici hanno precisato che, diversamente, non troverebbero ragione i processi di stabilizzazione previsti dall'articolo 1, commi 519, 557 e 558 della Finanziaria 2007, volti a eliminare il precariato creatosi per assunzioni in violazione dell'articolo 36.
Il principio dell'assunzione dei pubblici dipendenti mediante concorso, posto a tutela delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell'amministrazione, è compatibile con la direttiva n. 70/99/CEE, in quanto dispone, in caso di violazione, il diritto del lavoratore al risarcimento del danno, strumento ritenuto adeguato a prevenire e sanzionare l'utilizzo abusivo da parte della p.a. di una successione di rapporti di lavoro a tempo determinato.
La Corte ha così respinto il ricorso e ha confermato la condanna del comune al pagamento di un risarcimento economico ai lavoratori interessati (articolo Il Sole 24 Ore del 30.04.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Silenzio–rifiuto. L’obbligo di provvedere per la Pubblica Amministrazione può discendere anche da prescrizioni di carattere generale e/o dai principi generali regolatori dell'azione amministrativa. Obbligo di provvedere del Comune in merito ad una istanza del proprietario di un immobile con la quale si chiede al Comune l’attribuzione del numero civico e della denominazione della strada.
Scopo del ricorso contro il silenzio-rifiuto è ottenere un provvedimento esplicito dell'Amministrazione, che elimini lo stato di inerzia ed assicuri al privato una decisione che investe la fondatezza o meno della sua pretesa (1). La fonte dell'obbligo giuridico di provvedere consiste, di solito, in una norma di legge, di regolamento od in un atto amministrativo, ma non necessariamente deve derivare da una disposizione puntuale e specifica, potendosi, talora, desumere anche da prescrizioni di carattere generale e/o dai principi generali regolatori dell'azione amministrativa (2).
Deve ritenersi che, a prescindere dall'esistenza di una specifica disposizione normativa impositiva, l'obbligo della P.A. di provvedere sussista in tutte quelle ipotesi in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano) di quest'ultima (3).
A seguito della presentazione da parte del proprietario di un immobile di una istanza con la quale si chiede al Comune l’attribuzione del numero civico e della denominazione della strada in cui è ubicato l’immobile stesso, sussiste il dovere per il Comune di pronunciarsi sull’istanza stessa.
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(1) Cfr. ex multis Cons. Stato, Sez. VI 10.06.2003 n. 3279; Sez. V, 12.10.2004 n. 6528; Sez. V, 26.04.2005, n. 1913; Sez. V 05.02.2007, n. 457.
(2) Cfr. T.A.R. Calabria - Catanzaro, n. 939/2009.
(3) Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 22.11.1991 n. 1331
(massima tratta da www.regione.piemonte.it - TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 08.03.2012 n. 543 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Annullamento in autotutela adottato a distanza di lungo tempo dal rilascio del permesso di costruire.
E’ illegittimo il provvedimento con il quale è stato annullato in autotutela un permesso di costruire, motivato con riferimento alla accertata violazione -tramite apposita verificazione- della distanza minima tra fabbricati confinanti, sancita dall’art. 25 del regolamento edilizio comunale, nel caso in cui il provvedimento in autotutela, da una parte, sia stato adottato a distanza di lunghissimo tempo (nella specie, si trattava, rispettivamente, di dieci e sei anni) dal rilascio delle due concessioni edilizie con esso annullate e, dall’altra, sia privo di puntuale e/o adeguata motivazione in ordine all'interesse pubblico specifico, concreto e attuale, al divisato annullamento d’ufficio; in tal caso, infatti, in ragione del lungo tempo decorso dal rilascio dei titoli edilizi, l’annullamento avrebbe dovuto essere puntualmente motivato con riferimento agli eventuali contrasti dei titoli abilitativi con gli interessi urbanistici della zona, nonché in rapporto all’affidamento privato nella conservazione dei medesimi titoli abilitativi, consolidatosi nell’arco temporale trascorso tra il loro rilascio e la loro rimozione (1).
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(1) Ha osservato la sentenza in rassegna che, nella specie, nessuna ponderazione tra interesse pubblico e privato risultava, in sostanza, effettuata ed esplicitata dall'amministrazione resistente, la quale si era limitata a rilevare la violazione della distanza minima tra fabbricati confinanti, sancita dall’art. 25 del regolamento edilizio comunale, e ad evocare genericamente ed ellitticamente "esigenze generali, tra cui bisogni di salute pubblica, sicurezza, vie di comunicazione e buona gestione del territorio".
Viceversa, a fronte del considerevole lasso di tempo decorso dal rilascio dei titoli abilitativi edilizi annullati d’ufficio (circa 10-6 anni), il canone di ragionevolezza del termine massimo per l’esercizio del potere di autotutela (cfr. art. 21-nonies, comma 1, della l. n. 241/1990) avrebbe dovuto suggerire una scelta più attenta e rispettosa verso la consolidata posizione di affidamento ingenerato nel privato ricorrente circa la legittimità degli atti di concessione rilasciatigli (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 02.10.2007, n. 5074)
(massima tratta da www.regione.piemonte.it - TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 07.03.2012 n. 1130 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire. Accertamenti del Comune circa la titolarità dell’area.
Il Comune, nel verificare l'esistenza in capo al richiedente il permesso edilizio di un idoneo titolo di godimento sull'immobile, non si assume il compito di risolvere eventuali conflitti di interesse tra le parti private in ordine all'assetto proprietario, ma accerta soltanto il requisito della legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso.
In sede di esame di una domanda di rilascio di un permesso di costruire, la funzione autorizzatoria dell'Amministrazione richiede un livello minimo di istruttoria che comprende l'acquisizione di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi propone l'istanza e il bene giuridico oggetto dell'autorizzazione, senza che l'esame del titolo di godimento operato dalla p.a. costituisca un'illegittima intrusione in ambito privatistico, ma soltanto per assicurare un ordinato svolgimento delle attività sottoposte al controllo autorizzatorio al fine di non alimentare il contenzioso tra le parti, e ciò anche nell'ambito del procedimento di rilascio del permesso di costruire (2).
In sede di esame di una domanda di rilascio di un permesso di costruire, il Comune non è tenuto a complessi e laboriosi accertamenti anche per non aggravare il procedimento, e non ha l'onere di appurare l'eventuale esistenza di servitù o di altri vincoli reali che limitano l'ampiezza del titolo di proprietà. Qualora però tali limiti siano accertati il Comune non può ignorarli, pena un'insufficiente istruttoria.
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(1) Cfr. Consiglio Stato, sez. V, 17.09.2001, n. 4847.
(2) Cfr. Cons. di Stato, n. 3525/2000, secondo cui "l'esecuzione di opere di trasformazione edilizia...è sottoposta a una disciplina complessa, che riguarda, rispettivamente, la definizione degli assetti della proprietà immobiliare e il controllo pubblicistico sulla conformità alle regole e ai piani di derivazione pubblicistica. Gli ambiti delle due discipline, finalizzate alla tutela di interessi di consistenza disomogenea, non sono pienamente sovrapponibili. È quindi possibile che un intervento edilizio, astrattamente conforme alla prescrizioni urbanistiche, si ponga in contrasto con la normativa di derivazione civilistica, costituendo la violazione di diritti reali di godimento o di altre facoltà dei soggetti interessati. Tuttavia, la necessaria distinzione tra gli aspetti civilistici e quelli pubblicistici dell'attività edificatoria non impedisce di rilevare la presenza di significativi punti di contatto tra i due diversi profili. Da una parte, la normativa edilizia di carattere regolamentare è idonea a fondare pretese sostanziali nei rapporti interprivati, che assumono la consistenza e il grado di protezione del diritto soggettivo. Dall'altra parte, alcuni elementi di origine civilistica assumono una rilevanza qualificata nel procedimento di rilascio della concessione edilizia
" (massima tratta da www.regione.piemonte.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.03.2012 n. 1270 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI: Scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose. Natura e presupposti del relativo provvedimento.
Il provvedimento di scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose, di cui agli artt. 143 e ss. del d.lgs. 18.08.2000 n. 267, è un provvedimento di carattere straordinario che non ha natura sanzionatoria, ma preventiva (1); ciò comporta che, quale presupposto, si richiede solo la presenza di "elementi" su "collegamenti" o "forme di condizionamento" che consentano di individuare la sussistenza di un rapporto fra gli amministratori e la criminalità organizzata, ma che non devono necessariamente concretarsi in situazioni di accertata volontà degli amministratori di assecondare gli interessi della criminalità organizzata, né in forme di responsabilità personali, anche penali, degli amministratori.
Ai fini dello scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose non occorre né la prova della commissione di reati da parte degli amministratori, né che i collegamenti tra l'amministrazione e le organizzazioni criminali risultino da prove inconfutabili; sono sufficienti, invece, semplici "elementi" (e quindi circostanze di fatto anche non assurgenti al rango di prova piena) di un collegamento e/o influenza tra l'amministrazione e i sodalizi criminali (2), ovvero è sufficiente che gli elementi raccolti e valutati siano "indicativi" di un condizionamento dell’attività degli organi amministrativi e che tale condizionamento sia riconducibile all’influenza ed all’ascendente esercitati da gruppi di criminalità organizzata. È da affermarsi, dunque, l’autonomia del provvedimento di scioglimento rispetto all’esito di procedimenti penali aventi ad oggetto fatti e comportamenti degli amministratori (3).
Il provvedimento di scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose, di cui agli art. 143 e ss. d.lgs. 18.08.2000 n. 267, costituisce un atto di alta amministrazione, connotato anche da una significativa valenza politica, così come la relazione ministeriale che viene presa a fondamento per l'esercizio del potere di scioglimento; in tal caso, il sindacato del giudice amministrativo non può essere che estrinseco, secondo le regole proprie del giudizio di legittimità, senza possibilità di apprezzamenti che ne riguardino il merito (4).
Nel caso di provvedimenti di scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose, il sindacato di legittimità e la valutazione delle acquisizioni probatorie in ordine a collusioni e condizionamenti sono il risultato di un giudizio complessivo, su più fatti ed episodi sintomatici, che isolatamente considerati potrebbero anche non essere particolarmente significativi o determinanti, ma che rilevanza acquistano in una considerazione di insieme, giacché solo dal loro esame complessivo può ricavarsi la ragionevolezza dell'addebito mosso al consiglio comunale in un determinato contesto e a prescindere da responsabilità dei singoli (5).
L'applicazione dell'istituto dello scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose di cui all'art. 143 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267 ricorre nelle ipotesi in cui l'andamento generale della vita amministrativa di un ente locale subisca influenze da un ipotizzato condizionamento mafioso, potendo di conseguenza l'indagine riguardare, oltre che scelte strettamente di governo -soprattutto quelle in materia di programmazione e pianificazione- anche specifiche attività di gestione, le quali sostanzialmente finiscono per essere quelle di maggior interesse per le consorterie criminali, in considerazione della maggiore e più repentina disponibilità che viene offerta di risorse pubbliche.
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(1) Cfr. TAR Sicilia-Palermo, sez. I, 10.03.2008, n. 321.
(2) Cfr. TAR Campania-Napoli, sez. I, 06.02.2006, n. 1622.
(3) Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 26.11.2007, n. 6040
(4) Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 04.08.2006, n. 4765.
(5) Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 24.04.2009, n. 2615; 06.04.2005, n. 1573
(massima tratta da www.regione.piemonte.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 06.03.2012 n. 1266 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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