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AGGIORNAMENTO
AL 30.05.2012 |
ã |
S.O.S. TERREMOTO
EMILIA ROMAGNA:
e se capitasse a te ?? |
E’ attivo dalle 19.00 di ieri martedì 29 maggio e
fino al 26 giugno il numero solidale 45500 per la
Campagna di raccolta fondi straordinaria a favore
delle popolazioni della Regione Emilia Romagna
duramente colpite dagli eventi sismici, il cui
ricavato verrà versato sul Fondo della Protezione
Civile.
Il valore della donazione sarà di:
Þ
2 euro per ciascun SMS inviato da cellulari: TIM,
Vodafone, WIND, 3, Poste Mobile, CoopVoce, Tiscali e
Noverca;
Þ
2 euro per ciascuna chiamata fatta allo stesso
numero da rete fissa di: Telecom Italia, Infostrada,
Fastweb, TeleTu e Tiscali. |
Quindi,
non perdere tempo:
telefona
oppure invia un SMS al 45500
e fai la Tua generosa offerta per quella povera
gente che ha perso tutto ... non restare
indifferente perché l'indifferenza uccide più del
terremoto !! |
E non dire: "Sì,
un attimo ... lo faccio dopo ...". |
Telefona ora, adesso, subito !! |
30.05.2012 - LA
SEGRETERIA PTPL |
* * * * * |
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IN
EVIDENZA |
URBANISTICA:
Libertà di stabilimento –
Restrizioni allo stabilimento di esercizi di
commercio al dettaglio di grandi dimensioni.
Le restrizioni alla libertà di stabilimento che
siano applicabili senza discriminazioni basate sulla
cittadinanza possono essere giustificate da motivi
imperativi di interesse generale, a condizione che
siano atte a garantire la realizzazione
dell’obiettivo perseguito e non vadano oltre quanto
necessario al raggiungimento dello stesso.
Fra tali motivi imperativi riconosciuti dalla Corte
figurano, tra gli altri, la protezione
dell’ambiente, la razionale gestione del territorio
nonché la tutela dei consumatori. Per contro,
finalità di natura puramente economica non possono
costituire un motivo imperativo di interesse
generale.
73
- Secondo una giurisprudenza costante, le
restrizioni alla libertà di stabilimento che siano
applicabili senza discriminazioni basate sulla
cittadinanza possono essere giustificate da motivi
imperativi di interesse generale, a condizione che
siano atte a garantire la realizzazione
dell’obiettivo perseguito e non vadano oltre quanto
necessario al raggiungimento dello stesso (v.
sentenze 10.03.2009, causa C‑169/07, Hartlauer,
Racc. pag. I‑1721, punto 44; 19.05.2009, cause
riunite C‑171/07 e C‑172/07, Apothekerkammer des
Saarlandes e a., Racc. pag. I‑4171, punto 25, nonché
Blanco Pérez e Chao Gómez, cit., punto 61).
74
- Fra tali motivi imperativi riconosciuti dalla
Corte figurano, tra gli altri, la protezione
dell’ambiente (v., in particolare, sentenza
11.03.2010, causa C‑384/08, Attanasio Group, non
ancora pubblicata nella Raccolta, punto 50 e
giurisprudenza ivi citata), la razionale gestione
del territorio (v., per analogia, sentenza
01.10.2009, causa C‑567/07, Woningstichting Sint
Servatius, Racc. pag. I‑9021, punto 29 e
giurisprudenza ivi citata) nonché la tutela dei
consumatori (v., in particolare, sentenza
13.09.2007, causa C‑260/04, Commissione/Italia,
Racc. pag. I‑7083, punto 27 e giurisprudenza ivi
citata).
Per contro, finalità di natura puramente economica
non possono costituire un motivo imperativo di
interesse generale (v., in tal senso, in
particolare, sentenza 15.04.2010, causa C‑96/08,
CIBA, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 48
e giurisprudenza ivi citata).
...
Per questi motivi, la Corte
(Seconda Sezione) dichiara e
statuisce:
1) Il Regno di Spagna è venuto meno
agli obblighi ad esso incombenti ai sensi dell’art.
43 CE avendo adottato e/o mantenendo in vigore le
seguenti disposizioni:
– l’art. 4, n. 1, della legge 27.12.2005, n.
18/2005, relativa alle strutture commerciali (Ley
18/2005 de equipamientos comerciales),
nella parte in cui vieta l’insediamento di
grandi esercizi commerciali al di fuori
dell’agglomerato urbano di un numero limitato di
comuni;
– gli artt. 7 e 10, n. 2, dell’allegato al decreto
10.10.2006, n. 379/2006, recante approvazione del
piano territoriale settoriale delle strutture
commerciali (Decreto 379/2006 por el que se aprueba
el Plan territorial sectorial de equipamientos
comerciales), nonché l’allegato 1 del medesimo
allegato, nella parte in cui dette
disposizioni limitano l’insediamento di nuovi
ipermercati ad un numero ristretto di province e
impongono che tali nuovi ipermercati non assorbano
oltre il 9% della spesa per beni di largo consumo o
oltre il 7% della spesa per beni non di uso corrente;
– l’art. 6, n. 2, primo comma, della legge
15.01.1996, n. 7/1996, recante disciplina della
vendita al dettaglio (Ley 7/1996, de ordenación del
comercio minorista), l’art. 8 della legge n.
18/2005, relativa alle strutture commerciali, e gli
artt. 31, n. 4, e 33, n. 2, del decreto 10.10.2006,
n. 378/2006, recante attuazione della legge n.
18/2005 (Decreto 378/2006 por el que se desarolla la
Ley 18/2005), nella parte in cui
tali disposizioni richiedono l’applicazione di
soglie massime attinenti al livello d’insediamento e
all’incidenza sugli esercizi commerciali al
dettaglio preesistenti, al di là delle quali è
impossibile aprire nuovi grandi esercizi commerciali
e/o nuovi esercizi commerciali di medie dimensioni,
e
– l’art. 26 del decreto 10.10.2006, n. 378/2006,
recante attuazione della legge n. 18/2005, nella
parte in cui disciplina la composizione della
Comisión de Equipamientos Comerciales (Comitato per
le strutture commerciali) in modo tale che risulta
garantita la rappresentanza degli interessi del
commercio al dettaglio preesistente mentre non è
prevista la rappresentanza di associazioni attive
nel settore della protezione dell’ambiente e dei
gruppi d’interesse per la tutela dei consumatori
(Corte di Giustizia UE, Sez. II,
sentenza 24.03.2011 n. C-408/08 - link a
http://curia.europa.eu).
---------------
La sopra
riportata sentenza, ancorché di un anno fa, "capita
a fagiuolo" (come si sul dire) per quanto
dispone la recentissima
L.R. 18.04.2012 n. 7 (Misure per la crescita, lo
sviluppo e l’occupazione) e, nella fattispecie,
l'art. 18 che di seguito riportiamo per comodità di
lettura:
"Art. 18. (Modifica all'articolo 51 della l.r.
12/2005)
1. Il comma 1-bis dell'articolo 51 della l.r.
12/2005, è sostituito con il seguente:
«1-bis. Relativamente agli ambiti di cui
all'articolo 10, comma 2, i comuni definiscono i
criteri per l'individuazione delle destinazioni
d'uso escluse, al fine di evitare possibili danni
alla salute, al patrimonio artistico e culturale,
alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana,
all'ambiente ed al paesaggio, ivi incluse la tutela
del decoro, del contesto sociale e architettonico,
nonché alla salvaguardia e promozione dell'identità
e della cultura locale.»".
Quando fu presentato il 13.02.2012 al Consiglio
Regionale il
PROGETTO DI LEGGE N. 0146
di iniziativa del Presidente della Giunta regionale
il testo non ricomprendeva l'art. 18 nell'attuale
formulazione pubblicata sul BURL e tale disposizione
è stata introdotta nel testo approvato dalla
Commissione Consiliare nella seduta del 28.03.2012
la cui relazione di accompagnamento così spiega la
ratio dell'art. 18 in questione:
"Art. 18
(Modifica dell’articolo 51 della l.r. 12/2005)
L’articolo, introdotto in fase istruttoria dalla
Commissione referente, sostituisce il comma 1-bis
dell’articolo 51 della l.r. 12/2005, prevedendo che
i comuni definiscano i criteri per l’individuazione
delle destinazioni d’uso escluse, al fine di evitare
possibili danni alla salute, al patrimonio artistico
e culturale, alla sicurezza, alla libertà, alla
dignità umana, all’ambiente ed al paesaggio, ivi
incluse la tutela del decoro, del contesto sociale e
architettonico, nonché alla salvaguardia e
promozione dell’identità e della cultura locale."
Ebbene,
qualcuno ci vuole spiegare l'effettivo significato
di tale disposizione normativa??
Una relazione di accompagnamento che riporti, a mo'
di spiegazione dell'intento del legislatore, le
medesime parole dell'articolato
che razza di spiegazione è ??
Con tutta franchezza, non ci sembra il massimo della
chiarezza .... Invero, un'idea ce la siamo fatta
anche perché un illustre personaggio politico
(vivente) tempo fa disse che "A pensar male degli
altri si fa peccato ma spesso ci si indovina".
Ora, vuoi
vedere che presto o tardi la Regione Lombardia avrà
l'ennesima "bastonata" istituzionale per una
norma che contrasta (nel caso di specie) col diritto
comunitario ??
Non ci resta altro da fare che essere spettatori
dell'inesorabile trascorrere del tempo ...
30.05.2012 - LA SEGRETERIA PTPL |
DOTTRINA E CONTRIBUTI |
URBANISTICA:
M. Mazzoleni,
Ancora sulla VAS, «alla prova» davanti ai
giudici italiani (nota a C.d.S. n. 133/2011)
(link a www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G. Amendola,
IL TRASPORTO DI RIFIUTI PERICOLOSI SENZA FORMULARIO
E’ REATO (link a www.lexambiente.it). |
QUESITI & PARERI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Il contributo degli pneumatici fuori uso è parte del
corrispettivo di vendita? È assoggettato ad IVA?
(28.05.2012
- link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
In tema di bonifica vale la regola del “più
probabile che non”?
(28.05.2012
- link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Come può essere l’organizzazione territoriale del
servizio di gestione integrata dei rifiuti?
(28.05.2012
- link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Al momento che si conferiscono rifiuti per il
trattamento può essere riconosciuto per il riciclo
un prezzo inferiore che per il recupero energetico?
(28.05.2012
- link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Come vanno smaltiti i pannelli fotovoltaici usati?
(28.05.2012
- link a www.ambientelegale.it). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI
LOCALI: Assunzioni
bloccate nei mini-enti. Gli effetti della delibera
della Corte dei conti che impone il rispetto del
turn-over. L'interpretazione supera la regola che
imponeva solo di non aumentare la spesa ai Comuni
sotto i 5mila abitanti.
CONFINE INCERTO/ Prevista una deroga all'obbligo di
dimezzare i contratti flessibili nelle
amministrazioni con «strutture ridotte».
Un nuovo duro colpo per i Comuni medio-piccoli, e
soprattutto per quelli non soggetti al Patto di
stabilità, è arrivato dalla
delibera 17.04.2012 n. 11
della Corte dei Conti, che in queste settimane ha
acceso un vivace dibattito interpretativo. Con la
pronuncia, gli enti piccoli vedono limitarsi le
assunzioni a tempo indeterminato nel limite
turn-over. Forti, di conseguenza, le proteste
dell'Anci. In compenso, le stesse amministrazioni
possono derogare dal vincolo del 50% della spesa
2009 per quanto riguarda il lavoro flessibile, ma
solo in presenza di apposita regolamentazione. Si
possono così riassumere le ultime puntate della
telenovela che ha per oggetto le assunzioni di
personale. Ma andiamo con ordine.
Il quadro sembrava assodato sul fronte della
provvista di personale a tempo indeterminato da
parte degli enti non soggetti al Patto: in caso di
rapporto tra spesa di personale e spesa corrente
inferiore al 50%, il riferimento restava l'articolo
1, comma 562, della legge 296/2006, che prevede il
contenimento della spesa di personale rispetto
all'ammontare del 2004 (oggi sostituito con il 2008)
e la sostituzione integrale delle cessazioni
avvenute nell'anno precedente.
Anche dopo le modifiche introdotte con la manovra
estiva 2010 all'articolo 76, comma 7, del Dl
112/2008, la Corte dei conti, Sezioni riunite, con
le deliberazioni 3 e 4 del 2011, ha ritenuto ancora
applicabile il comma 562, e gli enti hanno operato
di conseguenza. Poi le stesse Sezioni Riunite, nella
delibera 11/2012, scrivono che l'articolo 14, comma
9 del Dl 78/2010 «ha introdotto per tutti gli
enti, sia quelli sottoposti al Patto sia quelli
esclusi, una restrizione alle assunzioni di
personale che possono essere effettuate nel limite
del 20 (oggi 40) per cento della spesa
corrispondente alle cessazioni dell'anno precedente».
Sono evidenti le ricadute di questa nuova posizione
sulle amministrazioni non soggette al Patto: in
pratica vuol dire divieto di assunzione. E in più,
che ne sarà delle assunzioni effettuate nel 2011 o
nel 2012 per sostituire completamente le cessazioni
dell'anno precedente? Almeno non potrà ravvisarsi il
dolo o la colpa grave del soggetto che le ha
disposte.
Ma qualcosa di buono c'è. La stessa Corte, sempre
nella delibera 11, evidenzia come la disposizione
che impone il limite del 50% della spesa del 2009
per il lavoro flessibile (articolo 9, comma 28, del
Dl 78/2010, come modificato dall'articolo 4, comma
102, della legge 183/2011) assuma, per gli enti
locali, carattere di norma di principio volta, da un
lato, a limitare il ricorso ad incarichi a termine a
favore dei contratti a tempo indeterminato e,
dall'altro, ad evitare che il lavoro flessibile
consenta di aggirare i limiti del tempo
indeterminato.
Per l'applicazione concreta, i magistrati contabili
distinguono gli enti più grandi dalle
amministrazioni che hanno una struttura
organizzativa minima. I primi hanno a disposizione
un ampio ventaglio di possibilità per soddisfare le
temporanee esigenze di personale e, quindi, non
necessitano di adattamenti del principio contenuto
nella norma.
Le seconde, invece, nella loro autonomia
ordinamentale, devono adottare un regolamento per
adeguare la disciplina alla propria realtà. Nel
regolamento, possono prevedere la deroga al limite
del 50%, se richiesta per garantire le funzioni
fondamentali e non è possibile trovare la soluzione
al problema attraverso una riorganizzazione del
lavoro.
In ogni caso, però, si deve rispettare la
progressiva riduzione della spesa per lavoro
flessibile. La domanda, a questo punto, sorge
spontanea: dove è il confine che distingue gli enti
di dimensioni non ridotte da quelli che hanno una
struttura organizzativa minima?
---------------
Che cosa cambia
01 | PRIMA DELLA DELIBERA
Gli enti non soggetti al Patto di stabilità (cioè,
fino al 2013, i Comuni fino a 5mila abitanti) erano
soggetti al vincolo che impediva di superare la
spesa di personale registrata nel 2004 (oggi
aggiornata al 2008) e di sforare il tetto del 40%
(oggi 50%) nel rapporto fra spesa di personale e
uscite correnti
02 | DOPO LA DELIBERA
Secondo le sezioni riunite della Corte dei conti
anche gli enti non soggetti al Patto sono tenuti a
rispettare i vincoli del turn-over, che
limitano le assunzioni al 20% (ora alzato al 40%)
delle cessazioni dell'anno precedente (articolo
Il Sole 24 Ore del 28.05.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
NEWS |
ENTI
LOCALI: PAGAMENTI
P.A. - Procedura semplificata: il riconoscimento dei
crediti verso la p.a. avviene tramite moduli. La
certificazione è standardizzata.
Certificazione semplificata per
i crediti relativi a somministrazioni, forniture e
appalti vantati dalle imprese nei confronti di
amministrazioni statali, regioni, enti locali ed
enti del Servizio sanitario nazionale da utilizzare
per compensare debiti contributivi, assistenziali,
previdenziali e assicurativi iscritti a ruolo alla
data del 30.04.2012, o per ottenere un'anticipazione
bancaria (eventualmente anche assistita dalla
garanzia del Fondo centrale di garanzia), o per
cedere il proprio credito.
Sono le novità del pacchetto di misure annunciato
dal governo il 22 maggio scorso, che si compone di
quattro decreti ministeriali e un accordo
Abi-Imprese. Si tratta di un primo tassello di un
progetto riformatore del governo.
Le prossime fasi, stando alle dichiarazioni dei
giorni scorsi, riguarderanno l'obiettivo di trovare
spazio nel bilancio per pagare i debiti pregressi
(fase 2) e la necessità di dare completa attuazione
alla direttiva sui ritardi dei pagamenti nelle
transazioni commerciali (fase 3).
La certificazione.
La novità della standardizzazione del procedimento
consiste in questo: la certificazione si ottiene
mandando un semplice modulo standard all'ente
debitore. Con tale istanza, il creditore fornisce
fatture ed estremi della prestazione, precisando se
intende utilizzare il credito in compensazione con
somme iscritte a ruolo e si impegna a non attivare
procedimenti in sede giurisdizionale fino alla data
indicata per il pagamento (o 12 mesi se la data non
è indicata).
L'ente ha 60 giorni di tempo per rispondere,
riconoscendo il debito oppure argomentandone
l'inesigibilità totale o parziale. Per rispondere
utilizza anche in questo caso un modulo standard. Se
la p.a. non risponde in tempo, viene nominato un
commissario ad acta che nei successivi 60
giorni risponderà al debitore, utilizzando un altro
modulo standard. La semplificazione che si ottiene
tramite l'utilizzo delle modalità elettroniche è di
rilevante importanza per i soggetti interessati, in
quanto si evitano così gli obblighi di redazione di
atto pubblico e di notificazione nel caso di
cessione.
La compensazione.
Con la certificazione l'amministrazione debitrice
accetta preventivamente la possibilità che il
credito venga ceduto a banche o intermediari
finanziari abilitati. In alternativa alla cessione,
una volta seguito il procedimento della
certificazione, il fornitore potrà scegliere di
optare per l'istituto della compensazione
avvalendosi di un processo semplice e rapido (con
comunicazioni in Pec e termini molto stretti).
La compensazione può essere operata solo in caso di
imposte iscritte a ruolo entro il 30/04/2012 sia
erariali sia locali, anche per crediti verso gli
enti del Servizio sanitario nazionale, nonché per
contributi sociali e premi assicurativi Inail.
L'estensione ad altre entrate riscosse mediante
ruolo potrà essere estesa con successivo decreto del
Mef.
Il procedimento è il seguente:
1. Il creditore presenta la certificazione del
credito all'agente di riscossione e indica le
posizioni debitorie che intende estinguere;
2. L'agente (entro 3 gg. con Pec) invia richiesta
all'ente debitore per verificare la veridicità della
certificazione;
3. L'ente debitore risponde entro dieci gg.;
4. In caso di esito positivo, il debito si compensa
con il credito e l'agente comunica all'ente entro
cinque gg. con Pec l'avvenuta compensazione. L'ente
debitore è tenuto al pagamento dell'importo
compensato entro 12 mesi dalla certificazione. In
caso di mancato pagamento spontaneo da parte
dell'ente debitore dell'importo certificato
utilizzato in compensazione, questo viene recuperato
mediante riduzione delle somme dovute dallo stato
all'ente territoriale a qualsiasi titolo (eccezione
per le risorse destinate al finanziamento corrente
del Ssn).
---------------
Cessione con procedura
semplificata.
Il pacchetto di decreti presentato dal governo in
tema di certificazione dei crediti commerciali
promette di semplificare e favorire l'accelerazione
dei pagamenti dei fornitori di beni e servizi della
pubblica amministrazione. Ciò potrà avvenire in modi
e forme diversi, a scelta del creditore, che potrà
optare per la compensazione dei propri crediti con
debiti iscritti a ruolo, per l'assegnazione di
titoli di stato in luogo dell'adempimento del
proprio credito da parte della p.a. ovvero per
l'anticipazione o la cessione dei crediti a banche o
intermediari finanziari.
Ciascuna di queste opzioni presuppone che il credito
sia stato certificato attraverso la procedura
prevista nei decreti. I crediti oggetto della
certificazione sono crediti connessi a transazioni
commerciali vantati per l'acquisizione di servizi,
forniture, che siano certi, liquidi ed esigibili. La
certificazione sarà, tra l'altro, funzionale alla
cessione del credito a istituti bancari o finanziari
e prevederà modalità semplificate di stipula e
notifica della cessione, per cui verrebbe meno il
requisito della forma dell'atto pubblico o scrittura
autenticata per la cessione, e quello della notifica
sarebbe assolto attraverso la piattaforma
telematica.
Con la certificazione, inoltre, la cessione del
credito sarebbe preventivamente accettata
dall'amministrazione. Occorrerà attendere la
formalizzazione degli accordi tra l'Abi e le
associazioni imprenditoriali per comprendere meglio
le modalità di attuazione per lo smobilizzo dei
crediti delle imprese. Al momento della
certificazione di crediti superiori a 10 mila euro
verrà effettuata anche la verifica di eventuali
inadempienze all'obbligo di versamento derivanti da
cartelle di pagamento ai sensi dell'art. 48-bis del
dpr 602/1973.
Non è chiaro, allo stato, se una volta che il
credito sia stato ceduto, e la cessione accettata
nelle forme semplificate, tale verifica non verrà
poi più ripetuta dall'amministrazione sul
cedente/fornitore, ma soltanto sul cessionario del
credito, al momento del pagamento. Con l'istanza di
certificazione, si richiederà al creditore di
impegnarsi a non attivare procedimenti in sede
giurisdizionale per un certo periodo di tempo, fino
a un massimo di 12 mesi. La certificazione tuttavia,
non dovrebbe pregiudicare i diritti dei creditori a
percepire gli interessi dovuti in relazione ai
crediti certificati.
---------------
Compensazione, i sette step.
La compensazione tra crediti commerciali verso
stato, regioni ed enti locali e debiti iscritti a
ruolo non è di per sé una novità.
Chi ha rapporti commerciali con gli enti pubblici
ben conosce l'operatività dell'art. 48-bis del dpr
602/1973 che prevede già oggi l'obbligo per ogni
debitore pubblico di verificare, prima di procedere
al pagamento di importi eccedenti 10 mila euro, che
non vi siano iscrizioni a ruolo a carico del
beneficiario, ciò al fine di consentire a Equitalia
la compensazione del credito con il debito d'imposta
iscritto a ruolo.
Con i decreti ministeriali alla firma di Monti si
introduce tuttavia un'importante novità: si consente
cioè anche all'imprenditore/creditore dello stato di
prendere l'iniziativa e di anticipare il pagamento
del proprio credito commerciale attraverso la
compensazione con un debito iscritto a ruolo
relativamente a imposte o contributi previdenziali e
assistenziali. Prima di attivare la compensazione è
necessario avere ben presente sia lo stato dei
debiti iscritti a ruolo che alcuni elementi della
procedura, che possiamo così riassumere:
1) sarà opportuno chiedere all'ufficio di Equitalia
una visura aggiornata delle iscrizioni a ruolo;
2) individuare l'ammontare delle iscrizioni a ruolo
relative ai tributi erariali, locali e ai contributi
previdenziali e assistenziali comprensive di
sanzioni e interessi. Non tutti gli importi iscritti
a ruolo sembrano oggetto di compensazione;
3) verificare con il proprio consulente fiscale lo
stato di eventuali contenziosi fiscali, l'eventuale
iscrizione di ipoteca su immobili o fermo
amministrativo su mezzi di trasporto a garanzia di
specifiche cartelle esattoriali o l'inizio di
procedure esecutive, ciò al fine di compensare per
primi i debiti iscritti a ruolo potenzialmente più
onerosi;
4) acquisire dal creditore pubblico la
certificazione del credito che potrebbe non
costituire riconoscimento di debito, ma
esclusivamente un'attestazione dell'esistenza del
credito ai soli fini di consentire la compensazione;
5) recarsi con la certificazione del credito presso
Equitalia con la lista dei debiti iscritti a ruolo
che si vuole compensare con il credito commerciale;
6) ottenere (in 2/3 settimane) la comunicazione di
Equitalia di avvenuta compensazione del credito a
seguito dei controlli con l'ente pubblico debitore;
7) ritirare l'attestazione di avvenuta compensazione
(articolo
ItaliaOggi Sette del 28.05.2012). |
ENTI LOCALI - VARI: Il
notaio non si può considerare organo della p.a..
Lo
studio 16.02.2012 n. 21-2012/C
del Consiglio nazionale del notariato dedicato alle
novità introdotte dalla legge numero 183 del 2011 ha
limitato l'applicazione delle legge 183
nell'attività dei notai.
Nel dettaglio lo studio del Cnn arriva alla
conclusione che non è possibile estendere
l'autocertificazione anche nei rapporti che si
svolgono tra il privato e il notaio. Non si può,
infatti, considerare il notaio come un organo della
pubblica amministrazione. La conseguenza di questa
impostazione è che non devono essere sostituiti
dalle dichiarazioni sostitutive sia i certificati da
prodursi al notaio e sia i certificati allegati agli
atti notarili, come ad esempio l'estratto dell'atto
di morte di cui all'articolo 620, comma 3, codice
civile, necessario per la pubblicazione di un
testamento olografo. Il notaio, anzi, per ragioni di
opportunità, deve controllare che i certificati che
gli sono presentati, contengano la dicitura sulla
inutilizzabilità dello stesso presso organi della
pubblica amministrazione. Si potrebbe sostenere che
la mancanza della dicitura sia un vizio solo
formale, ma questa interpretazione non è pacifica, e
quindi è meglio essere prudenti.
Inoltre l'articolo 40 citato non riguarda tutti i
certificati rilasciati dalla Pubblica
amministrazione, ma solo quelli che si riferiscono a
stati, qualità personali e fatti: è escluso, quindi,
il certificato di destinazione urbanistica di cui
all'articolo 30 del Testo unico per l'edilizia, dpr
n. 380/2001. Altro aspetto è se la normativa sia
applicabile alle certificazioni che i notai debbono
utilizzare nei rapporti con organi della pubblica
amministrazione. La risposta dello studio è
affermativa. In seguito alle novità, pertanto, non
si possono più presentare i certificati: alla
dichiarazione di successione sicuramente potrà
essere allegata la dichiarazione sostitutiva di
certificazione (come peraltro già previsto
dall'articolo 30, comma 3, del dlgs 346/1990).
Tuttavia va ricordato che l'articolo 6, comma 5, del
dl 16/2012, in tema di attività e certificazioni in
materia catastale, ha stabilito una deroga
all'articolo 40: le disposizioni sulla
decertificazione non si applicano ai certificati e
alle attestazioni da produrre al conservatore dei
registri immobiliari per l'esecuzione di formalità
ipotecarie, nonché ai certificati ipotecari e
catastali rilasciati dall'Agenzia del territorio.
In conclusione i certificati continuano a essere
utilizzabili nei confronti dei notai, del resto così
come nei confronti dei tribunali (articolo
ItaliaOggi Sette del 28.05.2012). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Lavoratori
invalidi con più tutele. Un mese di congedo se la
disabilità è superiore al 50%. La novità introdotta
dal dlgs 119/2011. Ecco tutte le mosse per avvalersi
delle prerogative.
Un mese di congedo ai lavoratori
invalidi. Se superiore al 50%, infatti, l'invalidità
dà diritto a un congedo di 30 giorni all'anno per
cure mediche connesse con lo stato d'invalidità, da
fruire anche in maniera frazionata.
La novità, introdotta dalla riforma dei congedi
dello scorso anno (articolo 7 del dlgs n. 119/2011)
è una delle prerogative offerte ai lavoratori in
caso di disabilità.
Ecco quelle principali e i passi da fare per
avvalersene, sulla base delle indicazioni del
ministero del lavoro.
Il congedo per cura.
Il lavoratore a cui venga riconosciuta un'invalidità
civile superiore al 50% hai diritto a un periodo di
congedo retribuito per cure mediche connesse con lo
stato d'invalidità della durata massima di 30 giorni
all'anno, da fruire anche in maniera frazionata. Il
datore di lavoro riconosce il congedo dietro domanda
del lavoratore interessato, accompagnata dalla
richiesta del medico convenzionato con il servizio
sanitario nazionale o appartenente a una struttura
sanitaria pubblica, dalla quale risulti la necessità
della cura in relazione all'infermità invalidante
riconosciuta.
Il congedo è retribuito e il relativo onere,
calcolato secondo il regime delle assenze per
malattia, è a carico del datore di lavoro. Qualora
si tratti di trattamenti terapeutici continuativi,
il lavoratore può produrre un'unica domanda e
giustificazione dell'assenza, valevole come
attestazione cumulativa.
I permessi.
Il lavoratore che abbia ottenuto il riconoscimento
dello «stato di handicap in situazione di gravità»,
ha diritto a usufruire, a sua scelta, di un permesso
retribuito di due ore al giorno oppure di tre giorni
mensili (articolo 33, comma 6, legge n. 104/1992). A
tal fine è tenuto a presentare un'apposita domanda
all'Inps che rilascerà una copia timbrata e firmata
da consegnare al tuo datore di lavoro.
La disciplina nei contratti
collettivi.
Ogni contratto collettivo nazionale di lavoro (Ccnl)
fissa la durata massima del periodo di malattia. È
questo il «periodo di comporto» durante il
quale il lavoratore ha diritto alla conservazione
del posto di lavoro. Nelle ipotesi di specifiche
malattia invalidanti (come, per esempio, per le
patologie oncologiche), oltre al prolungamento del
periodo di comporto alcuni contratti prevedono
ulteriori agevolazioni come ad esempio, sul
passaggio al lavoro part-time o sui periodi di
aspettativa non retribuita.
Altri contratti collettivi escludono dal calcolo del
periodo di comporto i giorni di ricovero ospedaliero
o di day-hospital e i giorni di assenza dovuti alle
conseguenze delle terapie antitumorali, purché
debitamente certificati.
La conversione a part-time.
In caso di patologia oncologica, il lavoratore ha
diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro a
tempo pieno in lavoro a tempo parziale verticale o
orizzontale, qualora residui una ridotta capacità
lavorativa, anche a causa degli effetti invalidanti
delle terapie salvavita.
Successivamente, inoltre, il lavoratore ha diritto a
trasformare nuovamente il rapporto di lavoro a tempo
parziale in rapporto di lavoro a tempo pieno.
Infine, il lavoratore ha diritto, ove possibile, a
scegliere la sede di lavoro più vicina al proprio
domicilio; inoltre, in caso di necessità del suo
trasferimento in un'altra sede, ciò può avvenire
solamente previo il suo consenso.
---------------
Malattie professionali, come
dimostrarle.
La patologia oncologica può rappresentare anche una
«malattia professionale», cioè connessa al
proprio lavoro e come tale assicurata presso
l'Inail. A tal fine, esistono tabelle dell'Inail,
approvate con decreto ministeriale, che contengono
l'elenco di malattia professionali contratte
nell'esercizio e/o a causa di alcune specifiche
lavorazioni. Se la malattia professionale e il
proprio lavoro rientrano in queste tabelle, si può
attivare con il proprio medico anche la procedura
per richiedere il riconoscimento di prestazioni
economiche a carico dell'Inail. Se, invece, la
patologia non rientra tra quelle contemplate nelle
tabelle, ma si è comunque convinti che possa esserci
un nesso, allora si rende necessario dimostrare
l'origine lavorativa mediante idonea documentazione
sanitaria.
In ogni caso, bisogna comunicare al proprio datore
di lavoro il sospeso carattere professionale della
malattia mediante produzione di un certificato
medico, entro 15 giorni dall'avvenuta conoscenza o
prima manifestazione della patologia; se il termine
non viene rispettato, si decade dal diritto
all'indennizzo per il periodo precedente la denuncia
(trascorsi 15 giorni, in altre parole, l'eventuale
indennizzo a carico Inail decorrerà dalla data di
presentazione della denuncia). Il datore di lavoro
di conseguenza è tenuto a denunciare all'Inail la
malattia professionale del proprio dipendente entro
cinque giorni dalla data di ricevimento del
certificato medico.
Le ultime «tabelle delle malattia professionali
nell'industria e nell'agricoltura» sono state
approvate con dm 09.04.2008, pubblicato in gazzetta
ufficiale n. 169 del 21.07.2008, e sono entrate in
vigore il giorno seguente. Le tabelle sono state
oggetto di revisione delle precedenti, il cui ultimo
aggiornamento risaliva al 1994.
Le nuove tabelle prevedono 85 voci per l'industria
(prima erano 58) e 24 per l'agricoltura (in
precedenza 27) essendo stati esclusi alcuni agenti
chimici per i quali vige ormai da tempo espresso
divieto di utilizzo.
Conservano la stessa struttura delle precedenti con
suddivisione in tre colonne (malattie, lavorazioni e
periodo massimo di indennizzabilità) e, in ordine,
sono elencate le malattie da agenti chimici, quelle
dell'apparato respiratorio, della pelle non
descritte in altre voci e quelle da agenti fisici.
Per ciascuna voce di tabella è stata inserita
l'indicazione nosologica delle malattie correlate ai
diversi agenti, con la relativa codifica Icd10. Tra
le diverse patologie hanno trovato collocazione
numerose forme neoplastiche con l'indicazione
dell'organo bersaglio.
---------------
Permessi di tre giorni per i
familiari.
I familiari di disabili hanno diritto a un permesso
retribuito di tre giorni mensili a condizione che la
persona da assistere non sia ricoverata a tempo
pieno. Inoltre hanno diritto: a un permesso
retribuito di tre giorni lavorativi all'anno
(articolo 4, comma 1, della legge n. 53/2000); alla
priorità della trasformazione del contratto di
lavoro a tempo pieno in lavoro a tempo parziale in
caso di patologie oncologiche riguardanti il
coniuge, i figli o i genitori della/del
lavoratrice/tore, nonché nel caso in cui la
lavoratrice o il lavoratore assista una persona
convivente con totale e permanente inabilità
lavorativa, che assuma connotazione di gravità; a un
periodo di congedo straordinario retribuito,
continuativo o frazionato, fino a un massimo di due
anni, a condizione che la persona da assistere non
sia ricoverata a tempo pieno, salvo che, in tal
caso, sia richiesta dai sanitari la presenza di
colui che presta assistenza.
Quest'ultimo congedo può essere usufruito dai
familiari secondo il seguente ordine di preferenza:
coniuge convivente del malato (non ricoverato)
portatore di handicap in situazione di gravità;
genitori (naturali, adottivi e affidatari) anche non
conviventi, in caso di mancanza o decesso del
coniuge o in presenza di altre cause impeditive;
figlio convivente, sempre che gli altri familiari
siano impossibilitati a fruire del congedo per
fornire assistenza; fratello o sorella conviventi
con il portatore di handicap grave, in caso di
decesso o di impossibilità delle altre categorie di
familiari sopra indicate (articolo
ItaliaOggi Sette del 28.05.2012). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Semplificazione.
Senza regolamento. Il Dg o il segretario tagliano i
tempi.
L'OBBLIGO/ I vertici apicali sono le figure chiamate
a commissariare gli uffici che ritardano nella
risposta alle istanze dei cittadini.
Il direttore generale e, negli
enti locali che ne sono sprovvisti, il segretario,
da aprile (e fino a quando l'amministrazione non si
sarà data una norma regolamentare) sostituiscono gli
uffici in caso di mancata risposta entro i termini
alle istanze presentate dai cittadini.
È il principale e immediato effetto dell'entrata in
vigore della legge 35/2012, di conversione del Dl
5/2012 sulla semplificazione. Con questa norma il
legislatore offre ai privati uno strumento
aggiuntivo di tutela nei casi di silenzio-rigetto
delle amministrazioni che si aggiunge alla
possibilità di ricorso al Tar.
La nuova regola chiede alle amministrazioni di
individuare il dirigente, o i dirigenti, che si
sostituiscono a quelli competenti nel caso di
mancata risposta. Fino a quel momento la norma si
applica comunque e prevede l'automatica
individuazione del dirigente-sostituto nel dirigente
generale o, in mancanza, nel dirigente competente o,
in mancanza, nel funzionario più elevato. Negli enti
locali, in cui la dirigenza non è articolata su due
ruoli, i compiti di coordinamento affidati a
direttori generali e segretari possono essere
considerati per molti versi analoghi a quelli
affidati nelle amministrazioni statali al dirigente
generale. Questa opportunità si applica a tutti i
procedimenti avviati a istanza di parte, salvo
quelli tributari o relativi ai giochi. Occorre
chiarire se questa esclusione si può estendere anche
ai procedimenti che riguardano entrate extra
tributarie, quali ad esempio i canoni e le tariffe.
Per attivare il nuovo istituto occorre una richiesta
proveniente dal privato interessato. Il
dirigente-sostituto deve garantire la risposta entro
un termine massimo pari alla metà della scadenza
ordinaria: manca una specifica sanzione in caso di
suo inadempimento. Egli può provvedere direttamente,
avvalersi degli uffici o nominare un commissario
ad acta.
La norma determina un trasferimento di competenza e
individua una sorta di organo straordinario. La
possibilità di nomina di un commissario ad acta
è una previsione inedita. Solleva qualche
perplessità, quanto meno in termini di opportunità e
di costi aggiuntivi, la possibilità di individuare
come commissario ad acta un soggetto esterno
all'ente. Il dirigente individuato come sostituto
deve inoltre annualmente informare l'ente dei
procedimenti in cui si è sostituito: ovviamente se
ne deve tener conto nella valutazione dei dirigenti.
La norma prevede due vincoli ulteriori. In tutti i
provvedimenti adottati occorre indicare il termine
previsto dall'ordinamento e quello effettivo, e le
sentenze che condannano le Pa in caso di silenzio
rigetto devono essere trasmesse telematicamente alla
Corte dei Conti: non è individuato il destinatario,
ma si deve ritenere che sia la Procura in quanto la
comunicazione serve a verificare l'esistenza di
possibili profili di responsabilità amministrativa (articolo
Il Sole 24 Ore del 28.05.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI: I
debiti della Pa. Con il decreto la liquidazione dei
debiti dovrebbe superare il rischio che la cessione
sia «elusiva».
Pagamenti ancora legati dal Patto. Il meccanismo
della certificazione non aggira i vincoli di finanza
pubblica.
I decreti sulla certificazione dei crediti delle
imprese non alleggeriscono i vincoli di finanza
pubblica.
Il decreto ministeriale sugli enti locali –che dovrà
passare al vaglio della Conferenza Stato-Regioni
prima di concludere l'iter- stabilisce infatti
(articolo 2) che i pagamenti in conto capitale degli
enti locali conseguenti alle certificazioni
concorrono al perseguimento degli obiettivi del
Patto. I pagamenti degli investimenti continuano
dunque a rappresentare uscite rilevanti (si veda il
Sole 24 Ore di lunedì 21 maggio).
La regolamentazione del procedimento di
certificazione, e il commissariamento in caso di
inerzia degli enti, consentono semmai
un'accelerazione della fase propedeutica alla
cessione del credito alle banche, a cui spetta
tuttavia la sottoscrizione degli atti di cessione.
La certificazione non pregiudica inoltre il diritto
del creditore agli interessi sulle somme dovute.
Il ritardo nel pagamento di somme certificate
comporta dunque il potenziale sostenimento di oneri
aggiuntivi per la finanza pubblica, con evidenti
ripercussioni anche in tema di responsabilità
amministrativa ed erariale.
Secondo l'articolo 3, comma 3, del Dm, la
certificazione non può essere rilasciata in caso di
procedimenti giurisdizionali pendenti per la
medesima ragione di credito. La norma poco aggiunge
alle disposizioni precedenti, secondo le quali la
certificazione è dovuta solo in caso di certezza,
liquidità ed esigibilità del credito.
La liquidazione infatti (articolo 184 Tuel) è la
fase del procedimento di spesa attraverso la quale,
in base ai documenti e ai titoli atti a comprovare
il diritto, il responsabile del procedimento
determina la somma certa e liquida da pagare nei
limiti dell'impegno definitivo assunto. Poiché il
decreto stabilisce l'obbligo a carico della Pa di
accettare sin dal momento della certificazione la
possibile cessione del credito a banche o
intermediari finanziari, è necessario che si proceda
alla verifica di eventuali debiti fiscali (articolo
48-bis del Dpr 602/1973). Questa indagine non mette
però al sicuro da potenziali situazioni moratorie
che potrebbero sussistere in data successiva, cioè
al momento della formalizzazione dell'atto di
cessione.
Come chiarito dall'Economia anche con circolari
22/2008 e 29/2009, la Pa è infatti tenuta a operare
all'atto della cessione la verifica a carico del
cedente per tutti i pagamenti superiori a 10mila
euro.
Per evitare l'insorgere di casi potenzialmente
idonei a integrare la fattispecie elusiva del Patto,
il modello di certificazione allegato al decreto
prevede la possibilità di rinviare il pagamento a
carico della Pa per un periodo non superiore ai 12
mesi dalla data dell'istanza di certificazione.
La norma, in linea con le decisioni Eurostat sulla
durata dei debiti di funzionamento, contribuisce a
chiarire alcune perplessità sorte da interpretazioni
della giurisprudenza contabile, secondo cui le
operazioni finanziarie per esternalizzare a terzi
(compresi gli istituti finanziari) la procedura di
pagamento, rinviandone l'imputazione a bilancio,
potrebbero configurare ipotesi elusive. Con la
cessione del credito, sostengono infatti alcuni
magistrati, la liquidità di tesoreria non sarebbe
rappresentativa delle reali condizioni dell'ente
locale.
---------------
I punti controversi
1 - Patto di stabilità
I versamenti relativi a impegni in conto capitale
continuano a essere considerati rilevanti ai fini
del Patto, per cui non possono in ogni caso portare
allo sforamento degli obiettivi di saldo dell'ente
2 - Cessioni
La cessione va accettata fin dal momento della
certificazione.
La verifica ex articolo 48-bis effettuata al momento
della cessione non mette quindi al sicuro dalle
situazioni successive
3 - Elusioni
Alcuni magistrati contabili hanno considerato
«elusive» alcune forme di cessione del credito. Il
decreto permette un rinvio di 12 mesi dalla
certificazione al pagamento per evitare problemi
4 - Contenzioso
Non sono certificabili (e quindi cedibili) crediti
oggetti di contenzioso. Questo era già previsto
dalla normativa precedente, perché mancano i
requisiti di certezza ed esigibilità (articolo
Il Sole 24 Ore del 28.05.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
GIURISPRUDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO: Esami
professionali con sindacato del Tar. Se il giudizio
travisa il fatto.
Il Tar può scendere sul terreno
delle valutazioni tecniche delle commissioni
esaminatrici per l'accesso a una professione o in un
concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da
da evidente illogicità e da travisamento del fatto.
Lo precisano le Sezioni unite civili della Corte di
Cassazione con la
sentenza 28.05.2012 n. 8412.
La pronuncia ha così respinto il ricorso presentato
dal ministero della Giustizia contro la decisione
del Tar Calabria, poi confermata dal Consiglio di
Stato, con la quale era stato ammesso all'esame di
abilitazione alla professione di avvocato un
candidato bocciato dalla commissione esaminatrice.
Il ministero aveva sostenuto che i giudici
amministrativi si sarebbero "macchiati" di un
eccesso di potere giurisdizionale: avrebbero cioè
sostituito la propria volontà a quella della
commissione, e in contrasto con la giurisprudenza
della stessa Cassazione, avrebbero contestato
valutazioni magari «opinabili», ma, in ogni
caso, attendibili.
Tuttavia, per la Cassazione, i giudici del Tar sono
stati in grado di smontare correttamente i punti
chiave che avevano condotto alla bocciatura del
candidato. In particolare, avevamo riscontrato sia
l'assenza di errori grammaticali sia l'assenza di
incoerenze di forma in rapporto alla tipologia
dell'atto giudiziario oggetto dell'esame. La Corte
ricorda che la valutazione della commissione è
comunque priva di discrezionalità perché deve
piuttosto accertare il possesso di requisiti di tipo
attitudinale-culturale in chi partecipa alla
selezione. L'esistenza o meno di questi requisiti va
poi tradotta in un punteggio o in un altro tipo di
giudizio finale.
«Il giudizio –sottolinea la Cassazione– circa
l'idoneità del candidato avviene dunque, secondo
regimi selettivi di volta in volta scelti dal
legislatore, che non precludono in alcun modo la
piena tutela davanti al giudice amministrativo».
Una tutela che si concretizza sotto il profilo del
vizio di eccesso di potere e, senza sconfinamenti
nel merito da parte del giudice amministrativo «ma
attraverso la verifica della logicità, della
coerenza, e della ragionevolezza delle basi
argomentative concernenti l'analisi dell'elaborato».
Nel caso approdato in Cassazione, i giudici hanno
accertato l'infondatezza dei presupposti della
valutazione (articolo Il Sole 24 Ore del
29.05.2012). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il potere di ordinanza del
sindaco presuppone necessariamente situazioni non
tipizzate dalla legge di pericolo effettivo, la cui
sussistenza deve essere suffragata da istruttoria
adeguata e congrua motivazione, ed in ragione delle
quali si giustifica la deviazione dal principio di
tipicità degli atti amministrativi e la possibilità
di derogare alla disciplina vigente, stante la
configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale
tipologia provvedimentale.
Il potere d’ordinanza ex art. 54 t.u.e.l. è
legittimamente emanabile anche per rimuovere
situazioni risalenti nel tempo ed in relazione alle
quali non si era intervenuti in precedenza, essendo
a tale riguardo sufficiente la permanenza al momento
dell’emanazione dell’atto della situazione di
pericolo.
Va innanzitutto ricordato che con sentenza in
data 07.04.2011, n. 115, la Corte Costituzionale ha
dichiarato illegittime le modifiche apportate
all’art. 54 cit. dal d.l. n. 92/2008, espungendo
dalla disposizione novellata, per quanto qui di
interesse, la congiunzione “anche” prima
delle parole “contingibili e urgenti”, in tal
modo riconducendo il potere di ordinanza del sindaco
quale ufficiale di governo nei confini entro i quali
lo stesso era stato da sempre inteso e cioè nei
limiti, entro i quali non è altrimenti consentita la
deroga a norme giuridiche, in cui detto potere si
ponga come strumento indispensabile per contrastare
situazioni eccezionali di pericolo non altrimenti
fronteggiabili.
Ne consegue che è integralmente applicabile il
consolidato indirizzo della giurisprudenza
amministrativa, recentemente espresso da questa
Sezione, secondo cui il potere di ordinanza
presuppone necessariamente situazioni non tipizzate
dalla legge di pericolo effettivo, la cui
sussistenza deve essere suffragata da istruttoria
adeguata e congrua motivazione, ed in ragione delle
quali si giustifica la deviazione dal principio di
tipicità degli atti amministrativi e la possibilità
di derogare alla disciplina vigente, stante la
configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale
tipologia provvedimentale (da ultimo: Sez. V,
20.02.2012, n. 904; in termini non dissimili Sez.
VI, 05.09.2005, n. 4525, citata anche
dall’appellante).
Questa Sezione ha anche precisato le caratteristiche
che sostanziano il potere di ordinanza: nelle
decisioni 28.03.2008, n. 1322 e 10.02.2010, n. 670
si è affermato che il potere d’ordinanza ex art. 54
t.u.e.l. è legittimamente emanabile anche per
rimuovere situazioni risalenti nel tempo ed in
relazione alle quali non si era intervenuti in
precedenza, essendo a tale riguardo sufficiente la
permanenza al momento dell’emanazione dell’atto
della situazione di pericolo (nello stesso senso
anche Sez. IV, 25.09.2006, n. 5639).
Va ancora soggiunto che nei citati precedenti le
ordinanze contingibili in contestazione erano volte
a fronteggiare situazioni di pericolo per
l’incolumità fisica, inevitabilmente destinato ad
aggravarsi in difetto di interventi di messa in
sicurezza (rischio di frana nel primo caso;
inquinamento acustico; pericolo di crollo di locali
scolastici nella pronuncia della IV Sezione sopra
menzionata) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 25.05.2012 n. 3077 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’arresto di proprietari o di
dirigenti di una società –o a maggior ragione la
sola pendenza di procedimenti penali- non può
costituire causa di esclusione da una gara, visto
che l’art. 38, lett. c), D.Lgs. 163/2006 stabilisce
che essa deve ricorrere allorché, nel caso di una
s.r.l., sia stata pronunciata sentenza di condanna
passata in giudicato o emesso decreto penale di
condanna divenuto irrevocabile, oppure sentenza di
applicazione della pena su richiesta, ai sensi
dell’art. 444 del codice di procedura penale, per
reati di grave danno dello Stato o della Comunità
che incidono sulla moralità professionale nei
confronti degli amministratori muniti di poteri di
rappresentanza o del direttore tecnico o del socio
unico persona fisica, ovvero del socio di
maggioranza in caso di società con meno di quattro
soci.
Altrettanto stabilisce lo stesso D.Lgs. 163/2006 nel
caso di avvenuta stipulazione di contratti, per i
quali solo l’avvenuto accertamento di una serie di
reati mediante sentenza passata in giudicato
permette la risoluzione del contratto sottostante
l’aggiudicazione.
Residuano solamente la pendenza di procedimenti per
l’applicazione di una delle misure di prevenzione di
cui all’art. 3 L. 27.12.1956 n. 1423, art. 38, lett.
b), D.Lgs. 163/2006.
Si deve infatti concordare con le conclusioni della
sentenza del TAR della Campania n. 600/2011
impugnata, per cui l’arresto di proprietari o di
dirigenti di una società –o a maggior ragione la
sola pendenza di procedimenti penali- non può
costituire causa di esclusione da una gara, visto
che l’art. 38, lett. c), D.Lgs. 163/2006 stabilisce
che essa deve ricorrere allorché, nel caso di una
s.r.l., sia stata pronunciata sentenza di condanna
passata in giudicato o emesso decreto penale di
condanna divenuto irrevocabile, oppure sentenza di
applicazione della pena su richiesta, ai sensi
dell’art. 444 del codice di procedura penale, per
reati di grave danno dello Stato o della Comunità
che incidono sulla moralità professionale nei
confronti degli amministratori muniti di poteri di
rappresentanza o del direttore tecnico o del socio
unico persona fisica, ovvero del socio di
maggioranza in caso di società con meno di quattro
soci.
Altrettanto stabilisce lo stesso D.Lgs. 163/2006 nel
caso di avvenuta stipulazione di contratti, per i
quali solo l’avvenuto accertamento di una serie di
reati mediante sentenza passata in giudicato
permette la risoluzione del contratto sottostante
l’aggiudicazione.
Residuano solamente la pendenza di procedimenti per
l’applicazione di una delle misure di prevenzione di
cui all’art. 3 L. 27.12.1956 n. 1423, art. 38, lett.
b), D.Lgs. 163/2006, caso che non riguarda i fatti
in esame.
Dunque, come osservato nella sentenza di primo grado
e nelle difese di parte, la stretta applicazione
dell’art. 27, co. 2, della Costituzione non consente
di rinvenire nella censura alcun profilo di
fondatezza (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 25.05.2012 n. 3063 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il principio della previa
fissazione dei criteri e delle modalità delle prove
concorsuali che devono essere stabiliti dalla
commissione nella sua prima riunione (o tutt’al più
prima della correzione delle prove scritte), deve
essere inquadrato nell’ottica della trasparenza
dell’attività amministrativa perseguita dal
legislatore, che pone l’accento sulla necessità
della determinazione e verbalizzazione dei criteri
stessi in un momento nel quale non possa sorgere il
sospetto che questi ultimi siano volti a favorire o
sfavorire alcuni concorrenti, con la conseguenza che
è legittima la determinazione dei predetti criteri
di valutazione delle prove concorsuali, anche dopo
la loro effettuazione, purché prima della loro
concreta valutazione.
In altri termini, la predeterminazione dei criteri
di valutazione delle prove scritte costituisce lo
strumento indispensabile per poter apprezzare poi il
giudizio della commissione esaminatrice ed il
corretto esercizio del suo potere
tecnico–discrezionale, sintetizzato dal voto
numerico.
Nel merito si osserva quanto segue.
L’articolo 12 del D.P.R. 09.05.1994, n. 487 (“Regolamento
recante norme sull’accesso agli impieghi nelle
pubbliche amministrazioni e le modalità di
svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle
altre forme di assunzione nei pubblici impieghi”),
al primo comma stabilisce che “Le commissioni
esaminatrici, alla prima riunione, stabiliscono i
criteri e le modalità di valutazione delle prove
concorsuali, da formalizzare nei relativi verbali,
al fine di assegnare i punteggi attribuire alle
singole prove. Esse, immediatamente prima
dell’inizio di ciascuna prova orale, determinano i
quesiti da porre ai singoli candidati per ciascuna
delle materie di esame. Tali quesiti sono proposti a
ciascun candidato previa estrazione a sorte”.
E’ stato rilevato che il principio della previa
fissazione dei criteri e delle modalità delle prove
concorsuali che, secondo la previsione del ricordato
articolo, devono essere stabiliti dalla commissione
nella sua prima riunione (o tutt’al più prima della
correzione delle prove scritte), deve essere
inquadrato nell’ottica della trasparenza
dell’attività amministrativa perseguita dal
legislatore, che pone l’accento sulla necessità
della determinazione e verbalizzazione dei criteri
stessi in un momento nel quale non possa sorgere il
sospetto che questi ultimi siano volti a favorire o
sfavorire alcuni concorrenti, con la conseguenza che
è legittima la determinazione dei predetti criteri
di valutazione delle prove concorsuali, anche dopo
la loro effettuazione, purché prima della loro
concreta valutazione (C.d.S., sez. IV, 22.09.2005,
n. 4989).
In altri termini, la predeterminazione dei criteri
di valutazione delle prove scritte costituisce lo
strumento indispensabile per poter apprezzare poi il
giudizio della commissione esaminatrice ed il
corretto esercizio del suo potere
tecnico–discrezionale, sintetizzato dal voto
numerico (Cons. Stato, V, 04.03.2011 n. 8439).
Nel caso in esame è pacifico che la commissione di
esame non ha provveduto alla predeterminazione dei
criteri di valutazione delle prove scritte,
essendosi limitata, come si ricava dalla lettura del
già menzionato verbale n. 2 del 10.11.2008, a
stabilire l’ammontare dei punteggi delle prove
scritte ed orale, i punteggi per titoli di studio,
di servizio e curriculari in generale ed infine a
fissare il punteggio minimo che i concorrenti
avrebbero dovuto conseguire per essere ammessi alla
prova orale.
Quindi è stata del tutto omessa la reale
predeterminazione dei criteri riguardanti la
necessità dei contenuti richiesti agli elaborati
scritti e le modalità della loro valutazione e si
deve perciò concludere per l’illegittima
disapplicazione da parte del Comune di Burcei del
dettato dell’art. 12, co. 1, del d.P.R. 09.05.1994
n. 487.
Le considerazioni svolte nella sentenza impugnata
circa l’effetto caducante che l’annullamento di
approvazione degli atti del concorso comporta sulla
nomina dell’unica vincitrice Tania Atzeni appaiono
infine corrette, poiché la nomina non può più
ritenersi valida, in quanto dipendente da un unico
presupposto, la procedura concorsuale, la cui
conformità a legge è stata appunto esclusa (Cons.
Stato, V, 09.02.2010 n. 622; id., 17.12.2008 n.
6289; id., 17.09.2008 n. 4400) (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 25.05.2012 n. 3062 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
provvedimento di demolizione, in quanto atto
vincolato -al pari di tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia- non richiede una
specifica motivazione, posto che ai fini
dell’accertamento della sua legittimità sono
indifferenti le ragioni in virtù delle quali
l’amministrazione è giunta alle determinazioni
finali, in quanto ciò che rileva e che può essere
verificato senza preclusioni è se tali
determinazioni, in presenza dei necessari
presupposti, siano conformi o meno alle norme
applicate; né una valutazione delle ragioni di
interesse pubblico né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati.
Né alcuna violazione delle garanzie partecipative
può esser qui predicata, stante la già evidenziata
natura assolutamente vincolata del provvedimento.
Infondati sono, inoltre, gli ulteriori profili di
censura, con i quali si lamenta la violazione
dell’art. 3 L. 241/1990 s.m.i. e la mancata
comparazione dell’interesse privato con quello
pubblico, nonché l’illegittima omissione della
comunicazione di avvio del procedimento di cui
all’art 7 della citata legge n. 241/1990, giacché il
provvedimento di demolizione, in quanto atto
vincolato -al pari di tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia- non richiede una
specifica motivazione, posto che ai fini
dell’accertamento della sua legittimità sono
indifferenti le ragioni in virtù delle quali
l’amministrazione è giunta alle determinazioni
finali, in quanto ciò che rileva e che può essere
verificato senza preclusioni è se tali
determinazioni, in presenza dei necessari
presupposti, siano conformi o meno alle norme
applicate; né una valutazione delle ragioni di
interesse pubblico né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati (ex multis TAR Campania Napoli,
sez. VIII, 29.01.2009, n. 501); né alcuna violazione
delle garanzie partecipative può esser qui
predicata, stante la già evidenziata natura
assolutamente vincolata del provvedimento (cfr.,
ex multis, Tar Campania, questa sesta sezione,
28.04.2011, n. 2382; 15.03.2010, n. 1464 e
09.11.2009, n. 7077; sezione terza, 01.03.2011, n.
1259; sezione settima, 15.12.2010, n. 27377; sezione
ottava 01.04.2010, n. 1762) (TAR Campania-Napoli,
Sez. VI,
sentenza 24.05.2012 n. 2427 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
provvedimento di demolizione non si richiede una
specifica motivazione che dia conto della
valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla
demolizione o della comparazione di quest'ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati, senza
che sussista alcuna violazione dell'art. 3, l. n.
241 del 1990, dato che, ricorrendo i predetti
requisiti, il provvedimento deve intendersi
sufficientemente motivato con l'affermazione
dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re
ipsa l'interesse pubblico concreto ed attuale alla
sua rimozione.
Anche qualora intercorra un lungo periodo di tempo
tra la realizzazione dell'opera abusiva ed il
provvedimento sanzionatorio, tale circostanza non
rileva ai fini della legittimità di quest'ultimo,
sia in rapporto al preteso affidamento circa la
legittimità dell'opera, che il protrarsi del
comportamento inerte del comune avrebbe ingenerato
nel responsabile dell'abuso edilizio, sia in
relazione ad un presunto ulteriore obbligo, per
l'amministrazione procedente, di motivare
specificamente il provvedimento in ordine alla
sussistenza dell'interesse pubblico attuale a far
demolire il manufatto, poiché la lunga durata nel
tempo dell'opera priva del necessario titolo
edilizio ne rafforza il carattere abusivo
(trattandosi di illecito permanente), il che
preserva il potere-dovere dell'amministrazione di
intervenire nell'esercizio dei suoi poteri
sanzionatori, tanto più che il provvedimento
demolitorio non richiede una congrua motivazione in
ordine all'attualità dell'interesse pubblico alla
rimozione dell'abuso, che è in re ipsa.
Nel provvedimento di demolizione non si richiede una
specifica motivazione che dia conto della
valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla
demolizione o della comparazione di quest'ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati, senza
che sussista alcuna violazione dell'art. 3, l. n.
241 del 1990, dato che, ricorrendo i predetti
requisiti, il provvedimento deve intendersi
sufficientemente motivato con l'affermazione
dell'accertata abusività dell'opera, essendo in
re ipsa l'interesse pubblico concreto ed attuale
alla sua rimozione (cfr., ex plurimis,
Consiglio Stato , sez. IV, 31.08.2010 , n. 3955).
Anche qualora intercorra un lungo periodo di tempo
tra la realizzazione dell'opera abusiva ed il
provvedimento sanzionatorio, tale circostanza non
rileva ai fini della legittimità di quest'ultimo,
sia in rapporto al preteso affidamento circa la
legittimità dell'opera, che il protrarsi del
comportamento inerte del comune avrebbe ingenerato
nel responsabile dell'abuso edilizio, sia in
relazione ad un presunto ulteriore obbligo, per
l'amministrazione procedente, di motivare
specificamente il provvedimento in ordine alla
sussistenza dell'interesse pubblico attuale a far
demolire il manufatto, poiché la lunga durata nel
tempo dell'opera priva del necessario titolo
edilizio ne rafforza il carattere abusivo
(trattandosi di illecito permanente), il che
preserva il potere-dovere dell'amministrazione di
intervenire nell'esercizio dei suoi poteri
sanzionatori, tanto più che il provvedimento
demolitorio non richiede una congrua motivazione in
ordine all'attualità dell'interesse pubblico alla
rimozione dell'abuso, che è in re ipsa (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 23.05.2012 n. 2390 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: In
pendenza della domanda di sanatoria, è preclusa
l'adozione di provvedimenti repressivi dell'abuso
edilizio, atteso che nell'ipotesi di diniego della
domanda di sanatoria, l'Amministrazione dovrà
adottare nuova ingiunzione di demolizione, con
fissazione di nuovi termini per la spontanea
esecuzione.
Infatti, ai sensi degli artt. 38 e 44 della legge n.
47/1985, contenuti nel capo IV della legge medesima,
in pendenza della domanda di sanatoria, è preclusa
l'adozione di provvedimenti repressivi dell'abuso
edilizio, atteso che nell'ipotesi di diniego della
domanda di sanatoria, l'Amministrazione dovrà
adottare nuova ingiunzione di demolizione, con
fissazione di nuovi termini per la spontanea
esecuzione (ex multis, TAR Campania Napoli,
sez. VII, 21.03.2008, n. 1472) (TAR Campania-Napoli,
Sez. VI,
sentenza 23.05.2012 n. 2374 - link a
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COMPETENZE GESTIONALI - EDILIZIA PRIVATA: La
competenza all'emanazione di sanzioni demolitorie
rese sino all'anno 1998 deve reputarsi appartenente
al Sindaco e non all'organo dirigenziale, essendo
stata detta competenza trasferita ai dirigenti solo
ai sensi dell'art. 2, comma 12, l. 16.06.1998, n.
191.
Deve per contro osservarsi come secondo la costante
giurisprudenza della sezione “... la competenza
all'emanazione di sanzioni demolitorie rese sino
all'anno 1998 deve reputarsi appartenente al Sindaco
e non all'organo dirigenziale, essendo stata detta
competenza trasferita ai dirigenti solo ai sensi
dell'art. 2, comma 12, l. 16.06.1998, n. 191”
(cfr., ex multis, TAR Napoli Campania sez.
VI, 30.04.2008, n. 3072 e 03.04.2008, n. 1832, nello
stesso senso TAR Toscana, Firenze, sez. III,
26.11.2010, n. 6627)
(TAR
Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 23.05.2012 n. 2373 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Presupposto
per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere
abusive è soltanto la constatata esecuzione di un
intervento edilizio in assenza del prescritto titolo
abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale
ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente
motivato con l'accertamento dell'abuso, e non
necessita di una particolare motivazione in ordine
all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso
stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino
dell'assetto urbanistico violato, e alla possibilità
di adottare provvedimenti alternativi.
--------------
In sede di emanazione dell'ordinanza di demolizione
di opere edilizie abusive su area vincolata non è
necessario acquisire il parere della Commissione
Edilizia Integrata dal momento che l'ordine di
ripristino discende direttamente dall'applicazione
della disciplina edilizia vigente e non costituisce
affatto irrogazione di sanzioni discendenti dalla
violazione di disposizioni a tutela del paesaggio.
In sede di emanazione di ordinanza di demolizione
delle opere edilizie abusive su area vincolata non è
necessario acquisire il parere della Commissione
Edilizia Integrata dal momento che l'ordine di
ripristino discende direttamente dall'applicazione
della disciplina edilizia vigente ... e in quanto
non vi è alcun obbligo di far luogo ad accertamenti
di danni ambientali, ovvero di applicazione di
sanzioni pecuniarie alternative.
---------------
A seguito dell'entrata in vigore della l. 28.01.1977
n. 10, la quale ha previsto la vincolante
obbligatorietà dell'ordine di demolizione degli
edifici abusivi, non è più necessaria l'acquisizione
del parere della Commissione edilizia comunale ai
sensi dell'art. 32, comma 3, l. 17.08.1942 n. 1150,
il quale era giustificato, nel previgente
ordinamento, appunto dalla natura discrezionale di
detto ordine.
Ed, infatti, come
costantemente affermato in giurisprudenza “...
presupposto per l'adozione dell'ordine di
demolizione di opere abusive è soltanto la
constatata esecuzione di un intervento edilizio in
assenza del prescritto titolo abilitativo, con la
conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto,
esso è sufficientemente motivato con l'accertamento
dell'abuso, e non necessita di una particolare
motivazione in ordine all'interesse pubblico alla
rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico
violato, e alla possibilità di adottare
provvedimenti alternativi” (ex multis,
TAR Campania Napoli, sez. VII, 08.04.2011, n. 1999).
---------------
Ed infatti, come costantemente ribadito in
giurisprudenza, “... in sede di emanazione
dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie
abusive su area vincolata non è necessario acquisire
il parere della Commissione Edilizia Integrata dal
momento che l'ordine di ripristino discende
direttamente dall'applicazione della disciplina
edilizia vigente e non costituisce affatto
irrogazione di sanzioni discendenti dalla violazione
di disposizioni a tutela del paesaggio” (così,
da ultimo, TAR Liguria, Genova, sez. I, 21.09.2011,
n. 1393, nello stesso senso vedi pure TAR Campania,
Napoli sez. VI, 05.03.2012, secondo cui “... in
sede di emanazione di ordinanza di demolizione delle
opere edilizie abusive su area vincolata non è
necessario acquisire il parere della Commissione
Edilizia Integrata dal momento che l'ordine di
ripristino discende direttamente dall'applicazione
della disciplina edilizia vigente ... e in quanto
non vi è alcun obbligo di far luogo ad accertamenti
di danni ambientali, ovvero di applicazione di
sanzioni pecuniarie alternative”).
---------------
Infatti, a seguito dell'entrata in vigore della l.
28.01.1977 n. 10, la quale ha previsto la vincolante
obbligatorietà dell'ordine di demolizione degli
edifici abusivi, non è più necessaria l'acquisizione
del parere della Commissione edilizia comunale ai
sensi dell'art. 32, comma 3, l. 17.08.1942 n. 1150,
il quale era giustificato, nel previgente
ordinamento, appunto dalla natura discrezionale di
detto ordine (cfr., TAR Campania Napoli, sez. VI,
24.09.2009, n. 5071 e sez. III, 05.06.2008, n. 5255,
TAR Lazio Roma, sez. II, 11.09.2009, n. 8644)
(TAR
Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 23.05.2012 n. 2373 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
senso di una rigorosa applicazione del canone della
c.d. doppia conformità degli interventi abusivi
rispetto alla disciplina urbanistico-edilizia
vigente, sia al momento della loro esecuzione sia al
momento della presentazione della domanda di
sanatoria, militano i seguenti argomenti
interpretativi: a) Argomento letterale; b) Argomento
storico; c) Argomento logico-sistematico; d)
Argomento teleologico.
---------------
Predicare l’operatività della regola pretoria della
‘sanatoria giurisprudenziale’, e cioè consentire la
legittimazione postuma di opere originariamente e
sostanzialmente abusive, significherebbe tradire:
- il principio di legalità, riveniente dagli artt.
23, 24, 97, 101 e 113 Cost., oltre che dall’art. 1,
comma 1, della l. n. 241/1990 (secondo cui
“l’attività amministrativa persegue i fini
determinati dalla legge”), sia in quanto si
svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e
vincolante la disciplina urbanistico-edilizia
vigente al momento della commissione degli illeciti,
sia in quanto, estendendosi l’ambito oggettivo di
applicazione del permesso di costruire in sanatoria,
se ne violerebbe la tipicità provvedimentale,
ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art.
36 del d.p.r. n. 380/2001) alle sole violazioni di
ordine formale;
- il principio di imparzialità, riveniente dall’art.
97 Cost., oltre che dall’art. 1, comma 1, della l.
n. 241/1990 (secondo cui “l’attività amministrativa
è retta da criteri … di imparzialità”), in quanto si
finirebbe per premiare gli autori di abusi edilizi
sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano
correttamente eseguito attività edificatorie, nel
doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da
altri, invece, impunemente violate;
- i principi di buon andamento e di efficacia,
rivenienti dall’art. 97 Cost., oltre che dall’art.
1, comma 1, della l. n. 241/1990 (secondo cui
“l’attività amministrativa è retta da criteri … di
efficacia”), in quanto, premiando – come detto – gli
autori degli abusi edilizi sostanziali, risulterebbe
attenuata, se non addirittura neutralizzata, la
forza deterrente dell’apparato sanzionatorio posto a
presidio della disciplina di governo del territorio;
- i principi di proporzionalità e di ragionevolezza,
rivenienti, rispettivamente, dall’ordinamento
comunitario e dagli artt. 3 e 97 Cost., in quanto si
estenderebbe l’ambito oggettivo di applicazione di
un istituto (permesso di costruire in sanatoria) al
di là della fenomenologia (abusi edilizi meramente
formali) in rapporto alla quale quest’ultimo è stato
enucleato e commisurato dal legislatore.
Innanzitutto, il Collegio, pur non ignorando
l’esistenza di un autorevole orientamento
giurisprudenziale di segno contrario (cfr. Cons.
Stato, sez. VI, 06.02.2003, n. 592; sez. V,
21.10.2003, n. 6498; 28.05.2004, n. 3431;
19.04.2005, n. 1796; sez. VI, 12.11.2008, n. 5646;
sez. VI, 07.05.2009, n. 2835; TAR Abruzzo, Pescara,
11.05.2007, n. 534; TAR Sicilia, Palermo, sez. III,
31.01.2008, n. 137; TAR Sardegna, Cagliari, sez. II,
17.03.2010, n. 314; Cass. pen., sez. III,
15.02.2008, n. 11132; 28.05.2008, n. 21208), ritiene
di dover escludere che la regola pretoria della ‘sanatoria
giurisprudenziale’, recepita nell’art. 31 delle
n.t.a. del p.u.c. di Villa Literno, sia compatibile
col dettato normativo dell’art. 36, comma 1, del
d.p.r. n. 380/2001, tanto da trovare ingresso
nell’ordinamento (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
26.04.2006, n. 2306; 17.09.2007, n. 4838; sez. V,
25.02.2009, n. 1126; sez. IV, 02.11.2009, n. 6784;
TAR Lombardia, Brescia, 23.06.2003, n. 870; Milano,
sez. II, 09.06.2006, n. 1352; TAR Emilia Romagna,
Bologna, sez. II, 15.01.2004, n. 16; Parma,
13.12.2007, n. 620; TAR Piemonte, Torino, sez. I,
18.10.2004, n. 2506; 20.04.2005, n. 1094; TAR
Liguria, Genova, sez. I, 23.02.2007, n. 364; TAR
Sicilia, Catania, sez. I, 09.01.2009, n. 5; TAR
Campania, Napoli, sez, VII, 07.05.2008, n. 3501;
sez. VI, 04.08.2008, n. 9723; sez. III, 19.11.2008,
n. 19875; sez. VIII, 10.09.2010, n. 17398; TAR
Puglia, Lecce, sez. III, 09.12.2010, n. 2816; TAR
Toscana, Firenze, sez. III, 11.02.2011, n. 263;
13.05.2011, n. 837; Cass. pen., sez. III,
26.04.2007, n. 24451; 21.10.2008, n. 42526;
21.09.2009, n. 36350; 21.01.2010, n. 9446).
Nel senso di una rigorosa applicazione del canone
della c.d. doppia conformità degli interventi
abusivi rispetto alla disciplina
urbanistico-edilizia vigente sia al momento della
loro esecuzione sia al momento della presentazione
della domanda di sanatoria, militano i seguenti
argomenti interpretativi, già illustrati dalla
Sezione nella sentenza n. 17398 del 10.09.2010.
a) Argomento letterale.
Ai sensi dell’art. 36, comma 1, del d.p.r. n.
380/2001, “in caso di interventi realizzati in
assenza di permesso di costruire, o in difformità da
esso, fino alla scadenza dei termini di cui agli
artt. 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e
comunque fino all'irrogazione delle sanzioni
amministrative, il responsabile dell'abuso, o
l'attuale proprietario dell'immobile, possono
ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento
risulti conforme alla disciplina urbanistica ed
edilizia vigente sia al momento della realizzazione
dello stesso, sia al momento della presentazione
della domanda”.
Il tenore letterale della norma è del tutto
perspicuo e inequivoco nel riferire il requisito
della conformità urbanistico-edilizia dell’opera
(formalmente abusiva) “sia” al momento della
sua realizzazione “sia” al momento della
presentazione della domanda di sanatoria.
Di fronte a siffatto dettato normativo, non appare
al Collegio condivisibile l’approccio ermeneutico
elaborato da Cons. Stato, sez. VI, 07.05.2009, n.
2835.
Stando a tale pronuncia, il canone della doppia
conformità sarebbe preordinato a garantire il
richiedente dalla possibile variazione in peius
della disciplina urbanistico-edilizia, a seguito di
adozione di strumenti che riducano o escludano,
appunto, il ius aedificandi sussistente al
momento dell'istanza, mentre non potrebbe ritenersi
diretto a disciplinare l'ipotesi inversa del ius
superveniens favorevole, rispetto al momento
ultimativo della proposizione dell'istanza.
La regola in parola sarebbe, dunque, enucleata “contro
l'inerzia dell'amministrazione”, e starebbe a
indicare “che, se sussiste la doppia conformità,
a colui che ha richiesto la sanatoria non può essere
opposta una modificazione della normativa
urbanistica successiva alla presentazione della
domanda. Tale regola non preclude il diritto ad
ottenere la concessione in sanatoria di opere che,
realizzate senza concessione o in difformità dalla
concessione, siano conformi alla normativa
urbanistica vigente al momento in cui l'autorità
comunale provvede sulla domanda in sanatoria”
(Cons. Stato, sez. V, 21.10.2003, n. 6498).
Una simile interpretazione si rivela
inammissibilmente abrogatrice dell’inciso “sia al
momento della realizzazione dello stesso” (e
cioè dell’immobile abusivo) e, quindi, contra
legem: se, infatti, l’art. 36, comma 1, cit.
fosse unicamente volto a salvaguardare il privato
istante dalle conseguenze sfavorevoli (nel senso di
una sopravvenuta modifica in peius del ius
aedificandi) dell’inerzia dell’amministrazione
nel concludere l’avviato procedimento di sanatoria,
sarebbe stato sufficiente il riferimento testuale “al
momento della presentazione della domanda”.
In realtà, il legislatore, con l’espressione “sia
al momento della realizzazione dello stesso, sia al
momento della presentazione della domanda”, ha
individuato l’intero arco temporale lungo il quale
si sia protratto l’abuso edilizio commesso, senza
che il relativo responsabile si sia attivato per
regolarizzarlo, ed entro il quale gli effetti
peggiorativi del ius superveniens non possono
non ricadere su costui, ma anche oltre il quale gli
stessi effetti restano imputabili all’inerzia
dell’amministrazione nel provvedere e non sono più
su di lui riversabili.
b) Argomento storico.
Nell’emanare il nuovo art. 36, comma 1, del d.p.r.
n. 380/2001, in luogo del previgente art. 13, comma
1, della l. 28.02.1985, n. 47, il legislatore
delegato, discostandosi dalla linea suggerita di
Cons. Stato, ad. gen., sez. atti norm., 29.03.2001,
n. 52, nel senso di codificare la regola pretoria
della ‘sanatoria giurisprudenziale’, ha
preferito “non inserire una tale previsione, sia
perché la giurisprudenza sul punto non è pacifica
(sicché non può dirsi formato quel diritto vivente
che avrebbe consentito la modifica del dato
testuale), sia, soprattutto, per le considerazioni
in senso nettamente contrario contenute nel parere
espresso dalla Camera” (relazione illustrativa
al testo unico dell’edilizia).
Un simile antefatto storico dell’iter legislativo
denota, vieppiù, la resistenza dell’ordinamento al
recepimento della regola pretoria della ‘sanatoria
giurisprudenziale’.
c) Argomento logico-sistematico.
L'istituto dell’accertamento di conformità è stato
introdotto, nell'ambito di una revisione complessiva
del regime sanzionatorio degli illeciti edilizi,
orientata nel senso di una maggiore severità, con
l'intento di consentire la sanatoria dei soli abusi
meramente formali, vale a dire di quelle costruzioni
per le quali, sussistendo ogni altro requisito di
legge e regolamento, manchi soltanto il necessario
titolo abilitativo (cfr. Cons. Stato, sez. V,
29.05.2006, n. 3267). Il rilascio di quest’ultimo in
esito ad accertamento di conformità presuppone,
pertanto, in capo al responsabile dell'abuso, una
situazione giuridica del tutto equiparabile a quella
di chi richieda un ordinario permesso di costruire,
ivi compresa la sussistenza ab origine della
conformità urbanistico-edilizia dell’opera.
Del resto, alla sanabilità degli abusi sostanziali è
dedicato non già l’istituto dell'accertamento di
conformità, bensì quello diverso del condono
edilizio (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II,
09.06.2006, n. 1352), nei limiti, segnatamente
temporali, in cui quest'ultimo sia applicabile alla
fattispecie concreta considerata.
Ciò posto, ammettere la ‘sanatoria
giurisprudenziale’ significherebbe anche introdurre
surrettiziamente nell’ordinamento una sorta di
condono atipico, affrancato dai predetti limiti,
mediante il quale il responsabile di un abuso
sostanziale potrebbe trovarsi a beneficiare degli
effetti indirettamente sananti di un più favorevole
ius superveniens, anziché di un’apposita
disciplina legislativa condonistica.
Nel delineato contesto sistematico, l’art. 36 del
d.p.r. n. 380/2001, in quanto norma, da un lato,
circoscritta alle ipotesi di abusi meramente formali
e, d’altro lato, derogatoria al principio per il
quale i lavori realizzati sine titulo sono
sottoposti alle prescritte misure ripristinatorie e
sanzionatorie, non è, dunque, suscettibile di
applicazione analogica né di una interpretazione
riduttiva, secondo cui, in contrasto col suo tenore
letterale, basterebbe la conformità delle opere con
lo strumento urbanistico vigente all’epoca in cui
sia proposta l’istanza di accertamento.
Viceversa, stante l’evidenziata portata speciale e
derogatoria della norma in esame, la sanabilità da
essa prevista postula sempre la conformità
urbanistico-edilizia dell'intervento sine titulo
alla disciplina urbanistica vigente sia al momento
della sua realizzazione sia alla data della
presentazione della domanda (cfr. Cons. Stato, sez.
IV, 17.09.2007, n. 4838; 02.11.2009, n. 6784).
d) Argomento teleologico.
Il denominatore comune delle argomentazioni addotte
in favore della regola pretoria della ‘sanatoria
giurisprudenziale’ è precipuamente rappresentato
dalla pretesa esigenza di ispirare l'esercizio del
potere di controllo sull'attività edificatoria dei
privati al buon andamento della pubblica
amministrazione ex art. 97 Cost.
Tale canone costituzionale imporrebbe, in sede di
accertamento di conformità ex art. 36 del d.p.r. n.
380/2001, di accogliere l'istanza di sanatoria per
quei manufatti che potrebbero ben essere realizzati
sulla base della disciplina urbanistica vigente al
momento della proposizione della predetta istanza,
sebbene non conformi alla disciplina vigente al
momento della loro realizzazione. Si eviterebbe,
così, uno spreco di attività inutili, sia
dell'amministrazione (il successivo procedimento
amministrativo preordinato alla demolizione
dell'opera abusiva), sia del privato (la nuova
edificazione), sia ancora dell'amministrazione (il
rilascio del titolo per la nuova edificazione).
A ben vedere, invece, quella sorta di antinomia
adombrata nel propugnare la ‘sanatoria
giurisprudenziale’ –e, quindi, nel ripudiare
l'esigenza della doppia conformità– tra i principi
di legalità e di buon andamento della pubblica
amministrazione, con assegnazione della prevalenza a
quest'ultimo, in nome di una presunta logica ‘efficientista’,
si rivela artificiosa (cfr. TAR Lombardia, Milano,
sez. II, 09.06.2006, n. 1352).
Va, innanzitutto, rimarcato che l'agire della
pubblica amministrazione deve essere in ogni sua
fase retto dal principio di legalità, inteso quale
regola fondamentale cui è informata l'attività
amministrativa e che trova un fondamento positivo in
varie disposizioni costituzionali (artt. 23, 24, 97,
101 e 113 Cost.). In altri termini, lungi
dall'esservi antinomia fra efficienza e legalità,
non può esservi rispetto del buon andamento della
pubblica amministrazione ex art. 97 Cost., se non vi
è, nel contempo, rispetto del principio di legalità.
Il punto di equilibrio fra efficienza e legalità, è
stato, nella materia de qua, individuato dal
legislatore nel consentire –come già detto– la
sanatoria dei c.d. abusi formali, sottraendo alla
demolizione le opere che risultino rispettose della
disciplina sostanziale sull'utilizzo del territorio,
e non solo di quella vigente al momento dell'istanza
di sanatoria, ma anche di quella vigente all'epoca
della loro realizzazione (e ciò in applicazione del
principio di legalità), e quindi evitando un
sacrificio degli interessi dei privati che abbiano
violato le sole norme disciplinanti il procedimento
da osservare nell'attività edificatoria (e ciò in
applicazione dei principi di efficienza e buon
andamento, che sarebbero violati ove agli aspetti
solo formali si desse un peso preponderante rispetto
a quelli dell’osservanza sostanziale delle
disposizioni generali e locali in materia di uso del
territorio) (TAR Lombardia, Milano, sez. II,
09.06.2006, n. 1352; TAR Sicilia, Catania, sez. I,
09.06.2009, n. 5).
La vera insanabile contraddizione risiederebbe, da
un lato, nell'imporre alle autorità comunali di
reprimere e sanzionare gli abusi edilizi,
dall'altro, nel consentire violazioni sostanziali
della normativa del settore, quali rimangono –sul
piano urbanistico– quelle connesse ad opere per cui
non esista la doppia conformità, dovendosi aver
riguardo al momento della realizzazione dell'opera
per valutare la sussistenza dell'abuso (cfr. TAR
Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352).
Ciò, in quanto sarebbe davvero contrario al
principio di buon andamento ex art. 97 Cost.
ammettere che l'amministrazione, una volta emanata
la disciplina sull'uso del territorio, di fronte ad
interventi difformi dalla stessa, sia indotta
–anziché a provvedere a sanzionarli– a modificare la
disciplina stessa. Si finirebbe, così, per
incoraggiare, anziché impedire, gli abusi, perché
ogni interessato si sentirebbe incitato alla
realizzazione di manufatti difformi, confidando
sulla loro acquisizione di conformità ex post, a
mezzo di modifiche della disciplina del settore. E
si finirebbe per alterare l’essenza stessa
dell’accertamento di (doppia) conformità, che
risiede (anche) nello sterilizzare e nel disancorare
l’attività pianificatoria degli enti locali dalla
tentazione di ‘legalizzare’ surrettiziamente
l’illecita trasformazione del territorio da parte
dei privati tramite varianti ‘pilotate’ agli
strumenti urbanistici.
In definitiva, predicare l’operatività della regola
pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’,
e cioè consentire la legittimazione postuma di opere
originariamente e sostanzialmente abusive,
significherebbe tradire:
- il principio di legalità, riveniente dagli artt.
23, 24, 97, 101 e 113 Cost., oltre che dall’art. 1,
comma 1, della l. n. 241/1990 (secondo cui “l’attività
amministrativa persegue i fini determinati dalla
legge”), sia in quanto si svuoterebbe della sua
portata precettiva, certa e vincolante la disciplina
urbanistico-edilizia vigente al momento della
commissione degli illeciti, sia in quanto,
estendendosi l’ambito oggettivo di applicazione del
permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe
la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma
primaria che lo prevede (art. 36 del d.p.r. n.
380/2001) alle sole violazioni di ordine formale;
- il principio di imparzialità, riveniente dall’art.
97 Cost., oltre che dall’art. 1, comma 1, della l.
n. 241/1990 (secondo cui “l’attività
amministrativa è retta da criteri … di imparzialità”),
in quanto si finirebbe per premiare gli autori di
abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti
coloro che abbiano correttamente eseguito attività
edificatorie, nel doveroso convincimento di
rispettare prescrizioni da altri, invece,
impunemente violate;
- i principi di buon andamento e di efficacia,
rivenienti dall’art. 97 Cost., oltre che dall’art.
1, comma 1, della l. n. 241/1990 (secondo cui “l’attività
amministrativa è retta da criteri … di efficacia”),
in quanto, premiando – come detto – gli autori degli
abusi edilizi sostanziali, risulterebbe attenuata,
se non addirittura neutralizzata, la forza
deterrente dell’apparato sanzionatorio posto a
presidio della disciplina di governo del territorio;
- i principi di proporzionalità e di ragionevolezza,
rivenienti, rispettivamente, dall’ordinamento
comunitario e dagli artt. 3 e 97 Cost., in quanto si
estenderebbe l’ambito oggettivo di applicazione di
un istituto (permesso di costruire in sanatoria) al
di là della fenomenologia (abusi edilizi meramente
formali) in rapporto alla quale quest’ultimo è stato
enucleato e commisurato dal legislatore.
Alla stregua delle superiori considerazioni, la
regola della ‘sanatoria giurisprudenziale’,
recepita nell’art. 31 delle n.t.a. del p.u.c. di
Villa Literno, risulta porsi in rapporto di
antinomia col canone della doppia conformità, del
quale si è dianzi predicata l’immanenza all’art. 36,
comma 1, del d.p.r. n. 380/2001.
La disposizione regolamentare di cui al citato art.
31 delle n.t.a. del p.u.c. di Villa Literno (sulla
valenza regolamentare degli strumenti di
pianificazione urbanistica, nella parte incidente in
via generale e astratta sul governo del territorio,
cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI,
08.09.2009, n. 5258; sez. IV, 28.03.2011, n. 1868;
sez. VI, 30.06.2011, n. 3888; TAR Toscana, Firenze,
sez. I, 10.11.2008, n. 2439; TAR Marche, Ancona,
03.06.2009, n. 458; TAR Trentino Alto Adige, Trento,
17.06.2009, n. 186; TAR Liguria, Genova, sez. I,
20.07.2011, n. 1148) va, pertanto, disapplicata
dall’adito giudice amministrativo, alla stregua di
un consolidato orientamento giurisprudenziale,
nonché in omaggio al principio di gerarchia delle
fonti (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26.01.1992, n.
154; sez. VI, 29.04.2005, n. 2034; 02.03.2009, n.
1169; sez. IV, 16.02.2012, n. 812, secondo si
tratterebbe non già di una disapplicazione in senso
proprio, bensì “del risultato conseguente alla
ricerca della normativa applicabile al caso
concreto, in naturale applicazione dei principi che
regolano i rapporti tra le fonti del diritto”),
in quanto contrastante con la previsione di rango
legislativo di cui all’art. 36, comma 1, del d.p.r.
n. 380/2001 (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 22.05.2012 n. 2369 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: L’ingiunzione
di demolizione, per la sua natura di atto urgente
dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante
valutazioni discrezionali, ma risolventesi in meri
accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un
presupposto di fatto rientrante nella sfera di
controllo dell’interessato, non richiede apporti
partecipativi di quest’ultimo, il quale, in
relazione alla disciplina tipizzata dei procedimenti
repressivi, contemplante la preventiva contestazione
dell'abuso, ai fini del ripristino di sua iniziativa
dell'originario assetto dei luoghi, viene, in ogni
caso, posto in condizione di interloquire con
l'amministrazione prima di ogni definitiva
statuizione di rimozione d'ufficio delle opere
abusive; tanto più che, in relazione ad una simile
tipologia provvedimentale, può trovare applicazione
l’art. 21-octies della l. n. 241/1990, che statuisce
la non annullabilità dell’atto adottato in
violazione delle norme sul procedimento, qualora,
per la sua natura vincolata, sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere
diverso da quello concretamente enucleato.
Ed invero, per giurisprudenza ampiamente
consolidata, l’ingiunzione di demolizione, per la
sua natura di atto urgente dovuto e rigorosamente
vincolato, non implicante valutazioni discrezionali,
ma risolventesi in meri accertamenti tecnici,
fondato, cioè, su un presupposto di fatto rientrante
nella sfera di controllo dell’interessato, non
richiede apporti partecipativi di quest’ultimo, il
quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei
procedimenti repressivi, contemplante la preventiva
contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino di
sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi,
viene, in ogni caso, posto in condizione di
interloquire con l'amministrazione prima di ogni
definitiva statuizione di rimozione d'ufficio delle
opere abusive; tanto più che, in relazione ad una
simile tipologia provvedimentale, può trovare
applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990,
che statuisce la non annullabilità dell’atto
adottato in violazione delle norme sul procedimento,
qualora, per la sua natura vincolata, sia palese che
il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto
essere diverso da quello concretamente enucleato
(cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI,
03.03.2007, n. 1021; sez. IV, 01.10.2007, n. 5050;
TAR Lazio, Roma, sez. II, 03.07.2007, n. 5968; TAR
Campania, Napoli, sez. IV, 17.01.2007, n. 357; sez.
VI, 08.02.2007, n. 961; sez. IV, 22.03.2007, n.
2725; sez. VII, 09.05.2007, n. 4859; 08.06.2007, n.
6038; Salerno, sez. II, 13.08.2007, n. 900; Napoli,
sez. IV, 06.11.2007, n. 10676; 06.11.2007, n. 10679;
sez. VII, 12.12.2007, n. 16226; sez. IV, 17.12.2007,
n. 16316; sez. VII, 28.12.2007, n. 16550; sez. IV,
24.01.2008, n. 367; 21.03.2008, n. 1460; sez. VII,
21.03.2008, n. 1474; 04.04.2008, n. 1883; sez. III,
16.04.2008, n. 2207; sez. IV, 18.04.2008, n. 2344;
sez. VI 18.06.2008, n. 5973; TAR Umbria, Perugia,
26.01.2007, n. 44; TAR Trentino Alto Adige, Bolzano,
08.02.2007, n. 52; TAR Molise, Campobasso,
20.03.2007, n. 178; TAR Sardegna, Cagliari, sez. I,
20.04.2007, n. 709; sez. VII, 09.05.2007, n. 4859;
TAR Basilicata, Potenza, sez. I, 16.02.2008, n. 33;
TAR Veneto, Venezia, sez. II, 26.02.2008, n. 454;
13.03.2008, n. 605; TAR Puglia, Lecce, sez. III,
20.09.2008, n. 2651) (TAR Campania-Napoli, Sez.
VIII,
sentenza 22.05.2012 n. 2365 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’istanza
di proroga motivata sulla sussistenza di fatti
sopravvenuti estranei alla volontà del titolare deve
essere in ogni caso presentata prima che il titolo
edilizio venga a scadere.
Si aggiunga che la tesi della sospensione automatica
del permesso di costruire in presenza di fatti
impeditivi non imputabili all’avente diritto si
infrange contro il prevalente orientamento espresso
dal Consiglio di Stato.
Difatti, posto che l’eventuale pronuncia di
decadenza del permesso di costruire è espressione di
un potere strettamente vincolato con natura
ricognitiva e con decorrenza ex tunc (giacché
accerta il venir meno degli effetti del titolo
edilizio in conseguenza dell'inerzia del titolare
ovvero della sopravvenienza di contrastanti
previsioni urbanistiche), si è condivisibilmente
osservato che il termine di durata non può mai
intendersi automaticamente sospeso, essendo al
contrario sempre necessaria, a tal fine, la
presentazione di una formale istanza di proroga, cui
deve comunque seguire un provvedimento da parte
della stessa amministrazione che ha rilasciato
l’atto concessorio che accerti l’impossibilità del
rispetto del termine nei casi in cui possa ritenersi
sopravvenuto un “factum principis” ovvero
l’insorgenza di una causa di forza maggiore.
Tali “fatti sopravvenuti estranei alla volontà del
titolare del permesso” (che possono consistere nel
factum principis o in altri casi di forza maggiore)
non hanno un rilievo automatico, ma possono
costituire oggetto di valutazione in sede
amministrativa quando l’interessato proponga
tempestiva domanda di proroga, il cui accoglimento è
indefettibile perché non vi sia la pronuncia di
decadenza.
La prima doglianza espressa dalla ricorrente si
infrange avverso il chiaro contenuto dell’art. 15
D.P.R. 380/2001 ed il prevalente orientamento
espresso dalla giurisprudenza amministrativa con
riferimento alla questione della prorogabilità del
permesso di costruire.
Difatti, ai sensi dell’art. 15, primo e secondo
comma, del D.P.R. 380/2001 “1. Nel permesso di
costruire sono indicati i termini di inizio e di
ultimazione dei lavori. 2. Il termine per l'inizio
dei lavori non può essere superiore ad un anno dal
rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il
quale l'opera deve essere completata non può
superare i tre anni dall'inizio dei lavori. Entrambi
i termini possono essere prorogati, con
provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti
estranei alla volontà del titolare del permesso.
Decorsi tali termini il permesso decade di diritto
per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente
alla scadenza venga richiesta una proroga …”.
Dall’esame della richiamata disposizione emerge
quindi incontestabilmente che l’istanza di proroga
motivata sulla sussistenza di fatti sopravvenuti
estranei alla volontà del titolare deve essere in
ogni caso presentata prima che il titolo edilizio
venga a scadere: viceversa, nel caso in esame, non
vi è contestazione sulla circostanza che detta
richiesta sia stata avanzata a termini scaduti.
Si aggiunga che la tesi della sospensione automatica
del permesso di costruire in presenza di fatti
impeditivi non imputabili all’avente diritto si
infrange contro il prevalente orientamento espresso
dal Consiglio di Stato (Sez. IV, 23.02.2012 n. 974;
18.06.2008 n. 3030; 10.08.2007 n. 4423).
Difatti, posto che l’eventuale pronuncia di
decadenza del permesso di costruire è espressione di
un potere strettamente vincolato con natura
ricognitiva e con decorrenza ex tunc (giacché
accerta il venir meno degli effetti del titolo
edilizio in conseguenza dell'inerzia del titolare
ovvero della sopravvenienza di contrastanti
previsioni urbanistiche), si è condivisibilmente
osservato che il termine di durata non può mai
intendersi automaticamente sospeso, essendo al
contrario sempre necessaria, a tal fine, la
presentazione di una formale istanza di proroga, cui
deve comunque seguire un provvedimento da parte
della stessa amministrazione che ha rilasciato
l’atto concessorio che accerti l’impossibilità del
rispetto del termine nei casi in cui possa ritenersi
sopravvenuto un “factum principis” ovvero
l’insorgenza di una causa di forza maggiore.
Nello stesso solco si colloca l’indirizzo espresso
dalla giurisprudenza amministrativa (Consiglio di
Stato, Sez. IV, 10.08.2007 n. 4423) secondo cui tali
“fatti sopravvenuti estranei alla volontà del
titolare del permesso” (che possono consistere
nel factum principis o in altri casi di forza
maggiore) non hanno un rilievo automatico, ma
possono costituire oggetto di valutazione in sede
amministrativa quando l’interessato proponga
tempestiva domanda di proroga, il cui accoglimento è
indefettibile perché non vi sia la pronuncia di
decadenza
(TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 22.05.2012 n. 2363 - link a
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ATTI AMMINISTRATIVI: Il
Collegio non ignora quel filone giurisprudenziale
secondo cui, con la novella apportata alla L.
07.08.1990 n. 241 dalle L. 11.02.2005 n. 15 e
14.05.2005 n. 80, quello che era in precedenza un
principio consolidato della giurisprudenza, vale a
dire che la comunicazione non fosse necessaria per i
procedimenti ad istanza di parte, sia stato oggetto
di ripensamento.
Il tradizionale orientamento che nega l'obbligo
della comunicazione per i procedimenti ad istanza di
parte non merita di essere abbandonato pure a
seguito dell'introduzione delle suindicate modifiche
normative ed, in particolare, della norma di cui
alla lett. c)-ter, dell’art. 8, secondo comma, della
L. 241/1990, in base alla quale, per i procedimenti
ad iniziativa di parte, nella comunicazione di avvio
deve essere indicata la data di presentazione della
relativa istanza.
Tale previsione, che a parere di alcuni ha
definitivamente consacrato l'obbligo di avvio della
comunicazione di avvio anche nei procedimenti ad
istanza di parte, ben può essere riferita, ad altri
soggetti diversi dall'istante che, in tale categoria
di procedimenti, devono essere destinatari della
comunicazione di avvio, a norma dell'art. 7 della L.
241/1990.
La norma in discorso non toglie solidità
all'argomento per il quale la comunicazione nei
confronti dell'istante costituisce un inutile
aggravamento del procedimento, atteso che
l'interessato ha certamente conoscenza
dell'esistenza dello stesso, di talché l'avviso di
avvio sarebbe una mera duplicazione di formalità.
Orbene, il Collegio non
ignora quel filone giurisprudenziale secondo cui,
con la novella apportata alla L. 07.08.1990 n. 241
dalle L. 11.02.2005 n. 15 e 14.05.2005 n. 80, quello
che era in precedenza un principio consolidato della
giurisprudenza, vale a dire che la comunicazione non
fosse necessaria per i procedimenti ad istanza di
parte, sia stato oggetto di ripensamento (TAR
Puglia, Bari, 07.06.2010 n. 2255).
Nondimeno, la Sezione ritiene che il tradizionale
orientamento che nega l'obbligo della comunicazione
per i procedimenti ad istanza di parte (Consiglio di
Stato, Sez. IV, 21.02.2011 n. 1085; Consiglio di
Stato, Sez. IV, 21.02.2011 n. 1085; Consiglio di
Stato, Sez. IV, 07.04.2010 n. 1986; TAR Sardegna,
14.12.2010 n. 2686; TAR Sardegna, 27.10.2010 n.
2338) non meriti di essere abbandonato pure a
seguito dell'introduzione delle suindicate modifiche
normative ed, in particolare, della norma di cui
alla lett. c)-ter, dell’art. 8, secondo comma, della
L. 241/1990, in base alla quale, per i procedimenti
ad iniziativa di parte, nella comunicazione di avvio
deve essere indicata la data di presentazione della
relativa istanza.
Tale previsione, che a parere di alcuni ha
definitivamente consacrato l'obbligo di avvio della
comunicazione di avvio anche nei procedimenti ad
istanza di parte, ben può essere riferita, ad altri
soggetti diversi dall'istante che, in tale categoria
di procedimenti, devono essere destinatari della
comunicazione di avvio, a norma dell'art. 7 della L.
241/1990.
La norma in discorso non toglie solidità
all'argomento per il quale la comunicazione nei
confronti dell'istante costituisce un inutile
aggravamento del procedimento, atteso che
l'interessato ha certamente conoscenza
dell'esistenza dello stesso, di talché l'avviso di
avvio sarebbe una mera duplicazione di formalità
(TAR Calabria, Catanzaro, 20.05.2010 n. 796).
Fermo quanto indicato, il Collegio evidenzia altresì
che, in considerazione di quanto sopra indicato, in
ogni caso troverebbe applicazione il disposto
dell'art. 21-octies della L. 241/1990, atteso che,
per le ragioni illustrate, l’amministrazione non
avrebbe potuto accogliere l’istanza di proroga di
efficacia del permesso di costruire
(TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 22.05.2012 n. 2363 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Il
presupposto per l'adozione dell'ordine di
demolizione è costituito soltanto dalla constatata
esecuzione dell'opera in totale difformità dal
titolo edilizio o in assenza del medesimo, con la
conseguenza che tale provvedimento, ove ricorrano i
predetti requisiti, è sufficientemente motivato con
l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera,
essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua
rimozione.
---------------
Quando la demolizione non può avvenire senza
pregiudizio della parte eseguita in conformità, il
dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una
sanzione pari al doppio del costo di produzione,
stabilito in base alla legge 27.07.1978 n. 392,
della parte dell'opera realizzata in difformità dal
permesso di costruire, se ad uso residenziale, e
pari al doppio del valore venale, determinato a cura
della agenzia del territorio, per le opere adibite
ad usi diversi da quello residenziale.
Il ricorrente avrebbe dovuto fornire almeno un
principio di prova circa la presunta impossibilità
di demolire l'abuso senza danneggiare altri corpi di
fabbrica, ciò che non risulta in alcun modo
dimostrato in sede di gravame.
Quanto all’ordinanza demolitoria, si richiama il
granitico orientamento giurisprudenziale, dal quale
non vi è ragione per discostarsi, secondo cui il
presupposto per l'adozione dell'ordine di
demolizione è costituito soltanto dalla constatata
esecuzione dell'opera in totale difformità dal
titolo edilizio o in assenza del medesimo, con la
conseguenza che tale provvedimento, ove ricorrano i
predetti requisiti, è sufficientemente motivato con
l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera,
essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla
sua rimozione (Consiglio di Stato, Sez. VI,
14.11.2011 n. 5997 e Sez. IV, 27.04.2004 n. 2529;
TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 06.02.2012 n. 693;
TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 02.12.2004 n. 18085).
---------------
Ai sensi dell’art. 34
D.P.R. 380/2001 (che riprende la formulazione
dell’abrogato art. 12 L. 47/1985), “quando la
demolizione non può avvenire senza pregiudizio della
parte eseguita in conformità, il dirigente o il
responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari
al doppio del costo di produzione, stabilito in base
alla legge 27.07.1978 n. 392, della parte dell'opera
realizzata in difformità dal permesso di costruire,
se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore
venale, determinato a cura della agenzia del
territorio, per le opere adibite ad usi diversi da
quello residenziale”.
Secondo la costante giurisprudenza amministrativa di
questo Tribunale (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII,
12.01.2009 n. 501; Sez. VII, 04.04.2008 n. 1883), il
ricorrente avrebbe dovuto fornire almeno un
principio di prova circa la presunta impossibilità
di demolire l'abuso senza danneggiare altri corpi di
fabbrica, ciò che non risulta in alcun modo
dimostrato in sede di gravame
(TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 22.05.2012 n. 2362 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: E'
illegittima l'ordinanza di demolizione:
a- in riferimento agli impianti elettrico ed idrico
senza essersi tenuto conto dell’irrilevanza del
“renderli funzionanti” sotto i profili
edilizio/urbanistico/paesaggistico;
b- in riferimento alla “pavimentazione del
terrazzino antistante il fabbricato”: che, di per sé
sola, in pacifica evidenza, incidendo su un
terrazzino già esistente, non sostanzia modifiche
dello stato dei luoghi passibili di una sanzione
demolitoria.
---------------
La costruzione di una tettoia (“a doppia profondità,
di circa mt. 7,10 x 4,60 e mt. 9.90 x 2,60”) rileva
sotto i profili edilizio/urbanistico e
paesaggistico.
Ed invero, in presenza delle descritte dimensioni e
struttura, cui consegue una modifica della sagoma
del fabbricato cui inerisce, la tettoia deve essere
ricondotta fra quegli interventi “di entità tale da
arrecare una visibile alterazione all'edificio o
alle parti dello stesso su cui vengono inserite…”
che, in un territorio assoggettato a vincolo
paesaggistico, quale quello qui dato, giustificano
la sanzione demolitoria senza necessità di motivare
specificamente sull’interesse pubblico sotteso: in
re ipsa.
... per l'annullamento dell’ordinanza sindacale n.
101 del 06.06.1996, notificata il successivo giorno
27 dello stesso mese, recante l’ordine di
demolizione di quanto in essa indicato, abusivamente
realizzato a servizio di un manufatto a sua volta
abusivo sequestrato in data 25.07.1994;
...
Il ricorso si appalesa fondato nella parte in cui
denuncia l’illegittimità della sanzione irrogata:
a-
in riferimento agli impianti elettrico ed idrico
senza essersi tenuto conto dell’irrilevanza del “renderli
funzionanti” sotto i profili
edilizio/urbanistico/paesaggistico; beninteso,
stante l’assenza di ogni riferimento diretto o
indiretto all’esecuzione di opere edilizie o
comunque modificative dello stato dei luoghi cui si
fosse fatto luogo per rendere funzionanti gli
impianti;
b-
in riferimento alla “pavimentazione del
terrazzino antistante il fabbricato”: che, di
per sé sola, (anche qui) in mancanza di ogni altra
indicazione, in pacifica evidenza, incidendo su un
terrazzino già esistente, non sostanzia modifiche
dello stato dei luoghi passibili di una sanzione
demolitoria.
A diversa conclusione deve invece pervenirsi in
riferimento alla sanzione ripristinatoria comminata
in relazione alla tettoia della quale, invece, vi è
descrizione particolareggiata (“a doppia
profondità, di circa mt. 7,10 x 4,60 e mt. 9.90 x
2,60”), che ne dimostra la rilevanza sotto i
profili edilizio/urbanistico e paesaggistico.
Ed invero, in presenza delle descritte dimensioni e
struttura, cui consegue una modifica della sagoma
del fabbricato cui inerisce, la tettoia deve essere
ricondotta fra quegli interventi “di entità tale
da arrecare una visibile alterazione all'edificio o
alle parti dello stesso su cui vengono inserite…”
che, in un territorio assoggettato a vincolo
paesaggistico, quale quello qui dato, giustificano
la sanzione demolitoria senza necessità di motivare
specificamente sull’interesse pubblico sotteso:
in re ipsa (cfr., ex multis, Tar Campania
Napoli, questa sesta sezione, n. 24047 del
12.11.2010, n. 2814 del 06.05.2010; 07.09.2009, n.
4899, sezione terza, 19.01.2010, n. 195; sezione
seconda, 29.01.2009, n. 492, id. 06.11.2008, n.
19292; sezione quarta, 04.08.2011, n. 4195; Tar
Calabria, Reggio Calabria, sezione prima,
23.08.2010, n. 915) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 18.05.2012 n. 2295 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Alcuna
violazione delle garanzie partecipative può esser
predicato, stante la doverosità di intervenire
irrogando la sanzione demolitoria, quale prevista
dalla legge in presenza di interventi, aventi la
natura di cui si dirà in avanti, eseguiti in assenza
dei dovuti titoli abilitativi.
Va infatti rigettato la denuncia (di cui al primo
mezzo) di violazione dell’art. 7 della l. 241 del
1990.
Ed invero, per (ormai) consolidato orientamento
giurisprudenziale, dal quale non sono state offerte
ragioni per discostarsi, alcuna violazione delle
garanzie partecipative può esser predicato, stante
la doverosità di intervenire irrogando la sanzione
demolitoria, quale prevista dalla legge in presenza
di interventi, aventi la natura di cui si dirà in
avanti, eseguiti in assenza dei dovuti titoli
abilitativi (cfr., per tutte, Cons. Stato, sezione
quinta, sentenza 07.04.2011, n. 2159, sezione
quarta, 05.03.2010, n. 1277 e Tar Campania, questa
sesta sezione, sentenze n. 1107 del 05.03.2012, n.
5805 del 14.12.2011 e nn. 2074 e 2076 del
21.04.2010) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 18.05.2012 n. 2293 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione di interventi edilizi in assenza dei
prescritti titoli abilitativi costituisce
presupposto necessario e sufficiente per l'esercizio
del potere sanzionatorio volto all'immediato
ripristino dello stato dei luoghi.
Pertanto, trattandosi di attività doverosa e
vincolata, l'adozione dell'ordine di demolizione non
necessita di una motivazione ulteriore rispetto
all'indicazione delle norme violate e al riferimento
ai presupposti di fatto contenuti nei verbali di
accertamento dell'abuso.
A differenza di quanto sostenuto in seno all’unico,
generico, mezzo di impugnazione i due provvedimenti
impugnati sono sorretti da giustificazione del tutto
adeguata alla bisogna laddove impongono di demolire,
previa sospensione delle lavorazioni in corso, le
opere innanzi descritte, aventi le pure descritte
notevoli dimensioni (superfici e volumi), realizzate
in assenza sia di titolo edilizio che di
autorizzazione paesistica nel territorio comunale “dichiarato
di notevole interesse pubblico con d. m. del
20.03.1951”.
Ed invero, per univoco e consolidato orientamento
giurisprudenziale, in applicazione delle previsioni
del T.U. sull’edilizia (art. 27 del d.P.R. 380 del
2001) e di quelle del T.U. dei beni culturali e
paesaggistici (art. 146 e ss. del d.l.vo n. 42 del
2004), specificamente richiamate nei provvedimenti
qui all’esame, “la realizzazione di interventi
edilizi in assenza dei prescritti titoli abilitativi
costituisce presupposto necessario e sufficiente per
l'esercizio del potere sanzionatorio volto
all'immediato ripristino dello stato dei luoghi.
Pertanto, trattandosi di attività doverosa e
vincolata, l'adozione dell'ordine di demolizione non
necessita di una motivazione ulteriore rispetto
all'indicazione delle norme violate e al riferimento
ai presupposti di fatto contenuti nei verbali di
accertamento dell'abuso” (cfr., ex multis,
da ultimo, Cons. Stato, sezione quarta, 14.02.2012,
n. 703, sezione quinta, 11.01.2011, n. 79; Tar
Campania, questa sesta sezione, 07.12.2011, n. 5716,
sezione settima, 22.02.2012, n. 885; Tar Lazio,
Roma, sezione prima, 10.02.2012, n. 1358), sicché,
in definitiva: “una volta accertata la
violazione, la sanzione va doverosamente applicata”
(Cons. Stato, sezione quinta, sentenza 07.04.2011 n.
2159) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 18.05.2012 n. 2286 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’atto di autotutela deve sempre
poggiare su ragioni di pubblico interesse.
E' possibile, in materia di contratti della P.A.,
non procedere alla aggiudicazione (definitiva o
provvisoria) di una gara ma tale potere deve trovare
fondamento, in via generale, in specifiche ragioni
di pubblico interesse. Occorre quindi che nell'atto
dell'amministrazione siano chiaramente indicate (e
non risultino manifestamente irragionevoli) le
ragioni di pubblico interesse (attuale e concreto)
che hanno determinato l'adozione dell'atto di
autotutela e che tali ragioni siano prevalenti
rispetto agli altri interessi militanti in favore
della conservazione degli atti oggetto del
provvedimento di revoca.
Ne consegue che, in questa occasione, secondo i
giudici del Consiglio di Stato l'azienda non poteva
limitarsi ad evocare generiche difficoltà
finanziarie per giustificare (dopo l'aggiudicazione
provvisoria) l'annullamento/revoca della gara in
questione ma doveva anche dimostrare che tali
difficoltà erano tali da non consentire nemmeno
l'esecuzione dei servizi di gestione e manutenzione
oggetto della gara che non appaiono meno importanti
di altri servizi che la stessa azienda comunque
assicura ed intende assicurare.
Nella vicenda in commento, inoltre, l’atto di
autotutela in questione (che in parte può essere
qualificato come atto di annullamento per vizi di
legittimità ed in parte come atto di revoca per
ragioni di opportunità) risultava comunque viziato
anche per il mancato rispetto delle garanzie
procedimentali previste dalla legge n. 241 del 1990.
Infatti, l'esercizio dell'autotutela da parte della
Pubblica amministrazione richiede il previo avviso
di avvio del procedimento, perché l'interessato deve
essere messo in condizione di argomentare, in
contraddittorio con l'Amministrazione, sulla
insussistenza di un prevalente interesse alla
rimozione dell'atto ritenuto illegittimo o
inopportuno (fra le più recenti: Consiglio di Stato,
sez. IV, n. 1112 del 28.02.2012) (commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it -
Consiglio di Stato,
Sez. III,
sentenza 15.05.2012 n. 2805
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
fini del rilascio della concessione in sanatoria, le
opere possono considerarsi “completate
funzionalmente” allorquando siano state realizzate
le tramezzature divisorie, le aperture delle
relative finestrature e la predisposizione degli
allacci agli impianti tecnologici di servizio, che
sole possono definire la tipologia edilizia e d'uso
per le quali è stato richiesto il condono, cosa che
nella specie –come detto- manca del tutto.
Ulteriore conseguenza di tale stato di fatto è che,
in assenza di completamento funzionale, nessun
silenzio-assenso si forma, alla scadenza del
biennio, sulla domanda di condono.
Inoltre rileva il Collegio che, ai fini del rilascio
della concessione in sanatoria, le opere possono
considerarsi “completate funzionalmente”
allorquando siano state realizzate le tramezzature
divisorie, le aperture delle relative finestrature e
la predisposizione degli allacci agli impianti
tecnologici di servizio, che sole possono definire
la tipologia edilizia e d'uso per le quali è stato
richiesto il condono (Consiglio Stato sez. V,
23.05.2005, n. 2578), cosa che nella specie –come
detto- manca del tutto.
Ulteriore conseguenza di tale stato di fatto è che,
in assenza di completamento funzionale, nessun
silenzio-assenso si forma, alla scadenza del
biennio, sulla domanda di condono (TAR Campania
Napoli, sez. IV, 06.04.2011 n. 1928; Consiglio Stato
sez. V 04.10.2007 n. 5153) (TAR Campania-Napoli,
Sez. IV,
sentenza 14.05.2012 n. 2236 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non
devono essere preceduti dalla comunicazione
dell’avvio del procedimento, perché trattasi di
provvedimenti tipizzati e vincolati, che
presuppongono un mero accertamento tecnico sulla
consistenza delle opere realizzate e sul carattere
non assentito delle medesime.
Inoltre, seppure si aderisse all’orientamento che
ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli
ordini di demolizione, troverebbe comunque
applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies,
comma 2, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla
legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che
“non è annullabile il provvedimento adottato in
violazione di norme sul procedimento … qualora, per
la natura vincolata del provvedimento, sia palese
che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato”.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto
dovuto in presenza di opere realizzate in assenza
del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame
risulta palese che il contenuto dispositivo
dell’impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe
potuto essere diverso se fosse stata data ai
ricorrenti comunicazione dell’avvio del
procedimento.
La comunicazione ex art. 27, comma 2, d.P.R. n. 380
del 2001 è funzionale esclusivamente alle
Amministrazioni interessate alla tutela dei luoghi
di pregio paesaggistico e dalla sua effettuazione
deriva l'ulteriore possibilità di intervento delle
predette ai fini demolitori; pertanto, la sua
omissione è ininfluente sulla legittimità
dell'ordinanza di demolizione degli abusi edilizi
realizzati.
---------------
La natura interamente vincolata del provvedimento di
demolizione esclude la necessaria ponderazione di
interessi diversi da quelli pubblici tutelati e non
richiede motivazione ulteriore rispetto alla
dichiarata abusività. Anche la pretesa
urbanizzazione dell’area è del tutto irrilevante e
non rende legittimo l’abuso. Né occorre
l’indicazione specifica delle norme urbanistiche
violate, una volta chiarito –in base alla natura
delle opere– che occorreva il permesso di costruire
e che questo non è stato concesso.
Risulta infondata la censura incentrata dell’omessa
comunicazione dell’avvio del procedimento in quanto
i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, non
devono essere preceduti dalla comunicazione
dell’avvio del procedimento (ex multis, TAR
Campania Napoli, Sez. IV, 12.04.2005, n. 3780;
13.01.2006, n. 651), perché trattasi di
provvedimenti tipizzati e vincolati, che
presuppongono un mero accertamento tecnico sulla
consistenza delle opere realizzate e sul carattere
non assentito delle medesime.
Inoltre, seppure si aderisse all’orientamento che
ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli
ordini di demolizione, troverebbe comunque
applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies,
comma 2, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla
legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non
è annullabile il provvedimento adottato in
violazione di norme sul procedimento … qualora, per
la natura vincolata del provvedimento, sia palese
che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato”.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto
dovuto in presenza di opere realizzate in assenza
del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame
risulta palese che il contenuto dispositivo
dell’impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe
potuto essere diverso se fosse stata data ai
ricorrenti comunicazione dell’avvio del
procedimento.
La comunicazione ex art. 27, comma 2, d.P.R. n. 380
del 2001 è funzionale esclusivamente alle
Amministrazioni interessate alla tutela dei luoghi
di pregio paesaggistico e dalla sua effettuazione
deriva l'ulteriore possibilità di intervento delle
predette ai fini demolitori; pertanto, la sua
omissione è ininfluente sulla legittimità
dell'ordinanza di demolizione degli abusi edilizi
realizzati (Tar Campania, Napoli, III, n.
3418/2010).
Non può trovare accoglimento neppure il motivo
incentrato sull’omessa ponderazione dell’interesse
pubblico con l’interesse del ricorrente, che risulta
irrimediabilmente vulnerato dall’adozione del
provvedimento impugnato. Infatti, secondo la
giurisprudenza (TAR Campania Napoli, Sez. VI,
05.04.2005, n. 3312 Cons. Stato, Sez. IV,
27.04.2004, n. 2529) la natura interamente vincolata
del provvedimento di demolizione esclude la
necessaria ponderazione di interessi diversi da
quelli pubblici tutelati e non richiede motivazione
ulteriore rispetto alla dichiarata abusività. Anche
la pretesa urbanizzazione dell’area è del tutto
irrilevante e non rende legittimo l’abuso. Né
occorre l’indicazione specifica delle norme
urbanistiche violate, una volta chiarito –in base
alla natura delle opere– che occorreva il permesso
di costruire e che questo non è stato concesso (TAR
Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 14.05.2012 n. 2230 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Occorre
distinguere il concetto di pertinenza previsto dal
diritto civile dal più ristretto concetto di
pertinenza inteso in senso urbanistico, che non
trova applicazione in relazione a quelle costruzioni
che, pur potendo essere qualificate come beni
pertinenziali secondo la normativa privatistica,
assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad
altra costruzione, con conseguente loro
assoggettamento al regime del permesso di costruire.
Ne consegue che, tenuto conto delle caratteristiche
dell’intervento abusivo realizzato dalla ricorrente
risultanti dalla motivazione dell’ordine di
demolizione, il predetto intervento -non essendo
coessenziale ad un bene principale e potendo essere
successivamente utilizzato anche in modo autonomo e
separato- non può ritenersi pertinenza ai fini
urbanistici, sì da escludere che lo stesso sia
sottoposto al preventivo rilascio del permesso di
costruire.
Allo stesso modo, è del tutto irrilevante la pretesa
modestia delle opere realizzate, una volta accertato
che per la realizzazione delle stesse occorreva il
permesso di costruire
Risulta infondata la censura incentrata sulla natura
pertinenziale delle opere abusive in questione.
Infatti secondo una consolidata giurisprudenza (ex
multis TAR Lombardia Milano, Sez. II,
11.02.2005, n. 365; TAR Lazio, Sez. II, 04.02.2005,
n. 1036) occorre distinguere il concetto di
pertinenza previsto dal diritto civile dal più
ristretto concetto di pertinenza inteso in senso
urbanistico, che non trova applicazione in relazione
a quelle costruzioni che, pur potendo essere
qualificate come beni pertinenziali secondo la
normativa privatistica, assumono tuttavia una
funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con
conseguente loro assoggettamento al regime del
permesso di costruire.
Ne consegue che, tenuto conto delle caratteristiche
dell’intervento abusivo realizzato dalla ricorrente
risultanti dalla motivazione dell’ordine di
demolizione, il predetto intervento -non essendo
coessenziale ad un bene principale e potendo essere
successivamente utilizzato anche in modo autonomo e
separato- non può ritenersi pertinenza ai fini
urbanistici, sì da escludere che lo stesso sia
sottoposto al preventivo rilascio del permesso di
costruire.
Allo stesso modo, è del tutto irrilevante la pretesa
modestia delle opere realizzate, una volta accertato
che per la realizzazione delle stesse occorreva il
permesso di costruire (TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 14.05.2012 n. 2230 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non
devono essere preceduti dalla comunicazione
dell’avvio del procedimento, perché trattasi di
provvedimenti tipizzati e vincolati, che
presuppongono un mero accertamento tecnico sulla
consistenza delle opere realizzate e sul carattere
non assentito delle medesime. Inoltre, seppure si
aderisse all’orientamento che ritiene necessaria
tale comunicazione anche per gli ordini di
demolizione, troverebbe comunque applicazione nel
caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge
n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005),
nella parte in cui dispone che “non è annullabile il
provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento … qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato”. Infatti, posto che
l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di
opere realizzate in assenza del prescritto titolo
abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il
contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di
demolizione non avrebbe potuto essere diverso se
fosse stata data ai ricorrenti comunicazione
dell’avvio del procedimento.
La comunicazione ex art. 27, comma 2, d.P.R. n. 380
del 2001 è funzionale esclusivamente alle
Amministrazioni interessate alla tutela dei luoghi
di pregio paesaggistico e dalla sua effettuazione
deriva l'ulteriore possibilità di intervento delle
predette ai fini demolitori; pertanto, la sua
omissione è ininfluente sulla legittimità
dell'ordinanza di demolizione degli abusi edilizi
realizzati.
L’Amministrazione non è tenuta a valutare,
d’ufficio, la legittimità urbanistica delle opere
realizzate, in mancanza di una richiesta di permesso
di costruire in sanatoria da parte del ricorrente.
La natura interamente vincolata del provvedimento di
demolizione esclude la necessaria ponderazione di
interessi diversi da quelli pubblici tutelati e non
richiede motivazione ulteriore rispetto alla
dichiarata abusività.
È infondata la prima censura: i provvedimenti
repressivi degli abusi edilizi, non devono essere
preceduti dalla comunicazione dell’avvio del
procedimento (ex multis, TAR Campania Napoli,
Sez. IV, 12.04.2005, n. 3780; 13.01.2006, n. 651),
perché trattasi di provvedimenti tipizzati e
vincolati, che presuppongono un mero accertamento
tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e
sul carattere non assentito delle medesime. Inoltre,
seppure si aderisse all’orientamento che ritiene
necessaria tale comunicazione anche per gli ordini
di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel
caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge
n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005),
nella parte in cui dispone che “non è annullabile
il provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento … qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato”. Infatti, posto che
l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di
opere realizzate in assenza del prescritto titolo
abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il
contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di
demolizione non avrebbe potuto essere diverso se
fosse stata data ai ricorrenti comunicazione
dell’avvio del procedimento.
La comunicazione ex art. 27, comma 2, d.P.R. n. 380
del 2001 è funzionale esclusivamente alle
Amministrazioni interessate alla tutela dei luoghi
di pregio paesaggistico e dalla sua effettuazione
deriva l'ulteriore possibilità di intervento delle
predette ai fini demolitori; pertanto, la sua
omissione è ininfluente sulla legittimità
dell'ordinanza di demolizione degli abusi edilizi
realizzati (Tar Campania, Napoli, III, n.
3418/2010).
Altrettanto pacifico è che l’Amministrazione non sia
tenuta a valutare, d’ufficio, la legittimità
urbanistica delle opere realizzate, in mancanza di
una richiesta di permesso di costruire in sanatoria
da parte del ricorrente (TAR Lazio, Roma. Sez. II,
n. 13652/2006).
Non può trovare accoglimento neppure il motivo
incentrato sull’omessa ponderazione dell’interesse
pubblico con l’interesse del ricorrente, che risulta
irrimediabilmente vulnerato dall’adozione del
provvedimento impugnato. Infatti, secondo la
giurisprudenza (TAR Campania Napoli, Sez. VI,
05.04.2005, n. 3312 Cons. Stato, Sez. IV,
27.04.2004, n. 2529) la natura interamente vincolata
del provvedimento di demolizione esclude la
necessaria ponderazione di interessi diversi da
quelli pubblici tutelati e non richiede motivazione
ulteriore rispetto alla dichiarata abusività (TAR
Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 14.05.2012 n. 2229 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi dell’art. 15, co. 2, d.P.R. n. 380/2001, “Il
termine per l'inizio dei lavori non può essere
superiore ad un anno dal rilascio del titolo”.
Dunque, non è previsto un termine “minimo” a favore
del privato per l’inizio dei lavori; la legge
prevede solo un termine “massimo”, nel senso che
l’Amministrazione non può, nel permesso di
costruire, fissare un termine superiore ad un anno
per l’inizio dei lavori.
Il "cantieramento" dell'intervento deve concretarsi
nell'effettivo inizio dei lavori tramite impianto
del cantiere, secondo i criteri ordinariamente
utilizzati per rilevare il rispetto dei termini di
inizio e fine dei lavori di cui alla concessione
edilizia, previsti dall'art. 15, d.P.R. n. 380 del
2001.
La mera esecuzione di lavori di sbancamento è, di
per sé, inidonea per ritenere soddisfatto il
presupposto dell'effettivo "inizio dei lavori" entro
il termine di un anno dal rilascio del permesso di
costruire a pena di decadenza del titolo abilitativo
(art. 15, d.P.R. 06.06.2001, n. 380), essendo
necessario, al fine di escludere la configurabilità
del reato di costruzione abusiva, che lo sbancamento
sia accompagnato dalla compiuta organizzazione del
cantiere e da altri indizi idonei a confermare
l'effettivo intendimento del titolare del permesso
di costruire di realizzare l'opera assentita (in
motivazione la Corte ha precisato che detti indizi
consistono nell'impianto del cantiere,
nell'innalzamento di elementi portanti,
nell'elevazione di muri e nell'esecuzione di scavi
coordinati al gettito delle fondazioni del
costruendo edificio).
Ai sensi dell’art. 15, co. 2, d.P.R. n. 380/2001, “Il
termine per l'inizio dei lavori non può essere
superiore ad un anno dal rilascio del titolo”.
Dunque, non è previsto un termine “minimo” a
favore del privato per l’inizio dei lavori; la legge
prevede solo un termine “massimo”, nel senso
che l’Amministrazione non può, nel permesso di
costruire, fissare un termine superiore ad un anno
per l’inizio dei lavori. Ne consegue che
l’Amministrazione ben può fissare un termine
inferiore ad un anno; nel caso di specie, la parte
ricorrente contesta la legittimità del termine in
concreto concesso perché inferiore ad un anno, ma
tale censura –atteso la lettera della legge– deve
ritenersi infondata.
Soprattutto, anche ammesso il termine in concreto
concesso fosse troppo esiguo, e dunque contestabile
sotto i profili della ragionevolezza e della
correttezza che deve comunque caratterizzare i
rapporti tra p.a. e soggetto privato, il
provvedimento impugnato deve comunque ritenersi
sostanzialmente non censurabile, ai sensi dell’art.
21-octies, co. 2, l. n. 241/1990.
Infatti, l’Amministrazione –pur avendo fissato un
termine di un solo giorno per l’inizio dei lavori–
ha eseguito il controllo oltre un anno dopo (in data
24.06.2010), riscontrando che non solo non erano
iniziati i lavori, ma che l’area era utilizzata come
parcheggio e ricoveri di auto e camion (tanto che
l’area era stata pavimentata): il che significa che,
quand’anche fosse stato concesso un termine di un
anno, la ricorrente non lo avrebbe comunque
rispettato; e che, anzi, la ricorrente non ha avuto
alcuna seria intenzione di iniziare davvero i lavori
autorizzati. In altri termini, riscontrato che
–oltre un anno dopo il rilascio del permesso di
costruire– i lavori non erano iniziati, né avrebbero
potuto iniziare in un prossimo futuro (atteso il
diverso utilizzo dell’area), non si vede come
l’Amministrazione potesse non adottare un
provvedimento di decadenza del permesso di
costruire.
Poiché non vi è stato alcun effettivo inizio dei
lavori, appare superfluo chiarire cosa debba
intendersi per “cantieramento”; comunque,
anche sul tale punto devono ritenersi infondate le
osservazioni di parte ricorrente: come già ritenuto
da questa Sezione, “Il "cantieramento"
dell'intervento (in relazione al quale inizia a
decorrere il termine quinquennale di cui all'art.
125 della Variante generale al p.r.g. del Comune di
Napoli) deve concretarsi nell'effettivo inizio dei
lavori tramite impianto del cantiere, secondo i
criteri ordinariamente utilizzati per rilevare il
rispetto dei termini di inizio e fine dei lavori di
cui alla concessione edilizia, previsti dall'art.
15, d.P.R. n. 380 del 2001” (Tar Campania,
Napoli, sez. IV, n. 28002/2010).
Anche secondo la Cassazione penale “La mera
esecuzione di lavori di sbancamento è, di per sé,
inidonea per ritenere soddisfatto il presupposto
dell'effettivo "inizio dei lavori" entro il termine
di un anno dal rilascio del permesso di costruire a
pena di decadenza del titolo abilitativo (art. 15,
d.P.R. 06.06.2001, n. 380), essendo necessario, al
fine di escludere la configurabilità del reato di
costruzione abusiva, che lo sbancamento sia
accompagnato dalla compiuta organizzazione del
cantiere e da altri indizi idonei a confermare
l'effettivo intendimento del titolare del permesso
di costruire di realizzare l'opera assentita (in
motivazione la Corte ha precisato che detti indizi
consistono nell'impianto del cantiere,
nell'innalzamento di elementi portanti,
nell'elevazione di muri e nell'esecuzione di scavi
coordinati al gettito delle fondazioni del
costruendo edificio)”: così Cass. Pen. Sez. III,
n. 7114/2010 (TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 14.05.2012 n. 2225 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi dell’art. 31, comma 2, del del D.P.R. n.
380/2001, è prevista la sanzione della demolizione
per gli interventi edilizi eseguiti in assenza del
prescritto permesso di costruire.
Pertanto, l’Amministrazione ha correttamente
ordinato la demolizione delle opere in questione,
trattandosi di un intervento edilizio abusivo che ha
determinato la realizzazione di nuovi volumi e nuove
superfici.
Si ricordi, tra l’altro, che la realizzazione di un
balcone esige, per costante giurisprudenza di questa
Sezione, il permesso di costruire.
---------------
I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, non
devono essere preceduti dalla comunicazione
dell’avvio del procedimento, perché trattasi di
provvedimenti tipizzati e vincolati, che
presuppongono un mero accertamento tecnico sulla
consistenza delle opere realizzate e sul carattere
non assentito delle medesime; inoltre, seppure si
aderisse all’orientamento che ritiene necessaria
tale comunicazione anche per gli ordini di
demolizione, troverebbe comunque applicazione nel
caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge
n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005),
nella parte in cui dispone che “non è annullabile il
provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento … qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato”.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto
dovuto in presenza di opere realizzate in assenza
del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame
risulta palese che il contenuto dispositivo
dell’impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe
potuto essere diverso se fosse stata data ai
ricorrenti comunicazione dell’avvio del
procedimento.
---------------
La natura interamente vincolata del provvedimento di
demolizione esclude la necessaria ponderazione di
interessi diversi da quelli pubblici tutelati e non
richiede motivazione ulteriore rispetto alla
dichiarata abusività.
---------------
Dal chiaro tenore letterale dell’articolo 31, comma
3, del D.P.R. n. 380/2001 -secondo il quale “se il
responsabile dell’abuso non provvede alla
demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi
nel termine di novanta giorni dall’ingiunzione, il
bene e l’area di sedime, nonché quella necessaria,
secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla
realizzazione di opere analoghe a quelle abusive
sono acquisiti di diritto gratuitamente al
patrimonio del comune”- si desume che il
provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio
comunale di un manufatto abusivo rappresenta un atto
dovuto conseguente alla mera inottemperanza da parte
del proprietario alla diffida a demolire il
manufatto abusivo e, quindi, è sufficientemente che
la motivazione dello stesso si riferisca a tale
circostanza di fatto
È in primo luogo infondata la censura incentrata
sulla non necessità del permesso di costruire per le
opere realizzate. Alla ricorrente sono infatti
contestate la realizzazione, sul terrazzo di
copertura, di un manufatto in muratura di mt. 27 x
2,20 di altezza completo di solaio di copertura in
putrelle e tavelloni, diviso in due ambienti
provvisti di due vani luce e di uno sporto di m.
3.00 x 1,00 antistante la scala d’accesso al
manufatto, copertura in putrelle e tavelloni; nonché
di uno sporto di m. 3.00 x 1,00 previa
trasformazione di un vano finestra in un vano di
passaggio, provvisto di pavimentazione e ringhiera
protettiva.
Si tratta, con tutta evidenza, di interventi di
nuova costruzione, per i quali è prescritto il
permesso di costruire; e, ai sensi dell’art. 31,
comma 2, del del D.P.R. n. 380/2001, è prevista la
sanzione della demolizione per gli interventi
edilizi eseguiti in assenza del prescritto permesso
di costruire. Pertanto, l’Amministrazione ha
correttamente ordinato la demolizione delle opere in
questione, trattandosi di un intervento edilizio
abusivo che ha determinato la realizzazione di nuovi
volumi e nuove superfici. Si ricordi, tra l’altro,
che la realizzazione di un balcone esige, per
costante giurisprudenza di questa Sezione, il
permesso di costruire (Tar Campania, Napoli, sez.
IV, n. 4788/2009).
È destituita di ogni fondamento la censura
incentrata dell’omessa comunicazione dell’avvio del
procedimento in quanto i provvedimenti repressivi
degli abusi edilizi, non devono essere preceduti
dalla comunicazione dell’avvio del procedimento (ex
multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV,
12.04.2005, n. 3780; 13.01.2006, n. 651), perché
trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che
presuppongono un mero accertamento tecnico sulla
consistenza delle opere realizzate e sul carattere
non assentito delle medesime; inoltre, seppure si
aderisse all’orientamento che ritiene necessaria
tale comunicazione anche per gli ordini di
demolizione, troverebbe comunque applicazione nel
caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge
n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005),
nella parte in cui dispone che “non è annullabile
il provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento … qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato”. Infatti, posto che
l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di
opere realizzate in assenza del prescritto titolo
abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il
contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di
demolizione non avrebbe potuto essere diverso se
fosse stata data ai ricorrenti comunicazione
dell’avvio del procedimento.
Non può trovare accoglimento neppure il motivo
incentrato sull’omessa ponderazione dell’interesse
pubblico con l’interesse del ricorrente, che risulta
irrimediabilmente vulnerato dall’adozione del
provvedimento impugnato. Infatti, secondo la
giurisprudenza (TAR Campania Napoli, Sez. VI,
05.04.2005, n. 3312 Cons. Stato, Sez. IV,
27.04.2004, n. 2529) la natura interamente vincolata
del provvedimento di demolizione esclude la
necessaria ponderazione di interessi diversi da
quelli pubblici tutelati e non richiede motivazione
ulteriore rispetto alla dichiarata abusività.
Risulta infondata la censura incentrata sulla
assenza dei presupposti necessari per disporre
l’acquisizione gratuita del bene al patrimonio
comunale. Infatti, dal chiaro tenore letterale
dell’articolo 31, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001
-secondo il quale “se il responsabile dell’abuso
non provvede alla demolizione e al ripristino dello
stato dei luoghi nel termine di novanta giorni
dall’ingiunzione, il bene e l’area di sedime, nonché
quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni
urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a
quelle abusive sono acquisiti di diritto
gratuitamente al patrimonio del comune”- si
desume che il provvedimento di acquisizione gratuita
al patrimonio comunale di un manufatto abusivo
rappresenta un atto dovuto conseguente alla mera
inottemperanza da parte del proprietario alla
diffida a demolire il manufatto abusivo (TAR Puglia
Bari, Sez. I, 14.04.2003, n. 1679) e, quindi, è
sufficientemente che la motivazione dello stesso si
riferisca a tale circostanza di fatto (TAR Puglia
Lecce, Sez. I, 09.06.2004, n. 3541). In particolare,
ai fini della legittimità dell’ordinanza di
demolizione non è necessaria l’indicazione dei dati
catastali del bene (TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 14.05.2012 n. 2224 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non
devono essere preceduti dalla comunicazione
dell’avvio del procedimento, perché trattasi di
provvedimenti tipizzati e vincolati, che
presuppongono un mero accertamento tecnico sulla
consistenza delle opere realizzate e sul carattere
non assentito delle medesime; e, seppure si aderisse
all’orientamento che ritiene necessaria tale
comunicazione anche per gli ordini di demolizione,
troverebbe comunque applicazione nel caso in esame
l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990
(introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in
cui dispone che “non è annullabile il provvedimento
adottato in violazione di norme sul procedimento …
qualora, per la natura vincolata del provvedimento,
sia palese che il suo contenuto dispositivo non
avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato”.
---------------
L’attività di repressione degli abusi edilizi,
essendo collegata alla tutela dell’interesse
pubblico all’ordinato sviluppo del territorio, così
come delineato nello strumento urbanistico e nella
regolamentazione edilizia vigenti, non è soggetta a
termini di decadenza o di prescrizione e può essere
esercitata anche a notevole distanza di tempo dalla
commissione dell’abuso.
E' infondata la censura incentrata dell’omessa
comunicazione dell’avvio del procedimento in quanto
i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, non
devono essere preceduti dalla comunicazione
dell’avvio del procedimento (ex multis, TAR
Campania Napoli, Sez. IV, 12.04.2005, n. 3780;
13.01.2006, n. 651), perché trattasi di
provvedimenti tipizzati e vincolati, che
presuppongono un mero accertamento tecnico sulla
consistenza delle opere realizzate e sul carattere
non assentito delle medesime; e, seppure si aderisse
all’orientamento che ritiene necessaria tale
comunicazione anche per gli ordini di demolizione,
troverebbe comunque applicazione nel caso in esame
l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990
(introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in
cui dispone che “non è annullabile il
provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento … qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato”.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto
dovuto in presenza di opere realizzate in assenza
del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame
risulta palese che il contenuto dispositivo
dell’impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe
potuto essere diverso se fosse stata data ai
ricorrenti comunicazione dell’avvio del
procedimento.
---------------
Risulta infondata la
censura incentrata sul lungo tempo trascorso dalla
realizzazione delle opere abusive in questione
perché, secondo la prevalente giurisprudenza (ex
multis, Cons. Stato, Sez. IV, 27.04.2004, n.
2529), l’attività di repressione degli abusi
edilizi, essendo collegata alla tutela
dell’interesse pubblico all’ordinato sviluppo del
territorio, così come delineato nello strumento
urbanistico e nella regolamentazione edilizia
vigenti, non è soggetta a termini di decadenza o di
prescrizione e può essere esercitata anche a
notevole distanza di tempo dalla commissione
dell’abuso
(TAR
Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 14.05.2012 n. 2220 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non
devono essere preceduti dalla comunicazione
dell’avvio del procedimento, perché trattasi di
provvedimenti tipizzati e vincolati, che
presuppongono un mero accertamento tecnico sulla
consistenza delle opere realizzate e sul carattere
non assentito delle medesime.
Seppure si aderisse all’orientamento che ritiene
necessaria tale comunicazione anche per gli ordini
di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel
caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge
n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005),
nella parte in cui dispone che “non è annullabile il
provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento … qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato”.
---------------
La natura interamente vincolata del provvedimento di
demolizione esclude la necessaria ponderazione di
interessi diversi da quelli pubblici tutelati e non
richiede motivazione ulteriore rispetto alla
dichiarata abusività.
È destituita di ogni fondamento la censura
incentrata dell’omessa comunicazione dell’avvio del
procedimento in quanto:
- i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non
devono essere preceduti dalla comunicazione
dell’avvio del procedimento (ex multis, TAR
Campania Napoli, Sez. IV, 12.04.2005, n. 3780;
13.01.2006, n. 651), perché trattasi di
provvedimenti tipizzati e vincolati, che
presuppongono un mero accertamento tecnico sulla
consistenza delle opere realizzate e sul carattere
non assentito delle medesime;
- seppure si aderisse all’orientamento che ritiene
necessaria tale comunicazione anche per gli ordini
di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel
caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge
n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005),
nella parte in cui dispone che “non è annullabile
il provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento … qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato”. Infatti, posto che
l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di
opere realizzate in assenza del prescritto titolo
abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il
contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di
demolizione non avrebbe potuto essere diverso se
fosse stata data ai ricorrenti comunicazione
dell’avvio del procedimento.
Infine, non può trovare accoglimento neppure il
motivo incentrato sull’omessa ponderazione
dell’interesse pubblico con l’interesse del
ricorrente, che risulta irrimediabilmente vulnerato
dall’adozione del provvedimento impugnato. Infatti,
secondo la giurisprudenza (TAR Campania Napoli, Sez.
VI, 05.04.2005, n. 3312 Cons. Stato, Sez. IV,
27.04.2004, n. 2529) la natura interamente vincolata
del provvedimento di demolizione esclude la
necessaria ponderazione di interessi diversi da
quelli pubblici tutelati e non richiede motivazione
ulteriore rispetto alla dichiarata abusività (TAR
Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 14.05.2012 n. 2215 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Fermo
il disposto del primo comma dell'art. 40 e con
l'esclusione dei casi di cui all'art. 33, decorso il
termine perentorio di 24 mesi dalla presentazione
della domanda, quest'ultima si intende accolta ove
l'interessato provveda al pagamento di tutte le
somme eventualmente dovute a conguaglio ed alla
presentazione all'ufficio tecnico erariale della
documentazione necessaria all'accatastamento.
Trascorsi 36 mesi si prescrive l'eventuale diritto
al conguaglio o al rimborso spettanti.
---------------
Differenziandosi il tacito accoglimento della
domanda di condono dalla decisione esplicita solo
per l'aspetto formale, la formazione del
silenzio-assenso sulla domanda di sanatoria degli
abusi edilizi richiede, quale presupposto
essenziale, oltre al completo pagamento delle somme
dovute a titolo di oblazione, che siano stati
integralmente assolti dall'interessato gli oneri di
documentazione, che si risolvono evidentemente nella
sussistenza del requisito sostanziale, relativi al
tempo di ultimazione dei lavori, all'ubicazione,
alla consistenza delle opere e ad ogni altro
elemento rilevante affinché possano essere utilmente
esercitati i poteri di verifica dell'Amministrazione
comunale.
Conseguentemente, il termine per la formazione del
silenzio-assenso sulla domanda di rilascio della
concessione in sanatoria non decorre quando manchino
i presupposti di fatto e di diritto previsti dalla
norma e/o le opere non siano suscettibili di
sanatoria, nonché qualora la domanda stessa sia
carente della documentazione prevista dalla legge.
Ai sensi dell’art. 35, comma 18, l. 47/1985, “Fermo
il disposto del primo comma dell'art. 40 e con
l'esclusione dei casi di cui all'art. 33, decorso il
termine perentorio di 24 mesi dalla presentazione
della domanda, quest'ultima si intende accolta ove
l'interessato provveda al pagamento di tutte le
somme eventualmente dovute a conguaglio ed alla
presentazione all'ufficio tecnico erariale della
documentazione necessaria all'accatastamento.
Trascorsi 36 mesi si prescrive l'eventuale diritto
al conguaglio o al rimborso spettanti”.
Tuttavia, la giurisprudenza ha precisato che “Differenziandosi
il tacito accoglimento della domanda di condono
dalla decisione esplicita solo per l'aspetto
formale, la formazione del silenzio-assenso sulla
domanda di sanatoria degli abusi edilizi richiede,
quale presupposto essenziale, oltre al completo
pagamento delle somme dovute a titolo di oblazione,
che siano stati integralmente assolti
dall'interessato gli oneri di documentazione, che si
risolvono evidentemente nella sussistenza del
requisito sostanziale, relativi al tempo di
ultimazione dei lavori, all'ubicazione, alla
consistenza delle opere e ad ogni altro elemento
rilevante affinché possano essere utilmente
esercitati i poteri di verifica dell'Amministrazione
comunale.
Conseguentemente, il termine per la formazione del
silenzio-assenso sulla domanda di rilascio della
concessione in sanatoria non decorre quando manchino
i presupposti di fatto e di diritto previsti dalla
norma e/o le opere non siano suscettibili di
sanatoria, nonché qualora la domanda stessa sia
carente della documentazione prevista dalla legge”
(Tar Puglia, Lecce, III, n. 16/2012, tra le tante)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 14.05.2012 n. 2211 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’esercizio
del potere repressivo di un abuso edilizio
consistente nell’esecuzione di un’opera in assenza
del titolo abilitativo costituisce atto dovuto, per
il quale è “in re ipsa” l'interesse pubblico alla
sua rimozione.
Tant’è che, accertata l'esecuzione di opere in
assenza di concessione ovvero in difformità totale
dal titolo abilitativo, non costituisce onere del
Comune verificare la sanabilità delle opere in sede
di vigilanza sull'attività edilizia, né accertare
l’astratta compatibilità del manufatto realizzato
con la normativa vigente o con la l’area sulla quale
insiste, che l’istante assume come “completamente
edificata”.
---------------
In presenza di opere abusive, l'ordine di
demolizione costituisce atto dovuto, per cui la
possibilità di non procedere alla rimozione delle
parti abusive (quando ciò sia pregiudizievole per
quelle legittime) costituisce solo un'eventualità
della fase esecutiva, subordinato alla circostanza
dell'impossibilità del ripristino dello stato dei
luoghi.
Nello schema giuridico delineato dall’art. 31 del
d.P.R. 380/2001 non vi è spazio per apprezzamenti
discrezionali, atteso che l’esercizio del potere
repressivo di un abuso edilizio consistente
nell’esecuzione di un’opera in assenza del titolo
abilitativo costituisce atto dovuto, per il quale è
“in re ipsa” l'interesse pubblico alla sua
rimozione (cfr. TAR Campania, Sez. IV, 24.09.2002,
n. 5556; 04.07.2001, n. 3071; Consiglio Stato, sez.
IV, 27.04.2004, n. 2529).
Tant’è che, accertata l'esecuzione di opere in
assenza di concessione ovvero in difformità totale
dal titolo abilitativo, contrariamente a quanto
dedotto dalla ricorrente, non costituisce onere del
Comune verificare la sanabilità delle opere in sede
di vigilanza sull'attività edilizia, né accertare
l’astratta compatibilità del manufatto realizzato
con la normativa vigente o con la l’area sulla quale
insiste, che l’istante assume come “completamente
edificata” (cfr. TAR Campania, Sez. IV,
24.09.2002, n. 5556; TAR Lazio, sez. II-ter,
21.06.1999, n. 1540).
In definitiva, l’atto può ritenersi sufficientemente
motivato per effetto della stessa descrizione
dell’abuso accertato, presupposto giustificativo
necessario e sufficiente a fondare la spedizione
della misura sanzionatoria.
---------------
La conclamata abusività dell’opera, riconducibile
alle fattispecie in contestazione (art. 31 del
d.P.R. 380/2001) per la creazione di nuovi volumi
suscettivi di autonoma utilizzabilità, imponeva
pertanto l’adozione della disposta misura repressiva
senza che, come preteso dall’esponente il Comune
dovesse farsi carico di verificare la possibilità di
dare concreta esecuzione al provvedimento: è,
infatti, diffuso in giurisprudenza il principio,
condiviso dal Collegio, secondo cui in presenza di
opere abusive, l'ordine di demolizione costituisce
atto dovuto, per cui la possibilità di non procedere
alla rimozione delle parti abusive (quando ciò sia
pregiudizievole per quelle legittime) costituisce
solo un'eventualità della fase esecutiva,
subordinato alla circostanza dell'impossibilità del
ripristino dello stato dei luoghi (cfr. Consiglio
Stato, sez. V, 21.05.1999, n. 587)
(TAR
Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 14.05.2012 n. 2207 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Deve
escludersi che la violazione delle norme in tema di
partecipazione al procedimento dia luogo
all'annullamento dell'atto ogni qual volta risulti
che l'esito del procedimento non sarebbe stato
differente, anche se vi fosse stata la
partecipazione dell'interessato, il che accade
quando il quadro normativo di riferimento e gli
elementi di fatto raccolti nel corso
dell’istruttoria non presentano margini di
incertezza sufficientemente apprezzabili e
l'eventuale annullamento del provvedimento finale
per accertata violazione dell'obbligo di formale
comunicazione non priverebbe l'Amministrazione del
potere di adottare un nuovo provvedimento di
contenuto analogo.
Al riguardo è possibile
osservare che secondo un orientamento
giurisprudenziale (di concezione funzionale e non
meramente formale dell'avvio del procedimento)
venutosi ad affermare ancor prima dell’introduzione
dell'art. 21-octies della legge 07.08.1990, n. 241,
deve escludersi che la violazione delle norme in
tema di partecipazione al procedimento dia luogo
all'annullamento dell'atto ogni qual volta risulti
che l'esito del procedimento non sarebbe stato
differente, anche se vi fosse stata la
partecipazione dell'interessato, il che accade
quando il quadro normativo di riferimento e gli
elementi di fatto raccolti nel corso
dell’istruttoria non presentano margini di
incertezza sufficientemente apprezzabili (come è nel
caso di specie in virtù di quanto è stato
approfonditamente illustrato in precedenza) e
l'eventuale annullamento del provvedimento finale
per accertata violazione dell'obbligo di formale
comunicazione non priverebbe l'Amministrazione del
potere di adottare un nuovo provvedimento di
contenuto analogo (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI,
05.03.2002, n. 1325 e TAR Puglia Bari, Sez. I,
13.05.2002, n. 2312)
(TAR
Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 14.05.2012 n. 2207 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Deposito temporaneo
trasporto e movimentazione.
Pur
considerando la distinzione tra l'attività di “movimentazione”
e quella di “trasporto” dei rifiuti, nel
senso che la prima non necessita di alcuna
autorizzazione e che solo la seconda rientra nel
novero della “gestione” ai sensi dell'art.
183, comma 1, lett. n), d.lgs. 152/2006, oggetto di
specifica autorizzazione in quanto tale (con la
conseguenza che solo dopo l'inizio del deposito
temporaneo comincerebbe la gestione dei rifiuti in
senso tecnico e l'obbligo di rispettarne regole e
prescrizioni,) la Corte, nella fattispecie, ha
escluso la decorrenza della gestione dei rifiuti in
senso tecnico solo dopo l'inizio del deposito
temporaneo sia perché nulla era dato sapere circa
l'effettiva osservanza delle prescrizioni imposte
dalia legge per considerare legittima detta forma di
deposito; sia perché non vi era stata movimentazione
all'interno di uno stesso compendio nel luogo reale
di produzione dei rifiuti, bensì trasferimento
comportante instradamento da tale luogo a quello
giuridico di produzione (Corte di Cassazione. Sez.
III penale,
sentenza 10.05.2012 n. 17460 - tratto da
www.lexambiente.it). |
APPALTI:
Gare: L’aggiudicazione può
essere comunicata solo per iscritto.
La comunicazione scritta dell'aggiudicazione non può
essere surrogata da una mera notizia orale e
informale. La procedura negoziata mediante cottimo
fiduciario non può abdicare ai principi fondamentali
in materia di aggiudicazione di contratti pubblici.
L'art. 11, c. 10, del d.lgs. n. 163 del 2006 (cd.
stand still) prevede testualmente che "Il
contratto non può comunque essere stipulato prima di
trentacinque giorni dall'invio dell'ultima delle
comunicazioni del provvedimento di aggiudicazione
definitiva ai sensi dell'art. 79".
Sia il dato testuale (che fa esplicito riferimento
all'invio di una comunicazione) sia il principio
generale, secondo cui l'amministrazione, salvo casi
eccezionali e tipici, adotta atti formali e scritti,
depongono nel senso che la comunicazione scritta
dell'aggiudicazione non può essere surrogata da una
mera notizia orale e informale.
Ne consegue che, in questa circostanza, appare
palesemente violato il disposto di cui all'art. 11,
c. 10 cit. (inoltre, atteso che il cd. stand
still è riconducibile all'obbligo di
trasparenza, richiamato dall'art. 125 del d.lgs. n.
163 del 2006, esso trova applicazione anche nel caso
di cottimo fiduciario da tale norma disciplinato).
La procedura negoziata di cui all'art. 125 del
d.lgs. n. 163 del 2006, pur caratterizzata da
maggior snellezza e semplicità, non può abdicare ai
principi fondamentali in materia di aggiudicazione
di contratti pubblici, come si desume dal medesimo
articolo, il quale, al c. 2, prevede che "l'affidamento
mediante cottimo fiduciario avviene nel rispetto dei
principi di trasparenza, rotazione, parità di
trattamento".
Inoltre, è evidente che il principio di
predeterminazione dei criteri, nel caso di scelta
secondo il metodo dell'offerta economicamente più
vantaggiosa, enunciato all'art. 83 del d.lgs. n.163
del 2006, è riconducibile a quello di trasparenza e
parità di trattamento.
Ne consegue che l'amministrazione, nel caso di
specie, avrebbe dovuto predeterminare i criteri in
modo adeguato, da un lato, a mettere tutti i
concorrenti nella medesima posizione conoscitiva in
ordine alle esigenze della stazione appaltante,
dall'altro, a vincolare la successiva valutazione
alle caratteristiche richieste e predeterminate;
ciò, pur senza assegnare in modo rigido un punteggio
ad ogni criterio, secondo quanto previsto
dall'articolo 83 del d.lgs. n.163 del 2006, essendo
la procedura negoziata, di cui all'art. 125 del
medesimo d.lgs., caratterizzata da maggiore
semplicità (commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it -
TAR Molise,
sentenza 10.05.2012 n. 205
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO - URBANISTICA:
Integra il delitto di abuso
d'ufficio la condotta con cui il funzionario
dell'ufficio tecnico comunale esprime parere
favorevole al rilascio di una concessione edilizia
in violazione delle disposizioni di un piano di
bacino, le cui norme integrano quelle contenute
negli strumenti urbanistici, eventualmente
derogandole qualora incompatibili.
La violazione degli strumenti urbanistici integra,
nei congrui casi, il reato di abuso di ufficio, in
quanto rappresenta il presupposto di fatto della
violazione della normativa legale in materia
urbanistica, alla quale deve farsi riferimento quale
dato strutturale della fattispecie delittuosa
prevista dall'art. 323 cod. pen..
Integra il delitto di abuso d'ufficio la condotta
con cui il funzionario dell'ufficio tecnico comunale
esprime parere favorevole al rilascio di una
concessione edilizia in violazione delle
disposizioni di un piano di bacino, le cui norme
integrano quelle contenute negli strumenti
urbanistici, eventualmente derogandole qualora
incompatibili (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.05.2012 n. 17431 - tratto da
www.lexambiente.it). |
AGGIORNAMENTO AL 28.05.2012 |
ã |
IN
EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI - SEGRETARIO COMUNALE:
La giurisprudenza
contabile ha avuto modo di affermare
ripetutamente che l’intervenuta soppressione
del parere di legittimità del segretario su
ogni proposta di deliberazione sottoposta
alla Giunta o al Consiglio non esclude che
permangano in capo al segretario tutta una
serie di compiti ed adempimenti che, lungi
dal determinare un’area di
deresponsabilizzazione del medesimo, lo
impegnano, invece, ad un corretto
svolgimento degli stessi, pena la sua
soggezione, in ragione del rapporto di
servizio instaurato con l’ente locale,
all’azione di responsabilità amministrativa,
ove di questa ricorrano gli specifici
presupposti.
Il T.U. n. 267/2000 non esclude che il
segretario comunale possa essere
responsabile in riferimento alla conformità
dell’azione amministrativa alle leggi, agli
statuti ed ai regolamenti.
L’affidamento al segretario comunale di
funzioni di assistenza e di collaborazione
giuridico ed amministrativa impone di
esercitare il controllo di legittimità,
seppure non sia sufficiente la mera attività
di verbalizzazione per la sussistenza
dell’elemento soggettivo.
Parimenti responsabile è il sig. R.M.
(segretario comunale nonché direttore
generale) che ha dichiarato (anche in sede
di audizione personale) di aver firmato il
verbale della delib. della Giunta Comunale
n. 44/2009, senza preoccuparsi di leggerla,
e quindi ponendo in essere una condotta
connotata da grave negligenza.
La giurisprudenza contabile ha avuto modo di
affermare ripetutamente che l’intervenuta
soppressione, ai sensi dell’art. 17, comma
85, della l. n. 127/1997, del parere di
legittimità del segretario (comunale o
provinciale) su ogni proposta di
deliberazione sottoposta alla Giunta o al
Consiglio, già previsto dall’ art. 53 della
l. n. 142/1990, non esclude che permangano
in capo al segretario tutta una serie di
compiti ed adempimenti che, lungi dal
determinare un’area di
deresponsabilizzazione del medesimo, lo
impegnano, invece, ad un corretto
svolgimento degli stessi, pena la sua
soggezione, in ragione del rapporto di
servizio instaurato con l’ente locale,
all’azione di responsabilità amministrativa,
ove di questa ricorrano gli specifici
presupposti.
Ciò in quanto il suddetto art. 17 della l.
127/1997 e, successivamente, l’art. 97 del
D.Lgvo 18.08.2000 n. 267, mantiene per il
segretario comunale la specifica funzione
ausiliaria di garante della legalità e
correttezza amministrativa dell’azione
dell’ente locale. Infatti il T.U. n.
267/2000 ha assegnato al segretario
dell’ente locale, in linea generale, oltre
agli altri compiti indicati dal menzionato
art. 97, le “funzioni di collaborazione e
di assistenza giuridico–amministrativa nei
confronti degli organi dell’ente in ordine
alla conformità dell’azione amministrativa
alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti”
e quelle di “sovrintendere allo
svolgimento delle funzioni dei dirigenti e
di coordinarne l’attività”.
Sicché la predetta modifica normativa non
esclude che il segretario comunale, proprio
in virtù di tali specifici compiti di
consulenza giuridico–amministrativa, possa
essere responsabile in riferimento alla
conformità dell’azione amministrativa alle
leggi, agli statuti ed ai regolamenti: cfr.
Sez. I Centr. 07.08.2008 n. 1534 e Sez. II
Centr. 23.06.2004 n. 197/A.
In sostanza, l’affidamento al segretario
comunale di funzioni di assistenza e di
collaborazione giuridico ed amministrativa
imponeva nella specie di esercitare il
controllo di legittimità, seppure, come ha
affermato questa Sezione (27.03.2012 n.
164), non sia sufficiente la mera attività
di verbalizzazione per la sussistenza
dell’elemento soggettivo (Corte dei Conti,
Sez. giurisdiz. Toscana,
sentenza 07.05.2012 n. 217 - link
a www.corteconti.it). |
NOVITA' NEL
SITO |
Inserito il nuovo bottone
dossier STRADA PUBBLICA O PRIVATA O PRIVATA DI USO PUBBLICO. |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Fiorona,
La deroga delle distanze nel Piano Casa
Lombardia 2012
(maggio 2012). |
EDILIZIA PRIVATA: U.
Grella,
Seminario di approfondimento sul tema:
edilizia ed energia (27.04.2012). |
LAVORI PUBBLICI:
F. Liparoti e R. Rolli,
APPALTI PUBBLICI TRA PRESTAZIONI A CORPO E A
MISURA (link a
www.osservatorioappalti.unitn.it). |
APPALTI:
A. Borroni e I. Sala,
LA PARTECIPAZIONE AGLI APPALTI PUBBLICI:
PROFILI CIVILISTICI E FISCALI DEL CONTRATTO
DI RETE (link a
www.osservatorioappalti.unitn.it). |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
INCARICHI PROGETTUALI: Oggetto:
lavori pubblici - Prime indicazioni per il
calcolo del corrispettivo da porre a base
d'asta negli affidamenti di servizi di
architettura e ingegneria, dopo
l'abrogazione delle tariffe - AVCP:
deliberazione n. 49 del 03.05.2012
(Consiglio Nazionale degli Architetti
Pianificatori Paesaggistici e Conservatori,
circolare 22.05.2012 n. 66).
---------------
Dal Consiglio Nazionale degli Architetti un
esempio su come calcolare i compensi dei
professionisti.
Il Consiglio Nazionale degli Architetti ha
divulgato la circolare 22.05.2012 n. 66
contenente indicazioni sul calcolo dei
compensi di ingegneri e architetti da porre
a base di gara.
La Circolare analizza la metodologia
proposta dall’AVCP (vedi l’articolo
“Abolizione tariffe professionali: come si
calcolano i compensi di ingegneri e
architetti da porre a base di gara?”),
proponendo un esempio di calcolo secondo le
istruzioni AVCP e paragonando i risultati
con quelli ottenuti applicando le vecchie
tariffe.
Si evidenzia che in alcuni casi i risultati
sono paragonabili, ma facendo una serie di
simulazioni non sempre i risultati sono
analoghi. Pertanto, afferma il Consiglio
degli Architetti, si attende comunque
l’emanazione del Decreto del Ministero della
Giustizia (come previsto dal Decreto
Liberalizzazioni) contenente le Tabelle
Parametriche
(24.05.2012 - link a www.acca.it). |
AUTORITA'
VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI |
APPALTI:
Certificati Esecuzione Lavori - Nuova
funzionalità di rilascio di CEL in caso di
affidamento unitario al Contraente Generale
(Comunicato del Presidente, 23.05.2012). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 22 del
28.05.2012, "Termoregolazione e
contabilizzazione autonoma del calore:
modifiche ed integrazioni alle disposizioni
approvate con d.g.r. 2601/2011" (deliberazione
G.R. 23.05.2012 n. 3522). |
UTILITA' |
ENTI LOCALI - VARI: Tutto
quello che occorre sapere sull’IMU: la guida
definitiva su come calcolarla e quando
pagarla.
La redazione di BibLus-net, in vista
dell’arrivo della prima rata IMU, propone ai
propri lettori un documento con schede
semplici e sintetiche, contenenti tutto ciò
che occorre sapere sulla nuova imposta
municipale.
Al riguardo, nei giorni scorsi, il Ministero
dell’Economia e delle Finanze ha pubblicato
la Circolare n. 3/DF per chiarire gli ultimi
dubbi sull’Imposta Municipale Propria (IMU).
Il documento precisa quali sono le corrette
modalità di calcolo dell’IMU, comprese le
detrazioni; individua le categorie di
soggetti ai quali si applica l’imposta e
chiarisce le modalità di applicazione delle
agevolazioni per categorie particolari di
fabbricato (es. fabbricati rurali) o terreno
(es. terreni agricoli).
Gli argomenti trattati sono:
- Oggetto dell’IMU
- Soggetti passivi
- Calcolo dell’imposta
- Aliquote da applicare
- Agevolazioni abitazione principale
- Agevolazioni ed esenzioni varie
- Quota IMU riservata allo Stato
- Versamento dell’imposta
- Dichiarazione IMU
In allegato la guida di BibLus-net e la
Circolare del Ministero
(24.05.2012 - link a www.acca.it). |
ENTI LOCALI - VARI: Imposta
municipale sui terreni: in quali Comuni non
si pagherà l’IMU?
L’imposta Municipale Propria colpisce il
possesso di qualsiasi tipo di immobile:
● fabbricati, ossia le unità immobiliari
iscritte o che devono essere iscritte nel
catasto edilizio urbano, considerandosi
parte integrante del fabbricato l’area
occupata dalla costruzione e quella che ne
costituisce pertinenza;
● aree fabbricabili, ossia le aree
utilizzabili a scopo edificatorio in base
agli strumenti urbanistici generali o
attuativi ovvero in base alle possibilità
effettive di edificazione determinate
secondo i criteri previsti agli effetti
dell'indennità di espropriazione per
pubblica utilità;
● terreni agricoli, ossia i terreni adibiti
all'esercizio delle attività indicate
nell'art. 2135 del Codice Civile.
Diversi sono stati i dubbi riguardanti il
pagamento dell’IMU per terreni agricoli
ricadenti in aree montane.
La
circolare 18.05.2012 n. 3/DF
del Ministero dell’Economia fa chiarezza
anche su questo punto (al riguardo si rinvia
il lettore all’art. “Tutto quello che
occorre sapere sull’IMU: la guida definitiva
su come calcolarla e quando pagarla”).
Il D.L. 16/2012 stabilisce che con Decreto
del Ministro dell’Economia potranno essere
individuati i Comuni nei quali si applica
l’esenzione del pagamento IMU sulla base
dell’altitudine riportata nell’elenco dei
Comuni italiani predisposto dall’Istat,
nonché, eventualmente, anche sulla base
della redditività dei terreni.
Fino all’emanazione di detto decreto,
l’esenzione va applicata ai terreni presenti
nell’elenco allegato alla
circolare 14.06.1993 n. 9, contenente
indicazioni sulla vecchia Imposta Comunale
sugli Immobili (ICI).
Pertanto non pagheranno l’IMU i proprietari
di terreni che ricadono nei Comuni riportati
in allegato a questa notizia
(24.05.2012 - link a www.acca.it). |
CORTE DEI
CONTI |
APPALTI: Se
l'Ue rigetta il progetto l'ente paga le
spese.
L'esclusione di talune
spese dal limite imposto dall'art. 6, comma
12, della legge 122/2010, si fonda nel
finanziamento integrale da parte di soggetti
estranei ed alla conseguente ininfluenza
delle stesse sul bilancio dell'ente locale.
Ne consegue che, in caso di spese correlate
alla presentazione di progetti finanziabili
dall'Ue (quali ad esempio le traduzioni o le
attività di interpretariato), qualora il
progetto sia successivamente rigettato, le
stesse non sono rimborsate dall'Ue ma
incideranno sul bilancio comunale e,
pertanto, soggiacciono al limite imposto
dalla sopra citata.
Operando diversamente, infatti, si
configurerebbe una forma di elusione del
dettato normativo, improntato a una severa
razionalizzazione della spesa pubblica.
Non ammette deroghe la conclusione cui è
pervenuta la sezione regionale di controllo
della Corte dei Conti per il Veneto nel
testo del
parere
17.05.2012 n. 336, con il quale,
rispondendo a un quesito posto dal comune di
Verona, si è fatta chiarezza sull'ambito di
esclusione di alcune tipologie di spese dal
limite massimo imposto dalla legge n.
122/2010. Norma questa, lo si ricorderà, che
vieta alle p.a. di effettuare spese per
missioni per un ammontare superiore al 50%
della stessa spesa sostenuta nel 2009.
Per la Corte, nell'ambito delle procedure di
finanziamento di progetti indette
dall'Unione europea, il rimborso delle
spese, che vengono anticipate dall'Ente,
segue alla rendicontazione ed al
riconoscimento delle stesse in quanto
pertinenti al progetto. Questa correlazione
consente di qualificare come «esterna»
la fonte di finanziamento della spesa e, di
conseguenza, di applicare alla stessa un
regime «diverso rispetto a quello cui
sono assoggettate tutte le altre spese
dell'ente».
Invece, l'esito negativo del progetto
comporta il «ritorno» della fonte di
finanziamento all'interno del bilancio
dell'ente, determinando l'inclusione delle
stesse ai fini del computo del 50%.
In poche parole, ammette la Corte, è solo
con la liquidazione delle spese da parte
dell'Unione europea che si costituisce
l'elemento necessario ai fini della
classificazione della copertura.
Quindi, l'esclusione delle spese in esame
dal limite imposto dall'articolo 6, comma
12, della legge n. 122/2010 può essere
ammessa solo in presenza di un finanziamento
integrale da parte di soggetti estranei,
cosicché da rendere le stesse «ininfluenti»
ai fini dei saldi di bilancio dell'ente
(articolo ItaliaOggi
del 25.05.2012 - link a
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI:
... il Sindaco, prospettando la cessazione
di un’unità di personale nel corso
dell’esercizio 2012, chiede di conoscere
se, in costanza dei vincoli
assunzionali stabiliti per gli enti non
soggetti alla disciplina del Patto di
stabilità interno, possa avviare le
ordinarie procedure di reclutamento di una
corrispondente unità, da assumere a
decorrere dall'01.01.2013, sebbene, da tale
data, le disposizioni del Patto dovrebbero
trovare applicazione,
ai sensi dell’art. 16, comma 31, del
decreto-legge 13.08.2011, n. 138, convertito
in legge 14.01.2011, n. 148,
“nei riguardi di tutti i comuni
con popolazione superiore a 1.000 abitanti”.
---------------
Rilevava, altresì, la circostanza che,
applicando al caso in questione il limite
del 20% della spesa corrispondente alle
cessazioni dell’anno precedente, non sarebbe
possibile, comunque, verificare il rispetto
del Patto di stabilità nell’esercizio 2012,
anno nel quale il Comune di Arsiè non era
soggetto a tale regime.
I Comuni con popolazione compresa tra 1.001
e 5.000 abitanti, che dall’anno 2013 saranno
chiamati ad osservare, in virtù dell’art.
16, comma 31, del D.L. n. 138/2011, le
regole del Patto di stabilità interno, sono
suscettibili di incorrere nel divieto di
assunzioni previsto dal comma 4 dell’art. 76
del D.L. n. 112/2008 soltanto a decorrere
dall’anno 2014, in quanto la valenza
chiaramente sanzionatoria del divieto,
ricollegabile alla inosservanza dei vincoli
stabiliti col Patto di stabilità, restringe
l’ambito soggettivo di operatività della
disposizione ai soli enti connotati dalla
esistenza di un pregresso vincolo
obbligatori o, in forza del quale, gli
stessi, possono essere chiamati a rispondere
dell’inadempimento ad essi imputabile.
“L’assenza di specifiche disposizioni di
diritto intertemporale in ordine
all’applicazione dei nuovi vincoli alla
spesa di personale, quali derivano
dall’estensione della disciplina del Patto
di stabilità interno ai Comuni con
popolazione inferiore a 5.000 abitanti, non
consente di legittimare interpretazioni
additive o derogatorie dell’art. 76, comma
7, del D.L. n 112/2008 e successive
modificazioni, sussistendo margini
organizzativi idonei a colmare eventuali
deficit di competenze tecniche o
amministrative, legati all’inadeguatezza
degli organici o alla insufficienza di
risorse economiche dei Comuni di più ridotte
dimensioni, che avrebbero potuto
pregiudicare il compiuto assolvimento dei
servizi e delle funzioni fondamentali che la
Costituzione demanda agli enti locali”
(Corte dei Conti, Sez. autonomie,
delibera
11.05.2012 n.
6 - link a www.corteconti.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: No ai sindaci furbetti.
Il rendiconto non va troppo anticipato. La
Corte conti Toscana sul bilancio di fine mandato.
Se il sindaco «anticipa» i tempi di
pubblicazione del rendiconto di fine
mandato, rischia di doverne pagare le
conseguenze di tasca propria. Infatti, se la
pubblicazione e la diffusione capillare del
rendiconto a tutti i cittadini avvengono
molto prima della naturale scadenza del
mandato ed è motivata esclusivamente per la
promozione del sindaco e non per finalità
istituzionali, allo stesso primo cittadino
deve essere addebitato il danno relativo
alla spesa per la pubblicazione.
Lo dice la
Corte conti Toscana, nella
sentenza
07.05.2012 n.
217, con la quale ha condannato un
sindaco di una cittadina senese, nonché il
segretario comunale e un dirigente, per aver
realizzato un libretto contenente il
rendiconto del suo mandato amministrativo e
averlo inviato a tutte le famiglie del
territorio comunale, anticipando, di gran
lunga, i normali tempi di pubblicazione
dell'opuscolo.
Secondo il collegio della
magistratura contabile toscana, le attività
di informazione e comunicazione delle
pubbliche amministrazioni, regolate dalla
legge n. 150/2000, possono essere realizzate
con «ogni mezzo di messaggi, prodotti
grafico-editoriali, strutture informatiche,
reti civiche e mezzi telematici», ma sempre
senza deviare dalla ratio normativa,
ovvero l'informazione corretta e trasparente
alla comunità amministrata affinché questa
possa conoscere e formulare un proprio
giudizio sull'operato della p.a. stessa.
Nel caso oggetto del giudizio in esame,
invece, la Corte toscana, accogliendo la
tesi accusatoria della procura, ha accertato
che il primo cittadino ha «accelerato»
i tempi di pubblicazione del rendiconto di
fine mandato, non per le giuste e legittime
finalità istituzionali ma per una promozione
personale dello stesso sindaco e, quindi,
per una semplice finalità personale e
autoreferenziale. Nel corso del giudizio,
infatti, è stato provato che l'obiettivo
perseguito dal primo cittadino uscente,
fosse la distribuzione del rendiconto
amministrativo «prima delle primarie»
(articolo ItaliaOggi
del 26.05.2012 - link a
www.ecostampa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
La denuncia di un presunto
generalizzato incremento dei consulenti
esterni da parte di un Ente pubblico di per
sé non costituisce ancora, in assenza di
altri elementi di giudizio oltre il mero
aumento del loro numero rispetto al passato,
ipotesi di danno (Corte dei Conti, Sez.
III centrale d'appello,
sentenza 02.05.2012 n.
328 - link a www.corteconti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
In merito ad incarichi
dirigenziali.
L'Ente, nel conferimento d’incarichi
dirigenziali a tempo determinato a
funzionari interni di categoria D, non può
prescindere in particolare dal limite
percentuale previsto dall’art. 19, comma 6,
del D.lgs. 27.03.2001, n. 165, oltre che dal
rispetto di tutti gli altri vincoli
derivanti dalla normativa attualmente
vigente in materia di incarichi dirigenziali
e, più in generale, di spesa di personale
(Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere
27.04.2012 n.
86). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Il
mancato rispetto del Patto travolge i
gettoni di tutti i consiglieri.
Il mancato rispetto del patto di stabilità
travolge le indennità e i gettoni di tutti i
consiglieri. Infatti, Il taglio del 30%
dell'indennità degli amministratori e del
gettone di presenza spettante ai consiglieri
degli enti locali, dovuto a causa del
mancato rispetto del patto di stabilità
2011, così come previsto dal dlgs
n.149/2011, scatta sia per gli
amministratori che sono cessati dalla carica
che per quelli che sono subentrati al
termine della recente tornata elettorale. La
ratio della riduzione prevista dal
legislatore, infatti, non è quella di
colpire con tagli «ad personam» quanto
piuttosto l'intero corpus degli organi
istituzionali degli enti locali
inadempienti, avendo essi permesso il
mancato rispetto del patto di stabilità
2011.
È quanto ha messo nero su bianco la sezione
regionale di controllo della Corte dei conti
per la Regione Lombardia, nel testo
dell'interessante
parere 26.04.2012 n. 155, con il
quale ha fatto luce sulla portata
applicativa delle disposizioni contenute
all'articolo 7, comma 2, del dlgs n. 149 del
2011 (il decreto delegato che regola i
meccanismi sanzionatori e premiali relativi
a regioni, province e comuni), con
particolare riguardo alle amministrazioni
inadempienti al Patto di stabilità dello
scorso anno e che nella recente tornata
amministrativa, hanno rinnovato gli organi
di direzione politica.
Nei fatti oggetto del parere in esame, il
comune di Villongo (Bg) richiedeva
l'intervento della magistratura contabile
lombarda in funzione consultiva, in merito
alle modalità di calcolo delle riduzioni
previste sulle indennità di funzione e sui
gettoni di presenza degli amministratori
locali, quali effetto sanzionatorio del
mancato rispetto del patto di stabilità per
l'anno 2011. In particolare, il comune
istante chiede se le riduzioni previste
dalla norma sopra citata, pari al 30% della
misura in godimento al 30.06.2010, si
applichino anche ai nuovi amministratori
eletti dal recente scrutinio elettorale.
Sul
punto, la Corte lombarda non ha avuto il
minimo dubbio che il taglio debba riguardare
sia gli amministratori «uscenti» che quelli
subentranti. A detta della Corte, infatti,
la disposizione sopra richiamata «non lascia
alcun margine di discrezionalità agli enti
locali». In particolare, quando non sia
stato rispettato il patto di stabilità,
l'ente locale è tenuto a rideterminare le
indennità di funzione e i gettoni di
presenza ed è tenuto a farlo in misura
determinata dalla stessa norma, ovvero
concretizzandosi in una riduzione del 30%
rispetto all'ammontare risultante alla data
del 30.06.2010.
Il tenore letterale e perentorio della
norma, pertanto, ha indotto la magistratura
contabile lombarda a ritenere che la
riduzione del 30% delle indennità di
funzione e dei gettoni di presenza che il
comune dovrà applicare ai propri
amministratori riguarderanno (per tutto
l'anno corrente) sia il sindaco, gli
assessori e i consiglieri comunali in carica
fino allo scorso 6 maggio sia quelli che
sono stati eletti a seguito della recente
tornata elettorale amministrativa.
Lo scopo
della disposizione contenuta all'articolo 7,
comma 2, del dlgs n. 149/2011, ha proseguito
la Corte, non è quello di colpire gli
amministratori con tagli mirati o «ad personam», quanto piuttosto quello di
colpire l'intero corpus degli organi
istituzionali, «avendo essi permesso il
mancato rispetto del patto di stabilità
2011»
(articolo ItaliaOggi
del 24.05.2012 - link a
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI:
Spesa di personale/spesa corrente, divieto
di assunzione e modifiche alla norma.
La Corte dei Conti, sezione regionale Lazio,
con il
parere 23.04.2012 n. 21, risponde al quesito del Comune
di Pontinia che, rispetto al divieto di
assunzione previsto dall'art. 76, comma 7,
del d.l. 112/2008 (superamento percentuale
massima nel rapporto spese di
personale/spesa corrente) si è trovato, nel
tempo ed in ragione degli interventi
normativi modificativi sopravvenuti, prima
nella condizione di poter procedere ad
assunzioni, poi incorso nel divieto e, da
ultimo (testo vigente della norma) in
condizione di poter procedere al
reclutamento.
Alla luce di questa particolare situazione,
l'ente chiede se è possibile procedere al
citato reclutamento, nel 2012, in relazione
alle cessazioni (valorizzate al 20%)
intervenute nell'anno 2010 e non rimpiazzate
nel 2011. L'ente chiede anche se, a tal
fine, è consentito valorizzare la nozione di
anno precedente riferita agli enti non
sottoposti al patto di stabilità, così come
definita dalle Sezioni Unite in sede di
controllo nella deliberazione n. 52/CONTR/2010.
La Corte, in specifica risposta al quesito e
per la particolarità del caso (ma non unico)
si esprime cose segue:
"Per quanto sopra, il Collegio è dell'avviso
che -nella fattispecie prospettata- sia
possibile assumere, in applicazione della
disposizione dell'art. 76, comma 7, secondo
alinea, nuovo personale fino a concorrenza
del 20% della spesa sostenuta per il
personale cessato e non sostituito
parzialmente nell'esercizio antecedente al
blocco forzoso delle assunzioni. Nel
rispetto del principio di riduzione di cui
al comma 557, peraltro, la crescita della
spesa derivante dalle nuove assunzioni non
potrà nel 2012 superare quella ammissibile
nel 2011, in ragione delle cessazioni
verificatesi nel 2010, salvo l'eventuale
ulteriore incremento commisurato al 20%
delle cessazioni intervenute nel medesimo
2011".
Si segnala il parere in contesto anche per
una lettura integrale delle motivazioni e
considerazioni svolte dalla Corte (a
prescindere, anche, dalla finale risposta al
quesito), in quanto tratta aspetti rilevanti
quali: la pertinenza o meno del richiamo
alle menzionata deliberazione delle SS.RR.
52/2010 per gli enti soggetti al patto di
stabilità; l' efficacia temporale della
facoltà assunzionale (20%, ora 40%); il
significato e gli effetti del divieto posto
dall'art. 76, comma 7, d.l. 112/2008; le
situazioni di rientro nei parametri di
equilibrio ed i fattori che lo hanno
determinato (tratto da www.publika.it). |
SINDACATI &
ARAN |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/ I
lavoratori assunti con contratto di lavoro a
termine possono fruire delle ferie maturate
e non godute nell’ambito di un precedente
rapporto a termine con lo stesso ente oppure
queste ferie devono essere monetizzate?
(parere
07.02.2012 n. RAL-1092 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/ Per
un lavoratore turnista, le giornate di
festività infrasettimanali ricadenti in un
periodo di ferie sono da escludere dal
conteggio delle giornate di ferie
complessivamente godute nel periodo stesso
oppure devono essere fruite anche esse come
giornate di ferie?
(parere
07.02.2012 n. RAL-1076 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/
L’art. 18, comma 2, del CCNL del 06.07.1995
(la durata delle ferie è di 32 giorni
lavorativi) può essere interpretato nel
senso che la giornata del sabato deve essere
computata come giorno di ferie?
(parere
07.02.2012 n. RAL-1075 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/ Un
lavoratore, a tempo pieno ed indeterminato
nonché titolare di posizione organizzativa,
dipendente dal comune A, è utilizzato a
tempo parziale anche presso il comune B,
sulla base di una convenzione stipulata ai
sensi dell’art. 14 del CCNL del 22.01.2004.
L’articolazione dell’orario di lavoro
convenuta, prevede una prestazione
lavorativa di 4 ore presso il comune A ed
altre 4 presso il comune B, distribuite su 5
giorni settimanali.
Ai fini del calcolo delle ferie, come devono
essere conteggiate e/o ripartite le stesse,
dato che il dipendente presta attività
presso due comuni?
Quando il lavoratore si assenta presso un
comune e presta servizio presso l’altro, la
giornata di ferie deve essere considerata
per intero o come mezza giornata? Di quanti
giorni di ferie all’anno ha diritto presso
ciascun ente?
(parere
07.02.2012 n. RAL-1073 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/ Il
dipendente può chiedere di interrompere la
fruizione delle ferie per avvalersi dei tre
giorni di permesso per assistenza a
portatori di handicap, ai sensi dell’art. 33
della legge n. 104/1992?
(parere
07.02.2012 n. RAL-1071 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/
Durante il periodo di preavviso (art. 12 del
CCNL del 09.05.2006), regolarmente lavorato
dal dipendente assunto con contratto a temo
indeterminato, maturano le ferie nonostante
queste non potranno essere fruite ma solo
monetizzate al cessare del rapporto di
lavoro?
(parere
06.02.2012 n. RAL-1063 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/
Presso un ente il personale dirigente e non
dirigente non ha fruito nei termini previsti
dai contratti (anno di competenza o motivi
particolari entro il 30 giugno dell’anno
successivo) le ferie maturate.
Come comportarsi? E’ corretto disporre un
piano di smaltimento e, qualora non svolto,
eliminare le ferie? Oppure cosa fare?
(parere
06.02.2012 n. RAL-1070 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/ A
favore del personale assunto con rapporto di
lavoro a termine e a tempo parziale, in
servizio continuativo presso un ente locale
da più di tre anni, è possibile dare
applicazione alle previsioni dell’art. 18,
comma 4, del CCNL del 06.07.1995, che
riconosce ai dipendenti, dopo tre anni
servizio 32 giorni di ferie?
(parere
06.02.2012 n. RAL-1067 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/ E’
possibile la fruizione frazionata ad ore o a
mezze giornate delle quattro giornate di
festività soppresse, di cui all’art. 18,
comma 6, del CCNL del 06.07.1995?
(parere
06.02.2012 n. RAL-1066 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/ Nel
caso di eventi atmosferici eccezionali come
è possibile giustificare l’assenza dal
lavoro del dipendente o l’eventuale ritardo?
(parere
06.02.2012 n. RAL-1065 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/
Come deve essere considerata l’assenza dal
servizio per esercitare il diritto di voto?
Il dipendente ha diritto ad uno specifico
permesso?
(parere
05.02.2012 n. RAL-1052 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/ In
materia di termini di fruizione delle ferie
prevale la disciplina contrattuale o quella
legale (art. 10 del D.Lgs. n. 66/2003 e
successive modificazioni ed integrazioni)?
E’ possibile una lettura coordinata delle
disposizioni previste dalle due fonti?
(parere
05.02.2012 n. RAL-1051 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/
Come si calcolano e si retribuiscono le
ferie per il personale con contratto a
termine (1 anno) di 18 ore settimanali
(lunedì-giovedì)?
(parere
06.06.2011 n. RAL-512 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/ E’
possibile retribuire le ore di straordinario
e le ferie non godute al personale assunto
con contratto a termine?
(parere
06.06.2011 n. RAL-511 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/ E’
possibile prorogare il contratto a termine,
a suo tempo stipulato per sostituire una
lavoratrice in maternità, al fine di
consentire a quest’ultima, al rientro in
servizio, la fruizione delle ferie?
(parere
06.06.2011 n. RAL-510 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/ In
caso di proroga o rinnovo del contratto a
tempo determinato qual è il termine per la
fruizione delle ferie maturate?
(parere
05.06.2011 n. RAL-509 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/
Quanti giorni di ferie spettano ad un
dipendente part-time misto al 30%, che
presta servizio per tre giorni alla
settimana ma per sole 3 ore giornaliere?
(parere
05.06.2011 n. RAL-508 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/ In
caso di trasformazione del rapporto di
lavoro da tempo parziale verticale a tempo
pieno, le ferie maturate nell’ambito del
rapporto di lavoro part-time devono essere
riproporzionate?
(parere
05.06.2011 n. RAL-507 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/ Le
ferie maturate dal dipendente prima della
trasformazione del rapporto di lavoro da
tempo pieno a tempo parziale devono essere
riproporzionate?
In alternativa è possibile procedere alla
loro monetizzazione?
(parere
05.06.2011 n. RAL-506 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/
Come devono essere considerate le ferie di
un lavoratore già in mobilità che viene
inquadrato in un ente anche in soprannumero?
(parere
05.06.2011 n. RAL-505 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/ E’
possibile monetizzare le ferie non godute
dal dipendente trasferito ad altro ente per
mobilità?
(parere
05.06.2011 n. RAL-504 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/
Come devono essere retribuite le giornate di
riposo per festività soppresse, non fruite
nel corso dell’anno?
Spetta la monetizzazione anche nel caso di
un dipendente riammesso in servizio dopo un
periodo di sospensione cautelare?
(parere
05.06.2011 n. RAL-503 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/
Chiarimenti sul regime giuridico delle 4
giornate di recupero delle ex festività
soppresse
(parere
05.06.2011 n. RAL-502 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/
L’applicazione della legge n. 336/2000 che
ha ripristinato la festività del 2 giungo
implica la riduzione delle 4 giornate di
festività attribuite dalla legge n.
937/1977?
(parere
05.06.2011 n. RAL-501 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/ Il
ripristino della festività del 2 giungo
disposto dalla L. n. 336/2000, necessita,
per la sua applicazione, di particolari
adempimenti?
(parere
05.06.2011 n. RAL-500 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/
Possono essere recuperate le festività
cadenti in giorno non lavorativo?
(parere
05.06.2011 n. RAL-499 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/
Cosa avviene nell’ipotesi che il dipendente
non fruisca, per ragioni di servizio, delle
ferie residue entro il primo semestre
dell’anno successivo o nel caso che la
mancata fruizione derivi dalla mancata
richiesta dell’interessato?
(parere
05.06.2011 n. RAL-498 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/
Quale soggetto deve attestare la sussistenza
delle indifferibili esigenze di servizio che
non hanno reso possibile la fruizione delle
ferie nell’anno (art. 18, comma 12, del CCNL
del 06.07.1995)?
(parere
05.06.2011 n. RAL-497 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/ Per
poter rinviare le ferie al primo
quadrimestre dell’anno successivo il
dipendente deve fornire dettagliata
motivazione?
E’ necessario che si tratti di esigenze
personali riferite all’anno di spettanza?
(parere
05.06.2011 n. RAL-496 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/
Come si deve interpretare il comma 13
dell’art. 18 del CCNL in materia di
trasporto di ferie residue sul nuovo anno?
(parere
05.06.2011 n. RAL-495 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/
Come si provvede alla definizione del
periodo di ferie fruibili dal dipendente?
(parere
05.06.2011 n. RAL-494 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/
Quali sono gli effetti della sentenza con la
quale il TAR ha annullato un provvedimento
di destituzione dall’impiego?
In particolare, il periodo intercorso tra la
destituzione e la riammissione in servizio è
utile ai fini della maturazione delle ferie
e ai fini della progressione economica
all’interno della categoria?
(parere
05.06.2011 n. RAL-493 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/ I
periodi di aspettativa senza assegni sono
utili ai fini della maturazione delle ferie?
(parere
05.06.2011 n. RAL-492 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/
L’assenza per malattia non retribuita di cui
all’art. 21, comma 2 del CCNL del 06.07.1995
e successive modifiche comporta la
maturazione delle ferie?
(parere
05.06.2011 n. RAL-491 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/
Nella base di calcolo del compenso per ferie
non godute deve essere compresa anche la 13^
mensilità?
(parere
05.06.2011 n. RAL-490 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/ La
dipendente che receda dal rapporto durante
il periodo di prova ha diritto al pagamento
delle ferie maturate e non godute per causa
a lei non imputabile?
(parere 05.06.2011 n.
RAL-489 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/
L’amministrazione può rinunciare a parte del
preavviso per consentire il godimento delle
ferie maturate e non godute a un dipendente
dimissionario se il mancato godimento delle
stesse è dovuto ad assenza per infortunio
sul lavoro protrattasi sino all’inizio del
periodo di preavviso?
(parere 05.06.2011 n.
RAL-488 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/
Dimissioni presentate in data immediatamente
precedente la decorrenza del termine di
preavviso. E’ possibile monetizzare le ferie
non godute?
(parere 05.06.2011 n.
RAL-487 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/
Cosa avviene delle ferie non godute
nell’ipotesi di dimissioni del dipendente
per motivi personali?
(parere 05.06.2011 n.
RAL-486 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/
Cosa avviene, all’atto del collocamento a
riposo, se il dipendente non ha potuto
usufruire delle ferie maturate nel corso
dell’ultimo anno di servizio a causa di
malattia?
(parere 05.06.2011 n.
RAL-485 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/
Quali sono le condizioni che consentono la
monetizzazione delle ferie non godute? E’
possibile monetizzarle in costanza di
rapporto?
La monetizzazione presuppone sempre che le
ferie non siano state godute per ragioni di
servizio? Come comportarsi di fronte ad un
accumulo consistente di ferie non fruite
negli anni precedenti?
(parere 05.06.2011 n.
RAL-484 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/ E’
possibile interrompere un periodo di congedo
di maternità per consentire alla lavoratrice
la fruizione delle ferie?
(parere 05.06.2011 n.
RAL-483 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/ E’
possibile accogliere la richiesta di un
lavoratore per la trasformazione di giorni
di ferie già fruite in giorni di permesso
non retribuito?
(parere 05.06.2011 n.
RAL-482 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/ Si
può riconoscere al dipendente il diritto di
“revocare” le ferie già autorizzate?
(parere 05.06.2011 n.
RAL-481 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/ Le
ferie possono essere interrotte per la
fruizione di permessi per lutto?
(parere 05.06.2011 n.
RAL-480 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/
Quand’è che la malattia interrompe le ferie?
In che modo si realizza la debita ed
adeguata documentazione della malattia, ai
fini dell’interruzione delle ferie?
(parere 05.06.2011 n.
RAL-479 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/ E'
possibile rapportare ad ore o rifiutare le
ferie sistematicamente fruite dal dipendente
nei giorni nei quali sarebbe tenuto al
rientro pomeridiano?
(parere 05.06.2011 n.
RAL-478 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/ E’
possibile che un dipendente fruisca delle
ferie subito dopo un periodo di congedo
parentale, senza aver ripreso servizio?
(parere 05.06.2011 n.
RAL-477 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/ E’
possibile fruire delle ferie ad ore? E’
possibile accordare mezza giornata di ferie?
(parere 05.06.2011 n.
RAL-476 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/ In
caso di ricostituzione del rapporto di
lavoro, ai sensi dell'art. 26 del CCNL del
14/09/2000, per l'attribuzione dei giorni di
ferie il dipendente deve essere considerato
'neo assunto'?
(parere 05.06.2011 n.
RAL-475 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/ Il
personale neo assunto (con diritto a 26 gg.
di ferie) che ha preso servizio dal
16/02/2004 e che, pertanto, nel mese di
febbraio ha prestato servizio per un periodo
inferiore a 15 gg., matura, nello stesso
mese, almeno 1 giorno di ferie?
(parere 05.06.2011 n.
RAL-474 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/ Al
fine di stabilire il numero dei giorni di
ferie spettanti al dipendente ai sensi
dell’art. 18 del CCNL del 06.07.1995 cosa
deve intendersi per personale 'neo assunto'?
(parere 05.06.2011 n.
RAL-473 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/ Chi
deve considerarsi neo assunto ai sensi
dell’art. 18 del CCNL del 06.07.1995?
(parere 05.06.2011 n.
RAL-472 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/
Come deve essere determinato il numero dei
giorni di ferie spettanti al dipendente
assunto in corso d’anno?
(parere 05.06.2011 n.
RAL-471 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/
Come devono essere correttamente calcolate
le giornate di ferie del personale turnista?
Se la settimana lavorativa è articolata in
soli quattro giorni, come si calcolano le
ferie?
(parere 05.06.2011 n.
RAL-470 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/
Come devono essere calcolate le ferie per i
lavoratori che effettuano un orario
settimanale in parte su sei giornate e in
parte su cinque? Come devono essere
conteggiati i giorni lavorativi e in base a
quali criteri?
(parere 05.06.2011 n.
RAL-469 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/ In
caso di passaggio a regime orario di
settimana corta, le ferie fruite in una
giornata destinata al rientro pomeridiano
possono essere rapportate ad ore al fine di
stabilire il residuo ferie?
Le ferie eventualmente maturate in regime
orario di settimana lunga e non ancora
godute al momento del passaggio al nuovo
orario devono essere riproporzionate?
(parere 05.06.2011 n.
RAL-468 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/
Come possono essere calcolate le giornate di
ferie nell’anno, in presenza di una
articolazione dell’orario di lavoro che
prevede alternanza di 6 e 5 giorni
lavorativi nella settimana?
Qual è la quota mensile delle ferie in
regime ordinario di settimana corta o di
settimana lunga?
(parere 05.06.2011 n.
RAL-467 - link a www.arangenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: FERIE
E FESTIVITA'/ FERIE/
Quanti giorni di ferie spettano ad un
dipendente che sia impiegato per due mesi
all’anno in regime orario di settimana corta
(5 gg.) e per i restanti mesi in regime di
settimana lunga (6 gg.)?
In generale come si calcolano le ferie in
tutti i casi di passaggio da un regime
all’altro?
(parere 05.06.2011 n.
RAL-466 - link a www.arangenzia.it). |
NEWS |
ENTI LOCALI - VARI: LA
CIRCOLARE SULL'IMU/ Terreni, variazioni da comunicare.
Niente sanzioni se l'ente non informa sui
cambi di destinazione. Se il comune è
inadempiente esclusi anche gli interessi moratori.
Anche per l'Imu, i comuni sono tenuti a
fornire informazioni ai contribuenti sulle
variazioni urbanistiche e i cambi di
destinazione dei terreni in aree
edificabili. Nel caso in cui non venga
inviata la comunicazione, non devono essere
irrogate al titolare dell'area né sanzioni
né interessi moratori sul tributo dovuto.
Lo
ha chiarito il dipartimento delle finanze
del ministero dell'Economia, con la
circolare 18.05.2012 n. 3/DF.
Dunque, la regola imposta dall'articolo 31,
comma 20, della legge 289/2002 (Finanziaria
2003) vale anche per l'Imu. Questa norma
prevede che debba essere informato il
contribuente delle variazioni apportate agli
strumenti urbanistici. Quando i comuni
attribuiscono a un terreno la natura di area
fabbricabile sono obbligati a darne
comunicazione al contribuente, a mezzo
posta, con modalità idonee a garantire
l'effettiva conoscenza.
Per il dipartimento,
spetta ai comuni «disciplinare autonomamente
la procedura adottando lo schema più
confacente alla propria organizzazione». Il
mancato rispetto dell'adempimento non
comporta alcuna conseguenza in ordine agli
obblighi che incombono sul contribuente: il
tributo sull'area è comunque dovuto.
Tuttavia, precisa la circolare, in base
all'articolo 10 dello Statuto dei diritti
del contribuente (legge 212/2000), non
possono essere richieste sanzioni e
interessi. Del resto «la norma ha il fine di
fornire le garanzie procedimentali poste a
tutela del contribuente assurte a principio
generale dell'ordinamento tributario».
Il ministero, correttamente, va oltre quanto
affermato dalla giurisprudenza che in
passato si è limitata ad annullare le
sanzioni irrogate dai comuni, riconoscendo
solo la causa di non punibilità stabilita
dall'articolo 6 del decreto legislativo
472/1997. Mentre lo Statuto esclude anche la
richiesta degli interessi quando il
comportamento del contribuente risulti posto
in essere in seguito a errori o omissioni
dell'amministrazione. In effetti, il
contribuente è tenuto a pagare le imposte su
un'area edificabile anche se il comune non
lo abbia informato delle variazioni
apportate allo strumento urbanistico e non
abbia comunicato il cambio di destinazione
del terreno.
La Corte di cassazione, con la
sentenza 15558/2009, ha ritenuto ininfluente
la mancata comunicazione al proprietario,
non essendo specificamente prevista una
sanzione ad hoc dalla norma che ne ha
imposto l'obbligo. La mancata comunicazione
del cambiamento urbanistico non può avere
un'incidenza sugli obblighi di dichiarazione
e versamento dell'imposta, che sono
autonomamente disciplinati dalla legge. Se
il comune non ha provveduto a comunicare,
formalmente, il cambio di destinazione del
terreno, e il contribuente violi l'obbligo
di dichiarazione e di versamento, si può
ritenere che ricorra una causa di non
punibilità.
Occorre precisare che l'articolo 31 non ha
alcuna efficacia retroattiva. Pertanto,
l'obbligo di comunicazione riguarda solo i
cambi di destinazione dei terreni attuati a
decorrere dall'01.01.2003. L'Imu è dovuta
dal momento i cui l'area è inserita in un
piano regolatore generale adottato dal
consiglio comunale, anche se non approvato
dalla regione. L'articolo 36, comma 2, della
legge 248/2006 dispone che un'area è da
considerare fabbricabile se utilizzabile a
scopo edificatorio in base allo strumento
urbanistico generale deliberato dal comune,
indipendentemente dall'approvazione della
regione e dall'emanazione di strumenti
attuativi
(articolo ItaliaOggi
del 26.05.2012 - link a
www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: Evasione,
l'Inps arruola i comuni. Controlli su
edilizia, ambulanti, commercio e
artigianato. Un messaggio dell'Istituto di
previdenza detta le istruzioni sulle
segnalazioni qualificate.
Comuni in campo contro
l'evasione contributiva. Edilizia, commercio
ambulante e attività artigiane e commerciali
«fantasma» sono gli ambiti rilevanti ai fini
Inps per i quali, per ogni segnalazione
qualificata effettuata, i comuni riceveranno
una quota (33%) delle sanzioni eventualmente
riscosse. Ma, come detto, deve trattarsi di
«segnalazioni qualificate», ossia
segnalazioni evidenti di posizioni
soggettive irregolari, per evasione o
elusione, che non richiedono ulteriori
elaborazioni dell'Inps.
A precisarlo, tra l'altro, è lo stesso ente
di previdenza che, nel messaggio n.
8798/2012, detta le prime istruzioni per
la collaborazione con i comuni alle attività
di accertamento tributari e contributivi,
anticipando il provvedimento dell'Agenzia
delle entrate, di prossima pubblicazione,
attuativo dell'articolo 18 del dl n.
78/2010.
Comuni in campo.
Il dl n. 78/2010, come modificato dal dl n.
201/2011, al fine di potenziare l'azione di
contrasto all'evasione fiscale e
contributiva, incentiva la partecipazione
dei comuni all'accertamento fiscale e
contributivo con il riconoscimento di una
quota pari al 33% dei maggiori tributi
statali riscossi e delle sanzioni civili
applicate sui maggiori contributi riscossi a
titolo definitivo.
Al fine di realizzare questa collaborazione,
spiega l'Inps, le amministrazioni
interessate (Agenzia entrate, Inps, Agenzia
del territorio, Conferenza unificata), con
il supporto dell'Anci, hanno avviato un
percorso per definire gli ambiti di
collaborazione e le modalità tecniche di
accesso alle banche dati e l'invio delle «segnalazioni
qualificate» da parte dei comuni. Per
segnalazioni qualificate, precisa il
messaggio, «si intendono quelle posizioni
soggettive che a seguito di rilievi svolti
dai comuni devono evidenziare comportamenti
evasivi e/o elusivi senza ulteriori
elaborazioni logiche da parte dell'istituto».
Gli ambiti rilevanti.
L'attuazione dell'articolo 18 è rimessa al
provvedimento del direttore dell'Agenzia
delle entrate che, spiega l'Inps, sarà
pubblicato a breve dopo il recepimento di
alcune modifiche del Garante privacy. Il
provvedimento definisce le modalità di
accesso alle banche dati e di trasmissione
delle informazioni utilizzabili ai fini
dell'accertamento fiscale e contributivo.
Inoltre, per quanto riguarda l'Inps,
determina gli ambiti rilevanti ai fini
dell'accertamento dei contributi non
dichiarati. I predetti ambiti, in
particolare, riguardano i soggetti che:
- effettuano attività edilizia omettendo la
denunzia contributiva relativa all'impresa;
- svolgono attività «fantasma» di
commercio ambulante o su area pubblica
omettendo la comunicazione Unica ai fini
fiscali, amministrativi e previdenziali e/o
la denunzia contributiva relativa alla
impresa;
- svolgono attività commerciale o artigiana
«fantasma» omettendo sia la
Comunicazione Unica ai fini fiscali,
amministrativi e previdenziali, che la
denunzia contributiva relativa all'impresa.
Le convenzioni.
L'Inps, spiega ancora il messaggio, ha
avviato un tavolo di lavoro con l'Unione dei
comuni e con il supporto dell'Anci, per
definire un processo operativo di
partecipazione dei comuni all'attività di
accertamento. Il processo, in particolare,
prevede la messa a disposizione dei comuni
interessati, a seguito di sottoscrizione di
specifica convenzione (l'Inps sta
predisponendo una bozza di
convenzione-quadro), di una procedura che
consente di inviare all'Inps soltanto le
informazioni considerate «segnalazioni
qualificate».
Il processo sarà supportato da una procedura
telematica che consentirà anche di operare
le ulteriori verifiche amministrative e/o
ispettive da parte dell'Inps, nonché di
quantificare le somme per sanzioni civili
destinate ai comuni
(articolo ItaliaOggi
del 25.05.2012 - link a
www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: Autovelox,
multe subito in bilancio. L'obbligo scatta
dal 1° giugno. Dal 2013 relazione al
ministero. I municipi navigano a vista sulla
ripartizione dei proventi. Serve una
delibera di giunta.
Scatterà potenzialmente
già dal prossimo mese di giugno l'obbligo di
ripartire con l'ente proprietario della
strada i proventi derivanti delle multe
accertate con autovelox e telelaser. Ma al
momento sarà sufficiente accantonare le
risorse e variare i bilanci. Solo dal
prossimo anno infatti gli enti locali
dovranno inviare al ministero la relazione
indicante l'importo dei proventi autovelox
ripartiti e l'ammontare di tutte le multe
stradali con le spese effettuate. E
procedere alla materiale destinazione delle
risorse.
Sono questi gli importanti effetti contabili
e gestionali introdotti automaticamente
dall'01.01.2012 (in mancanza di un decreto
ad hoc da adottare entro il 31 maggio e di
cui non vi è traccia) dal comma 16 dell'art.
4-ter del dl 16/2012, inserito in fretta e
furia in sede di conversione dalla legge n.
44/2012, in vigore dal 29.04.2012.
Sull'intera questione la prudenza è
d'obbligo anche in considerazione
dell'assoluta mancanza di indicazioni
ministeriali, peraltro molto attese dai
comuni.
L'unica certezza al momento è che la
ripartizione dei proventi autovelox
riguarderà gli accertamenti alle violazioni
dei limiti massimi di velocità rilevati
dagli organi di polizia stradale sulle
strade appartenenti a enti diversi da quelli
dai quali dipendono gli organi accertatori,
con esclusione delle strade Anas. Le somme
derivanti dalla ripartizione dei proventi
delle sanzioni dovranno essere destinate
alla realizzazione di interventi mirati,
preventivamente individuati dalla legge. E
sarà necessario relazionare annualmente al
ministero, a partire dal 31.05.2013, tutte
le infrazioni stradali accertate nel corso
dell'anno precedente, con particolare
attenzione all'autovelox.
Sono molte però le criticità da risolvere.
Innanzitutto la data esatta dalla quale
decorre questo nuovo obbligo. Stando a una
lettura formale della norma i 90 giorni
concessi per l'emanazione del dm fantasma
decorrono dal 02.03.2012, data di entrata in
vigore del decreto legge n. 16/2012.
Pertanto se il decreto, come risulta a
ItaliaOggi, non sarà emanato entro il 31
maggio, dall'01.06.2012 ai sensi della
novella di aprile troveranno immediata
applicazione formale le disposizioni del
codice della strada di cui all'art. 142,
commi 12-bis (obbligo di ripartizione dei
proventi), 12-ter (destinazione delle somme
derivanti dai proventi ripartiti) e
12-quater (relazione da inviare entro il 31
maggio di ogni anno al ministero dei
trasporti e al ministero dell'interno).
Non mancano però interpretazioni dottrinarie
che, disancorandosi dalla lettura formale
della disposizione introdotta in malo modo
nella conversione in legge del dl 16/2012,
individuano il dies a quo per il
calcolo dei novanta giorni non nel 2 marzo,
ma nel 29.04.2012, data di entrata in vigore
della legge di conversione n. 44/2012. In
tal caso, dunque, l'obbligo di ripartizione
dei proventi e tutta la burocrazia connessa
decorrerebbero dal 29.07.2012.
Altri considerano infine rinviato comunque
ogni effetto dell'automatismo all'01.01.2013
in virtù della disposizione prevista
dall'art. 25/3° della legge 120/2010.
Aderendo a una valutazione prudente è
corretto ritenere operativa già da
quest'anno la nuova destinazione dei
proventi autovelox da suddividere con l'ente
proprietario della strada e variare prima
possibile il bilancio di previsione
iscrivendo anche gli importi di spettanza di
altri enti. Ma anche adottare una nuova
delibera di giunta sulla destinazione degli
importi
(articolo ItaliaOggi
del 25.05.2012). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Commissioni come consigli. Devono
rispecchiare la composizione dei gruppi. In
caso di cambio di casacca va garantita una
rappresentanza proporzionale.
È necessario provvedere
a un riequilibrio generale delle commissioni
consiliari permanenti originariamente
costituite se, a fronte dei molteplici
mutamenti politici intervenuti nel tempo, si
è modificata la compagine dei consiglieri e,
quindi, la composizione dei gruppi? Il
consigliere che ha cambiato gruppo, se
riveste le funzioni di presidente di una
commissione consiliare, deve continuare a
svolgere tali funzioni fino al termine del
mandato oppure si deve procedere alla sua
sostituzione?
Le commissioni consiliari previste
dall'articolo 38, comma 6 del dlgs n.
267/2000, una volta istituite sulla base di
una facoltativa previsione statutaria, sono
disciplinate dall'apposito regolamento
comunale con l'unico limite, posto dal
legislatore, riguardante il rispetto del
criterio proporzionale nella composizione.
Ciò significa che le forze politiche
presenti in consiglio devono essere il più
possibile rispecchiate anche nelle
commissioni, in modo che in ciascuna di esse
ne sia riprodotto il peso numerico e di
voto.
Il caso prospettato si inquadra nell'ambito
dei possibili mutamenti che possono
sopravvenire all'interno delle forze
politiche presenti in consiglio comunale per
effetto di dissociazioni dall'originario
gruppo di appartenenza, comportanti la
costituzione di nuovi gruppi consiliari
ovvero l'adesione a diversi gruppi
esistenti. Il principio generale del divieto
di mandato imperativo, sancito dall'articolo
67 della Costituzione, assicura ad ogni
consigliere l'esercizio del mandato ricevuto
dagli elettori -pur conservando verso gli
stessi la responsabilità politica- con
assoluta libertà, ivi compresa quella di far
venir meno l'appartenenza dell'eletto alla
lista o alla coalizione di originaria
appartenenza. (cfr. Tar, Trentino-Alto Adige,
Trento n. 75 del 2009)
Va da sé che i mutamenti in parola
modificano i rapporti tra le forze politiche
presenti in consiglio, incidendo sul numero
dei gruppi ovvero sulla consistenza numerica
degli stessi, e ciò non può non influire
sulla composizione delle commissioni
consiliari che deve, pertanto, adeguarsi ai
nuovi assetti. La fattispecie prospettata
va, pertanto, inquadrata nell'ambito di un
riequilibrio generale degli assetti presenti
nelle commissioni. Quanto al rispetto del
criterio proporzionale previsto dal citato
articolo 38, comma 6, del dlgs n. 267/2000,
il legislatore non precisa come lo stesso
debba essere declinato in concreto. Spetta
al regolamento, cui sono demandate la
determinazione dei poteri delle commissioni
nonché la disciplina dell'organizzazione e
delle forme di pubblicità dei lavori,
stabilire i meccanismi idonei a garantirne
il rispetto.
Secondo quanto osservato dal Tar Lombardia,
nella sentenza n. 567/1996, il criterio
proporzionale è posto dal legislatore come
direttiva suscettibile di svariate opzioni
applicative, egualmente legittime purché
coerenti con la ratio che quel
principio sottende, e che consiste
nell'assicurare in seno alle commissioni la
maggiore rappresentatività possibile. Al
raggiungimento di questo risultato
concorrono, come esperienza e prassi
dimostrano, non soltanto la rappresentanza
individuale proporzionata alla consistenza
delle forze politiche presenti nell'organo
elettivo, ma anche –quando la varietà di
consistenza e di numero dei gruppi non
consenta di conseguire l'obiettivo con
precisione aritmetica, per quozienti interi–
meccanismi tecnici (quali il voto ponderato,
il voto plurimo e simili) idonei ad
assicurare a ciascun commissario un peso
corrispondente a quello della forza politica
che rappresenta.
Nel caso di specie se, in materia di
commissioni consiliari, il regolamento sul
funzionamento del consiglio comunale prevede
che la ripartizione dei membri delle
commissioni da parte dei singoli gruppi deve
essere effettuata con un criterio di
proporzionalità –garantendo, comunque a
ciascun consigliere la presenza in almeno
una commissione consiliare- e che nel caso
di dimissioni, decadenza od altro motivo che
renda necessaria la sostituzione di un
Consigliere, il presidente del gruppo
consiliare di appartenenza designi un altro
rappresentante, è necessario provvedere,
anche al fine di adeguare la composizione
delle commissioni al criterio proporzionale
previsto dal citato art. 38 del dlgs
267/2000, a una revisione complessiva delle
stesse con una deliberazione del consiglio
comunale che prenda atto della designazione
dei consiglieri in rappresentanza dei gruppi
neo costituiti e della sostituzione dei
consiglieri.
Il disposto recato dal regolamento comunale
in combinato disposto con il citato art. 38
Tuel è applicabile anche alla ipotesi
prospettata del consigliere eletto
presidente di una commissione in
rappresentanza di un gruppo dal quale
successivamente si sia dissociato
(articolo ItaliaOggi
del 25.05.2012). |
EDILIZIA PRIVATA:
Edilizia, bonus sale.
Ristrutturare con lo sgravio del 50%.
Nel dl infrastrutture incentivi per il
risparmio energetico.
La detrazione del 36% per la
ristrutturazioni edilizie potrebbe arrivare
al 50% con un tetto di 96 mila euro per
unità immobiliare (invece dell'attuale
limite di 48 mila euro). Sarà invece
prevista come stabile la detraibilità fino
al 55% delle spese per interventi di
riqualificazione energetica.
Sono queste
alcune delle proposte che il ministero delle
infrastrutture ha messo a punto e sulle
quali si dovrà confrontare con il ministero
dell'economia, in capo al premier Mario
Monti, in vista della prossima adozione di
un decreto-legge per il rilancio delle
infrastrutture, parte dell'intervento sulla
crescita di cui ha parlato in queste
settimane il ministro per le infrastrutture
e sviluppo economico, Corrado Passera. Per
le detrazioni sugli interventi di
ristrutturazione edilizia, la proposta del
governo è quella di innalzare dal 36 al 50%
la quota detraibile ai fini Irpef aumentando
anche l'importo massimo della spesa per
unità immobiliare da 48 mila a 96.mila euro.
L'obiettivo è quello di incentivare la
ripresa del mercato delle costruzioni e, in
particolare quello delle ristrutturazioni
che, dalle stime in possesso del governo,
nel periodo 1998-2006, attraverso
l'incentivo ha potuto contare su un
incremento annuo degli investimenti in
ristrutturazioni stimabile in circa 1,1
miliardi di euro che, con l'aumento dal 36
al 50% dovrebbe aumentare di altri 350
milioni.
L'aumento di percentuale di
detrazione di 14 punti percentuali
determinerà un minor gettito Irpef
complessivo pari a 1,2 miliardi in dici
anni, compensato da un incremento di gettito
conseguente all'effetto incentivante sugli
investimenti sia con riferimento
all'incremento del gettito Iva sia con
riferimento all'incremento delle imposte
dirette cioè Irpef-Ires-Irap. Oltre
all'intervento sulle ristrutturazioni
edilizie la proposta del governo prevede che
sia portato a regime la detrazione del 55%
per gli interventi di riqualificazione
energetica, anche in questo caso con la
finalità di incentivare la ripresa del
mercato delle costruzioni. Gli oneri che il
governo stima possano determinarsi per la
messa a regime dell'incentivo ammontano a
2.475 milioni di euro che ripartiti nelle
dieci quote annuali (come previsto per
legge) risultano 248 milioni di euro annui.
A questi interventi sulle ristrutturazioni e
sulla riqualificazione energetica si
aggiungono poi altri interventi che tendono
ad agevolare il regime fiscale per
l'invenduto a favore dei costruttori e altri
che incidono sull'acquisto degli immobili
(esenzione Imu biennale per le case il cui
valore dichiarato sia inferiore a 200 mila
euro e detrazione delle spese di registro
dell'atto di acquisto) e sulla detrazione
degli interessi passivi per i mutui (si
arriva alla totale detraibilità degli
interessi, con un costo, però per l'Erario
pari a più di un miliardo di euro per il
2013).
Trattandosi di proposte che potrebbero avere
ripercussioni non da poco sugli equilibri di
bilancio, il confronto con il ministero
dell'economia sarà evidentemente decisivo,
così come lo era ai tempi dell'ex ministro
Giulio Tremonti (articolo
ItaliaOggi del 23.05.2012 - link a
www.corteconti.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Box,
comprare senza l'alloggio. Notai di Milano
su nuove opportunità.
Nuove opportunità dalla compravendita dei
box privati separatamente dagli
appartamenti. Il recente dl n. 5/2012 di
semplificazione e sviluppo ha consentito, a
determinate condizioni, la libera
circolazione dei cosiddetti parcheggi Tognoli, che fino a oggi non potevano essere
venduti senza l'abitazione di pertinenza,
pena la nullità del contratto. La disciplina
della circolazione dei box rimane molto
complessa e articolata.
Se ne parlerà oggi
pomeriggio alle 18 all'Urban Center di
Milano, nella Galleria Vittorio Emanuele,
nell'ultimo incontro dell'iniziativa
«Comprar casa senza rischi» organizzata dal
Consiglio notarile del capoluogo lombardo.
Nel quadro normativo attuale si possono
distinguere sostanzialmente tre categorie,
in ognuna delle quali la vendita separata
del box dall'appartamento è disciplinata in
maniera differente: parcheggi ponte o
standard (dal nome della legge ponte n.
765/1967), parcheggi Tognoli (anche in questo
caso dal nome attribuito alla legge n.
122/89) e parcheggi liberi (si veda la
tabella elaborata dal Consiglio notarile di
Milano).
I parcheggi Tognoli si suddividono
a loro volta in due categorie: pubblici (per
i quali la vendita separata è legittima
soltanto ove ciò sia espressamente previsto
dalla convenzione originaria stipulata con
il comune, perché in questi caso la
costruzione dei box avviene in proprietà
superficiaria su aree di proprietà pubblica)
e privati (per i quali sono state previste
dalla legge n. 122/1989 numerose agevolazioni
urbanistiche e civilistiche: si pensi, ad
esempio, alle maggioranze ridotte necessarie
per autorizzare la costruzione di parcheggi
interrati in ambito condominiale).
A seguito
della novella del 2012, come spiegato il
notaio Ugo Friedmann, i parcheggi Tognoli
privati possono essere venduti separatamente
dall'appartamento, nel rispetto delle norme
civilistiche sulla pertinenza e delle due
seguenti condizioni: la destinazione del
bene deve rimanere la stessa (dal box non
potrà essere ricavato un negozio o un
laboratorio) e l'acquirente dovrà destinarlo
a pertinenza di altra unità immobiliare sita
nel medesimo comune (articolo
ItaliaOggi del 23.05.2012). |
ENTI LOCALI - VARI:
LA CIRCOLARE SULL'IMU/ Lo sconto prima casa è uno solo.
Non rileva il fatto che il contribuente
utilizzi più immobili. Per usufruire del
beneficio è necessario accatastare insieme
le unità.
Il contribuente può fruire delle
agevolazioni per abitazione principale per
un solo immobile, anche se utilizzi di fatto
più unità immobiliari distintamente iscritte
in catasto, a meno che non abbia provveduto
al loro accatastamento unitario.
Lo ha
chiarito il dipartimento delle finanze del
ministero dell'economia, con la circolare
3/2012.
Rispetto a quanto previsto per l'Ici, la
definizione di abitazione principale
presenta dei profili di novità. L'articolo
13, comma 2, del dl 201/2011 prevede che per
abitazione principale si intende l'immobile,
iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio
urbano come unica unità immobiliare, nel
quale il possessore e il suo nucleo
familiare dimorano abitualmente e risiedono
anagraficamente. Dalla lettura della norma,
per il dipartimento, «emerge, innanzitutto,
che l'abitazione principale deve essere
costituita da una sola unità immobiliare
iscritta o iscrivibile in catasto a
prescindere dalla circostanza che sia
utilizzata come abitazione principale più di
una unità immobiliare».
Quindi, le singole unità vanno assoggettate
separatamente a imposizione, ciascuna per la
propria rendita. È il contribuente a
scegliere quale destinare ad abitazione
principale. Secondo la tesi ministeriale, la
nuova disposizione consente di superare per
l'Imu, «in maniera inequivocabile, i
contrasti interpretativi tra prassi e
giurisprudenza sorti in materia di Ici».
L'interpretazione ministeriale, però, non
può essere condivisa, in quanto richiama
nella circolare il principio affermato per
la prima volta dalla Cassazione (sentenza
25902/2008) per l'Ici, poi ribadito con
altre pronunce, ma lo ritiene superato dalla
nuova disposizione, secondo la quale il
beneficio fiscale è limitato a una sola
unità immobiliare, mentre le altre, ancorché
utilizzate di fatto come abitazione
principale, non possono fruire del
trattamento agevolato.
Invece, anche per l'Imu il contribuente
dovrebbe avere diritto all'aliquota ridotta
e alla detrazione, qualora utilizzi
contemporaneamente diversi fabbricati come
abitazione principale, visto che l'articolo
13 richiede che si tratti di un'unica unità
immobiliare «iscritta o iscrivibile» come
tale in catasto.
Occorre dare un senso alla formulazione
letterale della norma che fa riferimento ai
diversi immobili che sono potenzialmente
«iscrivibili» come un'unica unità
immobiliare. In questi casi, dunque, è
sufficiente che sussistano due requisiti:
uno soggettivo e l'altro oggettivo.
In particolare, le diverse unità immobiliari
devono essere possedute dallo stesso
titolare (o dagli stessi titolari) e devono
essere contigue. E l'Agenzia del territorio
dovrebbe certificare l'iscrivibilità come
unica unita immobiliare.
Del resto, la Cassazione più volte ha
chiarito che ciò che conta è l'effettiva
utilizzazione come abitazione principale
dell'immobile complessivamente considerato,
a prescindere dal numero delle unità
catastali.
Peraltro, per i giudici di legittimità, gli
immobili distintamente iscritti in catasto
non importa che siano di proprietà di un
solo coniuge o di ciascuno dei due in regime
di separazione dei beni. A patto che il
derivato complesso abitativo utilizzato non
trascenda la categoria catastale delle unità
che lo compongono.
Secondo la Cassazione, un'interpretazione
contraria non sarebbe rispettosa della
finalità legislativa di ridurre il carico
fiscale sugli immobili adibiti a «prima
casa». La tesi della Cassazione, però,
si pone in contrasto con quanto affermato
dal dipartimento delle finanze del
ministero, con la risoluzione 6/2002,
richiamata anch'essa nella recente
circolare, sui presupposti richiesti per
usufruire dei benefici fiscali.
Infatti il ministero già in passato, anche
per l'Ici, aveva precisato che due o più
unità immobiliari vanno singolarmente e
separatamente soggette a imposizione, «ciascuna
per la propria rendita». Il
contribuente, per avere diritto
all'agevolazione, era tenuto a richiedere
l'accatastamento unitario degli immobili,
per i quali fosse stata attribuita una
distinta rendita, presentando all'ente una
denuncia di variazione (articolo
ItaliaOggi del 23.05.2012). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pubblico
impiego. Un disegno di legge delega per
armonizzare l'ordinamento degli statali con
la riforma Fornero. Più autonomia ai
dirigenti, premi legati alla produttività.
REGIONI E SINDACATI/ Cambia la
contrattazione con il coinvolgimento di
tutti gli attori nella gestione della
mobilità e della riorganizzazione.
L'allineamento delle regole del pubblico
impiego al riassetto del mercato del lavoro
privato verrà garantito con l'attuazione di
una delega piena e non tramite nuove norme
subito operative.
Lo prevede il disegno di legge che il
ministro della Pa e la Semplificazione,
Filippo Patroni Griffi, presenterà domani in
Consiglio dei ministri. Sette articoli in
tutto e il rimando a decreti legislativi da
adottare entro nove mesi dall'entrata in
vigore della legge per completare un
percorso di privatizzazione del lavoro
pubblico introdotto all'inizio degli anni
Novanta e correggere alcuni aspetti della
riforma Brunetta che non hanno superato la
prova dell'attuazione.
Il testo parte dai principi fissati nel
protocollo d'intesa sottoscritto da Regioni,
enti locali e da tutti i sindacati il 4
maggio scorso. Si spazia dalla disciplina
del rapporto di lavoro nella Pa, con il
riconoscimento del contratto a tempo
indeterminato come forma dominante per
rispondere al fabbisogno di personale, alle
regole sui licenziamenti, con l'introduzione
di tipizzazioni di ipotesi legali per i casi
disciplinari, fino a misure di
semplificazione per favorire la mobilità «volontaria
e guidata» dei dipendenti, con la
previsione di ipotesi da definire in sede di
contrattazione di utilizzo del part time
e della mobilità professionale. Sui
contratti flessibili si prevede un loro
ridimensionamento con il rispetto della
specificità di comparti come l'istruzione e
gli enti di ricerca, mentre nei concorsi
pubblici (unico canale di accesso alla Pa)
verranno valorizzate le esperienze
professionali acquisite proprio con i
contratti flessibili.
Ma il testo va ben oltre e punta al riordino
del sistema della contrattazione collettiva
e delle relazioni sindacali con il
riconoscimento di una maggiore
rappresentanza di Regioni ed enti
territoriali e forme di partecipazione dei
sindacati ai processi di riorganizzazione
della Pa. È uno dei passaggi del Ddl che
ritocca la riforma Brunetta laddove si
prevedono possibilità di esame congiunto con
i sindacati dei processi di riassetto delle
amministrazioni nell'ambito di un riordino
dei comparti di contrattazione che rimane
con l'obiettivo di una loro forte riduzione.
Si metterà poi mano, con i decreti delegati,
anche al sistema di valutazione delle
performance, e qui l'obiettivo è di misurare
i meriti individuali partendo però dal
contesto organizzativo e dai diversi livelli
di responsabilità dei singoli. È questo
l'altro ritocco alla riforma Brunetta ma non
si prevede affatto di cancellare il
principio della premialità selettiva, che
dovrà rimanere «differenziata in
relazione ai risultati conseguiti fermo il
divieto di corresponsione di trattamenti
uniformi, automatici o a rotazione».
Un ampio capitolo, raccolto nell'articolo 5,
riguarda la dirigenza di cui si vogliono
ampliare e rafforzare i poteri assicurandone
una maggiore autonomia dagli organi di
indirizzo politico ma puntando, nel
contempo, a promuovere una maggiore
flessibilità e mobilità anche tra comparti
diversi. Cambieranno anche i conferimenti di
incarichi ai dirigenti e si prevede una
stretta sugli incarichi esterni. Confermato,
poi, il riordino delle scuole di formazione,
sempre con l'obiettivo di promuovere
l'interdisciplinarietà. Ulteriore delega,
infine, è stata aggiunta per rafforzare e
rendere più cogente tutta la normativa che
regola gli obblighi di trasparenza e
accessibilità alle informazioni di tutte le
amministrazioni
(articolo Il
Sole 24 Ore
del 23.05.2012 - link a
www.corteconti.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell'art. 32, comma 27,
lettera d), del d.l. 0.09.2003, n. 269, convertito dalla l. 24.11.2003, n. 326 sono sanabili le
opere abusive realizzate in aree sottoposte
a specifici vincoli (tra cui quello
idrogeologico, ambientale e paesistico)
purché ricorrano “congiuntamente”
determinate condizioni:
- che si tratti di opere realizzate prima
dell’imposizione del vincolo; in proposito
la Corte Costituzionale (ordinanza n. 150
del 2009) ha negato che debba trattarsi solo
dei vincoli che comportino l’inedificabilità
assoluta;
- che, pur realizzate in assenza o in
difformità del titolo edilizio, siano
conformi alle prescrizioni urbanistiche;
- che siano opere di minore rilevanza,
corrispondenti alle tipologie di illecito di
cui ai nn. 4, 5 e 6 dell’allegato 1 del d.l.
n. 269 del 2003 (restauro, risanamento
conservativo e manutenzione straordinaria)
senza quindi aumento di superficie;
- che vi sia il previo parere favorevole
dell’autorità preposta al vincolo.
---------------
Il rilascio della concessione in sanatoria
in zone vincolate presuppone necessariamente
il parere favorevole dell'autorità preposta
alla tutela del vincolo prescritto dall'art.
32 della legge n. 47 del 1985, anche ai fini
della formazione del silenzio assenso;
inoltre è l'art. 35 della legge n. 47 del
1985 ad indicare che, nelle ipotesi previste
dal precedente art. 32, il termine per la
formazione del silenzio assenso decorre
dalla emissione del parere di detta
autorità; ciò in virtù del richiamato
espresso rinvio del comma 25 dell'art. 32
del d.l. n. 269 del 2003 alle disposizioni
dei "capi IV e V della legge 28.02.1985, n.
47, e successive modificazioni e
integrazioni, come ulteriormente modificate
dall'art. 39 della legge 23.12.1994, n. 724,
e successive modificazioni e integrazioni" e
del successivo comma 27 che prevede: “Fermo
restando quanto previsto dagli articoli 32 e
33 della legge 28.02.1985, n. 47….”
Comunque, il comma 1 dell’art. 32 della
legge n. 47 del 1985 dopo aver disposto che
“il rilascio del titolo abilitativo edilizio
in sanatoria per opere eseguite su immobili
sottoposti a vincolo è subordinato al parere
favorevole delle amministrazioni preposte
alla tutela del vincolo stesso” prevede
espressamente la possibilità per il
richiedente di impugnare il silenzio-rifiuto
qualora tale parere non venga formulato
dall’amministrazione entro centottanta
giorni dalla data di ricevimento della
richiesta di parere stesso.
La giurisprudenza ordinaria e amministrativa ormai consolidata, già fatta
propria anche da questa Sezione e dalla
quale il Collegio non ha motivo di
discostarsi, (ex multis, Cass. Penale,
Sezione III, n. 24647 del 2009 e Consiglio
di Stato, Sezione VI, n. 1200 del 2010,
TAR Puglia, Bari, Sezione III, n.
805/2011 e n. 1884/2011), ha riconosciuto
che, ai sensi dell'art. 32, comma 27,
lettera d), del decreto-legge 30.09.2003, n. 269, convertito dalla legge 24.11.2003, n. 326 sono sanabili le
opere abusive realizzate in aree sottoposte
a specifici vincoli (tra cui quello
idrogeologico, ambientale e paesistico)
purché ricorrano “congiuntamente”
determinate condizioni:
- che si tratti di opere realizzate prima
dell’imposizione del vincolo; in proposito
la Corte Costituzionale (ordinanza n. 150
del 2009) ha negato che debba trattarsi solo
dei vincoli che comportino l’inedificabilità
assoluta;
- che, pur realizzate in assenza o in
difformità del titolo edilizio, siano
conformi alle prescrizioni urbanistiche;
- che siano opere di minore rilevanza,
corrispondenti alle tipologie di illecito di
cui ai nn. 4, 5 e 6 dell’allegato 1 del d.l.
n. 269 del 2003 (restauro, risanamento
conservativo e manutenzione straordinaria)
senza quindi aumento di superficie;
- che vi sia il previo parere favorevole
dell’autorità preposta al vincolo.
---------------
La
giurisprudenza amministrativa, condivisa del
Collegio, ritiene che il rilascio della
concessione in sanatoria in zone vincolate
presuppone necessariamente il parere
favorevole dell'autorità preposta alla
tutela del vincolo prescritto dall'art. 32
della legge n. 47 del 1985, anche ai fini
della formazione del silenzio assenso (cfr.
Consiglio di Stato, Sezione VI, n. 528/2006,
TAR Campania, Napoli, Sezione IV, n.
1483/2009); inoltre è l'art. 35 della legge
n. 47 del 1985 ad indicare che, nelle
ipotesi previste dal precedente art. 32, il
termine per la formazione del silenzio
assenso decorre dalla emissione del parere
di detta autorità (cfr. Consiglio di Stato
Sezione IV, n. 3116/2011); ciò in virtù del
richiamato espresso rinvio del comma 25
dell'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 alle
disposizioni dei "capi IV e V della legge 28.02.1985, n. 47, e successive
modificazioni e integrazioni, come
ulteriormente modificate dall'art. 39 della
legge 23.12.1994, n. 724, e successive
modificazioni e integrazioni" e del
successivo comma 27 che prevede: “Fermo
restando quanto previsto dagli articoli 32 e
33 della legge 28.02.1985, n. 47….”
Deve altresì evidenziarsi che, comunque, il
comma 1 dell’art. 32 della legge n. 47 del
1985 dopo aver disposto che “il rilascio del
titolo abilitativo edilizio in sanatoria per
opere eseguite su immobili sottoposti a
vincolo è subordinato al parere favorevole
delle amministrazioni preposte alla tutela
del vincolo stesso” prevede
espressamente la possibilità per il
richiedente di impugnare il silenzio-rifiuto
qualora tale parere non venga formulato
dall’amministrazione entro centottanta
giorni dalla data di ricevimento della
richiesta di parere stesso (cfr. TAR
Bari, Sezione III, n. 676/2012) (TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 25.05.2012 n. 1049 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'istituto del preavviso di
rigetto di cui all'art. 10-bis della legge
n. 241 del 1990 -Comunicazione dei motivi
ostativi all'accoglimento dell'istanza-
stante la sua portata generale, trova
applicazione anche nei procedimenti di
sanatoria o di condono edilizio. Deve,
conseguentemente, ritenersi illegittimo il
provvedimento di diniego dell'istanza di
permesso in sanatoria che non sia stato
preceduto dall'invio della comunicazione di
cui al citato art. 10-bis in quanto
preclusivo per il soggetto interessato della
piena partecipazione al procedimento e
dunque della possibilità di un suo apporto
collaborativo, capace di condurre ad una
diversa conclusione della vicenda.
Nondimeno, occorre considerare che tali
omissioni non determinano comunque
l'annullabilità del provvedimento, qualora
trovi applicazione il disposto dell'art.
21-octies, comma 2, prima parte della legge
n. 241 del 1990, a tenore del quale “non è
annullabile il provvedimento adottato in
violazione di norme sul procedimento o sulla
forma degli atti qualora, per la natura
vincolata del provvedimento, sia palese che
il suo contenuto dispositivo non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto
adottato”.
Al
riguardo il Collegio aderisce alla
giurisprudenza amministrativa, già fatta
propria da questa Sezione, alla luce della
quale, a seguito delle modifiche introdotte
dalla legge 11.02.2005, n. 15,
l'istituto del preavviso di rigetto di cui
all'art. 10-bis della legge n. 241 del 1990
-Comunicazione dei motivi ostativi
all'accoglimento dell'istanza- introdotto
dall’art. 6 della prima legge menzionata,
stante la sua portata generale, trova
applicazione anche nei procedimenti di
sanatoria o di condono edilizio (cfr. TAR
Bari, Sezione III, 22.09.2011, n.
1383, TAR Liguria Genova, Sez. I, 22.04.2011, n. 666). Deve,
conseguentemente, ritenersi illegittimo il
provvedimento di diniego dell'istanza di
permesso in sanatoria che non sia stato
preceduto dall'invio della comunicazione di
cui al citato art. 10-bis in quanto
preclusivo per il soggetto interessato della
piena partecipazione al procedimento e
dunque della possibilità di un suo apporto
collaborativo, capace di condurre ad una
diversa conclusione della vicenda (cfr.
TAR Campania Napoli, Sez. VIII, 07.03.2011, n. 1318).
Nondimeno, occorre considerare che tali
omissioni non determinano comunque
l'annullabilità del provvedimento, qualora
trovi applicazione il disposto dell'art.
21-octies, comma 2, prima parte della legge
n. 241 del 1990, a tenore del quale “non è
annullabile il provvedimento adottato in
violazione di norme sul procedimento o sulla
forma degli atti qualora, per la natura
vincolata del provvedimento, sia palese che
il suo contenuto dispositivo non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto
adottato”.
Orbene, non vi è alcun dubbio che il
provvedimento di diniego di condono edilizio
costituisce espressione di potere vincolato
rispetto ai presupposti normativi richiesti
e dei quali deve farsi applicazione (negli
stessi termini TAR Liguria Genova, Sez.
I, 22.04.2011, n. 666, cit. e la
giurisprudenza ivi richiamata: Consiglio di
Stato, IV, 14.04.2010, n. 2105; TAR Lombardia-Milano, II, 22.07.2010, n. 3253).
Analizzando sulla base di dette coordinate
la fattispecie concreta oggetto di gravame,
il Collegio ritiene che l'amministrazione
comunale, nel rigettare l’istanza di condono
prodotta dalla ricorrente ai sensi del d.l.
n. 269 del 2003, convertito dalla legge n.
326 del 2003, sia incorsa nella violazione
dell'art. 10-bis della legge n. 241 del
1990, non risultando che il Comune di Andria
abbia inviato il preavviso della propria
futura determinazione negativa. Tuttavia
nella fattispecie oggetto di gravame può
trovare applicazione il disposto del comma
2, prima parte, dell'art. 21-octies della
legge n. 241 del 1990 sopra riportato ed
invocato da parte resistente nei propri
scritti difensivi, considerato che è palese
che il contenuto dispositivo del
provvedimento impugnato non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto
adottato, alla luce di quanto sopra esposto
in riferimento alla infondatezza dei motivi
di ricorso sopra esaminati (cfr. TAR
Bari, Sezione III, n. 676/2012)
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 25.05.2012 n. 1049 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Pur confermandosi che l'ordine di
demolizione di un’opera edilizia ritenuta
abusiva, come atto dovuto in presenza della
constatata realizzazione dell’opera senza
titolo abilitativo (o in totale difformità
da esso), è in linea di principio
sufficientemente motivata con l’affermazione
dell’accertata abusività dell’opera, si fa
salva l’ipotesi in cui, per il lungo lasso
di tempo trascorso dalla commissione
dell’abuso ed il protrarsi dell’inerzia
dell’Amministrazione preposta alla
vigilanza, si sia ingenerata una posizione
di affidamento nel privato.
Ipotesi, in relazione alla quale si ravvisa
un onere di congrua motivazione che indichi,
avuto riguardo anche all’entità ed alla
tipologia dell’abuso, il pubblico interesse
-evidentemente diverso da quello al
ripristino della legalità- idoneo a
giustificare il sacrificio del contrapposto
interesse privato.
Coglie nel segno il quarto motivo di ricorso con il quale la ricorrente ha
dedotto la violazione dell’art. 3 della
legge n. 241 del 1990 per difetto di
motivazione in ordine al pubblico interesse
perseguito con la demolizione; parte
ricorrente lamenta che, anche se fossero
ritenute superabili le censure di cui ai
precedenti motivi di ricorso, l’ordinanza di
demolizione sarebbe illegittima in quanto il
comportamento tenuto dall’ente locale
resistente sin dal 1984 (26 anni) avrebbe
ingenerato una posizione di affidamento
rispetto alla quale l’amministrazione
avrebbe avuto l’onere di una congrua
motivazione in ordine all’interesse pubblico
prevalente che giustificasse il sacrificio
di essa ricorrente, motivazione omessa nella
presente fattispecie.
Rappresenta, invero, orientamento
consolidato in giurisprudenza, dal quale il
Collegio non ha motivo di discostarsi,
quello secondo il quale, pur confermandosi
che l'ordine di demolizione di un’opera
edilizia ritenuta abusiva, come atto dovuto
in presenza della constatata realizzazione
dell’opera senza titolo abilitativo (o in
totale difformità da esso), è in linea di
principio sufficientemente motivata con
l’affermazione dell’accertata abusività
dell’opera, si fa salva l’ipotesi in cui,
per il lungo lasso di tempo trascorso dalla
commissione dell’abuso ed il protrarsi
dell’inerzia dell’Amministrazione preposta
alla vigilanza, si sia ingenerata una
posizione di affidamento nel privato.
Ipotesi, in relazione alla quale si ravvisa
un onere di congrua motivazione che indichi,
avuto riguardo anche all’entità ed alla
tipologia dell’abuso, il pubblico interesse
-evidentemente diverso da quello al
ripristino della legalità- idoneo a
giustificare il sacrificio del contrapposto
interesse privato (cfr. ex multis Consiglio
di Stato, Sezione V, n. 3270 del 29.05.2006, TAR Catanzaro, Sezione II n. 52 del
20.01.2009 e TAR Valle d’Aosta, n.
72 del 02.11.2011) (TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 25.05.2012 n. 1045 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 23 e l’art. 11 dpr
380/2001 sono sempre stati interpretati
dalla giurisprudenza amministrativa nel
senso che l’Amministrazione comunale è
certamente chiamata allo svolgimento di
un’attività istruttoria per accertare la
sussistenza del titolo, anche se all’Ente
pubblico spetta soltanto la verifica, in
capo al richiedente, di un titolo
sostanziale idoneo a costituire la posizione
legittimante, senza alcuna ulteriore e
minuziosa indagine che si estenda fino alla
ricerca di eventuali fattori limitativi,
preclusivi o estintivi del titolo di
disponibilità dell’immobile, allegato da chi
presenta istanza edilizia.
L’art. 23 e l’art. 11 dpr 380/2001 sono sempre stati interpretati
dalla giurisprudenza amministrativa nel
senso che l’Amministrazione comunale è
certamente chiamata allo svolgimento di
un’attività istruttoria per accertare la
sussistenza del titolo, anche se all’Ente
pubblico spetta soltanto la verifica, in
capo al richiedente, di un titolo
sostanziale idoneo a costituire la posizione
legittimante, senza alcuna ulteriore e
minuziosa indagine che si estenda fino alla
ricerca di eventuali fattori limitativi,
preclusivi o estintivi del titolo di
disponibilità dell’immobile, allegato da chi
presenta istanza edilizia (cfr. sul punto,
Consiglio di Stato, sez. IV, 08.06.2011, n.
3508; TAR Campania, Napoli, sez. II,
06.12.2010, n. 26817 e TAR Lombardia, Milano,
sez. II, 31.03.2010, n. 842 e 10.02.2012, n.
496, con la giurisprudenza ivi richiamata) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 24.05.2012 n. 1431 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Si intende per rudere un
manufatto costituito da alcune rimanenze di
mura perimetrali, ovvero un immobile in cui
sia presente solo parte della muratura
perimetrale, vi è assenza di copertura e di
strutture orizzontali, onde non può
certamente parlarsi di un edificio allo
stato esistente.
La giurisprudenza amministrativa ha –del resto– ben chiara la
differenza fra “edificio” e “rudere”; così
ad esempio: <<(…) si intende per rudere un
manufatto costituito da alcune rimanenze di
mura perimetrali, ovvero un immobile in cui
sia presente solo parte della muratura
perimetrale, vi è assenza di copertura e di
strutture orizzontali, onde non può
certamente parlarsi di un edificio allo
stato esistente>> (TAR Campania, Salerno,
sez. I, 16.02.2012, n. 240; si vedano anche
TAR Campania, Napoli, sez. IV, 23.12.2010,
n. 28002; Tribunale di Chieti, 02.01.2009, n.
2 e Cassazione penale, sez. III, 21.10.2008,
n. 42521) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 24.05.2012 n. 1429 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il termine di decadenza per
impugnare il permesso di costruire –un tempo
concessione edilizia, prima del DPR
380/2001– decorre, per il terzo che si
reputa leso dall’intervento costruttivo, dal
momento in cui l’interessato è in grado di
percepire la lesione alla propria posizione
giuridica, visto lo stato di avanzamento o
di realizzazione dell’edificazione (si
ricordi altresì la sentenza n. 15/2011
dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato la quale, in ordine al termine di
impugnazione dei titoli edilizi, afferma
anch’essa che il termine suddetto <<inizia a
decorrere quando la costruzione realizzata
rivela in modo certo ed univoco le
essenziali caratteristiche dell'opera e
l'eventuale non conformità della stessa al
titolo o alla disciplina urbanistica>>).
---------------
La prova della conoscenza del provvedimento
lesivo, ai fini della decorrenza del termine
perentorio di impugnazione, può anche
desumersi da presunzioni; soprattutto nel
caso di specie, nel quale i ricorrenti
contestano in radice l’ammissibilità del
condono ed avevano quindi l’onere di gravare
tempestivamente la concessione in sanatoria,
non appena conosciuta, pur senza apprezzarne
in dettaglio i contenuti, essendo
sufficiente la consapevolezza dell’esistenza
del provvedimento e della sua lesività.
Come noto, il termine di decadenza per impugnare il permesso di costruire
–un tempo concessione edilizia, prima del
DPR 380/2001– decorre, per il terzo che si
reputa leso dall’intervento costruttivo, dal
momento in cui l’interessato è in grado di
percepire la lesione alla propria posizione
giuridica, visto lo stato di avanzamento o
di realizzazione dell’edificazione (cfr.,
fra le tante, Consiglio di Stato, sez. IV,
05.01.2011, n. 18 e 27.05.2010, n. 3378; sez. VI, 10.12.2010, n. 8705; TAR Lazio, sez. II-bis,
03.10.2011, n. 7670 e TAR Lombardia,
Milano, sez. II, 10.12.2010, n. 7511;
08.02.2011, n. 386; 05.07.2011, n. 1762 e
04.11.2011, n. 2640; si ricordi altresì la
sentenza n. 15/2011 dell’Adunanza Plenaria
del Consiglio di Stato la quale, in ordine
al termine di impugnazione dei titoli
edilizi, afferma anch’essa che il termine
suddetto <<inizia a decorrere quando la
costruzione realizzata rivela in modo certo
ed univoco le essenziali caratteristiche
dell'opera e l'eventuale non conformità
della stessa al titolo o alla disciplina
urbanistica>>).
---------------
La
giurisprudenza non esclude del resto che la
prova della conoscenza del provvedimento
lesivo, ai fini della decorrenza del termine
perentorio di impugnazione, possa anche
desumersi da presunzioni (cfr. TAR Lazio,
sez. II-bis, 03.10.2011, n. 7670);
soprattutto nel caso di specie, nel quale i
ricorrenti contestano in radice
l’ammissibilità del condono ed avevano
quindi l’onere di gravare tempestivamente la
concessione in sanatoria, non appena
conosciuta, pur senza apprezzarne in
dettaglio i contenuti, essendo sufficiente
la consapevolezza dell’esistenza del
provvedimento e della sua lesività (cfr. sul
punto, la sentenza del Consiglio di Stato,
sez. IV, 02.04.2012, n. 1957)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 24.05.2012 n. 1428 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Laddove
il bando di gara si limiti a richiedere ai
concorrenti una generica dichiarazione di
insussistenza delle cause di esclusione di
cui all’art. 38 del Codice, senza
specificare che vanno dichiarate tutte le
condanne penali, non sussistono gli estremi
per l’esclusione dell’impresa che sia
incorsa nella violazione, meramente formale,
di aver omesso la dichiarazione di
precedenti penali a suo carico.
In tale ipotesi, l’omessa menzione di
condanne penali non gravi non costituisce di
per sé dichiarazione falsa e quindi causa di
esclusione, atteso che il bando di gara, per
come formulato (con mero richiamo dell’art.
38 del Codice), non impone ai partecipanti
di manifestare qualsivoglia condanna penale
ed anzi li induce a ritenere di dover
dichiarare esclusivamente i reati gravi
incidenti sulla moralità professionale.
In ogni caso, quanto ai reati dichiarati
estinti dal Tribunale, non sussiste
l’obbligo di dichiarazione ai sensi
dell’art. 38, secondo comma, del Codice.
Considerato, in diritto:
- che, in relazione a fattispecie pressoché
identiche, si è statuito che laddove il
bando di gara si limiti a richiedere ai
concorrenti una generica dichiarazione di
insussistenza delle cause di esclusione di
cui all’art. 38 del Codice, senza
specificare che vanno dichiarate tutte le
condanne penali, non sussistono gli estremi
per l’esclusione dell’impresa che sia
incorsa nella violazione, meramente formale,
di aver omesso la dichiarazione di
precedenti penali a suo carico (così TAR
Puglia, Bari, sez. I, 20.05.2011 n. 752;
Id., sez. I, 10.06.2011 n. 889; nello
stesso senso, Cons. Stato, sez. VI, 04.08.2009 n. 4907);
- che, in tale ipotesi, l’omessa menzione di
condanne penali non gravi non costituisce di
per sé dichiarazione falsa e quindi causa di
esclusione, atteso che il bando di gara, per
come formulato (con mero richiamo dell’art.
38 del Codice), non impone ai partecipanti
di manifestare qualsivoglia condanna penale
ed anzi li induce a ritenere di dover
dichiarare esclusivamente i reati gravi
incidenti sulla moralità professionale;
- che in ogni caso, quanto ai reati
dichiarati estinti dal Tribunale di Trani,
non sussiste l’obbligo di dichiarazione ai
sensi dell’art. 38, secondo comma, del
Codice (TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 24.05.2012 n. 1022 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’Amministrazione può introdurre nella lex
specialis previsioni atte a limitare la
platea dei concorrenti, onde consentire la
partecipazione alla gara stessa di soggetti
particolarmente qualificati, specie per ciò
che attiene al possesso dei requisiti di
capacità tecnica e finanziaria, tutte le
volte in cui tale scelta non sia
eccessivamente quanto irragionevolmente
limitativa della concorrenza.
Nel bando di
gara, l’Amministrazione appaltante può
quindi autolimitare il proprio potere
discrezionale di apprezzamento mediante
apposite clausole, rientrando nella sua
discrezionalità la fissazione di requisiti
di partecipazione ad una gara d’appalto
diversi, ulteriori e più restrittivi di
quelli legali, salvo il limite della
logicità e ragionevolezza dei requisiti
richiesti e della loro pertinenza e
congruità a fronte dello scopo perseguito.
Infine, non può trovare accoglimento la censura relativa alla asserita
violazione dell’art. 68 dlgs n. 163/2006.
La relativa doglianza avrebbe dovuto indurre
parte ricorrente ad impugnare immediatamente
la clausola lesiva, venendo in rilievo una
prescrizione della lex specialis di gara
volta a fissare un requisito di
partecipazione evidentemente ab origine non
posseduto dalla stessa (vale a dire la
necessità di presentare un sistema a
cassetto ovvero equivalente, non già un
sistema a monopala che non può considerarsi
“equivalente”).
Inoltre -come evidenziato in precedenza-
il sistema a cassetto richiesto dalla
stazione appaltante possiede una forza di
compattazione maggiore rispetto al sistema a
monopala, con la conseguenza che il primo
sistema consente una notevole economia dei
costi.
Pertanto, non è censurabile la scelta
operata dalla stazione appaltante, in forza
di quanto condivisibilmente affermato da Cons.
Stato, Sez. VI, 09.08.2011, n. 4735:
“L’Amministrazione può introdurre nella lex
specialis previsioni atte a limitare la
platea dei concorrenti, onde consentire la
partecipazione alla gara stessa di soggetti
particolarmente qualificati, specie per ciò
che attiene al possesso dei requisiti di
capacità tecnica e finanziaria, tutte le
volte in cui tale scelta non sia
eccessivamente quanto irragionevolmente
limitativa della concorrenza. Nel bando di
gara, l’Amministrazione appaltante può
quindi autolimitare il proprio potere
discrezionale di apprezzamento mediante
apposite clausole, rientrando nella sua
discrezionalità la fissazione di requisiti
di partecipazione ad una gara d’appalto
diversi, ulteriori e più restrittivi di
quelli legali, salvo il limite della
logicità e ragionevolezza dei requisiti
richiesti e della loro pertinenza e
congruità a fronte dello scopo perseguito.”.
In base a quanto detto (economia dei costi
derivanti dall’utilizzazione del sistema a
cassetto) i requisiti richiesti nel caso di
specie dalla stazione appaltante sono
certamente valutabili come rispondenti ai
limiti di logicità e ragionevolezza;
possono, altresì, considerarsi pertinenti e
congrui rispetto allo scopo perseguito (TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 24.05.2012 n. 1020 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Spettano -in forza di prescrizione
legislativa di carattere imperativo (cfr.
art. 6 legge 24.12.1993, n. 537,
abrogato dall’art. 256 dlgs 12.04.2006,
n. 163, ma sostituito dall’art. 115 dlgs n.
163/2006)- le somme derivanti dalla
revisione del canone d’appalto ed è nulla
ogni difforme previsione contrattuale.
... per l’annullamento, previa adozione di
misura cautelare,
- del provvedimento di cui alla nota del
Dirigente del VI Settore del Comune di
Vieste prot. n. 196 del 05.01.2011 che
ha negato il diritto della ricorrente alla
revisione del canone di appalto del servizio
di igiene urbana;
- per la declaratoria di nullità dell’art.
41 del capitolato speciale d’appalto del
servizio di igiene urbana (e del relativo
contratto rep. n. 14 del 24.07.2006 che lo
richiama) nella parte in cui reca la
previsione di un’alea del 10% (soglie oltre
la quale è ammissibile la revisione del
canone);
- per la declaratoria del diritto della
ricorrente a veder corrisposte le revisioni
prezzi spettanti sul canone d’appalto ab
origine del rapporto sulla base dei
parametri contrattuali e degli indici ISTAT
giusta le specifiche previsioni dell’art. 41
del capitolato speciale senza l’applicazione
della predetta alea del 10%;
...
Rilevato che il ricorso appare fondato,
dovendosi condividere le argomentazioni
espresse da parte ricorrente in ordine alla
spettanza -in forza di prescrizione
legislativa di carattere imperativo (cfr.
art. 6 legge 24.12.1993, n. 537,
abrogato dall’art. 256 dlgs 12.04.2006,
n. 163, ma sostituito dall’art. 115 dlgs n.
163/2006)- delle somme derivanti dalla
revisione del canone d’appalto ed alla
nullità di ogni difforme previsione
contrattuale (cfr. TAR Puglia, Bari, Sez.
I, 10.06.2010, n. 2380; Cons. Stato,
Sez. V, 16.06.2003, n. 3373; Cons.
Stato, Sez. V, 20.08.2008, n. 3994) (TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 24.05.2012 n. 1018 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
E' illegittimo il decreto di
esproprio adottato dopo la scadenza del
termine di efficacia della dichiarazione di
pubblica utilità ovvero dopo la scadenza del
termine dell’occupazione d’urgenza.
Secondo la giurisprudenza amministrativa (cfr. TAR Campania, Napoli,
31.10.1983, n. 1164; TAR Abruzzo,
L’Aquila, 27.01.2003, n. 12) cui questo
Collegio ritiene di aderire è illegittimo il
decreto di esproprio adottato dopo la
scadenza del termine di efficacia della
dichiarazione di pubblica utilità ovvero
dopo la scadenza del termine
dell’occupazione d’urgenza (TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 24.05.2012 n. 1015 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: L'offerta
priva del bollo non può essere considerata
inammissibile, in ossequio ai principi di
efficacia, di libera concorrenza e favor
participationis, di ragionevolezza e
proporzionalità e alla conseguente,
consolidata, giurisprudenza in materia di
regolarizzazione degli oneri fiscali e di
bollo, che afferma la sanabilità delle
irregolarità formali attraverso
l’assolvimento del previsto onere
contributivo.
---------------
E' legittima la non esclusione di una
offerta la cui busta trasparente sia chiusa
in una ulteriore busta, del tutto idonea ad
impedire di poter vedere il contenuto della
stessa e, quindi, la segretezza dell’offerta
economica nel periodo di giacenza della
stessa presso l’Amministrazione.
Tra l'altro, la busta in parte trasparente,
contenente l’indicazione dell’offerta
economica, è risultata visibile solo in sede
di gara e, quindi, dal momento che la stessa
si è svolta e conclusa senza soluzione di
continuità, in sede di apertura delle
offerte stesse; operazione questa, peraltro,
che ha visto la partecipazione dell’impresa
odierna ricorrente che, quindi, risulta
essere essa stessa garante della correttezza
del trattamento delle offerte durante le
operazioni per l’individuazione
dell’aggiudicatario.
4. Ritenuto in diritto:
4.1. Che l’offerta priva del bollo non può
essere considerata inammissibile, in
ossequio ai principi di efficacia, di libera
concorrenza e favor participationis,
di ragionevolezza e proporzionalità e alla
conseguente, consolidata, giurisprudenza in
materia di regolarizzazione degli oneri
fiscali e di bollo, che afferma la
sanabilità delle irregolarità formali
attraverso l’assolvimento del previsto onere
contributivo (in tal senso, tra le altre,
TAR Campania, Napoli, Sez. VIII sentenza
07.07.2010, n. 18023);
4.2. Che, nonostante l’accertata trasparenza
della busta contenente l’offerta delle
imprese risultate aggiudicatarie, risulta
essere determinante -ai fini della
qualificazione come legittimo del
comportamento della stazione appaltante che
non l’ha esclusa (nonostante sia stata la
commissione stessa a porsi il problema)– il
fatto che essa fosse chiusa in una ulteriore
busta, del tutto idonea ad impedire di poter
vedere il contenuto della stessa e, quindi,
la segretezza dell’offerta economica nel
periodo di giacenza della stessa presso
l’Amministrazione può ritenersi essere stata
garantita.
La busta in parte trasparente, contenente
l’indicazione dell’offerta economica,
infatti, è risultata visibile solo in sede
di gara e, quindi, dal momento che la stessa
si è svolta e conclusa senza soluzione di
continuità, in sede di apertura delle
offerte stesse; operazione questa, peraltro,
che ha visto la partecipazione dell’impresa
odierna ricorrente che, quindi, risulta
essere essa stessa garante della correttezza
del trattamento delle offerte durante le
operazioni per l’individuazione
dell’aggiudicatario
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 24.05.2012 n. 905 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI E PROGETTUALI: L'università
non può essere affidataria di incarichi da
altre p.a..
Le università non possono essere affidatarie
dirette di incarichi da altre
amministrazioni per servizi di ingegneria e
consulenza; gli accordi previsti dalla legge
241/1990 non possono essere utilizzati per
eludere l'obbligo di affidare a terzi con
gara servizi di consulenza; se infatti
l'accordo non ha ad oggetto lo svolgimento
di una attività comune alle amministrazioni
e prevede un compenso, si tratta di un
contratto di appalto soggetto a gara e i
professionisti e le società devono potere
competere per l'acquisizione del contratto.
Sono queste le conclusioni 23.05.2012 che l'Avvocato
generale Verica Trstenjak ha proposto ieri
alla Corte di giustizia per la decisione
della
causa C-159/11 che vede come parti in
causa da un lato l'Azienda sanitaria locale
di Lecce e dall'altro lato l'Oice, l'Ordine
degli ingegneri della Provincia di Lecce e
il Consiglio nazionale degli ingegneri.
La
vicenda prende le mosse da un affidamento,
per importo soggetto alla normativa
comunitaria, dei servizi di studio e
valutazione della vulnerabilità sismica di
strutture ospedaliere, disposto dalla Asl
Lecce a favore dell'Università del Salento.
Dopo la sentenza di primo grado del Tar
Puglia, che aveva dichiarato illegittimo
l'affidamento diretto dell'incarico
all'università, per omesso ricorso alle
procedure di evidenza pubblica, il Consiglio
di stato aveva rimesso la questione alla
Corte di giustizia in via pregiudiziale. Si
trattava di stabilire se l'affidamento
potesse ritenersi legittimo e inquadrabile
in un accordo ex articolo 15 della legge
241/1990 e se quindi fosse necessario esperire
una gara.
In attesa della sentenza della
Corte, l'Avvocato generale nelle sue
conclusioni si orienta nel senso di ritenere
illegittimo l'affidamento in quanto
l'accordo non costituisce una forma di
cooperazione in comune di attività fra due
amministrazioni aggiudicatrici (così come
prevede la legge 241/1990), bensì un vero e
proprio contratto di consulenza per servizi
a fronte del pagamento di un compenso per il
quale occorreva procedere con gara,
ammettendo tutti gli operatori economici
interessati ad acquisire la commessa.
Pertanto l'Avvocato generale ritiene
contrario alle direttive appalti pubblici
«una disciplina nazionale che consente di
stipulare accordi scritti tra
un'amministrazione aggiudicatrice e
un'Università di diritto pubblico verso un
corrispettivo non superiore ai costi
sostenuti per l'esecuzione della
prestazione, ove l'Università esecutrice
possa rivestire la qualità di operatore
economico».
In sostanza l'Avvocato generale,
riconoscendo all'Università la qualità di
operatore economico, sulla base della
sentenza C-305/08 del 23.12.2009, afferma
indirettamente che in tale qualità non
avrebbe potuto sottoscrivere un accordo ma
poteva semmai partecipare a una gara, con
gli altri operatori, per l'aggiudicazione
dell'appalto. In ogni caso, poi, l'accordo
non corrisponde ai requisiti previsti dalla
legge, anche ribaditi dall'Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici, e in
particolare non prevede né alcuna attività
in comune, né l'assenza di corrispettivi
(sono invece ammessi i meri rimborsi spese)
(articolo ItaliaOggi
del 24.05.2012 - link a
www.corteconti.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Ciò che rileva, al fine
dell'annullamento dell'attestazione di
qualificazione, è il fatto oggettivo della
falsità dei documenti sulla base dei quali
essa è stata conseguita, indipendentemente
da ogni ricerca in ordine alla imputabilità
soggettiva del falso. Invero, la
attestazione deve basarsi su documenti
autentici, e non può rimanere in vita se
basata su atti falsi, quali che siano i
soggetti che hanno dato causa alla falsità.
Ne consegue che l'attestazione di
qualificazione rilasciata sulla base di
falsi documenti va annullata anche se in
ipotesi la falsità non sia imputabile
all'impresa che ha conseguito
l'attestazione.
Tuttavia, è stato anche considerato che la
non imputabilità della falsità all'impresa
che ha conseguito l'attestazione acquista
rilevanza ai fini del rilascio di nuova
attestazione, in quanto in caso di falso non
imputabile, ai sensi dell'art. 17, lett. m),
d.P.R. n. 34 del 2000, sussisterà il
requisito di ordine generale di non aver
reso false dichiarazioni circa il possesso
dei requisiti richiesti per l'ammissione
agli appalti e per il conseguimento
dell'attestazione di qualificazione.
Come si è esposto in narrativa, l’Autorità appellante concorda in via
generale con le statuizioni di principio
contenute nel precedente di questo Consiglio
di Stato, VI, 24.01.2005, n. 128.
In tale occasione, questo giudice ha
considerato che ciò che rileva, al fine
dell'annullamento dell'attestazione di
qualificazione, è il fatto oggettivo della
falsità dei documenti sulla base dei quali
essa è stata conseguita, indipendentemente
da ogni ricerca in ordine alla imputabilità
soggettiva del falso. Invero, la
attestazione deve basarsi su documenti
autentici, e non può rimanere in vita se
basata su atti falsi, quali che siano i
soggetti che hanno dato causa alla falsità.
Ne consegue che l'attestazione di
qualificazione rilasciata sulla base di
falsi documenti va annullata anche se in
ipotesi la falsità non sia imputabile
all'impresa che ha conseguito
l'attestazione.
Tuttavia, è stato anche considerato che la
non imputabilità della falsità all'impresa
che ha conseguito l'attestazione acquista
rilevanza ai fini del rilascio di nuova
attestazione, in quanto in caso di falso non
imputabile, ai sensi dell'art. 17, lett. m),
d.P.R. n. 34 del 2000, sussisterà il
requisito di ordine generale di non aver
reso false dichiarazioni circa il possesso
dei requisiti richiesti per l'ammissione
agli appalti e per il conseguimento
dell'attestazione di qualificazione.
Le conclusioni cui questa giurisprudenza è
giunta in via di principio sono condivise da
tutte le parti in causa, le cui opinioni –tuttavia– divergono per ciò che attiene le
ricadute in relazione ad ipotesi quale
quella all’origine dei fatti di causa.
In particolare, l’Autorità ritiene che in
tanto l’impresa la cui attestazione SOA sia
stata annullata per profili di falsità possa
chiedere l’esenzione dalle ulteriori
preclusioni di cui all’articolo 38 del
Codice dei contratti pubblici, in quanto
essa dimostri di essere stata
nell’impossibilità assoluta ed insuperabile
di avvedersi della falsità dei documenti che
hanno condotto all’annullamento
dell’attestazione.
In definitiva, l’Autorità ritiene che gravi
sull’impresa la prova liberatoria circa la
non imputabilità dei profili di falsità che
hanno condotto all’annullamento della SOA e
circa la non imputabilità dell’ignoranza
relativa alla sussistenza di tali profili di
falsità.
Il Collegio ritiene che la prospettazione
dell’Autorità non possa essere condivisa, in
quanto:
- è pacifico in atti che l’odierna appellata
non avesse in alcun modo dato luogo alla
falsità delle dichiarazioni che avevano
condotto al rilascio della prima SOA (quella
che la stessa appellata aveva sua sponte
restituito);
- è altresì pacifico che la seconda
attestazione SOA (quella della cui revoca
nella presente sede si discute) era stata
conseguita dalla società DFM Costruzioni
sulla base di titoli autonomi, i quali nulla
avevano in comune con i titoli posti a
fondamento della prima attestazione (ossia,
con i titoli di cui era stata dichiarata la
falsità);
- anche a voler condividere la ricostruzione
sistematica proposta dall’Autorità in ordine
al particolare onere di diligenza che grava
sul soggetto il quale si avvantaggi di
un’attestazione SOA (e, in via mediata,
delle dichiarazioni che ne costituiscono il
presupposto), non si giunge a conclusioni
diverse rispetto a quelle appena delineate.
E infatti, all’atto dell’acquisizione del
ramo di azienda, l’odierna appellata aveva
ogni ragione per ritenere –in perfetta
buona fede– che i titoli in base ai quali
la sua dante causa aveva ottenuto il
rilascio dell’attestazione fossero stati
correttamente esaminati dal soggetto a tanto
istituzionalmente deputato (la società
organismo di attestazione).
Si ritiene al riguardo che, in ipotesi quale
quella all’origine dei fatti di causa,
sarebbe obiettivamente eccessivo richiedere
in capo all’avente causa un onere di
diligenza talmente rigoroso da porre in
dubbio la correttezza delle attestazioni
rese da un operatore particolarmente
qualificato e –fino a prova contraria–
attendibile.
Infatti, pur dovendosi ritenere che in tema
di qualificazione delle imprese vadano
richiamati in tutta la loro portata i
princìpi generali di responsabilità e di
diligenza degli operatori economici, deve
comunque ragionevolmente ritenersi che un
tale richiamo operi in massimo grado
soltanto in relazione ai fatti e alle
circostanze che sono nella diretta
conoscenza e disponibilità dell’impresa. Al
contrario, nelle ipotesi in cui tali fatti e
circostanze risultino solo indiretti e de relato, può certamente considerarsi conforme
ai canoni della diligenza in concreto
esigibile in capo all’operatore economico il
fatto che quest’ultimo abbia fatto
affidamento sulla correttezza ed
attendibilità dell’operato di un soggetto
particolarmente qualificato come la SOA (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 23.05.2012 n. 2997 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il provvedimento amministrativo
non è comunque annullabile per mancata
comunicazione dell'avvio del procedimento
qualora l'amministrazione dimostri in
giudizio che il contenuto del provvedimento
non avrebbe potuto essere diverso da quello
in concreto adottato.
Si tratta di disposizione di carattere
processuale, come tale idonea a dispiegare
effetti anche in relazione a vicende
anteriori alla sua entrata in vigore.
Quanto al primo aspetto, si osserva che osta all’accoglimento della tesi
dell’appellante l’articolo 21-octies, comma
2, della l. 07.08.1990, n. 241, come
introdotto dall’articolo 14 della l. 11.02.2005, n. 15, a tenore del quale “il
provvedimento amministrativo non è comunque
annullabile per mancata comunicazione
dell'avvio del procedimento qualora
l'amministrazione dimostri in giudizio che
il contenuto del provvedimento non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto
adottato”. Si tratta di disposizione di
carattere processuale, come tale idonea a
dispiegare effetti anche in relazione a
vicende anteriori alla sua entrata in vigore
(es. Cons. Stato, VI, 07.06.2011, n.
3416; id., VI, 18.02.2011, n. 1040).
Ebbene, per le ragioni sin qui richiamate, è
dimostrato anche nella presente sede
giurisdizionale che l’opera non avrebbe
comunque potuto essere assentita (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 23.05.2012 n. 2996 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Quando il provvedimento
amministrativo incide in modo diretto,
immediato e concreto sulla posizione
giuridica di un soggetto, comprimendogli o
disconoscendogli diritti o altre utilità di
cui questi è titolare, il termine per
chiederne l'annullamento decorre dalla sua
conoscenza che, in difetto di formale
comunicazione, si concretizza nel momento
della piena percezione dei suoi contenuti
essenziali (autorità emanante, contenuto del
dispositivo ed effetto lesivo), senza che
sia necessaria la compiuta conoscenza della
motivazione, che è rilevante solo ai fini
della successiva proposizione dei motivi
aggiunti, nulla innovando, sul punto,
l'obbligo di consentire agli interessati
l'accesso alla documentazione, al cui
ritardato adempimento l'ordinamento soccorre
con la possibilità, accordata
all'interessato, di proporre motivi aggiunti
e, con gli stessi, anche di introdurre
l'impugnazione di atti e provvedimenti
ulteriori rispetto a quelli originariamente
impugnati con il ricorso principale.
Come è noto, ai sensi dell’articolo 29
c.p.a., l’azione di annullamento per
violazione di legge, incompetenza ed eccesso
di potere si propone nel termine di
decadenza di sessanta giorni. L’articolo 41,
comma 2, c.p.a. precisa che qualora sia
proposta azione di annullamento il ricorso
deve essere notificato, a pena di decadenza,
alla pubblica amministrazione che ha emesso
l’atto impugnato e ad almeno uno dei
controinteressati che sia individuato
nell’atto stesso entro il termine previsto
dalla legge, decorrente dalla notificazione,
comunicazione o piena conoscenza, ovvero,
per gli atti di cui non sia richiesta la
notificazione individuale, dal giorno in cui
sia scaduto il termine della pubblicazione
se questa sia prevista dalla legge o in base
alla legge.
Le norme in questione -non innovative sul
punto rispetto alla previgente disciplina
applicabile nell’odierno giudizio- non
sempre sono state interpretate univocamente
dalla giurisprudenza.
Per un primo orientamento la piena
conoscenza del provvedimento amministrativo
presuppone la conoscenza del contenuto
essenziale dell'atto, non potendo il termine
per l' impugnazione decorrere dalla semplice
conoscenza del suo contenuto dispositivo
sfavorevole, ma occorrendo anche la
consapevolezza dei vizi da cui eventualmente
l'atto è affetto, raggiunta mediante la
valutazione della motivazione (Cons. St., V,
16.09.2011 n. 5191).
Per altro orientamento sarebbe preferibile
la «…tesi mediana per cui in via di
principio, la piena conoscenza dell'atto
censurato si concretizza con la cognizione
degli elementi essenziali quali l'autorità
emanante, l'oggetto, il contenuto
dispositivo ed il suo effetto lesivo, perché
tali elementi sono sufficienti a rendere il
legittimato all'impugnativa consapevole
dell'incidenza dell'atto nella sua sfera
giuridica e a dargli la concreta possibilità
di rendersi conto della lesività del
provvedimento, senza che sia necessaria la
compiuta conoscenza della motivazione e
degli atti del procedimento, che può
rilevare solo ai fini della proposizione dei
motivi aggiunti (Cons. Stato, IV, 26.01.2010 n. 292). Detti elementi essenziali
devono essere tuttavia tali da consentire
all'interessato di poter valutare se l'atto
è illegittimo o meno e, in difetto, si deve
ritenere che il destinatario abbia una mera
facoltà, non un onere, di impugnare subito
l'atto per poi proporre i motivi aggiunti,
ben potendo attendere di conoscere la
motivazione dell'atto per poter, una volta
avuta completa conoscenza del contenuto
dell'atto, quindi dell'effetto lesivo dello
stesso, valutare se impugnarlo o meno (ex multis, Cons. Stato, VI,
08.02.2007 n.
522). Ciò in quanto, ai sensi dell'art. 3 l.
07.08.1990, n. 241, la motivazione è
obbligatoria, sicché la mera notizia che
esiste un provvedimento non può essere
equiparata alla piena conoscenza del
provvedimento medesimo. Di conseguenza, la
piena conoscenza del provvedimento
presuppone la conoscenza del contenuto
essenziale dell'atto, non potendo il termine
per l'impugnazione decorrere dalla semplice
conoscenza del suo contenuto dispositivo
sfavorevole, ma occorrendo anche la
consapevolezza dei vizi da cui eventualmente
l'atto è affetto, conseguita attraverso la
valutazione della motivazione (Cons. Stato,
V, 04.01.2011, n. 8)…» (Cons. St., VI,
31.03.2011 n. 2006).
Per un terzo orientamento –maggiormente
consolidato nella giurisprudenza del
Consiglio di Stato– quando il provvedimento
amministrativo incide in modo diretto,
immediato e concreto sulla posizione
giuridica di un soggetto, comprimendogli o
disconoscendogli diritti o altre utilità di
cui questi è titolare, il termine per
chiederne l'annullamento decorre dalla sua
conoscenza che, in difetto di formale
comunicazione, si concretizza nel momento
della piena percezione dei suoi contenuti
essenziali (autorità emanante, contenuto del
dispositivo ed effetto lesivo), senza che
sia necessaria la compiuta conoscenza della
motivazione, che è rilevante solo ai fini
della successiva proposizione dei motivi
aggiunti, nulla innovando, sul punto,
l'obbligo di consentire agli interessati
l'accesso alla documentazione, al cui
ritardato adempimento l'ordinamento soccorre
con la possibilità, accordata
all'interessato, di proporre motivi aggiunti
e, con gli stessi, anche di introdurre l'impugnazione di atti e provvedimenti
ulteriori rispetto a quelli originariamente
impugnati con il ricorso principale (Cons.
St., IV, 02.09.2011, n. 4973).
A giudizio della sezione merita condivisione
il terzo orientamento perché, senza
compromettere le ragioni di tutela
dell’interessato (che potranno essere fatte
valere con eventuali motivi aggiunti),
appare maggiormente rispettoso anche del
principio di certezza dei rapporti giuridici (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 23.05.2012 n. 2993 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La decadenza del vincolo preordinato all'espropriazione comporta tuttavia
la necessità di fornire una congrua
motivazione, oltreché in ordine alla
persistenza delle ragioni di interesse
pubblico che sorreggono la predetta
reiterazione, anche circa la necessità che
in sede motivazionale l'autorità
amministrativa dimostri di aver provveduto
ad una ponderata valutazione degli interessi
coinvolti,
dando atto della prevalenza di quelli
collettivi sull'interesse del privato
proprietario del bene, ciò che è invece
mancato nel caso di specie, così come non è
stata fornita alcuna valida spiegazione
circa le ragioni del ritardo dell’attuazione
del vincolo oggetto di reiterazione.
---------------
Le scelte urbanistiche costituiscono
valutazioni di merito sottratte al sindacato
giurisdizionale di legittimità, salvo che
inficiate da errori di fatto o abnormi
illogicità o, quanto alla destinazione di
specifiche aree, se confliggenti con
particolari situazioni che abbiano
ingenerato affidamenti e aspettative
qualificate.
---------------
La mancata contestuale previsione
dell’indennizzo non determina
l'illegittimità del provvedimento di
reiterazione del vincolo espropriativo,
fermo restando il diritto ad ottenere, in
presenza dei relativi presupposti e dinanzi
al giudice fornito in merito di
giurisdizione, un'indennità commisurata
all'entità del danno effettivamente
prodotto.
---------------
L'amministrazione comunale, allorquando
dispone la reiterazione dei vincoli
decaduti, è tenuta ad indicare le concrete
iniziative assunte o di prossima attuazione
per soddisfarlo, provvedendo
all'accantonamento delle somme necessarie
per il pagamento dell'indennità di
espropriazione.
---------------
Nel caso di domanda
volta alla condanna del comune resistente al
risarcimento del danno patito in conseguenza
dell'illegittima reiterazione de vincoli
urbanistici scaduti che ha determinato
l'impossibilità per i ricorrenti di
utilizzare il suolo di proprietà, non viene
in considerazione il diritto soggettivo di
proprietà, bensì il c.d. jus aedificandi
che, a fronte del potere autoritativo
spettante nella materia urbanistico-edilizia
alla p.a., ha consistenza di mero interesse
legittimo di tipo pretensivo, la cui lesione
può portare ad una pronuncia risarcitoria,
ai sensi dell'art. 2043 del codice civile,
soltanto ove sia possibile al giudice
accertare, con un giudizio prognostico da
condurre in riferimento alla normativa di
settore, che l'attività illegittima della
p.a. abbia determinato anche la sostanziale
lesione dell'interesse al bene della vita al
quale l'interesse legittimo effettivamente
si collega.
La decadenza del vincolo preordinato all'espropriazione comporta tuttavia
la necessità di fornire una congrua
motivazione, oltreché in ordine alla
persistenza delle ragioni di interesse
pubblico che sorreggono la predetta
reiterazione, anche circa la necessità che
in sede motivazionale l'autorità
amministrativa dimostri di aver provveduto
ad una ponderata valutazione degli interessi
coinvolti (C.S. Sez. IV 16.09.2011 n. 5216),
dando atto della prevalenza di quelli
collettivi sull'interesse del privato
proprietario del bene (TAR Sicilia,
Catania, Sez. I 15.09.2009 n. 1508), ciò che
è invece mancato nel caso di specie, così
come non è stata fornita alcuna valida
spiegazione circa le ragioni del ritardo
dell’attuazione del vincolo oggetto di
reiterazione (TAR Marche Sez. I
28.12.2009 n. 1467).
---------------
Con il secondo motivo la ricorrente lamenta
che “il Comune avrebbe dovuto prendere in
considerazione” le proposte dalla stessa
presentate, con ciò contestando nel merito
le scelte urbanistiche contenute negli atti
impugnati.
Il motivo è infondato, dato che le scelte
urbanistiche costituiscono valutazioni di
merito sottratte al sindacato
giurisdizionale di legittimità, salvo che
inficiate da errori di fatto o abnormi
illogicità o, quanto alla destinazione di
specifiche aree, se confliggenti con
particolari situazioni che abbiano
ingenerato affidamenti e aspettative
qualificate (C.S. Sez. IV 27.01.2012 n. 425),
non riscontrabili nel caso di specie.
---------------
Con il quarto motivo si deduce la mancata
previsione dell’indennizzo a favore della
ricorrente, dovuto in considerazione della
reiterazione del vincolo.
Il motivo è infondato dato che la mancata
contestuale previsione dell’indennizzo non
determina l'illegittimità del provvedimento
di reiterazione del vincolo espropriativo
(TAR Piemonte, Sez. I 03.05.2010 n. 2286),
fermo restando il diritto ad ottenere, in
presenza dei relativi presupposti e dinanzi
al giudice fornito in merito di
giurisdizione, un'indennità commisurata
all'entità del danno effettivamente prodotto
(TAR Sicilia, Catania, Sez. I 13.04.2010
n. 1086).
---------------
Con il quinto motivo si lamenta la mancanza
di una relazione di previsione di massima
delle spese occorrenti per l’acquisizione
delle aree e per le sistemazioni generali
necessarie all’attuazione del piano.
Il motivo è fondato, dato che
l'amministrazione comunale, allorquando
dispone la reiterazione dei vincoli decaduti,
è tenuta ad indicare le concrete iniziative
assunte o di prossima attuazione per
soddisfarlo, provvedendo all'accantonamento
delle somme necessarie per il pagamento
dell'indennità di espropriazione (C.S. Sez. IV
09.08.2005 n. 4225).
Il ricorso va pertanto accolto.
La ricorrente formula altresì domanda di
risarcimento del danno, lamentando
l’impossibilità di utilizzare l’area de quo
dal punto di vista edificatorio, ciò che
comporterebbe anche la riduzione del suo
valore commerciale.
Nel caso di domanda volta alla condanna del
comune resistente al risarcimento del danno
patito in conseguenza dell'illegittima
reiterazione de vincoli urbanistici scaduti
che ha determinato l'impossibilità per i
ricorrenti di utilizzare il suolo di
proprietà, non viene in considerazione il
diritto soggettivo di proprietà, bensì il
c.d. jus aedificandi che, a fronte del
potere autoritativo spettante nella materia
urbanistico-edilizia alla p.a., ha
consistenza di mero interesse legittimo di
tipo pretensivo, la cui lesione può portare
ad una pronuncia risarcitoria, ai sensi
dell'art. 2043 del codice civile, soltanto
ove sia possibile al giudice accertare, con
un giudizio prognostico da condurre in
riferimento alla normativa di settore, che
l'attività illegittima della p.a. abbia
determinato anche la sostanziale lesione
dell'interesse al bene della vita al quale
l'interesse legittimo effettivamente si
collega (TAR Puglia, Lecce, Sez. I,
22.11.2005 n. 5229) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 23.05.2012 n. 1403 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In base all’art. 46, comma 1-bis,
del d.lgs. 12.04.2006 n. 163, introdotto
dall’art. 4, comma 2, lett. d), del d.l.
13.05.2011, n. 70, le stazioni appaltanti
possono inserire nei propri atti di gara
solo due tipologie di clausole escludenti:
a)
clausole che riproducono obblighi previsti
dal codice appalti o da altre disposizioni
normative;
b) clausole che non riproducono
obblighi previsti dal codice appalti o da
altre fonti normative ma funzionali ad
evitare incertezze sul contenuto o sulla
provenienza dell’offerta, ad assicurane la
completezza contenutistica, ovvero ad
assicurarne la segretezza.
Dunque, l’obbligo (del bando di gara) di
inserire la copia della carta d’identità del
firmatario nella busta contenente l’offerta
tecnica non è ascrivibile ad una delle due
categorie sopra illustrate.
Invero:
● in primo luogo, nessuna
disposizione normativa impone di allegare la
carta d’identità agli atti aventi natura di
proposta contrattuale, quali sono le offerte
tecniche ed economiche proposte dai
concorrenti che partecipano alle gare
pubbliche. Siffatto obbligo, in base
all’art. 38, comma 3, del d.P.R. 28.12.2000
n. 445, è difatti previsto solo per le
dichiarazioni sostitutive di atto di
notorietà e per le istanze rivolte
all’amministrazione (stabilisce tale norma
che “le istanze e le dichiarazioni
sostitutive di atto di notorietà da produrre
agli organi della amministrazione pubblica o
ai gestori o esercenti di pubblici servizi
sono sottoscritte dall'interessato (…) e
presentate unitamente a copia fotostatica
non autenticata di un documento di identità
del sottoscrittore”).
● in secondo luogo, non può ritenersi
che la mancata introduzione della copia
della carta d’identità del firmatario nella
busta contenente l’offerta tecnica determini
incertezza assoluta sulla provenienza
dell’offerta stessa. Ciò in quanto la busta
che contiene l’offerta tecnica è contenuta
nell’unica busta contenente a sua volta
anche quella in cui è inserita l’istanza di
partecipazione alla gara, la quale sì deve
essere corredata, in base al citato art. 38,
comma 3, del d.P.R. n. 445/2000, della copia
della carta d’identità del firmatario. La
funzione di garanzia della certezza sulla
provenienza dell’offerta è dunque assicurata
da questa formalità; sicché ogni altra
prescrizione in tal senso si rivela inutile
e, di conseguenza, contraria alle
disposizioni di cui al citato art. 46, comma
1-bis, del d.lgs. n. 163/2006.
Pertanto, la clausola contenuta negli atti
di gara che impone la prescrizione avversata
è dunque da considerarsi nulla ai sensi del
ridetto art. 46, comma 1-bis.
In base all’art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. 12.04.2006 n. 163,
introdotto dall’art. 4, comma 2, lett. d), del
decreto legge 13.05.2011, n. 70, “La
stazione appaltante esclude i candidati o i
concorrenti in caso di mancato adempimento
alle prescrizioni previste dal presente
codice e dal regolamento e da altre
disposizioni di legge vigenti, nonché nei
casi di incertezza assoluta sul contenuto o
sulla provenienza dell’offerta, per difetto
di sottoscrizione o di altri elementi
essenziali ovvero in caso di non integrità
del plico contenente l'offerta o la domanda
di partecipazione o altre irregolarità
relative alla chiusura dei plichi, tali da
far ritenere, secondo le circostanze
concrete, che sia stato violato il principio
di segretezza delle offerte; i bandi e le
lettere di invito non possono contenere
ulteriori prescrizioni a pena di esclusione.
Dette prescrizioni sono comunque nulle”.
Per quel che interessa ai fini della
soluzione della presente controversia
occorre notare che, in base alla citata
norma, le stazioni appaltanti possono
inserire nei propri atti di gara solo due
tipologie di clausole escludenti:
a)
clausole che riproducono obblighi previsti
dal codice appalti o da altre disposizioni
normative;
b) clausole che non riproducono
obblighi previsti dal codice appalti o da
altre fonti normative ma funzionali ad
evitare incertezze sul contenuto o sulla
provenienza dell’offerta, ad assicurane la
completezza contenutistica, ovvero ad
assicurarne la segretezza.
Occorre dunque verificare se l’obbligo di
inserire la copia della carta d’identità del
firmatario nella busta contenente l’offerta
tecnica sia ascrivibile ad una delle due
categorie sopra illustrate.
Ritiene il Collegio che la risposta da dare
al quesito sia negativa.
In primo luogo, nessuna disposizione
normativa impone di allegare la carta
d’identità agli atti aventi natura di
proposta contrattuale, quali sono le offerte
tecniche ed economiche proposte dai
concorrenti che partecipano alle gare
pubbliche (cfr., TAR Lombardia Brescia, sez. II, 26.03.2012 n. 530). Siffatto obbligo,
in base all’art. 38, comma 3, del d.P.R. 28.12.2000 n. 445, è difatti previsto
solo per le dichiarazioni sostitutive di
atto di notorietà e per le istanze rivolte
all’amministrazione (stabilisce tale norma
che “le istanze e le dichiarazioni
sostitutive di atto di notorietà da produrre
agli organi della amministrazione pubblica o
ai gestori o esercenti di pubblici servizi
sono sottoscritte dall'interessato (…) e
presentate unitamente a copia fotostatica
non autenticata di un documento di identità
del sottoscrittore”).
In secondo luogo, non può ritenersi che la
mancata introduzione della copia della carta
d’identità del firmatario nella busta
contenente l’offerta tecnica determini
incertezza assoluta sulla provenienza
dell’offerta stessa. Ciò in quanto la busta
che contiene l’offerta tecnica è contenuta
nell’unica busta contenente a sua volta
anche quella in cui è inserita l’istanza di
partecipazione alla gara, la quale sì deve
essere corredata, in base al citato art. 38,
comma 3, del d.P.R. n. 445/2000, della
copia della carta d’identità del firmatario.
La funzione di garanzia della certezza sulla
provenienza dell’offerta è dunque assicurata
da questa formalità; sicché ogni altra
prescrizione in tal senso si rivela inutile
e, di conseguenza, contraria alle
disposizioni di cui al citato art. 46, comma
1-bis, del d.lgs. n. 163/2006.
La clausola contenuta negli atti di gara che
impone la prescrizione avversata è dunque da
considerarsi nulla ai sensi del ridetto art.
46, comma 1-bis; e pertanto l’esclusione
della ricorrente, disposta in applicazione
di essa, va considerata illegittima (TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 23.05.2012 n. 1397 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La destinazione a verde pubblico
(così come, ad esempio, ad attrezzature
ricreative o sportive), data dal piano
regolatore ad aree di proprietà privata, non
comporta l'imposizione sulle stesse di un
vincolo espropriativo, ma solo di un vincolo conformativo,
che è funzionale all'interesse pubblico
generale conseguente alla zonizzazione,
effettuata dallo strumento urbanistico, che
definisce i caratteri generali
dell'edificabilità in ciascuna delle zone in
cui è suddiviso il territorio comunale.
Secondo la giurisprudenza, la destinazione a verde pubblico (così come,
ad esempio, ad attrezzature ricreative o
sportive), data dal piano regolatore ad aree
di proprietà privata, non comporta
l'imposizione sulle stesse di un vincolo
espropriativo, ma solo di un vincolo conformativo, che è funzionale all'interesse
pubblico generale conseguente alla
zonizzazione, effettuata dallo strumento
urbanistico, che definisce i caratteri
generali dell'edificabilità in ciascuna
delle zone in cui è suddiviso il territorio
comunale (per tutte: Consiglio di Stato,
Sez. IV, 19.01.2012 n. 244; 03.12.2010 n. 8531; TAR Puglia, Bari, Sez. III,
04.11.2004 n. 5093) (TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 23.05.2012 n. 1006 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Dev’escludersi l’illegittimità
del provvedimento amministrativo, fondato su
una pluralità di autonomi motivi, quando ne
esista almeno uno idoneo a sostenere l'atto
stesso.
Al proposito occorre ricordare -perché utile nell'esame della
fattispecie- che la giurisprudenza ha
costantemente affermato il principio secondo
cui dev’escludersi l’illegittimità del
provvedimento amministrativo, fondato su una
pluralità di autonomi motivi, quando ne
esista almeno uno idoneo a sostenere l'atto
stesso (Cons. Stato, Sez. IV, 26.01.1998, n. 69; 29.01.1998, n. 102; 30.05.2005, n. 2767; 26.04.2006, n.
2307; 10.12.2007, n. 6325; V Sez., 04.11.1997, n. 1230; 20.12.2002, n.
7251; 27.09.2004 n. 6301; 18.01.2006, n. 110; 28.12.2007, n. 6732; VI
Sez., 03.11.1997, n. 1569; 19.08.2009, n. 4975; 17.09.2009, n. 5544;
05.07.2010 n. 4243) (TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 23.05.2012 n. 999 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La costituzione
su una strada privata di una servitù di uso
pubblico può avvenire, alternativamente, a
mezzo della cd. dicatio ad patriam -costituita dal comportamento del
proprietario di un bene che metta
spontaneamente ed in modo univoco il bene a
disposizione di una collettività
indeterminata di cittadini, producendo
l'effetto istantaneo della costituzione
della servitù di uso pubblico-, ovvero
attraverso l'uso del bene da parte della
collettività indifferenziata dei cittadini,
protratto per il tempo necessario
all'usucapione”.
L'accertamento in ordine alla natura
pubblica di una strada presuppone
necessariamente l'esistenza di un atto o di
un fatto in base al quale la proprietà del
suolo su cui essa sorge sia di proprietà di
un ente pubblico territoriale, ovvero che a
favore del medesimo ente sia stata
costituita una servitù di uso pubblico, e
che la stessa sia destinata all'uso pubblico
con una manifestazione di volontà espressa o
tacita dell'ente medesimo, senza che sia
sufficiente a tal fine l'esplicarsi di fatto
del transito del pubblico, né la mera
previsione programmatica della sua
destinazione a strada pubblica, o
l'intervento di atti di riconoscimento da
parte dell'amministrazione medesima circa la
funzione da essa assolta.
Come risulta dalla giurisprudenza costante, “la costituzione
su una strada privata di una servitù di uso
pubblico può avvenire, alternativamente, a
mezzo della cd. dicatio ad patriam -costituita dal comportamento del
proprietario di un bene che metta
spontaneamente ed in modo univoco il bene a
disposizione di una collettività
indeterminata di cittadini, producendo
l'effetto istantaneo della costituzione
della servitù di uso pubblico-, ovvero
attraverso l'uso del bene da parte della
collettività indifferenziata dei cittadini,
protratto per il tempo necessario
all'usucapione”.
“Simmetricamente, secondo gli insegnamenti
della giurisprudenza civile …,
l'accertamento in ordine alla natura
pubblica di una strada presuppone
necessariamente l'esistenza di un atto o di
un fatto in base al quale la proprietà del
suolo su cui essa sorge sia di proprietà di
un ente pubblico territoriale, ovvero che a
favore del medesimo ente sia stata
costituita una servitù di uso pubblico, e
che la stessa sia destinata all'uso pubblico
con una manifestazione di volontà espressa o
tacita dell'ente medesimo, senza che sia
sufficiente a tal fine l'esplicarsi di fatto
del transito del pubblico, né la mera
previsione programmatica della sua
destinazione a strada pubblica, o
l'intervento di atti di riconoscimento da
parte dell'amministrazione medesima circa la
funzione da essa assolta (Cassazione civile,
sez. II, 07.04.2006 , n. 8204)” (Cons.
Stato, sez. V, 28.06.2011, n. 3868) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 21.05.2012 n. 1384 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'avviso di avvio del
procedimento non è dovuto nel caso di
procedimento volto all'irrogazione della
sanzione della demolizione edilizia, ragione
del carattere doveroso e del contenuto
vincolato di tale atto.
Invero, non viene in rilievo alcuna
discrezionalità da parte
dell’Amministrazione, in quanto si è in
presenza di provvedimenti tipizzato e
vincolato, che presuppone un mero
accertamento tecnico sulla consistenza delle
opere realizzate e sul carattere non
assentito delle medesime.
In altri termini, rispetto alla natura
vincolata del provvedimento finale, la
partecipazione procedimentale
dell'interessato non può arrecare alcun
apporto utile.
Nelle ipotesi in cui l’ordinanza di
demolizione sia stata preceduta da quella di
sospensione dei lavori, la giurisprudenza
ritiene che il provvedimento di sospensione
dei lavori adempia anche alla funzione di
comunicazione di avvio del procedimento,
essendo da questa ragionevolmente e
agevolmente intuibile l'intendimento del
competente ufficio dell'Ente locale di voler
porre in essere i conseguenti atti per
sanzionare l'abuso edilizio, stante la
doverosità di essi per l'Autorità comunale.
La previsione di un termine per l'esecuzione
della demolizione, congiunta alla facoltà di
presentare istanza di accertamento di
conformità, assicura comunque una forma
equivalente di tutela procedimentale ad
istanze partecipative.
---------------
Gli illeciti in materia
urbanistica, edilizia e paesistica, ove
consistano nella realizzazione di opere
senza le prescritte concessioni e
autorizzazioni, hanno carattere di illeciti
permanenti, che si protraggono nel tempo e
vengono meno solo con il cessare della
situazione di illiceità, vale a dire con il
conseguimento delle prescritte
autorizzazioni, pertanto il potere
amministrativo repressivo può essere
esercitato senza limiti di tempo e senza
necessità di motivazione in ordine al
ritardo nell'esercizio del potere.
In altri termini, l'Autorità non emana un
atto "a distanza di tempo" dall'abuso, ma
reprime una situazione antigiuridica ancora
sussistente.
---------------
L'assegnazione di un termine inferiore a 90
giorni per l'ottemperanza all'ordine di
demolizione è inidonea a determinarne
l'illegittimità, risolvendosi in una
violazione meramente formale non lesiva per
l'interessato, il quale conserva comunque un
termine non inferiore a quello di legge per
ottemperare all'ingiunzione.
Nel mentre la mancata indicazione
nell'ordine di demolizione dell'area da
acquisire, per giurisprudenza pacifica,
costituisce una mera irregolarità, visto che
l'esatta determinazione dovrà effettuarsi
dopo l'accertamento dell'inottemperanza
effettuato dal Comune, posto che siffatta
specificazione è elemento essenziale del
distinto provvedimento con cui
l'Amministrazione accerta la mancata
ottemperanza alla demolizione da parte
dell'ingiunto.
Con riguardo al primo motivo di doglianza, va rilevato che la
giurisprudenza prevalente afferma che
l'avviso di avvio del procedimento non è
dovuto nel caso di procedimento volto
all'irrogazione della sanzione della
demolizione edilizia, ragione del carattere
doveroso e del contenuto vincolato di tale
atto (cfr. Cons. St., Sez. IV, 26.09.2008 n.
4659, TAR Napoli, sez. VII, 13.10.2009 n.
5411, TAR BS, Sez. I, 11.01.2010 n. 6),
tanto più in considerazione della conseguenziale sua intangibilità ai sensi
dell'art. 21-octies L. 241/1990 introdotta
dalla L. n. 15 del 2005 (cfr. Cons. St.,
Sez. IV, 10.04.2009 n. 2227, Sez. V,
19.09.2008 n. 4530, TAR Piemonte 16.03.2009
n. 752).
Invero, contrariamente a quanto sostenuto
dal ricorrente, non viene in rilievo alcuna
discrezionalità da parte
dell’Amministrazione, in quanto si è in
presenza di provvedimenti tipizzato e
vincolato, che presuppone un mero
accertamento tecnico sulla consistenza delle
opere realizzate e sul carattere non
assentito delle medesime (cfr. TAR
Campania sez. IV, 08.03.2012 n. 1183).
In altri termini, rispetto alla natura
vincolata del provvedimento finale, la
partecipazione procedimentale
dell'interessato non può arrecare alcun
apporto utile.
Peraltro, va soggiunto che la censura non
sarebbe comunque accoglibile, quand’anche
dovesse aderirsi al minoritario indirizzo
che ritiene necessaria anche in tema
edilizia la comunicazione di avvio del
procedimento. Infatti, nelle ipotesi in
cui –come è avvenuto nella fattispecie-
l’ordinanza di demolizione sia stata
preceduta da quella di sospensione dei
lavori, la giurisprudenza ritiene che il
provvedimento di sospensione dei lavori
adempia anche alla funzione di comunicazione
di avvio del procedimento, essendo da questa
ragionevolmente e agevolmente intuibile
l'intendimento del competente ufficio
dell'Ente locale di voler porre in essere i
conseguenti atti per sanzionare l'abuso
edilizio, stante la doverosità di essi per
l'Autorità comunale (cfr. TAR Sardegna,
Sez. II, 03.09.2008 n. 1738).
Per altro verso, è stato osservato che la
previsione di un termine per l'esecuzione
della demolizione, congiunta alla facoltà di
presentare istanza di accertamento di
conformità, assicura comunque una forma
equivalente di tutela procedimentale ad
istanze partecipative (cfr. Cons. St., Sez.
IV, 23.01.2012 n. 282).
Con il secondo motivo viene sostenuto che il
lungo lasso di tempo decorso dalla
commissione dell’abuso e il protrarsi
dell’inerzia dell’Amministrazione avrebbero
generato in capo al privato una posizione di
affidamento, con onere di una specifica
motivazione al riguardo.
La doglianza va disattesa.
Gli illeciti in materia urbanistica,
edilizia e paesistica, ove consistano nella
realizzazione di opere senza le prescritte
concessioni e autorizzazioni, hanno
carattere di illeciti permanenti, che si
protraggono nel tempo e vengono meno solo
con il cessare della situazione di
illiceità, vale a dire con il conseguimento
delle prescritte autorizzazioni, pertanto il
potere amministrativo repressivo può essere
esercitato senza limiti di tempo e senza
necessità di motivazione in ordine al
ritardo nell'esercizio del potere. In altri
termini, l'Autorità non emana un atto "a
distanza di tempo" dall'abuso, ma reprime
una situazione antigiuridica ancora
sussistente (cfr. Cons. St., Sez. IV, 16.04.2010 n. 2160; TAR BS Sez. I,
29.12.2010 n. 4986).
---------------
Con il terzo motivo si prospetta la
violazione dell’art. 31 del T.U.
dell’edilizia n. 380/2001, essendo stato
fissato un termine per adempiere alla
demolizione di sessanta giorni, inferiore a
quello di novanta giorni stabilito dalla
norma, e non essendo stata individuata la
superficie che dovrebbe essere acquisita di
diritto, in caso di difetto di demolizione.
La censura non risulta fondata.
Infatti, per un verso, l'assegnazione di un
termine inferiore a novanta giorni per
l'ottemperanza all'ordine di demolizione è
inidonea a determinarne l'illegittimità,
risolvendosi in una violazione meramente
formale non lesiva per l'interessato, il
quale conserva comunque un termine non
inferiore a quello di legge per ottemperare
all'ingiunzione (cfr. Cons. St., Sez. VI, 08.07.2011 n. 4102; Sez. V, 24.02.2003 n. 986); nel mentre la mancata
indicazione nell'ordine di demolizione
dell'area da acquisire, per giurisprudenza
pacifica, costituisce una mera irregolarità,
visto che l'esatta determinazione dovrà
effettuarsi dopo l'accertamento
dell'inottemperanza effettuato dal Comune
(cfr. TAR Campania, Sez. VII 10.06.2011 n.
3076), posto che siffatta specificazione è
elemento essenziale del distinto
provvedimento con cui l'Amministrazione
accerta la mancata ottemperanza alla
demolizione da parte dell'ingiunto (cfr. TAR Lecce, Sez. III,
15.12.2011 n. 2172) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 21.05.2012 n. 848 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per quanto riguarda l’asserito
carattere pertinenziale di una tettoia, va
ricordato che:
- la regola dell'assoggettamento al previo
rilascio del permesso di costruire di ogni
attività comportante la trasformazione
urbanistica ed edilizia del territorio non
riguarda la sola attività di edificazione,
ma tutti i manufatti che modificano in modo
apprezzabile il precedente assetto
territoriale producendo alterazione con
rilievo ambientale, estetico o anche solo
funzionale, ovvero consistenti in una
modificazione dello stato materiale e della
configurazione del suolo per adattarlo ad un
impiego diverso da quello che gli è proprio
in relazione alla sua condizione naturale e
alla sua qualificazione giuridica;
- ai fini urbanistici, la strumentalità
propria della nozione civilistica di
pertinenza prescinde dalla destinazione
soggettivamente data dal proprietario, non
potendosi in specie ritenere beni
pertinenziali quegli interventi edilizi che,
pur legati da un vincolo di servizio al bene
principale, tuttavia non sono coessenziali
ma ulteriori ad esso, in quanto per un verso
suscettibili di utilizzo autonomo e, per
altro verso, tali da occupare aree e volumi
diversi;
- in tali casi l'impatto volumetrico
dell'intervento, incidendo in modo
permanente e non precario sull'assetto
edilizio del territorio, giustifica la
necessità del permesso di costruire, con
conseguente applicabilità del regime
demolitorio.
Per quanto riguarda l’asserito carattere
pertinenziale di una tettoia, va ricordato
che:
- la regola dell'assoggettamento al previo
rilascio del permesso di costruire di ogni
attività comportante la trasformazione
urbanistica ed edilizia del territorio non
riguarda la sola attività di edificazione,
ma tutti i manufatti che modificano in modo
apprezzabile il precedente assetto
territoriale producendo alterazione con
rilievo ambientale, estetico o anche solo
funzionale, ovvero consistenti in una
modificazione dello stato materiale e della
configurazione del suolo per adattarlo ad un
impiego diverso da quello che gli è proprio
in relazione alla sua condizione naturale e
alla sua qualificazione giuridica;
- ai fini urbanistici, la strumentalità
propria della nozione civilistica di
pertinenza prescinde dalla destinazione
soggettivamente data dal proprietario, non
potendosi in specie ritenere beni
pertinenziali quegli interventi edilizi che,
pur legati da un vincolo di servizio al bene
principale, tuttavia non sono coessenziali
ma ulteriori ad esso, in quanto per un verso
suscettibili di utilizzo autonomo e, per
altro verso, tali da occupare aree e volumi
diversi;
- in tali casi l'impatto volumetrico
dell'intervento, incidendo in modo
permanente e non precario sull'assetto
edilizio del territorio, giustifica la
necessità del permesso di costruire, con
conseguente applicabilità del regime
demolitorio (cfr. Cons. St. Sez. IV, 13.10.2010 n. 7481; Tar Campania, VI,
07.09.2009 n. 4899; Tar Basilicata,
29.11.2008, n. 915) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 21.05.2012 n. 848 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Impresa gestione rifiuti: anche il
responsabile tecnico deve presentare
requisiti di moralità.
Per confutare la tesi dell’appellante sulla
affermata non necessità della dichiarazione
ex art. 38/b) del d.lgs. n. 163 del 2006 da
parte del responsabile tecnico della impresa
che effettua la gestione dei rifiuti, tesi
che prende le mosse da una asserita
“ontologica differenza” tra la figura del
direttore tecnico e quella del responsabile
tecnico, il Collegio non ha che da
richiamare, in modo conciso, ai sensi degli
articoli 60, 74 e 88, comma 2, lett. d) c.
p. a. , numerosi precedenti di questa
Sezione sull’argomento (si vedano le
decisioni nn. 1154 e 83 del 2012, 1790 del
2011 e 3364 del 2010).
Per quanto qui più
rileva, il raffronto tra la norma (art. 26
del d.P.R. n. 34 del 2000) che individua i
compiti del direttore tecnico in materia di
lavori pubblici e la disposizione (art. 10,
comma 4, del d. m. 28.04.1998, n. 406)
che disciplina la figura e i requisiti del
responsabile tecnico delle imprese che fanno
richiesta di iscrizione all’albo nazionale
delle imprese che effettuano la gestione dei
rifiuti è stato eseguito in modo compiuto
dalla sezione con la sentenza n. 1790 del
2011, con la quale si è statuito, in
conclusione:
-che la figura del responsabile tecnico
della impresa di gestione di rifiuti di cui
al d. m. n. 406/98 non presenta differenze
significative rispetto al direttore tecnico;
e
-che gli obblighi di dichiarazione che
l’art. 38 del codice dei contratti pubblici
correla alla posizione del direttore tecnico
sono riferibili anche al responsabile
tecnico ex d. m. n. 406/1998 cit. . “Quando la
norma di cui all'art. 38 del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 (e quindi anche la “lex specialis” di gara) richiede che lo
specifico requisito sia posseduto dal
direttore tecnico ha riguardo, quanto alle
imprese di servizi, alle figure tipiche di
tale categoria, pur nominalmente diverse ma
a quella sostanzialmente analoghe perché
investite di compiti parimenti analoghi,
rilevanti ai fini dell'esecuzione
dell'appalto” (così Cons. St., sez. V, n.
83/2012, che questo Collegio condivide) .
Di qui la conclusione che nella specie anche
il responsabile tecnico avrebbe dovuto
rendere la dichiarazione in questione.
La teoria del cosiddetto “falso innocuo” non
può, poi, trovare accoglimento.
La teoria stessa riguarda infatti i casi in
cui la “lex specialis” non prevede
espressamente la conseguenza dell'esclusione
in relazione alla mancata osservanza di
puntuali prescrizioni su modalità e oggetto
delle dichiarazioni da fornire.
Nel caso in esame, viceversa, il carattere
cogente della sanzione espulsiva prevista
dal bando di gara (pag. 3) per l’ipotesi di
omessa dichiarazione ai sensi dell’art. 38
precludeva l’applicazione della teoria del
falso innocuo (a questo proposito v., di
recente, Cons. St., sez. V, n. 334/2012; in
disparte il rilievo secondo cui l’obbligo di
rendere la dichiarazione di moralità
professionale promana direttamente da una
norma di legge, con conseguente superfluità
della mediazione della “lex specialis” di
gara).
La nettezza delle conclusioni sopra
riportate fa sì che perdano peso i rilievi
introduttivi dell’appellante sulla
illogicità della sentenza, non potendosi
ravvisare, nella decisione resa dal TAR, “atteggiamenti
formalistici” (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 17.05.2012 n.
2820 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sulla possibilità, in materia di
contratti della P.A., di non procedere alla
aggiudicazione (definitiva o provvisoria) di
una gara ma tale potere deve trovare
fondamento, in via generale, in specifiche
ragioni di pubblico interesse.
E' possibile, in materia di contratti della
P.A., non procedere alla aggiudicazione
(definitiva o provvisoria) di una gara ma
tale potere deve trovare fondamento, in via
generale, in specifiche ragioni di pubblico
interesse. Occorre quindi che nell'atto
dell'amministrazione siano chiaramente
indicate (e non risultino manifestamente
irragionevoli) le ragioni di pubblico
interesse (attuale e concreto) che hanno
determinato l'adozione dell'atto di
autotutela e che tali ragioni siano
prevalenti rispetto agli altri interessi
militanti in favore della conservazione
degli atti oggetto del provvedimento di
revoca.
Ne consegue che, nel caso di specie,
l'Azienda non poteva limitarsi ad evocare
generiche difficoltà finanziarie per
giustificare (dopo l'aggiudicazione
provvisoria) l'annullamento/revoca della
gara in questione ma doveva anche dimostrare
che tali difficoltà erano tali da non
consentire nemmeno l'esecuzione dei servizi
di gestione e manutenzione oggetto della
gara che non appaiono meno importanti di
altri servizi che la stessa Azienda comunque
assicura ed intende assicurare (Consiglio di
Stato, Sez. III,
sentenza 15.05.2012 n. 2805 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Il controllo dei requisiti di
ordine generale è imprescindibile per
l'aggiudicazione definitiva di una gara.
L’interessante sentenza del Consiglio di
Stato ci permette di inquadrare
temporalmente e per categorie i controlli
sui requisiti dei concorrenti di cui al
D.Lgs. 163/2006. Il riferimento della
sentenza è ai controlli sui requisiti di cui
all’art. 38 e quelli sui requisiti economici
finanziari e tecnico organizzativi di cui
all’art. 48.
Principio generale è che i
requisiti di ordine generale di cui all’art.
38 debbano esser controllati prima della
fase di valutazione delle offerte economiche
e ciò per non consentire all’amministrazione
di assumere decisioni discrezionali dopo
aver conosciuto l’esito della gara a
garanzia della par condicio dei concorrenti
e per evitare che le stesse decisioni
possano essere influenzate dalla precedente
conoscenza delle offerte.
I controlli di cui
all’art. 48, relativi non ai requisiti
generali ma ai requisiti di capacità
economica finanziaria e tecnico
organizzativi si svolgono solo per procedure
di appalto per importi a base di fare
inferiori ai 150.000 euro e per le imprese
che sono prive di attestazione SOA in via
preventiva su un campione di candidati e
quando successivi all’aggiudicazione solo
sul primo e secondo graduato. Nel caso di
specie il disciplinare integrativo del bando
di gara prevedeva dopo la verifica in seduta
pubblica della correttezza delle offerte e
della documentazione , la verifica del 10%
dei requisiti di carattere generale
dichiarati nella domanda.
A valle di questa
verifica, i candidati non in possesso dei
documenti prescritti avrebbero dovuto essere
esclusi prima dell’apertura delle offerte
economiche. Nel caso di specie la
commissione di gara aveva proceduto
all’individuazione del campione del 10% da
sottoporre alla verifica e aveva proceduto
all’apertura dei plichi recanti l’offerta
economica. Dopo questa fase aveva proceduto
alla aggiudicazione provvisoria per poi
arrivare a chiedere documentazione al primo
classificato e alle imprese sorteggiate.
E’
evidente che le fasi di controllo per come
descritte dalla normativa e prescritte dal
disciplinare di gara non sono state
rispettate. Ciò nonostante i giudici di
Palazzo Spada hanno ritenuto che per il
principio di conservazione de gli atti
giuridici l’operato dell’amministrazione è
stato legittimo in quanto, seppure
tardivamente, il controllo dei requisiti
generali di ammissione andava comunque
effettuato. Infatti la commissione di gara
non poteva procedere all’aggiudicazione
senza aver effettuato la verifica dei Durc e
certificati di regolarità con riguardo al
pagamento di imposte e tasse di tutte le
imprese ammesse a gara (commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
14.05.2012 n. 2746 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'adozione dell'ordine di
demolizione di opere abusive presuppone
soltanto la constatata esecuzione di un
intervento edilizio in assenza del
prescritto titolo abilitativo, con la
conseguenza che, essendo tale ordine un atto
dovuto, esso è sufficientemente motivato con
l'accertamento dell'abuso, e non necessita
di una particolare motivazione in relazione
all'interesse pubblico alla rimozione
dell'abuso stesso -che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell'assetto
urbanistico violato- ed alla possibilità di
adottare provvedimenti alternativi.
---------------
A norma delle disposizioni del T.U.
Edilizia, sussiste a carico del proprietario
dell'immobile una presunzione di
responsabilità per gli abusi edilizi
accertati, sicché l'interessato può
sottrarsi a tale responsabilità solo
dimostrando la sua estraneità all'abuso
commesso.
---------------
Il responsabile dell'abuso può motivatamente
domandare all'Autorità competente di
disporre il dissequestro dell'immobile
abusivo al fine di eseguire l'ordine di
demolizione ed evitare l'adozione di
ulteriori provvedimenti sanzionatori.
Rileva, inoltre, il Collegio che l'adozione
dell'ordine di demolizione di opere abusive
presuppone soltanto la constatata esecuzione
di un intervento edilizio in assenza del
prescritto titolo abilitativo, con la
conseguenza che, essendo tale ordine un atto
dovuto, esso è sufficientemente motivato con
l'accertamento dell'abuso, e non necessita
di una particolare motivazione in relazione
all'interesse pubblico alla rimozione
dell'abuso stesso -che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell'assetto
urbanistico violato- ed alla possibilità di
adottare provvedimenti alternativi (cfr.
ex multis, TAR Campania, Napoli, IV,
28.12.2009, n. 9638; TAR Campania, Napoli,
VI, 09.11.2009, n. 7077; TAR Campania,
Napoli, VII, 04.12.2008, n. 20987).
---------------
Va, peraltro,
rilevato che secondo il costante
orientamento della giurisprudenza, a norma
delle disposizioni del T.U. Edilizia,
sussiste a carico del proprietario
dell'immobile una presunzione di
responsabilità per gli abusi edilizi
accertati, sicché l'interessato può
sottrarsi a tale responsabilità solo
dimostrando la sua estraneità all'abuso
commesso. Anche sotto tale profilo la sig.ra
C., quale proprietaria dell’area sulla quale
ricadono le opere abusive, non ha fornito
alcuna dimostrazione circa la sua estraneità
alla realizzazione degli abusi contestati.
---------------
Deve, infine essere disattesa anche la
quinta e ultima censura con la quale i
ricorrenti si dolgono del fatto che il
provvedimento impugnato sia stato adottato
senza considerare che il manufatto abusivo è
stato oggetto di un provvedimento di
sequestro sin dal 03.02.2007 perché, secondo
una consolidata giurisprudenza, condivisa
dal Collegio, il responsabile dell'abuso può
motivatamente domandare all'Autorità
competente di disporre il dissequestro
dell'immobile abusivo al fine di eseguire
l'ordine di demolizione ed evitare
l'adozione di ulteriori provvedimenti
sanzionatori (cfr. in termini TAR Campania,
Napoli, VII, 01.09.2011, n. 4259; TAR
Campania, Napoli, II, 30.10.2006, n. 9243;
TAR Campania, Napoli, IV, 04.02.2003, n.
614)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 10.05.2012 n. 2175 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La comunicazione scritta
dell'aggiudicazione non può essere surrogata
da una mera notizia orale e informale.
La procedura negoziata mediante cottimo
fiduciario non può abdicare ai principi
fondamentali in materia di aggiudicazione di
contratti pubblici.
L'art. 11, c. 10, del d.lgs. n.163 del 2006
(cd. stand still) prevede
testualmente che "Il contratto non può
comunque essere stipulato prima di
trentacinque giorni dall'invio dell'ultima
delle comunicazioni del provvedimento di
aggiudicazione definitiva ai sensi dell'art.
79". Sia il dato testuale (che fa
esplicito riferimento all'invio di una
comunicazione) sia il principio generale,
secondo cui l'amministrazione, salvo casi
eccezionali e tipici, adotta atti formali e
scritti, depongono nel senso che la
comunicazione scritta dell'aggiudicazione
non può essere surrogata da una mera notizia
orale e informale.
Ne consegue che, nel caso di specie, appare
palesemente violato il disposto di cui
all'art. 11, c. 10 cit. (inoltre, atteso che
il cd. stand still è riconducibile
all'obbligo di trasparenza, richiamato
dall'art. 125 del d.lgs. n. 163 del 2006,
esso trova applicazione anche nel caso di
cottimo fiduciario da tale norma
disciplinato).
--------------
La procedura negoziata di cui all'art. 125
del d.lgs. n. 163 del 2006, pur
caratterizzata da maggior snellezza e
semplicità, non può abdicare ai principi
fondamentali in materia di aggiudicazione di
contratti pubblici, come si desume dal
medesimo articolo, il quale, al c. 2,
prevede che "l'affidamento mediante
cottimo fiduciario avviene nel rispetto dei
principi di trasparenza, rotazione, parità
di trattamento".
Inoltre, è evidente che il principio di
predeterminazione dei criteri, nel caso di
scelta secondo il metodo dell'offerta
economicamente più vantaggiosa, enunciato
all'art. 83 del d.lgs. n.163 del 2006, è
riconducibile a quello di trasparenza e
parità di trattamento.
Ne consegue che l'amministrazione, nel caso
di specie, avrebbe dovuto predeterminare i
criteri in modo adeguato, da un lato, a
mettere tutti i concorrenti nella medesima
posizione conoscitiva in ordine alle
esigenze della stazione appaltante,
dall'altro, a vincolare la successiva
valutazione alle caratteristiche richieste e
predeterminate; ciò, pur senza assegnare in
modo rigido un punteggio ad ogni criterio,
secondo quanto previsto dall'articolo 83 del
d.lgs. n. 163 del 2006, essendo la procedura
negoziata, di cui all'art. 125 del medesimo
d.lgs., caratterizzata da maggiore
semplicità (TAR Molise,
sentenza 10.05.2012 n. 205 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Pagare l’ente pubblico per ottenere
soluzioni urbanistiche potrebbe configurarsi
come eccesso di potere che porta in Procura
della Repubblica?
Il TAR Veneto ha ritenuto che l'impegno
assunto da una società di versare all'ente
pubblico somme non dovute, sia pure per
finalità di interesse pubblico, in sede di
convenzione finalizzata al rilascio di una
autorizzazione paesaggistica "costituisca
un motivo di persuasione, affinché il
Presidente dell'Ente Parco procedesse al
rilascio dell'autorizzazione paesaggistica
impugnata, anche a costo di rilasciare
un'autorizzazione paesaggistica illegittima".
Di conseguenza, ha ritenuto l'atto
illegittimo anche per il vizio di eccesso di
potere sotto questo profilo (otre che per
altri e diversi profili).
Il TAR ha anche disposto la trasmissione
degli atti alla Procura della Repubblica,
perché valuti l'esistenza del reato di abuso
di ufficio di cui all'art. 323 del codice
penale, in considerazione del fatto che il
soggetto era consapevole della illegittimità
della autorizzazione paesaggistica (TAR
Veneto, Sez. III,
sentenza 09.05.2012 n. 651 - link a
http://venetoius.myblog.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Demansionare
un vigile può costare caro al comune.
Il comune che intende
spostare un agente da un ufficio operativo a
un altro impiego amministrativo revocandogli
pure l'assegnazione dell'arma deve attivarsi
in conformità alla legge 241/1990 e
documentare adeguatamente le proprie
determinazioni. Diversamente ogni decisione
potrà essere facilmente annullata dai
giudici che potranno pure condannare
l'amministrazione al pagamento delle spese.
Lo ha evidenziato il TAR Emilia Romagna-Bologna,
Sez. II con la
sentenza 07.05.2012 n. 292.
Il trasferimento forzato ad altro impiego di
un operatore di polizia municipale è un
fatto frequente e poco invasivo del decoro e
del prestigio dell'agente. Cosa diversa è
invece la revoca dell'assegnazione
dell'arma. Questa determinazione in genere
viene adottata a fronte di giustificati
motivi che incidono sulle stesse capacità
psico-fisiche dell'operatore. Viene invece
letta, correntemente, come una sorta di
punizione in tutti gli altri casi,
specialmente se tutti gli operatori del
comando sono assegnatari di arma per difesa
personale. Nel caso esaminato dal collegio
un agente titolare della qualifica di
pubblica sicurezza è stato disarmato e
trasferito ad altro ufficio con due
specifiche determinazioni, senza alcuna
comunicazione preventiva.
Alla base di queste decisioni, a parere
dell'amministrazione, una vecchia condanna
penale subita dal ricorrente il 22/10/1992,
ancor prima dell'assunzione in servizio.
Contro queste disposizioni l'interessato ha
quindi proposto ricorso al Tar ottenendo
soddisfazione. Innanzitutto trattandosi di
un provvedimento discrezionale «lesivo in
modo rilevante della posizione giuridica del
ricorrente, l'amministrazione comunale
avrebbe dovuto comunicare al proprio
dipendente l'avviso di cui all'art. 7 della
legge n. 241 del 1990, onde consentirgli di
partecipare al procedimento a cui era
direttamente interessato».
Ma non basta. È anche necessario che il
comune motivi dettagliatamente il proprio
iter logico a fronte di una serie di
determinazioni così importanti. Nel caso in
esame, infatti, l'unico elemento a sfavore
dell'operatore è costituito da una vecchia
condanna penale per un reato dichiarato
estinto
(articolo ItaliaOggi
del 25.05.2012 - link a
www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Al consigliere non può essere opposta
natura “strettamente personale” degli atti
richiesti.
Va al riguardo premesso che, come è noto, ai
sensi dell’art. 43, comma 2, del D.lgs.
18.08.2000, n. 267, i consiglieri comunali
hanno diritto di ottenere dagli uffici del
comune tutte le notizie e le informazioni in
loro possesso, utili all’espletamento del
proprio mandato.
Ora, interpretando tale normativa, il
giudice amministrativo ha costantemente
chiarito che il diritto di accesso del
consigliere comunale agli atti del Comune
assume un connotato particolare, in quanto
finalizzato al pieno ed effettivo
svolgimento delle funzioni assegnate al
Consiglio comunale, con la conseguenza che
sul consigliere comunale non grava alcun
onere di motivare le proprie richieste
d’informazione, né gli uffici comunali hanno
titolo a richiederle ed conoscerle (Cons.
St., sez. V, 29.08.2011, n. 4829).
In definitiva -come la giurisprudenza
amministrativa ha costantemente avuto modo
di precisare- tra l’accesso ai documenti dei
soggetti interessati di cui agli art. 22 ss.
della L. 07.08.1990, n. 241, e quello del
consigliere comunale di cui al predetto art.
43, sussiste una profonda differenza, poiché
il primo è un istituto che consente ai
singoli soggetti di conoscere atti e
documenti al fine di poter predisporre la
tutela delle proprie posizioni soggettive
eventualmente lese, mentre il secondo è un
istituto giuridico posto al fine di
consentire al consigliere comunale di poter
esercitare il proprio mandato, verificando e
controllando il comportamento degli organi
istituzionali decisionali del comune. Per
cui, in definitiva, in base al predetto art.
43 i consiglieri comunali, ivi inclusi
ovviamente quelli di minoranza, hanno un
diritto di accesso incondizionato a tutti
gli atti che possano essere “utili”
all’espletamento del loro mandato, anche al
fine di permettere di valutare con piena
cognizione la correttezza e l’efficacia
dell’operato dell’Amministrazione, nonché
per esprimere un voto consapevole sulle
questioni di competenza del Consiglio e per
promuovere, anche nell’ambito del Consiglio
stesso, le iniziative che spettano ai
singoli rappresentanti del corpo elettorale
locale.
Pertanto, al consigliere comunale non può
essere opposto alcun diniego (salvo casi
eccezionali e contingenti, da motivare
puntualmente e adeguatamente, e salvo il
caso - da dimostrare - che lo stesso agisca
per interesse personale), determinandosi
altrimenti un illegittimo ostacolo al
concreto esercizio della sua funzione, che è
quella di verificare che il sindaco e la
giunta municipale esercitino correttamente
la loro funzione. In particolare, è stato
precisato che nessuna limitazione può
derivare al diritto d’accesso del
consigliere comunale agli atti del Comune,
qualunque sia il loro destinatario,
dall’eventuale natura riservata delle
informazioni richieste, essendo il
consigliere vincolato al segreto d’ufficio
(Cons. St., sez. V, 08.09.2011, n. 5053);
fermo restando che anche tali richieste sono
soggette al rispetto di alcune forme e
modalità, quali l’allegazione della qualità
di consigliere comunale e la formulazione
dell’istanza in maniera specifica e
dettagliata, recando l’esatta indicazione
degli estremi identificativi degli atti e
dei documenti o, qualora siano ignoti tali
estremi, almeno degli elementi che
consentano l’individuazione dell’oggetto
dell’accesso.
Peraltro, la stessa giurisprudenza ha anche
precisato che il consigliere comunale non
può abusare del diritto all’informazione
riconosciutogli dall’ordinamento, piegandone
le alte finalità a scopi meramente emulativi
od aggravando eccessivamente, con richieste
non contenute entro gli immanenti limiti
della proporzionalità e della
ragionevolezza, la corretta funzionalità
amministrativa, incidendo in termini
rilevanti sulle spese generali dell’Ente.
Con riferimento a tali principi
costantemente affermati in giurisprudenza e
dai quali non sussistono ragioni per
discostarsi, sembra evidente al Collegio che
l’istante abbia di certo diritto ad accedere
a tutti gli atti richiesti con la predetta
istanza del 14.11.2011. Sembra infatti
evidente che tale richiesta, da un lato, sia
funzionale allo svolgimento dell’attività di
verifica e di controllo propria del
consigliere comunale e, dall’altro, non
comporti alcun aggravio alle spese ed alla
funzionalità dell’Ente; mentre la ipotizzata
natura “strettamente personale” degli
atti richiesti non avrebbe potuta essere
opposta al richiedente, in quanto il
consigliere è vincolato al segreto d’ufficio
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza
07.05.2012 n. 190 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Le previsioni del piano
regolatore servono a conformare
l’edificazione futura e non anche le
costruzioni esistenti al momento
dell’entrata in vigore del piano o di una
sua variante; proprio per tale sua
caratteristica di strumento di
pianificazione il piano regolatore, nel
disporre le future conformazioni del
territorio, considera le sole aree libere, “tali dovendosi ritenere quelle disponibili
al momento della pianificazione, e ancor più
precisamente quelle che non risultano già
edificate (in quanto costituenti aree di sedime di fabbricati o utilizzate per opere
di urbanizzazione), ovvero quelle che, nel
rispetto degli standard urbanistici,
risultano comunque già utilizzate per
l’edificazione (in quanto asservite alla
realizzazione di fabbricati, onde
consentirne lo sviluppo volumetrico)”.
Dunque la disciplina urbanistica contenuta
nel P.R.G. è destinata a svolgere i suoi
effetti ordinatori e conformativi
esclusivamente con riferimento al futuro
(c.d. preesistenza vincolante) e le NN.TT.AA.
sono, invero, atti a contenuto generale,
recanti prescrizioni a carattere normativo e
programmatico, destinate a regolare la
futura attività edilizia.
Il Collegio deve prioritariamente evidenziare che, alla luce della
giurisprudenza amministrativa fatta propria
da questa Sezione e dalla quale non si ha
motivo di discostarsi (cfr. TAR Bari,
Sez. III n. 1598 del 21.10.2011), le
previsioni del piano regolatore servono a
conformare l’edificazione futura e non anche
le costruzioni esistenti al momento
dell’entrata in vigore del piano o di una
sua variante (C.d.S. 4009/2009); proprio per
tale sua caratteristica di strumento di
pianificazione il piano regolatore, nel
disporre le future conformazioni del
territorio, considera le sole aree libere,
“tali dovendosi ritenere quelle disponibili
al momento della pianificazione, e ancor più
precisamente quelle che non risultano già
edificate (in quanto costituenti aree di sedime di fabbricati o utilizzate per opere
di urbanizzazione), ovvero quelle che, nel
rispetto degli standard urbanistici,
risultano comunque già utilizzate per
l’edificazione (in quanto asservite alla
realizzazione di fabbricati, onde
consentirne lo sviluppo volumetrico)”
(C.d.S. 4134/2011 richiamato da TAR Bari,
Sez. III n. 1598/2011 cit.).
Dunque la disciplina urbanistica contenuta
nel P.R.G. è destinata a svolgere i suoi
effetti ordinatori e conformativi
esclusivamente con riferimento al futuro
(c.d. preesistenza vincolante) e le NN.TT.AA.
sono, invero, atti a contenuto generale,
recanti prescrizioni a carattere normativo e
programmatico, destinate a regolare la
futura attività edilizia (TAR Bari, Sez. III
n. 3885/2010, Consiglio di Stato, Sezione V,
n. 1052/2007) (TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 04.05.2012 n. 919 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’istanza di permesso di
costruire in sanatoria, presentata
successivamente alla impugnazione
dell'ordinanza di demolizione, produce
l'effetto di rendere improcedibile
l'impugnazione stessa per sopravvenuto
difetto di interesse; il riesame
dell'abusività dell'opera, sia pure al fine
di verificarne la eventuale sanabilità,
provocato dall'istanza di sanatoria,
comporta infatti la necessaria emanazione da
parte del Comune di un nuovo provvedimento
(di accoglimento o di rigetto), che vale
comunque a superare il provvedimento
sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
La prevalente giurisprudenza amministrativa, già condivisa da
questa Sezione e dalla quale il Collegio non
ha motivo di discostarsi, ritiene che
l’istanza di permesso di costruire in
sanatoria, presentata successivamente alla
impugnazione dell'ordinanza di demolizione,
produce l'effetto di rendere improcedibile
l'impugnazione stessa per sopravvenuto
difetto di interesse; il riesame
dell'abusività dell'opera, sia pure al fine
di verificarne la eventuale sanabilità,
provocato dall'istanza di sanatoria,
comporta infatti la necessaria emanazione da
parte del Comune di un nuovo provvedimento
(di accoglimento o di rigetto), che vale
comunque a superare il provvedimento
sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
Applicando siffatti principi alla
fattispecie oggetto di gravame, considerato
che i ricorrenti hanno prodotto istanza di
accertamento di conformità in riferimento
alle medesime opere oggetto del
provvedimento impugnato, ex art. 36 del
d.p.r. n. 380 del 2001 in data 23.10.2009 e, quindi, in data successiva al
deposito del ricorso, il 10.08.2006,
l’interesse dei sig.ri F. e Di G.
si sposta sulla nuova determinazione
adottata dal Comune intimato a seguito della
presentazione della suddetta istanza di
permesso di costruire in sanatoria,
determinazione assunta dal Comune di Noicattaro con provvedimento prot. n. 13286
del 03.06.2010.
Il Collegio, alla luce di quanto sopra, deve
conseguentemente dichiarare
l’improcedibilità del ricorso introduttivo
per sopravvenuto difetto di interesse (cfr.
ex multis TAR Bari, Sezione III, n.
520/2012 e n. 431/2011) (TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 04.05.2012 n. 913 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Sono
da ricondursi le
conseguenze della mancata conclusione del
procedimento al modello del risarcimento del
danno; perciò, il richiedente, ex articolo
2697 del codice civile, è tenuto a provare
tutti gli elementi costitutivi della
relativa domanda, ossia il danno, l'elemento
soggettivo del dolo o della colpa ed il
nesso di causalità.
La tutela risarcitoria in ogni caso non può
essere quindi accordata in relazione alla
sola, mera "perdita di tempo" in sé
considerata -non riconoscendosi nel fattore
"tempo" un bene della vita meritevole di
autonoma dignità e tutela; deve invece
ritenersi (in senso rispondente al dato
letterale della novella legislativa di cui
alla legge 19.06.2009 n. 69) che essa
presupponga la lesione di un "diverso"
-rispetto al tempo- bene giuridicamente
protetto, ponendosi il fattore temporale
quale nesso causale tra fatto e lesione.
In definitiva, il riconoscimento della
responsabilità della pubblica
amministrazione per il tardivo esercizio
della funzione amministrativa richiede,
oltre alla constatazione della violazione
dei termini del procedimento, l'accertamento
che l'inosservanza delle cadenze
procedimentali sia imputabile a colpa o dolo
dell'amministrazione medesima e che il danno
lamentato sia conseguenza diretta ed
immediata del ritardo dell'amministrazione.
---------------
La
domanda risarcitoria del danno ingiusto da
ritardo prodotto dai provvedimenti impugnati
è invece infondata.
Al riguardo si deve ricordare che, anche
prima dell'espressa previsione normativa, la
fattispecie di danno da ritardo era comunque
riconosciuta meritevole di tutela
risarcitoria dalla giurisprudenza, sebbene
entro i limiti di cui alla pronuncia
dell’Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato n. 7 del 15.09.2005, che aveva
ammesso il ristoro subordinatamente
all'accertamento dell’illegittimità
dell'esercizio della funzione amministrativa
in senso favorevole all'interessato o,
quanto meno, attraverso la sua esplicazione
virtuale mediante un giudizio prognostico,
così escludendo la risarcibilità del danno
da ritardo "puro", disancorato dalla
dimostrazione giudiziale della meritevolezza
dell'interesse pretensivo fatto valere.
L'articolo 2-bis, primo comma, della legge 07.08.1990 n. 241, introdotto dall'articolo
7, comma primo, lettera c), della legge 18.06.2009 n. 69, ha in seguito
esplicitamente previsto il ristoro,
stabilendo: "Le pubbliche amministrazioni e
i soggetti di cui all’articolo 1, comma
1-ter, sono tenuti al risarcimento del danno
ingiusto cagionato in conseguenza
dell’inosservanza dolosa o colposa del
termine di conclusione del procedimento".
Tale intervento normativo non recepisce il
modello prefigurato dall'articolo 17, comma
primo, lettera f), della legge 15.03.1997
n. 59, modificato dall'articolo 7 della
legge 15.05.1997 n. 127, di un
indennizzo automatico e forfetario a fronte
dell'inerzia dell'amministrazione (modello
che ha poi visto in effetti modesti
sviluppi: articolo 11 del decreto
legislativo 30.07.1999 n. 286 e legge
regionale Toscana 23.07.2009 n. 40 -
articolo 16, primo comma); neppure, però,
l'articolo 2-bis s’ispira espressamente ai
principi enunciati dall’Adunanza plenaria n.
7/2005.
La tutela contro l’inerzia è stata infine
completata attraverso le previsioni del
codice del processo amministrativo (articoli
30, 117 e 133, primo comma, lett. a), n. 1).
Per quanto premesso è rimasta aperta la
questione del rapporto tra tale risarcimento
e l'accertamento della spettanza, in capo al
richiedente, del c.d. “bene della vita” per
l'ottenimento del quale è avviato il
procedimento amministrativo nella disciplina
vigente, sulla quale si registrano in
giurisprudenza orientamenti contrastanti
(per tutte, da un lato, Consiglio di Stato,
Sez. IV, 15.12.2011 n. 6609;
dall’altro, Consiglio di Stato, Sez. V, 28.02.2011, n. 1271; Cons. giust. amm.
reg. sic., 04.11.2010 n. 1368).
È incontroverso invece che le citate
disposizioni riconducano le conseguenze
della mancata conclusione del procedimento
al modello del risarcimento del danno;
perciò, il richiedente, ex articolo 2697 del
codice civile, è tenuto a provare tutti gli
elementi costitutivi della relativa domanda,
ossia il danno, l'elemento soggettivo del
dolo o della colpa ed il nesso di causalità.
La tutela risarcitoria in ogni caso non può
essere quindi accordata in relazione alla
sola, mera "perdita di tempo" in sé
considerata -non riconoscendosi nel fattore
"tempo" un bene della vita meritevole di
autonoma dignità e tutela (TAR Sicilia,
Palermo, Sez. I, 20.01.2010, n. 582);
deve invece ritenersi (in senso rispondente
al dato letterale della novella legislativa
di cui alla legge 19.06.2009 n. 69) che
essa presupponga la lesione di un "diverso"
-rispetto al tempo- bene giuridicamente
protetto, ponendosi il fattore temporale
quale nesso causale tra fatto e lesione.
In definitiva, il riconoscimento della
responsabilità della pubblica
amministrazione per il tardivo esercizio
della funzione amministrativa richiede,
oltre alla constatazione della violazione
dei termini del procedimento, l'accertamento
che l'inosservanza delle cadenze
procedimentali sia imputabile a colpa o dolo
dell'amministrazione medesima e che il danno
lamentato sia conseguenza diretta ed
immediata del ritardo dell'amministrazione
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 04.05.2012 n. 897 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: La
lottizzazione, anche d’iniziativa privata,
rappresenta uno strumento per attuare le
previsioni della pianificazione generale,
ovvero per trasformare in realtà gli
obiettivi perseguiti nell'interesse pubblico
attraverso il disegno dello strumento
urbanistico, teso ad un ordinato e
funzionale uso del territorio.
In particolare, il P.d.L. è destinato a
realizzare un'espansione residenziale in
zone non ancora urbanizzate alle quali siano
così garantite le necessarie dotazioni e
infrastrutture collettive, attraverso
l'apporto anche finanziario di privati, che
sono in tal modo posti in condizione di
sfruttare le potenzialità edificatorie dei
terreni di loro proprietà.
---------------
La giunta ed il consiglio comunale non
possono effettuare valutazioni che
contrastino con quelle già formalizzate con
il piano regolatore. Infatti, se un’area è
stata da questo destinata all’edificazione,
nel corso del procedimento di approvazione
del piano attuativo non è giuridicamente
possibile che la medesima area non vada
considerata in concreto edificabile ‘per
ragioni ambientali e paesaggistiche’, e cioè
sulla base di valutazioni diametralmente
opposte a quelle già poste a base dello
strumento primario che ha previsto
l’edificabilità sul piano urbanistico. Ove
emergano le relative ragioni, può essere
attivato il procedimento per la modifica del
piano regolatore, ma –sul piano urbanistico-
non può essere respinto il progetto di
lottizzazione conforme allo strumento
primario.
---------------
Nel rispetto delle diverse finalità della
pianificazione urbanistica, la valutazione
della congruità del piano di lottizzazione
deve porsi in collegamento attuativo e nel
rispetto funzionale delle previsioni dello
strumento urbanistico di valenza generale.
Tali ragioni spingono ad affermare che il
compito spettante alla giunta ed al
consiglio comunale sono limitati
all’accertamento della conformità del
progetto alle previsioni dello strumento
urbanistico primario, imponendo peraltro,
giusta il canone ordinario di correttezza
dell’azione amministrativa, che le relative
determinazioni in merito all’eventuale non
conformità del progetto al piano regolatore
si fondino su una puntuale motivazione, tale
da permettere l’emersione di interessi
pubblici effettivamente sussistenti e la
conseguente tutela dell’interessato in sede
di giustizia amministrativa.
---------------
La questione dell’idoneità della viabilità
d’accesso all’area di lottizzazione è
certamente di pertinenza degli organi
comunali, ma deve aver luogo unicamente
nell’ambito della redazione dello strumento
pianificatorio generale, o di altri
strumenti a questo equiparati, ma non può
certamente trovar spazio in altri
provvedimenti che, stante il loro carattere
attuativo, non possono sovrapporsi alle
valutazioni generali già operate.
Non si può trascurare inoltre che, in
generale, la lottizzazione, anche
d’iniziativa privata, rappresenta uno
strumento per attuare le previsioni della
pianificazione generale, ovvero per
trasformare in realtà gli obiettivi
perseguiti nell'interesse pubblico
attraverso il disegno dello strumento
urbanistico, teso ad un ordinato e
funzionale uso del territorio. In
particolare, il P.d.L. è destinato a
realizzare un'espansione residenziale in
zone non ancora urbanizzate alle quali siano
così garantite le necessarie dotazioni e
infrastrutture collettive, attraverso
l'apporto anche finanziario di privati, che
sono in tal modo posti in condizione di
sfruttare le potenzialità edificatorie dei
terreni di loro proprietà.
Al riguardo, nel decidere sulla fattispecie
concreta, concernente l'operato degli uffici
tecnici del Comune, nell'ambito della
propria competenza, non si può trascurare
quanto, in una prospettiva più generale, ha
chiarito in materia il Consiglio di Stato,
Sezione quarta, in relazione ad una
lottizzazione che presentava aspetti
analoghi a quelli della procedura in esame.
"Ritiene la Sezione che la propria
precedente decisione n. 4368 del 16.09.2008 abbia già sufficientemente
individuato i limiti decisionali che
regolamentano l’approvazione dei piani di
lottizzazione, quando ha affermato che “la
giunta ed il consiglio comunale non possono
effettuare valutazioni che contrastino con
quelle già formalizzate con il piano
regolatore. Infatti, se un’area è stata da
questo destinata all’edificazione, nel corso
del procedimento di approvazione del piano
attuativo non è giuridicamente possibile che
la medesima area non vada considerata in
concreto edificabile ‘per ragioni ambientali
e paesaggistiche’, e cioè sulla base di
valutazioni diametralmente opposte a quelle
già poste a base dello strumento primario
che ha previsto l’edificabilità sul piano
urbanistico. Ove emergano le relative
ragioni, può essere attivato il procedimento
per la modifica del piano regolatore, ma –sul piano urbanistico- non può essere
respinto il progetto di lottizzazione
conforme allo strumento primario”.
Nel rispetto delle diverse finalità della
pianificazione urbanistica, la valutazione
della congruità del piano di lottizzazione
deve quindi porsi in collegamento attuativo
e nel rispetto funzionale delle previsioni
dello strumento urbanistico di valenza
generale. Tali ragioni hanno quindi spinto
la Sezione ad affermare che il compito
spettante alla giunta ed al consiglio
comunale siano limitati all’accertamento
della conformità del progetto alle
previsioni dello strumento urbanistico
primario, imponendo peraltro, giusta il
canone ordinario di correttezza dell’azione
amministrativa, che le relative
determinazioni in merito all’eventuale non
conformità del progetto al piano regolatore
si fondino su una puntuale motivazione, tale
da permettere l’emersione di interessi
pubblici effettivamente sussistenti e la
conseguente tutela dell’interessato in sede
di giustizia amministrativa.
Se queste affermazioni, in merito al metro
di giudizio, non paiono contestabili, né
sono state aggredite dalle parti
contendenti, una diversa valutazione va
fatta in relazione alla base del giudizio,
ossia agli elementi che possono essere
correttamente valutati al fine della
declaratoria di non conformità rispetto allo
strumento pianificatorio generale ed in
particolare in relazione alla supposta
insufficienza della viabilità.
In questo senso, nessun aiuto può provenire
dalla decisione n. 4368 del 2008, evocata a
vario titolo da tutte le parti, atteso che
nella detta sentenza non sono stati valutati
gli aspetti della viabilità, in quanto
introdotti successivamente al provvedimento
allora gravato e quindi integranti una
motivazione postuma dello stesso. Le
affermazioni ivi contenute hanno quindi
natura di obiter dictum, sebbene
incidentalmente, non si possa non notare
come la Sezione abbia suffragato “la
sussistenza del potere del consiglio
comunale di valutare la sufficienza della
viabilità nell’area oggetto del progetto, in
rapporto all’area più vasta in cui la sua
realizzazione si va ad inserire”, ossia
limitando il sindacato alla viabilità
interna al piano da realizzare.
In senso più generale, non si può non
osservare come il tema della pianificazione
viaria sia tradizionalmente oggetto di
previsioni a livello di piano regolatore
generale. L’art. 7 della legge urbanistica
(legge 17.08.1942, n. 1150, indicando i
contenuti del piano generale, espressamente
prevede, al punto 1 del comma 1, che questo
indichi “la rete delle principali vie di
comunicazione stradali, ferroviarie e
navigabili e dei relativi impianti”. E
previsioni di tal fatta si riscontrano,
peraltro con terminologia normativa più
corrente, in tutte le discipline regionali
che trattano il tema dell’assetto e del
governo del territorio (ad esempio,
nell’ambito della regione Veneto, la L.R. n.
11 del 2004, separando gli aspetti
strutturali del piano regolatore da quelli
operativi, prevede che siano fissati “gli
obiettivi e le condizioni di sostenibilità
degli interventi e delle trasformazioni
ammissibili”, individuando “le
infrastrutture e le attrezzature di maggiore
rilevanza” – art. 13, comma 1, lett. j).
Emerge quindi uno stretto collegamento tra
la pianificazione generale comunale e
l’individuazione della rete viaria
necessaria all’attuazione delle scelte di
piano. E tale collegamento opera in senso
discendente, in modo che la predisposizione
infrastrutturale si pone a monte delle
previsioni operative attuative.
Così ricostruito il quadro dei rapporti tra
i contenuti di piano, appare evidente come
la valutazione dei temi della viabilità, e
quindi della sufficienza dei collegamenti
esterni all’area oggetto di lottizzazione,
non sia un elemento da sviluppare in
occasione dell’approvazione del piano di
lottizzazione, che ha natura attuativa, ma
debba essere contenuto, a monte, nello
strumento urbanistico generale il quale,
sulla base di una previsione complessiva dei
temi della gestione del territorio, è il
mezzo giuridico funzionalmente idoneo a dare
ingresso alle tematiche della circolazione
nell’ambito del territorio comunale.
Trasportando il detto schema nella questione
qui in scrutinio, emerge con chiarezza come
la questione dell’idoneità della viabilità
d’accesso all’area di lottizzazione è
certamente di pertinenza degli organi
comunali, ma deve aver luogo unicamente
nell’ambito della redazione dello strumento
pianificatorio generale, o di altri
strumenti a questo equiparati, ma non può
certamente trovar spazio in altri
provvedimenti che, stante il loro carattere
attuativo, non possono sovrapporsi alle
valutazioni generali già operate (sentenza
20.07.2011 n. 4395).
I principi enunciati dal Consiglio di Stato,
che si attagliano perfettamente al caso
concreto, sono da condividere e inducono a
ritenere fondate anche le censure dedotte
sub 4).
D'altra parte, a ben considerare il
ragionamento sotteso al parere, si dovrebbe
ammettere che il Comune finisce per
trasformare il vincolo strumentale (cioè
quello che subordina l'edificabilità di
un'area all'inserimento della stessa in uno
strumento esecutivo, piano particolareggiato
o, in alternativa, piano di lottizzazione ad
iniziativa privata) in un vincolo di tipo
ablatorio del diritto di proprietà, in
quanto, comportando di fatto l'inedificabilità
della zona (nella fattispecie concreta anche
in contrasto con le previsioni del piano
regolatore), si presenterebbe tanto intenso
d’annullare o ridurre notevolmente il valore
degli immobili cui si riferiscono (Consiglio
di Stato, Sez. IV, 24.03.2009, n. 1765; Sez.
V, 03.04.2000, n. 1908; 30.06.1995, n. 945;
TAR Puglia, Lecce, Sez. I, 15.12.2010, n.
2835)
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 04.05.2012 n. 897 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Sono accessibili i pareri legali richiamati
nel provvedimento finale.
Ai sensi dell’art. 22 L. 07.08.1990 n. 241,
infatti, il diritto di accesso spetta ai
soggetti che siano titolari di una
situazione giuridicamente rilevante.
Peraltro, la posizione che legittima
all’accesso non deve necessariamente
possedere tutti i requisiti stabiliti per la
proposizione del ricorso al giudice
amministrativo avverso un atto lesivo della
posizione giuridica vantata, tra i quali
l’attualità dell’interesse ad agire, essendo
sufficiente che l’istante sia titolare di un
interesse giuridicamente rilevante e che il
suo interesse alla richiesta di documenti si
fondi su tale posizione (Cons. Stato, VI
Sez., 16.06.1994 n. 1015).
In particolare, deve ritenersi che la
nozione di “interesse giuridicamente
rilevante sia più ampia rispetto a quella
dell’interesse all’impugnazione,
caratterizzato dall’attualità e concretezza
dell’interesse medesimo, e consenta la
legittimazione all’accesso a chiunque possa
dimostrare che il provvedimento o gli atti
endoprocedimentali abbiano dispiegato o
siano idonei a dispiegare effetti diretti o
indiretti nei suoi confronti,
indipendentemente dalla lesione di una
posizione giuridica” (Cons. Stato, IV
Sez., 03.02.1996 n. 98; 14.01.1999 n. 32).
D’altra parte, il concetto di interesse
giuridicamente rilevante, sebbene sia più
ampio di quello di interesse
all’impugnazione, non è tale da consentire a
chiunque l’accesso agli atti amministrativi:
il diritto di accesso ai documenti
amministrativi non si atteggia, infatti,
come una sorta di azione popolare diretta a
consentire una sorta di controllo
generalizzato sull’Amministrazione, giacché,
da un lato l’interesse che legittima ciascun
soggetto all’istanza, da accertare caso per
caso, deve essere personale e concreto e
ricollegabile al soggetto stesso da uno
specifico nesso, dall’altro, la
documentazione richiesta deve essere
direttamente riferibile a tale interesse
oltre che individuata o ben individuabile
(Cons. Stato, VI Sez., 17.03.2000 n. 1414;
03.11.2000 n. 5930).
Detti presupposti ricorrono nel caso di
specie.
Come sopra osservato, la ricorrente ha una
posizione giuridicamente rilevante a
conoscere gli atti oggetto di istanza di
accesso e, d’altra parte, contrariamente a
quanto sostenuto nel provvedimento
impugnato, gli atti di cui si chiede
l'ostensione non possono definirsi meramente
interni o riservati e quindi preclusi
all’accesso dell’interessato.
Non può infatti costituire causa ostativa
all’accesso la motivazione addotta nell’atto
di diniego secondo cui i documenti richiesti
“non possono essere resi accessibili in
quanto attengono ad atti interni di questa
Società relativi alle libere valutazioni in
ordine alla convenienza delle scelte da
adottare; scelte concretizzatesi nella
delibera n. 123 dell’11.12.2009 di
rescissione del contratto”.
E infatti, in disparte le considerazioni già
svolte in merito al rapporto tra
insindacabilità e ostensibilità dei motivi
di recesso, osserva il Collegio che gli atti
per cui si è chiesto l'accesso negato dalla
S.A. rappresentano la motivazione del
recesso, in quanto la delibera n. 123/2009
motiva la scelta di RFI esclusivamente
per relationem ad essi.
Ne discende che nel caso di specie deve
applicarsi l'art. 3 della legge n. 241/1990,
giusta il quale “Se le ragioni della
decisione risultano da altro atto
dell'amministrazione richiamato dalla
decisione stessa, insieme alla comunicazione
di quest'ultima deve essere indicato e reso
disponibile, a norma della presente legge,
anche l'atto cui essa si richiama”.
A tal proposito, giova altresì richiamare
l’orientamento espresso dalla giurisprudenza
con riguardo ai pareri legali acquisiti nel
corso del procedimento, secondo cui “Devono
… ritenersi accessibili i pareri legali che,
anche per l'effetto di un richiamo esplicito
nel provvedimento finale, rappresentano un
passaggio procedimentale istruttorio di un
procedimento amministrativo in corso e, una
volta acquisiti dall'Amministrazione,
vengono ad innestarsi nell'iter
procedimentale, assumendo la configurazione
di atti endoprocedimentali e perciò
costituiscono uno degli elementi che
condizionano la scelta dell'Amministrazione"
(Consiglio Stato, Sezione VI, 30.09.2010, n.
7237; id., Sez. V, 23.06.2011, n. 3812).
Infine, inidonea risulta anche la
motivazione specificamente addotta da RFI
per negare l’accesso alla nota del Direttore
Lavori del 13.10.1999, che “reca la
definizione di “riservata” [e] va trattata
al pari dei documenti per i quali il
legislatore prevede di escludere l’accesso
all’art. 13, comma 5, del d.lgs n. 163/2006,
in quanto tali atti sono propedeutici alla
tutela degli interessi di questa società in
una potenziale controversia con
l’appaltatore”.
Non si rinviene infatti la fonte del
carattere riservato della nota in questione,
che nella Delibera n. 123 del 11.12.2009 non
era indicata con tale qualità, né il
fondamento giuridico del diniego
all’ostensione, rappresentando la suddetta
nota un documento diverso rispetto alla “Relazione
riservata del direttore dei lavori” per
la quale il ripetuto art. 13, comma 5,
prevede l'esclusione dal diritto di accesso.
Né tale ultima disposizione è suscettibile
di interpretazione estensiva o analogica,
essendo norma eccezionale che deroga
rispetto alle ordinarie regole in materia di
accesso e dunque non torna applicabile fuori
dei casi in essi previsti (Consiglio Stato,
Sez. V, 23.06.2011, n. 3812; Tar Lombardia,
Sez. III, 24.10.2011, n. 2530) (TAR Lazio-Roma,
Sez. III-ter,
sentenza 02.05.2012 n. 3921 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Laddove il P.R.G.
subordini l’edificazione su una determinata
area alla previa predisposizione di un piano
particolareggiato, tale obbligo può venire
meno nei casi in cui l’Amministrazione
accerti la sufficienza delle opere di
urbanizzazione già esistenti, perché
trattasi di lotto “intercluso” o
comunque di maglia già adeguatamente
urbanizzata.
La previsione che assoggetta di regola gli
interventi al previo piano particolareggiato
è intesa a garantire un ordinato e armonico
sviluppo del territorio ovvero ad assicurare
il raccordo fra la nuova edificazione e le
strutture esistenti, con ciò rispondendo a
esigenze di carattere pubblicistico che non
può escludersi, in astratto, possano
sussistere anche in relazione ad aree già
urbanizzate.
Dal che discende che la possibilità di
disapplicazione della previsione de qua non
può mai affermarsi in astratto, ma consegue
sempre ad un accertamento istruttorio che il
Comune deve condurre con riferimento alle
specifiche condizioni e caratteristiche
dell’area in considerazione.
Nella specie, viene in rilievo il noto
indirizzo secondo cui, laddove il P.R.G.
subordini l’edificazione su una determinata
area alla previa predisposizione di un piano
particolareggiato, tale obbligo può venire
meno nei casi in cui l’Amministrazione
accerti la sufficienza delle opere di
urbanizzazione già esistenti, perché
trattasi di lotto “intercluso” o
comunque di maglia già adeguatamente
urbanizzata.
Per un corretto inquadramento della
fattispecie di che trattasi, è opportuno
rilevare preliminarmente che la previsione
che assoggetta di regola gli interventi al
previo piano particolareggiato è intesa a
garantire un ordinato e armonico sviluppo
del territorio ovvero ad assicurare il
raccordo fra la nuova edificazione e le
strutture esistenti, con ciò rispondendo a
esigenze di carattere pubblicistico che non
può escludersi, in astratto, possano
sussistere anche in relazione ad aree già
urbanizzate (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
10.01.2012, nr. 26; id., 13.10.2010, nr.
7486).
Dal che discende che la possibilità di
disapplicazione della previsione de qua non
può mai affermarsi in astratto, ma consegue
sempre ad un accertamento istruttorio che il
Comune deve condurre con riferimento alle
specifiche condizioni e caratteristiche
dell’area in considerazione.
Già alla luce di tale ovvio rilievo, risulta
scarsamente persuasiva la tesi dell’odierno
appellante secondo cui tertium non datur
fra le due alternative del rispetto della
prescrizione che impone la previa redazione
del piano attuativo e dell’assentibilità
sic et simpliciter dell’intervento
diretto, non essendo consentita
all’Amministrazione alcuna ulteriore
valutazione in ordine alla sufficienza e
adeguatezza di urbanizzazioni pure
esistenti; in altri termini, poiché è da una
valutazione rimessa ad apprezzamenti
tecnico-discrezionali del Comune che può
derivare la disapplicazione della previsione
de qua, sarebbe contraddittorio fissare
percorsi rigidi alle modalità con cui la
medesima Amministrazione, una volta decisa
la deroga, la attua in concreto (e salva,
come è ovvio, l’impossibilità di apporre al
permesso di costruire condizioni o
prescrizioni palesemente eccessive o
estranee all’intervento richiesto)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 27.04.2012 n. 2470 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La difformità tra gli interventi
oggetto di concessione edilizia e quelli
effettivamente realizzati legittima la
richiesta di pagamento dei maggiori oneri
concessori.
E' legittimo il provvedimento con cui
un Comune, a distanza di cinque anni dal
rilascio di una concessione edilizia, chiede
il pagamento di maggiori oneri concessori in
ragione di riscontrate difformità tra
l'oggetto della concessione e quanto
effettivamente realizzato.
La ricorrente, ditta operante nel settore
delle costruzioni e titolare di una
concessione edilizia, ha impugnato il
provvedimento con cui la società
concessionaria del Comune incaricata per la
riscossione ha ingiunto alla medesima il
pagamento di maggiori oneri concessori.
Ha esposto che, a fondamento del contestato
provvedimento, vi erano gli esiti della
verifica svolta sulla correttezza degli
oneri concessori determinati a suo tempo
dalla civica P.A. e versati dalla deducente
in sede di rilascio di concessione edilizia
e successiva variante.
In considerazione di tanto, ha eccepito,
oltre al resto, la violazione dei principi
in materia di autotutela amministrativa, sia
in relazione al periodo di tempo ragionevole
entro il quale la P.A. avrebbe potuto
esercitare il potere, sia con riguardo alla
omessa comparazione dei contrapposti
interessi.
Il ricorso è stato rigettato.
Il G.A. di Ancona, in primis, ha
rilevato come nella vicenda non fosse
configurabile l’esercizio del potere di
autotutela da parte del Comune, trattandosi
di controversia afferente diritti
soggettivi.
Pertanto, ferma restando la facoltà per il
destinatario dell’atto con cui gli viene
chiesto il pagamento degli oneri concessori
di agire eventualmente nei riguardi del
creditore per violazione del principio di
buona fede, il giudicante ha evidenziato
come, in linea di principio, il pagamento
degli stessi oneri potesse essere chiesto
dalla P.A. nel termine di prescrizione
decennale.
Al contempo, l’adito TAR ha rilevato la
legittimità dell’operato della società
concessionaria che, in luogo di un eventuale
riesame della decisione assunta a suo tempo
dal Comune, aveva chiesto il pagamento di
maggiori oneri concessori in virtù di una
nuova verifica dei dati progettuali.
Di conseguenza, il Collegio, con riferimento
al merito della vicenda, ha chiarito come la
richiesta di pagamento di maggiori oneri
concessori fosse derivata dalla circostanza
per cui alcune porzioni degli immobili
realizzati erano state erroneamente
considerate come superfici non residenziali
e, dunque, non computate secondo le
percentuali previste dalla normativa di
riferimento.
Invero, ha precisato che il contributo
introdotto dalla L. n. 10/1977 -poi
confermato dall’attuale T.U. n. 380/2001- ha
due componenti, gli oneri di urbanizzazione,
il cui calcolo deve aver riguardo al volume
dell’edificio realizzato e il costo di
costruzione da determinarsi in base alla
superficie.
Conseguentemente, avuto riguardo al vano
tecnico dell’ascensore di uno dei fabbricati
realizzati, lo stesso doveva essere
computato, atteso che, ai sensi dell’art.
11, Regolamento Regione Marche n. 6/1977,
solo i vani tecnici che fuoriescono dalla
linea di gronda dell’edificio non possono
essere considerati ai fini della
determinazione del volume complessivo: nella
specie, si trattava di locale situato al
piano interrato e che dunque non fuoriusciva
dalla linea di gronda.
Inoltre, ha osservato come negli elaborati
grafici versati agli atti, quello che la
ricorrente aveva qualificato come “sottotetto
non abitabile” (e dunque volume
tecnico), fosse in realtà parte integrante
del primo piano dell’edificio; pertanto,
l’altezza del primo piano era stata
correttamente calcolata dalla società di
riscossione.
Per quanto riguarda la riduzione delle unità
immobiliari complessive, il G.A. marchigiano
ha chiarito che se ciò non aveva implicato
aumento di superficie o di volume, aveva
invece inciso sulla classe di maggiorazione
da applicare, essendo stato realizzato un
appartamento avente superficie superiore a
110 mq.
Infine, anche per quanto attiene alle
taverne, i calcoli eseguiti dalla società di
riscossione sono stati ritenuti corretti
stante l’evidente differenza fra cantina e
taverna.
Difatti, nella variante all’originaria
concessione, poiché i locali interessati
risultavano indicati espressamente come
taverne (munite per lo più di servizi
igienici), gli stessi sono stati ritenuti a
servizio della residenza e dovevano essere
computati al 50% (art. 11, Regolamento
regionale n. 6/1977).
Alla stregua di tanto, il TAR di Ancona,
reputando corretti i calcoli effettuati
dalla società concessionaria, ha respinto il
gravame, per l’effetto confermando il
provvedimento di accertamento e richiesta in
pagamento dei maggiori oneri concessori
(commento tratto da www.ipsoa.it - TAR
Marche,
sentenza
20.04.2012 n. 289 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
In
materia di definizione del titolo di studio
occorrente per la partecipazione ai concorsi
pubblici, ferma la definizione del livello
del titolo (laurea o altro titolo di studio)
affidata alla legge o ad altra fonte
normativa, l’amministrazione che indice il
concorso –in assenza di specifiche
indicazioni di legge- è titolare di un
potere discrezionale nella definizione della
tipologia del titolo (cioè, ad esempio,
della tipologia di laurea), in relazione
alla professionalità ed alla preparazione
culturale richieste per il posto che,
attraverso il concorso e la selezione dei
soggetti meritevoli, si intende ricoprire.
Tale individuazione discrezionale da parte
dell’amministrazione viene ad essere
necessariamente integrata dalla equipollenza
ex lege (o comunque normativamente espressa)
tra i vari titoli di studio, di modo che,
laddove l’amministrazione individui un
determinato tipo di laurea quale titolo
necessario in relazione alla tipologia dei
posti messi a concorso, costituiscono titoli
di ammissione al medesimo concorso
finalizzato alla copertura dei predetti
posti anche tutte le lauree dichiarate
equipollenti a quella prescelta
dall’amministrazione in sede di redazione
del bando.
In sostanza, per un verso, il potere di
individuazione della tipologia di laurea non
è svincolato da ogni criterio (non potendo
esso costituire una “area libera”
dell’azione amministrativa), per altro
verso, però, la valutazione e quindi la
scelta operata dalla pubblica
amministrazione costituiscono esercizio di
potere discrezionale ampio, censurabile dal
giudice amministrativo solo sotto il profilo
dell’eccesso di potere per manifesta
illogicità.
---------------
In relazione alla valutazione di
equipollenza va detto che essa è riservata
alla legge e non è rimessa alla
discrezionalità dell’amministrazione.
Non vi è alcuna equipollenza ex lege tra il
titolo di geometra e quello di perito
industriale edile e non rileva in merito il
fatto che esistano affinità e parziali
coincidenze fra le attività svolte dai
professionisti iscritti in albi diversi.
---------------
Se si esaminano le competenze previste dalle
leggi sulla creazione dei rispettivi albi
professionali si potrà constatare che le
competenze dei geometri sono più ampie di
quelli dei periti edili e pertanto la
discriminazione operata nel bando di
concorso che ha riservato la partecipazione
ai soli geometri appare immune da vizi di
illogicità o di arbitrarietà.
... per l'annullamento del bando di concorso
per titoli ed esami per la copertura di 1
posto di "istruttore tecnico geometra“
Categoria C1 emesso dall'Amministrazione
Comunale di Montignoso (MS) e pubblicato
sulla G.U. nr. 42 del 29.05.2007;
...
Le doglianze dell’impugnazione proposta
censurano l’esercizio della discrezionalità
nella scelta del requisito per partecipare
al concorso pubblico.
Si tratta di una discrezionalità tecnica
ampia che può essere sindacata dal giudice
solo per eccesso di potere sotto il profilo
dell’illogicità o dell’arbitrarietà.
Nel caso di specie tale discrezionalità è
tanto più ampia in quanto non esistono norme
che stabiliscono un’equipollenza tra i
titoli di studio di cui si discute; infatti
quando questa equipollenza esista la
circostanza che l’amministrazione individui
discrezionalmente un titolo per l’ammissione
al pubblico concorso, non impedisce la
partecipazione di chi possegga il titolo
equiparato anche se non espressamente
indicato.
Si veda sul punto la sentenza 18699/2005 del
TAR Campania, che riassume in modo integrale
gli orientamenti giurisprudenziali esistenti
sulla questione posta all’attenzione del
Collegio, laddove afferma: “Nel merito,
come questo Tribunale ha già avuto modo di
osservare, in materia di definizione del
titolo di studio occorrente per la
partecipazione ai concorsi pubblici, ferma
la definizione del livello del titolo
(laurea o altro titolo di studio) affidata
alla legge o ad altra fonte normativa,
l’amministrazione che indice il concorso –in
assenza di specifiche indicazioni di legge-
è titolare di un potere discrezionale nella
definizione della tipologia del titolo
(cioè, ad esempio, della tipologia di
laurea), in relazione alla professionalità
ed alla preparazione culturale richieste per
il posto che, attraverso il concorso e la
selezione dei soggetti meritevoli, si
intende ricoprire.
Tale individuazione discrezionale da parte
dell’amministrazione viene ad essere
necessariamente integrata dalla equipollenza
ex lege (o comunque normativamente espressa)
tra i vari titoli di studio, di modo che,
laddove l’amministrazione individui un
determinato tipo di laurea quale titolo
necessario in relazione alla tipologia dei
posti messi a concorso, costituiscono titoli
di ammissione al medesimo concorso
finalizzato alla copertura dei predetti
posti anche tutte le lauree dichiarate
equipollenti a quella prescelta
dall’amministrazione in sede di redazione
del bando.
In sostanza, per un verso, il potere di
individuazione della tipologia di laurea non
è svincolato da ogni criterio (non potendo
esso costituire una “area libera”
dell’azione amministrativa), per altro
verso, però, la valutazione e quindi la
scelta operata dalla pubblica
amministrazione costituiscono esercizio di
potere discrezionale ampio, censurabile dal
giudice amministrativo solo sotto il profilo
dell’eccesso di potere per manifesta
illogicità.”.
In relazione alla valutazione di
equipollenza va detto che essa è riservata
alla legge e non è rimessa alla
discrezionalità dell’amministrazione
(Consiglio di Stato 4902/2005).
Non vi è alcuna equipollenza ex lege
tra il titolo di geometra e quello di perito
industriale edile e non rileva in merito il
fatto che esistano affinità e parziali
coincidenze fra le attività svolte dai
professionisti iscritti in albi diversi.
Vi sono peraltro due precedenti specifici
che hanno deciso situazioni identiche a
quella prospettata in questa sede; la
sentenza 4673/2002 del TAR Puglia ha
affrontato il caso in cui il Collegio dei
periti industriali della Provincia di
Avellino si doleva della mancata estensione
ai periti edili di un concorso del Comune di
Bari per affidare a dei professionisti il
compito di accatastare alcuni immobili
comunali ed in merito ha affermato: “Orbene
ritiene il Collegio che questa formulazione
non lasci adito a dubbi sul fatto che
l’indicazione dei titoli professionali
richiesti per la partecipazione alla gara
(geometra, ingegnere o architetto) fosse
tassativa e non semplicemente
esemplificativa, anche per la mancata
previsione di una clausola generale di
chiusura che potesse far desumere
l’esistenza di una elencazione non esaustiva
(ad es.: “… professionisti esterni iscritti
negli Albi professionali dei geometri,
ingegneri ed architetti o equipollenti).
D’altra parte, nessuna disposizione
dell’ordinamento positivo impone
all’Amministrazione, nello svolgimento della
gara per l’affidamento dell’incarico de quo,
di estendere la platea degli aspiranti,
ricomprendendovi tutti coloro che posseggano
titoli potenzialmente idonei allo
svolgimento dell’incarico stesso.
Infatti, non può fondatamente contestarsi il
potere discrezionale dell’Amministrazione,
in relazione ad un certo tipo di incarico,
di individuare i titoli professionali in
concreto “adeguati”, a prescindere dalla
circostanza che, in astratto, altri titoli
(nel caso quello di perito industriale
edile) possano essere ritenuti equipollenti
a quelli indicati.
In buona sostanza, quest’ultima agisce in
forza di un suo innegabile potere
discrezionale, ed in questo contesto ben può
determinare i titoli ammissibili; ciò
proprio per l’assenza di una specifica
disposizione ordinamentale che indichi
espressamente, in relazione a quel tipo di
incarico, i titoli professionali che danno
ingresso alla gara.
Pertanto, al di là della problematica legata
alla idoneità o meno del titolo posseduto
dai periti edili allo svolgimento di
operazioni catastali, non è dubitabile che
l’Amministrazione fosse svincolata da un
obbligo giuridico di allargare il novero dei
titoli da ammettere per l’affidamento
dell’incarico.”.
La massima della sentenza del Consiglio di
Stato 954/1991 così recita: “L'equipollenza
dei titoli di studio richiesti ai fini della
ammissione ad un pubblico concorso può
essere riconosciuta solo nei casi previsti
dalla legge o dallo stesso bando di
concorso. (Nella specie, è stata esclusa
l'equipollenza fra il titolo di perito
industriale e quello di geometra richiesto
dal bando)”.
Infine se si esaminano le competenze
previste dalle leggi sulla creazione dei
rispettivi albi professionali si potrà
constatare che le competenze dei geometri
sono più ampie di quelli dei periti edili e
pertanto la discriminazione operata nel
bando di concorso che ha riservato la
partecipazione ai soli geometri appare
immune da vizi di illogicità o di
arbitrarietà (TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 11.04.2012 n. 708 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il fondamento del contributo di
urbanizzazione non consiste nel titolo
edilizio in sé, ma nella necessità di
redistribuire i costi sociali delle opere di
urbanizzazione, facendoli gravare su quanti
beneficiano delle utilità derivanti dalla
presenza delle medesime –secondo modalità
eque per la comunità–, con la conseguenza
che anche nel caso di modificazione della
destinazione d’uso cui si correli un
maggiore carico urbanistico è integrato il
presupposto che giustifica l’imposizione del
pagamento della differenza tra gli oneri di
urbanizzazione dovuti per la destinazione
originaria e quelli, se più elevati, dovuti
per la nuova destinazione impressa.
Il mutamento, pertanto, è rilevante
allorquando sussiste un passaggio tra due
categorie funzionalmente autonome dal punto
di vista urbanistico, qualificate sotto il
profilo della differenza del regime
contributivo in ragione di diversi carichi
urbanistici, sicché la circostanza che le
modifiche di destinazione d’uso non siano
eventualmente soggette al previo titolo
abilitativo non comporta ipso iure
l’esenzione dagli oneri di urbanizzazione e
quindi la gratuità dell’operazione.
Osserva preliminarmente il Collegio che, per
costante giurisprudenza (v. TAR Lombardia,
Milano, Sez. IV, 10.06.2010 n. 1787; TAR
Lombardia, Brescia, 07.11.2005 n. 1115), il
fondamento del contributo di urbanizzazione
non consiste nel titolo edilizio in sé, ma
nella necessità di redistribuire i costi
sociali delle opere di urbanizzazione,
facendoli gravare su quanti beneficiano
delle utilità derivanti dalla presenza delle
medesime –secondo modalità eque per la
comunità–, con la conseguenza che anche nel
caso di modificazione della destinazione
d’uso cui si correli un maggiore carico
urbanistico è integrato il presupposto che
giustifica l’imposizione del pagamento della
differenza tra gli oneri di urbanizzazione
dovuti per la destinazione originaria e
quelli, se più elevati, dovuti per la nuova
destinazione impressa; il mutamento,
pertanto, è rilevante allorquando sussiste
un passaggio tra due categorie
funzionalmente autonome dal punto di vista
urbanistico, qualificate sotto il profilo
della differenza del regime contributivo in
ragione di diversi carichi urbanistici,
sicché la circostanza che le modifiche di
destinazione d’uso non siano eventualmente
soggette al previo titolo abilitativo non
comporta ipso iure l’esenzione dagli oneri
di urbanizzazione e quindi la gratuità
dell’operazione.
Quanto, poi, alla possibilità che,
nell’esercizio della loro potestà di
pianificazione del territorio, le
Amministrazioni comunali individuino
categorie di destinazione d’uso ulteriori e
diverse rispetto a quelle previste dalla
legislazione statale e regionale, la
giurisprudenza si è espressa in modo
affermativo, sia con riferimento ai casi in
cui il legislatore regionale abbia lasciato
agli enti locali un rilevante ambito di
autodeterminazione in merito, sia con
riferimento all’attuale regime delle
autonomie locali in tema di attività di
pianificazione urbanistica, che ben può
implicare anche la suddivisione in più
sottocategorie o sottofunzioni, laddove ciò
sia giustificato da significative diversità
del carico urbanistico e implichi di
conseguenza differenti modulazioni di
calcolo del contributo concessorio (v. Cons.
Stato, Sez. IV, 13.07.2010 n. 4546) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 05.04.2012 n. 239 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Infiltrazioni mafiose: si procede senza
comunicare l'avvio del procedimento.
Non è necessaria la previa comunicazione di
avvio del procedimento nel caso di
provvedimenti emanati a causa di informative
prefettizie per sospetti collegamenti con la
criminalità organizzata.
La vicenda in esame trae origine dal ricorso
proposto dalla società Alfa nei confronti
del Ministero dell’Interno e della
Prefettura di Napoli nonché delle società
Beta e Gamma e del Consorzio X per
l’annullamento dell’informativa della
Prefettura di Napoli recante la sussistenza
di tentativi di infiltrazione mafiosa a
carico della società ricorrente e delle note
rispettivamente delle società Beta e Gamma
con le quali venivano revocate alla
ricorrente le autorizzazioni al subappalto
per il trasporto di materiali di risulta e
per il noleggio di macchinari nonché di ogni
altro atto presupposto, collegato o
connesso.
In prima battuta dinanzi all’eccezione di
carenza di giurisdizione sollevata dalla
società Gamma, il TAR Campania ha rilevato
che la controversia avente ad oggetto il
recesso e/o la risoluzione di un contratto
di subappalto posto in essere dalla ditta
appaltatrice dei lavori a seguito
dell’emissione di informativa prefettizia
interdittiva, rientra a pieno titolo nella
giurisdizione del giudice amministrativo.
Il Collegio ha infatti evidenziato come non
sia possibile attribuire a tale recesso
natura privatistica e negoziale dal momento
che, vi è una manifestazione del potere
autoritativo di valutazione del requisito di
moralità professionale del contraente che
attiene alla scelta di quest’ultimo e che
rimane estraneo alla sfera del diritto
privato.
Ciò posto, tale ipotesi di recesso appare
legata, non già ad inadempienze afferenti la
fase di esecuzione del contratto, che
risulterebbero devolute alla cognizione del
giudice ordinario, bensì all’informativa
prefettizia ed alla revoca
dell’autorizzazione al subappalto che come
tale deve essere necessariamente annoverata
tra le forme di espressione del potere
pubblicistico di valutazione delle
situazioni soggettive ostative alla
contrattazione volte a soddisfare l’esigenza
di evitare che la pubblica amministrazione
direttamente, o per il tramite dei soggetti
investiti dell’esecuzione di un appalto, si
trovi ad intrattenere rapporti contrattuali
con imprese nei cui confronti emergono
sospetti di collegamenti con la criminalità
organizzata.
La ricorrente ha rilevato altresì che il
provvedimento di risoluzione contrattuale
non era stato proceduto dalla comunicazione
di avvio del procedimento di cui all’art. 7
legge 241/1990 con ciò provocando una
lesione del proprio diritto di difesa.
Il Giudice Amministrativo ha tuttavia
rigettato l’eccezione rilevando che
trattandosi nella specie di procedimenti in
materia di tutela antimafia caratterizzati
intrinsecamente da riservatezza ed urgenza,
debba essere esclusa, in presenza di
informativa prefettizia dietro la quale si
cela il concreto pericolo di infiltrazioni
mafiose, la necessità di provvedere
all’informativa di avvio del procedimento.
In particolare nel caso in esame, era
risultato un coinvolgimento
dell’amministratore unico della società
ricorrente in fattispecie delittuose
rilevanti sotto il profilo cautelare
antimafia, finalizzate ad agevolare
l’attività di un’associazione camorristica.
Il Collegio ha al contrario valutato
passibile di accoglimento, la doglianza
della ricorrente che lamentava un difetto di
istruttutoria e di motivazione
nell’informativa prefettizia, stante che la
stessa ometteva di valutare la successiva
sentenza con la quale l’amministratore unico
della società ricorrente veniva assolto dai
reati ascrittigli.
Il TAR Campania pertanto, a parziale
accoglimento del ricorso, in proposito ha
rilevato che pur potendosi un giudizio di
contiguità mafiosa basarsi unicamente su
elementi meramente indiziari, è escluso, in
quanto non rispondente a canoni di
adeguatezza e razionalità dell’azione
amministrativa che, l’organo indiziario
possa non tenere conto delle sentenze o dei
provvedimenti giurisdizionali che, in epoca
successiva, abbiano confutato o, comunque,
sminuito la portata indiziaria di
circostanze in un primo momento ritenute
indicative della sussistenza dei tentativi
di infiltrazione mafiosa (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 28.03.2012 n. 1511 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Esclusione dalle gare d’appalto
per le imprese imprese che si sono rese
responsabili di gravi inadempienze
nell'esecuzione di precedenti contratti.
Presupposti per l’applicabilità.
Illegittimità dell’aggiudicazione in favore
di una ditta che ha omesso di dichiarare una
precedente risoluzione di un rapporto
contrattuale con la P.A. per grave
inadempimento e/o malafede.
L'articolo 38, comma 1, lettera f), del
D.Lgs. n. 163 del 2006 (codice dei contratti
pubblici), nel precludere la partecipazione
alle gare d'appalto alle imprese che si sono
rese responsabili di gravi inadempienze
nell'esecuzione di precedenti contratti
(denotando ciò un'inidoneità "tecnico-morale"
a contrarre con la P.A.), fissa il duplice
principio che la sussistenza di tali
situazioni ostative può essere desunta da
qualsiasi mezzo di prova e che il
provvedimento di esclusione deve essere
motivato congruamente (1). Per procedere
alla esclusione in questione è necessario
quindi che sia fornita un'adeguata prova
dell'inadempimento e che lo stesso rilevi
sul piano del venir meno dell'affidabilità
dell'impresa nei confronti della
Amministrazione.
E’ illegittima l’aggiudicazione di una gara
di appalto in favore di una ditta che,
nonostante la chiara e specifica
prescrizione della lex specialis,
prevista a pena di esclusione, ha omesso di
dichiarare una precedente risoluzione
contrattuale disposta dalla P.A. per grave
inadempimento e/o malafede, ex art. 38, co.
1, lettera f), del D.Lgs. n. 163 del 2006, a
nulla rilevando che tale inadempimento sia
stato posto in essere dalla società fusa per
incorporazione e successivamente sanato; in
tal caso, infatti, la sostanziale causa di
esclusione non è tanto quella del grave
inadempimento, peraltro successivamente
sanato, in cui è incorsa la ditta
interessata nei rapporti contrattuali con la
P.A., bensì quella, formale, di aver violato
un precetto del bando, e, quindi, il
principio della par condicio (2).
---------------
(1) Cfr. Cons. Stato, sez. V, 27.01.2010
n. 296
(2) Cfr. Cons. Stato, Sez. V, sent.
21.10.2011 n. 5674, secondo la quale "nel
caso in cui il bando di gara non si limiti a
chiedere una generica dichiarazione di
insussistenza in ordine alle cause di
esclusione di cui all'articolo 38, ma
specifichi l'obbligo di menzionare tutte le
eventuali condanne penali riportate, causa
di esclusione è quella, formale, di aver
violato un precetto del bando, mediante
autocertificazione contraria al vero".
Il principio è apparso esattamente
trasponibile al caso affrontato dalla
sentenza in rassegna, posto che ciò che era
stato contestato nella specie non era la
sussistenza attuale del valore della revoca
per inadempimento, ma unicamente la mancanza
della prescritta dichiarazione, in un caso
in cui invece tale dichiarazione avrebbe
dovuto essere rilasciata (massima tratta
da www.regione.piemonte.it -
TAR Veneto,
Sez. I,
sentenza 23.03.2012 n. 412
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
L’accesso al pubblico impiego,
così come i passaggi a qualifiche funzionali
superiori, sono subordinati alla
partecipazione ad un concorso pubblico.
Applicabilità del principio anche nel caso
di trasformazione di un posto previsto in
pianta organica in uno di qualifica
superiore.
Nel caso in cui sia stata adottata da parte
di un Ente locale una delibera che non
riguarda solo il diverso inquadramento in
una superiore qualifica funzionale di un
dipendente, ma anche la trasformazione del
posto (nella specie un posto di geometra
-capo ufficio- VI livello funzionale era
stato trasformato in quello di geometra
-capo sezione- VII livello funzionale),
legittimamente l’Amministrazione pone il
vincolo che l’approvazione da parte della
Commissione Centrale Finanza Locale della
modifica della pianta organica e della
variazione del posto sia presupposto
inderogabile per la copertura del posto
stesso.
Le Amministrazioni pubbliche e,
segnatamente, gli Enti locali non possono in
alcun modo eludere il principio che
l’accesso al pubblico impiego, così come i
passaggi a qualifiche funzionali superiori,
sono subordinati alla partecipazione ad un
concorso pubblico, prescrizione che va
rispettata anche nel caso di trasformazione
di un posto previsto in pianta organica in
uno di qualifica superiore. Ai sensi
dell’art. 5, comma 18, della legge
08.01.1979, n. 3, per l'instaurazione di un
valido rapporto di impiego con un ente
pubblico è necessaria, infatti, la
partecipazione ad un concorso o ad una prova
selettiva pubblica, perché il concorso
pubblico, quale meccanismo imparziale di
selezione tecnica e neutrale dei più capaci
sulla base del criterio del merito,
costituisce la forma generale e ordinaria di
reclutamento per le pubbliche
amministrazioni, nonché un ineludibile
presidio delle esigenze di trasparenza e di
efficienza dell'azione amministrativa.
Le eccezioni a tale regola consentite
dall'art. 97 della Costituzione possono
essere disposte solo con legge e debbono
rispondere a "peculiari e straordinarie
esigenze di interesse pubblico" (Corte
Cost., sentenza 22.02.2006, n. 81),
altrimenti la deroga si risolverebbe in un
privilegio a favore di categorie più o meno
ampie di persone (Corte Cost., sentenza
17.05.2006, n. 205) (massima
tratta da www.regione.piemonte.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 22.03.2012 n. 1625 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI FORNITURE:
Danno all’immagine subito da un
Ente locale.
Può essere accolta la domanda di
risarcimento del danno non patrimoniale e,
in particolare, del danno all’immagine e al
prestigio, avanzata da un Ente locale nei
confronti di una ditta, in conseguenza
dell’inadempimento dalla stessa posto in
essere, rispetto all’obbligo
contrattualmente assunto con il Comune, di
realizzare, in tempo utile per lo
svolgimento di attività culturali e,
segnatamente, della stagione teatrale,
preventivamente e appositamente programmata,
una tensostruttura da assumere in noleggio,
rivelatasi in seguito fatiscente e inidonea
allo scopo; infatti, anche le persone
giuridiche, tra cui vanno compresi gli Enti
territoriali esponenziali, quale un Comune,
possono essere lesi in quei diritti
immateriali della personalità, che sono
compatibili con l’assenza di fisicità, quali
i diritti all’immagine, alla reputazione,
all’identità storica, culturale, e politica
costituzionalmente protetti ed in tale
ipotesi ben possono agire per il ristoro del
danno patrimoniale (1).
---------------
(1) Ha ricordato, al riguardo, la Suprema
Corte, che, secondo l’orientamento ormai
consolidato del Giudice di legittimità,
"poiché anche nei confronti della persona
giuridica ed in genere dell’ente collettivo
è configurabile la risarcibilità del danno
non patrimoniale allorquando il fatto lesivo
incida su una situazione giuridica della
persona giuridica o dell’ente che sia
equivalente ai diritti fondamentali della
persona umana garantiti dalla Costituzione,
e fra tali diritti rientra l’immagine della
persona giuridica o dell’ente, allorquando
si verifichi la lesione di tale immagine, è
risarcibile, oltre al danno patrimoniale, se
verificatosi, e se dimostrato, il danno non
patrimoniale costituito –come danno c.d.
conseguenza– dalla diminuzione della
considerazione della persona giuridica o
dell’ente nel che si esprime la sua
immagine, sia sotto il profilo della
incidenza negativa che tale diminuzione
comporta nell’agire delle persone fisiche
che ricoprano gli organi della persona
giuridica o dell’ente e, quindi, nell’agire
dell’ente, sia sotto il profilo della
diminuzione della considerazione da parte
dei consociati in genere o di settori o
categorie di essi con le quali la persona
giuridica o l’ente di norma interagisca
(Cass. n. 12929/2007).
Ed invero, anche le persone giuridiche, tra
cui vanno compresi gli enti territoriali
esponenziali, quale un Comune, possono
essere lesi in quei diritti immateriali
della personalità, che sono compatibili con
l’assenza di fisicità, quali i diritti
all’immagine, alla reputazione, all’identità
storica, culturale, e politica
costituzionalmente protetti ed in tale
ipotesi ben possono agire per il ristoro del
danno patrimoniale.
E’ stato aggiunto che deve ormai
considerarsi jus receptum il fatto che un
danno non patrimoniale possa configurarsi
anche in conseguenza di un inadempimento
contrattuale (cfr Sez. Un. n. 26972/2008,
Sez. Un. n. 26975, Sez. Un. n. 6572/2006) ed
era inoltre condividibile l’affermazione
contenuta nella sentenza impugnata secondo
cui il danno all’immagine o al prestigio del
Comune e della sua amministrazione, quale
danno non patrimoniale conseguente ad
inadempimento contrattuale, è suscettibile
di essere risarcito sulla base
dell’interpretazione costituzionalmente
orientata dell’art. 2059 cc che ne ammette
l’applicabilità a tutti i danni non
patrimoniali a prescindere dalla circostanza
che la lesione consegua ad un titolo di
responsabilità aquiliana o contrattuale
(Corte di Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 22.03.2012 n. 4542 -
massima tratta da www.regione.piemonte.it). |
APPALTI:
Offerte anomale, il giudizio
influisce sulla motivazione.
Nel subprocedimento di verifica
dell'anomalia dell'offerta, la P.A. ha
l'obbligo di motivare la propria decisione
in maniera approfondita in caso di giudizio
negativo, mentre è sufficiente una per
relationem in caso di esito positivo della
verifica.
Con
sentenza 16.03.2012 n. 1467 la III Sez. del
Consiglio di Stato ha affermato che In sede
di gara d'appalto, nel sub-procedimento di
verifica dell'anomalia dell'offerta, la
Stazione appaltante ha l'obbligo di motivare
la propria decisione in maniera
particolarmente approfondita solo nel caso
in cui esprime un giudizio negativo che fa
venire meno l'aggiudicazione. In sostanza,
una motivazione approfondita è necessaria
quando la stazione appaltante considera
l’offerta nel complesso inaffidabile.
L’onere motivazionale nel provvedimento
negativo va, tuttavia, inteso con una certa
flessibilità, permettendo
all’amministrazione di effettuare una
valutazione di tutti gli elementi
dell’offerta ritenendola nel complesso
inaffidabile oppure di soffermarsi anche
solo su singole, ma essenziali, componenti
dell’offerta.
Se tali elementi essenziali non risultano
congrui, in ossequio ad una concezione ‘sostanziale’
dell’agire amministrativo, non si reputa
necessario esaminare le giustificazioni
riguardanti le altre componenti, meno
rilevanti, dell’offerta stessa, in quanto è
da presumere che quelle voci incidano sulla
serietà ed affidabilità dell'intera offerta,
di modo che, accertata l'incongruità degli
elementi giustificativi presentati e di
conseguenza delle sottostanti voci di
prezzo, non occorre che quel giudizio di
incongruità sia anche suffragato da un
ulteriore, separato, giudizio di incongruità
della globalità dell'offerta.
Nel caso di positiva valutazione di
congruità dell'offerta sospettata di
anomalia, invece, non si richiede che la
motivazione sia particolarmente analitica e
puntuale, potendo in tal caso trovare
sostegno per relationem nelle stesse
giustificazioni presentate dal concorrente.
Tuttavia, pur se è sufficiente la
motivazione per relationem, va
garantita la possibilità ai soggetti
interessati di ricostruire l'iter logico
giuridico seguito dalla stazione appaltante
per l'adozione del provvedimento, con la
conseguenza che per un verso, non v'è dubbio
che il richiamo alle giustificazioni fornite
dall'operatore economico può essere
utilmente effettuato per spiegare le ragioni
della valutazione di congruità; tuttavia,
per altro verso, tale facilitazione non
esonera la stazione appaltante dall’obbligo
di mettere la parte interessata in
condizione di apprezzare l'iter logico
giuridico seguito dall’amministrazione
(commento tratto da www.ipsoa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI: La Pec
va sul web.
P.a. inerte costretta dal giudice.
Basilicata si rifà alle ultime novità normative.
L'amministrazione deve pubblicare sul
proprio sito web il suo indirizzo di posta
elettronica certificata (pec). In mancanza
il giudice può costringerla a farlo.
Lo ha stabilito il TAR Basilicata con la
sentenza 23.09.2011 n. 478 che, per la prima
volta, si occupa di questo problema.
Alcuni cittadini, insieme a due
associazioni, lamentano l'assenza di ogni
riferimento di posta elettronica certificata
sul sito web della Regione Basilicata con la
quale vorrebbero comunicare.
L'obbligo per le amministrazioni italiane di
dotarsi di un proprio indirizzo di posta
elettronica certificata rendendolo pubblico
è previsto da più testi legislativi. In
particolare, è soprattutto il nuovo Codice
dell'amministrazione digitale (decreto
legislativo 07.03.2005 n. 82) ad imporre
alle amministrazioni pubbliche di adeguarsi
allo sviluppo tecnologico per dialogare non
solo tra loro ma anche con i cittadini.
Quest'ultimi, infatti, godono di un vero e
proprio diritto a richiedere ed ottenere
l'uso delle tecnologie telematiche per
qualsiasi tipo di comunicazione o invio di
documenti. Anche il «Decreto Brunetta»
(decreto legislativo 27.10.2009 n. 150)
conferma questo impegno, al fine di
ottimizzare la produttività del lavoro
pubblico nonché l'efficienza e la
trasparenza dell'azione amministrativa.
La posta certificata è considerata un
sistema di comunicazione sicuro e semplice
da utilizzare, imposto per legge alla
pubblica amministrazione, che però, fa
fatica ad allinearsi. E il ritardo crea,
secondo i giudici amministrativi,
un'inefficienza che legittima gli
interessati (perlopiù associazioni
portatrici di interessi collettivi) ad
intentare un giudizio contro le
amministrazioni negligenti. Nel caso di
specie, tra le varie lamentele dei
ricorrenti, il giudice lucano ha
riconosciuto l'interesse ad agire di
un'associazione dedita, per statuto, alla
difesa delle «libertà digitali» e allo
sviluppo di «una comunicazione in rete che
sappia coinvolgere ed informare».
Al Tar viene fatto presente il diritto di
ogni cittadino a poter gestire i propri
rapporti con le amministrazioni nel modo più
semplice e veloce. Viene inoltre
sottolineata l'esigenza che gli estremi
telematici dell'amministrazione vengano resi
visibili e facilmente reperibili.
Tali esigenze non sono state soddisfatte
dalla Regione Basilicata. Di conseguenza il
giudice, dopo aver accertato la fondatezza
del ricorso, ha condannato l'amministrazione
a pubblicare il proprio indirizzo pec e ad
allinearsi alla disciplina vigente
(articolo ItaliaOggi
del 24.05.2012). |
URBANISTICA: La
giunta ed il consiglio comunale non possono
effettuare valutazioni che contrastino con
quelle già formalizzate con il piano
regolatore.
Infatti, se un’area è stata da questo
destinata all’edificazione, nel corso del
procedimento di approvazione del piano
attuativo non è giuridicamente possibile che
la medesima area non vada considerata in
concreto edificabile “per ragioni ambientali
e paesaggistiche”, e cioè sulla base di
valutazioni diametralmente opposte a quelle
già poste a base dello strumento primario
che ha previsto l’edificabilità sul piano
urbanistico.
Ove emergano le relative ragioni, può essere
attivato il procedimento per la modifica del
piano regolatore, ma –sul piano urbanistico-
non può essere respinto il progetto di
lottizzazione conforme allo strumento
primario.
La giunta e il consiglio comunale possono
invece verificare se il progetto sia
conforme alle previsioni dello strumento
urbanistico primario e, nell’esercizio dei
loro poteri tecnico-discrezionali, possono
anche verificare se la prevista viabilità
sia sufficiente sotto i profili della
sicurezza e del razionale utilizzo del
territorio.
Le relative determinazioni, sulla non
conformità del progetto al piano regolatore
o sulla insufficienza della prevista
viabilità, devono basarsi su una puntuale
motivazione, per consentire l’emersione di
interessi pubblici effettivamente
sussistenti, nonché la tutela
dell’interessato in sede di giustizia
amministrativa.
Ad avviso del Comune:
- al termine del procedimento disciplinato
dall’art. 20 della legge regionale n. 11 del
2004, il consiglio comunale potrebbe negare
l’approvazione del progetto di
lottizzazione, pur conforme alle previsioni
urbanistiche, in quanto “non coerente con
il sistema di viabilità esistente, con
l’andamento demografico comunale e con le
esigenze ambientali e paesaggistiche del
territorio”;
- la delibera n. 33 del 2007 avrebbe
compiutamente rilevato la sussistenza di
tale incoerenza;
- in particolare per l’aspetto della
viabilità, nel corso della discussione
sarebbe emerso che “la viabilità di accesso
alla lottizzazione risulta assolutamente
insufficiente ed inidonea a sostenere un
devastante carico di traffico veicolare”,
con riferimento alla via Enego e alla via
Villa Rossi;
- in particolare per l’andamento
demografico, nel corso della discussione
sarebbe stata rilevata anche l’insufficienza
dei servizi pubblici;
- nel corso del procedimento di
approvazione, la giunta comunale avrebbe una
competenza di carattere tecnico
sull’accertamento della conformità alle
previsioni urbanistiche, mentre il consiglio
comunale avrebbe una competenza di carattere
politico-amministrativo, che consentirebbe
valutazioni discrezionali in funzione della
pianificazione del territorio.
Le articolate censure dell’appellante, così
riassunte, vanno nel loro complesso
respinte, perché infondate, anche se hanno
posto in evidenza l’insufficiente
motivazione con cui il TAR ha rilevato la
sussistenza dei vizi dedotti in primo grado.
Per quanto riguarda l’ambito dei poteri che
gli organi comunali possono esercitare nel
corso del procedimento disciplinato
dall’art. 20 della legge n. 11 del 2004,
ritiene la Sezione che la giunta ed il
consiglio comunale non possono effettuare
valutazioni che contrastino con quelle già
formalizzate con il piano regolatore.
Infatti, se un’area è stata da questo
destinata all’edificazione, nel corso del
procedimento di approvazione del piano
attuativo non è giuridicamente possibile che
la medesima area non vada considerata in
concreto edificabile “per ragioni
ambientali e paesaggistiche”, e cioè
sulla base di valutazioni diametralmente
opposte a quelle già poste a base dello
strumento primario che ha previsto
l’edificabilità sul piano urbanistico.
Ove emergano le relative ragioni, può essere
attivato il procedimento per la modifica del
piano regolatore, ma –sul piano urbanistico-
non può essere respinto il progetto di
lottizzazione conforme allo strumento
primario.
La giunta e il consiglio comunale possono
invece verificare se il progetto sia
conforme alle previsioni dello strumento
urbanistico primario e, nell’esercizio dei
loro poteri tecnico-discrezionali, possono
anche verificare se la prevista viabilità
sia sufficiente sotto i profili della
sicurezza e del razionale utilizzo del
territorio.
Le relative determinazioni, sulla non
conformità del progetto al piano regolatore
o sulla insufficienza della prevista
viabilità, devono basarsi su una puntuale
motivazione, per consentire l’emersione di
interessi pubblici effettivamente
sussistenti, nonché la tutela
dell’interessato in sede di giustizia
amministrativa
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 16.09.2008 n. 4368 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 23.05.2012 |
ã |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - VARI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 21 del
23.05.2012, "Direzione generale Sistemi
verdi e paesaggio - Modalità di iscrizione
all’elenco dei direttori dei parchi
regionali e di tenuta e aggiornamento dello
stesso (d.g.r. 3366/2012)" (decreto
D.U.O. 16.05.2012 n. 4234). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - VARI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 21 del
23.05.2012, "Art. 22-quater della l.r.
86/1983: istituzione dell’elenco dei
direttori dei parchi regionali -
Individuazione dei requisiti professionali e
delle competenze per l’iscrizione all’elenco"
(deliberazione
G.R. 09.05.2012 n. 3366). |
VARI: G.U.
22.05.2012 n. 118 "Regolamento di
servizio del Corpo nazionale dei vigili del
fuoco, ai sensi dell’articolo 140 del
decreto legislativo 13.10.2005, n. 217"
(D.P.R.
28.02.2012 n. 64). |
LAVORI PUBBLICI: G.U.
17.05.2012 n. 114 "Rilevazione dei
prezzi medi per l’anno 2010 e delle
variazioni percentuali annuali, superiori al
dieci per cento, relative all’anno 2011, ai
fini della determinazione delle
compensazioni dei singoli prezzi dei
materiali da costruzione più significativi"
(D.M. 03.05.2012).
---------------
Edilizia, la crisi non risparmia i materiali
da costruzione.
Aumenti rilevanti per l'acciaio tondo
impiegato nel cemento armato, per le reti
elettrosaldate, per i fili di rame
conduttori, per i profilati in rame per
lattoneria e lastre e per il bitume.
Variazioni comprese tra il l'11 e 12 per
cento circa.
La Commissione consultiva centrale per il
rilevamento del costo dei materiali da
costruzione ha rilevato variazioni
percentuali superiori al 10%, in aumento o
in diminuzione, dei singoli prezzi dei
materiali da costruzione più significativi,
verificatesi nell'anno 2011, per effetto di
circostanze eccezionali di cui all'art. 133,
comma 4, del decreto legislativo n. 163/2006
e successive modifiche e integrazioni,
rispetto ai prezzi medi rilevati con
riferimento all'anno 2010.
Ai sensi dell'art. 133, commi 4 e 6, del
decreto legislativo 12.04.2006, n. 163,
e successive modifiche e integrazioni, sono
rilevati nell'unito allegato n. 1, che forma
parte integrante e sostanziale del decreto:
a) i prezzi medi per l'anno 2010 relativi ai
materiali da costruzione più significativi
che hanno subito variazioni percentuali
annuali, in aumento o in diminuzione,
verificatesi nell'anno 2011 per effetto di
circostanze eccezionali di cui all'art. 133,
comma 4, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, e successive modifiche e
integrazioni;
b) le variazioni percentuali annuali, in
aumento o in diminuzione, verificatesi
nell'anno 2011 per effetto di circostanze
eccezionali di cui all'art. 133, comma 4,
del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163,
e successive modifiche e integrazioni,
rispetto ai prezzi medi rilevati con
riferimento all'anno 2010
(commento tratto da link a www.ipsoa.it). |
QUESITI &
PARERI |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Quali
limiti ha il deposito temporaneo?
(21.05.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Come
è definito il concetto di “normale pratica
industriale”, relativamente al sottoprodotto
ex art. 184-bis, D.Lgs n. 152/2006?
(21.05.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Come
devono essere conferiti i rifiuti
indifferenziati?
(21.05.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Vale
sempre il criterio della “normale
tollerabilità”per valutare le emissioni
moleste?
(21.05.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Come
funziona la gestione dei pneumatici fuori
uso? È stato approvato il contributo per
l’anno 2012?
(21.05.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
APPALTI: La
Fondazione studi dei consulenti interviene
sull'emissione del documento di regolarità. Srl, i debiti non fermano il Durc.
Non rileva la posizione contributiva
personale dei singoli soci.
Pubblichiamo il
parere
17.05.2012 n. 17 della Fondazione studi dei consulenti
del lavoro in materia di «Durc e srl: debiti
socio non bloccano emissione».
Il quesito
A una srl unipersonale con dipendenti non
viene rilasciato il Durc per via dei debiti
pregressi del socio, che ha avuto in passato
un'attività con dipendenti come ditta
individuale. Può essere questa causa di
mancata emissione del Durc? Qual è il
rapporto tra due soggetti giuridicamente
autonomi? Quali sono le conseguenze
giuridiche di una penalizzazione della
società per un'omissione del socio?
Premessa
Per regolarità contributiva deve intendersi
la correntezza nei pagamenti e negli
adempimenti previdenziali, assistenziali e
assicurativi nonché di tutti gli altri
obblighi previsti dalla normativa vigente
riferita all'intera situazione aziendale
(salvo le specificità previste per le Casse
edili) (circolare Ministero lavoro del 30.01.2008, n. 5). L'Inps, l'Inail e la
Cassa edile sono tenuti a verificare la
regolarità dell'impresa sulla base della
rispettiva normativa di riferimento rilevati
alla data indicata nella richiesta e, ove
questa manchi, alla data di redazione del
certificato, purché nei termini stabiliti
per il rilascio o per la formazione del
silenzio assenso.
Ai fini Inps un'impresa è regolare quando
ricorrono le seguenti condizioni:
-
che sussista la correntezza degli
adempimenti mensili o, comunque, periodici;
-
che si accerti che i versamenti effettuati
corrispondano all'importo del saldo
denunciato entro il termine, a tal fine
determinato, dell'ultimo giorno del mese
successivo a quello di riferimento;
-
che non esistano inadempienze in atto;
-
che non esistano note di rettifica
notificate, non contestate e non pagate.
L'impresa è altresì regolare quando:
-
vi sia richiesta di rateazione per la quale
la Struttura periferica competente abbia
espresso parere favorevole motivato;
-
vi siano sospensioni dei pagamenti a seguito
di disposizioni legislative (es. calamità
naturali);
-
sia stata inoltrata istanza di compensazione
per la quale sia stato documentato il
credito;
-
via siano crediti iscritti a ruolo per i
quali sia stata disposta la sospensione
della cartella amministrativa o in seguito a
ricorso giudiziario.
Le società di capitali
Le società a responsabilità limitata a socio
unico è una società di capitali. Le società
di capitali sono società definite tali in
quanto in esse l'elemento del capitale ha
una prevalenza concettuale e normativa
rispetto all'elemento soggettivo
rappresentato dai soci. La partecipazione
dei soci al capitale sociale può essere
rappresentata da azioni o da quote a seconda
della specifica tipologia societaria.
Le caratteristiche delle società di capitali
sono:personalità giuridica e autonomia
patrimoniale perfetta (la società risponde
soltanto con il suo patrimonio) (art. 2331
c.c.). Fanno eccezione le sapa, dove i soci
accomandanti sono obbligati soltanto nei
limiti della quota del capitale sociale
sottoscritta, mentre i soci accomandatari
rispondono solidalmente e illimitatamente.
Con il riconoscimento della personalità
giuridica, le società (di capitali e le
cooperative) sono trattate, per legge, come
soggetti di diritto formalmente distinte
dalle persone dei soci (piena e perfetta
autonomia patrimoniale). I beni conferiti
dai soci diventano beni di proprietà della
società: questa è titolare di un proprio
patrimonio, di propri diritti e di proprie
obbligazioni distinti da quelli personali
dei soci. I creditori personali dei soci non
possono soddisfarsi sul patrimonio sociale,
né i creditori sociali possono soddisfarsi
sul patrimonio personale dei soci.
L'intervento della prassi
Sul tema oggetto del quesito è intervenuta
l'Inps con il messaggio 18.06.2010 n.
16246 con cui fornisce chiarimenti per il
rilascio del Durc in relazione alla natura
giuridica del richiedente.
Società di capitali. Nell'ambito delle
società di capitali si tratta di persone
giuridiche caratterizzate da autonomia
patrimoniale perfetta, dunque, la verifica
va effettuata sulla contribuzione per
dipendenti e collaboratori nonché ai
contributi dovuti alla gestione separata per
i compensi percepiti dall'amministratore. A
nulla rileva, in conclusione, la verifica
sulla posizione personale dei singoli soci,
in quanto la società non risponde, ai sensi
delle norme civilistiche, delle loro
irregolarità contributive.
La verifica di correntezza contributiva nei
casi di società deve essere operata per i
soci di società in nome collettivo, per il
socio accomandatario di società in
accomandita semplice e per l'amministratore
per la società a responsabilità limitata.
Pertanto nei casi di società costituita
nella forma di a responsabilità limitata e
quindi rientrante nella tipologia di società
di capitali, caratterizzata da autonomia
patrimoniale perfetta, le situazioni
patrimoniali dei soci non incidono sul
patrimonio sociale e quindi ai fini del
rilascio della correntezza contributiva la
verifica va limitata alla posizione
aziendale.
Società di persone. La regolarità
contributiva va rilasciata avendo cura di
verificare la posizione dei lavoratori
dipendenti, di eventuali collaboratori
iscritti alla gestione separata e dei
singoli soci iscritti alle diverse gestioni
dell'Istituto, diversi dall'accomandant.
Impresa individuale. Il controllo della
posizione contributiva, oltre quella dei
lavoratori dipendenti e dei collaboratori
iscritti alla gestione separata, va esteso
alla gestione previdenziale in cui è
iscritto il titolare ed eventuali suoi
coadiutori.
Soluzione al quesito
Pertanto nella società di capitale, come le
srl unipersonali, nulla rileva la verifica
sulla posizione personale dei singoli soci,
posto che la società non risponde, ai sensi
delle norme civilistiche, delle loro
irregolarità contributive, ne consegue che i
debiti pregressi della ditta individuale,
non possono inquinare eventuali nuova
società, giuridicamente distinte
(articolo ItaliaOggi
del 22.05.2012). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
V. Paone,
Emissioni in atmosfera, molestia alle
persone e intervento giudiziario (nota a
Cass. pen. n. 37495/2011) (link a
www.lexambiente.it). |
INCARICHI PROGETTUALI:
L. Bellagamba,
Abbaglio del Consiglio di Stato: i servizi
attinenti all'urbanistica non rientrano
nella disciplina specifica prevista per i
servizi attinenti all'architettura e
all'ingegneria - commento a Consiglio di
Stato, Sez. V, sentenza 15.05.2012 n. 2800
(17.05.2012 - link a
www.linobellagamba.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
F. Taormina,
Brevi note sul silenzio della pubblica
amministrazione (link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CORTE DEI
CONTI |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Compensi al RUP e art. 9, comma
2-bis, d.l. 78/2010.
La Corte dei Conti, sezione regionale
Veneto, con il
parere
11.05.2012 n. 325, conferma che "...
il compenso spettante al responsabile unico
del procedimento (RUP) in materia di lavori
pubblici è ricompreso fra le prestazioni
professionali per la progettazione di opere
pubbliche, in applicazione delle
disposizioni di cui agli articoli 10 e 92
del D.Lgs. 163/2006, e, quindi, escluso
dall'ambito applicativo dei vincoli di cui
all'art. 9, comma 2-bis, del d.l. 78/2010"
(tratto da www.publika.it). |
NEWS |
EDILIZIA PRIVATA: LA
CIRCOLARE SULL'IMU/ Pertinenze, comuni senza poteri.
I sindaci non possono più intervenire con
regolamento. Chi affitta parte della prima
casa paga solo l'Imu se il canone è
basso.
I comuni non possono individuare con
regolamento le pertinenze da considerare
parti integranti dell'abitazione principale.
Il dl Salva Italia, infatti, ha abrogato
tale facoltà riconosciuta agli enti locali
dall'art. 59 del dlgs n. 446/1997. Chi affitta
una camera dell'abitazione principale (per
esempio a uno studente) paga solo l'Imu se
il canone di locazione è inferiore alla
rendita catastale rivalutata. Diversamente,
oltre all'Imu va versata anche l'Irpef.
I chiarimenti sono contenuti nella
circolare 18.05.2012 n. 3/DF
del dipartimento
delle finanze.
Pertinenze. Il dl 201 individua con
precisione le unità immobiliari che possono
essere considerate pertinenze. Tali sono gli
immobili appartenenti alle categorie
catastali C/2 (magazzini, cantine, soffitte
se non unite all'abitazione), C/6 (stalle,
scuderie, rimesse, autorimesse), C/7
(tettoie). Il contribuente potrà considerare
come pertinenza della prima casa (e così
applicare ad esse l'aliquota del 4 per
mille) una unità immobiliare per ciascuna
categoria catastale fino a un massimo di tre
(in pratica una per categoria).
Ciò
significa che chi possiede per esempio una
cantina (accatastata come C/2) e due box
(C/6) dovrà scegliere quale dei due garage
collegare all'abitazione principale. Ma se
la cantina risulta già iscritta in catasto
congiuntamente alla prima casa, il
contribuente potrà applicare le agevolazioni
solo a pertinenze di categoria catastale
diversa da C/2. Questo perché, chiarisce la
nota del Mef, nel limite massimo di tre
pertinenze rientra anche quella iscritta in
catasto insieme all'abitazione principale.
Un altro caso particolare riguarda l'ipotesi
in cui due pertinenze della stessa categoria
(di solito la soffitta e la cantina,
entrambe C/2) siano accatastate insieme
all'abitazione principale. In questa ipotesi
il contribuente non dovrà rinunciare a una
delle due, ma per rispettare la regola del
tre potrà usufruire delle agevolazioni per
l'abitazione principale solo per un'altra
pertinenza di categoria C/6 o C/7.
Abitazione parzialmente locata. Si tratta di
un'ipotesi assai diffusa (soprattutto nelle
città universitarie) a cui la nota del Mef
dedica particolare attenzione all'interno
del capitolo dedicato ai rapporti tra Imu e
imposte sui redditi. Com'è noto, l'Imu
ingloba l'Irpef fondiaria e le relative
addizionali comunali e regionali. Ragion per
cui regola generale vuole che se un immobile
non è locato (e tali vanno considerati anche
quelli concessi in comodato d'uso gratuito o
utilizzati a uso promiscuo dal
professionista) si paga solo l'Imu, mentre
se è locato si paga l'Imu e anche l'Irpef
sul reddito da locazione.
Un caso
particolare è proprio quello dell'abitazione
principale «parzialmente locata». Ossia la
prima casa occupata dal proprietario per la
parte principale e data in affitto per la
parte rimanente. Le Finanze hanno chiarito
che, per capire se oltre all'Imu vada o meno
pagata anche l'Irpef sull'affitto, si debba
guardare al canone. Se è inferiore alla
rendita catastale rivalutata del 5% si paga
solo l'Imu. Se è più alto della rendita
rivalutata bisognerà pagare l'Imu e l'Irpef
(articolo ItaliaOggi
del 22.05.2012). |
ENTI LOCALI - VARI: LA
CIRCOLARE SULL'IMU/ La dichiarazione Ici vale ancora.
Il contribuente che ha assolto l'obbligo non
deve ripresentarla. Se il presupposto è
sorto dal 1° gennaio c'è tempo fino al 1° ottobre.
La dichiarazione Ici vale anche per l'Imu. I
contribuenti che hanno già assolto
all'obbligo non sono tenuti a ripresentare
la dichiarazione, nonostante si tratti di un
tributo diverso. Con la nuova imposta locale
viene ridotto a 90 giorni il termine per
dichiarare gli immobili posseduti. Tuttavia,
per quelli per i quali l'obbligo è sorto dall'01.01.2012, la dichiarazione deve
essere presentata entro il 1° ottobre di
quest'anno.
Sono alcuni chiarimenti che ha
fornito il dipartimento delle finanze del
ministero dell'economia, con la
circolare 18.05.2012 n. 3/DF.
Secondo il dipartimento, il termine del 1°
ottobre va rispettato da tutti i
contribuenti (proprietari, usufruttuari e
titolari di altri diritti reali) per i quali
l'obbligo è sorto dall'inizio dell'anno.
Naturalmente, occorre comunque garantire
agli interessati il rispetto del termine
minimo di 90 giorni. «Pertanto, se l'obbligo
dichiarativo è sorto, per esempio, il 31
agosto il contribuente potrà presentare la
dichiarazione Imu entro il 29.11.2012». Mentre per i titolari di fabbricati
rurali non censiti in catasto, i 90 giorni
decorrono dal 30.11.2012, che è il
termine ultimo fissato dall'articolo 13 del
dl Salva Italia (201/2011) entro il quale i
fabbricati iscritti al catasto terreni
devono transitare in quello urbano.
Per semplificare la vita ai contribuenti,
non è disposto per la nuova imposta
municipale un autonomo obbligo di
ripresentare una tantum la dichiarazione.
Cosa che invece sarebbe stata auspicabile,
per consentire alle amministrazioni locali
di acquisire le informazioni necessarie alla
gestione dell'imposta e per aggiornare le
banche dati. Il problema riguarda, per
esempio, gli immobili adibiti dal
contribuente a pertinenze dell'abitazione
principale, nel caso in cui ne possieda più
di una della stessa tipologia (due garage
inquadrati catastalmente nella categoria
C/6). Essendo limitato il beneficio solo a
uno dei due garage, il contribuente dovrebbe
dichiarare quale dei due intende destinare
al servizio dell'abitazione, mentre
sull'altro il tributo va pagato in via
ordinaria, con l'aliquota del 7,6 per mille.
Invece è più semplice per il comune
accertare, attraverso l'anagrafe, se il
contribuente abbia diritto all'ulteriore
detrazione di 50 euro per ogni figlio, di
età non superiore a 26 anni.
Nella circolare viene posto in evidenza che
la lettura coordinata delle varie
disposizioni di legge che disciplinano l'Imu
fa ritenere che probabilmente verranno
ulteriormente ridotte le ipotesi in cui è
richiesto di presentare la dichiarazione.
L'articolo 13 del decreto Monti, infatti,
rinvia a un apposito decreto del ministero
dell'economia e delle finanze sia
l'approvazione del nuovo modello di
dichiarazione sia l'individuazione dei casi
in cui ancora persiste l'obbligo.
Del resto, già il decreto ministeriale del
23.04.2008 aveva esteso l'esclusione
dell'obbligo dichiarativo oltre i casi
previsti dall'articolo 37, comma 53 del dl
223/2006.
Come per l'Ici, il contribuente non è tenuto
a presentare la dichiarazione Imu se gli
elementi rilevanti ai fini dell'imposta sono
acquisibili dai comuni attraverso la
consultazione della banca dati catastale.
Nello specifico, tra i casi più
significativi, l'adempimento è richiesto
quando: l'immobile viene concesso in
locazione finanziaria, un terreno agricolo
diventa area edificabile o, viceversa,
l'area diviene edificabile in seguito alla
demolizione di un fabbricato.
Quindi, va dichiarato qualsiasi atto
costitutivo, modificativo o traslativo del
diritto che abbia avuto a oggetto un'area
fabbricabile. Il valore dell'area, che è
quello di mercato, deve sempre essere
dichiarato dal contribuente, poiché questa
informazione non è presente nella banca dati
catastale. Ecco perché l'obbligo non
sussiste quando viene alienata un'area
fabbricabile, se non ha subito modifiche il
suo valore di mercato rispetto a quello
dichiarato in precedenza.
Inoltre, le riduzioni d'imposta devono
essere dichiarate sia se si acquista sia se
si perde il relativo diritto. L'obbligo non
è abolito neppure per gli immobili posseduti
dalle imprese, che sono tenute a dichiarare
il valore sulla base delle scritture
contabili fino all'anno di attribuzione
della rendita catastale. La dichiarazione,
poi, deve essere presentata per gli immobili
relativamente ai quali siano intervenute
delle modifiche rilevanti ai fini della
determinazione dell'imposta dovuta e del
soggetto obbligato al pagamento. Dunque,
vanno dichiarate le modifiche che possono
riguardare la titolarità del possesso, la
struttura o la destinazione dell'immobile.
---------------
L'imposta municipale è
dovuta anche per i terreni incolti. La
nozione di imprenditore agricolo
professionale si estende anche alle società.
Anche per i terreni incolti è dovuta l'Imu.
La nozione di imprenditore agricolo
professionale va estesa anche alle società
di persone, cooperative e di capitale. Il
gettito dell'Imu va integralmente al comune
per gli immobili posseduti da anziani e
disabili che acquisiscono la residenza in
istituti di ricovero o sanitari a seguito di
ricovero permanente, a condizione che la
stessa non risulti locata e dai cittadini
italiani residenti all'estero.
Queste sono solo alcune delle precisazioni
contenute nella
circolare 18.05.2012 n. 3/DF del dipartimento delle finanze.
Tra queste l'ampliamento del presupposto
impositivo che a norma dell'art. 13, comma
2, del dl 06.12.2011, n. 201, è
costituito dal possesso di qualunque
immobile, ivi comprese l'abitazione
principale e le pertinenze della stessa.
Pertanto devono scontare l'Imu non solo i
terreni agricoli, i fabbricati e le aree
fabbricabili (per i quali restano ancora
ferme le definizioni stabilite dall'art. 2
del dlgs 30.12.1992, n. 504) ma anche
gli immobili che non rientrano in tali
categorie, come ad esempio, i terreni
incolti.
Una conferma di ciò, si trova, peraltro, nel
comma 5 dello stesso art. 13, il quale
stabilisce che il valore dei terreni
agricoli, anche non coltivati, posseduti e
condotti da coltivatori diretti e da
imprenditori agricoli professionali iscritti
nella previdenza agricola, è costituito da
quello ottenuto applicando all'ammontare del
reddito dominicale risultante in catasto,
vigente al 1° gennaio dell'anno di
imposizione, rivalutato del 25%, ai sensi
dell'art. 3, comma 51, della legge n. 662
del 1996, un moltiplicatore pari a 110. La
circolare, coerentemente precisa che per gli
altri terreni agricoli, anche non coltivati,
il moltiplicatore è, invece, pari a 135.
I coltivatori diretti e gli imprenditori
agricoli professionali.
Non solo le persone fisiche, come accadeva
per l'Ici, ma anche società di persone,
cooperative e di capitale possono godere del
trattamento agevolato Imu.
Le norme del nuovo tributo, infatti,
precisano a chiare lettere che i soggetti
richiamati dall'art. 2, comma 1, lettera b),
secondo periodo, del dlgs n. 504 del 1992 (e
cioè gli imprenditori agricoli che esplicano
la loro attività a titolo principale) sono
individuati nei «coltivatori diretti e negli
imprenditori agricoli professionali di cui
all'articolo 1 del decreto legislativo 29.03.2004, n. 99, e successive
modificazioni, iscritti nella previdenza
agricola».
In base a tale norma è Iap colui che dedica
alle attività agricole di cui all'art. 2135
del codice civile, direttamente o in qualità
di socio di società, almeno il 50% del
proprio tempo di lavoro complessivo e che
ricava dalle attività medesime almeno il 50%
del reddito globale da lavoro.
Questa nuova definizione supera nettamente
quella dettata dall'art. 58, comma 2, del
dlgs. n. 446 del 1997, in base al quale «si
considerano coltivatori diretti o
imprenditori agricoli a titolo principale le
persone fisiche iscritte negli appositi
elenchi comunali e soggetti al
corrispondente obbligo dell'assicurazione
per invalidità, vecchiaia e malattia».
Il legislatore ha, quindi, volutamente
abbandonato tale definizione a favore di
un'impostazione più adeguata all'evoluzione
normativa che ha caratterizzato il settore
agricolo.
L'art. 13, comma 5, del dl n. 201 del 2011,
come già precisato, prevede il
moltiplicatore ridotto, pari a 110, va
applicato anche nel caso in cui:
-
il terreno deve essere lasciato a riposo, ed
è quindi non coltivato, in applicazione
delle tecniche agricole (c.d. set aside).
-
le persone fisiche, coltivatori diretti e
Iap, iscritti nella previdenza agricola,
abbiano costituito una società di persone
alla quale hanno concesso in affitto o in
comodato il terreno di cui mantengono il
possesso ma che, in qualità di soci,
continuano a coltivare direttamente il
terreno.
Quest'ultima conclusione deriva
dall'applicazione dell'art. 9 del dlgs 18.05.2001, n. 228, il quale stabilisce che
«ai soci delle società di persone esercenti
attività agricole, in possesso della
qualifica di coltivatore diretto o di
imprenditore agricolo a titolo principale,
continuano a essere riconosciuti e si
applicano i diritti e le agevolazioni
tributarie e creditizie stabiliti dalla
normativa vigente a favore delle persone
fisiche in possesso delle predette
qualifiche».
L'immobile posseduto da anziani e disabili e
dai cittadini italiani residenti all'estero.
La circolare ha risolto in senso favorevole
per il comune una questione interpretativa
sulle nuove norme introdotte dal dl n. 16
del 2012 e ha escluso che lo stato possa
vantare la quota di riserva stabilita dal
comma 11 dell'art. 13 del dl n. 201 del
2011. Ciò in quanto il comune, nel «considerare
direttamente adibita ad abitazione
principale l'unità immobiliare»
posseduta dai soggetti in questione,
assoggetta automaticamente tali immobili
allo stesso trattamento previsto per le
abitazioni principali che sono appunto
escluse espressamente dall'anzidetta quota
erariale.
A completamento di tale assunto la circolare
precisa che ha perso di significato,
relativamente alle fattispecie in esame, la
disposizione presente nel comma 11, secondo
cui «le detrazioni e le riduzioni di
aliquota deliberate dai comuni non si
applicano alla quota di imposta riservata
allo stato» che aveva, invece, un senso
con l'originaria formulazione della norma
(articolo ItaliaOggi
del 22.05.2012). |
EDILIZIA PRIVATA:
La Lombardia sana i recuperi
«infedeli». Salvi Dia e permessi già
rilasciati per le demolizioni e
ricostruzioni con cambio di sagoma. Rimedio
allo stop della Corte costituzionale alla
legge che li considerava ristrutturazioni ma
resta una finestra temporale a rischio.
RISPARMIO ENERGETICO/ L'obbligo di
rispettare gli indici del Prg rende
difficile abbattere per riqualificare e
risanare i vecchi edifici.
La Lombardia stoppa gli effetti della
sentenza con cui la Corte costituzionale
aveva cancellato l'articolo 27, comma 1,
lettera d), della legge regionale 12/2005,
secondo cui erano di ristrutturazione gli
interventi di integrale sostituzione
edilizia con modifica della sagoma o del
sedime del fabbricato.
Ora secondo l'articolo 17 della legge
regionale 18.04.2012 n. 7, in relazione agli
interventi di ristrutturazione edilizia
oggetto della sentenza 30.11.2011 n. 309
della Consulta, al fine di tutelare il
legittimo affidamento dei soggetti
interessati, i permessi di costruire
rilasciati o le Dia esecutive alla medesima
data devono considerarsi titoli validi ed
efficaci fino al momento della dichiarazione
di fine lavori, a condizione che la
comunicazione di inizio lavori risulti
protocollata entro il 30.04.2012.
La Regione mette così una pezza sul
pasticcio della ristrutturazione edilizia
lombarda a tutela di chi, sulla base della
norma annullata dalla Corte -perché
contraria al principio fondamentale dettato
dal testo unico dell'edilizia, secondo cui
le opere di ristrutturazione non possono
spingersi sino all'integrale abbandono delle
caratteristiche fisiche dell'edificio- sta
realizzando o ha da poco ultimato interventi
potenzialmente abusivi in quanto
giustificati da una disposizione di legge
non più applicabile.
La pezza è però più piccola dello strappo
prodotto dalla Consulta, perché non mette al
sicuro gli interventi già impugnati al Tar o
che ancora potrebbero esserlo (si ricorda
che i titoli edilizi possono essere
contestati in sede amministrativa sino al
decorso di 60 giorni, 120 per il ricorso
straordinario al presidente della
Repubblica, da quando i lavori giungono al
rustico) e che dunque non possono essere
considerati "rapporti esauriti", ai
quali -come è noto- non si applica il
principio per cui le sentenze che
riconoscono l'incostituzionalità hanno
efficacia retroattiva.
La portata della norma pare così limitata a
evitare che i Comuni possano agire in
autotutela, annullando cioè i titoli che
avessero rilasciato (con permesso di
costruire) o che si fossero formati (con
denuncia di inizio attività) nel vigore di
una norma non più esistente.
In concreto: chi in forza della norma
dichiarata incostituzionale ha realizzato un
intervento di demolizione e ricostruzione
modificando la sagoma o il sedime
dell'edificio è ora al sicuro se il titolo
edilizio non è stato impugnato e
l'intervento è terminato, per lo meno al
rustico, da più di 60/120 giorni, mentre è
ancora a rischio se il ricorso è stato
appena promosso, ovvero possa ancora
esserlo.
In questa ultima situazione appare trovarsi
chi avvalendosi della norma in commento (in
vigore dal 21.04.2012) si fosse risolto a
dare avvio ai lavori entro il successivo 30
aprile.
Si ricorda che l'ampliamento della
definizione di ristrutturazione edilizia
agli interventi di sostituzione con modifica
di sagoma o sedime, e che ora anche in
Lombardia devono ritenersi a tutti gli
effetti di nuova costruzione (così come
riconosciuto dalla stessa legge regionale
7/2012), non è di poco conto, perché
consente di mantenere la volumetria
preesistente anche se superiore all'indice
edificatorio assegnato dagli strumenti
urbanistici vigenti (indice che a differenza
della ristrutturazione la nuova costruzione
deve rispettare).
Il vincolo di rispettare l'indice di piano
rende pressoché impossibili (salvo espressa
previsione dello strumento urbanistico
locale, come disposto dal Pgt di Milano da
troppo tempo in gestazione) gli interventi
di riqualificazione anche energetica degli
edifici meno recenti, che sovente richiedono
l'integrale demolizione e la ricostruzione
in difformità di sagoma.
Sul punto dovrebbe soccorrere il nuovo piano
casa lombardo, secondo cui «Gli interventi
di sostituzione edilizia... possono essere
realizzati a mezzo di totale demolizione e
ricostruzione dell'edificio». Non sfugge
però che secondo l'articolo 5, comma 3,
della legge regionale lombarda 4/2012,
attuativa del Dl 70/2011, «la
ricostruzione può avvenire con le modifiche
alla sagoma necessarie per l'armonizzazione
architettonica con gli edifici esistenti».
Non è agevole in architettura declinare il
concetto di armonia, ma è a tale esercizio
fortemente discrezionale che la sostituzione
edilizia risulta in ultima istanza appesa (articolo
Il Sole 24 Ore del 21.05.2012). |
EDILIZIA PRIVATA:
Modello unico per la conformità
degli impianti.
Il decreto legge 5/2012 con gli articoli 9 e
34 introduce alcune modifiche alla normativa
sull'attività di installazione di impianti
(elettrici, sanitari, eccetera).
La materia, regolata dal Dm 37/2008 ( che, a
sua volta ha sostituito la legge 46/90), ha
sempre creato difficoltà applicative non
solo alla categoria (circa 170.000 aziende),
ma anche agli enti pubblici e agli organi di
vigilanza.
L'articolo 9 affida ad un decreto
interministeriale l'approvazione di un
modello di dichiarazione di conformità
(dell'impianto) che sostituirà quello
attuale. Per gli impianti termici la
dichiarazione sostituirà anche quella
prevista dall'articolo 284 del Codice
dell'ambiente: da qui la nuova denominazione
di dichiarazione unica.
Non è invece chiaro se le nuove prescrizioni
del comma 2 dell'articolo 9 modifichino in
parte o si aggiungano a quelle contenute
negli articoli 7 e 11 del Dm 37. La norma
attuale prevede che il modello compilato
dall'impresa installatrice al termine del
lavoro sia rilasciato al committente e
depositato al Comune dove ha sede l'impresa,
il quale invierà copia alla Camera di
commercio per verificare la corretta
iscrizione dell'impresa.
Il comma 2 dispone ora che la dichiarazione
sia conservata «presso la sede
dell'interessato» per gli eventuali
controlli dell'amministrazione, espressione
che sembra essere riferita a chi occupa
l'edificio nel quale è stato eseguito il
lavoro. Viene poi confermato che la
dichiarazione è necessaria per ottenere il
certificato di agibilità e l'allacciamento
delle utenze.
Ben più importante è l'articolo 34 che
interviene sul tema della qualificazione
delle imprese installatrici, ma purtroppo
con una norma considerata dagli addetti ai
lavori assai oscura. Si intuisce però che si
vorrebbe porre rimedio ad alcune questioni
rimaste irrisolte con il Dm 37.
Il decreto non aveva previsto norme
transitorie per le aziende iscritte in base
alla abrogata legge 46/1990, per cui le
Regioni e le Camere di commercio, in assenza
di chiarimenti del Governo, hanno fornito
interpretazioni non uniformi.
Le principali incertezze riguardano:
- le imprese impiantiste che fino al 2007
hanno eseguito lavori di condizionamento,
elettronica, ecc. solo in edifici produttivi
per i quali non era obbligatoria
l'abilitazione: non è chiaro se abbiano
maturato i requisiti per lavorare in
qualsiasi edificio, compresi quelli
residenziali. Ad una prima lettura sembra
che l'articolo 34 intenda dare risposta
positiva.
- Va chiarito se le imprese qualificate per
i vari tipi di impianti in base alla legge
46/1990 hanno diritto o no ad ottenere
d'ufficio che nell'Albo artigiani o nel
Registro imprese venga precisato che sono
qualificate in base al Dm 37 e non più solo
in base alla legge 46.
In un primo tempo il ministero dello
Sviluppo economico con la risoluzione
03.10.2011 aveva sostenuto che
l'aggiornamento automatico della iscrizione
non era ammissibile e che ciascuna impresa
doveva presentare una Scia .
Ora lo stesso Ministero, con circolare del
19.03.2012, fa retromarcia, richiamandosi
all'articolo 34 . E afferma che è legittimo
riconoscere d'ufficio alle imprese operanti
fino al marzo 2008 la qualificazione
prevista dal Dm 37 (articolo Il Sole 24
Ore del 21.05.2012). |
APPALTI SERVIZI:
Rifiuti. L'azienda nata
dall'integrazione entro il 31 dicembre
diventerebbe a pieno titolo un'autorità
d'ambito.
La maxi-società dribbla la gara. Possibile
l'affidamento diretto a una realtà che
aggreghi 250mila abitanti.
LIBERTÀ TOTALE/ La nuova deroga permette di
aggirare anche i vincoli che impediscono
l'in house per servizi superiori a 200mila
euro.
La gestione dei rifiuti nell'Ato può essere
affidata in house ad un'unica società
che aggreghi i gestori esistenti, e gli
impianti di proprietà degli enti possono
essere affittati ai gestori.
La legge di modifica del Codice ambiente (Dlgs
152/2006) approvata al Senato introduce
importanti innovazioni nei modelli di
gestione del ciclo integrato dei rifiuti,
che definiscono un'ulteriore deroga alla
procedura ordinaria di affidamento con gara.
L'articolo 6 della legge (che ora deve
tornare alla Camera) stabilisce che può
costituire Ato (purché la popolazione
servita sia di almeno 250mila abitanti,
salvo che la Regione fissi un limite
inferiore) un'azienda costituita da soli
enti locali, derivante dalla trasformazione
di aziende speciali (o di consorzi) o
risultante dall'integrazione operativa,
perfezionata entro il 31.12.2012, di
preesistenti gestioni dirette o in house
tale da configurare un unico gestore a
livello di bacino.
La soluzione si inserisce nella "razionalizzazione"
dei gestori ammessi in deroga
all'affidamento in house dall'articolo 4,
comma 32, lettera a) della legge 148/2011,
secondo il modello della società unica
d'ambito, affidataria in house per un
periodo determinato (tre anni, sino alla
scadenza massima del 31.12.2015).
Tuttavia la nuova disciplina presenta
considerevoli differenze da quella generale,
perché la società risultante dalla
trasformazione o dall'aggregazione diventa
autorità d'ambito a tutti gli effetti e va a
incidere sul riassetto di questi organismi.
La nuova disposizione configura un soggetto
al quale afferiscono sia le funzioni del
regolatore sia i compiti di gestione del
servizio. Questo aspetto è confermato dalla
parte in cui si prevede che l'affidamento
dei servizi del ciclo integrato dei rifiuti
avviene direttamente all'azienda stessa
anche in deroga all'articolo 4 della legge
148/2011, quindi a anche a superamento del
limite economico di 200mila euro previsto
per l'in house.
Se l'organismo "aggregante" assorbe
contratti stipulati a seguito di regolare
gara, questi mantengono efficacia fino alla
scadenza naturale.
L'ulteriore aspetto peculiare è garantito
dalla possibilità, per Comuni non facenti
originariamente parte dell'azienda, di poter
entrare a farne parte, se ricorrano motivate
esigenze di efficacia, efficienza ed
economicità.
Per la gestione del ciclo integrato dei
rifiuti, quindi, è possibile che si pervenga
alla costituzione di una società unica
d'ambito, affidataria in house del servizio
per valore e durata non assoggettati ai
limiti dell'articolo 4 della legge 148/2001,
esercitante al contempo il ruolo di ente di
governo dell'Ato stesso.
Il quadro di innovazione, tuttavia, incide
anche sulle strategie di utilizzo degli
impianti di smaltimento, in quanto
l'articolo 7 della nuova legge (modificando
l'articolo 202 del testo unico, sugli
affidamenti) stabilisce che gli impianti e
le altre dotazioni patrimoniali di proprietà
degli enti locali o delle loro forme
associate già esistenti possono essere
conferiti anche a titolo oneroso ai soggetti
affidatari.
Questi ultimi (sia scelti con gara, sia
configurati come società mista con socio
operativo o come società unica d'ambito)
sono comunque chiamati a migliorare la
gestione secondo un modulo operativo più
evoluto dello stesso ciclo.
I gestori, sin dalla procedura selettiva,
devono esplicitare un piano industriale che
renda più efficiente il servizio grazie a
soluzioni innovative, mediante la riduzione
delle quantità di rifiuti da smaltire e il
miglioramento dei fattori ambientali,
proponendo un proprio piano di riduzione dei
corrispettivi per la gestione al
raggiungimento di obiettivi autonomamente
definiti, con particolare riferimento alla
separazione alla fonte e all' organizzazione
della raccolta differenziata domiciliare,
alla diffusione del compostaggio domestico,
alla promozione di riciclaggio, recupero e
selezione dei materiali ed alla
sperimentazione di forme di tariffazione
puntuale sulla base della produzione
effettiva di rifiuti non riciclabili.
---------------
Le caratteristiche
01|LA DIMENSIONE
L'ambito deve servire una popolazione di
almeno 250mila abitanti, salvo che la
Regione fissi un limite inferiore
02|LA FORMAZIONE
L'azienda deve essere costituita solo da
enti locali e può derivare dalla
trasformazione di aziende speciali (e
consorzi) o dall'integrazione operativa,
perfezionata entro il 31.12.2012, di
gestioni dirette o in house
03| IL RISULTATO
La società che risulta dalla trasformazione
o dall'aggregazione diventa autorità
d'ambito a tutti gli effetti
---------------
Così il nuovo gestore si
controlla da solo.
Il mondo dei servizi pubblici locali
continua ad arricchirsi di adempimenti e di
novità normative, ed è difficile arrivare a
un quadro razionale e pratico. Tutto ciò
crea confusione e rischi di inefficacia.
Proviamo a riassumere quali saranno i
prossimi appuntamenti: entro il 31 maggio i
Comuni potranno chiedere alle Regioni di
definire ambiti sub-provinciali; non oltre
il 30 giugno le Regioni dovranno deliberare,
per i servizi pubblici a rete (quali sono?)
gli ambiti. Entro il 13 agosto, gli enti
dovranno approvare la loro «delibera
quadro sui servizi» come previsto dal
regolamento di attuazione dell'articolo 4,
comma 33-ter, del Dl 138/2011, che ancora
non è stato pubblicato.
Tutto chiaro? Forse lo sarebbe.
Curiosamente, però, il decreto milleproroghe
(Dl 216/2011) all'articolo 13, comma 2,
rinvia la decadenza delle autorità d'ambito
al 31.12.2012 creando così una situazione
potenzialmente contraddittoria: il 13 agosto
potrebbero ancora esistere quelle Aato che
cesseranno dopo pochi mesi (cosa deliberano
a fare?) e che in alcuni casi non sono state
ancora istituite, come nel caso del Lazio
per i rifiuti (chi delibera in questo
caso?). Il tutto, ovviamente, seguendo un
regolamento che non c'è.
Bizzarrie di norme che si accavallano e non
sono coordinate tra loro. Potrebbe bastare,
ma non è finita qui. A breve rischiano
infatti di diventare legge le modifiche al
Codice dell'Ambiente, approvate dal Senato.
Scorrendo il testo si capisce subito che
siamo di fronte a un capolavoro. La norma,
infatti, interviene sull'articolo 200 del
Dlgs 152/2006, aggiungendo una lettera f-bis
in cui si prevede che la società di capitali
nata da un'integrazione operativa di
preesistenti gestioni in house è «tale da
configurare un unico gestore del servizio a
livello di bacino» e «può costituire
ambito territoriale ottimale, purché la
popolazione servita sia pari o superiore a
250mila abitanti».
Già questo crea un conflitto di competenze
con le Regioni e potrebbe generare un "buco"
all'interno di un bacino tale da vanificarne
la parte rimanente. In un crescendo, però,
la perla viene subito dopo: «In tale caso
detta azienda diventa autorità d'ambito a
tutti gli effetti e l'affidamento dei
servizi di raccolta e di smaltimento o
comunque afferenti al ciclo integrato dei
rifiuti avviene direttamente all'azienda
stessa anche in deroga all'articolo 4»
del dl 138/2011.
In sostanza, in un quadro che, con
sbavature, sembrava avere recepito la
necessità di una separazione tra regolazione
e gestione (applicata perfino nel settore
idrico), ecco puntuale la smentita: se due
aziende di rifiuti si fondono, in altre
parole, non avranno più nessun ente terzo
che ne verifica le condizioni di costo, di
qualità, di efficienza e di prezzo. Si
controlleranno da sole -non stentiamo ad
immaginare con quale rigore- e, a quanto
pare, dovranno nel proprio cda (o in
assemblea?) approvarsi la propria delibera
quadro. Una controriforma che susciterebbe
l'invidia del Concilio di Trento.
È interessante, però, sapere cosa penseranno
di questa norma le Regioni e quanto la possa
apprezzare l'Autorità garante della
concorrenza, che si troverà ad esprimere il
suo parere sulla delibera quadro che queste
società dovranno sottoporre a suo giudizio (articolo
Il Sole 24 Ore del 21.05.2012 - link
a www.ecostampa.it). |
APPALTI:
Appalti, verifiche impossibili
sul fisco dell'azienda vincitrice.
Monitoraggi. Anche gli enti sono
responsabili in solido.
Riguarda anche i Comuni
la novità del Dl 16/2012 che estende la
responsabilità solidale dell'appaltante ai
debiti fiscali dell'appaltatore: in caso di
appalto di opere o di servizi, il
committente imprenditore o datore di lavoro
è obbligato in solido con l'appaltatore,
entro i due anni dalla cessazione
dell'appalto, al versamento all'Erario delle
ritenute sui redditi di lavoro dipendente e
dell'Iva pagata sulle fatture inerenti
l'appalto, a meno che non si dimostri che
sono state attivate tutte le cautele
possibili per evitare l'inadempimento da
parte dell'appaltatore.
I primi commentatori (si veda Il Sole 24 Ore
del 28 aprile) non hanno mancato di
segnalare che per questa via si è
ulteriormente consolidato il processo di
esternalizzazione delle funzioni dia
accertamento e controllo a soggetti estranei
alla amministrazione finanziaria: le
verifiche che quest'ultima non riesce a fare
vengono così traslate su soggetti terzi,
sotto pena di sanzioni e di responsabilità
solidale.
Con particolare riferimento agli enti
pubblici, sembra proprio che anch'essi siano
interessati ai nuovi obblighi di verifica:
la norma fa infatti riferimento tanto agli
imprenditori quanto ai datori di lavoro, e
non vi è dubbio che (anche) ai fini della
normativa sugli appalti l'ente pubblico
rientra in quest'ultima categoria.
L'assunto ha peraltro trovato conferma a
livello giurisprudenziale: con riferimento
all'articolo 29 del Dlgs 276/2003 (la legge
Biagi) che utilizza -per l'individuazione
dei soggetti obbligati al controllo- gli
stessi identici termini del Dl 16/2012, la
responsabilità dell'ente pubblico è stata
ripetutamente attestata dalla giurisprudenza
di merito.
Quanto all'oggetto delle verifiche, nessun
problema si pone in relazione alle ritenute
d'acconto. Si tratta di versamenti specifici
dei quali il committente può ben chiedere
all'appaltatore prova documentale (il
modello F24, per esempio).
All'opposto, la verifica dei versamenti Iva
risulta impossibile: poiché il versamento
dell'imposta non avviene in via analitica,
ma per masse (e in misura pari al saldo
algebrico dell'Iva a debito e a credito
afferente la complessiva gestione
aziendale), non è proprio possibile
individuare una correlazione tra l'Iva
pagata dall'ente committente e il versamento
periodico del tributo effettuato
dall'appaltatore.
Vi è di più: se anche fosse possibile (e non
lo è!) attivare una qualche forma di
verifica dei versamenti Iva effettuati dagli
appaltatori, nel caso particolare degli enti
pubblici essa non potrebbe che avvenire a
posteriori, quando è ormai troppo tardi. Per
effetto dei meccanismi previsti
dall'articolo 6 del Dpr 633/1972, in
effetti, l'Iva viene a costituire -in capo
all'appaltatore- un debito soltanto dopo
che l'ente locale ha pagato la fattura. A
pagamento avvenuto, tuttavia, quale altra
cautela potrebbe mai essere posta in essere
dal Comune per evitare l'inadempimento
dell'appaltatore?
Con riferimento all'Iva, dunque,le procedure
di controllo richieste dal Dl 16/2012 si
risolvono in un adempimento impossibile (articolo
Il Sole 24 Ore del 21.05.2012 - link
a www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI - VARI:
Imu, vincolati i comuni. Linea
più morbida verso i contribuenti. La
circolare n. 3/Df sull’imposta municipale:
aliquote solo entro i limiti minimi e
massimi di legge.
Il ministero delle
finanze, destreggiandosi nel ginepraio
normativo dell’Imu, tende la mano ai
contribuenti. I coniugi che per motivi di
lavoro risultano avere dimora abituale e
residenza anagrafica in due fabbricati
distinti potranno fruire, ciascuno in
ragione della propria residenza, delle
agevolazioni «prima casa». Paletti rigidi
invece per i comuni che non potranno fissare
l’asticella delle aliquote al di sotto dei
limiti minimi e massimi previsti dalla legge
per ciascuna tipologia immobiliare. Non
potranno neppure, con il regolamento Imu,
restringere le detrazioni per i figli «under
26» oppure disciplinare le pertinenze delle
abitazioni principali.
Queste alcune delle principali novità
contenute nella
circolare 18.05.2012 n. 3/DF,
pubblicata dal Dipartimento delle finanze
del ministero dell’economia e delle finanze.
Eccole in dettaglio.
Abitazione principale.
La circolare, dopo aver premesso che, a
differenza dell’Ici, l’Imu dal 2012 attrae a
tassazione anche l’abitazione principale e
relative pertinenze, si sofferma sui profili
di novità contenuti nella definizione
legislativa:
1) l’abitazione principale non può che
essere una sola unità immobiliare, così che
se il contribuente dimora e risiede in una
casa composta da più unità immobiliari esse
vanno assoggettate separatamente a
imposizione, ciascuna per la propria
rendita. Per un’unità è dovuta l’Imu come
abitazione principale (con applicazione
delle agevolazioni e delle riduzioni per
questa previste) per le altre, invece,
occorrerà applicare l’aliquota deliberata
dal comune abitazioni diverse da quella
principale per tali tipologie di fabbricati
senza alcuna detrazione;
2) è l’unica unità immobiliare in cui il
possessore e il suo nucleo familiare
dimorano abitualmente e risiedono
anagraficamente.
Al riguardo il ministero precisa altresì che
l’art. 13, c. 2, del dl 201/2011 stabilisce
che le agevolazioni non possono che essere
uniche per nucleo familiare
indipendentemente dalla dimora abituale e
dalla residenza anagrafica dei rispettivi
componenti. Tale limitazione non troverebbe
ostacoli nel caso in cui gli immobili
destinati ad abitazione principale siano
ubicati in comuni diversi, poiché in questo
caso il rischio di elusione della norma
sarebbe bilanciato da effettive necessità di
dover trasferire la residenza anagrafica e
la dimora abituale in un altro comune, per
esempio, per esigenze lavorative.
Sul punto va osservato, però, che
l’interpretazione ministeriale mal si
concilia con l’orientamento della Cassazione
(sent. n. 14389/2010) la quale, analizzando
un analogo concetto contenuto nella norma
Ici, dopo aver premesso che l’art. 144 c.c.
prevede che «i coniugi concordano tra
loro l’indirizzo della vita familiare e
fissano la residenza della famiglia secondo
le esigenze di entrambi e quelle preminenti
della famiglia stessa», ha statuito
l’incompatibilità della dimora abituale in
luogo diverso da quello in cui si trova la
famiglia.
Pertinenze.
Le pertinenze delle abitazioni principali
non possono essere quelle classificate nelle
categorie catastali C/2, C/6 e C/7, nella
misura massima di un’unità pertinenziale per
ciascuna delle categorie catastali indicate,
anche se iscritte in catasto unitamente
all’unità a uso abitativo. Il contribuente
potrà quindi considerare come pertinenza
dell’abitazione principale soltanto un’unità
immobiliare per ciascuna categoria
catastale, fino a un massimo di tre
pertinenze appartenenti ciascuna a una delle
tre diverse categorie espressamente indicate
dalla norma.
Rientra nel limite massimo delle tre
pertinenze anche quella che risulti iscritta
in catasto unitamente all’abitazione
principale. Se, per esempio, il contribuente
ha 3 pertinenze di cui una cantina
accatastata come C/2 e due garage
classificati come C/6, sarà lo stesso
contribuente a individuare fra questi ultimi
quale collegare all’abitazione principale.
Se, però, la cantina risulta iscritta
congiuntamente all’abitazione principale, il
contribuente deve applicare le agevolazioni
previste per tale fattispecie solo ad altre
due pertinenze di categoria catastale
diversa da C/2. Poiché in quest’ultima
rientrerebbe la cantina iscritta in catasto
congiuntamente all’abitazione principale.
Sul punto va precisato che non sempre sarà
agevole per il contribuente conoscere la
categoria catastale delle pertinenze
accatastate congiuntamente all’abitazione.
Basti pensare ai posti auto che risultano
iscritti in catasto sia in categoria
catastale C/6 sia in C/7.
La circolare precisa, inoltre, che ai comuni
non è consentito di intervenire con una
disposizione regolamentare in ordine
all’individuazione delle pertinenze e tale
affermazione, secondo il Mef, sarebbe
avvalorata dall’abrogazione dell’art. 59 del
dlgs n. 446 del 1997, il quale al comma 1,
lettera d), consentiva agli enti locali,
nell’esercizio della potestà regolamentare,
di «considerare parti integranti
dell’abitazione principale le sue
pertinenze, ancorché distintamente iscritte
in catasto».
Aliquote.
I comuni possono articolare le aliquote
esclusivamente all’interno dei limiti minimi
e massimi previsti dal dl n. 201/2011
(0,2-0,6% abitazione principale; 0,1-0,2%
fabbricati rurali strumentali; 0,46-1,06%
altri immobili), si tratta quindi, precisa
il Mef, di «vincoli invalicabili da parte
del comune», il quale, nell’esercizio
della propria autonomia regolamentare, può
esclusivamente manovrare le aliquote,
differenziandole sia nell’ambito della
stessa fattispecie impositiva, sia
all’interno del gruppo catastale, con
riferimento alle singole categorie.
Le precisazioni del ministero appaiono però
contraddittorie in quanto applicare aliquote
crescenti rispetto alle diverse categorie
catastali, che già sono differenziate in
ragione della tipologia del fabbricato,
sembra violare il principio di
ragionevolezza che deve contraddistinguere
la decisione del comune (articolo
ItaliaOggi Sette del 21.05.2012). |
ENTI LOCALI - VARI:
Al 100% penalizzazioni per gli
ex. La circolare n. 3/Df: i coniugi
assegnatari dopo la separazione pagheranno
l’Imu.
L’Imu riserva una brutta sorpresa ai coniugi
assegnatari a seguito di sentenza del
giudice della separazione. In ogni caso
saranno loro a dover pagare l’Imu. Al 100%,
anche se non sono, neppure in parte
proprietari. Unica, e magra, consolazione è
che trattandosi, nelle generalità dei casi,
dell’abitazione nella quale il non
assegnatario dimora abitualmente e risiede
anagraficamente, in sede di acconto fruirà
dell’aliquota ridotta del 4 per mille e
delle detrazioni d’imposta di 200 euro oltre
a quella di 50 euro per ogni figlio con meno
di ventisei anni residente anagraficamente
in quella casa.
L’assegnatario entro il 30 settembre dovrà
presentare la dichiarazione Imu e poi, entro
il 17 dicembre, sarà tenuto al versamento
del saldo dell’imposta sulla base delle
aliquote e delle detrazioni che il comune
avrà definitivamente adottato. Buone notizie
invece per i fabbricati di anziani, anziani
e disabili lungodegenti, oltre a quelle dei
cittadini italiani residenti all’estero.
Il ministero delle finanze con la
circolare 18.05.2012 n. 3/DF
ha chiarito che se il comune ne disporrà
l’assimilazione all’abitazione principale,
oltre a godere di aliquota ridotta e
detrazioni d’imposta, non sarà dovuta la
quota Imu allo stato. Il che per il
contribuente in termini sostanziali non
cambia, ma siccome tutto il gettito affluirà
nelle casse comunali, gli enti locali
dovrebbero essere stimolati a deliberare
l’equiparazione.
La novità.
Con un improvviso cambio di rotta rispetto
alle originarie previsioni normative, il
legislatore, in sede di conversione del dl
n. 16/2012, con l’articolo 4, comma
12-quinquies, ha stabilito che ai soli fini
dell’applicazione dell’Imu l’assegnazione
della casa coniugale al coniuge, disposta a
seguito di provvedimento di separazione
legale, annullamento, scioglimento o
cessazione degli effetti civili del
matrimonio, si intende in ogni caso
effettuata a titolo di diritto di
abitazione.
La disposizione ha innovato il precedente
regime stabilito dall’art. 13, comma 10,
ultimo periodo, del dl n. 201 del 2011 in
base al quale le agevolazioni per
l’abitazione principale e per le relative
pertinenze trovavano applicazione anche nei
confronti delle fattispecie di cui all’art.
6, comma 3-bis, del dlgs n. 504 del 1992, in
virtù del quale il soggetto passivo che non
risultava assegnatario della casa coniugale,
poteva considerare detta unità immobiliare
come abitazione principale, purché non fosse
titolare del diritto di proprietà o di altro
diritto reale su un immobile destinato ad
abitazione situato nello stesso comune ove
era ubicata la casa coniugale.
La circolare.
Il Mef, al riguardo, precisa si tratta di
una novità nel panorama dell’Imu, poiché
prevedendo che l’assegnazione della ex casa
coniugale fa sorgere in ogni caso un diritto
di abitazione nei confronti del coniuge
assegnatario della stessa, ne riconosce la
soggettività passiva in via esclusiva. E’,
quindi, solo all’ex coniuge, in quanto
soggetto passivo, che spettano le
agevolazioni previste per l’abitazione
principale e per le relative pertinenze,
concernenti l’aliquota ridotta, la
detrazione e la maggiorazione per i figli di
età non superiore a 26 anni, in relazione
alle quali si dovranno seguire le regole
generali.
La circolare 3/DF/2012 prova a rimediare
anche all’ennesimo pasticcio del
legislatore. E spiega che dalla lettura
delle norme «emerge inequivocabilmente»
che la disposizione contenuta nel comma
12-quinquies dell’art. 4 del dl n. 16 del
2012, essendo intervenuta successivamente a
quella disposta dall’ultimo periodo del
comma 10 dell’art. 13 del dl n. 201/2011, e
regolando in maniera diversa la soggettività
passiva della fattispecie in commento, ha
reso incompatibile la disposizione di cui
all’art. 13, comma 10, ultimo periodo, del
d.l. n. 201/2011, che, dunque, ai sensi
dell’art. 15 delle disposizioni sulla legge
in generale, risulta tacitamente abrogata.
Secondo il Mef, quindi, il nuovo assetto
normativo comporta che le agevolazioni
inerenti l’abitazione principale e le
relative pertinenze sono riconosciute alla
ex casa coniugale e alle relative pertinenze
e gli obblighi tributari inerenti detto
immobile devono essere assolti dal coniuge
assegnatario della stessa in quanto titolare
del diritto di abitazione ex art. 4, comma
12-quinquies del d.l. n 16 del 2012.
In particolare, viene precisato, che l’Imu
deve essere versata per il suo intero
ammontare dal coniuge assegnatario anche se
non proprietario della ex casa coniugale il
quale può usufruire sia dell’aliquota
ridotta stabilita per l’abitazione
principale sia dell’intera detrazione
prevista per detto immobile nonché della
maggiorazione di € 50 per ciascun figlio di
età non superiore a 26 anni, a condizione
che lo stesso dimori abitualmente e risieda
anagraficamente nell’unità immobiliare
adibita ad abitazione principale.
Il riconoscimento da parte del legislatore
della titolarità del diritto di abitazione
in capo al coniuge assegnatario
dell’immobile destinato ad ex casa
coniugale, comporta che sul relativo gettito
non viene computata la quota di imposta
riservata allo Stato di cui al comma 11
dell’art. 13 del d.l. n. 201 del 2011 e
quindi tutto il gettito spetta al Comune.
Anziani.
Le case di anziani e disabili lungodegenti,
oltre a quelle dei cittadini italiani
residenti all’estero, se assimilate dal
comune all’abitazione principale, godranno
di aliquota ridotta e detrazioni d’imposta
senza nulla dovere allo stato, così che i
comuni siano incentivati ad operare
l’equiparazione.
Benefit a maglie larghe anche nel settore
agricolo: i fabbricati rurali strumentali
potranno godere dell’aliquota di favore del
2 per mille (riducibile dal comune all’1 per
mille) anche se prive della categoria
catastale D/10; le società agricole, purché
«Iap» e iscritte nelle liste
previdenziali, avranno diritto a tutte le
agevolazioni riconosciute a coloro che
conducono terreni.
---------------
Anziani e disabili,
speranze per una tassazione ridotta in mano
ai sindaci.
Le speranze di anziani, disabili e cittadini
Aire per un carico Imu un po’ più
sopportabile sono ora nelle mani dei
sindaci. Con disposizione regolamentare, da
adottare entro il 30 settembre, i comuni
potranno infatti assimilare le loro case
all’abitazione principale con un doppio
effetto: i contribuenti fruiranno di una
tassazione ridotta e i municipi si terranno
tutto l’incasso, senza nulla dovere allo
stato.
L’art. 13, comma 10, del dl n. 201/2011
consente ai comuni di considerare
direttamente adibita ad abitazione
principale l’unità immobiliare posseduta a
titolo di proprietà o di usufrutto da
anziani o disabili che acquisiscono la
residenza in istituti di ricovero o sanitari
a seguito di ricovero permanente, a
condizione che la stessa non risulti locata,
nonché l’unità immobiliare posseduta dai
cittadini italiani non residenti nel
territorio dello stato a titolo di proprietà
o di usufrutto in Italia, a condizione che
non risulti locata. Va da sé che qualora i
consigli comunali adottino tale decisione
alle unità immobiliari in questione si
renderà applicabile lo stesso trattamento
previsto per l’abitazione principale, vale a
dire aliquota ridotta, detrazione e
maggiorazione per i figli «under 26».
La circolare n. 3/Df di venerdì scorso, con
riferimento ai cittadini italiani residenti
all’estero, precisa che la maggiorazione di
50 euro prevista per i figli si applica solo
nel caso in cui gli stessi dimorino
abitualmente e risiedano anagraficamente
nell’abitazione posseduta in Italia. Il Mef
afferma, altresì, con argomentazioni
ineccepibili, che il riconoscimento da parte
del legislatore della possibilità per i
comuni di disporre l’assimilazione in
questione, comporta che laddove venga
esercitata tale facoltà, sull’Imu da versare
non deve essere computata la quota riservata
allo Stato di cui al comma 11 dell’art. 13
del dl n. 201/2011, poiché quest’ultima
norma esclude espressamente dalla quota
erariale l’abitazione principale.
Infatti, viene spiegato nella circolare, «le
modifiche intervenute ad opera dell’art. 4
del dl n. 16/2012 hanno privato di signifi
cato il comma 11 dell’art. 13 secondo cui le
detrazioni e le riduzioni di aliquota
deliberate dai comuni non si applicano alla
quota riservata allo stato» poiché
l’attuale comma 10 dello stesso art. 13
prevede ora la possibilità di assimilazione
all’abitazione principale. Il ministero non
ha tuttavia preso posizione su un punto
importante, ossia se tali soggetti, laddove
il comune ha già deliberato l’assimilazione,
possono pagare l’Imu, tutta a favore del
comune, con l’aliquota ridotta del 4 per
mille anziché quella del 7,6 per mille.
È chiaro infatti che se tale possibilità
venisse negata, per anziani, disabili e Aire
si aprirebbe poi il problema di come, e a
chi, chiedere il rimborso della quota
erariale non dovuta (articolo
ItaliaOggi Sette del 21.05.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Gestione rifiuti, esoneri
allargati. Ampliamento dei soggetti esclusi
dagli adempimenti Sistri. Ddl licenziato dal
Senato. Fuori le imprese agricole a bassa
produzione di materiali pericolosi.
Esclusione definitiva
dagli adempimenti Sistri per le imprese
agricole a bassa produzione di rifiuti
pericolosi che conferiscono direttamente a
circuiti organizzati ed esenzione
dall'obbligo di iscrizione all'Albo gestori
ambientali per i professionisti dello stesso
settore che effettuano direttamente il
trasporto dei loro rifiuti (sia pericolosi
che non pericolosi) alle medesime strutture.
Queste le semplificazioni ambientali
previste dal disegno di legge di
riformulazione del «Codice ambientale»
(dlgs 152/2006) e provvedimenti satellite
licenziato lo scorso 09.05.2012 dal Senato e
ora alla Camera in terza lettura.
Allargamento esenzione
Sistri.
Il ddl in corso di approvazione sancisce un
ampliamento del novero degli imprenditori
agricoli esclusi dall'obbligo di iscrizione
al nuovo sistema di tracciamento telematico
dei rifiuti (e dunque ai relativi
adempimenti operativi) intervenendo
direttamente su due punti nodali
dell'attuale disciplina (rappresentata dal
dlgs 205/2010, provvedimento satellite del
dlgs 152/2006).
È innanzitutto prevista la trasformazione da
temporanea a definitiva dell'esenzione
dall'obbligo di iscrizione al Sistri
(attualmente valida in base all'articolo 39
del dlgs 205/2010 solo fino al 02.07.2012)
per gli imprenditori agricoli ex articolo
2135 del codice civile che producono e
trasportano a una piattaforma di
conferimento, oppure conferiscono ad un
circuito organizzato di raccolta, i propri
rifiuti pericolosi in modo occasionale e
saltuario. In secondo luogo, viene allargata
la stessa nozione di trasporto e
conferimento «occasionale e saltuario»
mediante l'innalzamento a 300 (dagli attuali
100) della soglia massima di chili/litri di
rifiuti pericolosi annualmente sottoponibili
a tali fasi di gestione da parte delle
imprese in parola senza obbligo di
iscrizione al Sistri.
Detti imprenditori devono comunque, in base
al vigente articolo 39 del dlgs 205/2010,
conservare in azienda per cinque anni sia la
copia della convenzione o del contratto di
servizio stipulati con il gestore della
piattaforma di conferimento o del circuito
organizzato di raccolta che le schede «Sistri
– Area movimentazione», sottoscritte e
trasmesse dal gestore della piattaforma di
conferimento o dal circuito organizzato di
raccolta. L'adesione al Sistri, lo
ricordiamo, è già a monte solo facoltativa
(in virtù dell'articolo 4, dm 52/2011 – c.d
«T.u. Sistri») per gli imprenditori
agricoli di cui all'articolo 2135 del Codice
civile che producono rifiuti speciali non
pericolosi. Una parziale esclusione dagli
obblighi Sistri per alcune operazioni di
gestione dei rifiuti compiute dalle imprese
agricole, lo si sottolinea per onor di
completezza, è invece in vigore dallo scorso
10.02.2012.
Il dl 5/2012 (c.d. «dl semplificazioni»)
ha infatti sancito, mediante la diretta
modifica dell'articolo 193 del Codice
ambientale, che non è più considerato «trasporto
di rifiuti» (con conseguente fuoriuscita
di tale attività, ma solo di questa,
dall'obbligo di tracciamento dei sia
cartaceo che telematico) la movimentazione
di rifiuti finalizzata al deposito
temporaneo effettuata sia da aziende
agricole, anche percorrendo la via pubblica,
tra suoi fondi purché distanti massimo 10
km, sia da imprenditori agricoli dai propri
fondi al sito delle cooperative cui
aderiscono.
Deroga obbligo iscrizione
Albo gestori.
Lo stesso disegno di legge in itinere
prevede un ulteriore alleggerimento degli
adempimenti ambientali per le imprese del
settore, e ciò sancendo l'esclusione
dall'obbligo di iscrizione all'Albo gestori
ambientali previsto e disciplinato dal dlgs
152/2006 per gli imprenditori agricoli
professionali definiti dall'articolo 1 del
dlgs 99/2004 (soggetti costituenti, però, un
novero più ristretto degli imprenditori
agricoli definiti dall'articolo 2135 del
Codice civile) che effettuano direttamente
il trasporto dei rifiuti (sia pericolosi che
non pericolosi) da loro prodotti verso le
piattaforme di conferimento o circuiti
organizzati di raccolta.
Operatività del Sistri.
La data attorno alla quale ruota la partenza
operativa del Sistri (ossia: comunicazione
online al sistema informatico gestito dallo
Stato dei dati relativi ai rifiuti gestiti e
tracciamento satellitare dei mezzi di
trasporto degli stessi) è, in base
all'ultima proroga sancita in materia dalla
legge 14/2012 di conversione del dl 216/2011
(c.d. «dl Milleproroghe»), quella del
30.06.2012.
Tale data rappresenta infatti sia il termine
a partire dal quale i citati adempimenti
Sistri dovranno essere assolti dalla
generalità dei soggetti obbligati (ossia:
medio/grandi produttori di rifiuti
pericolosi; commercianti ed intermediari;
Consorzi di riciclaggio; trasportatori
professionali) sia il termine non prima del
quale gli stessi adempimenti potranno essere
dal Minambiente (tramite proprio decreto)
imposti ai piccoli produttori di rifiuti
pericolosi (ossia: produttori di rifiuti
speciali pericolosi con non più di 10
dipendenti, compresi i produttori che
effettuano il trasporto dei propri rifiuti
entro i 30 kg/litri al giorno) (articolo
ItaliaOggi Sette del 21.05.2012). |
GIURISPRUDENZA |
URBANISTICA: La
destinazione a verde privato di un’area
rientra tra le ipotesi di
qualificazione delle zone territoriali
omogenee di cui lo strumento urbanistico
primario si compone e, anche se pone
preclusione all’edificazione implicando
l’esclusione della possibilità di realizzare
qualsiasi opera edilizia incidente sulla
destinazione a verde, rimane comunque
espressione delle funzioni di ripartizione
in zone del territorio, senza determinare
vincoli tali da escludere potenzialmente il
diritto di proprietà nella sua interezza.
La destinazione stessa non sostanzia alcun
vincolo correlato al regime di decadenza
conseguente all’inutile decorso del termine
quinquennale all’epoca contemplato dall’art.
2 della L. 19.11.1968 n. 1187 (e, ora,
dall’art. 9 del T.U. approvato con D.P.R.
06.06.2001 n. 327 come modificato dall’art.
1 del D.L.vo 27.12.2002 n. 352) e che
altrimenti implicherebbe -per l’appunto-
l’obbligo del Comune di procedere alla
riqualificazione urbanistica delle aree
stesse dopo la scadenza del vincolo.
Il punto nodale della causa risiede nella
configurazione giuridica della destinazione
a “verde privato” imposta ad una determinata
area dallo strumento urbanistico primario.
A ragione il giudice di primo grado ha
affermato che, in tal senso, il generale
potere conformativo di cui è titolare
l’Amministrazione Comunale in sede di
pianificazione del territorio non coincide
in tale evenienza con il ben diverso potere
di carattere ablatorio previsto dall’art. 25
della L. 17.08.1942 n. 1150, in forza
del quale “le aree libere sistemate a
giardini privati adiacenti a fabbricati
possono essere sottoposte al vincolo dell’inedificabilità
anche per una superficie superiore a quella
di prescrizione secondo la destinazione
della zona”, con la precisazione che “in tal
caso, e sempre che non si tratti di aree
sottoposte ad analogo vincolo in forza di
leggi speciali, il Comune è tenuto al
pagamento di un’indennità per il vincolo
imposto oltre il limite delle prescrizioni
di zona”.
Tale disciplina è infatti applicabile
nell’ipotesi, ben differente dal caso di
specie, in cui lo strumento urbanistico
generale imponga, con riferimento ad una
singola area edificabile, un indice di
fabbricabilità diverso ed inferiore rispetto
a quello fissato in via generale per la
medesima zona omogenea.
Se così è, pertanto, la destinazione
urbanistica di un’area a “verde privato”
operata dalle previsioni del vigente
strumento urbanistico primario non assume la
natura di vincolo ablatorio o assimilabile,
ma rientra nell’ambito della normale
conformazione della proprietà privata,
espressione del potere di pianificazione del
territorio comunale.
In tal senso, per risalente ma ancora
attuale e non smentito indirizzo
giurisprudenziale, la destinazione a verde
privato di un’area rientra infatti tra le
ipotesi di qualificazione delle zone
territoriali omogenee di cui lo strumento
urbanistico primario si compone e, anche se
pone preclusione all’edificazione implicando
l’esclusione della possibilità di realizzare
qualsiasi opera edilizia incidente sulla
destinazione a verde (così, ex plurimis,
Cons. Stato, Sez. IV, 05.10.1995 n.
781), rimane comunque espressione delle
funzioni di ripartizione in zone del
territorio, senza determinare vincoli tali
da escludere potenzialmente il diritto di
proprietà nella sua interezza (così Cons.
Stato, Sez. IV, 24.07.1985 n. 290).
In relazione a quanto ora evidenziato, e a
differenza di quanto affermato dalla parte
appellante, la destinazione stessa non
sostanzia alcun vincolo correlato al regime
di decadenza conseguente all’inutile decorso
del termine quinquennale all’epoca
contemplato dall’art. 2 della L. 19.11.1968 n. 1187 (e, ora, dall’art. 9 del T.U.
approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 327
come modificato dall’art. 1 del D.L.vo 27.12.2002 n. 352) e che altrimenti
implicherebbe -per l’appunto- l’obbligo
del Comune di procedere alla
riqualificazione urbanistica delle aree
stesse dopo la scadenza del vincolo (cfr.
sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 14.12.1993 n. 1068).
Da ciò consegue, quindi, non solo che
nessuna decadenza si è nella specie
verificata per quanto segnatamente attiene
alla destinazione a verde privato imposta
all’area in questione, ma anche che dalla
destinazione stessa non discende alcun
obbligo di indennizzo per il privato, non
potendosi pertanto dare accesso a
qualsivoglia censura tesa a far valere
l’illegittimità della previsione di
destinazione sotto il profilo della mancanza
di un ristoro economico al riguardo.
Per quanto poi attiene alla legittimità
della scelta dell’Amministrazione Comunale
di destinare l’area di cui trattasi a verde
privato, a ragione il giudice di primo grado
ha evidenziato che la relativa censura
doveva essere proposta impugnando in parte
qua lo strumento di pianificazione generale,
ossia il vigente piano di fabbricazione,
stante il fatto che –come detto innanzi-
la previsione contenuta nel piano di
recupero è meramente attuativa del piano di
fabbricazione medesimo e da esso
assolutamente vincolata: e ciò –si badi–
anche a prescindere dall’assunto
dell’appellante secondo il quale la
proibizione, asseritamente momentanea, degli
interventi edilizi sull’area in questione
sarebbe stata indotta, nella stesura del
piano di fabbricazione, “di programmi … di
varianti attuative e conseguenti previsioni
economiche da parte dell’Amministrazione”
(cfr. pag. 11 dell’atto di appello), posto
che tale stato di cose non poteva per certo
configurare una “competenza” dello strumento
attuativo a mutare il contenuto della
sovrastante disciplina contenuta nello
strumento di pianificazione primario.
In dipendenza di tutto ciò, quindi,
correttamente il TAR ha respinto il
ricorso proposto sub R.G. 2452 del 1991
essendo insussistente il presupposto per
fondare nella specie la sussistenza di un
vincolo ablatorio generante un obbligo di
indennizzo, ha dichiarato inammissibile il
ricorso proposto sub R.G. 1795 del 1992 per
omessa impugnazione della destinazione
imposta all’area di cui trattasi e ha
respinto il ricorso proposto sub R.G. 775
del 2002 in dipendenza dell’avvenuto rigetto
delle censure di illegittimità dei
provvedimenti impugnati, con conseguente
insussistenza dell’ingiustizia del danno
dedotto
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 18.05.2012 n. 2919 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
pronuncia di decadenza del titolo edilizio è
per certo espressione di un potere
strettamente vincolato; ha una natura
ricognitiva, perché accerta il venir meno
degli effetti del titolo edilizio in
conseguenza dell’inerzia del titolare,
ovvero della sopravvenienza di una nuova e
diversa strumentazione edilizia, e assume
pertanto decorrenza ex tunc; inoltre il
termine di durata del titolo edilizio non
può mai intendersi automaticamente sospeso,
essendo al contrario sempre necessaria, a
tal fine, la presentazione di una formale
istanza di proroga, cui deve comunque
seguire un provvedimento da parte della
stessa Amministrazione che ha rilasciato il
titolo edilizio e che accerti
l’impossibilità del rispetto del termine ab
origine fissato, e solamente nei casi in cui
possa ritenersi sopravvenuto un factum principis,
ovvero l’insorgenza di una causa di forza
maggiore.
Ai fini della sussistenza dei presupposti
per la decadenza dalla concessione edilizia,
l’effettivo inizio dei lavori deve essere
valutato non in via generale ed astratta, ma
con specifico e puntuale riferimento
all’entità ed alle dimensioni
dell’intervento edilizio così come
programmato e autorizzato, e ciò al ben
evidente scopo di evitare che il termine per
l’avvio dell’edificazione possa essere eluso
con ricorso a lavori fittizi e simbolici, e
quindi non oggettivamente significativi di
un effettivo intendimento del titolare della
concessione stessa di procedere alla
costruzione.
L’inizio dei lavori idoneo ad impedire la
decadenza della concessione edilizia può
ritenersi sussistente quando le opere
intraprese siano tali da evidenziare
l’effettiva volontà da di realizzare il
manufatto l’opera, non essendo a ciò
sufficiente il semplice sbancamento del
terreno e la predisposizione degli strumenti
e materiali da costruzione; ovvero, detto
altrimenti, l’inizio dei lavori non è
configurabile per effetto della sola
esecuzione dei lavori di scavo di
sbancamento e senza che sia manifestamente
messa a punto l’organizzazione del cantiere
e sussistendo altri indizi che dimostrino il
reale proposito di proseguire i lavori sino
alla loro ultimazione, con la conseguenza
che la declaratoria di decadenza della
licenza edilizia per mancato inizio dei
lavori entro il termine fissato è
illegittima solo se sono stati perlomeno
eseguiti “lo scavo ed il riempimento in
conglomerato cementizio delle fondazioni
perimetrali fino alla quota del piano di
campagna entro il termine di legge” o se lo
sbancamento realizzato si estende un’area di
vaste dimensioni.
Per quanto attiene alla
questione di fondo che contraddistingue la
causa, ossia se la decadenza del titolo
edilizio consegue dal mero decorso del tempo
correlato all’inattività dell’interessato o
se necessita a tal fine un esplicito
provvedimento amministrativo, costitutivo o
dichiarativo, nella sentenza impugnata si
legge che “l’orientamento giurisprudenziale
sulla necessità di un espresso provvedimento
di decadenza non è costante. … Infatti una
parte della giurisprudenza ritiene che la
decadenza della concessione edilizia per
mancato inizio ed ultimazione dei lavori non
sia automatica e, pertanto, tale decadenza
debba essere necessariamente dichiarata con
apposito provvedimento, nei cui riguardi il
privato non vanta che una posizione
giuridica di interesse legittimo, sicché non
è configurabile nella specie un giudizio
d’accertamento (TAR Abruzzo Pescara, 28.06.2002, n. 595) e che, pertanto,
affinché la concessione edilizia perda, per
decadenza , la propria efficacia occorre un
atto formale dell’Amministrazione che renda
operanti gli effetti della decadenza
accertata (Consiglio Stato, sez. V, 26.06.2000, n. 3612)”, con la conseguenza –quindi– che “la decadenza avrebbe,
pertanto, dovuto formare oggetto di un
apposito provvedimento sindacale, che ne
avesse accertato i presupposti rendendone
operanti gli effetti, come richiesto per
tutti i casi di decadenza di concessioni
edilizie (cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez.
V, 15.06.1998, n. 834), considerato che la
perdita di efficacia della concessione è
subordinata all’esplicazione di una potestà provvedimentale” (cfr. pag. 11 e ss. della
sentenza impugnata).
Ad avviso del Collegio, a ragione il giudice
di primo grado ha respinto la tesi testé
riassunta, “in aderenza all’orientamento che
appare prevalente nella materia da ultimo” e
sulla scorta del diretto “riferimento … alla
lettera della legge, la quale fa dipendere
la decadenza, non da un atto amministrativo,
costitutivo o dichiarativo, ma dal semplice
fatto dell’inutile decorso del tempo” (cfr.
ibidem).
Nell’art. 4 della L. 10 del 1977, vigente
all’epoca dei fatti di causa, si disponeva
infatti al terzo comma che “nell’atto di
concessione sono indicati i termini di
inizio e di ultimazione dei lavori”, nel
mentre nel susseguente sua quarto comma si
disponeva che “il termine per l’inizio dei
lavori non può essere superiore ad un anno”,
che “il termine di ultimazione, entro il
quale l’opera deve essere abitabile o
agibile, non può essere superiore a tre
anni”, e si disciplinavano quindi le ipotesi
di proroga della concessione stessa.
Nel quinto comma si disponeva –altresì–
che “qualora i lavori non siano ultimati nel
termine stabilito, il concessionario deve
presentare istanza diretta ad ottenere una
nuova concessione; in tal caso la nuova
concessione concerne la parte non ultimata”,
nel mentre nel sesto comma era stata
introdotta una norma di chiusura del
“sistema”, in forza della quale la
concessione era “irrevocabile, fatti salvi i
casi di decadenza ai sensi della presente
legge” e le sanzioni previste dall'articolo
15 della stessa.
Risulta ben evidente, pertanto, che in tale
contesto non era ravvisabile la presenza di
una norma che imponesse l’emanazione di un
provvedimento al riguardo, posto che la
legge stessa disciplinava in via diretta la
durata della concessione e, in via
tassativa, le ipotesi per ottenerne la
proroga: con la conseguenza, quindi, che la
decadenza della concessione edilizia per
mancata osservanza del termine di inizio dei
lavori operava di diritto e che il
provvedimento pronunciante la decadenza, ove
adottato, aveva carattere meramente
dichiarativo di un effetto verificatosi “ex
se” , in via diretta,con l’infruttuoso
decorso del termine prefissato.
Va opportunamente denotato che tale assetto
delle cose permane anche nell’attuale
disciplina contenuta nell’art. 15, comma 2,
del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001
n. 380, laddove si dispone, in tema di
rilascio del permesso di costruire ma in via
ancor più puntuale, che “il termine per
l’inizio dei lavori non può essere superiore
ad un anno dal rilascio del titolo; quello
di ultimazione, entro il quale l’opera deve
essere completata non può superare i tre
anni dall'inizio dei lavori. Entrambi i
termini possono essere prorogati, con
provvedimento motivato, per fatti
sopravvenuti estranei alla volontà del
titolare del permesso. Decorsi tali termini
il permesso decade di diritto per la parte
non eseguita, tranne che, anteriormente alla
scadenza venga richiesta una proroga. La
proroga può essere accordata, con
provvedimento motivato, esclusivamente in
considerazione della mole dell’opera da
realizzare o delle sue particolari
caratteristiche tecnico-costruttive.”.
L’adesione all’orientamento maggioritario
della giurisprudenza trova conforto nella
notazione –puntualmente svolta dal giudice
di primo grado– secondo la quale,
diversamente opinando, si farebbe dipendere
la decadenza non solo da un comportamento
dei titolari della concessione ma anche
della Pubblica Amministrazione che potrebbe
–quindi– in taluni casi adottare un
provvedimento espresso e in altri casi no,
con non evanescenti ipotesi di disparità di
trattamento tra situazioni che nella
sostanza si presentano tuttavia identiche
sul punto di fondo che qui segnatamente
interessa.
Tale constatazione toglie, pertanto, per se
stessa pregio alle surriportate obiezioni
dell’appellante secondo le quali
risulterebbe problematico configurare la
sopravvenuta caducazione dei permessi di
costruire in assenza di un atto espresso in
tal senso, ancorché avente natura
dichiarativa, ovvero si ingenererebbero
incertezze nei rapporti tra privati e,
ancora, conseguenze inaccettabili.
Semmai, proprio il diretto riferimento dei
termini e delle conseguenze per la loro
violazione alla previsione di legge elimina
in radice –come detto innanzi– ogni
ipotesi di disparità di trattamento, e la
necessità dell’applicazione del regime
sanzionatorio per i lavori eseguiti dopo il
decorso del termine stabilito dal titolo
edilizio è, a sua volta, conseguenza
necessitata -e non già “inaccettabile”-
della violazione da parte dell’interessato
di puntuali obblighi a lui commessi dalla
stessa legge.
Deve dunque concludersi sul punto che la
pronuncia di decadenza del titolo edilizio è
per certo espressione di un potere
strettamente vincolato; ha una natura
ricognitiva, perché accerta il venir meno
degli effetti del titolo edilizio in
conseguenza dell’inerzia del titolare,
ovvero della sopravvenienza di una nuova e
diversa strumentazione edilizia, e assume
pertanto decorrenza ex tunc; inoltre il
termine di durata del titolo edilizio non
può mai intendersi automaticamente sospeso,
essendo al contrario sempre necessaria, a
tal fine, la presentazione di una formale
istanza di proroga, cui deve comunque
seguire un provvedimento da parte della
stessa Amministrazione che ha rilasciato il
titolo edilizio e che accerti
l’impossibilità del rispetto del termine ab
origine fissato, e solamente nei casi in cui
possa ritenersi sopravvenuto un factum principis, ovvero l’insorgenza di una causa
di forza maggiore (cfr. al riguardo, ex plurimis, Cons. Stato, sez. IV, 10.08.2007, n. 4423 e 18.06.2008 n. 3030).
Circa l’allegazione dell’attuale
appellante secondo la quale non sarebbe
stata nella specie ottemperata
dall’Amministrazione Comunale l’ordinanza
istruttoria emanata dal giudice di primo
grado al fine di acquisire agli atti di
causa, tra l’altro, copia del verbale del
sopralluogo asseritamente effettuato
dall’Ufficio Tecnico Comunale in data 27.02.1998 e che pertanto non
risulterebbe comprovato nella sua
materialità l’assunto del Comune medesimo
secondo il quale i lavori non sarebbero
nella specie regolarmente iniziati, il
Collegio –per parte propria– non può non
evidenziare che, secondo il generale
principio di distribuzione dell’onere della
prova di cui al combinato disposto dell’art.
2697 c.c. e dell’art. 115 cod. proc. civ. –ora espressamente recepito dall’art. 64,
comma 1, cod. proc. amm. ma reputato
immanente nell’ordinamento processuale
amministrativo, se non altro per quanto
attiene alle ipotesi che come per il caso di
specie pertengono alla giurisdizione
esclusiva, anche in epoca antecedente
all’entrata in vigore del nuovo codice di
rito (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato,
Sez. V, 07.10.2009 n. 6118)– competeva
all’attuale appellante dedurre che le opere
da lei asseritamente realizzate prima della
scadenza del termine annuale fissato per
l’avvio dei lavori erano comunque idonee a
dimostrare una sua seria e concreta volontà
di utilizzare il titolo edilizio a lei
rilasciato.
Al riguardo, risulta corretta la notazione
di fondo del primo giudice secondo la quale
tra i “modesti sbancamenti di terreno oramai
ricoperti di acqua e vegetazione”
testualmente riferiti dall’Amministrazione
Comunale in esito al sopralluogo da essa
effettuato e i lavori affermati come già
eseguiti dalla Jaconelli in sede di
richiesta di riesame del primo diniego di
proroga a lei opposto (“picchettatura del
terreno interessato dalla costruzione,
livellamento del medesimo terreno al livello
delle fondazioni, creazione degli scavi per
il getto dei plinti di fondazione di
entrambi gli assentiti edifici,
realizzazione della strada di accesso”) non
esiste, in realtà, un reale contrasto.
Al di là del diverso impianto descrittivo
delle due rappresentazioni di fatto, ben si
evince infatti che secondo entrambe le tesi
poste a raffronto i lavori in questione si
sono fermati al livello dello sbancamento
dei terreni e della loro preparazione
all’edificazione, senza che quest’ultima
possa effettivamente reputarsi come in
concreto iniziata.
Come è ben noto, ai fini della sussistenza
dei presupposti per la decadenza dalla
concessione edilizia, l’effettivo inizio dei
lavori deve essere valutato non in via
generale ed astratta, ma con specifico e
puntuale riferimento all’entità ed alle
dimensioni dell’intervento edilizio così
come programmato e autorizzato, e ciò al ben
evidente scopo di evitare che il termine per
l’avvio dell’edificazione possa essere eluso
con ricorso a lavori fittizi e simbolici, e
quindi non oggettivamente significativi di
un effettivo intendimento del titolare della
concessione stessa di procedere alla
costruzione (cfr. sul punto, ad es., Cons.
Stato, Sez. V, 16.11.1998 n. 1615).
Sempre in tal senso, l’inizio dei lavori
idoneo ad impedire la decadenza della
concessione edilizia può ritenersi
sussistente quando le opere intraprese siano
tali da evidenziare l’effettiva volontà da
di realizzare il manufatto l’opera, non
essendo a ciò sufficiente il semplice
sbancamento del terreno e la predisposizione
degli strumenti e materiali da costruzione
(così Cons. Stato, Sez. V, 22.11.1993
n. 1165); ovvero, detto altrimenti, l’inizio
dei lavori non è configurabile per effetto
della sola esecuzione dei lavori di scavo di
sbancamento e senza che sia manifestamente
messa a punto l’organizzazione del cantiere
e sussistendo altri indizi che dimostrino il
reale proposito di proseguire i lavori sino
alla loro ultimazione (cfr. Cons. Stato,
Sez. IV, 03.10.2000 n. 5242), con la
conseguenza che la declaratoria di decadenza
della licenza edilizia per mancato inizio
dei lavori entro il termine fissato è
illegittima solo se sono stati perlomeno
eseguiti “lo scavo ed il riempimento in
conglomerato cementizio delle fondazioni
perimetrali fino alla quota del piano di
campagna entro il termine di legge” (Cons.
Stato, Sez. V, 15.10.1992 n. 1006) o se
lo sbancamento realizzato si estende un’area
di vaste dimensioni (Cons. Stato, Sez. V, 13.05.1996 n. 535): circostanze, queste
ultime, non comprovate nella specie dalla Jaconelli
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 18.05.2012 n. 2915 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
generale principio di correlare gli oneri di
urbanizzazione al carico urbanistico, la
ristrutturazione edilizia comporta tale
dovere allorché sussista tale carico, che va
riscontrato anche in caso di divisione e
frazionamento di immobile che da uno si
trasforma in due unità, con distinti
ingressi e servizi.
Anche in tale ipotesi, consistente nella
divisione e frazionamento di una unità
immobiliare in due o più unità, stante
l’autonoma utilizzabilità delle stesse, si
realizza un aumento dell’impatto sul
territorio e sono dovuti i relativi oneri.
---------------
Ai fini dell'insorgenza dell'obbligo di
corresponsione degli oneri concessori, è
rilevante il verificarsi di un maggior
carico urbanistico quale effetto
dell'intervento edilizio, sicché non è
neanche necessario che la ristrutturazione
interessi globalmente l'edificio -con
variazioni riguardanti nella loro interezza
le parti esterne ed interne del fabbricato-
ma è soltanto sufficiente che ne risulti
comunque mutata la realtà strutturale e la
fruibilità urbanistica, con oneri
conseguentemente riferiti all'oggettiva
rivalutazione dell'immobile e funzionali a
sopportare l'aggiuntivo carico
«socio-economico» che l'attività edilizia
comporta, anche quando l'incremento
dell'impatto sul territorio consegua solo a
marginali lavori dovuti ad una divisione o
frazionamento dell'immobile in due unità o
fra due o più proprietari
La giurisprudenza di questo
Consesso ha già chiarito che il generale
principio di correlare gli oneri di
urbanizzazione al carico urbanistico, la
ristrutturazione edilizia comporta tale
dovere allorché sussista tale carico, che va
riscontrato anche in caso di divisione e
frazionamento di immobile che da uno si
trasforma in due unità, con distinti
ingressi e servizi (così Consiglio di Stato,
IV, 29.04.2004, n. 2611; per esempio, nel
senso che in caso di mutamento di
destinazione d'uso siano dovuti gli oneri
concessori, Consiglio Stato, sez. IV, 28.07.2005, n. 4014).
Anche in tale ipotesi, consistente nella
divisione e frazionamento di una unità
immobiliare in due o più unità, stante
l’autonoma utilizzabilità delle stesse, si
realizza un aumento dell’impatto sul
territorio e sono dovuti i relativi oneri.
D’altronde, che i lavori realizzati abbiano
prodotto due distinte e, come tali,
fruibili, unità immobiliari costituisce
ammissione della stessa parte appellante.
Ai fini dell'insorgenza dell'obbligo di
corresponsione degli oneri concessori, è
rilevante il verificarsi di un maggior
carico urbanistico quale effetto
dell'intervento edilizio, sicché non è
neanche necessario che la ristrutturazione
interessi globalmente l'edificio -con
variazioni riguardanti nella loro interezza
le parti esterne ed interne del fabbricato-
ma è soltanto sufficiente che ne risulti
comunque mutata la realtà strutturale e la
fruibilità urbanistica, con oneri
conseguentemente riferiti all'oggettiva
rivalutazione dell'immobile e funzionali a
sopportare l'aggiuntivo carico «socio-economico»
che l'attività edilizia comporta, anche
quando l'incremento dell'impatto sul
territorio consegua solo a marginali lavori
dovuti ad una divisione o frazionamento
dell'immobile in due unità o fra due o più
proprietari
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.05.2012 n. 2838 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le osservazioni proposte
dai cittadini avverso gli atti di
pianificazione urbanistica non costituiscono
veri e propri rimedi giuridici, ma semplici
apporti collaborativi, sicché il loro
rigetto non richiede una motivazione
analitica, ma è sufficiente che esse siano
state esaminate e confrontate con gli
equilibri generali perseguiti dallo
strumento pianificatorio.
Le osservazioni proposte
dai cittadini avverso gli atti di
pianificazione urbanistica non costituiscono
veri e propri rimedi giuridici, ma semplici
apporti collaborativi, sicché il loro
rigetto non richiede una motivazione
analitica, ma è sufficiente che esse siano
state esaminate e confrontate con gli
equilibri generali perseguiti dallo
strumento pianificatorio (tra tante,
Consiglio di Stato, IV, 24.12.2009,
n. 8754)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.05.2012 n. 2837 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Quale
che sia la natura del consorzio, esso deve
dimostrare il possesso dei requisiti
generali di tutti i consorziati che vengono
individuati come esecutori delle prestazioni
scaturenti dal contratto.
A questo riguardo, in primo
luogo e in via generale va rammentato che,
indipendentemente dalla tipologia del
consorzio partecipante a una gara (consorzio
stabile o consorzio ordinario), la
giurisprudenza ha affermato in diverse
occasioni che, quale che sia la natura del
consorzio, esso deve dimostrare il possesso
dei requisiti generali di tutti i
consorziati che vengono individuati come
esecutori delle prestazioni scaturenti dal
contratto (Cons. St., VI, n. 7380 del 2009,
IV, n. 1485 del 2008, IV, n. 3765 del 2007,
V, n. 4477 del 2005, CGA Reg. Sic., n. 712
del 2007).
“Tutti i soggetti che a qualunque
titolo concorrono all'esecuzione di pubblici
appalti, vuoi in veste di affidatari, vuoi
in veste di subaffidatari, vuoi in veste di
prestatori di requisiti nell'ambito del c.d.
avvalimento, devono essere in possesso dei
requisiti morali di cui all'art. 38, d.lgs.
n. 163/2006. Il che risponde ad elementari
ragioni di trasparenza e di tutela effettiva
degli interessi sottesi alle cause di
esclusione di cui all'art. 38, d.lgs. n.
163/2006.
Occorre, infatti, che tutti gli
operatori economici che, a qualunque titolo,
eseguono prestazioni di lavori, servizi e
forniture abbiano i requisiti morali di cui
all'art. 38 citato. Se in caso di consorzi
tali requisiti andassero accertati solo in
capo al consorzio e non anche in capo ai
consorziati che eseguono le prestazioni, il
consorzio potrebbe agevolmente diventare uno
schermo di copertura consentendo la
partecipazione di consorziati privi dei
necessari requisiti.
Per gli operatori che
non hanno i requisiti dell'art. 38 (si pensi
al caso di soggetti con condanne penali per
gravi reati incidenti sulla moralità
professionale) basterebbe, anziché
concorrere direttamente andando incontro a
sicura esclusione, aderire a un consorzio da
utilizzare come copertura” (così, più di
recente, Cons. St., VI, n. 3759/2010, con
riferimento all’art. 38 del d.lgs. n.
163/2006, ma con statuizioni la cui “ratio”
è estensibile anche a fattispecie come
quella all’odierno esame del Collegio (la
sesta sezione ha aggiunto che la sopra
enunciata regola secondo la quale tutti
coloro che prendono parte all'esecuzione di
pubblici appalti devono essere in possesso
dei requisiti morali può essere considerato
un principio di tutela della par condicio,
dell'imparzialità ed efficacia dell'azione
amministrativa, per cui deve trovare
applicazione anche nei contratti esclusi in
tutto o in parte dall'applicazione del
codice.
Nei contratti c.d. esclusi –ha proseguito la
sesta sezione- può non esigersi il medesimo
rigore formale di cui all'art. 38 citato e
gli stessi vincoli procedurali, ma resta
inderogabile la sostanza, ossia il principio
che i soggetti devono avere i requisiti
morali, e che il possesso di tali requisiti
va verificato)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 17.05.2012 n. 2825 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Indipendentemente dalla tipologia
del consorzio partecipante a una gara
(consorzio stabile o consorzio ordinario),
esso deve dimostrare il possesso dei
requisiti generali di tutti i consorziati.
Tutti coloro che prendono parte
all'esecuzione di pubblici appalti devono
essere in possesso dei requisiti morali.
Indipendentemente dalla tipologia del
consorzio partecipante a una gara (consorzio
stabile o consorzio ordinario), quale che
sia la natura del consorzio, esso deve
dimostrare il possesso dei requisiti
generali di tutti i consorziati che vengono
individuati come esecutori delle prestazioni
scaturenti dal contratto. Tutti i soggetti
che a qualunque titolo concorrono
all'esecuzione di pubblici appalti, vuoi in
veste di affidatari, vuoi in veste di
subaffidatari, vuoi in veste di prestatori
di requisiti nell'ambito del c.d.
avvalimento, devono essere in possesso dei
requisiti morali di cui all'art. 38, d.lgs.
n. 163/2006. Il che risponde ad elementari
ragioni di trasparenza e di tutela effettiva
degli interessi sottesi alle cause di
esclusione di cui all'art. 38, d.lgs. n.
163/2006. Occorre, infatti, che tutti gli
operatori economici che, a qualunque titolo,
eseguono prestazioni di lavori, servizi e
forniture abbiano i requisiti morali di cui
all'art. 38 citato. Se in caso di consorzi
tali requisiti andassero accertati solo in
capo al consorzio e non anche in capo ai
consorziati che eseguono le prestazioni, il
consorzio potrebbe agevolmente diventare uno
schermo di copertura consentendo la
partecipazione di consorziati privi dei
necessari requisiti. Per gli operatori che
non hanno i requisiti dell'art. 38 (si pensi
al caso di soggetti con condanne penali per
gravi reati incidenti sulla moralità
professionale) basterebbe, anziché
concorrere direttamente andando incontro a
sicura esclusione, aderire a un consorzio da
utilizzare come copertura.
La regola secondo la quale tutti coloro che
prendono parte all'esecuzione di pubblici
appalti devono essere in possesso dei
requisiti morali può essere considerato un
principio di tutela della par condicio,
dell'imparzialità ed efficacia dell'azione
amministrativa, per cui deve trovare
applicazione anche nei contratti esclusi in
tutto o in parte dall'applicazione del
codice. Nei contratti c.d. esclusi può non
esigersi il medesimo rigore formale di cui
all'art. 38 citato e gli stessi vincoli
procedurali, ma resta inderogabile la
sostanza, ossia il principio che i soggetti
devono avere i requisiti morali, e che il
possesso di tali requisiti va verificato
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 17.05.2012 n. 2825 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sulla necessità della
dichiarazione ex art. 38 del d.lgs. n. 163
del 2006, da parte del responsabile tecnico
della impresa che effettua la gestione dei
rifiuti.
La figura del responsabile tecnico della
impresa di gestione di rifiuti di cui al
d.m. n. 406/1998, non presenta differenze
significative rispetto al direttore tecnico,
pertanto gli obblighi di dichiarazione che
l'art. 38 del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163,
correla alla posizione del direttore tecnico
sono riferibili anche al responsabile
tecnico ex d.m. n. 406/1998 cit.. Infatti,
quando la norma di cui all'art. 38 citato (e
quindi anche la "lex specialis" di
gara) richiede che lo specifico requisito
sia posseduto dal direttore tecnico ha
riguardo, quanto alle imprese di servizi,
alle figure tipiche di tale categoria, pur
nominalmente diverse ma a quella
sostanzialmente analoghe perché investite di
compiti parimenti analoghi, rilevanti ai
fini dell'esecuzione dell'appalto.
Di conseguenza, nel caso di specie anche il
responsabile tecnico avrebbe dovuto rendere
la dichiarazione in questione. La teoria del
cosiddetto "falso innocuo" non può,
poi, trovare accoglimento. La teoria stessa
riguarda infatti i casi in cui la "lex
specialis" non prevede espressamente la
conseguenza dell'esclusione in relazione
alla mancata osservanza di puntuali
prescrizioni su modalità e oggetto delle
dichiarazioni da fornire.
Nel caso in esame, viceversa, il carattere
cogente della sanzione espulsiva prevista
dal bando di gara per l'ipotesi di omessa
dichiarazione ai sensi dell'art. 38
precludeva l'applicazione della teoria del
falso innocuo (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 17.05.2012 n. 2820 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
demolizione parziale si ha quando continua
ad esistere una parte del manufatto, avente
una propria autonomia, tale da far ritenere
sussistente un edificio in senso tecnico. E
non si può considerare esistente un edificio
in senso tecnico, quando siano conservate
soltanto le fondamenta e una parte del muro
perimetrale, senza cioè la copertura ed i
muri perimetrali.
Occorre ricordare che questo stesso
Consiglio di Stato (sez. IV, 19.02.2007 n. 867), ha già affermato che “la
demolizione parziale si ha quando continua
ad esistere una parte del manufatto, avente
una propria autonomia, tale da far ritenere
sussistente un edificio in senso tecnico. E
non si può considerare esistente un edificio
in senso tecnico, quando siano conservate
soltanto le fondamenta e una parte del muro
perimetrale, senza cioè la copertura ed i
muri perimetrali”. Il che porta ad
escludere, anche in virtù di quanto
concretamente effettuato, che nel caso di
specie ricorra un’ipotesi di demolizione
parziale.
L’attività di demolizione e ricostruzione –che pure può integrare una ipotesi di
ristrutturazione edilizia– ha comportato
tuttavia, nel caso di specie, come affermato
dalla sentenza (e non sostanzialmente
contestato dagli appellanti), una modifica (ancorché
minima) del volume e della sagoma
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza
10.05.2012 n. 2723 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
nozione civilistica di pertinenza è più
ampia di quella applicata nella materia
urbanistica, nel senso che beni, che in
diritto civile assumono senz'altro natura
pertinenziale, non sono tali ai fini
dell'applicazione delle regole che governano
l'attività edilizia, ogniqualvolta assumono
autonomia rispetto ad altra costruzione, con
conseguente loro assoggettamento al regime
concessorio; pertanto, in materia edilizia
sono qualificabili come pertinenze solo le
opere prive di autonoma destinazione e che
esauriscano la loro destinazione d'uso nel
rapporto funzionale con l'edificio
principale, così da non incidere sul carico
urbanistico.
Quanto al
terzo motivo, giova osservare che la
sentenza impugnata ha fatto corretta
applicazione della nozione di “pertinenza”
ai fini edilizi, come elaborata dalla
giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato,
sez. IV, 23.07.2009 n. 4636), secondo la
quale la nozione civilistica di pertinenza è
più ampia di quella applicata nella materia
urbanistica, nel senso che beni, che in
diritto civile assumono senz'altro natura pertinenziale, non sono tali ai fini
dell'applicazione delle regole che governano
l'attività edilizia, ogniqualvolta assumono
autonomia rispetto ad altra costruzione, con
conseguente loro assoggettamento al regime
concessorio; pertanto, in materia edilizia
sono qualificabili come pertinenze solo le
opere prive di autonoma destinazione e che
esauriscano la loro destinazione d'uso nel
rapporto funzionale con l'edificio
principale, così da non incidere sul carico
urbanistico
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza
10.05.2012 n. 2723 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Legittimo tagliare la paga ai malati.
Sì alla trattenuta di Brunetta sullo
stipendio dei travet. La Corte
costituzionale: non c'è attentato al diritto
alla salute né discriminazione con i privati.
La trattenuta sullo stipendio, quando ci si
assenta per malattia, è costituzionalmente
legittima. Ad affermarlo la Corte
costituzionale, con la
sentenza
10.05.2012 n. 120 che ha
dichiarato costituzionalmente infondata una
questione di legittimità costituzionale,
riguardante l'art. 71 del decreto legge
112/2008.
Il caso era stato sollevato dal Tribunale di
Livorno, che aveva posto in evidenza una
serie di elementi, che inducevano a dubitare
sulla compatibilità della trattenuta
Brunetta con i principi della nostra Carta
costituzionale. In particolare, il giudice
rimettente aveva fatto presente che l'art.
71 sembrava risultare in contrasto con il
principio di uguaglianza, perché la
penalizzazione economica della decurtazione
dell'accessorio è prevista solo per i
dipendenti pubblici.
In più sembrava violare anche il principio
di retribuzione sufficiente, perché incide
su retribuzioni già minime. E ancora,
sembrava in contrasto con il diritto alla
salute, perché costringe i lavoratori ad
adempiere la prestazione anche se in stato
di malattia, proprio in quanto mossi dalle
necessità economiche. Infine, secondo il
Tribunale di Livorno, l'art. 71 avrebbe
violato anche l'art. 38 della Costituzione,
privando il lavoratore ammalato, dunque
temporaneamente inabile al lavoro, della
tutela sussidiaria prevista per i lavoratori
in questi casi. Il Giudice delle leggi,
però, ha rigettato il ricorso ed ha smontato
le tesi del Tribunale una per una. Sulla
questione della violazione del principio di
uguaglianza, la Consulta ha fatto presente
che i lavoratori del settore privato non
sono equiparabili ai dipendenti pubblici.
Perché ogni qualifica e ogni settore, nel
privato, vanta una disciplina diversa e
specifica. E anche nel pubblico ci sono
regimi diversi a seconda dei comparti e
delle qualifiche. Per quanto riguarda,
invece, la violazione del principio di
adeguatezza e sufficienza della
retribuzione, la Corte ha spiegato che tale
principio risulta soddisfatto anche in
presenza del mero trattamento fondamentale.
Quanto alla violazione del diritto alla
salute, il Giudice delle leggi, facendo leva
sul fatto che la trattenuta è piuttosto
modesta (circa 7 euro al giorno per i primi
10 giorni di assenza), ha ritenuto che la
perdita economica non fosse abbastanza
pesante da indurre il lavoratore ad andare a
lavorare anche se malato. E inoltre, il
supremo collegio ha spiegato che la
trattenuta non incide nemmeno sul dovere di
solidarietà che si deve nei confronti degli
inabili al lavoro, proprio perché, comunque,
la garanzia del trattamento fondamentale è
già sufficiente. Infine, il Giudice delle
leggi ha argomentato che la penalizzazione
economica prevista dall'art. 71 si coniuga
con il principio di buona amministrazione di
cui all'art. 97 della Costituzione, perché
serve a scoraggiare l'assenteismo
(articolo ItaliaOggi
del 22.05.2012 - link a
www.corteconti.it). |
APPALTI:
Sui presupposti che devono
sussistere ai fini dell'applicabilità
dell'interdizione antimafia.
E' vero che l'informativa antimafia
rappresenta il punto più avanzato di tutela
preventiva dell'ordinamento rispetto ai
fenomeni di delinquenza organizzata a
carattere mafioso e che per tale sua
connotazione di tutela preventiva non può
fondarsi che su di un giudizio meramente
prognostico dell'autorità prefettizia e che
a tal fine non occorre che vengano acquisiti
veri e propri mezzi di prova, essendo
sufficiente un quadro indiziario d'insieme
che, sulla base di una valutazione
caratterizzata da un'ampia discrezionalità
tecnica, faccia presumere l'esistenza di un
condizionamento mafioso. Ma è altresì vero
che la necessaria coerenza costituzionale di
tale forma avanzata di tutela impone di non
prescindere da un riscontro oggettivo
dell'intuizione prognostica.
Ciò determina che l'interdizione antimafia
non può fondarsi su semplici supposizioni
che prescindono da un'oggettiva
individuazione di un coerente, ancorché non
perfezionato, quadro indiziario (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 09.05.2012 n. 2678 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Quando i fumi e gli odori
sprigionati dalla cottura dei cibi di un bar
molestano la famiglia che abita
l’appartamento, nei pressi del quale passa
il tubo di scarico della cucina, il gestore
dell’esercizio è responsabile per il reato
di “emissioni moleste”.
Ciò anche se gli accertamenti sono stati
eseguiti sotto la vigenza di un’altra
gestione del bar, se la famiglia molestata
non ha sollevato alcun reclamo nei confronti
della nuova gestione, e se il provvedimento
comunale che autorizza l’esercizio attesta
che le immissioni non avrebbero potuto
raggiungere livelli di intollerabilità.
---------------
Fumi e odori sgradevoli: Cassazione condanna
il gestore di un bar.
Il tubo di scarico della
cucina di un bar arriva sotto il solaio di
un appartamento: i fumi e gli odori
sprigionati dalla cottura dei cibi molestano
la famiglia che vi abita.
La III Sez. penale della Corte di
Cassazione, con la
sentenza 04.05.2012 n. 16670, condanna
il gestore dell’esercizio per il reato di “emissioni
moleste”, statuendo un’ammenda pari a
cento euro, nonché duemila euro, a titolo di
risarcimento dei danni, a favore della
famiglia.
La ricorrente, titolare di una nuova
gestione di un bar, lamenta che in sede di
merito non è stato considerato che gli
accertamenti erano stati eseguiti nel tempo
in cui il bar era gestito da un altro
soggetto e che la famiglia molestata non
aveva sollevato alcun reclamo verso la nuova
titolare dell’esercizio commerciale. Infine
precisa che il Comune aveva autorizzato la
ristorazione con un provvedimento dove si
attestava che le immissioni non avrebbero
potuto raggiungere livelli di
intollerabilità. Lamentele, tutte, che gli
ermellini hanno ritenuto infondate.
Motivando il rigetto, la terza sezione
penale richiama e conferma quanto
esplicitato dai giudici di merito, anche
citando la propria pronuncia n. 2475 del
2007 secondo la quale risulta “configurabile
il reato di cui all’art. 674 c. p.
(emissione di gas, vapori o fumi atti a
offendere o molestare le persone) in
presenza di molestie olfattive promananti da
impianto produttivo in quanto non esiste una
normativa statale che prevede disposizioni
specifiche e valori limite in materia di
odori, con conseguente individuazione del
criterio della stretta tollerabilità quale
parametro di legalità dell’emissione, attesa
l’inidoneità ad approntare una protezione
adeguata all’ambiente e alla salute umana di
quello della normale tollerabilità, previsto
dall’art. 844 c.c.” (link a
www.altalex.com). |
APPALTI: Appalti,
il Consiglio di stato sulla regolarità contributiva. Durc insindacabile.
Le verifiche competono agli enti.
Il Durc si applica e non si discute. Almeno
per la stazione appaltante. E ciò anche
prima che entrasse in vigore il dl sviluppo.
Non spetta a chi dà il via alla procedura
verificare la regolarità contributiva di chi
partecipa alla gara; compete invece agli
enti previdenziali controllare la
sussistenza di eventuali gravi violazioni in
materia che impediscono alle aziende di
aggiudicarsi contratti pubblici.
L'adunanza
plenaria del Consiglio di Stato ha sciolto
il contrasto giurisprudenziale con la,
sentenza 04.05.2012 n. 8, ribadendo che
l'insindacabilità del Durc, il Documento
unico di regolarità contributiva, affermata
dal decreto sviluppo, che ha modificato il
codice degli appalti vale anche per le
controversie anteriori al 14/05/2011, data di
entrata in vigore del dl 70/2011. Questo non
perché la norma sia retroattiva:
semplicemente perché è stato il legislatore
ad aderire all'orientamento
giurisprudenziale formatosi fra i Tar e
Palazzo Spada. Resta definitivamente
chiarito che la mancanza di Durc comporta
una presunzione legale «iuris et de iure» di
gravità delle violazioni previdenziali. Ma
ora il Consiglio di stato mette una parola
definitiva per l'enorme contenzioso aperto
prima dell'intervento del governo. E il
merito è di un decreto del ministero del
lavoro che risale al 2007: se prima del
provvedimento poteva esserci un dubbio se vi
fosse o meno automatismo nella valutazione
di gravità delle violazioni previdenziali da
parte della stazione appaltante, dopo
l'emanazione del dm risulta chiaro che la
valutazione di gravità o meno della
infrazione previdenziale è riservata agli
enti previdenziali. Tanto che se la
violazione è ritenuta non grave, il Durc è
rilasciato con esito positivo, mentre accade
il contrario se l'infrazione risulta grave.
E la valutazione compiuta dagli enti
previdenziali è vincolante per le stazioni
appaltanti e preclude ogni altra verifica
(articolo ItaliaOggi
del 22.05.2012 - link a
www.corteconti.it). |
APPALTI SERVIZI:
Il servizio pubblico locale di
rilevanza economica è configurabile anche
quando l'amministrazione, invece della
concessione, pone in essere un contratto di
appalto.
Il servizio pubblico locale di rilevanza
economica è configurabile non solo quando
l'amministrazione adotti un atto di
concessione, ma anche nel caso in cui, pone
in essere un contratto di appalto, (rapporto
bilaterale, versamento di un importo da
parte dell'amministrazione) sempre che
l'attività sia rivolta direttamente
all'utenza -e non all'ente appaltante in
funzione strumentale all'amministrazione- e
l'utenza sia chiamata a pagare un compenso,
o tariffa, per la fruizione del servizio
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 03.05.2012 n. 2537 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
AGGIORNAMENTO AL 21.05.2012 |
ã |
NOVITA' NEL
SITO |
Inserito il nuovo bottone
dossier VINCOLO IDROGEOLOGICO. |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
ENTI LOCALI - VARI:
Oggetto: Imposta municipale propria
(IMU). Anticipazione sperimentale. Art. 13
del D.L. 06.12.2011, n. 201, convertito
dalla Legge 22.12.2011, n. 214. Chiarimenti
(Ministero dell'Economia e delle Finanze,
circolare 18.05.2012 n. 3/DF). |
ENTI LOCALI - VARI:
IMU - Come si applica l’imposta
municipale propria per l’anno 2012 (Ministero
dell'Economia e delle Finanze,
slides esplicative). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 20 del
17.05.2012, "Indicazioni operative per la
compilazione delle denunce di taglio
boschivo nel SiTaB" (comunicato
regionale 14.05.2012 n. 55). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
ATTI AMMINISTRATIVI:
M. Viviani,
L.R. Lombardia 1/2012: ambito di
applicazione
(link a www.studiospallino.it). |
EDILIZIA PRIVATA: W.
Fumagalli,
E ADESSO CHI PAGHERÀ? LA RISTRUTTURAZIONE
EDILIZIA “FUORI SAGOMA”: UN DISASTRO
ANNUNCIATO - Ancora una volta la Corte
Costituzionale ha dovuto annullare una legge
della Lombardia, e ora al via la “caccia
alle streghe” (AL n.
01-02/2012). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Assunzioni categorie protette.
La Corte dei Conti, sezione regionale
Lombardia, con il
parere 04.05.2012 n.
168, conferma gli
orientamenti consolidati (SS.RR. per la
Regione Siciliana, deliberazioni nn. 36/2008
e 49/2011) secondo i quali, anche in caso di
mancato di rispetto del patto di stabilità,
è possibile procedere alle assunzioni
necessarie (a fronte di scopertura) per
ricostituire la quota d'obbligo imposta
dalla legislazione speciale in materia di
assunzioni di categorie protette di
lavoratori di cui all'art. 3, comma 1, della
legge 68/1999 (tratto da www.publika.it). |
NEWS |
CONSIGLIERI COMUNALI -
ENTI LOCALI: Rischio impasse negli enti tra 3
mila e 5 mila abitanti. I comuni andati al
voto il 6 e 7 maggio devono già fare i conti
con la riduzione dei consiglieri.
Rischio impasse nei consigli dei comuni fra
3.000 e 5.000 abitanti. Tutto nasce
dall'art. 16, comma 17, della manovra di
Ferragosto (dl 138/2011), il quale, come
noto, ha rivisto la «pianta organica» degli
organi consiliari nei municipi più piccoli,
prevedendo riduzioni differenziate per
fascia demografica.
In particolare:
- per i comuni con popolazione fino a 3.000
abitanti, il consiglio è composto dal
sindaco e da 6 consiglieri;
- per i comuni con popolazione superiore a
3.000 e fino a 5.000 abitanti, sono previsti
7 consiglieri, oltre al sindaco, per un
totale di 8 membri;
- per i comuni con popolazione superiore a
5.000 e fino a 10.000 abitanti, il numero
degli scranni consiliari sale a 11 (sindaco
compreso).
La nuova composizione scatta a decorrere dal
primo rinnovo elettorale successivo al 14.09.2011 (data di entrata in vigore
della l 148/2011, di conversione del citato
dl 138/2011). Il predetto comma 17, infatti,
non è stato interessato dallo slittamento
temporale previsto dal decreto «milleproroghe»
2012 (dl 216/2011, convertito dalla l.
14/2012; si veda ItaliaOggi del 27.11.2011).
Quindi, i comuni reduci dalla tornata
elettorale del 6-7 maggio fanno già i conti
con le nuove regole, che risultano
particolarmente problematiche per gli enti
della fascia intermedia (3.000-5.000
abitanti).
In tal caso, infatti, i componenti del
consiglio (includendo anche il sindaco) sono
in numero pari (8, come già detto). Ciò
aumenta decisamente le probabilità che le
votazioni si concludano in pareggio. In
linea generale, infatti, per l'approvazione
delle deliberazioni (e di ogni altro
provvedimento), è necessario il voto
favorevole della metà più uno dei presenti.
È evidente, quindi, che possono presentarsi
non poche difficoltà nel funzionamento degli
organi dei comuni in questione, di cui il
legislatore non sembra aver tenuto
adeguatamente conto. È pur vero che l'art.
71, comma 8, del Tuel prevede che alla lista
collegata al candidato alla carica di
sindaco che ha riportato il maggior numero
di voti siano attribuiti due terzi dei seggi
assegnati al consiglio (con arrotondamento
all'unità superiore qualora il numero dei
consiglieri da assegnare alla lista contenga
una cifra decimale superiore a 50
centesimi). Il che significa che ogni primo
cittadino, nei comuni in questione, può
contare (oltre a se stesso) su ben cinque
degli altri sette consiglieri.
Ma ciò non esclude che alcuni consiglieri di
maggioranza decidano di votare in senso
opposto agli orientamenti del proprio gruppo
consiliare.
In tali casi, se voti a favore e voti contro
il provvedimento proposto dovessero
equivalersi, la votazione sarebbe
infruttuosa.
Infatti, a livello legislativo non sono
previsti meccanismi volti a risolvere in
modo strutturale una simile situazione di
impasse. Anche quando la legge prevede
qualcosa al riguardo (ad esempio, allorché,
in caso di votazioni riguardanti le persone,
sancisce la prevalenza del candidato più
anziano) si tratta di eccezioni tassative
alla regola generale.
È un problema serio, che rischia di
compromettere il regolare funzionamento
della macchina comunale. Non va trascurato,
inoltre, il rischio che si creino meccanismi
perversi, con l'accentuazione del potere di
ricatto di singoli consiglieri nei confronti
dei primi cittadini.
Una possibile via d'uscita potrebbe essere
il regolamento consiliare, cui l'art. 38,
comma 1, del Tuel rimette (nel quadro dei
principi stabiliti dallo statuto) la
disciplina del funzionamento dei consigli e,
fra l'altro, delle modalità per la
presentazione e la discussione delle
proposte. Per esempio, si potrebbe prevedere
(come già avviene in molti regolamenti
vigenti per la Giunta) che in caso di parità
di voti prevale quello del sindaco. Ma si
tratterebbe di una previsione di dubbia
legittimità, solo in parte attenuata dal
fatto che il regolamento deve essere
approvato a maggioranza assoluta. Non a
caso, la gran parte dei regolamenti vigenti
prevede che in caso di parità di voti la
proposta si intende non approvata
(articolo ItaliaOggi
del 18.05.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: RELAZIONE
CORTE CONTI SUL LAVORO PUBBLICO/ Gli enti
snobbano i diktat della Consulta. Un dirigente
su due è a contratto.
Il 45% dei manager locali non è autonomo
dalla politica.
Sono circa la metà dei dirigenti di ruolo
quelli a contratto del comparto regioni enti
locali. Per la precisione, secondo i dati
della Corte dei conti, sezioni riunite,
delibera n. 13/2012/Contr/Cl contenuti nella
relazione sul costo del lavoro pubblico
2012, nel 2010 su 6.884 dirigenti di ruolo,
nel comparto ben 2.199 sono dirigenti a
tempo determinato, per un'incidenza pari al
32%.
Ma, aggiungendo anche i 902 dirigenti extra
dotazione organica, tale incidenza sale al
45%.
La Corte dei conti conferma, dunque, che
regioni ed enti locali sono distantissimi
dall'attuare le indicazioni ripetutamente
espresse dalla Corte costituzionale sulla
dirigenza a tempo determinato, considerata
un elemento di debolezza del sistema, perché
incide negativamente sul principio della
continuità amministrativa e risulta legata
eccessivamente da un rapporto fiduciario con
la politica, tale da lederne l'autonomia.
Appare piuttosto evidente che comuni,
province e regioni abbiano attinto a piene
mani alla possibilità di assumere dirigenti
di fiducia a tempo determinato, costituendo
un vero e proprio «apparato parallelo» a
quello di ruolo. Ciò, in particolare,
soprattutto per effetto dell'articolo 110,
comma 1, del dlgs 267/2000 che consentendo,
prima della riforma-Brunetta, di assumere
senza limitazione alcuna i dirigenti a
contratto, ha permesso a moltissimi enti di
insediare ai vertici amministrativi
dirigenti esterni, senza porsi minimamente
il problema di un tetto numerico.
L'incidenza della dirigenza a contratto pari
complessivamente al 45% del totale, come si
nota, è lontanissima dal tetto inizialmente
posto dal dlgs 150/2009 al solo 8%.
Si spiegano, dunque, le insistenze dell'Anci
e dei sindaci in particolare, per ottenere
dal legislatore un ampliamento delle quote
di dirigenti da assumere a contratto,
nonostante le pronunce della Corte
costituzionale. Come si ricorda, un primo
ampliamento, fino al 18%, era stato ammesso
dall'articolo 1 del dlgs 141/2011, ma solo
per gli enti locali considerati virtuosi da
un dpcm che ancora non ha visto la luce. Un
secondo ampliamento, dunque, è stato
invocato e ottenuto dalle autonomie locali
con l'articolo 4, comma 13, del dl 16/2012,
convertito in legge 44/2012 (il decreto
fiscale), che apparentemente estende di poco
la percentuale iniziale dell'8%, prevedendo
un 10% per gli enti locali con oltre 250
mila abitanti, espandibile al 13% per gli
enti con popolazione tra 100 mila e 250 mila
e portato al 20% per gli altri enti.
Ma, in realtà, proprio perché anche il 20%
(incidenza della dirigenza a contratto
comunque più che doppia di quella ammessa
nello stato) è lontanissimo dalla
percentuale effettiva di dirigenti a
contratto operanti negli enti locali, il
citato articolo 4, comma 13, ha posto in
essere una vera e propria mini-sanatoria:
consente, infatti, agli enti locali di
confermare tutti, ma proprio tutti, i
dirigenti con contratti in scadenza al
31/12/2012, riproponendo la
percentuale-monstre di dirigenti a contratto
di matrice fiduciaria.
Per altro, esattamente come avviene presso
le varie agenzie nazionali, grandissima
parte della dirigenza a contratto non
proviene nemmeno da selezione di particolari
e spiccate competenze professionali attinte
al di fuori delle dotazioni organiche, come
prevederebbe l'articolo 19, comma 6, del
dlgs 165/2001, allo scopo di integrare e
arricchire la qualità e il plafond di
capacità della dirigenza di ruolo. Spiegano
le sezioni riunite nella relazione che
«oltre la metà delle assunzioni nell'ambito
della dirigenza a tempo determinato deriva
dall'attribuzione di incarichi a personale
interno ai singoli enti».
Insomma, delle vere e proprie progressioni
verticali di fatto, realizzate senza alcuna
specifica selezione, spesso occasione per
premiare fedeltà e consonanza del dirigente
cooptato all'organo di governo di turno
(articolo ItaliaOggi
del 18.05.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Contratti
decentrati, atti unilaterali subito vigenti.
Gli atti unilaterali sostitutivi del mancato
accordo per la stipulazione dei contratti
decentrati sono da considerare da subito in
vigore, per effetto dell'articolo 6 del dlgs
141/2011.
La relazione sul costo del lavoro
pubblico 2012 elaborata dalle sezioni
riunite della Corte dei conti interviene in
modo tranciante su una delle questioni più
spinose riguardanti il dlgs 150/2009,
nell'ambito della profonda critica riservata
all'intesa tra funzione pubblica e
sindacati, che pare finalizzata a
smantellare, invece, proprio l'impianto
della riforma-Brunetta che ha potenziato i
poteri datoriali.
Ai sensi dell'articolo 40, comma 3-ter, del
dlgs 165/2001 «qualora non si raggiunga
l'accordo per la stipulazione di un
contratto collettivo integrativo,
l'amministrazione interessata può
provvedere, in via provvisoria, sulle
materie oggetto del mancato accordo, fino
alla successiva sottoscrizione». Si tratta
di una disposizione prevista per
riequilibrare le posizioni di forza nella
contrattazione decentrata, tale da
permettere alle amministrazioni di superare
pregiudiziali sindacali ostative alla
stipulazione dei contratti e permettere
l'attuazione degli istituti.
Come noto, i sindacati hanno fatto ricorsi a
tappeto ai giudici del lavoro avverso i
provvedimenti attuativi della norma
introdotta dalla riforma-Brunetta.
Inizialmente, i giudici avevano considerato
antisindacale il comportamento delle
amministrazioni inteso ad attuare la norma,
per poi cambiare interpretazione.
Le sezioni riunite, anche alla luce del dlgs
141/2011, col quale il parlamento ha
interpretato autenticamente l'articolo 65
del dlgs 150/2009, nella relazione
considerano immediatamente applicabili,
senza alcun rinvio alla contrattazione
nazionale, le norme del dlgs 150/2009
«relative all'assetto delle relazioni
sindacali, compresa la possibilità per le
amministrazioni di decidere unilateralmente
sulla distribuzione delle risorse presenti
nei fondi unici in caso di eccessivo
protrarsi del confronto negoziale».
La magistratura contabile fa giustizia della
legittimità piena dei provvedimenti
unilaterali adottati dalle amministrazioni,
atti da considerare necessitati anche alla
luce del rispetto della contabilità
pubblica.
L'articolo 40, comma 3-ter, è uno tra i
molti che la riforma-Brunetta ha prodotto,
per rafforzare la posizione dei dirigenti
pubblici, così da correggere alcuni effetti
distorti della «privatizzazione» del
rapporto di lavoro pubblico. Per la Corte
l'intesa del 3 maggio scorso nasconde il
rischio «di una possibile permanenza delle
criticità che hanno caratterizzato sinora la
contrattazione collettiva nazionale e
integrativa, non in grado di rendere
effettiva la correlazione fra componenti
accessorie della retribuzione e incrementi
di produttività del settore pubblico».
Per
questo, la Corte auspica che la riforma del
lavoro pubblico mantenga norme finalizzate a
rafforzare il datore pubblico «prevedendo,
quanto meno, la conferma della disposizione,
già contenuta nel dlgs n. 150 del 2009»
(articolo ItaliaOggi
del 18.05.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI: Personale,
la riduzione della spesa va a rilento.
Diminuzione del numero dei dipendenti degli
enti locali, avvio della messa sotto
controllo della spesa del personale, mentre
le criticità della contrattazione decentrata
integrativa continuano a essere assai
marcate, anche per colpa della funzione
pubblica e del ministero dell'economia:
possono essere così riassunte le principali
tendenze che si sono manifestate nel lavoro
pubblico nell'anno 2010 rispetto al
precedente anno 2009. Da sottolineare che il
trattamento economico medio del personale
degli enti locali è quantificato in 29.399
euro annui: tale cifra è di poco superiore
al trattamento medio dei dipendenti non
dirigenti, che rappresentano oltre il 96%
del personale del comparto regioni e
autonomie locali.
In questo comparto il numero dei dipendenti
in servizio è diminuito dell'1,6%, mentre
nel complesso delle amministrazioni
pubbliche è calato dell'1,9%. Assai marcata
la diminuzione del numero dei lavoratori
assunti con contratti flessibili (-7,2%),
mentre la diminuzione del personale a tempo
indeterminato è stata assai contenuta:
appena -0,8%. Quindi una tendenza meno
«virtuosa» rispetto a quella registrata in
altri comparti pubblici, in particolare
nelle amministrazioni statali.
A livello di spesa per il personale quella
dei comuni, delle province e delle regioni è
diminuita dello 0,9%, mentre nel complesso
delle amministrazioni pubbliche la riduzione
è stata dell'1,5%. Da sottolineare che si
arriva a tale risultato, assai inferiore a
quello del complesso delle amministrazioni
statali, sulla base «di una crescita della
spesa per il personale dirigente più che
compensata dalla flessione della spesa del
personale non dirigente».
Questa differenza è spiegata in buona parte
dal fatto che nel 2010 è stato rinnovato il
contratto dei dirigenti, mentre quello del
personale era stato rinnovato nel 2009.
Comunque, in modo per molti versi speculare
rispetto all'andamento del numero dei
dipendenti, si registra una gestione meno
«virtuosa» rispetto ad altri comparti del
pubblico impiego e in particolare alle
amministrazioni statali.
Assai interessanti sono anche i dati medi
sul trattamento economico complessivo del
personale del comparto regioni ed enti
locali: i dipendenti ricevono compensi per
circa 28.389 euro annui; i dirigenti
compensi per 99.004 euro, i segretari per
89.262 euro e i direttori generali per
142.418.
Le stabilizzazioni nel 2010 hanno
interessato nel comparto regioni e autonomie
locali 3.907 unità che in gran parte sono ex
lavoratori socialmente utili. Continua a
essere negativo il bilancio della
contrattazione decentrata mettendo insieme i
costi e gli effetti sulla qualità
dell'attività amministrativa. Assai
interessante è la dura bacchettata che viene
per la prima volta data alla funzione
pubblica e al ministero dell'economia: «Va
sottolineata l'importanza strategica della
predisposizione, da parte del dipartimento
della funzione pubblica d'intesa con il
ministero dell'economia e delle finanze, ai
sensi dell'art. 40-bis del dlgs n. 165 del
2001, del previsto modello unico di
riferimento per la predisposizione della
relazione tecnica ai contratti integrativi.
A tale relazione, che deve essere pubblicata
unicamente ai contratti integrativi sul sito
istituzionale delle amministrazioni, è
affidato il compito di evidenziare in modo
trasparente il valore dei fondi unici in
ciascun esercizio, le risorse disponibili,
quelle oggetto di contrattazione e gli
effetti finanziari e organizzativi connessi
alle scelte contrattuali sul riparto delle
risorse, anche al fine di garantire
effettività al controllo diffuso previsto
dal citato art. 40-bis da parte degli utenti
dei servizi sull'utilizzo delle risorse
destinate ai dipendenti di ciascun ente».
Tale modello previsto dal legislatore già
dal 2009 fino a oggi non è stato realizzato
(articolo ItaliaOggi
del 18.05.2012). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Riscossione
Imu, incentivi a rischio.
Premio cancellato dal dl fiscale, anzi no. E
comuni nel caos. Preoccupazione negli uffici
tributi dei municipi in vista della prima
rata. L'Anutel lancia l'allarme.
È il grande rebus del momento: esiste ancora
il premio incentivante per i dipendenti che
si impegneranno nel contrasto all'evasione
Imu?
La nuova e già contestatissima imposta
nasconde tra le sue maglie anche questo
problema, sicuramente secondario per gli
«impositori», un po' meno impellente per gli
operatori, già impegnati a gestire l'avvio
delle complicate procedure relative al neoistituito tributo.
Fino a poche settimane fa non c'erano dubbi
in proposito, e il ragionamento seguito
faceva, grosso modo, leva su due elementi:
il comma 57 dell'art. 3 della legge n.
662/1996 e l'art. 59, comma 1, lett. p), del dlgs n. 446/1997 che, non risultando
modificato dall'art. 13 del dl n. 201/2011,
consentiva ancora di prevedere,
nell'esercizio della potestà regolamentare
comunale, l'attribuzione di compensi
incentivanti al personale addetto agli
uffici tributari.
Si riteneva, quindi, che in assenza di
abrogazioni esplicite, tale facoltà
risultasse ancora legittimamente
esercitabile anche in relazione alle
attività connesse all'Imu. A maggior
conforto dell'armonia Ici-Imu in punto di
incentivi, il comma 6 dell'art. 14 dlgs n.
23/2011 diceva testualmente «è confermata
la potestà regolamentare degli enti locali
di cui agli artt. 52 e 59 dlgs 446/1997
anche per i nuovi tributi previsti dal
presente provvedimento».
Ma a complicare terribilmente le cose arriva
il dl 16/2012 come modificato dall'art.4
della legge di conversione n. 44/2012, che
ha letteralmente cancellato il richiamo
espresso che l'art. 14 legge n. 23/2001
faceva all'art. 59 dlgs n. 446/1997. Ci si
sofferma a vario titolo sul colpo di spugna
dato dalla legge di conversione del dl
16/2012 alla potestà regolamentare
specifica, prevista per i comuni dall'art.
59 del dlgs 446/1997 argomentando,
correttamente, che se viene abrogata la
possibilità di regolamentare l'attribuzione
di un compenso incentivante ad essere
fortemente messo in discussione è il
compenso incentivante stesso, stante, per
l'ente locale la funzione normativa dello
strumento regolamentare.
Su altri fronti si
leggono parole più tranquillizzanti che,
richiamando in causa una circolare datata ma
attuale sul punto (circolare Mef 296/E del
31/12/1998), hanno concentrato l'attenzione
sull'art. 52 del dlgs 446/1997, non inciso
né abrogato dal dl 16 /12, e sul suo titolo
legittimante generale rispetto alla potestà
regolamentare dell'ente locale. Si è detto,
in armonia con la citata circolare, che
l'art. 52 consegna all'ente locale potestà
regolamentare neutra e diffusa rispetto ai
contenuti puntuali dettagliati in altre
norme, quali ad esempio, proprio quelli
specificati nell'abrogato articolo 59 del
medesimo dlgs, che declinerebbe, senza
pretese di tassatività, la potestà
regolamentare del comune in alcuni
esemplificativi spazi di possibile
operatività. Insomma aver cancellato un
ambito specifico di potestà regolamentare
non inciderebbe sul potere generale
dell'ente di darsi un regolamento.
Ritengo, però, che l'analisi debba spaziare
ancora, spostandosi, dal potere
regolamentare alla fonte di grado superiore.
Insomma, al di là dell'abrogazione dell'art.
59 dlgs n. 446/2007 contenuta nella legge di
conversione del dl 16/2010, un altro
importante vuoto si presenta nel puzzle.
Dov'è la norma di legge che con specifico
riferimento all'Imu dà facoltà agli enti
accertatori di riconoscere un incentivo
premiante ai dipendenti? Malgrado gli
evidenti segni di continuità Ici/Imu, l'Imu
è comunque un nuovo tributo che ha,
peraltro, una propria autonoma
regolamentazione, il che unito al principio
generale secondo cui le disposizioni Ici
sono applicabili all'Imu solo se richiamate
espressamente, genera un vuoto legislativo
più che regolamentare. La previsione
dell'art. 3 comma 557 del 662/1996 che
consentiva esplicitamente l'utilizzo di una
percentuale Ici per il potenziamento
dell'Ufficio tributi non è, per le ragioni
anzidette, direttamente applicabile all'Imu.
Relativamente al nuovo tributo non esiste
nemmeno una previsione generale, costruita
sulla falsariga delle norme di chiusura, che
abiliti l'interprete all'applicazione delle
disposizione sull'Ici, ove non diversamente
normato per l'Imu.
E le cose si complicano ulteriormente,
laddove, come evidenziato anche dall'Aran in
più di un autorevole parere, il meccanismo
integrativo delle risorse decentrate scritto
nella lett. k) dell'art. 15 Ccnl '99 che
concretamente consente di corrispondere
incentivi al personale come l'incentivo Ici,
impone che siano «specifiche» le norme di
legge che destinano in modo altrettanto
«specifico ed espresso» risorse
all'incentivazione del personale.
In difetto di una fonte normativa dalla
quale risulti questa chiara e specifica
finalizzazione ancor meno è ipotizzabile
l'utilizzo, per via analogica e a fini
incentivanti, di norme concepite e riferite
ad ambiti differenti, benché similari, ma
riguardanti espressamente l'Ici
(articolo ItaliaOggi
del 18.05.2012). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Paletti ai trasferimenti.
Avvicinamento al comune solo in casi
tassativi. La delega da parte
dell'assessore non basta a giustificare la
domanda.
È possibile applicare il beneficio di cui
all'articolo 78, comma 6, del decreto
legislativo n. 267/2000, al personale della
polizia di stato, che ha prodotto istanza di
trasferimento, in quanto nominato
rappresentante di un comune a supporto
dell'assessore ai servizi sociali dello
stesso comune, già delegato dal sindaco
quale componente del Coordinamento
istituzionale presso l'ambito territoriale
con sede in altro ente?
L'articolo sopra citato introduce una
disposizione di garanzia a favore di tutti i
lavoratori dipendenti per evitare loro
restrizioni o limitazioni all'esercizio
delle funzioni connesse all'espletamento del
proprio mandato.
In proposito, è stabilito che la richiesta
dei predetti lavoratori di avvicinamento al
luogo in cui viene svolto il mandato
amministrativo deve essere esaminata dal
datore di lavoro con criteri di priorità.
L'art. 77, comma 2, del Tuel, statuisce che,
ai fini dell'applicazione delle norme di cui
al capo IV - status degli amministratori
locali (artt. 77-87), si devono intendere
amministratori locali i componenti degli
organi delle unioni di comuni e dei consorzi
fra enti locali, nonché i componenti degli
organi di decentramento.
Ciò posto, nel caso in esame risulta che
l'interessato è stato designato a supportare
l'attività dell'assessore ai servizi sociali
e non direttamente delegato dal sindaco a
rappresentare l'ente locale.
Pertanto, non rientrando lo stesso nel
novero degli amministratori locali come
definito dall'art. 77 del Tuel, non sono
applicabili le disposizioni di cui all'art.
78 del medesimo Testo unico
(articolo ItaliaOggi
del 18.05.2012). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Sospensione
ferie.
Un consigliere comunale, dipendente
dell'Inps, può presentare al proprio datore
di lavoro istanza di «sospensione delle
ferie» già richieste per la partecipazione a
sedute di consiglio e commissioni presso
l'ente in cui esplica il mandato elettivo?
Fermo restando il diritto,
costituzionalmente garantito,
dell'amministratore di disporre del tempo
necessario per il mandato, l'istituto del
permesso si differenzia da quello
dell'aspettativa in quanto
l'amministratore-lavoratore dipendente
mantiene il rapporto con l'amministrazione
di appartenenza con tutti i vincoli, anche
di orario, che tale rapporto comporta.
Il diritto dell'amministratore a fruire dei
permessi lavorativi va, pertanto,
contemperato con il diritto dell'ente di
appartenenza con cui l'amministratore locale
ha mantenuto il rapporto lavorativo, al
rispetto delle norme ordinamentali e
organizzative interne.
L'ente di appartenenza può, quindi,
legittimamente rifiutare l'accoglimento
dell'istanza del dipendente volta alla
revoca delle ferie già richieste, anche se
motivate con la possibilità di fruire di
altro diritto.
Per completezza del quadro normativo si
soggiunge che, sulla materia dei permessi,
sono intervenute le modifiche normative
apportate dall'art. 16 del dl 13/08/2011, n.
138, convertito nella legge 14/09/2011, n.
148 che ha rivisitato il 1° comma dell'art.
79 Tuel
(articolo ItaliaOggi
del 18.05.2012). |
LAVORI PUBBLICI: Appalti, dall'8 giugno rischio stop.
Amministrazioni in ritardo sui nuovi
certificati dei lavori. Scattano le
disposizioni del dpr 207/2010. E le p.a. in
difficoltà stanno bloccando i bandi.
Dall'08 giugno si rischia il blocco degli
appalti di lavori pubblici a causa dei
ritardi nella emissione dei nuovi
certificati dei lavori da parte delle
stazioni appaltanti.
È questo il grido di
allarme che viene lanciato dal Partito
Democratico che, raccogliendo anche la forte
preoccupazione del settore delle imprese di
costruzioni, martedì ha presentato (a firma
di Raffaella Mariani, capo gruppo in
Commissione ambiente della camera) una
risoluzione parlamentare volta a impegnare
il governo a trovare una soluzione al
possibile impasse determinato dalla
cessazione di numerose attestazioni SOA per
importanti categorie di lavori.
Il problema nasce con riguardo ad una norma
del dpr 207/2010 (il Regolamento attuativo
del Codice dei contratti pubblici) entrato
in vigore l'08.06.2011 (l'articolo 357,
comma 14) che stabilisce per alcune
categorie di lavori (fra le quali le
categorie generali OG 10 e 11, opere
impiantistiche, e le categorie specializzate
OS 2,7,8, 12, 18, 20 e 21) la cessazione
della validità dei certificati entro 6 mesi
(08.12.2011, termine poi prorogato per
legge all'08.06.2012) e l'obbligo di
remissione dei certificati secondo le nuove
regole del dpr 207.
La questione riguarda ad
esempio, la categoria OG 11 per la quale
l'impresa generale è tenuta (art. 79, comma
16) a documentare almeno il 40% di lavori
svolti in OS3 e il 70% sia in OS 28, sia in
OS 30. Per la remissione dei certificati le
stazioni appaltanti dovrebbero prendere in
considerazione i dati relativi a progetti
realizzati negli anni precedenti e calcolare
le quote dei lavori appartenenti alle
categorie specializzate, al fine di
verificare se siano rispondenti ai parametri
previsti nel dpr 207/2010.
Fino ad oggi, si
legge nella risoluzione del Pd, la proroga
di sei mesi «non è servita ad attuare la
necessaria accelerazione delle procedure per
il rilascio dei certificati, ancora in forte
ritardo, con effetti negativi sulla capacità
delle imprese a partecipare alle gare
bandite con le categorie oggetto di
modifica». Inoltre le stazioni appaltanti,
alla luce delle difficoltà derivanti
dall'aggiornamento dei certificati
(evidenziate anche dall'Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici, nella sua
relazione al Parlamento dell'anno scorso),
sembra che stiano fermando l'emissione di
nuovi bandi di gara, con le nuove categorie,
in attesa di capire cosa succederà.
Nella
risoluzione parlamentare si chiede un
intervento del governo per accelerare la
remissione dei certificati e «ogni utile
iniziativa» per evitare «effetti distorsivi
per la concorrenza derivanti dalla
applicazione delle nuove regole del dpr 207
del 2010 a danno delle imprese nazionali a
favore di quelle comunitarie». Peraltro
andrebbe valutato anche il fatto che effetti distorsivi sulla concorrenza si potrebbero
verificare anche all'interno del mercato
nazionale se, come risulta a ItaliaOggi,
alcune imprese si sarebbero già premurate di
acquisire le nuove certificazioni sulla base
delle nuove regole e, quindi, non avrebbero
interesse, ovviamente, a una nuova proroga.
Il problema, articolato e complesso, sembra
comunque essere all'attenzione dei tecnici
del dicastero di Porta Pia, in attesa di
soluzioni di natura politica che, a questo
punto, non dovrebbero tardare. Va infatti
ricordato che il governo, in un imminente
decreto-legge, dovrebbe emanare una delega
per riformare il sistema di qualificazione
delle imprese, e quella potrebbe essere la
sede appropriata per risolvere la questione.
Ma occorrerebbe una proroga ulteriore per
evitare il temuto blocco degli appalti. Una
vera e propria corsa contro il tempo
(articolo ItaliaOggi
del 17.05.2012). |
QUESITI &
PARERI |
ENTI LOCALI: Comodato
d'uso di beni mobili e/o dismissioni a
favore delle associazioni locali.
Previa adozione di
apposite disposizioni regolamentari, i beni
mobili che, pur funzionanti, vengono
dichiarati fuori uso dal Comune, possono
essere concessi in comodato, anche a tempo
indeterminato, oppure essere dismessi e, in
relazione al loro valore, alienati o ceduti
gratuitamente attraverso una procedura che,
nel rispetto dei princìpi della
concorrenzialità e della par condicio tra i
possibili interessati, garantisca pubblicità
e trasparenza amministrativa.
---------------
Il Comune informa che le associazioni locali
richiedono al medesimo, in comodato d'uso,
beni mobili quali computer e stampanti che,
pur funzionanti, non rispondono più alle
esigenze lavorative dell'Ente.
L'art. 53[1] dello statuto comunale dispone
che l'Ente promuove l'attività delle
associazioni, anche attraverso forme di
contribuzione diretta e ne valorizza il
ruolo di soggetti attivi della vita
amministrativa locale, rinviando ad apposito
regolamento la disciplina dell'accesso ai
finanziamenti e dell'utilizzo delle proprie
strutture.
L'Ente ha adottato il «Regolamento per la
concessione di contributi e del patrocinio
comunale», il quale prevede, tra
l'altro, forme di comodato d'uso, nonché di
'concessione di vantaggi economici la cui
assegnazione sia da considerarsi come una
partecipazione del comune stesso a
iniziative e ricorrenze di particolare
rilievo sociale, culturale, sportivo,
turistico o promozionale'.
Un tanto premesso, il Comune chiede di
conoscere:
1) se, in generale, computer/stampanti
possano essere concessi in comodato d'uso
per lunghi periodi o a tempo indeterminato;
2) se il citato regolamento consenta di
provvedere in tal senso;
3) se, in alternativa, i beni che l'Ente
ritiene non più utilizzabili, in quanto
divenuti inidonei, possano essere dismessi a
favore di un'associazione, in assenza di
regolamento.
Occorre, anzitutto, rilevare che, essendosi
il Comune dotato di una propria disciplina
regolamentare, al medesimo dovrebbe
competere l'interpretazione delle relative
disposizioni e la valutazione della
sottoposizione ad esse di concrete
fattispecie.
Ciò nonostante, in via collaborativa, si
espongono alcune considerazioni di carattere
generale, con l'auspicio di poter coadiuvare
l'Ente nell'assunzione delle proprie
determinazioni relativamente alle questioni
poste.
Circa il quesito n. 1, si rende necessario
premettere che il comodato -la cui
disciplina si rinviene negli articoli da
1803 a 1812 cod. civ.- è il contratto,
essenzialmente gratuito, con il quale una
parte consegna all'altra una cosa mobile o
immobile, affinché se ne serva per un tempo
o per un uso determinato, con l'obbligo di
restituire la stessa cosa ricevuta[2].
Il comodatario è tenuto a restituire la cosa
alla scadenza del termine convenuto o, se
questo non è stato fissato, quando se ne è
servito conformemente alle previsioni
contrattuali. Tuttavia, se durante il
termine convenuto o prima che il comodatario
abbia cessato di servirsi della cosa, il
comodante che ne abbia un urgente ed
imprevisto bisogno, può pretenderne la
restituzione immediata[3].
Se le parti non hanno concordato un termine,
né questo si evince dall'uso a cui la cosa
doveva essere destinata, il comodatario ha
l'obbligo di restituirla a semplice
richiesta del comodante[4].
Per quanto attiene alla durata del comodato,
si rileva che la giurisprudenza più recente
afferma che:
- la convenzione negoziale priva di termine
integra la fattispecie del cd. comodato
precario, caratterizzato dalla circostanza
che la determinazione del termine di
efficacia del 'vinculum iuris'
costituito tra le parti è rimesso in via
potestativa alla sola volontà del comodante,
che ha facoltà di manifestarla 'ad nutum'
con la semplice richiesta di restituzione
del bene[5];
- il termine finale può risultare dall'uso
cui la cosa deve essere destinata, in quanto
tale uso abbia in sé connaturata una durata
predeterminata nel tempo[6]; in mancanza di
tale destinazione, invece, l'uso del bene
viene a qualificarsi a tempo indeterminato,
sicché il comodato deve intendersi a titolo
precario e, perciò, revocabile 'ad nutum'
da parte del proprietario[7].
Quanto al quesito n. 2, risulta necessario
chiarire che il regolamento adottato
dall'Ente -finalizzato a valorizzare e
promuovere le libere forme associative
esistenti sul territorio comunale[8]-
dovrebbe disciplinare «i criteri[9] e le
modalità con i quali il Comune, ai sensi
dell'art. 12 L. 241/1990, determina
l'attribuzione di vantaggi economici
comunque denominati per il sostegno di
attività ed iniziative nei vari settori di
intervento»[10].
A tale riguardo, il regolamento contempla
varie forme di intervento, fra le quali
figurano le «concessioni in uso di beni
mobili di proprietà comunale»[11],
disciplinate dall'art. 5, il quale dispone,
in particolare, che:
- «Oltre o in alternativa agli interventi
previsti dal presente regolamento, previa
richiesta scritta degli organizzatori e
verifica della disponibilità delle
attrezzature richieste nonché della
possibilità di ricorrere alla collaborazione
tecnica del personale comunale, il Comune
concede in uso beni mobili di proprietà
comunale, quali pedane, transenne, palchi,
impianti audio e luci, piante ornamentali,
trabattelli, canaline passacavi, pannelli
espositivi, panche, sedie, tavoli, etc..»[12];
- «Nell'atto di concessione verranno
stabiliti le modalità e i termini di
consegna e di riconsegna dei beni,
precisando che l'organizzatore sarà ritenuto
direttamente responsabile degli eventuali
danni accertati al momento del ritiro da
parte del personale comunale o anche
successivamente se si verifica che il
danneggiamento è avvenuto durante il periodo
in cui i beni erano sotto la custodia e
vigilanza dell'organizzatore stesso.»[13].
Sebbene la prima delle predette previsioni,
stante la tipologia dei beni indicati, possa
sembrare riferita ad eventi specifici
(iniziative, manifestazioni e ricorrenze
particolari) e non già all'ordinaria
gestione delle attività delle associazioni
locali, la sua ampia formulazione e la
presumibile esemplificazione (e non
tassatività) dei beni elencati potrebbe
anche consentire di ritenere che a tale
norma possa ricondursi l'intervento
prospettato nel quesito.
In caso contrario, si reputa che l'Ente non
possa provvedere ad assegnare in comodato i
beni oggetto di quesito, in assenza di
un'espressa previsione regolamentare in
merito.
Infine, con riferimento al quesito n. 3, si
rappresenta che anche la dismissione di beni
appartenenti al patrimonio comunale non può
avere luogo in assenza di apposite
disposizioni regolamentari.
Occorre chiarire che i beni dichiarati fuori
uso dall'Ente, se ancora funzionanti,
dovrebbero formare oggetto di alienazione,
attraverso una procedura che, nel rispetto
dei princìpi della concorrenzialità e della
par condicio tra i possibili interessati,
garantisca pubblicità e trasparenza
amministrativa.
Tuttavia, ad evitare l'attivazione di
procedure che, rispetto al ricavato atteso
dalla vendita del bene, si rivelino
antieconomiche, si ritiene che possa essere
fissato, nell'apposito regolamento, un
limite di valore al di sotto del quale il
bene può essere alienato a seguito di
procedura negoziata o addirittura ceduto
gratuitamente a coloro che ne abbiano fatto
richiesta, stabilendo eventualmente delle
priorità (ad esempio in favore di
associazioni) e dei criteri per la stesura
di apposite graduatorie.
---------------
[1] Ai sensi del quale: «1. Il Comune
promuove l'attività delle associazioni
inserite nell'albo anche attraverso forme di
contribuzione diretta e ne valorizza il
ruolo di soggetti attivi della vita
amministrativa locale.
2. A tale scopo, per la propria
programmazione, il Comune con apposito
regolamento prevede la consultazione,
l'accesso ai finanziamenti e l'utilizzo
delle proprie strutture».
[2] V. art. 1803 («Nozione») cod. civ..
[3] V. art. 1809 («Restituzione») cod. civ.
[4] V. art. 1810 («Comodato senza
determinazione di durata») cod. civ..
[5] V. Cass. civ. - Sez. III, 07.07.2010, n.
15986.
[6] Sul punto, la Cass. civ. - Sez. II,
23.05.1992, n. 6213, aveva già affermato
che, dalla dichiarata indicazione dell'uso
al quale la cosa data in comodato è
destinata, non può desumersi l'apposizione
di un termine di durata del contratto, se
questo non è connaturato alla particolare
destinazione del bene.
[7] V. Cass. civ. - Sezz. UU., 09.02.2011,
n. 3168 e Sez. VI, 11.03.2011, n. 5907. Si
veda anche Cass. civ. - Sez. III,
16.04.2003, n. 6101, secondo la quale nel
contratto di comodato, caratterizzato dalla
temporaneità d'uso, la mancanza di un
termine finale direttamente previsto dalle
parti non autorizza il comodante a
richiedere 'ad nutum' la restituzione della
cosa, laddove risulti possibile individuare
un'indiretta determinazione di durata
attraverso la delimitazione dell'uso
consentito della cosa, ricavabile dalla
natura di questa, dall'esame degli interessi
e dalle utilità perseguite dai contraenti.
[8] V. art. 1, primo comma.
[9] Si osserva che l'articolato di cui
trattasi non sembra, invero, indicare i
criteri oggettivi in base ai quali sia
possibile stilare una graduatoria e/o
stabilire l'entità dei benefici da erogare
ai vari richiedenti.
[10] V. art. 2, primo comma. Il terzo comma
della disposizione prevede, poi, che
«L'osservanza dei criteri e delle modalità
stabilite con il presente regolamento
costituisce condizione necessaria per la
legittimità degli atti con i quali vengono
disposti la concessione del patrocinio e
l'erogazione di contributi da parte del
Comune.».
[11] V. art. 3, primo comma, lett. b..
[12] V. art. 5, primo comma.
[13] V. art. 5, secondo comma
(08.05.2012 - link a
www.regione.fvg.it). |
APPALTI - INCARICHI PROGETTUALI: Contratti
pubblici. Regime documento unico di
regolarità contributiva e irregolarità
contributiva verso INARCASSA.
La normativa vigente
definisce il documento unico di regolarità
contributiva (DURC) quale certificato che
attesta contestualmente la regolarità di un
operatore economico per quanto concerne gli
adempimenti, specificamente, INPS, INAIL,
nonché cassa edile per i lavori, verificati
sulla base della rispettiva normativa di
riferimento e statuisce l'intervento
sostitutivo della stazione appaltante
espressamente nei confronti di detti
istituti previdenziali in caso di
inadempienza contributiva dell'esecutore e
del subappaltatore accertata con il DURC
(art. 4, comma 2, D.P.R. n. 207/2010).
In considerazione della specificità della
norma richiamata ed in assenza, altresì, di
indicazioni da parte delle autorità
competenti che in qualche modo estendano
l'ambito dell'intervento sostitutivo, ivi
previsto, sembra non potersi sostenere una
sua applicazione, per analogia, all'ipotesi
di irregolarità contributiva verso INARCASSA.
---------------
L'Ente riferisce di dover procedere alla
liquidazione del saldo del corrispettivo
spettante ad un professionista incaricato
della direzione di lavori pubblici, di cui
ha accertato l'irregolarità contributiva
INARCASSA; chiede, dunque, l'Ente se debba
essere applicato, per analogia, il dettato
normativo di cui all'articolo 4, commi 2 e
3, del D.P.R. n. 207/2010, in materia di
intervento sostitutivo della stazione
appaltante, in caso di inadempienza
contributiva, precisando che il
professionista non ha dipendenti.
Sentito il Servizio lavori pubblici, della
Direzione centrale infrastrutture, mobilità,
pianificazione territoriali e lavori
pubblici, si esprimono le seguenti
considerazioni.
Le norme cui fa riferimento l'Ente
concernono la materia della regolarità
contributiva, a tutela dei lavoratori, in
particolare il regime del Documento unico di
regolarità contributiva (DURC).
L'art. 6, D.P.R. n. 207/2010, definisce il
documento unico di regolarità contributiva,
quale certificato che attesta
contestualmente la regolarità di un
operatore economico per quanto concerne gli
adempimenti, specificamente, INPS, INAIL,
nonché cassa edile per i lavori, verificati
sulla base della rispettiva normativa di
riferimento.
La medesima norma disciplina, inoltre, ai
commi 3 e 4, le fasi in cui le
amministrazioni aggiudicatrici acquisiscono
d'ufficio il documento unico di regolarità
contributiva in corso di validità[1]: per la
verifica della dichiarazione sostitutiva
relativa al requisito di cui all'art. 38,
comma 1, lett. i), D.Lgs. n. 163/2006[2];
per l'aggiudicazione del contratto; per la
stipula del contratto; per il pagamento
degli stati avanzamento lavori o delle
prestazioni relative a servizi e forniture;
per il certificato di collaudo, di regolare
esecuzione, di verifica di conformità, per
l'attestazione di regolare esecuzione e per
il pagamento del saldo finale (art. 6, comma
3, D.P.R n. 207/2010)[3].
Il comma 2, dell'art. 4, D.P.R. n. 207/2010,
dispone che, qualora, nelle ipotesi di cui
ai commi 3 e 4 del richiamato art. 6, il
DURC acquisito riveli un'inadempienza
contributiva relativa a uno o più soggetti
impiegati nell'esecuzione del contratto, le
amministrazioni aggiudicatrici trattengono
dal certificato di pagamento l'importo
corrispondente all'inadempienza, e
dispongono il pagamento di quanto dovuto
direttamente agli enti previdenziali e
assicurativi.
Il successivo comma 3 prevede, inoltre, in
ogni caso, delle ritenute dello 0,50%
sull'importo netto progressivo delle
prestazioni, che possono essere svincolate
soltanto in sede di liquidazione finale,
previo rilascio del documento unico di
regolarità contributiva.
Ciò premesso e venendo al caso di specie
riguardante l'applicazione, o meno, in via
analogica, della previsione di cui all'art.
4, comma 2, D.P.R. n. 207/2010, relativa
all'intervento sostitutivo
dell'amministrazione aggiudicatrice, al caso
di irregolarità contributiva accertata
specificamente verso INARCASSA, Cassa
Nazionale di Previdenza ed Assistenza per
gli Ingegneri ed Architetti Liberi
Professionisti, si esprime quanto segue.
Per gli appalti di servizi attinenti
all'ingegneria ed all'architettura, la
vigente normativa impone la verifica della
regolarità contributiva in relazione alla
fase di affidamento dell'incarico (art. 90,
comma 7, D.Lgs. n. 163/2006), senza recare
ulteriori disposizioni per l'intervento
sostitutivo della stazione appaltante in
caso di inadempienza contributiva.
In considerazione della specificità della
previsione di cui all'art. 4, comma 2,
D.P.R. n. 207/2010, statuente l'intervento
sostitutivo dell'amministrazione
aggiudicatrice espressamente nel caso di
irregolarità contributiva verso INPS, INAIL
e cassa edile per i lavori, ed in assenza,
altresì, di indicazioni da parte delle
autorità competenti che in qualche modo
estendano l'ambito di detto intervento
sostitutivo, sembra non potersi sostenere
una sua applicazione, per analogia,
all'ipotesi di irregolarità contributiva
verso INARCASSA.
Per completezza di analisi, si segnala che
l'irregolarità contributiva verso INARCASSA
può avere delle conseguenze per i pagamenti
da effettuare da parte delle pubbliche
amministrazioni, in relazione all'importo e
qualora INARCASSA si sia attivata per la
riscossione dei contributi insoluti. L'art.
48-bis, D.P.R. n. 602/1973, introdotto
dall'art. 2, comma 9, D.L. n. 262/2006,
convertito, con modificazioni, in L. n.
286/2006, stabilisce, infatti, che 'le
amministrazioni pubbliche e le società a
prevalente partecipazione pubblica, prima di
effettuare, a qualunque titolo, il pagamento
di un importo superiore a diecimila euro,
verificano, anche in via telematica, se il
beneficiario è inadempiente all'obbligo di
versamento derivante dalla notifica di una o
più cartelle di pagamento per un ammontare
complessivo pari almeno a tale importo e, in
caso affermativo, non procedono al pagamento
e segnalano la circostanza all'agente della
riscossione competente per territorio, ai
fini dell'esercizio dell'attività di
riscossione delle somme iscritte a ruolo'[4].
---------------
[1] Il ministero del lavoro della salute
e delle politiche sociali, nel ricordare
che, ai sensi dell'art. 2, D.M. 24.10.2007,
il DURC è rilasciato dall'INPS e dall'INAIL
'e, previa convenzione con i predetti Enti,
dagli altri Istituti previdenziali che
gestiscono forme di assicurazione
obbligatoria', ha chiarito che, per i
lavoratori eventualmente iscritti presso
enti previdenziali diversi dall'INPS e dall'NAIL,
nelle more della stipulazione della predetta
convenzione, la certificazione attestante la
regolarità contributiva andrà richiesta
direttamente a tali Enti, tenuti a
rilasciarla (Cfr.: MLPS interpello n.
9/2009).
[2] La norma richiamata richiede per i
soggetti che partecipano alle procedure di
affidamento delle concessioni e degli
appalti di lavori, forniture e servizi, pena
esclusione, il non aver commesso violazioni
gravi, definitivamente accertate, alle norme
in materia di contributi previdenziali e
assistenziali, secondo la legislazione
italiana o dello Stato in cui sono
stabiliti.
[3] Il comma 4, dell'art. 6, D.P.R. n.
207/2010, prevede che, ferme restando le
ipotesi di acquisizione del DURC per la
stipula del contratto e per il pagamento
degli stati avanzamento lavori o delle
prestazioni relative a servizi e forniture,
'qualora tra la stipula del contratto e il
primo stato di avanzamento dei lavori di cui
all'art. 194, o il primo accertamento delle
prestazioni effettuate relative a forniture
e servizi di cui all'art. 307, comma 2,
,ovvero tra due successivi stati di
avanzamento dei lavori o accertamenti delle
prestazioni effettuate relative a forniture
e servizi, intercorra un periodo superiore a
centottanta giorni, le amministrazioni
aggiudicatrici acquisiscono il documento
unico di regolarità contributiva relativo
all'esecutore ed ai subappaltatori entro i
trenta giorni successivi alla scadenza dei
predetti centottanta giorni; entro il
medesimo termine, l'esecutore ed i
subappaltatori trasmettono il documento
unico di regolarità contributiva ai soggetti
di cui all'articolo 3, comma 1, lettera b),
che non sono un'amministrazione
aggiudicatrice'.
[4] Si ricorda che a norma dell'art. 17, L.
n. 6/1981, Norme in materia di previdenza
per gli ingegneri e gli architetti,
INARCASSA ha facoltà di procedere alla
riscossione dei contributi insoluti, delle
sanzioni e dei relativi interessi a mezzo
ruoli da essa compilati e resi esecutivi
dalla intendenza di finanza competente per
territorio e da porre in riscossione secondo
le norme previste per la riscossione delle
imposte dirette
(07.05.2012 - link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: D.Lgs.
267/2000, art. 79. Permessi agli
amministratori.
Il datore di lavoro
non può esercitare alcuna valutazione
sull'opportunità o meno dei permessi
spettanti agli amministratori locali ai
sensi dell'art. 79 del D.Lgs. 267/2000, ma
può solo verificare che l'attestazione
dell'Ente ove il dipendente svolge il
mandato corrisponda ai giorni per i quali i
permessi sono stati chiesti e che si tratti
di attività inerente al mandato.
Il Ministero dell'Interno ha precisato che
le assenze vanno tempestivamente comunicate
dal dipendente all'ufficio di appartenenza,
per consentire allo stesso di contemperare
le esigenze di servizio con gli impegni dei
dipendenti connessi al mandato
amministrativo.
----------------
Il Comune ha chiesto un parere in ordine
alla possibilità di negare la fruizione dei
permessi previsti dall'articolo 79 del
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, o di
intervenire sulla scelta delle giornate e
delle ore di utilizzo, ad un dipendente che
riveste la carica di assessore presso un
altro Comune.
L'articolo 51 della Costituzione sancisce il
diritto di tutti i cittadini ad accedere
alle cariche pubbliche in condizioni di
eguaglianza e garantisce la possibilità di
disporre del tempo necessario per
esercitarle.
In attuazione di tale principio, l'articolo
81 del D.Lgs. 267/2000 prevede, qualora gli
eletti ritengano di usufruirne, il
collocamento in aspettativa per tutta la
durata del mandato, mentre l'articolo 79
stabilisce, per coloro che non intendono
fruire dell'aspettativa, il diritto di
assentarsi dal servizio con le modalità ivi
previste.
In particolare, i componenti delle giunte
comunali hanno diritto di assentarsi dal
servizio per partecipare alle riunioni degli
organi di cui fanno parte per la loro
effettiva durata, comprendendo il tempo
necessario per raggiungere il luogo della
riunione e rientrare al posto di lavoro
(art. 79, comma 3). Possono, inoltre,
usufruire di 24 ore lavorative al mese di
permesso retribuito, nonché di ulteriori 24
ore mensili di permesso non retribuito
qualora risultino necessari per
l'espletamento del mandato (commi 4 e 5).
Come ha precisato il Consiglio di Stato[1],
la legge attribuisce all'amministratore un
diritto potestativo, il cui esercizio non
può essere condizionato dal datore di lavoro
da cui dipende l'eletto. A fronte di tale
diritto non si rinviene alcun potere del
datore di lavoro di comprimerne l'esercizio
per ragioni attinenti all'organizzazione del
servizio restando a carico del lavoratore
solo l'onere della previa comunicazione
dell'assenza e della sua causa
giustificatrice. Al datore di lavoro,
infatti, spetta organizzare le sostituzioni
in modo che la funzione amministrativa non
soffra, assegnando, ove possibile, al
dipendente incarichi che non richiedano la
rigorosa continuità di presenza.
Ai sensi del comma 6 dell'articolo 79,
l'amministratore dovrà documentare
prontamente e puntualmente, mediante
attestazioni dell'Ente, l'attività ed i
tempi di espletamento del mandato, per i
quali chiede ed ottiene i permessi.
Ciò significa che, come ulteriormente
precisato dal Consiglio di Stato, il datore
di lavoro non può esercitare alcuna
valutazione sull'opportunità o meno del
permesso, ma può solo verificare che
l'attestazione dell'Ente corrisponda ai
giorni per i quali i permessi sono stati
chiesti e che si tratti di attività inerente
al mandato.
A mero titolo collaborativo, potrà essere
richiesta al dipendente una programmazione
di massima che peraltro non costituirà alcun
tipo di vincolo alla fruizione dei permessi
in argomento.
A tal proposito, il Ministero
dell'Interno[2] si è espresso, nel senso di
ritenere che le assenze in argomento «vadano
tempestivamente comunicate dal dipendente
all'ufficio di appartenenza, per consentire
allo stesso di contemperare le esigenze di
servizio con gli impegni dei dipendenti
connessi al mandato amministrativo»,
richiamando quanto espresso a suo tempo dal
Consiglio di Stato[3], che aveva ribadito «come
il dipendente non possa esimersi dal
comunicare almeno le presumibili assenze in
un determinato periodo, in relazione al
calendario dei lavori dell'organo di cui sia
stato chiamato a far parte al fine di
giustificare le assenze dal servizio».
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[1] Parere, sezione II, 07.05.1997, n.
1717/1996. Si veda inoltre Consiglio di
Stato, sezione VI, sentenza 24.05.2000, n.
2997.
[2] Dipartimento per gli affari interni e
territoriali, pareri 21.03.2009 e
10.02.2010, consultabili presso il relativo
sito internet.
[3] Consiglio di Stato, sezione VI,
decisione n. 103/1988
(20.04.2012 - link a
www.regione.fvg.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Personale
degli enti locali. Permessi assistenza.
Ai sensi del disposto
dell'art. 19, comma 6, del CCNL del
06.07.1995, i permessi di cui all'art. 33,
comma 3, della l. 104/1992, possono essere
fruiti anche ad ore, nel limite massimo di
18 ore mensili.
---------------
Il Comune ha chiesto un parere in ordine
alla possibilità di far fruire, al personale
dipendente, i permessi per assistenza
disciplinati dall'art. 33, comma 3, della l.
104/1992, in sei mezze giornate, in
alternativa ai tre giorni mensili spettanti
alla luce della citata norma.
Com'è noto, la richiamata disposizione
prevede che, a condizione che la persona
handicappata non sia ricoverata a tempo
pieno, il lavoratore dipendente, pubblico e
privato, che assista persona con handicap in
situazione di gravità, coniuge, parente o
affine entro il secondo grado, ovvero entro
il terzo grado qualora i genitori o il
coniuge della persona abbiano compiuto i
sessantacinque anni di età oppure siano
anche essi affetti da patologie invalidanti
o siano deceduti o mancanti, ha diritto a
fruire di tre giorni di permesso mensile
retribuito coperto da contribuzione
figurativa, anche in maniera continuativa.
Tale previsione di legge è stata
successivamente integrata da specifica norma
contrattuale[1], che ha espressamente
disposto che i permessi di cui all'art. 33,
comma 3, della l. 104/1992 possono essere
fruiti anche ad ore, nel limite massimo di
18 ore mensili.
Pertanto, il dipendente, alternativamente
alla fruizione di tre giorni di permesso
mensili, può chiedere di fruire degli stessi
in modo frazionato nel limite massimo di ore
stabilito dalla contrattazione
collettiva[2].
Alla luce di quanto sopra esposto, non si
ritiene quindi possibile la modalità di
fruizione nell'articolazione prospettata
dall'Ente, in quanto si verrebbe a superare
il monte ore massimo stabilito
tassativamente per la fruizione ad ore.
---------------
[1] Cfr. art. 19, comma 6, del CCNL del
06.07.1995, tuttora applicabile agli enti
locali della Regione Friuli Venezia Giulia,
in virtù di quanto disposto dall'art. 83 del
CCRL del 07.12.2006.
[2] Cfr. circolare n. 8/2008 del
Dipartimento della funzione pubblica, in cui
si specifica che in alcuni contratti
collettivi, per venire incontro alle
esigenze dei lavoratori che prestano
assistenza, è stato stabilito che tali
permessi giornalieri possono essere fruiti
anche in maniera frazionata, cioè ad ore, ed
è stato fissato il contingente massimo di
ore 18. Vedasi anche circolare INPS n. 45
dell'01.03.2011
(30.03.2012 - link a
www.regione.fvg.it). |
APPALTI: Intervento
sostitutivo della stazione appaltante in
caso di inadempienza contributiva
dell'esecutore e del subappaltatore.
Presupposti di applicabilità dell'art. 4,
comma 3, del DPR 207/2010.
---------------
L'articolo 4, comma 3,
del Regolamento di attuazione del Codice dei
contratti stabilisce che la stazione
appaltante opera una ritenuta pari allo 0,50
per cento sull'importo netto progressivo
delle prestazioni, la quale può essere
svincolata in sede di liquidazione finale,
previo rilascio del DURC.
Si ritiene che la norma vada interpretata
letteralmente, e che quindi la ritenuta
debba essere effettuata 'In ogni caso', e
non solo a fronte di una irregolarità
contributiva certificata attraverso DURC
negativo.
---------------
Il Comune, con riferimento al parere prot.
n. 4770 dd. 08.02.2012[1] espresso da questo
Servizio, chiede un chiarimento in relazione
all'applicabilità dell'art. 4, comma 3, del
decreto del Presidente della Repubblica
05.10.2010, n. 207[2], rubricato 'Intervento
sostitutivo della stazione appaltante in
caso di inadempienza contributiva
dell'esecutore e del subappaltatore (art. 7,
D.M. LL.PP. n. 145/2000)'.
L'art. 4, comma 3, del d.P.R. 207/2010
dispone che: 'In ogni caso sull'importo
netto progressivo delle prestazioni è
operata una ritenuta dello 0,50 per cento;
le ritenute possono essere svincolate
soltanto in sede di liquidazione finale,
dopo l'approvazione da parte della stazione
appaltante del certificato di collaudo o di
verifica di conformità, previo rilascio del
documento unico di regolarità contributiva'.
Tale comma è inserito, come detto, nell'art.
4, dove si forniscono indicazioni alle
stazioni appaltanti sulle azioni da
intraprendere in caso di certificata
inadempienza contributiva da parte degli
esecutori/subappaltatori. Infatti, al
precedente comma 2 è stabilito che, a fronte
di un DURC negativo, il responsabile del
procedimento deve trattenere dal certificato
di pagamento l'importo corrispondente
all'inadempienza e versarlo agli enti
previdenziali ed assicurativi e, per i
lavori, alla cassa edile.
Il dubbio sollevato dall'Ente instante è se
la ritenuta dello 0,50 per cento vada
operata solo in caso di certificazione
negativa, secondo un'interpretazione
sistematica del comma 3 alla luce del
disposto di cui al comma 2, oppure se operi
comunque, in base al dettato letterale 'In
ogni caso'.
Atteso che la norma dispone che lo svincolo
delle somme avvenga durante la sola fase
della liquidazione finale, la questione
assume particolare rilevanza per quanto
attiene agli appalti di forniture e servizi,
ove il corrispettivo può essere liquidato
con periodicità anche mensile.
Occorre preliminarmente considerare che in
sede di emanazione del regolamento si è
voluto estendere anche agli appalti di
servizi e forniture la vigente disciplina
della tutela dei lavoratori (di cui all'art.
7 del decreto del Ministero dei lavori
pubblici 19.04.2000, n. 145[3], recante il
capitolato generale d'appalto dei lavori
pubblici), che già prevedeva la ritenuta
dello 0,50 per cento. Si spiega così il
riferimento allo svincolo in sede di
pagamento finale (ancorché tipico dei
lavori), che peraltro ha già sollevato
perplessità in alcuni commentatori[4].
Ciononostante, pare potersi affermare che lo
svincolo delle ritenute sia possibile solo
in sede di liquidazione finale, intesa come
fase conclusiva del rapporto contrattuale, e
quindi successivamente all'approvazione del
certificato di collaudo o della verifica di
conformità, e sempre in presenza di DURC
regolare. Il riferimento all''importo netto
progressivo' parrebbe invece riferibile a
tutti i pagamenti intermedi, su cui andrebbe
operata, pertanto, la ritenuta[5].
La formulazione della norma, laddove si dice
che tale ritenuta va effettuata 'In ogni
caso' lascerebbe poi intendere che la
disposizione si applica a tutti i contratti,
e non solo nella circostanza in cui il
responsabile del procedimento acquisisca un
DURC negativo (come si potrebbe invece
desumere dalla collocazione della stessa
norma nell'art. 4, relativo all'inadempienza
contributiva dell'esecutore).
A conferma di questa tesi è opportuno
richiamare la circolare 3/2012 del Ministero
del lavoro e delle politiche sociali,
relativa proprio ai commi 2 e 3 dell'art. 4
del d.P.R. 207/2010.
In particolare, il Ministero osserva che 'Sotto
un profilo operativo, va anzitutto
evidenziato che la trattenuta (di cui al
comma 2, ndr) da parte della stazione
appaltante delle somme dovute
all'appaltatore va effettuata
successivamente alle ritenute indicate dal
comma 3 dell'articolo 4 (...)'.
Sembra, pertanto, che la ritenuta dello 0,50
per cento debba essere effettuata sempre e
comunque. Invece la trattenuta
corrispondente all'inadempienza va operata
soltanto, appunto, qualora il DURC segnali
la posizione contributiva irregolare da
parte di uno o più soggetti impiegati
nell'esecuzione del contratto.
---------------
[1] Il parere è reperibile sul sito:
http://autonomielocali.regione.fvg.it/aall/opencms/AALL/Servizi/pareri/
[2] Recante il Regolamento di esecuzione ed
attuazione del decreto legislativo
12.04.2006, n. 163, noto come Codice dei
contratti.
[3] Articolo abrogato proprio per mezzo
dell'art. 358, comma 1, lettera e) del
regolamento di attuazione del Codice dei
contratti, con decorrenza 08.06.2011.
[4] Si veda, ad esempio, l'articolo del
13.12.2010 'Nuovo regolamento: la ritenuta
dello 0,50 % anche per servizi e forniture'
su www.appaltiecontratti.it
[5] Si veda il citato parere prot. n. 4770
dell'08.02.2012
(28.03.2012 - link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Delega
del Sindaco al Consigliere.
A fronte della necessità
di mantenere separate le funzioni di
indirizzo affidate al consiglio e quelle
esecutive riservate alla giunta, il sindaco
non può conferire ai componenti del
consiglio l'esercizio di funzioni
amministrative di governo dell'ente, aventi
rilevanza esterna.
---------------
Il Comune chiede di conoscere se, affinché
il Sindaco possa legittimamente delegare
funzioni in materie sue proprie o di altri
assessori ad un Consigliere, senza poteri di
firma a rilevanza esterna, siano sufficienti
le norme presenti nello statuto dell'Ente,
che dispongono un potere di delega, in via
generale, ovvero le stesse vadano integrate
con la specificazione che la delega è
revocabile in ogni momento, senza obbligo di
motivazione e anche per mere ragioni di
opportunità, decade con la fine del mandato
del delegante e afferisce a particolari
attribuzioni del Sindaco medesimo o degli
assessori, inerenti a specifiche attività o
servizi senza poteri di firma con rilevanza
esterna, restando comunque in capo al
titolare preposto le funzioni di indirizzo e
di coordinamento.
Esaminato il quadro normativo di
riferimento, si formulano le seguenti
osservazioni, precisando che non compete
allo scrivente ufficio esprimersi in ordine
alla legittimità/opportunità degli atti
normativi degli enti locali quali, nel caso
di specie, lo statuto comunale.
Con riferimento ai contenuti degli statuti
degli enti locali nella nostra Regione si
applica, in forza della speciale autonomia
riconosciutale, l'articolo 12, comma 2,
della L.R. n. 1/2006, il quale espressamente
prevede: 'Lo statuto, in armonia con la
Costituzione e con l'osservanza dei principi
fissati dalla legislazione regionale in
materia di elezioni, organi di governo e
funzioni fondamentali, nonché in materia di
organizzazione pubblica, stabilisce i
principi di organizzazione e funzionamento
dell'ente, le forme di controllo, anche
sostitutivo, le garanzie delle minoranze, le
forme di partecipazione popolare, nonché le
condizioni per assicurare pari opportunità
tra uomo e donna anche in ordine alla
presenza negli organi collegiali dell'ente'.
Quanto alla materia oggetto del quesito
(attribuzioni del sindaco) trovano
applicazione le norme previste dal testo
unico degli enti locali di cui al D.Lgs.
267/2000. Non si ritiene, tuttavia, di
condividere l'affermazione che individua
nell'articolo 54 TUEL il fondamento di un
generale potere di delega da parte del
Sindaco ai consiglieri. Detta norma,
infatti, concerne esclusivamente una
specifica fattispecie relativa alla
delegabilità dell'esercizio di funzioni di
competenza statale.
Il D.Lgs. n. 267/2000, distingue le funzioni
spettanti agli organi di governo dell'ente
locale attribuendo al consiglio comunale la
funzione di indirizzo e controllo
politico-amministrativo (art. 42), alla
giunta principalmente compiti di
collaborazione con il sindaco nella gestione
del comune (art. 48) e al sindaco la
responsabilità e la rappresentanza dell'ente
(art. 50).
A fronte della necessità di mantenere
separate le funzioni di indirizzo affidate
al consiglio e quelle esecutive riservate
alla giunta, è comune opinione, supportata
dalla giurisprudenza, che il sindaco non
possa conferire ai componenti del consiglio
l'esercizio di funzioni amministrative di
governo dell'ente, aventi conseguentemente
rilevanza esterna. La normativa attuale,
infatti, impone la separazione dei ruoli tra
organo esecutivo e organo consiliare,
attribuendo a quest'ultimo le funzioni di
indirizzo politico-amministrativo e di
controllo sull'attività dell'ente.
Il consigliere quindi non può essere
chiamato a gestire direttamente un settore
dell'amministrazione per conto del Sindaco
perché si troverebbe contemporaneamente
nella posizione di controllato (in quanto
consigliere delegato) e di controllore (in
quanto consigliere).
In particolare, secondo la
giurisprudenza[1], lo statuto, fatto salvo
il rispetto dei principi e precetti
legislativi in materia di organizzazione
degli enti locali, può prevedere la
delegabilità da parte del sindaco ad un
consigliere di alcune competenze, che non
comportino l'adozione di atti a rilevanza
esterna e compiti di amministrazione attiva,
limitate ad approfondimenti collaborativi
per l'esercizio diretto delle predette
funzioni da parte del sindaco che ne è
titolare.
Pertanto, il potere di delega, previsto in
via generale nello statuto dell'Ente, pur
non dettagliato in conformità alle
prescrizioni normative e giurisprudenziali
innanzi esplicitate, potrà essere
esercitato, nei confronti dei consiglieri,
unicamente con i limiti sopra evidenziati.
In sostanza quindi, una modifica statutaria
nei termini prospettati dal Comune potrebbe
risultare utile al fine di evitare il
sorgere di singole questioni interpretative
della norma statutaria stessa, in ordine
all'ampiezza dei poteri di delega nei casi
concreti, purché venga data evidenza al
fatto che la delega in questione, lungi dal
riguardare specifiche funzioni/attribuzioni
di competenza del Sindaco, concerne lo
svolgimento di mere attività di
collaborazione.
---------------
[1] Così, TAR Toscana, sentenza n.
1248/04 del 27.04.2004
(13.03.2012 - link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Conflitto
di interessi di un amministratore locale.
Nei confronti di un
consigliere comunale che ha assunto la
difesa legale, in qualità di avvocato di
parte, di un dipendente a cui carico è stato
instaurato, da parte della medesima
amministrazione comunale, un procedimento
disciplinare non sussiste alcuna causa di
incompatibilità disciplinata dalla legge.
Lo stesso dovrà, invece, astenersi dal
prendere parte alle delibere afferenti il
procedimento disciplinare in corso od altri
che venissero eventualmente instaurati tra
il Comune e il dipendente difeso
dall'amministratore locale.
---------------
Il Comune chiede di conoscere un parere in
merito alla sussistenza di una causa di
incompatibilità o di un conflitto di
interessi per un consigliere comunale che ha
assunto la difesa di un dipendente comunale
a cui carico è stato instaurato, da parte
della medesima amministrazione comunale, un
procedimento disciplinare. Precisa,
ulteriormente, l'Ente che il Comune
potrebbe, altresì, costituirsi parte civile
in un eventuale procedimento giudiziario che
venisse instaurato, parallelo a quello
disciplinare.
Con riferimento alla fattispecie in esame
pare non venga in rilevo alcuna causa di
incompatibilità disciplinata dalla legge, e,
in particolare, dal decreto legislativo
18.08.2000, n. 267, articoli 60 e 63.
Al riguardo si ricorda, come evidenziato dal
Ministero dell'Interno[1], che le
ineleggibilità e le incompatibilità non
possono essere estese al di là dell'espressa
previsione di legge, trattandosi di
disciplina in ordine alla quale non è
possibile operare alcuna estensione
analogica. Ciò in considerazione del
carattere tassativo e di stretto rigore che
caratterizza le norme limitative in tema di
esercizio delle cariche pubbliche elettive,
alla luce della riserva di legge posta in
materia dall'art. 51 della Costituzione.
La giurisprudenza e la dottrina sono
concordi nel ritenere che le cause di
ineleggibilità o di incompatibilità, in
quanto limitative del diritto di elettorato
passivo garantito dall'art. 51 Cost., hanno
carattere tassativo e non possono quindi
essere applicate a situazioni non
espressamente previste[2].
La fattispecie che potrebbe, ad una prima
analisi, essere presa in considerazione è
quella di cui all'articolo 63, comma 1, num.
4) secondo cui non può ricoprire la carica
di consigliere comunale colui che ha lite
pendente, in quanto parte di un procedimento
civile od amministrativo, con il comune.
Come chiarito anche dalla giurisprudenza,
l'espressione 'essere parte di un
procedimento' va intesa in senso tecnico,
per cui la pendenza di una lite va accertata
con riferimento alla qualità di parte in
senso processuale. Recita la sentenza del
19.05.2001, n. 6880 della Corte di
Cassazione: 'Ai fini della sussistenza
della causa d'incompatibilità per lite
pendente tra i sindaco ed il comune, deve
farsi riferimento alla nozione di «parte in
giudizio» nell'accezione tecnico-processuale'.
L'avvocato non è parte del processo, bensì
agisce in forza di un rapporto di
rappresentanza con il proprio assistito;
egli agisce in giudizio in nome e per conto
della parte rappresentata.[3]
Ragioni di opportunità potrebbero, tuttavia,
consigliare all'amministratore locale di non
assumere una tale difesa legale.[4]
Esclusa la sussistenza di specifiche cause
di incompatibilità, una diversa norma da
prendere in considerazione è quella di cui
all'articolo 78, comma 2, TUEL ai sensi
della quale: 'Gli amministratori [...]
devono astenersi dal prendere parte alla
discussione ed alla votazione di delibere
riguardanti interessi propri o di loro
parenti o affini sino al quarto grado'.
Si ritiene che tutte le volte in cui l'Ente
debba assumere decisioni afferenti il
procedimento disciplinare in corso od altri
che venissero eventualmente instaurati tra
il Comune e il dipendente difeso
dall'amministratore locale, il consigliere
comunale, quale avvocato di parte, debba
astenersi dal prendere parte alle relative
delibere stante la sussistenza di un
interesse 'proprio' conflittuale con
quello del Comune.
Come rilevato dalla giurisprudenza 'l'obbligo
per i consiglieri comunali di astenersi dal
prendere parte a deliberazioni alle quali
possono essere direttamente od
indirettamente interessati costituisce
regola assoluta che, in quanto dettata al
fine di garantire la trasparenza e
l'imparzialità della azione amministrativa,
non ammette deroghe; essa ricorre ogni
qualvolta l'affare trattato sia tale da
suscitare un interesse proprio del
consigliere o di persone a lui legate da
vincoli di parentela. È tuttavia necessario
che l'interesse personale, presupposto
dell'obbligo di astensione, debba potersi
rilevare da un rapporto di specifica
situazione di carattere oggettivo che renda
manifesta o comunque logicamente
ipotizzabile la possibilità di un conflitto
di interesse ovvero la non estraneità di
propri interessi rispetto ai fatti sui quali
si concorre a deliberare'.[5]
----------------
[1] Si veda la risposta ad un quesito,
pubblicata nella Guida agli enti locali de
"Il Sole 24-Ore", n. 11 del 23.03.2002, in
cui il Ministero dell'Interno ha inoltre
affermato che la garanzia che le
ineleggibilità e le incompatibilità siano
poste da una norma di legge costituisce una
forma di tutela nei confronti dei cittadini,
ai quali viene assicurata, anche in tal
modo, l'assoluta parità di condizioni sul
territorio nazionale.
[2] TAR Basilicata, 27.06.1995, n. 399 in
Foro amm., 1996, pag. 246; Cass. Civ.,
26.02.1988, n. 2046, in Mass. Giur. it.,
1988.
[3] In questo senso si veda parere ANCI del
22.03.2010 il quale, in conformità a quanto
sopra esposto recita: 'Egli (leggasi
l'avvocato - amministratore) tecnicamente
non ha una lite pendente con il Comune;
parte del giudizio infatti è solamente il
soggetto che ha proposto l'azione
giurisdizionale nei confronti dell'Ente,
ossia colui che è assistito dall'avvocato e
non l'avvocato stesso'. Sull'argomento si è
espresso anche il Consiglio nazionale
forense il quale, valutata la questione
sotto il diverso profilo della possibile
violazione, da parte del legale, delle norme
del codice deontologico (in particolare
l'articolo 37 dello stesso), ha escluso una
tale eventualità: parere n. 80 del 22
novembre 2005 (in senso difforme, tuttavia,
si veda parere del CNF n. 16
dell'11.07.2001).
[4] Si veda, al riguardo, il parere di G.
Lovili, contenuto nel fascicolo 'L'esperto
risponde', all'interno del Sole 24 Ore, n.
15 del 21.02.2011.
[5] TAR Lombardia, Milano, sentenza
dell'11.03.1998, n. 523
(12.03.2012 - link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Utilizzo
carta intestata del Comune da parte di un
consigliere comunale.
L'uso della carta
intestata del Comune da parte dei
consiglieri o dei gruppi consiliari è
consentito per il perseguimento delle
finalità di cura dell'interesse pubblico e
non può avvenire a titolo personale, sul
presupposto che ciascun consigliere
costituisce una parte istituzionale
dell'ente locale, del quale lo stemma
rappresenta un elemento unitario di
identificazione.
Al fine di non ingenerare dubbi circa la
provenienza del documento da un consigliere
o da un gruppo (e non dall'amministrazione
comunale), o la strumentalizzazione dello
stemma, la carta intestata dovrebbe recare,
insieme allo stemma comunale, la
contemporanea presenza del nominativo del
consigliere e della denominazione del gruppo
cui appartiene.
---------------
Il Comune ha chiesto un parere in ordine
all'ammissibilità dell'utilizzo della
propria carta intestata da parte di un
consigliere comunale, con la dicitura 'Il
Consigliere'.
Sentito il Servizio elettorale, si esprimono
le seguenti considerazioni.
In via generale, l'articolo 38, comma 3, del
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267,
stabilisce che i Comuni fissano, con norme
regolamentari, le modalità per fornire ai
consigli servizi, attrezzature e risorse
finanziarie. Pertanto, le forme e le
modalità di esternazione dell'attività dei
consiglieri comunali, compresa la
possibilità di utilizzare la carta intestata
del comune, dovrebbero essere stabilite in
sede regolamentare, in condizioni paritarie
per tutti i consiglieri.
Infatti, i consiglieri comunali, che
agiscano (sia come singoli sia come gruppo
consiliare) nell'esercizio del proprio
munus pubblico, hanno gli stessi diritti
e gli stessi doveri, indipendentemente dalla
loro appartenenza alla maggioranza o alla
minoranza consiliare, potendo quindi
utilizzare i medesimi strumenti posti a
disposizione dell'amministrazione dell'ente.
Per quanto concerne, nello specifico, l'uso
della carta intestata del Comune, sia da
parte dei consiglieri singolarmente che dei
gruppi consiliari, il Ministero dell'Interno
si è espresso in senso favorevole, anche in
mancanza di una disposizione regolamentare
al riguardo, limitandone l'utilizzo
all'esercizio del munus istituzionale
di cui gli stessi sono investiti. In altri
termini, l'utilizzo della carta intestata
non può avvenire a titolo personale[1], ma
per il perseguimento delle finalità di cura
dell'interesse pubblico.
L'orientamento del Ministero si basa sul
presupposto che ciascun consigliere e
ciascun gruppo consiliare costituisce una
parte istituzionale dell'ente locale, del
quale lo stemma rappresenta un elemento
unitario di identificazione.
Al fine di non ingenerare dubbi circa la
provenienza del documento da un consigliere
comunale (e non dall'amministrazione
comunale), o la strumentalizzazione dello
stemma, la carta intestata dovrebbe recare,
insieme allo stemma comunale, la
contemporanea presenza del nominativo del
consigliere e della denominazione del gruppo
cui appartiene con la specifica indicazione
'gruppo consiliare'.
Si ritiene, pertanto non sussistano cause
ostative all'utilizzo dello stemma da parte
dei consiglieri o dei gruppi consiliari,
qualora lo stesso avvenga nelle condizioni
sopraindicate.
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[1] Pareri del Ministero dell'Interno,
Dipartimento per gli affari interni e
territoriali, 11.01.2011 e 01.10.2010,
consultabile presso il relativo sito
internet
(05.03.2012 - link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Incompatibilità
di un amministratore locale che svolge
presso il Comune un lavoro di pubblica
utilità.
Non si ritiene
sussistere nei confronti del consigliere
comunale che sta per essere avviato ad
un'attività di pubblica utilità presso il
medesimo Ente la causa di
ineleggibilità/incompatibilità di cui
all'articolo 60, comma 1, numero 7), del
D.Lgs 267/2000 per la realizzazione della
quale occorre che nell'attività svolta
dall'amministratore per il Comune siano
rinvenibili i profili della subordinazione
tipici del rapporto di lavoro dipendente o
ad esso assimilati. Tali requisiti paiono
non ravvisarsi nel caso di lavori di
pubblica utilità.
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Il Comune chiede di conoscere un parere in
merito alla sussistenza di una causa di
incompatibilità per un amministratore locale
che si appresta a svolgere presso
l'amministrazione comunale nella quale
esercita il suo mandato un lavoro di
pubblica utilità.[1]
Sentito il Servizio elettorale, si esprimono
le seguenti considerazioni.
Preliminarmente, si rileva che la
valutazione della sussistenza delle cause di
ineleggibilità o di incompatibilità dei
componenti di un organo elettivo
amministrativo è attribuita dalla legge
all'organo medesimo. È, infatti, principio
di carattere generale del nostro ordinamento
che gli organi collegiali elettivi debbano
esaminare i titoli di ammissione dei propri
componenti.
Così come, in sede di esame delle condizioni
degli eletti (art. 41 del D.Lgs. 267/2000),
è attribuito al consiglio comunale il
potere-dovere di controllare se nei
confronti dei propri membri esistano
condizioni ostative all'esercizio delle
funzioni, allo stesso modo, qualora venga
successivamente attivato il procedimento di
contestazione di una causa di
incompatibilità, a norma dell'art. 69 del
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267,
spetta al consiglio medesimo, al fine di
valutare la sussistenza di detta causa,
esaminare le osservazioni difensive
formulate dall'amministratore e, di
conseguenza, adottare gli atti ritenuti
necessari.
Ciò premesso, la norma da prendere in esame,
con riferimento alla fattispecie in
commento, è l'articolo 60, comma 1, numero
7), del D.Lgs 267/2000, la quale stabilisce
che non è eleggibile a consigliere comunale,
nel rispettivo consiglio, il dipendente del
Comune. In forza del disposto di cui
all'articolo 63, comma 1, numero 7), TUEL,
infatti, costituisce causa di
incompatibilità per un amministratore locale
il venire a trovarsi, nel corso del mandato,
in una delle condizioni di ineleggibilità
previste dal precedente articolo 60.
La ratio della norma è quella di
garantire il più possibile la separazione
tra attività politica e attività di gestione
e l'elemento di discrimine affermato dalla
giurisprudenza al riguardo è la sussistenza
delle condizioni tipiche del rapporto di
impiego subordinato. Occorre, in altri
termini, per la configurabilità dell'ipotesi
di incompatibilità in esame, che
nell'attività svolta per il Comune siano
rinvenibili i profili della subordinazione
tipici del rapporto di lavoro dipendente o
ad esso assimilati (sottoposizione ad ordini
e direttive; inserimento del lavoratore
nella struttura dell'ente; assenza di un
rischio imprenditoriale; continuità della
prestazione; forma della retribuzione; non
gratuità della prestazione...[2]).
Tali requisiti paiono non ravvisarsi nel
caso di lavori di pubblica utilità i quali
consistono nella prestazione di un'attività
non retribuita a favore della collettività
da svolgere, in via prioritaria, nel campo
della sicurezza e dell'educazione stradale,
presso lo Stato, le Regioni, le Province, i
Comuni o presso enti e organizzazioni di
assistenza sociale o di volontariato, od
ancora presso i centri specializzati nella
lotta alle dipendenze (così, art. 186, comma
9-bis, del D.Lgs. 285/1992).
Trattasi di lavori che rientrano nel
genus dei c.d. lavori socialmente utili,
consistenti questi ultimi in tutte quelle
attività che hanno per oggetto la
realizzazione di opere e la fornitura di
servizi di utilità collettiva, mediante
l'utilizzo di soggetti svantaggiati.
Significativa, al riguardo, è la sentenza
amministrativa del TAR Calabria Catanzaro,
sez. II, del 09.04.2008, n. 352, la quale
recita che: 'Il servizio svolto in
qualità di L.S.U. non si fonda su di un
rapporto di lavoro con lo Stato, né tanto
meno con l'Ente locale, dal momento che il
lavoro socialmente utile ed il lavoro di
pubblica utilità sono da inquadrarsi tra i
«c.d. ammortizzatori sociali» e non
comportano l'instaurazione di un rapporto di
lavoro con l'Ente pubblico'.
Con particolare riferimento alla
configurabilità di una causa di
incompatibilità per un amministratore locale
che svolge un lavoro socialmente utile
presso il medesimo Ente si è espresso il
Ministero dell'Interno in senso negativo. Lo
stesso ha rilevato, in particolare, che: 'Non
può qualificarsi come rapporto di lavoro
subordinato, né a termine né a tempo
indeterminato, l'occupazione temporanea di
lavoratori socialmente utili alle dipendenze
di ente comunale per l'attuazione di
apposito progetto, realizzandosi con essa,
un rapporto di lavoro speciale munito di una
matrice essenzialmente assistenziale [...]'.[3]
La posizione assunta dal Ministero è
conforme, tra l'altro, all'orientamento
espresso dalla giurisprudenza la quale ha
avuto modo di rilevare che il rapporto
intercorrente tra un lavoratore socialmente
utile e la pubblica amministrazione non ha
natura di lavoro subordinato trattandosi,
piuttosto, di una 'utilizzazione' del
lavoratore da parte dell'Ente di
riferimento. 'Il lavoratore socialmente
utile, svolgendo la sua attività per la
realizzazione di un interesse di carattere
generale, ha diritto ad emolumenti, cui non
può riconoscersi natura retributiva, ma
[...] natura previdenziale'.[4]
Nel caso di lavori di pubblica utilità,
analogamente ai lavori socialmente utili, si
è in presenza di un'attività svolta per la
realizzazione di un interesse di carattere
generale, con l'ulteriore peculiarità che
non vi è alcun elemento retributivo neanche
sotto forma di emolumenti versati al
lavoratore. Si ricorda, infatti, che tale
lavoro viene svolto in luogo della
comminazione di una sanzione penale.
In conclusione, non si ritiene sussistere
nei confronti del consigliere comunale che
sta per essere avviato ad un'attività di
pubblica utilità presso il medesimo Ente la
causa di ineleggibilità/incompatibilità di
cui all'articolo 60, comma 1, numero 7), del
D.Lgs. 267/2000.
Si consideri, infine, in aggiunta alle
considerazioni sopra svolte, che le cause
ostative all'espletamento del mandato
elettivo, disciplinate dal TUEL, incidendo
direttamente sull'esercizio del diritto di
elettorato passivo, sono di stretta
interpretazione e come tali non suscettibili
di estensione analogica,[5] con la
conseguenza che anche situazioni di fatto
che accidentalmente dovessero evidenziare
elementi del rapporto subordinato non
precluderebbero l'assunzione della carica
elettiva.[6]
---------------
[1] Si tratterebbe, in particolare, della
richiesta, avanzata dal consigliere
comunale, di sostituzione della pena di cui
all'articolo 186 (Guida sotto l'influenza
dell'alcool) del Codice della Strada (D.Lgs.
30.04.1992, n. 285) con quella del lavoro di
pubblica utilità di cui all'art. 54 del
D.Lgs. 28.08.2000, n. 274, in conformità
alla previsione di cui all'art. 186, comma
9-bis, del D.Lgs. 285/1992.
[2] Si vedano, al riguardo, tra le altre,
Corte d'appello Firenze, sez. lav., sentenza
del 21.11.2011, n. 1190 e Cassazione civile,
sez. VI, sentenza del 19.10.2011, n. 21689.
[3] Ministero dell'Interno, pareri del
12.05.2011 e del 28.04.2011.
[4] Cassazione civile, sez. un., sentenza
del 22.02.2005, n. 3508. Si veda, anche,
Cassazione civ., sez. un., sentenza del
03.01.2007, n. 3 la quale recita:
'L'utilizzazione di personale per lavori
socialmente utili non comporta
l'instaurazione di un rapporto di lavoro
subordinato pubblico'.
[5] Così, TAR Basilicata, 27.06.1995, n.
399; Cass. Civ., 26.02.1988, n. 2046.
[6] In questi termini si è espresso il
Ministero dell'Interno con parere del
12.05.2011
(24.02.2012 - link a
www.regione.fvg.it). |
APPALTI: DURC:
casi di autocertificabilità.
Secondo l'orientamento
di INPS e INAIL (circolare del 26.01.2012),
il DURC non può rientrare fra i documenti
autocertificabili, in quanto si tratterebbe
di attestazione della correttezza della
posizione contributiva di una realtà
aziendale effettuata dopo complesse
valutazioni tecniche di natura contabile da
parte degli istituti previdenziali.
Le uniche eccezioni ammesse sono quelle
relative ai casi di cui all'art. 38, comma
1, lettera i) e comma 2 del D. Lgs. 163/2006
e di cui all'art. 4, comma 14-bis, del DL
70/2011 per i soli contratti di forniture e
servizi fino a 20.000 euro stipulati con la
PA o con le società in house.
---------------
Il Comune chiede un parere sulla
applicabilità dell'art. 4, comma 14-bis, del
decreto legge 13.07.2011, n. 70, convertito
in legge, con modificazioni, dall'art. 1,
comma 1, della legge 12.07.2011, n. 106.
Un tanto, alla luce della recente nota del
Direttore generale del Ministero del lavoro
e delle politiche sociali n. 619 del
16.01.2012, che fornirebbe indicazioni
apparentemente dissonanti con quanto
stabilito dalla norma.
Il citato art. 4, comma 14-bis, dispone che:
'Per i contratti di forniture e servizi
fino a 20.000 euro stipulati con la pubblica
amministrazione e con le società in house, i
soggetti contraenti possono produrre una
dichiarazione sostitutiva ai sensi
dell'articolo 46, comma 1, lettera p), del
testo unico di cui al decreto del Presidente
della Repubblica 28.12.2000, n. 445, in
luogo del documento di regolarità
contributiva. Le amministrazioni procedenti
sono tenute ad effettuare controlli
periodici sulla veridicità delle
dichiarazioni sostitutive, ai sensi
dell'articolo 71 del medesimo testo unico di
cui al decreto del Presidente della
Repubblica n. 445 del 2000'.
Si ritiene opportuno, preliminarmente,
richiamare l'attenzione sulle ulteriori
novità normative intervenute di recente in
materia di semplificazione della
documentazione amministrativa (relative alla
cd. decertificazione).
La legge 12.11.2011, n. 183 (Legge di
stabilità 2012) è intervenuta a modificare,
con l'art. 15, la materia dei certificati e
delle dichiarazioni sostitutive.
Nel dettaglio, fra le altre innovazioni, il
predetto art. 15 ha disposto la modifica
dell'art. 40 del DPR 445/2000 con
l'introduzione, per quanto qui rileva, del
comma 01, il quale stabilisce che 'Le
certificazioni rilasciate dalla pubblica
amministrazione in ordine a stati, qualità
personali e fatti sono valide e utilizzabili
solo nei rapporti tra privati. Nei rapporti
con gli organi della pubblica
amministrazione e i gestori di pubblici
servizi i certificati e gli atti di
notorietà sono sempre sostituiti dalle
dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47'.
Il medesimo art. 15 della legge 183/2011 ha
inoltre introdotto l'art. 44-bis, laddove si
prevede che: 'Le informazioni relative
alla regolarità contributiva sono acquisite
d'ufficio, ovvero controllate ai sensi
dell'articolo 71, dalle pubbliche
amministrazioni procedenti, nel rispetto
della specifica normativa di settore'.
Le norme di nuova introduzione vanno lette
in combinato disposto con l'art. 46, comma
1, lettera p), del medesimo DPR 445/2000,
laddove è stabilito che 'Sono comprovati
con dichiarazioni, anche contestuali
all'istanza, sottoscritte dall'interessato e
prodotte in sostituzione delle normali
certificazioni i seguenti stati, qualità
personali e fatti:
(...)
p) assolvimento di specifici obblighi
contributivi con l'indicazione
dell'ammontare corrisposto; (...)'.
Tuttavia, lo scorso 16 gennaio il Ministero
del lavoro e delle politiche sociali ha
emanato la citata nota n. 619, in cui ha
affermato che l'art. 44-bis del DPR 445/2000
va a disciplinare un regime particolare in
ordine all'utilizzo del DURC, che pertanto
non è sostituibile con una dichiarazione di
regolarità contributiva da parte
dell'interessato.
Spiega il Ministero, che la nozione di
certificato che emerge dall'art. 40 del
medesimo decreto si riferisce a stati,
qualità personali e fatti che sono oggetto
di certificazione e autocertificazione. Si
tratta, dunque, di elementi oggettivi
riferiti alla persona, di cui questa non può
non essere a conoscenza.
Di natura del tutto diversa è il DURC, che 'non
è la mera certificazione dell'effettuazione
[del pagamento] di una somma a titolo di
contribuzione (...), ma una attestazione
dell'Istituto previdenziale circa la
correttezza della posizione contributiva di
una realtà aziendale effettuata dopo
complesse valutazioni tecniche di natura
contabile derivanti dalla applicazione di
discipline lavoristiche, contrattuali e
previdenziali'.
Pertanto, per mezzo della circolare, il
Ministero ha chiarito che il DURC non è
autocertificabile, ed ha, altresì,
dichiarato che il riferimento, nell'ambito
dell'art. 44-bis, al controllo delle
informazioni sulla regolarità contributiva
ai sensi dell'art. 71, consente alle PA la
facoltà di acquisire un DURC da parte del
soggetto interessato e di poterne poi
vagliare i contenuti con le medesime
modalità previste per la verifica delle
autocertificazioni.
Il Ministero non si è, però, espresso sulla
previsione di legge di cui all'art. 4, comma
14-bis del DL 70/2011.
A colmare questa lacuna è intervenuta, a
distanza di pochi giorni, una nota congiunta
delle Direzioni centrali di INPS ed INAIL.
Con la circolare del 26 gennaio, infatti, i
due enti previdenziali hanno ribadito che la
disciplina speciale vigente in tema di DURC
deve ritenersi immutata (e quindi orientata
verso la non autocertificabilità)
precisando, d'intesa con lo stesso
Ministero, che 'resta confermato
l'obbligo di acquisire d'ufficio il DURC da
parte delle Stazioni Appaltanti pubbliche e
dalle amministrazioni procedenti' e che 'le
fattispecie in cui è consentito all'impresa
di presentare una dichiarazione in luogo del
DURC sono solo quelle espressamente previste
dal legislatore'.
Ai fini della questione posta dall'Ente, è
importante segnalare che in nota viene fatto
esplicito riferimento all'art. 4, comma
14-bis, della legge 106/2011 (rectius
DL 70/2011) per contratti di forniture e
servizi fino a 20.000 euro stipulati con la
PA e con le società in house[1].
Secondo gli estensori della circolare,
dunque, in tale situazione i soggetti
contraenti possono produrre alla stazione
appaltante una dichiarazione sostitutiva
attestante la regolarità contributiva in
luogo del DURC[2].
----------------
[1] L'altra circostanza individuata in
nota è quella di cui all'art. 38, comma 1,
lettera i) e comma 2 del D.Lgs. 163/2006,
secondo cui i candidati/concorrenti sono
tenuti ad attestare il possesso dei
requisiti (tra cui il non aver commesso
gravi violazioni alle norme in materia di
contributi previdenziali di cui all'art. 38,
comma 1, lettera i)) mediante dichiarazione
sostitutiva in conformità a quanto disposto
dal DPR 445/2000.
[2] Nel senso dell'autocertificazione della
regolarità contributiva per gli appalti di
forniture e servizi fino a 20.000 euro si è
espressa anche l'ANCI nel parere del
23.01.2012, rinvenibile sul sito
www.ancitel.it. Corre l'obbligo, peraltro,
di segnalare che le due circolari hanno
sollevato perplessità in certa dottrina, in
particolar modo per quanto attiene
all'interpretazione del Ministero secondo la
quale il DURC non è qualificabile come
certificato, quando invece è la stessa legge
a definirlo tale (si veda il DPR 207/2010,
art. 6, comma 1: 'Per documento unico di
regolarità contributiva si intende il
certificato che attesta contestualmente la
regolarità di un operatore economico ... ').
Al riguardo si vedano i commenti di L.
Oliveri su Italia oggi del 18.01.2012 e su
LeggiOggi.it del 04.02.2012
(14.02.2012 - link a
www.regione.fvg.it). |
APPALTI SERVIZI: Pubblicità
delle gare d'appalto di servizi ricompresi
nell'allegato II B al Codice dei contratti
pubblici.
Nel caso di indizione di
una gara pubblica per l'appalto di un
servizio menzionato nell'allegato II B al
Codice dei contratti pubblici, le stazioni
appaltanti sono comunque tenute a dare
adeguata diffusione e conoscenza della gara
e, qualora si siano autovincolate al
rispetto del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163,
devono seguire il regime di pubblicità dallo
stesso previsto.
---------------
Il Comune chiede di sapere se, nel caso di
indizione di una procedura aperta per
l'appalto del servizio di ristorazione
scolastica, avente un importo superiore alla
soglia comunitaria, possa omettere, al fine
di contenere le spese, la pubblicazione
sulla Gazzetta ufficiale italiana, potendo
ritenersi sufficiente la pubblicazione sulla
Gazzetta ufficiale europea.
Si osserva quanto segue.
In termini generali, la pubblicità delle
gare di appalto è volta a garantire la
trasparenza delle procedure di affidamento,
nonché la concorrenza e la parità di
trattamento tra tutti i partecipanti alla
selezione.
Il D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 (Codice dei
contratti pubblici) ha previsto diversi
adempimenti in tale senso a carico delle
stazioni appaltanti, distinguendo differenti
modalità per gli appalti di importo
superiore alla soglia comunitaria rispetto a
quelli inferiori alla stessa[1].
Tali norme non paiono essere applicabili
agli appalti dei servizi contenuti
nell'allegato II B al Codice, per i quali il
legislatore ha previsto una procedura
semplificata ed informale.
L'art. 20 del D.Lgs. 163/2006 stabilisce,
infatti, che, per l'aggiudicazione degli
appalti di tali servizi, non si applicano le
disposizioni contenute nel Codice, se non
quelle stabilite dagli artt. 65 (avviso sui
risultati della procedura di
aggiudicazione), 68 (specifiche tecniche) e
225 (avviso sugli appalti aggiudicati).
Nell'allegato II B sono compresi anche i 'servizi
alberghieri e di ristorazione', tra i
quali possono essere ricondotti i servizi
aventi ad oggetto le prestazioni di
refezione scolastica di cui all'appalto de
quo.
Per quanto riguarda le pubblicazioni
relative ai servizi di cui all'allegato II
B, non vi è perciò l'obbligo di applicare le
norme contenute nel Codice, se non quelle
previste dai citati artt. 65 e 225 che hanno
a riguardo la pubblicazione di avvisi
concernenti appalti già aggiudicati.
Si evidenzia, però, come, ai sensi dell'art.
27 del Codice, anche per l'affidamento di
tali servizi, le amministrazioni
aggiudicatrici devono, comunque, rispettare
i principi di trasparenza, proporzionalità,
imparzialità, efficacia e parità di
trattamento.
Da ciò consegue che le stazioni appaltanti
sono tenute a dare adeguata diffusione e
conoscenza della gara per l'affidamento del
servizio di ristorazione scolastica,
potendo, a tal fine, determinare
autonomamente le modalità che intendono
seguire nel rispetto dei principi sopra
menzionati[2].
Qualora, tuttavia, il Comune, nonostante la
tipologia dei servizi ricada tra quelle
previste dall'allegato II B, decida di fare
riferimento nel bando di gara alle procedure
contenute nel Codice dei contratti pubblici,
come nel caso prospettato, in cui si intende
indire una procedura di gara aperta, esso
sarà tenuto anche a seguire il regime di
pubblicità previsto dallo stesso.
Ciò è stato espresso chiaramente, proprio
con riferimento all'indizione di un bando a
procedura aperta, in una deliberazione
dell'Autorità di vigilanza sui contratti
pubblici (Avcp).
L'Autorità ha affermato che, anche quando
l'appalto riguardi un servizio rientrante
nell'allegato II B, 'qualora la stazione
appaltante si sia autovincolata al rispetto
del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, bandendo una
procedura aperta ai sensi dell'art. 55,
questa deve procedere nel rispetto delle
norme che informano la natura di tale
procedura, avuto riguardo al carattere di
apertura al mercato che la medesima
ontologicamente presenta; apertura
garantita, in primis, da un adeguato regime
di pubblicità, normativamente disciplinato e
distinto in base all'importo di base in
gara'[3].
In tale caso e trattandosi di appalti sopra
soglia, sembrano, perciò, trovare
applicazione le norme sulla pubblicità di
cui all'art. 66 del Codice che richiedono la
pubblicazione degli avvisi e dei bandi anche
sulla Gazzetta ufficiale della Repubblica
italiana.
---------------
[1] Vedasi, in particolare, quanto
previsto dall'art. 66 per gli appalti di
servizi sopra soglia e dall'art. 124 per
quelli sotto soglia.
[2] L'Anci, nel parere dd. 23.04.2007, ha
ritenuto che, per gli affidamenti dei
servizi di cui all'allegato II B, sia
sufficiente adottare forme di pubblicità
'minori', quali la pubblicazione nell'albo
della stazione appaltante, sul sito internet
dell'ente e sui quotidiani. L'Avcp, nella
deliberazione n. 102 dd. 5.11.2009, ha
convenuto sull'opportunità, in ossequio al
principio di trasparenza, di una
pubblicazione a livello comunitario, oltre a
quelle espressamente indicate negli atti di
gara, quando il valore dell'appalto sia
decisamente superiore alla soglia
comunitaria.
[3] Deliberazione Avcp n. 36 dd. 08.04.2009
(10.02.2012 - link a
www.regione.fvg.it). |
APPALTI:
I.V.A. e valutazione dell'offerta economica.
Si ritiene che l'art.
29, c. 1., del D.Lgs. 163/2006, disponendo
che il calcolo del valore stimato (= somma
da porre a base di gara) degli appalti
pubblici è basato sull'importo totale
pagabile al netto dell'I.V.A.:
- sia volto a tutelare la par condicio tra i
concorrenti, atteso che la disciplina della
predetta imposta prevede regimi agevolati
per alcuni operatori economici;
- esprima comunque una regola valevole (non
potendosi ipotizzare l'adozione di criteri
eterogenei tra due fasi del medesimo
procedimento) anche per la valutazione
dell'elemento economico dell'offerta, ai
fini dell'aggiudicazione.
---------------
Il Comune rappresenta che, per l'affidamento
del servizio di traduzione (simultanea e di
atti), ha interpellato alcuni
professionisti, acquisendo due offerte.
Il professionista che ha presentato
l'offerta 'A' ha evidenziato che, stante il
regime fiscale agevolato di cui gode,
l'importo richiesto non è soggetto
all'imposta sul valore aggiunto (I.V.A.).
Il professionista che ha formulato l'offerta
'B', invece, non ha fornito alcuna
dichiarazione in tal senso, cosicché
l'importo ivi contemplato deve ritenersi
soggetto ad I.V.A..
Poiché i prezzi indicati nell'offerta 'B'
risultano inferiori rispetto a quelli
contenuti nell'offerta 'A' ma considerato
che, computando l'I.V.A. sui primi, il
giudizio di minore onerosità finanziaria si
inverte, l'Ente chiede di conoscere quale
parametro vada adottato (prezzo offerto al
netto dell'I.V.A. o spesa complessiva da
sostenere) per individuare la migliore
offerta.
Il parametro da adottare è quello del prezzo
offerto al netto dell'I.V.A.[1], in
conformità di quanto dispone l'art. 29,
comma 1[2], del decreto legislativo
12.04.2006, n. 163 che, sebbene faccia
espresso riferimento solo al 'valore
stimato' (= importo da porre a base di
gara) dei contratti pubblici, si ritiene
esprima una regola valevole (non potendosi
ipotizzare l'adozione di criteri eterogenei
tra due fasi del medesimo procedimento)
anche per la valutazione dell'elemento
economico dell'offerta, ai fini
dell'aggiudicazione dell'appalto.
Atteso che la disciplina della predetta
imposta prevede regimi differenziati, la
norma sembra volta a tutelare la par
condicio tra i concorrenti: infatti, se il
valore da considerare ai fini
dell'aggiudicazione dovesse intendersi
I.V.A. inclusa, si determinerebbe un
ulteriore vantaggio nei confronti degli
imprenditori già fiscalmente favoriti, con
correlativa (e generale) penalizzazione per
gli operatori economici che non godono di
simili agevolazioni.
Nel medesimo senso si è espressa l'Autorità
per la vigilanza sui contratti pubblici di
lavori, servizi e forniture che, nella
deliberazione n. 82 del 14.10.2011, ha
rilevato che:
- l'art. 29 del D.Lgs. 163/2006 «trova la
sua ratio nella necessità di garantire la
neutralità dei diversi regimi impositivi
adottati nei vari stati membri, rispetto al
computo del valore dell'appalto da affidare,
che è il parametro determinante ai fini
della individuazione della tipologia di
procedura da seguire e del livello di
pubblicità da assicurare»;
- seppure non vi sia alcuna specifica
disposizione prescrivente che anche
l'offerta debba essere formulata non
includendo l'IVA nell'importo, «la regola
si ricava dall'art. 82 del codice ove si
prevede che l'offerta economica è formulata
in termini di ribasso sull'importo a base di
gara; ne consegue che necessariamente anche
il primo valore dovrà essere omogeneo al
secondo e non includere l'IVA»;
- anche qualora l'offerta sia determinata
mediante prezzi unitari e, in particolare,
in termini di tariffa per ora di lavoro, la
stazione appaltante non può richiedere
l'indicazione dell'importo includendo l'IVA.
Infatti, «La regola pur non testualmente
enunciata dal legislatore è desumibile
dall'art. 119 del regolamento di esecuzione
del codice dei contratti che seppur
riferendosi ai lavori, prescrive per le
ipotesi di offerta a prezzi unitari 'che il
prezzo complessivo offerto, rappresentato
dalla somma di tali prodotti, è indicato dal
concorrente in calce al modulo stesso
unitamente al conseguente ribasso
percentuale rispetto al prezzo complessivo
posto a base di gara'; anche in questa
ipotesi il richiamo al prezzo a base di
gara, impone per ragioni di omogeneità che
anche gli importi relativi ai prezzi unitari
siano espressi senza includere l'IVA».
Secondo l'Autorità, la predetta conclusione
trova conferma nella considerazione che,
posto che la forma giuridica dell'operatore
economico può determinare l'applicazione di
una diversa aliquota ai fini dell'I.V.A.[3],
tali agevolazioni non possono comportare
l'alterazione delle procedure di
aggiudicazione alle quali i soggetti
fiscalmente avvantaggiati partecipano, in
violazione del principio di parità di
trattamento sancito dall'art. 2[4] del
codice dei contratti.
L'Autorità segnala, infine, che ad analoghe
conclusioni era già pervenuto il Consiglio
di Stato[5], il quale ha giudicato
ragionevole l'intento della P.A. di tutelare
la par condicio tra le imprese con scopo di
lucro e le società cooperative partecipanti
alla gara, richiedendo l'indicazione
dell'offerta I.V.A. esclusa, «allo scopo
di assicurare un sostanziale equilibrio tra
dette società e le imprese con scopo di
lucro, che altrimenti sarebbero oltremodo
penalizzate».
Ove, invece -conclude l'Autorità di
vigilanza- ai fini dell'aggiudicazione, le
offerte fossero comparate includendo
l'I.V.A. «gli operatori costituiti in
organizzazioni senza finalità di lucro che
già godono della possibilità di presentare
offerte con utile ridotto avrebbero un
vantaggio rispetto alle altre tipologie di
operatori tale da compromettere la par
condicio».
---------------
[1] L'inciso «al netto dell'imposta sul
valore aggiunto» o «al netto dell'IVA» o «al
netto dell'i.v.a.» è contenuto in numerose
disposizioni del D.Lgs. 163/2006 (v. art. 3,
commi 16 e 17; art. 28, comma 1 - alinea;
art. 29, commi 1, 7 - lett. c), 8 - lett. c)
e 13; art. 32, comma 1 - lett. e); art. 99,
comma 2 - lett. b); art. 196, comma 3 -
alinea; art. 215, comma 1 - alinea; art.
235, commi 3 e 5) e l'espressione «IVA
esclusa» ed «i.v.a. esclusa» si rinviene,
rispettivamente, nell'art. 111, comma 1 e
nell'art. 235, comma 1.
[2] Il quale, confermando la previgente
disciplina in materia di appalti pubblici,
prevede che «Il calcolo del valore stimato
degli appalti pubblici e delle concessioni
di lavori o servizi pubblici è basato
sull'importo totale pagabile al netto
dell'IVA, valutato dalle stazioni
appaltanti. Questo calcolo tiene conto
dell'importo massimo stimato, ivi compresa
qualsiasi forma di opzione o rinnovo del
contratto».
[3] O, come nella fattispecie oggetto di
quesito, la non assoggettabilità al tributo
delle prestazioni rese dall'operatore
economico fiscalmente qualificabile come
'contribuente minimo'.
[4] Il cui comma 1 dispone che
«L'affidamento e l'esecuzione di opere e
lavori pubblici, servizi e forniture, ai
sensi del presente codice, deve garantire la
qualità delle prestazioni e svolgersi nel
rispetto dei principi di economicità,
efficacia, tempestività e correttezza;
l'affidamento deve altresì rispettare i
principi di libera concorrenza, parità di
trattamento, non discriminazione,
trasparenza, proporzionalità, nonché quello
di pubblicità con le modalità indicate nel
presente codice».
[5] Sez. V, sent. 16.06.2010, n. 3806, ove
si afferma, anzitutto, che la pubblica
amministrazione, nella predisposizione della
lex specialis di gara, deve comunque
garantire il rispetto della par condicio di
tutti i concorrenti, «assicurando il
rispetto dei principi, consacrati dall'art.
97 della Costituzione, di buon andamento ed
imparzialità cui deve uniformarsi l'azione
amministrativa»
(07.02.2012 - link a
www.regione.fvg.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI -
ENTI LOCALI:
Pubblicazione on-line delle determinazioni
dirigenziali. Art. 32 della legge 28.06.2009
n. 69.
Si fa riferimento alla nota sopra citata con
la quale codesta Prefettura ha chiesto
l’avviso della scrivente in merito agli
obblighi di pubblicazione, per il comune,
delle determinazioni dirigenziali sui siti
informatici, introdotti dall’art. 32 della
legge 28.06.2009, n. 69, recante norme per
l’“eliminazione degli sprechi relativi al
mantenimento di documenti in forma cartacea”.
L’art. 32, comma 1, della legge citata in
oggetto dispone che, “gli obblighi di
pubblicazione di atti e provvedimenti
amministrativi aventi effetto di pubblicità
legale si intendono assolti con la
pubblicazione nei propri siti informatici da
parte delle amministrazioni e degli enti
pubblici obbligati”, ed il successivo
comma 5 prevede che a decorrere
dall’01.01.2011 le pubblicità effettuate in
forma cartacea non hanno effetto di
pubblicità legale.
La disciplina ha implicitamente modificato
l’art. 124 del d.lgs.vo n. 267/2000 nella
parte in cui dispone che la pubblicazione
avvenga “mediante affissione all’albo
pretorio nella sede dell’ente …”,
sostituita dalla pubblicazione sul sito
istituzionale dell’ente, fermo restando il
termine di 15 giorni consecutivi o di altre
specifiche disposizioni di legge.
Lo strumento informatico ha sostituito,
dunque, il tradizionale albo pretorio,
rimanendo inalterati, sotto la nuova forma,
gli obblighi di pubblicazione.
Pertanto, si concorda con codesta Prefettura
nel richiamare la sentenza n. 1370 del
15.03.2006, con cui il Consiglio di Stato ha
stabilito che “la pubblicazione all’albo
pretorio del Comune è prescritta dall’art.
124 T.U. n. 267/2000 per tutte le
deliberazioni del comune e della provincia
ed essa riguarda non solo le deliberazioni
degli organi di governo (consiglio e giunta
municipali) ma anche le determinazioni
dirigenziali”.
Si segnala, altresì, che l’Ente Nazionale
per la Digitalizzazione della Pubblica
Amministrazione - DIGIT PA, nelle 2Linee
guida per i siti web della Pubblica
Amministrazione” ed in particolare nel “Vademecum
sulle Modalità di pubblicazione dei
documenti nell’albo on-line”,
predisposto sulla base della direttiva n. 8
del 26.11.2009 del Ministro per la Pubblica
Amministrazione e l’Innovazione, ha
specificato che “… per gli enti locali ….
l’attività dell’albo consiste nella
pubblicazione di tutti quegli atti sui quali
viene apposto il referto di pubblicazione”,
includendo tra tali atti le deliberazioni ed
altri provvedimenti comunali tra cui anche
le determinazioni in argomento (02.01.2012
- link a http://incomune.interno.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: D.Lgs
267/2000. Diritto di accesso dei consiglieri
comunali.
Il Garante per la
protezione dei dati personali ha affermato
che Comune e Provincia devono consentire ai
consiglieri l'accesso ai dati effettivamente
utili all'espletamento del mandato, nel
rispetto dei criteri di essenzialità,
pertinenza e compatibilità con le finalità
perseguite, di cui all'art. 11, c.1, lett.
d), del D.Lgs 196/2003.
L'Ente pertanto dovrà valutare se consentire
l'accesso alla totalità dei dati contenuti
nella dichiarazione ISEE o al solo dato
relativo alla fascia reddituale, in
relazione all'indispensabilità di tali
informazioni al fine dell'espletamento delle
azioni connesse al mandato del consigliere,
nonché della possibilità di sollecitare i
controlli, da parte dei soggetti
autorizzati, sulla veridicità di quanto
contenuto nella dichiarazione stessa.
---------------
L'Associazione intercomunale ha chiesto un
parere in ordine ad una richiesta, formulata
da un consigliere comunale, di accesso ad
una dichiarazione ISEE presentata da un
cittadino beneficiario di un contributo.
L'articolo 43, comma 2, del decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267, prevede che
i consiglieri comunali e provinciali hanno
diritto «di ottenere dagli uffici,
rispettivamente del comune e della
provincia, nonché dalle loro aziende ed enti
dipendenti, tutte le notizie e le
informazioni in loro possesso, utili
all'espletamento del proprio mandato. Essi
sono tenuti al segreto nei casi
specificatamente determinati dalla legge».
Si osserva, in via generale, che la
giurisprudenza ha costantemente sottolineato
che le informazioni acquisibili devono
considerare l'esercizio, in tutte le sue
potenziali esplicazioni, del munus di
cui ciascun consigliere comunale è
individualmente investito, in quanto membro
del consiglio. Ne deriva che tale munus
comprende la possibilità per ogni
consigliere di compiere, attraverso la
visione dei provvedimenti adottati e
l'acquisizione di informazioni, una compiuta
valutazione della correttezza e
dell'efficacia dell'operato
dell'amministrazione comunale, utile non
solo per poter esprimere un voto
maggiormente consapevole sugli affari di
competenza del consiglio, ma anche per
promuovere, nell'ambito del consiglio
stesso, le varie iniziative consentite
dall'ordinamento ai membri di quel collegio.
Il generale diritto di accesso del
consigliere comunale è quindi esercitato
riguardo ai dati utili per l'esercizio del
mandato e fornisce una veste particolarmente
qualificata all'interesse all'accesso del
titolare di tale funzione pubblica,
legittimandolo all'esame e all'estrazione di
copia dei documenti che contengono le
predette notizie e informazioni[1].
Sul consigliere comunale non può gravare
alcun onere di motivare le proprie richieste
di informazione, né gli uffici comunali
hanno titolo a richiedere le specifiche
ragioni sottese all'istanza di accesso, né a
compiere alcuna valutazione circa
l'effettiva utilità della documentazione
richiesta ai fini dell'esercizio del
mandato.
Tale diritto, pur essendo più ampio di
quello riconosciuto alla generalità dei
cittadini ai sensi del Capo V della legge
07.08.1990, n. 241, incontra il divieto di
usare i documenti per fini privati o
comunque diversi da quelli istituzionali, in
quanto, i dati acquisiti in virtù della
carica ricoperta devono essere utilizzati
esclusivamente per le finalità collegate
all'esercizio del mandato (presentazione di
mozioni, interpellanze, espletamento di
attività politico-amministrativo ecc.). Il
diritto di accesso, inoltre, non deve essere
emulativo, in quanto riferito ad atti
palesemente inutili ai fini
dell'espletamento del mandato.
In relazione all'esigenza di salvaguardia
della riservatezza dei terzi, la
giurisprudenza ha rilevato che tale
necessità, per quanto riguarda il diritto di
accesso di cui dispongono i consiglieri
comunali, è soddisfatta dall'articolo 43,
comma 2, del D.Lgs. 267/2000, laddove
statuisce che i consiglieri stessi sono
tenuti al segreto nei casi specificamente
determinati dalla legge: «Essendo,
infatti, i consiglieri tenuti al segreto nel
caso di atti riguardanti la riservatezza di
terzi, non sussiste, all'evidenza, alcuna
ragione logica perché possa essere loro
inibito l'accesso ad atti riguardanti i dati
riservati di terzi»[2].
Tuttavia, come evidenziato dal Garante per
la protezione dei dati personali[3],
nell'ipotesi in cui l'accesso da parte dei
consiglieri comunali riguardi dati
sensibili, che nel caso in esame potrebbero
essere contenuti nella dichiarazione ISEE,
l'esercizio di tale diritto, ai sensi
dell'articolo 65, comma 4, lettera b), del
decreto legislativo 30.06.2003, n. 196[4], è
consentito se indispensabile per lo
svolgimento della funzione di controllo, di
indirizzo politico e di sindacato ispettivo,
restando ferma la necessità che i dati così
acquisiti siano utilizzati per le sole
finalità connesse all'esercizio del
mandato[5]. Il Garante si è inoltre
pronunciato affermando che Comune e
Provincia devono permettere l'accesso ai
dati effettivamente utili nel rispetto dei
principi enunciati all'articolo 11, comma 1,
lett. d), del decreto legislativo 196/2003,
secondo il quale ciascuna amministrazione
deve identificare e rendere pubblici,
secondo i rispettivi ordinamenti, i dati
nell'osservanza dei criteri di essenzialità,
pertinenza e compatibilità con le finalità
perseguite[6].
Si ritiene, pertanto, che nel caso in esame,
l'Ente possa valutare, con particolare
riguardo al criterio di essenzialità sopra
richiamato, se consentire l'accesso alla
totalità dei dati contenuti nella
dichiarazione ISEE o al solo dato relativo
alla fascia reddituale, in relazione
all'indispensabilità di tali informazioni al
fine dell'espletamento delle azioni connesse
al mandato del consigliere, nonché della
possibilità di sollecitare i controlli, da
parte dei soggetti autorizzati, sulla
veridicità di quanto contenuto nella
dichiarazione stessa.
---------------
[1] Cfr. Consiglio di Stato, sez. V,
decisioni 21.02.1994, n. 119, 08.09.1994, n.
976, 26.09.2000, n. 5109, che precisano che
la facoltà di esaminare ed estrarre copia
dei documenti da parte del consigliere
spetta «a qualunque cittadino che vanti un
proprio interesse qualificato e sono, a
maggior ragione, contenute nella più ampia e
qualificata posizione di pretesa
all'informazione spettante ratione officii
al consigliere comunale». Più di recente, il
principio è stato ripreso e confermato dal
TAR Piemonte, sezione II, nella sentenza del
31.07.2009, n. 5879.
[2] Cfr. Consiglio di Stato, sez. V,
decisioni 04.05.2004, n. 2716 e 28.11.2006;
TAR Puglia, Lecce, sez. III, 09.06.2008, n.
1688.
[3] Relazione annuale 2004 - 09.02.2005,
reperibile sul sito internet del Garante.
[4] Recante 'Codice in materia di protezione
dei dati personali'.
[5] Articolo 22, comma 8, del D.Lgs
196/2003.
[6] Cfr. parere del Garante per la
protezione dei dati personali 08.02.2001
(23.12.2011 - link a
www.regione.fvg.it). |
APPALTI SERVIZI: Appalto
servizio fornitura pasti. Presupposti
procedura negoziata ex art.57, comma 5,
lett. b), D.lgs. n. 163/2006.
Nell'ambito dei
contratti delle pubbliche amministrazioni,
la procedura negoziata (senza previa
pubblicazione di bando di gara) è un
criterio di selezione dei concorrenti di
tipo eccezionale, utilizzabile nei soli casi
in cui la legge lo prevede, espressamente
elencati all'art. 57, D.Lgs. n. 163/2006.
Con particolare riferimento all'ipotesi di
cui all'art. 57, comma 5, lett. b), D.Lgs.
n. 163/2006, in correlazione all'art. 23, L.
n. 62/2005 (Legge comunitaria per il 2004),
abrogativo dell'istituto del rinnovo dei
contratti delle pubbliche amministrazioni,
il Giudice amministrativo ritiene che la
ripetizione dei servizi analoghi comporta un
nuovo e diverso vincolo contrattuale con un
diverso oggetto.
Con l'entrata in vigore della L. n.
136/2010, sono soggette all'obbligo di
richiesta del CIG, per il versamento dei
contributi di legge all'AVCP, tutte le
fattispecie contrattuali di cui al D.Lgs. n.
163/2006. Il CIG deve essere richiesto ad
ogni nuova procedura di scelta del
contraente.
---------------
L' Ente riferisce di aver indetto, nel 2009, una gara a procedura aperta
per la fornitura di pasti veicolati per il
triennio 2010-2012, di cui è risultata
aggiudicataria l'unica ditta partecipante,
la quale tutt'ora esegue il servizio.
Chiede l'Ente se per il triennio 2013-2015
sia possibile addivenire a procedura
negoziata con la suddetta ditta appaltatrice
per la ripetizione del servizio alle
condizioni in essere, ai sensi dell'art. 57,
comma 5, lett. b), D.Lgs. n. 163/2006,
espressamente richiamato nel bando
originario, e se in tal caso debba
procedersi con nuovo contratto, nuova
acquisizione del CIG, nuovo versamento all'AVCP.
Il ricorso alla trattativa privata, senza
previa pubblicazione di un bando di gara,
oggi definita procedura negoziata nelle
direttive comunitarie e negli atti nazionali
di recepimento, è ammesso nei soli
tassativi[1] casi individuati dal
legislatore all'art. 57, D.Lgs. n. 163/2006,
trattandosi di procedura di carattere
eccezionale, in deroga all'ordinario obbligo
dell'Amministrazione di individuare il
privato contraente attraverso il confronto
concorrenziale[2].
Seguendo l'elencazione delle ipotesi
dell'art. 57 richiamato, il comma 5, lett.
b), indica tra gli ulteriori casi anche
quello: 'per nuovi servizi consistenti
nella ripetizione di servizi analoghi già
affidati all'operatore economico
aggiudicatario del contratto iniziale dalla
medesima stazione appaltante, a condizione
che tali servizi siano conformi a un
progetto di base e che tale progetto sia
stato oggetto di un primo contratto
aggiudicato secondo una procedura aperta o
ristretta; in questa ipotesi la possibilità
del ricorso alla procedura negoziata senza
bando è consentita solo nei tre anni
successivi alla stipulazione del contratto
iniziale e deve essere indicata nel bando
del contratto originario; l'importo
complessivo stimato dei servizi successivi è
computato per la determinazione del valore
globale del contratto, ai fini delle soglie
di cui all'articolo 28'.
La disposizione da ultimo richiamata ripete
il contenuto dell'art. 7, comma 2, lett. f),
D.Lgs. n. 157/1995[3], ora abrogato, in
relazione al quale il Giudice amministrativo
ha chiarito il riferimento ad una situazione
di nuova e diversa aggiudicazione[4],
affermando come all'intervento normativo di
cui all'art. 23, L. n. 62/2005, di
eliminazione della clausola dell'ordinamento
che permetteva il rinnovo dei contratti[5],
dovesse assegnarsi valenza generale, volta
ad impedire la rinnovazione di contratti di
appalto scaduti. Pertanto, era del tutto
inappropriato il richiamo dell'art. 7, comma
2, lett. f), D.Lgs. n. 157/1995, per
praticare il rinnovo dei contratti,
riferendosi questo, invece, alla diversa
ipotesi di una nuova aggiudicazione, come
risultante dalla sua esplicita e testuale
espressione contenuta nel primo periodo del
comma 2[6].
Le stesse considerazioni valgono per il
vigente art. 57, comma 5, lett. b), D.Lgs.
n. 163/2006, in ordine al quale il Giudice
amministrativo richiama la giurisprudenza
resa con riferimento alla previgente analoga
disciplina, per affermare come il ricorso ad
esso non possa risolversi in uno strumento
per aggirare l'ormai pacifico divieto di
rinnovo[7].
Mentre il rinnovo del contratto
(illegittimo), chiarisce il Giudice
amministrativo, si sostanzia nella
riedizione del rapporto pregresso e comporta
una ripetizione delle prestazioni per una
durata pari a quella originariamente fissata
nel contratto che si va a rinnovare, la
ripetizione di servizi analoghi, di cui
all'art. 57 del Codice dei contratti postula
una nuova aggiudicazione (sia pure in forma
negoziata e senza previa pubblicazione di un
bando) alla stregua di un progetto base e
comporta un nuovo e diverso vincolo
contrattuale, con un diverso oggetto[8].
Dal punto di vista letterale, osserva,
ancora, il Giudice amministrativo, l'art. 57
del codice dei contratti ha come oggetto una
nuova aggiudicazione di 'nuovi servizi':
si tratta, appunto, di servizi del cui
bisogno al momento dell'indizione della gara
originaria non vi è certezza, essendo lo
stesso, in quel momento, eventuale e di cui
solo successivamente può sorgere la
necessità. È per questo che la stazione
appaltante, pur prendendoli in
considerazione nel bando, non li assegna
all'esito della corrispondente procedura
concorsuale, ma si riserva la facoltà di
farlo nel triennio dalla stipula del
contratto[9].
Venendo al caso di specie, sembrano mancare,
invero, i presupposti legittimanti la
fattispecie di cui all'art. 57, comma 5,
lett. b), D.Lgs. n. 163/2006. In
particolare, la ripetizione di nuovi servizi
analoghi comporta un nuovo e diverso vincolo
contrattuale con un diverso oggetto, mentre
l'ente ipotizza la procedura negoziata per
la ripetizione, per un successivo triennio,
del medesimo servizio di fornitura di pasti
veicolati, alle condizioni in essere.
Appare, dunque, opportuna, nel caso
prospettato dall'Ente, l'indizione di una
nuova procedura di gara, a garanzia dei
principi di libera concorrenza, parità di
trattamento, non discriminazione,
imparzialità e buon andamento[10].
Per quanto concerne l'aspetto contributivo,
con l'entrata in vigore della Legge
13.08.2010, n. 136, come modificata dal D.L.
n. 187/2010, sono soggette all'obbligo di
richiesta del CIG (codice di identificazione
della procedura di scelta del contraente),
per il versamento dei contributi di
legge[11] all'Autorità per la vigilanza sui
contratti pubblici di lavori, servizi e
forniture (AVCP), tutte le fattispecie
contrattuali di cui al D.Lgs. n. 163/2006.
Il responsabile del procedimento della
stazione appaltante provvederà ai necessari
adempimenti per l'acquisizione del CIG e per
il pagamento della contribuzione per ogni
nuova procedura di scelta del contraente che
dà vita, sia essa la gara, sia essa la
procedura negoziata (laddove consentita, nel
rispetto delle condizioni di legge) ad una
nuova aggiudicazione con un nuovo e diverso
contratto.
---------------
[1] Cfr. TAR Lazio, Roma, n. 4924/2008,
che richiama il pronunciamento della Corte
di Giustizia CE, sz. II, n. 187/2005, con
cui il Giudice comunitario ha avuto modo di
ribadire che il ricorso alla procedura
negoziata senza pubblicazione preliminare di
un bando di gara è ammesso solo nei casi
tassativamente elencati dalle direttive
adottate in materia di procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici. La
normativa nazionale, osserva il TAR Lazio,
ha dunque ritenuto di adeguarsi, in
recepimento delle direttive comunitarie,
prevedendo anche tale strumento operativo,
purché contenuto nell'ambito indicato.
[2] Tra le tante, TAR Piemonte, n. 803/2011;
TAR Lazio, Roma, n. 4924/2008.
[3] Si riporta il testo dell'art. 7, comma
2, lett. f), D.Lgs. n. 157/1995, oggi
abrogato e confluito nell'art. 57, comma 5,
lett. b), D.lgs. n. 163/2006: 'Comma 2. Gli
appalti del presente decreto possono essere
aggiudicati a trattativa privata, senza
preliminare pubblicazione di un bando di
gara:
f) per nuovi servizi consistenti nella
ripetizione di servizi analoghi già affidati
allo stesso prestatore di servizi mediante
un precedente appalto aggiudicato dalla
stessa amministrazione, purché tali servizi
siano conformi a un progetto di base per il
quale sia stato aggiudicato un primo appalto
conformemente alle procedure di cui al comma
3; in questo caso il ricorso alla trattativa
privata, ammesso solo nei tre anni
successivi alla conclusione dell'appalto
iniziale, deve essere indicato in occasione
del primo appalto e il costo complessivo
stimato dei servizi successivi è preso in
considerazione dall'amministrazione
aggiudicatrice per la determinazione del
valore globale dell'appalto'.
[4] CdS, sez. IV, n. 6426/2006; nello stesso
senso, CdS, sez. VI, n. 6457/2006.
[5] Il riferimento è all'art. 6, comma 2,
ultimo periodo, L. n. 537/1993, (articolo
oggi abrogato dal D.Lgs. n. 163/2006), che
ammetteva, a determinate condizioni, la
possibilità di rinnovare i contratti delle
pubbliche amministrazioni, entro i tre mesi
prima della loro scadenza, e di cui si
riporta il testo: 'È vietato il rinnovo
tacito dei contratti delle pubbliche
amministrazioni per la fornitura di beni e
servizi, ivi compresi quelli affidati in
concessione a soggetti iscritti in appositi
albi. I contratti stipulati in violazione
del predetto divieto sono nulli. Entro tre
mesi dalla scadenza dei contratti, le
amministrazioni accertano la sussistenza di
ragioni di convenienza e di pubblico
interesse per la rinnovazione dei contratti
medesimi e, ove verificata detta
sussistenza, comunicano al contraente la
volontà di procedere alla rinnovazione'.
[6] CdS, sez. IV, n. 6426/2006. il Giudice
amministrativo evidenzia come in conseguenza
dell'intervento normativo dell'art. 23, L.
n. 62/20005, non è, altresì, possibile la
previsione del rinnovo nel bando di gara e
nel successivo contratto, posto che la
natura imperativa ed inderogabile della
sopravvenuta disposizione legislativa che
introduce un divieto generalizzato di
rinnovazione dei contratti delle pubbliche
amministrazioni implica la sopravvenuta
inefficacia delle previsioni, amministrative
e contrattuali, configgenti con il nuovo e
vincolante principio, che non tollera la
sopravvivenza dell'efficacia di difformi
clausole negoziali.
[7] Cfr. CdS, sez. V, n. 2882/2009; TAR
Lazio, Roma, n. 3546/2008; TAR Lazio, Roma,
n. 4924/2008.
[8] CdS n. 2882/2009. La ripetizione dei
servizi analoghi comporta un nuovo e diverso
vincolo contrattuale, come a tacer d'altro
si ricava dal dato che la ripetizione può
aver luogo solo nel triennio successivo alla
stipula dell'appalto iniziale (vale a dire
persino in pendenza del contratto
originario, il quale può generalmente durare
fino a 48 mesi).
[9] CdS n. 2882/2009. L'art. 57 del Codice
dei contratti non fonda una nuova ipotesi di
generale rinnovabilità dei contratti di
servizi consistente nella ripetizione di
servizi analoghi a quelli affidati all'esito
di una gara, ma si riferisce soltanto ad
eventuali esigenze di servizi analoghi
sopravvenute nel triennio successivo alla
stipula del contratto.
[10] TAR Lazio, Roma, n. 3546/2008; TAR
Lazio, Roma, n. 4924/2008.
[11] L'art. 1, comma 67, L. n. 266/2005,
dispone che l'Autorità per la vigilanza sui
lavori pubblici, ai fini della copertura dei
costi relativi al proprio funzionamento,
determina annualmente l'ammontare delle
contribuzioni dovute dai soggetti, pubblici
e privati, sottoposti alla sua vigilanza,
nonché le relative modalità di riscossione.
Con deliberazione del 03.11.2010, l'Autorità
per la vigilanza ha stabilito le modalità e
l'entità secondo cui è dovuto il versamento
dei contributi per l'anno 2011
(23.12.2011 - link a
www.regione.fvg.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: Deliberazione
su questioni non inserite all'ordine del
giorno.
1) L'ordine del giorno,
previamente comunicato a tutti i componenti
il consiglio comunale, può essere
modificato, con l'aggiunta di un nuovo
argomento, solo se tutti i componenti del
collegio sono presenti e accettano tale
modifica.
2) La deliberazione, eventualmente assunta
in un consiglio comunale in cui sia stato
assente qualche componente, su un argomento
non previamente inserito all'ordine del
giorno, è impugnabile da parte del
consigliere assente, in quanto affetta da un
vizio interno al procedimento.
3) Il consigliere assente alla seduta
consiliare può prestare acquiescenza alla
deliberazione già adottata, qualora la
stessa sia resa in maniera libera e
inequivocabilmente diretta a non più
contestare l'assetto di interessi definito
attraverso gli atti oggetto di impugnazione.
---------------
Il Comune chiede di conoscere un parere in
merito alla possibilità, da parte del
consiglio comunale, di deliberare, nel corso
della seduta, su questioni non previamente
inserite all'ordine del giorno.
Più in particolare, desidera sapere se sia
sufficiente che i consiglieri presenti alla
seduta esprimano, unanimamente, il loro
consenso alla trattazione dell'argomento non
inserito all'ordine del giorno o se, tale
unanimità, vada riferita alla totalità dei
componenti il consiglio comunale di guisa
tale che l'assenza anche di un solo
consigliere impedirebbe la legittima
trattazione della questione non previamente
inserita all'ordine del giorno. In
subordine, desidera sapere se, in caso di
avvenuta deliberazione su una questione non
inserita all'ordine del giorno, in una
seduta in cui la presenza dei componenti del
consiglio non sia stata totalitaria, sia
possibile da parte del consigliere assente,
prestare acquiescenza alla delibera già
approvata.
Sentito il Servizio elettorale, si formulano
le seguenti considerazioni.
È principio di ordine generale, comune alla
disciplina di tutti gli organi collegiali,
che un collegio non può deliberare
validamente se non sugli argomenti iscritti
all'ordine del giorno, preventivamente
comunicato a tutti i componenti. La regolare
formulazione dell'ordine del giorno risponde
all'esigenza di assicurare a ciascun
componente del collegio il consapevole
esercizio del suo ufficio,[1] in particolare
consentendo loro di conoscere in anticipo
gli argomenti sui quali dovrà deliberare,
nel nostro caso, il consiglio comunale. Ciò
al fine sia di consentire la loro
partecipazione ed informazione sia di
evitare che sia sorpresa la buona fede degli
assenti a seguito di deliberazione su
materie non incluse nell'ordine del
giorno.[2]
Ciò premesso, segue che l'ordine del giorno,
previamente comunicato a tutti i componenti
il consiglio comunale, potrà essere
modificato, con l'aggiunta di un nuovo
argomento, solo se tutti i componenti del
collegio sono presenti e accettano tale
modifica. Un tanto è stato confermato, in
diverse occasioni, dalla giurisprudenza la
quale ha, tra l'altro, affermato che:
'L'omissione dell'ordine del giorno può
assumere rilievo se e quando i componenti
dell'organo (o taluno di essi) eccepiscano
di non essere sufficientemente informati e
di opporsi a che uno o più argomenti vengano
posti in trattazione'.[3] Un tanto a
conferma del fatto che l'unanimità alla
trattazione di un argomento non previamente
inserito nell'ordine del giorno va riferita
ai componenti dell'organo e non ai presenti
ad una determinata seduta.[4]
In caso contrario, la deliberazione,
eventualmente assunta in un consiglio
comunale in cui sia stato assente qualche
componente, su un argomento non previamente
inserito all'ordine del giorno, sarebbe
impugnabile da parte del consigliere
assente,[5] in quanto affetta da un vizio
interno al procedimento che ben può essere
fatto valere dal singolo membro dell'organo
collegiale. Si ricorda, al riguardo, che: 'Le
deliberazioni di organi collegiali sono il
prodotto di subprocedimenti che hanno inizio
con l'avviso di convocazione, si sviluppano
con la discussione dell'ordine del giorno e
le votazioni e si concludono con la
proclamazione dei risultati. Per tali fasi
procedimentali le persone che compongono
l'organo sono titolari e destinatarie di
situazioni soggettive giuridicamente
rilevanti rispetto all'Ente di appartenenza,
per cui l'eventuale illegittimità degli atti
interni al procedimento ben può essere fatta
valere dai singoli membri; essa, qualora
giudicata sussistente, comporta ovviamente
il travolgimento della delibera adottata'.[6]
Significativa è anche la sentenza del
supremo giudice amministrativo nella quale
si legge che: 'I consiglieri comunali
dissenzienti non hanno un interesse protetto
e differenziato all'impugnazione delle
deliberazioni dell'organismo del quale fanno
parte, salvo il caso in cui venga lesa in
modo diretto ed immediato la propria sfera
giuridica per effetto di atti, direttamente
incidenti sul diritto all'ufficio o sullo
status ad essi spettante della carica di
consigliere, che compromettano il corretto
esercizio del loro mandato, come nel caso di
erronee modalità di convocazione
dell'organo, della violazione dell'ordine
del giorno, [...] e, più in generale, per
tutte quelle circostanze che precludano in
tutto o in parte l'esercizio delle funzioni
relative all'incarico rivestito[...]'.[7]
Né, in tali casi, è ammissibile la c.d.
prova di resistenza[8] 'atteso che
l'iscrizione all'ordine del giorno è imposta
non solo nell'interesse di ogni singolo
componente del collegio e a tutela dei suoi
diritti, ma anche nell'interesse pubblico
all'apporto decisionale di tutti i
componenti'.[9]
Quanto all'ultima questione posta, ovvero se
il consigliere assente alla seduta
consiliare possa prestare acquiescenza alla
deliberazione già adottata, si fornisce
risposta positiva, qualora la stessa sia
resa in maniera libera e inequivocabilmente
diretta a non più contestare l'assetto di
interessi definito attraverso gli atti
oggetto di impugnazione.[10]
Si ricorda, al riguardo, che:
'L'acquiescenza, intesa come accettazione
espressa o tacita del provvedimento
amministrativo lesivo -quale istituto di
diritto sostanziale, procedimentale e
processuale (ad esempio, determinante
l'estinzione del potere di azione, con
conseguente inammissibilità del ricorso
giurisdizionale proposto avverso il
provvedimento medesimo)- si configura solo
in presenza di una condotta da parte
dell'avente titolo all'impugnazione che sia
libera e inequivocabilmente diretta a non
più contestare l'assetto di interessi
definito dall'Amministrazione attraverso gli
atti oggetto di impugnazione. In quanto
incidente sul fondamentale diritto di agire
in giudizio, l'accertamento in ordine
all'avvenuta accettazione del contenuto e
degli effetti di un provvedimento lesivo
deve essere accurato ed esauriente e
svolgersi su tutti i dati fattuali, da cui
deve risultare senza alcuna incertezza la
presenza di una chiara intenzione definitiva
di non rimettere in discussione l'atto
lesivo'.[11]
---------------
[1] Così TAR Sardegna, Cagliari, sez. I,
sentenza del 06.12.2005.
[2] Così Consiglio di Stato, sez. VI,
sentenza del 01.02.2007, n. 416.
[3] Così Consiglio di Giustizia
Amministrativa Sicilia, sez. giurisd.,
sentenza del 07.05.1993.
[4] Si veda, anche, TAR Abruzzo, Pescara,
sentenza del 27.03.1991, ai sensi della
quale: 'Ai fini della legittimità delle
deliberazioni di organi collegiali non hanno
rilevanza le modalità di convocazione e la
mancata preventiva comunicazione dell'ordine
del giorno quando alla seduta abbiano
partecipato tutti i componenti dell'organo e
non vi siano stati dissensi sulla
deliberazione adottata'.
[5] Si tratterebbe di un vizio comportante
l'annullabilità della deliberazione
adottata.
[6] TAR Campania, Napoli, sez. I, sentenza
del 07.07.2005.
[7] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del
24.03.2011.
[8] Con tale espressione ci si riferisce al
fatto che una deliberazione non può essere
annullata qualora superi la c.d. prova di
resistenza, ossia qualora la maggioranza
prescritta sarebbe stata comunque raggiunta,
a prescindere dal voto espresso dal soggetto
impugnante.
[9] TAR Umbria, Perugia, sez. I, sentenza
del 09.12.2008.
[10] Si cita, al riguardo, la sentenza del
Consiglio di Stato, sez. VI, del 31.10.2011,
n. 5815, la quale afferma che: 'L'intenzione
di prestare acquiescenza ad un atto
amministrativo deve risultare in modo chiaro
ed irrefutabile dal compimento di atti
ovvero da comportamenti assolutamente
inconciliabili con una volontà del tutto
diversa'.
[11] TAR Veneto, Venezia, sez. II, sentenza
del 23.02.2011, n. 305. Nello stesso senso,
tra le altre, lo stesso TAR, sez. II,
sentenza del 22.04.2011, n. 671
(12.12.2011 - link a
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ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI: Poteri
del Sindaco in materia di sicurezza
igienico-sanitaria.
La regolamentazione
delle attività di manutenzione delle aree
adibite a verde insite sul proprio
territorio può essere assunta dal comune
nell'ambito delle normali funzioni
concernenti lo sviluppo economico e sociale,
nonché il governo del territorio, allo
stesso assegnate dalla legge.
Qualora tale regolamentazione non sia stata
codificata, il potere del comune di
richiedere l'immediato sfalcio di un terreno
può essere ricompreso, qualora ne sussistano
i presupposti, tra le situazioni previste
dalla legge per l'emanazione di ordinanze
contingibili ed urgenti.
---------------
Il Comune riferisce che, nell'adiacenza di
un parco giochi situato accanto al palazzo
municipale, insiste un terreno privato non
sfalciato da circa due anni. Tale stato di
abbandono avrebbe portato al proliferare di
zecche, serpenti ed altri rettili che
potrebbero facilmente raggiungere il parco
giochi frequentato da bambini.
L'Ente chiede di sapere se, a fronte di
questa situazione, il Sindaco, in qualità di
ufficiale sanitario comunale, possa emettere
un'ordinanza volta ad obbligare il
proprietario a sfalciare detto terreno.
Domanda, inoltre, quali sarebbero le
conseguenze in caso di mancato
ottemperamento all'ordine.
Rinviando in via preliminare alle lettura
dei pareri in materia di ordinanze sindacali
precedentemente espressi da questo
Ufficio[1], si espone quanto segue.
La regolamentazione delle attività di
manutenzione delle aree adibite a verde
insite sul proprio territorio può essere
assunta dal Comune nell'ambito delle normali
funzioni concernenti lo sviluppo economico e
sociale, nonché il governo del territorio,
allo stesso assegnate dalla legge[2].
In tale contesto, l'Ente può stabilire, per
ragioni di sicurezza, igiene e decoro,
l'obbligo, in capo ai proprietari o altri
aventi titolo su detti terreni, di
effettuare lo sfalcio periodico dell'erba.
All'eventuale violazione di tale generica
prescrizione, il Comune potrà, previa
specifica diffida ad adempiere, comminare
una determinata sanzione amministrativa e
procedere all'esecuzione d'ufficio del
provvedimento con spese a carico del
cittadino inadempiente[3].
Qualora tale regolamentazione non sia stata
codificata, come pare nel caso de quo, il
potere del Comune di richiedere l'immediato
sfalcio di un terreno può essere ricompreso
tra le situazioni previste dalla legge per
l'emanazione di ordinanze contingibili ed
urgenti.
L'art. 54, comma 4, del D.Lgs. 18.08.2000,
n. 267 (TUEL), attribuisce al sindaco, quale
ufficiale di Governo, il potere di adottare
provvedimenti, contingibili ed urgenti, nel
rispetto dei principi generali
dell'ordinamento, al fine di eliminare e di
prevenire gravi pericoli che minacciano
l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana.
L'art. 50, comma 5, del TUEL, stabilisce,
inoltre, il potere del sindaco, quale
rappresentante della comunità locale, di
adottare ordinanze contingibili ed urgenti
in caso di emergenze sanitarie o di igiene
pubblica, riprendendo quanto previsto dal
legislatore con l'art. 32 della legge
23.12.1978, n. 833 e con l'art. 117 del
D.Lgs. 31.03.1998, n. 112.
Pur non potendo entrare nel merito di
decisioni di stretta competenza dell'Ente,
pare che, tra gli elementi di fatto esposti
dal Comune, si possa considerare integrato
il requisito del 'grave pericolo',
richiesto dalla legge, nella possibilità di
morso e di contagio da parte di zecche e
rettili ai danni dei bambini frequentanti il
parco pubblico.
L'Ente dovrà, quindi, valutare, ai fini del
legittimo ricorso allo strumento
dell'ordinanza sindacale, se siano integrati
anche i presupposti dell'urgenza e della
contingibilità[4], con riferimento al
momento in cui tale provvedimento sarà
preso[5].
Riguardo alle conseguenze dell'eventuale
mancato adempimento dell'ordine impartito
dal Sindaco con l'ordinanza contingibile ed
urgente, il proprietario del terreno dovrà
essere contestualmente avvisato che potrà:
- essere denunciato all'autorità giudiziaria
per violazione dell'art. 650 del Codice
penale[6];
- essere obbligato al pagamento delle spese
per lo sfalcio dell'erba operato dal Comune
in sua vece[7] ai sensi dell'art. 54, comma
7, del TUEL[8].
---------------
[1] V. pareri prot. 32283 dd. 13.09.2011;
2279 dd. 18.02.2010; 3624 dd. 04.03.2010;
11967 dd. 27.07.2009; 4683 dd. 11.03.2008,
consultabili sul Portale del Sistema delle
autonomie locali all'indirizzo: http://autonomielocali.regione.fvg.it/aall/opencms/AALL/Servizi/pareri/
[2] V. art. 16 della legge regionale
09.01.2006, n. 1.
[3] V. parere dell'Anci dd. 09.05.2000.
[4] Per urgenza, si deve intendere
l'impossibilità di differire l'intervento ad
altra data, in relazione alla ragionevole
previsione di danno incombente, mentre, per
contingibilità, l'impossibilità di
provvedere con gli ordinari mezzi offerti
dalla legislazione.
[5] V. Consiglio di Stato, sez. V,
11.12.2007, n. 6366: 'il potere di urgenza
può essere esercitato solo per affrontare
situazioni di carattere eccezionale ed
impreviste, costituenti concreta minaccia
per la pubblica incolumità, per le quali sia
impossibile utilizzare i normali mezzi
apprestati dall'ordinamento giuridico e
unicamente in presenza di un preventivo
accertamento della situazione che deve
fondarsi su prove concrete e non su mere
presunzioni'.
[6] Art. 650 del Codice penale: 'Chiunque
non osserva un provvedimento legalmente dato
dall'autorità per ragione di giustizia o di
sicurezza pubblica o d'ordine pubblico o
d'igiene, è punito, se il fatto non
costituisce un più grave reato, con
l'arresto fino a tre mesi o con l'ammenda
fino a euro 206'.
[7] V. parere dell'Anci dd. 09.09.2009 in
cui si ritiene che, per questi atti, sia
d'obbligo avvertire preventivamente
l'interessato e che, qualora quest'ultimo si
opponga all'intervento, il comune, a seguito
della denuncia ex art. 650 C.P., potrà
chiedere l'intervento dell'autorità
giudiziaria.
[8] Art. 54, comma 7, del TUEL: 'Se
l'ordinanza adottata ai sensi del comma 4 è
rivolta a persone determinate e queste non
ottemperano all'ordine impartito, il sindaco
può provvedere d'ufficio a spese degli
interessati, senza pregiudizio dell'azione
penale per i reati in cui siano incorsi'
(22.11.2011 - link a
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ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso
agli atti connessi ad un procedimento in
fase istruttoria presso altra
amministrazione.
Qualora la richiesta di
accesso agli atti concerna un procedimento
ormai concluso, la pendenza presso altra
amministrazione di un procedimento cui
afferiscono i medesimi atti non esime l'ente
dal consentire l'accesso, una volta appurato
che al richiedente possa venire riconosciuta
la qualifica di soggetto 'interessato' e che
gli atti ai quali viene richiesto l'accesso
non rientrino tra quelli esclusi ai sensi
dell'articolo 24, l. 241/1990.
---------------
Il Comune chiede di conoscere se possa
essere riconosciuto ad un cittadino
l'accesso agli atti relativi al procedimento
di rilascio di autorizzazione paesaggistica
(relazione paesaggistica, copia elaborati,
elenco documentazione trasmessa a
soprintendenza per il rilascio del
nulla-osta, etc), resa dall'ente al vicino
di casa per l'installazione di pannelli
solari, atteso che quest'ultimo,
interpellato dal Comune, ha opposto diniego
motivato, tra l'altro, dalla pendenza presso
l'Amministrazione regionale di un
procedimento inerente alla verifica del
deposito dei calcoli di cemento armato
comportante, a suo dire, il segreto
istruttorio sugli atti per i quali è
richiesto l'accesso.
Esaminato il quadro normativo di
riferimento, si formulano le seguenti
considerazioni.
L'articolo 22, comma 1, della legge
07.08.1990, n. 241, dispone:
- sub lettera a) che per 'diritto di
accesso' si intende il 'diritto degli
interessati di prendere visione e di
estrarre copia di documenti amministrativi';
- sub lettera b) che per 'interessati'
debbano intendersi 'tutti i soggetti
privati, compresi quelli portatori di
interessi pubblici o diffusi, che abbiano un
interesse diretto, concreto e attuale,
corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata e collegata al
documento al quale è chiesto l'accesso';
- sub lettera d) che per 'documento
amministrativo' debba intendersi 'ogni
rappresentazione grafica,
fotocinematografica, elettromagnetica o di
qualunque altra specie del contenuto di
atti, anche interni o non relativi ad uno
specifico provvedimento, detenuti da una
pubblica amministrazione e concernenti
attività di pubblico interesse,
indipendentemente dalla natura pubblicistica
o privatistica della loro disciplina
sostanziale'.
Il comma 2 del medesimo articolo, inoltre,
chiarisce che l'accesso ai documenti
amministrativi costituisce principio
generale dell'attività amministrativa con lo
scopo di assicurarne l'imparzialità e la
trasparenza e, il successivo comma 3,
precisa che 'Tutti i documenti
amministrativi sono accessibili, ad
eccezione di quelli indicati all'articolo
24, commi 1, 2, 3, 5 e 6.'.
Quanto alle modalità di esercizio del
diritto di accesso, il successivo articolo
25, comma 2, della legge n. 241/1990 dispone
che la richiesta sia motivata e che
contenga, quindi, gli elementi idonei ad
identificare l'interesse o gli interessi che
si intendono tutelare[1] in modo da
dimostrare la correlazione esistente tra la
situazione giuridica soggettiva
dell'instante e l'interesse alla conoscenza
del bene o della vicenda oggetto dell'atto o
del documento amministrativo di cui chiede
visione o copia.[2]
La legittimazione all'accesso viene, quindi,
riconosciuta dalla legge a chiunque dimostri
che gli atti procedimentali oggetto
dell'accesso abbiano spiegato o siano idonei
a spiegare effetti diretti o indiretti nei
suoi confronti, indipendentemente dalla
lesione di una posizione giuridica, stante
l'autonomia del diritto di accesso, inteso
come interesse a un bene della vita.
Nel caso in esame, concernente un
procedimento ormai concluso in esito al
quale è stata rilasciata l'autorizzazione
paesaggistica richiesta, una volta appurato
che al richiedente possa venire riconosciuta
la qualifica di soggetto 'interessato'
nei termini sopra riportati e che gli atti
ai quali viene richiesto l'accesso non
rientrino tra quelli esclusi ai sensi del
summenzionato articolo 24[3] [4], l.
241/1990 il Comune dovrà aderire alla
richiesta consentendo l'accesso.
Quanto alle obiezioni del controinteressato,
si rileva come le stesse non sembrino
pertinenti alla richiesta di accesso
presentata dall'interessato, atteso che si
riferiscono a diverso ed autonomo
procedimento pendente presso altra
amministrazione.
Per completezza espositiva, non riguardando
il caso in esame, con riferimento
all'esercizio del diritto di accesso in fase
endoprocedimentale, si rimanda alla lettura
del parere prot. 8660 dd. 21.05.2010, reso
dallo scrivente Servizio, in cui si osserva
come l'accesso debba essere consentito,
sulla base dei presupposti precedentemente
illustrati, indipendentemente dalla fase del
procedimento cui gli atti, per i quali
l'accesso è richiesto, afferiscono[5]. Un
tanto sembra confermato, anche se
indirettamente, dal D.P.R. 12.04.2006, n.
184 (Regolamento recante la disciplina in
materia di accesso ai documenti
amministrativi) il quale, all'articolo 2,
comma 2, collega l'esercizio del diritto di
accesso ai requisiti dell'effettiva
esistenza e della detenzione da parte
dell'Amministrazione dei documenti
richiesti, senza riferimento alcuno alla
fase del procedimento. La giurisprudenza
amministrativa, inoltre, si è più volte
espressa in tal senso [6] confermando che la
mancata conclusione del procedimento non può
ostare, ex sé, all'accoglimento di
una richiesta d'accesso.
---------------
[1] Cfr. Consiglio di Stato, Sezione IV,
13.01.2010, n. 54.
[2] Cfr. Consiglio di Stato, Sezione VI,
09.08.2011, n. 4741, secondo cui 'La
situazione giuridicamente rilevante
disciplinata dalla legge 07.08.1990, n. 241,
per la cui tutela è attribuito il diritto di
accesso ai documenti amministrativi, è
nozione diversa e più ampia rispetto
all'interesse all'impugnativa e non
presuppone necessariamente una posizione
soggettiva qualificabile in termini di
diritto soggettivo o di interesse legittimo.
Con la conseguenza che la legittimazione
all'accesso va riconosciuta a chiunque possa
dimostrare che gli atti procedimentali
oggetto dell'accesso abbiano spiegato o
siano idonei a spiegare effetti diretti o
indiretti nei suoi confronti,
indipendentemente dalla lesione di una
posizione giuridica, stante l'autonomia del
diritto di accesso, inteso come interesse ad
un bene della vita distinto rispetto alla
situazione legittimante all'impugnativa
dell'atto».
[3] L'art. 24, l. 241/1990, cui si rimanda,
fornisce, al comma 1, un'elencazione dei
documenti sottratti all'accesso per la
salvaguardia di interessi pubblici ritenuti
prioritari rispetto a quello del richiedente
alla conoscenza, ribadendo, al comma 7, che
'Deve comunque essere garantito ai
richiedenti l'accesso ai documenti
amministrativi la cui conoscenza sia
necessaria per curare o difendere i propri
interessi giuridici [...].
[4] Cfr. Consiglio di Stato, Sezione IV,
03-08-2011, n. 4661 secondo cui 'L'interesse
all'accesso ai documenti amministrativi
-previsto dall'art. 22 della legge n.241/90-
è da considerarsi prevalente rispetto agli
altri interessi coinvolti in subjecta
materia con la conseguenza che il diniego
opposto in ordine alla richiesta di
conoscenza ed ostensibilità dei documenti
detenuti dalla P.A. costituisce una vera e
propria eccezione derogatoria abbisognevole,
come tale, di una espressa previsione
normativa contemplante l'esclusione
dell'accesso stesso. Il legislatore della
legge n. 241/90 si è fatto carico di
prevedere (art. 24, comma 6, lett. d) che i
casi di esclusione siano contemplati dai
regolamenti di cui le singole
Amministrazioni possono dotarsi ai sensi
della suindicata norma (art. 24, comma 2).'.
[5] Cfr. T.A.R. Lazio Roma Sezione I,
20.03.2006, n. 1994 secondo cui 'Il diritto
di accesso non può essere escluso per il
fatto che il procedimento non si è ancora
concluso o i documenti non risultano ancora
recepiti in atti aventi rilevanza esterna.
Se l'art. 22 della legge n. 241/1990 dà
espressamente atto dell'accessibilità a
"tutti i documenti amministrativi", il
precedente art. 10 garantisce l'accesso come
strumento essenziale per la partecipazione
degli interessati al procedimento, anche
prima, dunque, della sua conclusione.'.
[6] Cfr. TAR Lombardia, Sezione I,
22.06.2011, n. 1621 secondo cui 'Le
eventuali ragioni che ostacolino l'immediata
conoscibilità degli atti di un procedimento
in itinere, oggetto della richiesta di
accesso, non possono giustificare un
provvedimento di diniego, dovendosi in tale
ipotesi adottare una determinazione di
differimento [...]'
(11.11.2011 - link a
www.regione.fvg.it). |
LAVORI PUBBLICI: Pavimentazione
di marciapiedi comprendenti porzioni di
suolo privato.
Non risulta possibile
eseguire la pavimentazione di marciapiedi
comprendenti porzioni di suolo privato senza
procedere alla preventiva acquisizione di
tali beni, atteso che l'intervento comunale
si tradurrebbe -con riferimento a dette
porzioni- in un'indebita spesa pubblica.
Inoltre, l'assenza del titolo non
consentirebbe, al Comune, di provvedere alla
manutenzione dei predetti tratti di
marciapiede.
---------------
Il Comune rappresenta che:
· negli anni 1970-1980 ha posto in opera le
cordonate stradali lungo alcune strade
comunali, ma non ha ancora provveduto alla
pavimentazione dei marciapiedi;
· lo spazio sterrato utilizzato quale
marciapiede è compreso tra le predette
cordonate ed i recinti privati, alcuni dei
quali, però, sono stati costruiti in
arretramento rispetto al confine di
proprietà;
· non risulta evidente, in loco, quale sia
il limite tra proprietà pubblica e proprietà
privata[1], cosicché la collettività
utilizza lo spazio nella sua totalità;
· l'Amministrazione comunale intende
procedere alla pavimentazione anche dei
predetti spazi sterrati, al fine di renderli
più decorosi, sicuri e conformi alla norme
sul superamento delle barriere
architettoniche.
Pur avendo già fatto ricorso, in altre
circostanze, alla procedura semplificata per
l'accorpamento al demanio stradale delle
porzioni di terreno utilizzate ad uso
pubblico, prevista dall'art. 31, commi 21 e
22, della legge 23.12.1998, n. 448, il
Comune chiede di conoscere se possa eseguire
la pavimentazione suddetta, che insisterebbe
anche su porzioni di suolo privato
utilizzate da illo tempore quale
viabilità pedonale pubblica, senza dover
procedere alla preventiva acquisizione di
tali porzioni e, conseguentemente, al
frazionamento catastale, in quanto questo
risulterebbe oneroso per l'Amministrazione e
materialmente difficoltoso.
Al quesito si ritiene di dover fornire
risposta negativa, atteso che, pur
risultando necessario provvedere
all'integrale pavimentazione dei
marciapiedi, in relazione alle preminenti
necessità di garantire la sicurezza degli
utenti e di provvedere al superamento delle
barriere architettoniche, l'intervento
comunale non preceduto dall'acquisizione
delle aree si tradurrebbe -quanto alla
porzione di opera ricadente sul suolo
privato- in un'indebita spesa pubblica, alla
quale potrebbero far seguito ulteriori
esborsi a carico del bilancio dell'Ente,
anche a seguito dell'instaurazione di
possibili contenziosi, sia da parte dei
soggetti catastalmente titolari della
proprietà, quanto dei pedoni che ritengano
di vantare indennizzi per lesioni subite in
tali tratti privati (ma apparentemente di
proprietà pubblica).
Inoltre, l'assenza del titolo non
consentirebbe, all'Ente, di provvedere alla
manutenzione dei predetti tratti di
marciapiede.
---------------
[1] Mentre esso risulta rilevabile dai
rilievi catastali eseguiti dal Comune
(19.08.2011 - link a
www.regione.fvg.it). |
LAVORI PUBBLICI: Indennizzo
ai commercianti per mancati guadagni
derivanti da lavori pubblici.
E' legittima
l'erogazione di un indennizzo, da parte del
comune, ai commercianti che possono provare
di aver subito un pregiudizio di tipo
economico dal perdurare di lavori pubblici
oltre il termine fissato per la loro
conclusione.
L'ente è tenuto a regolamentare i criteri e
le modalità di ripartizione dei vantaggi
economici prima di procedere all'erogazione
degli stessi.
---------------
Il Comune ha chiesto un parere sulla
legittimità della richiesta di risarcimento,
da parte di alcuni esercizi commerciali, per
i mancati introiti derivanti dal perdurare
di lavori pubblici. Riferisce l'ente che
l'amministrazione sta procedendo ad una
sistemazione straordinaria di alcune delle
principali vie del paese, e che, per
consentire l'esecuzione dei lavori, la
viabilità è stata modificata in modo da
garantire l'accesso alle strade interessate
dagli interventi ai soli frontisti. Precisa,
infine, che per la loro complessità, i
lavori hanno superato i tempi preventivati.
Si osserva in via preliminare, che ai sensi
della legge regionale 09.01.2006, n. 1, art.
16, 'Il Comune è titolare di tutte le
funzioni amministrative che riguardano i
servizi alla persona, lo sviluppo economico
e sociale e il governo del territorio
comunale (...)'. Pertanto, nell'ambito
della propria autonomia organizzatoria, il
comune può programmare misure rivolte a
singoli settori di intervento, purché
riguardino la propria comunità[1].
Con riferimento alla natura degli interventi
eseguiti dall'ente, si richiama un parere
dell'ANCI[2] in cui emerge che: 'i
cantieri gestiti dalle amministrazioni e le
conseguenti limitazioni alla viabilità, se
eseguite in conformità alle leggi vigenti,
sono senz'altro atti leciti. (...) L'atto
lecito, in quanto tale, è privo della
qualificazione di antigiuridicità pertanto
solo eccezionalmente l'atto lecito dannoso
dà diritto ad un indennizzo, e mai ad un
risarcimento del danno (ossia ad un
integrale ristoro del pregiudizio arrecato).'
Nella scelta della modalità di
indennizzo[3], e nella quantificazione dello
stesso, il comune è libero di optare fra
varie possibilità[4], ma sempre nel rispetto
di quanto stabilito dall'articolo 12 della
legge 07.08.1990, n. 241[5].
Da ultimo, si richiama l'attenzione sulla
possibilità, per l'amministrazione, di
esercitare azione di rivalsa sull'impresa
contrattualmente inadempiente per non aver
concluso le opere entro il termine
concordato.
---------------
[1] Si veda il parere prot. 4809 del
26.03.2009, reperibile sul sito:
www.autonomielocali.regione.fvg.it
[2] Parere del 03.11.2009, nel quale l'ANCI
ritiene che ai commercianti possa essere
riconosciuto un adeguato ristoro solo se non
sono rispettati i termini stabiliti di
conclusione dei lavori e se i commercianti
sono in grado di dimostrare concretamente di
aver subito un pregiudizio a causa del
ritardo con cui è stata ultimata l'opera.
[3] L'articolo 39 della legge regionale
20.03.2000, n. 7, il quale trova
applicazione anche per gli enti locali,
secondo i rispettivi ordinamenti, stabilisce
che: 'Gli incentivi alle imprese sono
concessi in forma di contributo in conto
capitale, contributo in conto interessi,
finanziamento agevolato, concessione di
garanzia'.
[4] A titolo esemplificativo, si segnala
l'iniziativa intrapresa dal Comune di Tivoli
(Roma), intervenuto a regolamentare la
materia, prevedendo un contributo per
commercianti e artigiani sulla base di un
apposito fondo iscritto a bilancio. Il
regolamento e il bando sono consultabili su
internet alla pagina:
www.comune.tivoli.rm.it/contributo_commercianti
[5] Recita il comma 1 dell'articolo 12 della
l. 241/1990: 'La concessione di sovvenzioni,
contributi, sussidi ed ausili finanziari e
l'attribuzione di vantaggi economici di
qualunque genere a persone ed enti pubblici
e privati sono subordinate alla
predeterminazione ed alla pubblicazione, da
parte delle amministrazioni procedenti,
nelle forme previste dai rispettivi
ordinamenti, dei criteri e delle modalità
cui le amministrazioni stesse devono
attenersi'
(16.08.2011 - link a
www.regione.fvg.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Conferimento incarico collaudatore opere
pubbliche libero professionista ex
dipendente.
Ai sensi della normativa
vigente, gli incarichi in materia di
realizzazione di opere pubbliche possono
essere conferiti a liberi professionisti ex
dipendenti, qualora il collocamento a riposo
sia avvenuto d'ufficio, non anche nel caso
di dimissioni volontarie, per cui vige un
espresso divieto.
La pubblica amministrazione non può affidare
un incarico ad un soggetto esterno se non si
è prima dotata di un apposito regolamento
con il quale disciplinare e rendere
pubbliche le procedure comparative per il
conferimento degli incarichi di
collaborazione.
---------------
L'Ente riferisce di aver conferito, nel
corso dell'anno 2010, un incarico di
collaudatore statico in corso di opera ad un
proprio dipendente, responsabile
dell'ufficio tecnico, ai sensi dell'art. 9,
comma 1, L.R. n. 14/2002, 'Disciplina
organica dei lavori pubblici', e di
essere intenzionato a rivolgersi ancora, per
la prosecuzione dell'incarico, al tecnico in
questione, in qualità di libero
professionista, in quanto attualmente in
quiescenza per anzianità di servizio.
Preliminarmente, si rende noto che lo
scrivente Ufficio ha già avuto modo di
esprimersi, di recente, con nota n. 23585
del 28.06.2011[1], sul conferimento degli
incarichi a personale già dipendente delle
amministrazioni, facendo riferimento alla
disciplina di cui all'articolo 25, L. n.
724/1994 (Legge Finanziaria 1995), tutt'ora
in vigore, in quanto non abrogato o
modificato dalle disposizioni legislative
intervenute successivamente[2].
Detta norma, al fine di garantire la piena
ed effettiva trasparenza e imparzialità
dell'azione amministrativa, prevede che gli
incarichi di consulenza, collaborazione,
studio e ricerca non possano essere
conferiti al personale dipendente delle
amministrazioni pubbliche, che sia cessato
volontariamente dal servizio, pur non avendo
il requisito previsto per il pensionamento
di vecchiaia, ma in presenza di quello
contributivo per la pensione anticipata di
anzianità, da parte dell'amministrazione di
provenienza o di amministrazioni con le
quali detto personale abbia avuto rapporti
di lavoro o impiego nei cinque anni
precedenti a quello della cessazione dal
servizio.
Come già osservato nella nota richiamata,
anche alla luce delle precisazioni fornite,
in altra occasione, dal Dipartimento della
funzione pubblica, la disposizione della
legge finanziaria del 1995 riguarda
l'ipotesi in cui il collocamento a riposo
sia avvenuto per dimissioni volontarie
(pensione anticipata di anzianità), non
ponendo invece impedimenti al conferimento
degli incarichi di consulenza in caso di
collocamento a riposo d'ufficio, per limiti
di età o contributivi.
Si è, inoltre, evidenziata la duplice
ratio della norma in argomento, quale
individuata dalla Corte dei Conti: la
salvaguardia della imparzialità e
trasparenza nel conferimento degli
incarichi, atteso che è proprio nei
particolari casi di ex dipendenti
dell'amministrazione che tali esigenze si
pongono in modo più pressante, da una parte;
la finalità di garantire risparmi di spesa,
impedendo il cumulo tra pensione e
retribuzione, dall'altra[3].
Anche la Corte Costituzionale ha rilevato
come il divieto di cui all'art. 25, L. n.
724/1994, 'tende ad arginare il fenomeno
di dimissioni accompagnate da incarichi ad
ex dipendenti, sì da garantire la piena ed
effettiva trasparenza e l'imparzialità
dell'azione amministrativa' (C. Cost.,
n. 406/1995).
E dunque, avuto riguardo alla normativa
richiamata e alle precisazioni acquisite in
merito dal Dipartimento della funzione
pubblica, si ritiene che non vi siano
impedimenti al conferimento dell'incarico di
collaudatore all'ex dipendente, qualora il
collocamento in quiescenza, che l'Ente
riferisce essere avvenuto per anzianità di
servizio, abbia avuto luogo d'ufficio, per
raggiunti limiti contributivi. Non si può,
invece, procedere a tale affidamento nel
caso in cui il dipendente, avendo raggiunto
i requisiti per la pensione anticipata di
anzianità, abbia volontariamente posto fine
al suo rapporto di servizio.
Per completezza di analisi, in materia di
conferimento di incarichi esterni, si
richiama, infine, l'attenzione, sul
contenuto dell'art. 7, D.Lgs. n. 165/2001,
che ne disciplina espressamente i requisiti,
ed in particolare sul comma 6-bis dell'art.
7, quale novellato dall'art. 32 del D.L. n.
223/2006 (Decreto Bersani, 'Disposizioni
urgenti per il rilancio economico e sociale,
per il contenimento e la razionalizzazione
della spesa pubblica, nonché interventi in
materia di entrate e di contrasto
all'evasione fiscale'), a norma del
quale la pubblica amministrazione non può
affidare un incarico ad un soggetto esterno
se non si è prima dotata di un apposito
regolamento con il quale disciplinare e
rendere pubbliche le procedure comparative
per il conferimento degli incarichi di
collaborazione[4].
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[1] La nota è consultabile nella banca
dati on line della Regione FVG all'indirizzo
web: http://autonomielocali.regione.fvg.it/aall/opencms/AALL/Servizi/pareri/
[2] Parere ANCI del 18.09.2007
[3] Corte dei Conti, Puglia, deliberazione
n. 3/2010. Nello stesso senso, Corte dei
Conti, Umbria, sentenza n. 235/2006. Nel
contesto dell'art. 25, L. 724/1995, la
trasparenza e l'imparzialità passano da
attributi generali dell'azione
amministrativa a specifici beni/valori da
tutelare, in relazione agli abusi
intrinsecamente presenti nel conferimento di
incarichi a chi, già dipendente
dell'amministrazione che attribuisce gli
incarichi stessi, ha volontariamente posto
fine al suo rapporto di servizio con
l'amministrazione, manifestando così un
chiaro disinteresse all'espletamento di
ulteriori attività lavorative con la
medesima .... Il divieto imposto dall'art.
25 in argomento deve ritenersi non più
operante dalla data in cui il soggetto
interessato ha raggiunto il requisito del
pensionamento di vecchiaia per aver compiuto
il 65° anno di età.
[4] La norma è richiamata dalla
giurisprudenza della Corte dei Conti: CdC,
deliberazione n. 25 del 19.11.2010
(10.08.2011 - link a
www.regione.fvg.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: L’onere
della prova circa la data di realizzazione
di un immobile abusivo spetta a chi ha
commesso l'abuso. Secondo il principio
generale previsto dall'art. 2697 del codice
civile, infatti, “Chi vuol far valere un
diritto in giudizio deve provare i fatti che
ne costituiscono il fondamento”, e con
riguardo alla realizzazione di opere in
tempo utile per poter fruire del condono, ad
esempio, si è affermato che è onere del
privato fornire la prova sulla data di
ultimazione dell'abuso, in quanto la
pubblica amministrazione non può di solito
materialmente accertare quale fosse la
situazione dell'intero suo territorio alla
data prevista dalla legge, mentre il privato
è normalmente in grado di esibire idonea
documentazione comprovante la conclusione
dell’opera.
Tale onere può ritenersi a sufficienza
soddisfatto solo quando le prove addotte
risultano obiettivamente inconfutabili sulla
base di atti e documenti che, da soli o
unitamente ad altri elementi probatori,
offrono la ragionevole certezza dell'epoca
di realizzazione del manufatto, mentre la
semplice produzione di una dichiarazione
sostitutiva non può in alcun modo assurgere
al rango di prova. E’ stato inoltre
puntualizzato che, nel processo civile, alle
dichiarazioni sostitutive dell’atto di
notorietà deve negarsi qualsiasi rilevanza,
sia pure indiziaria, qualora costituiscano
l’unico elemento esibito in giudizio al fine
di provare un elemento costitutivo
dell'azione o dell'eccezione, atteso che la
parte non può derivare elementi di prova a
proprio favore –ai fini del soddisfacimento
dell'onere di cui all'art. 2697 c.c.– da
proprie dichiarazioni non asseverate da
terzi.
Va preliminarmente osservato in linea di
principio come l’onere della prova circa la
data di realizzazione di un immobile abusivo
spetti a chi ha commesso l'abuso (Consiglio
di Stato, sez. IV – 31/01/2012 n. 478).
Secondo il principio generale previsto
dall'art. 2697 del codice civile, infatti, “Chi
vuol far valere un diritto in giudizio deve
provare i fatti che ne costituiscono il
fondamento”, e con riguardo alla
realizzazione di opere in tempo utile per
poter fruire del condono, ad esempio, si è
affermato che è onere del privato fornire la
prova sulla data di ultimazione dell'abuso,
in quanto la pubblica amministrazione non
può di solito materialmente accertare quale
fosse la situazione dell'intero suo
territorio alla data prevista dalla legge,
mentre il privato è normalmente in grado di
esibire idonea documentazione comprovante la
conclusione dell’opera (Consiglio di Stato,
sez. IV – 27/11/2010 n. 8298; si veda anche
TAR Campania Napoli, sez. VIII – 02/07/2010
n. 16569; TAR Lombardia Brescia, sez. I –
08/04/2010 n. 1506).
E’ stato altresì sottolineato che tale onere
può ritenersi a sufficienza soddisfatto solo
quando le prove addotte risultano
obiettivamente inconfutabili sulla base di
atti e documenti che, da soli o unitamente
ad altri elementi probatori, offrono la
ragionevole certezza dell'epoca di
realizzazione del manufatto, mentre la
semplice produzione di una dichiarazione
sostitutiva non può in alcun modo assurgere
al rango di prova (TAR Liguria, sez. I –
08/03/2012 n. 367). E’ stato inoltre
puntualizzato che, nel processo civile, alle
dichiarazioni sostitutive dell’atto di
notorietà deve negarsi qualsiasi rilevanza,
sia pure indiziaria, qualora costituiscano
l’unico elemento esibito in giudizio al fine
di provare un elemento costitutivo
dell'azione o dell'eccezione, atteso che la
parte non può derivare elementi di prova a
proprio favore –ai fini del soddisfacimento
dell'onere di cui all'art. 2697 c.c.– da
proprie dichiarazioni non asseverate da
terzi (TAR Lombardia Milano, sez. II –
24/02/2012 n. 617)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 18.05.2012 n. 838 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
L'art. 35 della l. 865/1971 è norma inderogabile che va ad
integrare la disciplina dettata dalle
singole convenzioni stipulate dal Comune con
i beneficiari, ex art. 1339 c.c (inserzione
automatica di clausole e di prezzi imposti
per legge).
Il testo normativo rende palese il diritto
del Comune di recuperare quanto speso sia
per l’acquisizione delle aree (corrispettivo
da adeguare all’effettiva somma dovuta agli
espropriati a seguito della definizione
della pratica espropriativa) sia per la loro
urbanizzazione, come dal costante
orientamento della giurisprudenza.
In relazione al primo profilo, va rilevato
come sia centrale nella definizione della
vicenda la disamina della norma contenuta
nell’art. 35 legge n. 865/1971. Tale
disposizione prevede esplicitamente che: “la
convenzione stipulata dal Comune per
concedere il diritto di superficie sulle
aree incluse nel P.E.E.P. deve prevedere il
corrispettivo della concessione in misura
pari al costo di acquisizione delle aree,
nonché al costo delle relative opere di
urbanizzazione realizzate o da realizzare,
allo scopo evidentemente di assicurare la
copertura delle spese complessivamente
sostenute o da sostenere da parte
dell’Amministrazione”.
Si tratta di norma inderogabile che va ad
integrare la disciplina dettata dalle
singole convenzioni stipulate dal Comune con
i beneficiari, ex art. 1339 c.c (inserzione
automatica di clausole e di prezzi imposti
per legge).
Il testo normativo rende palese il diritto
del Comune di recuperare quanto speso sia
per l’acquisizione delle aree (corrispettivo
da adeguare all’effettiva somma dovuta agli
espropriati a seguito della definizione
della pratica espropriativa) sia per la loro
urbanizzazione, come dal costante
orientamento della giurisprudenza (ex
plurimis, Consiglio di Stato, sez. V,
03.07.2003, n. 3982).
Peraltro, anche nella deliberazione 2/03, al
punto 5 del dispositivo, viene prevista la
possibilità di richiedere l’eventuale
conguaglio, per cui, poiché la stessa
deliberazione fa poi rinvio nelle
convenzioni d’assegnazione, appare
irrilevante che queste ultime non contengano
espressamente una clausola dello stesso
tenore.
Per altro verso, non è possibile desumere
alcun comportamento illegittimo del Comune
di Bussolengo a fronte dell’omessa
comunicazione nei confronti degli
assegnatari, dell’instaurazione del
procedimento dinanzi alla Corte d’Appello di
Venezia per l’opposizione alla stima e
concernente la controversia tra il Comune ed
il proprietario espropriato, in quanto gli
appellanti, in qualità di soggetti esterni
alla procedura ablatoria, non erano soggetti
necessari del processo civile. Le parti
processuali di tale giudizio rimanevano
esclusivamente l’espropriato e
l’espropriante, salvi i rapporti ulteriori
esistenti tra amministrazione e soggetti
beneficiari dell’esproprio.
Infine, la mancata indicazione dell’autorità
e del termine entro il quale ricorrere non
sono elementi di illegittimità del
provvedimento, ma possono solo permettere,
nei casi in cui questo ricorra,
l’applicazione dell’errore scusabile in
favore del soggetto interessato (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 17.05.2012 n. 2854 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In tema
di distanze legali tra edifici o dal
confine, mentre non sono a tal fine
computabili le sporgenze estreme del
fabbricato che abbiano funzione meramente
ornamentale, di finitura od accessoria di
limitata entità, come le mensole, le lesene,
i cornicioni, le grondaie e simili, invece,
rientrano nel concetto civilistico di
costruzioni, le parti dell'edificio, quali
scale, terrazze e corpi avanzati (c.d.
aggettanti) che, se pur non corrispondono a
volumi abitativi coperti, sono destinate ad
estendere ed ampliare la consistenza del
fabbricato.
Lo stesso può dirsi per le opere di
contenimento che, comunque progettate in
relazione alla situazione dei luoghi ed alla
soluzione esteticamente ritenuta più
confacente dal committente, hanno una
struttura che deve essere idonea per
consistenza e modalità costruttive ad
assolvere alla funzione di contenimento ed
una funzione, che non è quella di
delimitare, proteggere ed eventualmente
abbellire la proprietà, ma essenzialmente di
sostenere il terreno al fine di evitare
movimenti franosi dello stesso.
Opere tali da dovere essere riguardate,
sotto il profilo edilizio, come opere dotate
di una propria specificità ed autonomia, in
una accezione che comprende tutte le
caratteristiche proprie dei fabbricati,
donde l'obbligo di rispetto di tutti gli
indici costruttivi prescritti dallo
strumento urbanistico e, in particolare,
delle distanze dal confine privato.
---------------
Ai fini dell'osservanza delle norme sulle
distanze legali di origine codicistica o
prescritte dagli strumenti urbanistici in
funzione integrativa della disciplina
privatistica, la nozione di costruzione non
si identifica con quella di edificio ma si
estende a qualsiasi manufatto non
completamente interrato che abbia i
caratteri della solidità, stabilità, ed
immobilizzazione al suolo, anche mediante
appoggio, incorporazione o collegamento
fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o
contestualmente realizzato,
indipendentemente dal livello di posa e di
elevazione dell'opera.
Ai fini del rispetto delle distanze fra
costruzioni non rileva il materiale
utilizzato per la fabbrica, richiedendosi
soltanto una durevolezza dell'opera
comunemente riconoscibile anche alle opere
in legno o ferro od altri materiali leggeri,
purché infissi al suolo non
transitoriamente.
---------------
Costituisce costruzione, agli effetti della
disciplina del c.c. sulle distanze legali,
ogni manufatto che, per struttura e
destinazione, ha carattere di stabilità e
permanenza (nella specie il manufatto, con
finestra, era coperto da tettoia formata da
travi con soprastanti lamiere, ed era
destinato a fienile, magazzino e pollaio).
---------------
Analoga nozione estensiva del concetto di
“fabbricato” è stata dettata dalla Corte di
Cassazione ai fini dell'art. 907 c.c.,
diretto a preservare l'esercizio delle
vedute da ogni eventuale ostacolo con
carattere di stabilità, in quanto la nozione
di costruzione è comprensiva non solo dei
manufatti in calce e mattoni, ma di
qualsiasi opera che, indipendentemente dalla
forma e dal materiale con cui è stata
realizzata, determini un ostacolo del genere
(nella specie, il giudice del merito aveva
ritenuto che costituisse costruzione nel
senso anzidetto una veranda che ostacolava
la veduta dal balcone e dalla finestra
sovrastanti, anche se ottenuta mediante la
posa in opera, su correntini infissi nel
muro, di lastre di fibrocemento facilmente
asportabili, in quanto bullonate a tali
correntini. La C.S., nell'enunciare il
precisato principio di diritto, ha
confermato tale decisione).
Rileva in proposito il Collegio che, per
condivisa giurisprudenza di questo Consiglio
di Stato, “in tema di distanze legali tra
edifici o dal confine, mentre non sono a tal
fine computabili le sporgenze estreme del
fabbricato che abbiano funzione meramente
ornamentale, di finitura od accessoria di
limitata entità, come le mensole, le lesene,
i cornicioni, le grondaie e simili, invece,
rientrano nel concetto civilistico di
costruzioni, le parti dell'edificio, quali
scale, terrazze e corpi avanzati (c.d.
aggettanti) che, se pur non corrispondono a
volumi abitativi coperti, sono destinate ad
estendere ed ampliare la consistenza del
fabbricato.
Lo stesso può dirsi per le opere di
contenimento, quali indubbiamente si
configurano quelle di cui al caso di specie
che, comunque progettate in relazione alla
situazione dei luoghi ed alla soluzione
esteticamente ritenuta più confacente dal
committente, hanno una struttura che deve
essere idonea per consistenza e modalità
costruttive ad assolvere alla funzione di
contenimento ed una funzione, che non è
quella di delimitare, proteggere ed
eventualmente abbellire la proprietà, ma
essenzialmente di sostenere il terreno al
fine di evitare movimenti franosi dello
stesso.
Opere tali da dovere essere riguardate,
sotto il profilo edilizio, come opere dotate
di una propria specificità ed autonomia, in
una accezione che comprende tutte le
caratteristiche proprie dei fabbricati,
donde l'obbligo di rispetto di tutti gli
indici costruttivi prescritti dallo
strumento urbanistico e, in particolare,
delle distanze dal confine privato”
(Consiglio Stato, sez. IV, 30.06.2005, n.
3539)
In modo pressoché simmetrico, la
giurisprudenza civile di legittimità ha
ancora di recente condivisibilmente
affermato che “ai fini dell'osservanza
delle norme sulle distanze legali di origine
codicistica o prescritte dagli strumenti
urbanistici in funzione integrativa della
disciplina privatistica, la nozione di
costruzione non si identifica con quella di
edificio ma si estende a qualsiasi manufatto
non completamente interrato che abbia i
caratteri della solidità, stabilità, ed
immobilizzazione al suolo, anche mediante
appoggio, incorporazione o collegamento
fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o
contestualmente realizzato,
indipendentemente dal livello di posa e di
elevazione dell'opera” (Cassazione
civile, sez. II, 17.06.2011, n. 13389).
La giurisprudenza civile di merito,
altrettanto condivisibilmente, ad avviso del
Collegio ha poi fatto presente che ai fini
del rispetto delle distanze fra costruzioni
non rileva il materiale utilizzato per la
fabbrica, richiedendosi soltanto una
durevolezza dell'opera comunemente
riconoscibile anche alle opere in legno o
ferro od altri materiali leggeri, purché
infissi al suolo non transitoriamente.
Ne consegue la permanente vigenza
dell’insegnamento della Corte di legittimità
secondo il quale “costituisce
costruzione, agli effetti della disciplina
del c.c. sulle distanze legali, ogni
manufatto che, per struttura e destinazione,
ha carattere di stabilità e permanenza
(Nella specie il manufatto, con finestra,
era coperto da tettoia formata da travi con
soprastanti lamiere, ed era destinato a
fienile, magazzino e pollaio)“
(Cassazione civile, sez. II, 24.05.1997, n.
4639).
Per completezza –tenuto conto dei profili
sollevati dall’appellato nella propria
memoria di replica- si evidenzia che analoga
nozione estensiva del concetto di “fabbricato”
è stata dettata dalla Corte di Cassazione ai
fini dell'art. 907 c.c., diretto a
preservare l'esercizio delle vedute da ogni
eventuale ostacolo con carattere di
stabilità, “in quanto la nozione di
costruzione è comprensiva non solo dei
manufatti in calce e mattoni, ma di
qualsiasi opera che, indipendentemente dalla
forma e dal materiale con cui è stata
realizzata, determini un ostacolo del
genere. (Nella specie, il giudice del merito
aveva ritenuto che costituisse costruzione
nel senso anzidetto una veranda che
ostacolava la veduta dal balcone e dalla
finestra sovrastanti, anche se ottenuta
mediante la posa in opera, su correntini
infissi nel muro, di lastre di fibrocemento
facilmente asportabili, in quanto bullonate
a tali correntini. La C.S., nell'enunciare
il precisato principio di diritto, ha
confermato tale decisione)” (Cassazione
civile, sez. II, 21.10.1980, n. 5652)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.05.2012 n. 2847 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Al fine di individuare se un
manufatto sia o meno interrato, va fatto
riferimento al livello naturale del terreno,
con la conseguenza che la sporgenza di un
manufatto dal suolo va riscontrata con
riferimento al piano di campagna, cioè al
livello naturale del terreno, e non al
livello eventualmente inferiore cui si trovi
un finitimo edificio realizzato con
abbassamento di quel piano.
---------------
Soltanto i locali costruiti al di sotto
dell'originario piano di campagna non sono
computabili ai fini dell'applicazione degli
standards urbanistici e non concernono al
computo della volumetria.
---------------
Ai sensi dell'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122,
la realizzazione di autorimesse e parcheggi
è soggetta alla disciplina urbanistica
dettata per le ordinarie nuove costruzioni
fuori terra, se non effettuata totalmente al
di sotto del piano di campagna naturale.
Pertanto, le autorimesse, edificate fuori
terra, poiché vanno qualificate come nuove
costruzioni, sono soggette al pagamento
degli oneri di urbanizzazione e del costo di
costruzione, in quanto il citato art. 9,
comma 2, L. n. 122/1989, nel rinviare al
precedente comma 1, si riferisce soltanto
alle opere edilizie, destinate a parcheggi,
eseguite nei locali siti al piano terra o
nel sottosuolo del fabbricato o nel
sottosuolo di aree pertinenziali esterne al
fabbricato.
Sul punto giova
rammentare che, per costante giurisprudenza
di questa Sezione, “al fine di
individuare se un manufatto sia o meno
interrato, va fatto riferimento al livello
naturale del terreno, con la conseguenza che
la sporgenza di un manufatto dal suolo va
riscontrata con riferimento al piano di
campagna, cioè al livello naturale del
terreno, e non al livello eventualmente
inferiore cui si trovi un finitimo edificio
realizzato con abbassamento di quel piano.”
(Consiglio Stato, sez. V, 06.12.2010, n.
8547 ed in passato Consiglio Stato, sez. V,
21.10.1991, n. 1231 laddove si è affermato
che soltanto “i locali costruiti al di
sotto dell'originario piano di campagna non
sono infatti computabili ai fini
dell'applicazione degli standards
urbanistici e non concernono al computo
della volumetria.”).
Nel caso di specie, nella incontestabile
emergenza processuale secondo cui il piano
di calpestio del terrazzo-veranda si trova
ad una quota di 85 cm. rispetto alla strada
senza uscita, ancora da denominare, che si
dirama da Via Brennero, e di 1,52 m.
rispetto al terreno di proprietà
dell’appellato (costruzione resa possibile,
sistemando l’area esterna al fabbricato
principale con un terrapieno artificiale) si
rende applicabile l’orientamento espresso a
più riprese da questo Consiglio di Stato
secondo cui “ai sensi dell'art. 9, l.
24.03.1989 n. 122, la realizzazione di
autorimesse e parcheggi è soggetta alla
disciplina urbanistica dettata per le
ordinarie nuove costruzioni fuori terra, se
non effettuata totalmente al di sotto del
piano di campagna naturale” (Consiglio
Stato, sez. IV, 27.11.2010, n. 8260).
Ne consegue la esattezza dell’affermazione
del primo giudice (non specificamente
contestata nell’appello, peraltro) secondo
cui “le autorimesse, edificate fuori
terra, poiché vanno qualificate come nuove
costruzioni, sono soggette al pagamento
degli oneri di urbanizzazione e del costo di
costruzione, in quanto il citato art. 9,
comma 2, L. n. 122/1989, nel rinviare al
precedente comma 1, si riferisce soltanto
alle opere edilizie, destinate a parcheggi,
eseguite nei locali siti al piano terra o
nel sottosuolo del fabbricato o nel
sottosuolo di aree pertinenziali esterne al
fabbricato”
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.05.2012 n. 2847 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nel caso di opere realizzate
sulla base di titolo annullato, la loro
demolizione deve essere considerata quale
extrema ratio, privilegiando, ogni volta che
ciò sia possibile, la riedizione del
permesso di costruire emendato dai vizi
riscontrati.
---------------
Se il responsabile dell'abuso non provvede
alla demolizione e al ripristino dello stato
dei luoghi nel termine di novanta giorni
dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime,
nonché quella necessaria, secondo le vigenti
prescrizioni urbanistiche, alla
realizzazione di opere analoghe a quelle
abusive sono acquisiti di diritto
gratuitamente al patrimonio del comune.
Non vi è certamente dubbio che, sulla base
del disposto dell'art. 38, d.P.R. 06.06.2001
n. 380 ed in relazione alla giurisprudenza
dominante (da ultimo, Consiglio di Stato,
sez. IV, 16.03.2010, n. 1535), nel caso di
opere realizzate sulla base di titolo
annullato, la loro demolizione deve essere
considerata quale extrema ratio,
privilegiando, ogni volta che ciò sia
possibile, la riedizione del permesso di
costruire emendato dai vizi riscontrati.
Tuttavia, nel caso in specie, ciò che appare
assente è l’oggetto stesso del titolo
abilitativo, come ben evidenziato dal primo
giudice in relazione all’impossibilità di
identificare un elemento progettuale
conforme nelle diverse rappresentazioni.
Appare quindi inapplicabile l’ipotesi di una
rimozione dei vizi procedimentali, atteso
che il profilo di illegittimità attiene
all’essenza stessa del manufatto in
relazione alla sua concreta dislocazione.
Deve quindi condividersi l’impostazione
assunta dal T.U. che, nella fattispecie
de qua, ha fatto riferimento al valore
preminente dell’art. 31, comma 3, prima
parte del T.U. 380/2001, secondo il quale “Se
il responsabile dell'abuso non provvede alla
demolizione e al ripristino dello stato dei
luoghi nel termine di novanta giorni
dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime,
nonché quella necessaria, secondo le vigenti
prescrizioni urbanistiche, alla
realizzazione di opere analoghe a quelle
abusive sono acquisiti di diritto
gratuitamente al patrimonio del comune”
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.05.2012 n. 2852 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
Certificati. Malattia, no alle visite
telefoniche
No alle visite per telefono. La proroga di
un periodo di malattia con certificato senza
effettuazione di una visita è reato. E vanno
incontro a una condanna penale sia il medico
sia il paziente.
Lo ha stabilito la V Sez. penale della Corte
di Cassazione che, con
sentenza
15.05.2012 n. 18687, ha
confermato una sentenza della Corte
d'appello di Milano.
Il medico è stato ritenuto responsabile di
falsità ideologica commessa da pubblico
ufficiale (art. 480 del codice penale),
mentre la paziente è stata condannata per
aver fatto uso del certificato medico «pur
conoscendone la falsità» (art. 489
c.p.). Entrambi si erano difesi sostenendo
che la donna era stata visitata quattro
giorni prima, e aveva poi comunicato per
telefono al dottore i sintomi della sua
malattia che persistevano.
«La falsa attestazione attribuita al
medico», osservano i giudici, «non
attiene tanto alle condizioni di salute
della paziente, quanto piuttosto al fatto
che egli ha emesso il certificato senza
effettuare una previa visita e senza alcuna
verifica oggettiva delle sue condizioni di
salute» (articolo
ItaliaOggi del 16.05.2012). |
APPALTI: P.a.,
il risparmio è un imperativo. Acquisti
sottomessi al criterio del rapporto
qualità-prezzo. La sentenza del Tar
Lombardia è la prima che si appella al
principio della spending review.
Risparmiare è un dovere
per la pubblica amministrazione. Non
applicare questo imperativo categorico da
parte di un'amministrazione, specie
regionale, «è un comportamento
antigiuridico» e porta ad invalidare tutti
gli atti che vadano in senso opposto.
È stato il TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, ad affermare
questo principio con la
sentenza
15.05.2012 n.
1350.
Una sentenza che, per rafforzare il suo
ragionamento, si è appellata, prima
pronuncia in Italia, addirittura al
recentissimo decreto legge 07.05.2012,
n. 52 sulla spending review, laddove impone
alle p.a. di avvalersi, nei propri acquisti,
sempre del parametro prezzo-qualità migliore
sul mercato, specie se i prezzi fossero più
bassi di quelli proposti dalla Consip per
beni o servizi comparabili.
Insomma, non ci
sono convenzioni o leggi che tengano: se sul
mercato si può pagare di meno, si deve
aggiudicare la gara al migliore offerente. E
se esistono centri di acquisto «pubblici»,
nazionali o regionali, che però offrono gli
stessi beni o servizi a prezzi più alti del
mercato, non c'è nessuna legge che possa
imporre di avvalersi di questi.
Una pronuncia dal forte impatto «politico»,
insomma, quella pronunciata, dal Tar della
Lombardia, che, nel caso di merito, è
intervenuto su uno dei capitoli di spesa che
pesano maggiormente sui conti pubblici, cioè
la spesa sanitaria sostenuta dalle regioni.
In particolare, il Tar ha annullato il
provvedimento con il quale l'Azienda
ospedaliera Ospedale Sant'Anna di Como,
insieme all'Azienda ospedaliera Ospedale
civile di Legnano, avevano aggiudicato la
fornitura quadriennale di farmaci ed
emoderivati alla centrale di acquisti
regionale Lombardia Informatica spa,
nonostante i prezzi di quest'ultima fossero
palesemente superiori a quelli proposti
invece dalla società privata fornitrice di
farmaci che ha proposto il ricorso in quanto
esclusa dalla gara.
E pensare che l'ospedale, inizialmente,
aveva riconosciuto e provvisoriamente
aggiudicato l'offerta economicamente più
vantaggiosa alla società privata. Poi,
invece, per il timore di incorrere in chissà
quali strali, ha deciso di annullare, in via
di autotutela, l'aggiudicazione,
rivolgendosi per l'acquisto dei farmaci alla
centrale acquisti pubblica della regione
Lombardia, nonostante il costo fosse
superiore.
«La cieca adesione a una normativa regionale
emanata in astratto proprio al fine di
ottenere risparmi di spesa per le singole
amministrazioni, ma la cui applicazione
nella fattispecie concreta ha determinato,
al contrario, un risultato deteriore per le
condizioni economiche di aggiudicazione
della fornitura dei farmaci in questione»,
dicono i giudici, va censurata. «E ciò,
anche in considerazione del particolare
momento di congiuntura economica in cui si
trova il paese, che dovrebbe far propendere
per scelte dirette ad un maggior risparmio
per la spesa pubblica».
E per far capire alle regioni e alle
amministrazioni che non è più tempo di
seguire solo le leggi astratte, ma che è
invece ora di risparmiare, affidandosi al
mercato, se più conveniente, il Tar lombardo
ha fatto un excursus della normativa, sia
nazionale che regionale, in materia di
acquisti da parte delle p.a., citando da
ultimo l'articolo 7, primo comma, del
decreto legge 52/2012 sulla spending review,
che impone a tutte le pa, regioni comprese,
di fare acquisti applicando «parametri
prezzo-qualità migliorativi rispetto a
quelli dei bandi pubblicati da Consip per
beni o servizi comparabili».
Nell'annullare gli atti dell'azienda
sanitaria, il Tar ha anche condannato
l'ospedale ai danni per colpa in quanto, «pur
consapevole del risparmio di spesa che
avrebbe ottenuto completando la procedura in
questione, in astratta applicazione di una
norma di legge ha omesso la necessaria
ponderazione nella valutazione degli
interessi sottesi all'esercizio del potere
di autotutela, ponendo nel nulla
l'aggiudicazione provvisoria nei confronti
della ricorrente, oltre all'antigiuridicità
del comportamento tenuto
dall'amministrazione, causativo di un danno
consistente nell'aver impedito alla società
di eseguire la fornitura di medicinali per
più di un anno»
(articolo ItaliaOggi
del 19.05.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il comune che non ha provveduto
alla integrale ottemperanza della sentenza
si è visto infliggere (dal CdS) la sanzione
di € 50 al giorno, da corrispondere per ogni
giorno di ritardo nell’esecuzione della
sentenza dopo il decorso dei termini prima
assegnati di sessanta giorni dalla
comunicazione o, se anteriore, notificazione
della presente sentenza e di sessanta giorni
per l’effettivo pagamento, e fino
all’effettivo pagamento ad opera
dell’amministrazione o del Commissario ad
acta.
Deve essere accolta la specifica domanda
presentata dalla parte ricorrente ex
articolo 114, comma 4, lettera e), del
codice del processo amministrativo, che ha
introdotto, in via generale, nel processo
amministrativo, l’istituto della cd.
penalità di mora, già regolato per il
processo civile, con riguardo alle sentenze
aventi per oggetto obblighi di fare
infungibile o di non fare, dall’art. 614 bis
del codice di procedura civile, aggiunto
dall’art. 49 della legge 18.06.2009, n. 69.
Anche con la sentenza di ottemperanza, può
invero essere fissata, salvo che ciò sia
manifestamente iniquo, e in assenza di
ulteriori ragioni ostative, su richiesta di
parte, la somma di denaro dovuta dal
resistente per ogni violazione o
inosservanza successiva, ovvero per ogni
ritardo nell'esecuzione del giudicato, con
una statuizione costituente titolo
esecutivo.
La misura prevista dall’art. 114, comma 4,
lettera e), del c.p.a. va infatti
considerata applicabile anche alle sentenze
di condanna pecuniarie della p.a.,
trattandosi di un modello normativo
caratterizzato da importanti differenze
rispetto alla previsione di cui all’art.
614-bis c.p.c., (applicabile solo alla
violazione di obblighi di fare infungibile o
di non fare).
La citata misura (Consiglio di Stato, sez.
V, sentenza 6688 del 20.12.2011), assolve
infatti ad una finalità sanzionatoria e non
risarcitoria in quanto non è volta a
riparare il pregiudizio cagionato
dall’esecuzione della sentenza ma a
sanzionare la disobbedienza alla statuizione
giudiziaria e stimolare il debitore
all’adempimento.
Nel processo amministrativo l’istituto
presenta un portata applicativa più ampia
che nel processo civile, in quanto l’art.
114, comma 4, lettera e), del codice del
processo amministrativo non ha riprodotto il
limite, stabilito della norma di rito
civile, della riferibilità del meccanismo al
solo caso di inadempimento degli obblighi
aventi per oggetto un non fare o un fare
infungibile.
Detta soluzione va ricondotta alla
peculiarità del rimedio dell’ottemperanza
che, grazie al potere sostitutivo
esercitabile dal giudice in via diretta o
mediante la nomina di un commissario ad
acta, non trova, a differenza del
giudizio di esecuzione civile, l’ostacolo
della non surrogabilità degli atti necessari
al fine di assicurare l’esecuzione in re del
precetto giudiziario; ne deriva che, nel
sistema processuale amministrativo, lo
strumento in esame non mira a compensare gli
ostacoli derivanti dalla non diretta
coercibilità degli obblighi di contegno
sanciti dalla sentenza del giudice civile
mentre del rimedio processuale civilistico è
volto alla generale finalità di dissuadere
il debitore dal persistere nella mancata
attuazione del dovere di ottemperanza.
Nel caso di specie risultano sussistenti
tutti i presupposti stabiliti dall’art. 114
cit. per l’applicazione della sanzione: la
richiesta di parte, formulata con il
ricorso, l’insussistenza di profili di
manifesta iniquità e la non ricorrenza di
altre ragioni ostative.
La misura della sanzione va dunque
effettuata, in difetto di disposizione sul
punto da parte del codice del processo
amministrativo, ai parametri di cui all’art.
614-bis del codice di procedura civile e si
deve valutare congrua, in ragione della
gravità dell’inadempimento, del valore della
controversia, della natura della
prestazione, dell’entità del danno e delle
altre circostanze, oggettive e soggettive,
del caso concreto, la misura di € 50 al
giorno, da corrispondere per ogni giorno di
ritardo nell’esecuzione della sentenza dopo
il decorso dei termini prima assegnati di
sessanta giorni dalla comunicazione o, se
anteriore, notificazione della presente
sentenza e di sessanta giorni per
l’effettivo pagamento, e fino all’effettivo
pagamento ad opera dell’amministrazione o
del Commissario ad acta (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 14.05.2012 n. 2744 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
L’accettazione dell'indennità di
esproprio non esclude l'interesse a far
riscontrare le eventuali illegittimità del
procedimento di espropriazione ed
occupazione d'urgenza, in vista anche del
maggior ristoro che il privato può ottenere
a titolo risarcitorio dell'accertata
illiceità conseguente all'annullamento degli
atti di sottrazione del bene.
---------------
In tema di espropriazione per pubblica
utilità, la decorrenza del periodo di
occupazione legittima inizia non già dal
giorno della dichiarazione di p.u. dell'eseguenda
opera pubblica (che non comporta, di per sé,
la necessità dell'occupazione d'urgenza del
fondo ad essa asservito), ma dal giorno
dell'emanazione, ex art. 71 della legge n.
2359 del 1865, del decreto autorizzativo, se
immediatamente operativo nei confronti
dell'occupante, con conseguente, contestuale
compressione della facoltà dell'occupato.
Innanzi tutto la Sezione ritiene
incondivisibile la eccezione di
improcedibilità dell’appello formulata dalla
difesa del resistente Comune nell’assunto
che la accettazione della indennità di
esproprio da parte degli appellanti ha
comportato rinuncia alla pretesa dedotta in
giudizio.
Invero l’accettazione dell'indennità di
esproprio non esclude l'interesse a far
riscontrare le eventuali illegittimità del
procedimento di espropriazione ed
occupazione d'urgenza, in vista anche del
maggior ristoro che il privato può ottenere
a titolo risarcitorio dell'accertata
illiceità conseguente all'annullamento degli
atti di sottrazione del bene (Consiglio
Stato, sez. IV, 02.10.2006, n. 5774).
---------------
Osserva
la Sezione che in tema di espropriazione per
pubblica utilità, la decorrenza del periodo
di occupazione legittima inizia non già dal
giorno della dichiarazione di p.u. dell'eseguenda
opera pubblica (che non comporta, di per sé,
la necessità dell'occupazione d'urgenza del
fondo ad essa asservito), ma dal giorno
dell'emanazione, ex art. 71 della legge n.
2359 del 1865, del decreto autorizzativo, se
immediatamente operativo nei confronti
dell'occupante, con conseguente, contestuale
compressione della facoltà dell'occupato
(Cassazione civile, sez. I, 25.03.2003, n.
4358)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 14.05.2012 n. 2743 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Le pubbliche
amministrazioni e i soggetti di cui
all’articolo 1, comma 1-ter, l. 241/1990. sono tenuti al
risarcimento del danno ingiusto cagionato in
conseguenza dell’inosservanza dolosa o
colposa del termine di conclusione del
procedimento”.
La giurisprudenza prevalente riconosce
oramai al ritardo amministrativo una
autonoma risarcibilità, a prescindere dalla
fondatezza della pretesa sottostante
all’istanza formulata all’amministrazione
(fatta eccezione per quelle palesemente
infondate o meramente pretestuose). Il tempo
è considerato un bene della vita per il
cittadino e da esso deriva il suo diritto ad
ottenere una risposta alla sua istanza in
tempi certi e definiti.
La giurisprudenza ha riconosciuto che il
ritardo nella conclusione di un qualunque
procedimento è sempre un costo, dal momento
che il fattore tempo costituisce una
essenziale variabile nella predisposizione e
nell'attuazione di piani finanziari relativi
a qualsiasi intervento, condizionandone la
relativa convenienza economica. In questa
prospettiva, ogni incertezza sui tempi di
realizzazione di un investimento si traduce
nell'aumento del c.d. "rischio
amministrativo" e, quindi, spetta il
risarcimento del danno da ritardo a
condizione, ovviamente, che tale danno
sussista e venga provato e sia escluso che
vi sia stato il concorso del fatto colposo
del creditore ex art. 1227 c.c..
---------------
La lesione dell’interesse legittimo teso ad
ottenere che il procedimento si concluda nel
termine di legge o ad ottenere un
provvedimento espresso è condizione
necessaria ma non sufficiente per accedere
alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c.
perché occorre che “risulti leso, per
effetto dell’attività illegittima (e
colpevole) della pubblica amministrazione
l’interesse al bene della vita al quale
l’interesse legittimo si correla e che detto
interesse risulti meritevole di tutela alla
luce dell’ordinamento positivo”.
L'ingiustizia e la sussistenza stessa del
danno non possono, in linea di principio,
presumersi iuris tantum in meccanica ed
esclusiva relazione al ritardo nell'adozione
del provvedimento amministrativo, ma il
danneggiato deve provare tutti gli elementi
costitutivi della relativa domanda, ossia
oltre al danno, l'elemento soggettivo del
dolo o della colpa e il nesso di causalità
tra danno ed evento. Pertanto,
l'accertamento della responsabilità della
P.A. per il tardivo esercizio della funzione
amministrativa non può ricollegarsi, quale
effetto automatico, alla mera constatazione
della violazione dei termini del
procedimento, Si richiede un quid pluris,
ossia che l'inosservanza dei termini
procedimentali sia imputabile a colpa o dolo
dell'Amministrazione medesima e che il danno
sia conseguenza diretta ed immediata del
ritardo dell'Amministrazione.
---------------
Con riferimento alla fattispecie del danno
da ritardo, in merito al comportamento
corretto e diligente del creditore, è stato
anche affermato che il diritto al
risarcimento del danno derivante dal ritardo
con il quale l'Amministrazione ha provveduto
spetta solo ove i soggetti interessati
abbiano reagito all'inerzia impugnando il
silenzio-rifiuto; solo in caso di
persistente inerzia a seguito di questa
procedura può infatti configurarsi la
lesione al bene della vita, risarcibile,
alla stregua dei canoni di correttezza e
buona fede, nello svolgimento del rapporto
qualificato e differenziato tra soggetto
pubblico e privato.
Invero, ciò che si risarcisce non è una
aspettativa all'agere legittimo
dell'Amministrazione, bensì il mancato
conseguimento del bene della vita cui si
ambiva al momento della proposizione
dell'istanza.
La norma codicistica di cui all’art. 2043
c.c., infatti, subordina il risarcimento
alla produzione di un danno ingiusto
causalmente generato da una condotta
illecita, nel caso di specie da individuarsi
nell’asserito ritardo, imputabile
all'Amministrazione a titolo di dolo o
colpa.
Per quanto concerne il merito del ricorso
proposto, la ricorrente chiede che le venga
risarcito il danno derivante dalla mancata
esecuzione della sentenza n. 75/2009 con la
quale sono stati annullati gli atti a suo
tempo impugnati che sospendevano a tempo
indeterminato il procedimento di rilascio
della concessione demaniale richiesta.
Con il presente ricorso la ricorrente
chiede, quindi, che le venga risarcito il
danno da perdita di chance, che si sostanzia
in particolare nella perdita della
possibilità di un risultato favorevole che
la ricorrente ritiene “presente nel suo
patrimonio” e che ha comportato
l’impossibilità di ottenere e gestire il
porto turistico così come progettato.
Secondo la difesa della ricorrente sugli
Enti intimati incombe una responsabilità da
“contatto sociale e procedimentale”, il che,
secondo l’allegata relazione tecnica di
parte, comporta il risarcimento delle
ingenti spese sostenute e del danno da
perdita dei canoni di ormeggio e gestione
che avrebbe potuto ricavare dai potenziali
ormeggianti i posti barca.
Preliminarmente, prima di valutare la
fondatezza della domanda risarcitoria
proposta, occorre richiamare in questa sede
alcuni fondamentali principi in tema di
risarcimento del danno derivante da lesione
di interessi legittimi ed in particolare di
risarcimento del danno da ritardo
nell’attività amministrativa, mai lamentato
per tale espressamente in questa sede, ma
che è nella sostanza alla base della
controversia de qua.
Il diritto ad ottenere il risarcimento del
danno nasce da una riconosciuta
responsabilità della pubblica
amministrazione per inosservanza di obblighi
procedimentali incombenti sulla stessa.
Dai principi di efficienza, economicità,
imparzialità, correttezza dell’azione
amministrativa derivano per
l’amministrazione regole ed obblighi che, se
violati senza alcuna giustificazione o senza
aver di mira il perseguimento di un
interesse pubblico superiore, comportano una
responsabilità per l’amministrazione stessa.
Ciò avviene anche per l’ipotesi di
violazione delle regole poste a tutela della
partecipazione procedimentale ovvero delle
norme che impongono la conclusione nei
termini di legge dei procedimenti
amministrativi.
La tutela risarcitoria degli interessi
legittimi è recente acquisizione e nel tempo
la relativa responsabilità
dell’amministrazione è stata qualificata in
diversi modi: responsabilità contrattuale
derivante dal c.d. contatto sociale,
precontrattuale, aquiliana e infine anche
modello di responsabilità speciale.
Attualmente queste differenze e nozioni
hanno perso di interesse poiché il
Legislatore con l’approvazione del Codice
del Processo amministrativo, in linea con la
giurisprudenza prevalente, ha qualificato la
responsabilità della pubblica
amministrazione, derivante dalla lesione di
interessi legittimi, in termini di
responsabilità aquiliana, i cui elementi
costitutivi sono quelli dell’illecito
civile.
Nell’ambito della responsabilità civile va
inquadrato anche il risarcimento del c.d.
danno da ritardo (quale ipotesi atipica di
illecito civile) e cioè il danno che il
cittadino lamenta per il ritardo con cui
l’amministrazione emana il provvedimento
favorevole ovvero negativo ma legittimo o,
ancora, il danno che si verifica nel caso in
cui l’amministrazione non si pronuncia
affatto.
Nell’ultimo decennio la problematica
inerente la risarcibilità del danno
derivante dalla lesione dell’interesse alla
conclusione del procedimento nel termine di
legge ha assunto grande importanza ed in
particolare la giurisprudenza si è
confrontata sulla possibilità di considerare
quale fonte di responsabilità
dell’amministrazione anche il mero ritardo
nell’adottare il provvedimento, slegato cioè
da ogni valutazione sulla spettanza del bene
della vita (Consiglio di Stato, ad.
Plenaria n. 7/2005).
Questo dibattito si considera oramai in
parte superato poiché la violazione
dell’obbligo di concludere con un
provvedimento espresso il procedimento
amministrativo avviato ad istanza di parte,
(dunque di una posizione di interesse
legittimo pretensivo), trova espressa
tutela, anche risarcitoria.
Alla luce del dettato normativo di cui alla
legge 69/2009, che ha modificato la
disciplina di cui all’articolo 2–bis della
legge 241/1990, infatti, “Le pubbliche
amministrazioni e i soggetti di cui
all’articolo 1, comma 1-ter, sono tenuti al
risarcimento del danno ingiusto cagionato in
conseguenza dell’inosservanza dolosa o
colposa del termine di conclusione del
procedimento”.
La giurisprudenza prevalente riconosce
oramai al ritardo amministrativo una
autonoma risarcibilità, a prescindere dalla
fondatezza della pretesa sottostante
all’istanza formulata all’amministrazione
(fatta eccezione per quelle palesemente
infondate o meramente pretestuose). Il tempo
è considerato un bene della vita per il
cittadino e da esso deriva il suo diritto ad
ottenere una risposta alla sua istanza in
tempi certi e definiti.
La giurisprudenza ha riconosciuto che il
ritardo nella conclusione di un qualunque
procedimento è sempre un costo, dal momento
che il fattore tempo costituisce una
essenziale variabile nella predisposizione e
nell'attuazione di piani finanziari relativi
a qualsiasi intervento, condizionandone la
relativa convenienza economica. In questa
prospettiva, ogni incertezza sui tempi di
realizzazione di un investimento si traduce
nell'aumento del c.d. "rischio
amministrativo" e, quindi, spetta il
risarcimento del danno da ritardo a
condizione, ovviamente, che tale danno
sussista e venga provato e sia escluso che
vi sia stato il concorso del fatto colposo
del creditore ex art. 1227 c.c. (Cons. giust.
amm. Sicilia sez. giurisd., n. 684 del 24.10.2011).
La circostanza per cui l’ordinamento dà
rilevanza diretta al tempo, a prescindere
dalla fondatezza dell’istanza del privato,
non significa che l’inutile decorso del
tempo viene risarcito sempre e comunque,
appunto per il suo solo trascorrere.
L’articolo 2–bis della legge 241/1990, con
l’utilizzo di locuzioni quali “danno
ingiusto” e inosservanza “dolosa o colposa”
del termine, che richiamano l’articolo 2043
c.c., richiede, infatti, che il danno da
ritardo risarcibile vada comunque ricondotto
agli elementi costitutivi di cui alla
disciplina dell’illecito civile.
Il “ritardo risarcibile”, quindi, deve
innanzitutto “produrre” un danno considerato
ingiusto, e cioè, come pure è stato
affermato in dottrina, sostanziare ”la
lesione di un interesse giuridicamente
protetto nella vita di relazione”. Il danno
non iure, deve, poi, conseguire
all’inosservanza dolosa o colposa dei
termini a provvedere.
Per aversi risarcibilità del ritardo
amministrativo, quindi, è necessario,
secondo quanto disposto dal Legislatore che
si verifichino i due aspetti del danno
ingiusto e cioè il danno evento e il danno
conseguenza: la lesione illegittima della
sfera giuridica e le conseguenze
pregiudizievoli che dalla lesione possono
derivare.
La lesione dell’interesse legittimo teso ad
ottenere che il procedimento si concluda nel
termine di legge o ad ottenere un
provvedimento espresso è condizione
necessaria ma non sufficiente per accedere
alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c.
perché occorre che “risulti leso, per
effetto dell’attività illegittima (e
colpevole) della pubblica amministrazione
l’interesse al bene della vita al quale
l’interesse legittimo si correla e che detto
interesse risulti meritevole di tutela alla
luce dell’ordinamento positivo” (cfr. Corte
di Cassazione, SS.UU., n. 500/1999).
E’ stato più di recente anche affermato che
“l'ingiustizia e la sussistenza stessa del
danno non possono, in linea di principio,
presumersi iuris tantum in meccanica ed
esclusiva relazione al ritardo nell'adozione
del provvedimento amministrativo, ma il
danneggiato deve provare tutti gli elementi
costitutivi della relativa domanda, ossia
oltre al danno, l'elemento soggettivo del
dolo o della colpa e il nesso di causalità
tra danno ed evento. Pertanto,
l'accertamento della responsabilità della
P.A. per il tardivo esercizio della funzione
amministrativa non può ricollegarsi, quale
effetto automatico, alla mera constatazione
della violazione dei termini del
procedimento, Si richiede un quid pluris,
ossia che l'inosservanza dei termini
procedimentali sia imputabile a colpa o dolo
dell'Amministrazione medesima e che il danno
sia conseguenza diretta ed immediata del
ritardo dell'Amministrazione" (cfr. TAR
Campania–Napoli - sez. VIII, n. 4942 del
26.10.2011).
Il risarcimento del danno da ritardo,
dunque, presuppone, al pari di ogni
pregiudizio di cui si rivendichi il ristoro
in sede aquiliana, che la lesione del bene
della vita “tempo”, integrante danno-evento,
sia seguita dalla produzione di conseguenze
pregiudizievoli nella sfera patrimoniale e
non, ossia il c.d. danno conseguenza, di cui
compete al soggetto che agisce in giudizio
fornire adeguata dimostrazione sul duplice
versante dell’an e del quantum.
Il danno risarcibile, in una prospettiva
ermeneutica fedele alle coordinate della
Cassazione che escludono la funzione
sanzionatoria del sistema della
responsabilità aquiliana e che richiedono la
dimostrazione di un pregiudizio conseguito,
ex art. 1223 c.c., alla lesione
dell’interesse giuridicamente tutelato, non
è il "tempo perso" in sé ma la conseguenza
dannosa che la lesione del bene tempo abbia
sortito nella sfera del danneggiato.
Nel rapporto “procedimentale” con la P.A. i
beni della vita da tutelare sono quindi due:
da una parte l’interesse ad ottenere una
delibazione tempestiva della propria istanza
e dall’altra quello che si intende
conseguire con il favorevole provvedimento
richiesto. In caso di inerzia tenuta
dall’amministrazione rispetto all’istanza
del cittadino, questi può adire il giudice
amministrativo sia per chiedere che venga
condannata l’amministrazione a pronunciarsi
ricorrendo al rito sul silenzio sia per
chiedere direttamente il risarcimento del
danno che assume gli sia derivato
dall’inerzia stessa.
La mancata attivazione del rito sul
silenzio, tuttavia, come si dirà a breve,
può rilevare ai fini dell’articolo 1227 c.c.
(cfr. art. 30 c.p.a.) in ordine
all’accertamento della spettanza del
risarcimento nonché alla quantificazione del
danno risarcibile.
Nel caso in cui manca una pronuncia
dell’amministrazione, seppure tardiva,
positiva o negativa, per il giudice
amministrativo che deve decidere sulla
domanda risarcitoria, si pone
preliminarmente il problema di andare a
valutare la spettanza o meno del bene della
vita e, conseguentemente, quello dell’entità
del danno lamentato.
Il giudizio prognostico sulla spettanza del
bene della vita diventa operazione sempre
più complessa e delicata a seconda che si
tratti di attività amministrativa vincolata
ovvero discrezionale. Mentre nel primo caso
per il giudice amministrativo è più agevole
sindacare dall’esterno la possibilità di
ottenere un provvedimento favorevole e
quindi valutare l’effettività del danno
lamentato, in caso di attività discrezionale
detto sindacato necessita di una maggiore
cautela per evitare una ingerenza del
giudice nel campo del merito amministrativo.
In quest’ultimo caso il risarcimento del
danno deve, infatti, essere parametrato alla
chance di ottenere il provvedimento
favorevole e quindi il giudice andrà a
valutare gli elementi che in base ad una
semplice ed evidente presunzione, con una
mera operazione probabilistica, avrebbero
condotto all’assunzione di un provvedimento
favorevole se l’Amministrazione avesse
rispettato il termine o se si fosse,
comunque, determinata, evitando, quindi, di
sconfinare in considerazioni di opportunità.
La considerazione che il tempo nel nostro
ordinamento, sia un bene della vita,
risarcibile ex se, trova un temperamento
nella disciplina generale introdotta dal
codice del processo amministrativo in tema
di azione risarcitoria.
L’articolo 30, al secondo comma prevede che
“Può essere chiesta la condanna al
risarcimento del danno ingiusto derivante
dall’illegittimo esercizio dell’attività
amministrativa o dal mancato esercizio di
quella obbligatoria...”.
Anche questa norma richiama la formula
aquiliana del danno ingiusto e si riferisce
espressamente sia all’attività
provvedimentale illegittima che alle ipotesi
di inerzia procedimentale.
La norma introdotta con la legge 69/2009
risulta quindi, temperata dal comma 3
dell’articolo 30 del c.p.a. con il quale si
prevede che “Nel determinare il risarcimento
il giudice valuta tutte le circostanze di
fatto e il comportamento complessivo delle
parti e, comunque, esclude il risarcimento
dei danni che si sarebbero potuti evitare
usando l’ordinaria diligenza, anche
attraverso l’esperimento degli strumenti di
tutela previsti”.
Tale norma assume valore di canone
interpretativo del principio stabilito dal
secondo comma dell’articolo 1227 c.c..secondo
cui “Il risarcimento non è dovuto per i
danni che il creditore avrebbe potuto
evitare usando l'ordinaria diligenza” e cioè
non è risarcibile il danno che il creditore
non avrebbe subito se si fosse comportato in
maniera collaborativa, comportamento cui è
tenuto secondo correttezza.
A tal proposito va richiamato in questa sede
quanto affermato dal Supremo Consesso della
Giustizia amministrativa con la decisione
dell’Adunanza Plenaria n. 3/2011 secondo la
quale il comma 3 dell’articolo 30 c.p.a.
(applicabile come detto anche in ipotesi di
azione di risarcimento derivante da ritardo
provvedimentale) “pur non evocando in modo
esplicito il disposto dell’art. 1227, comma
2, del codice civile, afferma che l'omessa
attivazione degli strumenti di tutela
previsti costituisce, nel quadro del
comportamento complessivo delle parti, dato
valutabile, alla stregua del canone di buona
fede e del principio di solidarietà, ai fini
dell’esclusione o della mitigazione del
danno evitabile con l’ordinaria diligenza.
…..
Operando una ricognizione dei principi
civilistici in tema di causalità giuridica e
di principio di auto-responsabilità, il
codice del processo amministrativo sancisce
la regola secondo cui la tenuta, da parte
del danneggiato, di una condotta, attiva od
omissiva, contraria al principio di buona
fede ed al parametro della diligenza, che
consenta la produzione di danni che
altrimenti sarebbero stati evitati secondo
il canone della causalità civile imperniato
sulla probabilità relativa recide, in tutto
o in parte, il nesso casuale che, ai sensi
dell’art. 1223 c.c., deve legare la condotta
antigiuridica alle conseguenze dannose
risarcibili. …..La giurisprudenza più
recente, …… ha adottato un’interpretazione
estensiva ed evolutiva del comma 2 dell'art.
1227, secondo cui il creditore è gravato non
soltanto da un obbligo negativo (astenersi
dall'aggravare il danno), ma anche da un
obbligo positivo (tenere quelle condotte,
anche positive, esigibili, utili e
possibili, rivolte a evitare o ridurre il
danno)…l’obbligo di cooperazione di cui al
comma 2 dell’art. 1227 ha fondamento proprio
nel canone di buona fede ex art. 1175 c.c.
e, quindi, nel principio costituzionale di
solidarietà, si deve concludere che anche le
scelte processuali di tipo omissivo possono
costituire in astratto comportamenti
apprezzabili ai fini della esclusione o
della mitigazione del danno laddove si
appuri, alla stregua del giudizio di
causalità ipotetica di cui si è detto, che
le condotte attive trascurate non avrebbero
implicato un sacrificio significativo ed
avrebbero verosimilmente inciso, in senso
preclusivo o limitativo, sul perimetro del
danno.
Si deve allora preferire al tradizionale
indirizzo che esclude, per definizione, la
sindacabilità delle condotte processuali ai
sensi del capoverso dell’art. 1227 c.c., un
più duttile criterio interpretativo che, in
coerenza con le clausole generali in materia
di correttezza, buona fede e solidarietà di
cui la norma in esame è espressione,
consenta la valutazione della condotta
complessiva, anche processuale, del
creditore, con riguardo alle specificità del
caso concreto” (Cfr. Consiglio di Stato, ad.
Plenaria n. 3 del 23.03.2011 cit.).
Proprio con riferimento alla fattispecie del
danno da ritardo, in merito al comportamento
corretto e diligente del creditore, è stato
anche affermato che il diritto al
risarcimento del danno derivante dal ritardo
con il quale l'Amministrazione ha provveduto
spetta solo ove i soggetti interessati
abbiano reagito all'inerzia impugnando il
silenzio-rifiuto; solo in caso di
persistente inerzia a seguito di questa
procedura può infatti configurarsi la
lesione al bene della vita, risarcibile,
alla stregua dei canoni di correttezza e
buona fede, nello svolgimento del rapporto
qualificato e differenziato tra soggetto
pubblico e privato (TAR Lombardia Milano,
sez. IV, 18.10.2010, n. 6989, sez. I,
12.01.2011, n. 35).
Invero, ciò che si risarcisce non è una
aspettativa all'agere legittimo
dell'Amministrazione, bensì il mancato
conseguimento del bene della vita cui si
ambiva al momento della proposizione
dell'istanza.
La norma codicistica di cui all’art. 2043
c.c., infatti, subordina il risarcimento
alla produzione di un danno ingiusto
causalmente generato da una condotta
illecita, nel caso di specie da individuarsi
nell’asserito ritardo, imputabile
all'Amministrazione a titolo di dolo o colpa
(cfr. in proposito TAR Lazio Roma, sez.
I, 22.09.2010, n. 32382, sez. II, 05.01.2011
n. 28) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 14.05.2012 n. 450 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’offerta tecnica deve essere
separata da quella economica! Pena
l’esclusione dalla gara.
La segretezza
dell’offerta economica è il principio da
osservare nei bandi di gara al fine di
garantire la totale imparzialità nella
valutazione dell’offerta tecnica e nella
modalità di aggiudicazione.
A tal proposito, un’impresa, avendo inserito
nella busta dell’offerta tecnica anche una
copia di quella economica, viene esclusa
dalla gara da aggiudicarsi con il sistema
dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Il Consiglio di Stato, Sez. V, con
sentenza 11.05.2012 n. 2734,
respinge l’appello presentato nei confronti
del TAR Lombardia, confermando l’esclusione
della società ricorrente.
Non avendo consegnato in due buste separate
e sigillate l’offerta tecnica e quella
economica, c’e stata violazione dell’art. 9
(definizione delle modalità di formulazione
dell’offerta) e dell’art. 13 (motivi di
esclusione) del Disciplinare di gara.
Il Consiglio di Stato rimarca che tra la
fase di valutazione dell’offerta tecnica e
quella economica deve esserci un netto
riserbo per poter garantire un’oggettiva
valutazione dell’offerta tecnica e sulla
conseguente imparzialità nell’aggiudicare la
gara (commento tratto da www.acca.it - link
a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Com’è stato ripetutamente osservato dalla
giurisprudenza (C.d.S., sez. V, 21.03.2011,
n. 1734; 23.01.2007, n. 196; 11.05.2006, n.
2612) laddove la procedura di gara (come
nell’appalto concorso ovvero nell’ipotesi di
aggiudicazione con il sistema dell’offerta
economicamente più vantaggiosa) sia
caratterizzata da una netta separazione tra
la fase di valutazione dell’offerta tecnica
e quella dell’offerta economica, il
principio di segretezza comporta che, fino a
quando non si sia conclusa la valutazione
delle offerte tecniche, è interdetto al
seggio di gara la conoscenza delle
percentuali di ribasso offerta, per evitare
ogni possibile influenza sulla valutazione
dell’offerta tecnica.
Il principio della segretezza dell’offerta
economica è infatti presidio dell’attuazione
dei principi di imparzialità e buon
andamento dell’azione amministrativa,
predicati dall’articolo 97 della
Costituzione, sub specie della trasparenza e
della par condicio dei concorrenti,
intendendosi così garantire il corretto,
libero ed indipendente svolgimento del
processo intellettivo-volitivo che si
conclude con il giudizio sull’offerta
tecnica ed in particolare con l’attribuzione
dei punteggi ai singoli criteri attraverso
cui quest’ultima viene valutata.
La delineata peculiarità del delineato bene
giuridico protetto dal principio di
segretezza dell’offerta economica ne impone
la tutela non solo al fine di evitarne la
sua effettiva lesione, ma anche per evitare
che esso sia esposto a rischio di lesione,
perché anche la sola possibilità di
conoscenza dell’entità dell’offerta
economica, prima di quella tecnica, è idonea
a compromettere la garanzia di imparzialità
dell’operato dell’organo valutativo. |
INCARICHI PROFESSIONALI: P.a., incarico al legale senza gara.
L'affidamento per la difesa in giudizio è
contratto d'opera. Il Consiglio di stato
esclude che il singolo conferimento
costituisca un appalto di servizi.
L'affidamento, da parte di una
amministrazione pubblica, di un incarico a
un avvocato per la difesa in giudizio non
richiede l'esperimento di una procedura
selettiva; il singolo conferimento non
costituisce un appalto di servizi legali, di
assistenza e consulenza giuridica di durata
determinata, soggetto al Codice dei
contratti pubblici, bensì un contratto
d'opera professionale affidabile in via
diretta.
È quanto ha affermato il
Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 11.05.2012 n. 2730
(estensore
Francesco Caringella) rispetto ad una
vicenda che prende le mosse dal conferimento
senza gara –da parte di una amministrazione
provinciale– di un incarico a favore di due
avvocati per l'impugnativa di un lodo
arbitrale che, come spesso accade, aveva
visto l'amministrazione soccombente.
In primo grado il Tar Lazio, Latina, sezione
prima, con sentenza 604 del 2011, nel
presupposto che l'atto di conferimento
dell'incarico legale dovesse rientrare
nell'ambito dei «servizi legali» di cui
all'allegato II B del codice dei contratti
pubblici (dlgs 163/2006), aveva affermato la
violazione dei principi di evidenza pubblica
e conseguentemente aveva accolto il ricorso.
In appello i giudici di Palazzo Spada
ribaltano il giudizio di primo grado
contestando in toto l'assunto per cui sia
l'attività di assistenza e consulenza
giuridica di carattere continuativo, sia il
singolo conferimento di un incarico di
patrocinio legale, possano essere ricondotti
all'interno della nozione di «servizi
legali» di cui al punto 21 dell'allegato II
B del Codice degli appalti. La sentenza di
appello afferma che l'equiparazione delle
due fattispecie di affidamento non
corrisponde ad un dato fondamentale che,
invece, differenzia le due ipotesi: nel
singolo incarico di patrocinio legale vi
sono puntuali esigenze di difesa dell'ente
locale da difendere, viceversa l'assistenza
e la consulenza giuridica si caratterizzano
per la presenza di una specifica
organizzazione, dalla complessità
dell'oggetto e per la predeterminazione
della durata.
Per i giudici di Palazzo
Spada, se nel primo caso si è in presenza di
un contratto d'opera intellettuale, nel
secondo caso, invece, si può aderire alla
qualificazione del contratto come appalto di
servizi in cui le attività professionali si
inseriscono all'interno di una
organizzazione rispondente ai bisogni
dell'amministrazione appaltante. Il
Consiglio di stato ricorda anche che fin dal
decreto legislativo n. 157/1995 i servizi
legali non erano comunque soggetti
all'applicazione di tutte le norme del
decreto, ma soltanto di quelle in materia di
pubblicità successiva e specifiche tecniche.
La sentenza di appello afferma quindi che
nella nozione di servizi legali rientrano i
«soli affidamenti di servizi legali
conferiti mediante un appalto - ossia un
contratto caratterizzato da un quid pluris,
sotto il profilo dell'organizzazione, della
continuità e della complessità»; a tale
riguardo il Consiglio di stato cita come
esempio la disciplina speciale prevista per
i servizi di ingegneria e architettura. Ben
altra cosa è quindi il contratto di
conferimento dell'incarico difensivo
specifico, «integrante mero contratto d'opera intellettuale, come tale esulante
dalla nozione di contratto di appalto
abbracciata dal legislatore comunitario». In
sostanza è la complessità e articolazione
della prestazione, unita ad una specifica
organizzazione, a differenziare l'appalto di
servizi legali rispetto al contratto d'opere
professionale.
Da ciò i giudici fanno
discendere che al conferimento del singolo e
puntuale incarico legale non si applica
neanche l'articolo 27 del codice dei
contratti pubblici, che delinea una
procedura concorsuale (con invito a cinque)
«incompatibile con la struttura della
fattispecie contrattuale, qualificata, alla
luce dell'aleatorietà dell'iter del
giudizio, dalla non predeterminabilità degli
aspetti temporali, economici e sostanziali
della prestazioni e dalla conseguente
assenza di basi oggettive sulla scorta delle
quali fissare i criteri di valutazione
necessari in forza della disciplina recata
dal codice dei contratti pubblici»
(articolo ItaliaOggi
del 17.05.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
APPALTI: Per
le gare non incise dalla disciplina posta
dal d.l. 2011 n. 70, spetta alla stazione
appaltante valutare se la violazione
contributiva commessa da un partecipante ed
attestata dal DURC sia grave alla luce di
tutti gli elementi di giudizio sussistenti
in concreto.
2) E’ fondato e presenta carattere
assorbente, per la dimensione sostanziale
che presenta, il secondo dei motivi
proposti, con il quale si lamenta in termini
di carenza motivazionale ed istruttoria, la
circostanza che l’amministrazione avrebbe
ritenuto grave la violazione contributiva
imputata alla ricorrente senza alcuna
concreta valutazione e limitandosi a
prendere atto del contenuto del documento
unico di regolarità contributiva.
La complessità delle questioni giuridiche
sottese alle impugnazioni in esame, rende
opportuna la ricostruzione del quadro
normativo di riferimento, distinguendo la
disciplina vigente prima e dopo l’adozione
del d.l. 13.05.2011 n. 70, pubblicato
nella Gazzetta Ufficiale del 13.05.2011,
n. 110, entrato in vigore il giorno
successivo a quello della sua pubblicazione
ai sensi dell’art. 12 del decreto medesimo e
convertito in legge, con modificazioni,
dall'art. 1, comma 1, della legge 12.07.2011, n. 106.
2.1) Prima della novella l’art. 38, primo
comma, lett. i), disponeva l’esclusione dalla
gara nei confronti delle imprese “i) che
hanno commesso violazioni gravi,
definitivamente accertate, alle norme in
materia di contributi previdenziali e
assistenziali, secondo la legislazione
italiana o dello Stato in cui sono
stabiliti”.
Inoltre, sempre in relazione agli obblighi
di regolarità contributiva il terzo comma
dell’art. 38 disponeva che “resta fermo, per
l’affidatario, l’obbligo di presentare la
certificazione di regolarità contributiva di
cui all’articolo 2, del decreto legge 25.09.2002, n. 210, convertito dalla
legge 22.11.2002, n. 266 e di cui
all’articolo 3, comma 8, del decreto
legislativo 14.08.1996, n. 494 e
successive modificazioni e integrazioni”.
Il d.l. 13.05.2011 n. 70 ha tenuto ferme
le disposizioni ora viste, mentre ha
modificato –mediante la previsione
contenuta nell’art. 4, comma 2 lett. b) n.
4)- il comma 2 dell’art. 38 del codice
degli appalti, che ora reca un’espressa
disciplina del concetto di gravità della
violazione contributiva, non presente prima
della novella.
In particolare, il vigente comma 2 dell’art.
38 dispone che “ai fini del comma 1, lettera
i), si intendono gravi le violazioni
ostative al rilascio del documento unico di
regolarità contributiva di cui all’articolo
2, comma 2, del decreto-legge 25.09.2002, n. 210, convertito, con modificazioni,
dalla legge 22.11.2002, n. 266; i
soggetti di cui all’articolo 47, comma 1,
dimostrano, ai sensi dell’articolo 47, comma
2, il possesso degli stessi requisiti
prescritti per il rilascio del documento
unico di regolarità contributiva”.
Il quadro normativo si completa con la
disciplina dettata dal Decreto del Ministero
del lavoro e della previdenza sociale datato
24.10.2007, recante la disciplina del
c.d. documento unico di regolarità
contributiva (DURC).
Vale precisare, in primo luogo, che la
disciplina del DURC non è rilevante solo ai
fini della partecipazione ad una gara di
appalto, in quanto, ai sensi dell’art. 1 del
D.M. 2007, il possesso del DURC è richiesto
ai datori di lavoro ai fini della fruizione
dei benefici normativi e contributivi in
materia di lavoro e legislazione sociale
previsti dall'ordinamento e ai fini della
fruizione dei benefici e sovvenzioni
previsti dalla disciplina comunitaria;
inoltre, è richiesto ai datori di lavoro ed
ai lavoratori autonomi nell'ambito delle
procedure di appalto di opere, servizi e
forniture pubblici e nei lavori privati
dell'edilizia.
Ai sensi dell’art. 4 del D.M. 2007, il DURC
attesta la regolarità dei versamenti dovuti
agli Istituti previdenziali e, per i datori
di lavoro dell'edilizia, la regolarità dei
versamenti dovuti alle Casse edili; a tale
fine deve contenere, tra l’altro, la
dichiarazione di regolarità, ovvero non
regolarità contributiva, con indicazione
della motivazione o della specifica
scopertura, nonché la data di effettuazione
della verifica di regolarità.
Il decreto ministeriale individua, in modo
dettagliato e con riferimento alla
generalità delle ipotesi in cui rileva il
contenuto positivo o negativo del DURC, le
condizioni in presenza delle quali gli
Istituti Previdenziali devono attestare la
regolarità contributiva, fissandole, ai
sensi dell’art. 5 in: a) correntezza degli
adempimenti mensili o, comunque, periodici;
b) corrispondenza tra versamenti effettuati
e versamenti accertati dagli Istituti
previdenziali come dovuti; c) inesistenza di
inadempienze in atto.
Si precisa che, comunque, la regolarità
contributiva sussiste in caso di: a)
richiesta di rateizzazione per la quale
l'Istituto competente abbia espresso parere
favorevole; b) sospensioni dei pagamenti a
seguito di disposizioni legislative; c)
istanza di compensazione per la quale sia
stato documentato il credito.
Ulteriori parametri sono dettati dal comma 3
dell’art. 5, per l’ipotesi in cui la
questione della regolarità contributiva si
ponga nei confronti di una Cassa edile.
Il successivo art. 8 individua una serie di
situazioni non ostative al rilascio del DURC,
pur non essendovi certezza in ordine alla
regolarità dei versamenti contributivi,
distinguendo tra crediti iscritti a ruolo e
crediti non ancora iscritti a ruolo.
Così, si prevede che il DURC è rilasciato
anche qualora vi siano crediti iscritti a
ruolo per i quali sia stata disposta la
sospensione della cartella di pagamento a
seguito di ricorso amministrativo o
giudiziario.
Inoltre, relativamente ai crediti non ancora
iscritti a ruolo si dispone che a) in
pendenza di contenzioso amministrativo, la
regolarità può essere dichiarata sino alla
decisione che respinge il ricorso; b) in
pendenza di contenzioso giudiziario, la
regolarità è dichiarata sino al passaggio in
giudicato della sentenza di condanna, salvo
l'ipotesi in cui l'Autorità giudiziaria
abbia adottato un provvedimento esecutivo
che consente l'iscrizione a ruolo delle
somme oggetto del giudizio ai sensi
dell'art. 24 del decreto legislativo 26.02.1999, n. 46.
L’art. 8, comma 3, del DM detta una
disciplina ad hoc per gli appalti pubblici,
disponendo che “ai soli fini della
partecipazione a gare di appalto non osta al
rilascio del DURC uno scostamento non grave
tra le somme dovute e quelle versate, con
riferimento a ciascun Istituto previdenziale
ed a ciascuna Cassa edile. Non si considera
grave lo scostamento inferiore o pari al 5%
tra le somme dovute e quelle versate con
riferimento a ciascun periodo di paga o di
contribuzione o, comunque, uno scostamento
inferiore ad € 100,00, fermo restando
l'obbligo di versamento del predetto importo
entro i trenta giorni successivi al rilascio
del DURC”.
2.2) La modificazione introdotta dal d.l.
2011 n. 70 pone, in primo luogo, il problema
dell’individuazione della disciplina da
applicare nel caso in esame.
Il bando di gara è stato pubblicato nella
G.U.R.I. del 06.05.2011, pertanto, siccome
in forza dell’art. 66, comma 8, del codice
degli appalti “gli effetti giuridici che
l’ordinamento connette alla pubblicità in
ambito nazionale decorrono dalla
pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della
Repubblica Italiana”, non è dubitabile che
la fattispecie in esame trovi la propria
disciplina nell’art. 38 del d.l.vo 163
secondo il testo vigente prima della
novella, in quanto entrata in vigore dopo la
pubblicazione del bando.
Né si può giungere a diversa conclusione
attribuendo valore interpretativo alla
novella, così da assegnarle una valenza
retroattiva, in quanto l’art. 4, comma 2,
lett. b), n. 4), del d.l. 2011 n. 70 non
integra una norma di interpretazione
autentica.
Ciò è desumibile dal comma 3 dell’art. 4 del
d.l. n. 70, a mente del quale le
disposizioni di cui al comma 2, lettere b),
si applicano alle procedure i cui bandi o
avvisi con i quali si indice una gara sono
pubblicati successivamente alla data di
entrata in vigore del decreto legge
medesimo, nonché, in caso di contratti senza
pubblicazione di bandi o avvisi, alle
procedure in cui, alla data di entrata in
vigore del decreto legge, non sono ancora
stati inviati gli inviti a presentare le
offerte.
Va, pertanto, ribadito che la nuova
disciplina contenuta nel secondo comma
dell’art. 38 del codice degli appalti non è
riferibile al caso di specie.
2.3) Una volta individuate le norme da
applicare, sorge una questione
interpretativa, essendo necessario stabilire
se, prima della novella, l’amministrazione
disponesse di poteri valutativi autonomi in
ordine alla gravità della violazione
contributiva commessa dal partecipante e,
quindi, ai fini della sua esclusione dalla
gara per difetto di un requisito di ordine
generale, o se la gravità fosse correlata ad
un parametro quantitativo prestabilito, tale
da non lasciare spazio a poteri di
apprezzamento discrezionale, con conseguente
doverosità dell’esclusione del concorrente
non in regola con i versamenti contributivi.
La questione ha dato vita ad un contrasto
giurisprudenziale, caratterizzato dalla
presenza di due orientamenti nettamente
contrapposti ed è stata oggetto di
rimessione all’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato, che non si è ancora
pronunciata sul punto (cfr. Consiglio di
Stato, sez. VI, ordinanza 05.03.2012, n.
1245).
Un primo orientamento esclude la titolarità
di poteri valutativi da parte della stazione
appaltante in ordine alla sussistenza in
concreto della gravità della violazione
commessa, perché, in base al decreto del
Ministero del lavoro datato 24.10.2007,
proprio la presenza di un DURC negativo alla
data di presentazione della domanda di
partecipazione alla gara, obbligherebbe la
stazione appaltante ad escludere dalla
procedura l’impresa interessata, senza
possibilità di effettuare apprezzamenti
sulla gravità degli inadempimenti.
In sostanza, l’accertamento dell’esistenza
di violazioni contributive spetta agli
Istituti Previdenziali, secondo i parametri
fissati dal D.M. del 2007, che come, già
evidenziato, specifica quale sia, ai fini
della partecipazione alle gare di appalto,
lo scostamento “non grave tra le somme
dovute e quelle versate” che non osta al
rilascio del DURC positivo, quantificandolo
in quello inferiore o pari al 5%, tra le
somme dovute e quelle versate con
riferimento a ciascun periodo di paga o di
contribuzione, o, comunque, uno scostamento
inferiore ad € 100,00.
Secondo tale impostazione il DURC negativo
non sarebbe sindacabile dalla stazione
appaltante, che dovrebbe solo prenderne
atto, adottando le conseguenti
determinazioni in punto di esclusione
dell’impresa interessata.
Di conseguenza, l’art. 38 nel subordinare
l’esclusione all’esistenza di violazioni
“gravi”, rinvierebbe per la definizione
della “gravità” al D.M. del 2007 e, quindi,
al contenuto del DURC di volta in volta
rilasciato (per questa soluzione si vedano,
tra le altre, Consiglio di Stato, sez. IV,
15.09.2010, n. 6907; Consiglio di
Stato, sez. V, 30.06.2011, n. 3912;
Consiglio di Stato, sez. V, 16.09.2011, n. 5194; Consiglio di Stato, sez. V,
12.10.2011, n. 5531).
Il Tribunale, non condivide la soluzione ora
prospettata ed aderisce alla diversa opzione
interpretativa, che riconosce, quanto meno
per le fattispecie escluse ratione temporis
dall’applicazione della novella introdotta
con il d.l. 2011 n. 70, l’esistenza di
autonomi poteri valutativi della stazione
appaltante, quanto alla gravità della
violazione contributiva accertata in capo ad
un partecipante e ai fini della sua
esclusione dalla gara.
In primo luogo, vale osservare che non è
dirimente il contenuto del D.M. del 2007, la
cui disciplina non impone la soluzione
ermeneutica prospettata dalla prima
impostazione.
Sicuramente il D.M. individua quale sia la
violazione esistente, ma non grave, che non
preclude il rilascio del DURC positivo ai
fini della partecipazione ad una gara di
appalto; tuttavia, ciò non vuol dire che
ogni altra violazione, che pure comporta il
rilascio di un DURC negativo, assurga per
ciò solo al rango di gravità cui si
riferisce l’art. 38, primo comma lett. i),
del codice degli appalti e determini
automaticamente l’esclusione dalla gara.
Difatti, l’art. 38 non richiama, ai fini
della determinazione della nozione di
gravità, i contenuti del D.M. 2007, sicché
la tesi che estende il concetto di gravità
emergente dal D.M. anche ai fini della
verifica della sussistenza dei requisiti di
ordine generale di cui all’art. 38 non
poggia su alcuna previsione normativa.
Più in generale, la disciplina del DM 2007 è
tesa a regolare il comportamento degli
Istituti Previdenziali, al fine di stabilire
in presenza di quali situazioni debba essere
rilasciato il DURC positivo, mentre non si
rivolge alle stazioni appaltanti e non è
diretto, né ad escluderne, né a limitarne i
poteri valutativi quanto alla sussistenza
dei requisiti di ordine generale.
Né l’autonomia dei poteri valutativi della
stazione appaltante si traduce in un
sindacato, da parte sua, del contenuto del
DURC, così da interferire con i poteri di
accertamento della regolarità contributiva
assegnati agli Istituti Previdenziali,
giacché la valutazione che l’art. 38 rimette
all’amministrazione attiene alla gravità
della violazione e non alla circostanza che
essa sia o meno sussistente.
L’unica interferenza astrattamente
configurabile tra i due diversi profili
attiene all’ipotesi in cui esiste in
concreto una violazione contributiva, che,
però, non eccede i limiti posti dall’art. 8,
comma 3, del D.M. 2007 e, quindi, conduce al
rilascio di un DURC positivo.
L’interferenza è solo apparente, perché
nell’ipotesi ora prospettata la violazione,
pur commessa in concreto, non è rilevante
giuridicamente ai fini della partecipazione
ad una gara di appalto e, sempre a tali
fini, conduce ad un DURC positivo, sicché la
stazione appaltante non può neppure ritenere
esistente una violazione contributiva, al di
fuori di ogni apprezzamento sulla gravità.
Ne deriva che anche in questo caso i poteri
valutativi della stazione appaltante non
interferiscono con gli accertamenti degli
Istituti Previdenziali, poiché
l’amministrazione si trova di fronte ad un
DURC positivo, in ragione del fatto che la
violazione contributiva commessa non è tale
ai fini della partecipazione ad una gara di
appalto, sicché deve prenderne atto, con
conseguente mancanza del presupposto per la
valutazione di gravità.
In via di ulteriore precisazione è opportuno
chiarire che il profilo ora esposto non
comporta una generalizzata insindacabilità
del DURC.
Invero, la produzione della certificazione
INPS attestante la regolarità contributiva
dell'impresa partecipante alla gara di
appalto costituisce uno dei requisiti posti
dalla normativa in materia di appalti
pubblici ai fini della ammissione alla gara,
sicché appartiene alla cognizione del
giudice amministrativo, in giurisdizione
esclusiva, anche la verifica della
regolarità di una certificazione costituente
specifico requisito per la partecipazione
alla gara e posta a fondamento delle
successive determinazioni della stazione
appaltante (cfr. Cass. Civ., SS. UU.,
ordinanza 11.12.2007, n. 25818; Cass.
Civ., SS. UU., 09.02.2011, n. 3169).
L’esistenza di autonomi poteri valutativi
della stazione appaltante, in ordine alla
gravità della violazione contributiva
commessa dal partecipante ed emergente dal
DURC, trova conferma nel contenuto dello
stesso art. 38, laddove distingue
l’apprezzamento della regolarità
contributiva del partecipante alla gara
dall’accertamento della regolarità medesima
in capo all’aggiudicatario.
Invero, l'art. 38 del d.l.vo 2006 n. 163
introduce una differenza tra la regolarità
contributiva richiesta al partecipante alla
gara ai sensi del comma 1, lettera i) e la
regolarità contributiva richiesta
all'aggiudicatario al fine della stipula del
contratto.
Infatti, il concorrente, ai sensi di detta
norma, può essere escluso solo in presenza
di gravi violazioni, definitivamente
accertate, sicché le violazioni non gravi, o
ancora non definitive, non sono causa di
esclusione.
Al contrario, al fine della stipula del
contratto, il comma 3 dell’art. 38 impone
all'affidatario di presentare la
certificazione di regolarità contributiva ai
sensi dell'art. 2, del d.l. 2002 n. 210, il
quale, a sua volta, prevede il rilascio del
DURC, che attesta contemporaneamente la
regolarità contributiva quanto agli obblighi
nei confronti dell'I.N.P.S., dell'I.N.A.I.L.
e delle Casse edili.
Ne deriva che, mentre in sede di verifica
dei requisiti di ordine generale, il
concorrente può essere escluso soltanto
quando la stazione appaltante valuta,
autonomamente dalle risultanze negative del
DURC, il suo debito contributivo come grave
e definitivamente accertato, perché non
esistono elementi concreti che possano
condurre a diversa conclusione, viceversa,
prima della stipulazione del contratto, il
soggetto individuato come aggiudicatario
deve esibire un DURC positivo, dal quale
emerga la sua regolarità contributiva, senza
che residuino poteri valutativi della
stazione appaltante (cfr. in argomento
Consiglio di Stato, sez. V, 07.07.2011,
n. 4053).
Si badi che, in tale caso, il vincolo per
l’amministrazione ad attenersi alla
risultanze del DURC deriva dall’espressa
previsione normativa del terzo comma
dell’art. 38, relativo alla regolarità
contributiva dell’aggiudicatario, previsione
che difetta rispetto alla regolarità dei
soli partecipanti alla gara, per i quali la
lettera i) del primo comma dell’art. 38
impone all’amministrazione di apprezzare la
gravità della violazione commessa.
Insomma, il legislatore, mentre in sede di
accertamento dei requisiti di ordine
generale, privilegia una scelta elastica,
rimettendo alla valutazione
dell’amministrazione la gravità o meno della
violazione, al contrario una volta
individuato il contraente, mediante
l’aggiudicazione, pretende una sua piena
regolarità contributiva, senza possibilità
di valutazioni ulteriori, perché si tratta
di assicurare la completa affidabilità e
solidità finanziaria della controparte
contrattuale, solidità esclusa a priori
verso l’aggiudicatario che presenta
irregolarità contributive.
La scelta del legislatore di attribuire
poteri valutativi discrezionali alla
stazione appaltante in ordine alla gravità
della violazione contributiva è coerente con
la normativa comunitaria, che rispetto al
profilo in esame assume una posizione
neutrale.
L’art. 45, comma 2, della direttiva 2004 n.
18 prevede che “può essere escluso” dalla
partecipazione all'appalto ogni operatore
economico “che non sia in regola con gli
obblighi relativi al pagamento dei
contributi previdenziali e assistenziali
secondo la legislazione del paese dove è
stabilito o del paese dell'amministrazione
aggiudicatrice”.
E’ evidente che la disposizione, nella parte
in cui prevede una possibilità di scelta
rispetto alla configurazione di una certa
causa di esclusione, si rivolge al
legislatore nazionale, che può decidere di
introdurla o meno, mentre non pone
preclusioni in ordine al carattere rigido o
elastico della formulazione della causa di
esclusione nel singolo Stato, ossia non
stabilisce a priori se la particolare
fattispecie di esclusione debba correlarsi o
meno a poteri valutativi della stazione
appaltante.
In tale senso, anche la Corte di Giustizia
considera -seppure in relazione alle
previgenti disposizioni della direttiva
92/50/CEE in materia di appalti pubblici di
servizi, la quale per il profilo in esame
dettava norme sostanzialmente sovrapponibili
a quelle della direttiva 2004 n. 18- che,
salvo il limite dell’impossibilità di
prevedere cause di esclusione diverse da
quelle ivi indicate e di rispetto dei
principi generali di trasparenza e di parità
di trattamento, il legislatore statale ha
facoltà di inserirle con un grado di rigore
variabile, in funzione di considerazioni di
ordine giuridico, economico o sociale
prevalenti a livello nazionale (cfr. Corte
di Giustizia delle Comunità Europee, sent. 09.02.2006 in Cause riunite C- 226/04 e
C- 228/04).
A ben vedere, la novella introdotta dal d.l.
2011 n. 70 conforta la tesi che riconosce
autonomi poteri valutativi in capo alla
stazione appaltante rispetto alla gravità
della violazione contributiva.
Invero, il legislatore modificando il
secondo comma dell’art. 38 ha cristallizzato
il concetto di gravità, ancorandolo alle
violazioni ostative al rilascio del
documento unico di regolarità contributiva
di cui all’articolo 2, comma 2, del decreto
legge 25.09.2002, n. 210 e così
escludendo, per il futuro, l’esistenza di
poteri discrezionali in capo
all’amministrazione.
Proprio la circostanza che il legislatore
sia intervenuto espressamente, al fine di
introdurre un meccanismo rigido, tale da
escludere un potere di apprezzamento da
parte delle stazioni appaltanti, conferma
che, per il periodo anteriore alla novella,
l’art. 38 lett. i) configura l’esistenza di
un tale potere di apprezzamento.
Va, pertanto, ribadito, in conformità
all’orientamento giurisprudenziale condiviso
dal Tribunale, che, per le gare non incise
dalla disciplina posta dal d.l. 2011 n. 70,
spetta alla stazione appaltante valutare se
la violazione contributiva commessa da un
partecipante ed attestata dal DURC sia grave
alla luce di tutti gli elementi di giudizio
sussistenti in concreto (cfr. per tale
impostazione si vedano, tra le altre,
Consiglio di Stato, sez. V, 16.09.2011, n. 5186; Consiglio di Stato, sez. V,
07.07.2011, n. 4053; Consiglio di Stato,
sez. IV, 24.02.2011, n. 1228;
Consiglio di Stato, sez. VI, 04.08.2009, n.
4907; Consiglio di Stato, sez. V,
30.09.2009, n. 5896)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 11.05.2012 n. 1341 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA -
LAVORI PUBBLICI:
Per la definizione di “strada”,
assume rilievo, ai sensi dell’art. 2, comma
primo, del codice della strada, la
destinazione di una determinata superficie
ad uso pubblico, e non la titolarità
pubblica o privata della proprietà.
L’art. 14 del codice della strada assegna
all’ente comunale il compito di provvedere
alla manutenzione, gestione e pulizia della
sede stradale, ma tale obbligo non si
estende alle aree estranee circostanti, in
particolare alle ripe site nei fondi
laterali alle strade.
Le ripe, ai sensi dell’art. 31 del codice
della strada, devono essere mantenute dai
proprietari delle medesime in modo da
impedire e prevenire situazioni di pericolo
connesse a franamenti e cedimenti del corpo
stradale o delle opere di sostegno,
l’ingombro delle pertinenze e della sede
stradale, nonché la caduta di massi o altro
materiale, qualora siano immediatamente
sovrastanti o sottostanti, in taglio o in
riporto nel terreno preesistente alla
strada, la scarpata del corpo stradale.
In ordine alle connotazione dei luoghi
effettuata dal ricorrente, va considerato
come, per la definizione di “strada”,
assuma rilievo, ai sensi dell’art. 2, comma
primo, del codice della strada, la
destinazione di una determinata superficie
ad uso pubblico, e non la titolarità
pubblica o privata della proprietà (cfr.,
Cass. Sez. II, sent. 17350 del 25.06.2008).
Quanto sopra premesso, l’ordinanza gravata è
volta a precisare e ad imporre gli obblighi
manutentivi, ordinari e straordinari,
previsti ai fini della sicurezza, che
incombono sui proprietari e gli aventi
titolo dei terreni confinanti con il “corpo
stradale”.
In tesi del ricorrente, poiché l’art. 3,
punto 10, del d. leg.vo n. 285 del 1992
stabilisce che, qualora non vi siano atti di
acquisizione o fasce di esproprio di
progetto, come nel suo caso, il “confine
stradale” è identificato “nel piede
della scarpata se la strada è in rilevato o
dal ciglio superiore della scarpata se la
strada è in trincea”, gli obblighi
manutentivi ed il taglio dei sensi
insistenti sulla strada e involgenti le
scarpate non sono legittimamente addossabili
ai privati.
Va considerato che l’atto impugnato,
nell’imporre ai confinanti gli obblighi ivi
previsti, nel richiamare esplicitamente la
normativa vigente al riguardo, non appare
adottato in violazione della suddetta
normativa.
Invero, l’ordinanza impone gli obblighi e
l’esecuzione dei lavori, relativamente a
coloro che siano proprietari o abbiano
comunque titolo nei terreni “confinanti”
con il corpo stradale.
Al riguardo l’art. 14 del codice della
strada assegna all’ente comunale il compito
di provvedere alla manutenzione, gestione e
pulizia della sede stradale, ma tale obbligo
non si estende alle aree estranee
circostanti, in particolare alle ripe site
nei fondi laterali alle strade.
Le ripe, ai sensi dell’art. 31 del codice
della strada, devono essere mantenute dai
proprietari delle medesime in modo da
impedire e prevenire situazioni di pericolo
connesse a franamenti e cedimenti del corpo
stradale o delle opere di sostegno,
l’ingombro delle pertinenze e della sede
stradale, nonché la caduta di massi o altro
materiale, qualora siano immediatamente
sovrastanti o sottostanti, in taglio o in
riporto nel terreno preesistente alla
strada, la scarpata del corpo stradale.
Tale impianto normativo non è contraddetto
dall’ordinanza in questione, diretta a
soggetti responsabili di terreni privati
posti oltre il confine stradale, mentre
rimangono a carico del Comune gli interventi
riguardanti le strade in quanto tali,
comprese le fasce di rispetto e le scarpate,
ferma rimanendo, ovviamente, l’eventuale
responsabilità del confinante che abbia
illecitamente operato sulla sede stradale
medesima (Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 09.05.2012 n. 2158 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
creazione di balconi e l’apertura di
finestre, modificando il prospetto
principale dell’abitazione, non sono da
considerare quale opera di manutenzione
straordinaria.
Ciò si verifica anche se non venga alterata
la volumetria dell’edificio, perché nuovi
balconi e nuove finestre ne alterano i
prospetti ed, in definitiva, la sagoma.
---------------
La manutenzione straordinaria ha finalità
conservative anche delle strutture
(rifacimento globale della pavimentazione,
degli intonaci, degli infissi, della
copertura), mentre il restauro/risanamento
conservativo può incidere addirittura sugli
elementi «costitutivi dell'edificio».
Al riguardo va ricordato che gli interventi
di manutenzione straordinaria previsti
dall'art. 31, lett. b), L. 05.08.1978 n. 457
sono caratterizzati da un duplice limite:
uno di ordine funzionale, costituito
dalla necessità che i lavori siano diretti
alla mera sostituzione o al puro rinnovo di
parti dell'edificio, e l'altro di ordine
strutturale, consistente nella
proibizione di alterare i volumi e le
superfici delle singole unità immobiliari o
di mutare la loro destinazione.
---------------
Si è ritenuto in passato che l'apertura di
balconi sul prospetto di un edificio
richiede necessariamente il rilascio della
concessione edilizia e non è assimilabile a
lavori di manutenzione straordinaria o a
quelli di restauro o risanamento
conservativo, assoggettati
all'autorizzazione comunale gratuita in
virtù del combinato disposto degli art. 31 e
48, l. 05.08.1978, n. 457 e dell'art. 7,
d.l. 23.01.1982, n. 9, convertito, con
modificazioni, nella l. 25.03.1982, n. 94,
posto che gli uni (corrispondenti ad
opere o modifiche necessarie per rimuovere o
sostituire parti anche strutturali degli
edifici) sono diretti alla migliore
conservazione degli edifici stessi senza che
ne risultino trasformati nei loro aspetti
prospettici, mentre gli altri
(relativi ad un insieme sistematico di opere
per assicurare la funzionalità
dell'organismo edilizio) sono ammessi solo
nel rispetto degli elementi tipologici,
formali e strutturali dell' edificio in
argomento.
Le predette acquisizioni giurisprudenziali
sono confermate dal d.P.R. 06.06.2001 n.
380, con cui è stato emanato il T.U. delle
disposizioni legislative e regolamentari in
materia edilizia.
Successivamente all’emanazione del predetto
T.U. si è ritenuto che l’alterazione del
prospetto non sia riportabile a manutenzione
straordinaria.
---------------
Gli interventi consistenti ad es.
nell'installazione di tettoie o di altre
strutture che siano comunque apposte a parti
di preesistenti edifici come strutture
accessorie di protezione o di riparo di
spazi liberi (cioè non compresi entro
coperture volumetriche previste in un
progetto assentito), possono ritenersi
sottratti al regime della concessione
edilizia (oggi permesso di costruire)
soltanto ove la loro conformazione e le loro
ridotte dimensioni rendano evidente e
riconoscibile la loro finalità di arredo o
di riparo e protezione (anche da agenti
atmosferici) dell'immobile cui accedono.
Invece tali strutture non possono ritenersi
installabili senza permesso di costruire
allorquando abbiano dimensioni tali da
arrecare una visibile alterazione del
prospetto dell'edificio.
La giurisprudenza amministrativa dominante
ritiene che la creazione di balconi e
l’apertura di finestre, modificando il
prospetto principale dell’abitazione non
siano da considerare quale opera di
manutenzione straordinaria e tale
insegnamento è conforme a quello della
giurisprudenza penale (Cass. Pen. III n.
1806/1988).
Ciò si verifica anche se non venga alterata
la volumetria dell’edificio, perché nuovi
balconi e nuove finestre ne alterano i
prospetti ed, in definitiva, la sagoma.
La manutenzione straordinaria ha finalità
conservative anche delle strutture
(rifacimento globale della pavimentazione,
degli intonaci, degli infissi, della
copertura), mentre il restauro/risanamento
conservativo può incidere addirittura sugli
elementi «costitutivi dell'edificio»
(Consiglio Stato , sez. VI, 30.09.2008, n.
4694).
Al riguardo va ricordato che gli interventi
di manutenzione straordinaria previsti
dall'art. 31, lett. b), L. 05.08.1978 n. 457
sono caratterizzati da un duplice limite:
uno di ordine funzionale, costituito dalla
necessità che i lavori siano diretti alla
mera sostituzione o al puro rinnovo di parti
dell'edificio, e l'altro di ordine
strutturale, consistente nella proibizione
di alterare i volumi e le superfici delle
singole unità immobiliari o di mutare la
loro destinazione (cfr. Cons. Stato, V Sez.,
n. 617/2003).
Si è ritenuto in passato che l'apertura di
balconi sul prospetto di un edificio
richiede necessariamente il rilascio della
concessione edilizia e non è assimilabile a
lavori di manutenzione straordinaria o a
quelli di restauro o risanamento
conservativo, assoggettati
all'autorizzazione comunale gratuita in
virtù del combinato disposto degli art. 31 e
48, l. 05.08.1978, n. 457 e dell'art. 7,
d.l. 23.01.1982, n. 9, convertito, con
modificazioni, nella l. 25.03.1982, n. 94,
posto che gli uni (corrispondenti ad opere o
modifiche necessarie per rimuovere o
sostituire parti anche strutturali degli
edifici) sono diretti alla migliore
conservazione degli edifici stessi senza che
ne risultino trasformati nei loro aspetti
prospettici, mentre gli altri (relativi ad
un insieme sistematico di opere per
assicurare la funzionalità dell'organismo
edilizio) sono ammessi solo nel rispetto
degli elementi tipologici, formali e
strutturali dell' edificio in argomento
(Consiglio Stato, sez. V, 03.07.1995, n.
1004).
Le predette acquisizioni giurisprudenziali
sono confermate dal d.P.R. 06.06.2001 n.
380, con cui è stato emanato il T.U. delle
disposizioni legislative e regolamentari in
materia edilizia.
Successivamente all’emanazione del predetto
T.U. si è ritenuto che l’alterazione del
prospetto non sia riportabile a manutenzione
straordinaria.
Così si è ritenuto –ad esempio- che gli
interventi consistenti ad es.
nell'installazione di tettoie o di altre
strutture che siano comunque apposte a parti
di preesistenti edifici come strutture
accessorie di protezione o di riparo di
spazi liberi (cioè non compresi entro
coperture volumetriche previste in un
progetto assentito), possono ritenersi
sottratti al regime della concessione
edilizia (oggi permesso di costruire)
soltanto ove la loro conformazione e le loro
ridotte dimensioni rendano evidente e
riconoscibile la loro finalità di arredo o
di riparo e protezione (anche da agenti
atmosferici) dell'immobile cui accedono.
Invece tali strutture non possono ritenersi
installabili senza permesso di costruire
allorquando abbiano dimensioni tali da
arrecare una visibile alterazione del
prospetto dell'edificio (ex multis,
Cons. Stato, Sez. V, 13.03.2001, n. 1442;
TAR Lazio Roma, Sez. II, 15.02.2002, n.
1055)
(Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 09.05.2012 n. 2151 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il criterio della vicinitas ed il danno risentito per la
realizzazione dell'opera in (ritenuta)
violazione delle distanze e del carico
urbanistico della zona, integrano,
rispettivamente, la legittimazione al
ricorso e l'interesse concreto ed attuale,
ai sensi dell’art. 100 cpc, all'impugnativa,
da parte della ricorrente, proprietaria di
un fondo confinante, configurando ex se una
posizione qualificata e differenziata al
corretto assetto del territorio, a
prescindere da qualsiasi esame sul tipo di
lesione che, in concreto, possa essere
riconducibile alle opere compiute.
---------------
In materia di rilascio di titoli edilizi,
non sussiste identità tra le posizioni di
coloro che sono legittimati ad impugnare il
provvedimento finale e di coloro che hanno
titolo a ricevere l'avviso del procedimento
e/o che possono intervenirvi.
Invero, quando è proposta una domanda di
concessione edilizia, il vicino del
richiedente può intervenire nel corso del
relativo procedimento e può impugnare il
provvedimento che accolga l'istanza, ma non
ha titolo per ricevere l'avviso dell'avvio
del procedimento, in quanto ciò
comporterebbe un inutile aggravio per la
P.A., in contrasto con i principi di
economicità e di efficienza dell'attività
amministrativa.
Invero, il criterio della vicinitas ed il danno risentito per la
realizzazione dell'opera in (ritenuta)
violazione delle distanze e del carico
urbanistico della zona, integrano,
rispettivamente, la legittimazione al
ricorso e l'interesse concreto ed attuale,
ai sensi dell’art. 100 cpc, all'impugnativa,
da parte della ricorrente, proprietaria di
un fondo confinante, configurando ex se una
posizione qualificata e differenziata al
corretto assetto del territorio, a
prescindere da qualsiasi esame sul tipo di
lesione che, in concreto, possa essere
riconducibile alle opere compiute (ex plurimis: Cons. Stato, Sez. VI, 20.10.2010, n. 7591).
---------------
Secondo
un principio generale in materia di rilascio
di titoli edilizi, non sussiste identità tra
le posizioni di coloro che sono legittimati
ad impugnare il provvedimento finale e di
coloro che hanno titolo a ricevere l'avviso
del procedimento e/o che possono
intervenirvi (ex plurimis: Cons. Stato Sez.
VI: 12.04.2000 n. 2185 e 15.09.1999 n. 1197).
Invero, quando è proposta una domanda di
concessione edilizia, il vicino del
richiedente può intervenire nel corso del
relativo procedimento e può impugnare il
provvedimento che accolga l'istanza, ma non
ha titolo per ricevere l'avviso dell'avvio
del procedimento, in quanto ciò
comporterebbe un inutile aggravio per la
P.A., in contrasto con i principi di
economicità e di efficienza dell'attività
amministrativa (conf.: Cons. Stato, Sez. VI,
18.04.2005 n. 1773).
Né, nel caso di specie, risulta comprovata
una posizione differenziata, che abilitava
la ricorrente a ricevere detta comunicazione
(per effetto della presentazione di diffide,
esposti, istanze di accesso etc., intese ad
evidenziare alla P.A. la supposta
illegittimità dell’opera), qualificandola
alla stregua di controinteressata in sede
procedimentale: infatti, nella nota del
Comune prot. 16362 del 15.04.2008, si
indicano genericamente soltanto “ripetute
denunce circa la conformità dei lavori di
completamento”, senza alcun riferimento a
dati ed elementi certi.
Inoltre, non vi è prova in atti che il
Comune sia stato reso edotto del contenzioso
civile pendente fra la ricorrente e la
controinteressata società, in ordine
all’attività edilizia per cui è causa
(TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I,
sentenza 09.05.2012 n. 433 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Allorché un’area
edificabile venga successivamente frazionata
in più parti tra vari proprietari, la
volumetria disponibile ai sensi della
normativa urbanistica nell’intera area
rimane invariata, con la conseguenza che,
qualora sull’area originaria già insista una
costruzione, i vari proprietari dei vari
terreni in cui sia stato frazionato il fondo
originario hanno a disposizione solo la
volumetria residua, in proporzione alle
rispettive (quote di) proprietà.
Infatti, poiché nel computo della volumetria
assentibile sono da ricomprendere anche gli
edifici preesistenti, le vicende inerenti
alla proprietà dei terreni e, in
particolare, il frazionamento del fondo da
parte di un unico precedente proprietario,
sono irrilevanti ai fini dell’edificabilità
delle aree libere, le quali devono comunque
intendersi asservite alle costruzioni già
realizzate e pertanto restano edificabili
nei soli limiti della volumetria residua.
In caso di preesistenza di edificio
condominiale, la volumetria residua
disponibile, secondo i principi generali che
regolano l’uso della cosa comune ai sensi
degli artt. 1102, 1108, 1120 e 1122 cod.
civ., resta di pertinenza dei diversi
proprietari in proporzione alle quote
risultanti dalle tabelle millesimali, sicché
il frazionamento di un’area di proprietà
esclusiva di uno dei condomini non può
incidere sulla volumetria residua
disponibile (in misura proporzionale) dai
vari proprietari. Ne consegue che la
volumetria assentibile sull’area frazionata
da una porzione d’immobile di proprietà
esclusiva di uno dei condomini può essere
computata entro i soli limiti della
volumetria residua allo stesso spettante pro
quota sulla parte di proprietà esclusiva,
salvo un eventuale asservimento delle parti
in (com)proprietà degli altri condomini con
specifico atto che, quale atto di natura
negoziale di straordinaria amministrazione,
esige il consenso di tutti i condomini.
Si osserva in linea di diritto che secondo
consolidato orientamento giurisprudenziale,
allorché un’area edificabile venga
successivamente frazionata in più parti tra
vari proprietari, la volumetria disponibile
ai sensi della normativa urbanistica
nell’intera area rimane invariata, con la
conseguenza che, qualora sull’area
originaria già insista una costruzione, i
vari proprietari dei vari terreni in cui sia
stato frazionato il fondo originario hanno a
disposizione solo la volumetria residua, in
proporzione alle rispettive (quote di)
proprietà. Infatti, poiché nel computo della
volumetria assentibile sono da ricomprendere
anche gli edifici preesistenti, le vicende
inerenti alla proprietà dei terreni e, in
particolare, il frazionamento del fondo da
parte di un unico precedente proprietario,
sono irrilevanti ai fini dell’edificabilità
delle aree libere, le quali devono comunque
intendersi asservite alle costruzioni già
realizzate e pertanto restano edificabili
nei soli limiti della volumetria residua
(v., ex plurimis, C.d.S., Sez. V,
16.02.1987, n. 97; C.d.S., Sez. V,
17.05.1996; C.d.S., Sez. V, 10.02.2000, n.
749).
In caso di preesistenza di edificio
condominiale, la volumetria residua
disponibile, secondo i principi generali che
regolano l’uso della cosa comune ai sensi
degli artt. 1102, 1108, 1120 e 1122 cod.
civ., resta di pertinenza dei diversi
proprietari in proporzione alle quote
risultanti dalle tabelle millesimali, sicché
il frazionamento di un’area di proprietà
esclusiva di uno dei condomini non può
incidere sulla volumetria residua
disponibile (in misura proporzionale) dai
vari proprietari. Ne consegue che la
volumetria assentibile sull’area frazionata
da una porzione d’immobile di proprietà
esclusiva di uno dei condomini può essere
computata entro i soli limiti della
volumetria residua allo stesso spettante pro
quota sulla parte di proprietà esclusiva,
salvo un eventuale asservimento delle parti
in (com)proprietà degli altri condomini con
specifico atto che, quale atto di natura
negoziale di straordinaria amministrazione,
esige il consenso di tutti i condomini (v.,
su tale ultimo punto, C.d.S., Sez. V,
28.06.2000, n. 3637).
Applicando le enunciate coordinate normative
e giurisprudenziali alla fattispecie sub
iudice, deve pervenirsi alla conclusione
che lo scorporo della superficie di 436 mq
dalla p.m. 1, di proprietà esclusiva
dell’originario controinteressato, in
assenza di idoneo titolo di asservimento
delle parti di proprietà degli altri
condomini, consentiva la realizzazione della
nuova costruzione entro i limiti della sola
volumetria pro quota residua riferibile alla
parte di proprietà esclusiva dello stesso
controinteressato, senza che l’area
risultante dal frazionamento potesse
considerarsi alla stregua di superficie
edificabile ex novo prescindendo dalle
preesistenze, pena la violazione dei diritti
degli altri condomini sulla volumetria
residua riferibile alla p.ed. 292 e la
carenza in parte qua di titolo legittimante
ex art. 70, comma 1, l. 11.08.1997, n. 13,
(l. urb. prov.) in capo al richiedente la
concessione (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.05.2012 n. 2642 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
diniego di concessione o di autorizzazione a
costruire, importando una contrazione dello
jus aedificandi del proprietario, necessita
di una circostanziata motivazione,
esplicativa delle reali ragioni impeditive,
da individuarsi in un contrasto del progetto
presentato con precise norme urbanistiche,
esplicitamente indicate.
La motivazione è, in particolare, necessaria
sia per consentire all’interessato di
dedurre specifiche ragioni per confutare la
legittimità del provvedimento sia per
adeguare eventualmente il progetto alle
esigenze urbanistiche e paesaggistiche che
si è inteso tutelare.
A tutela del buon andamento amministrativo e
dell’esigenza di delimitazione del controllo
giudiziario, nonché per evidenti ragioni di
logica, la motivazione deve precedere e non
seguire cronologicamente la parte
dispositiva del provvedimento, sì che non ne
è consentita l’integrazione postuma in corso
di causa con la specificazione di elementi
di fatto.
Il Collegio sottolinea che secondo il
condivisibile indirizzo della giurisprudenza
amministrativa <<il diniego di
concessione o di autorizzazione a costruire,
importando una contrazione dello jus
aedificandi del proprietario, necessita di
una circostanziata motivazione, esplicativa
delle reali ragioni impeditive, da
individuarsi in un contrasto del progetto
presentato con precise norme urbanistiche,
esplicitamente indicate.
La motivazione è, in particolare, necessaria
sia per consentire all’interessato di
dedurre specifiche ragioni per confutare la
legittimità del provvedimento sia per
adeguare eventualmente il progetto alle
esigenze urbanistiche e paesaggistiche che
si è inteso tutelare (Cfr. ex multis: Tar
Basilicata, 19.09.2003, n. 897; Tar Campania
Napoli, V, 15.04.2002, n. 109; Tar Calabria
Reggio Calabria, 11.04.2002, n. 227; Tar
Campania Napoli, IV, 18.12.2001, n. 5507).
Né possono essere presi in considerazione i
rilievi formulati in giudizio dal Comune
resistente […]. Ciò in quanto a tutela del
buon andamento amministrativo e
dell’esigenza di delimitazione del controllo
giudiziario, nonché per evidenti ragioni di
logica, la motivazione deve precedere e non
seguire cronologicamente la parte
dispositiva del provvedimento, sì che non ne
è consentita l’integrazione postuma in corso
di causa con la specificazione di elementi
di fatto (da ultimo: Consiglio Stato, VI,
12.11.2009, n. 6997; Consiglio Stato, VI,
29.05.2008, n. 2555; Cons. Stato, V,
25.01.2003, n. 342)>> (Tar Basilicata,
I, 09.04.2010, n. 180; v. anche Tar Toscana,
III, 14.09.2010, n. 5938).
Nel caso in oggetto, appunto,
l’amministrazione si limitava,
illegittimamente, a denunciare un generico
contrasto dell’intervento con la <<normativa
stabilita dal vigente Regolamento Edilizio
Comunale e dalle N.T.A. del P.R.G.>>
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 07.05.2012 n. 775 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: ANTIMAFIA/Il
Consiglio di stato sulla cessione d'azienda.
Appalti, conta la moralità anche degli ex
manager.
Chi compra l'azienda e vuole ottenere
l'appalto pubblico deve documentare che il
management uscente fosse in possesso dei
requisiti di moralità per fare affari con la
pubblica amministrazione.
Lo ha stabilito il
Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 04.05.2012 n. 10,
intervenendo su una fattispecie anteriore
alla legge 106/2011, che ha modificato il
codice dei contratti pubblici.
Diritti garantiti.
Bocciata la tesi che privilegia
l'interpretazione letterale della norma, sul
rilievo che ogni lettura estensiva finirebbe
con ledere l'affidamento dei partecipanti,
la par condicio tra i concorrenti e
l'esigenza della più ampia partecipazione
alla gare d'appalto, oltre che la libertà
d'iniziativa economica costituzionalmente
tutelata.
Il punto è che non si tratta di
individuare per estensione altre cause
ostative ma di verificare se la norma già di
per sé comprenda o meno ipotesi non
testuali, ma pur sempre ad essa
riconducibili sotto il profilo della
sostanziale continuità del soggetto
imprenditoriale a cui si riferiscono, sicché
il soggetto cessato dalla carica sia
identificabile come interno al concorrente.
E Palazzo Spada ritiene che nella causa di
esclusione in esame non può non ricadere
anche l'ipotesi in cui affiori l'intento di
eludere la norma in relazione a vicende in
atto o prevedibili. Non bisogna dimenticare,
infatti, che la ratio della norma è tentare
di evitare che la criminalità metta le mani
sugli appalti pubblici. Insomma, in caso di
cessione d'azienda antecedente alla
partecipazione ad una gara d'appalto il
cessionario deve presentare la dichiarazione
relativa al requisito di cui all'articolo
38, comma 2, lettera c), del dlgs 163/2006
anche in riferimento agli amministratori e
ai direttori tecnici che hanno operato
presso la cedente nell'ultimo triennio (ora
nell'ultimo anno).
Vantaggi e svantaggi.
Il cessionario, comunque, può dimostrare che
nel caso concreto è intervenuta completa
cesura tra vecchia e nuova gestione, tale da
escludere la rilevanza della condotta dei
precedenti amministratori e direttori
tecnici operanti nell'azienda ceduta
nell'ultimo triennio (ora nell'ultimo anno).
E se la dichiarazione non è presentata? Se
il bando non contiene al riguardo una
comminatoria di esclusione ad hoc, l'azienda
potrà essere esclusa soltanto qualora sia
effettivamente riscontrabile l'assenza del
requisito di moralità in capo agli
amministratori uscenti. La spiegazione,
peraltro, va ricercata nell'antico brocardo
latino «ubi commoda, ibi incommoda», vale a
dire che chi subentra nell'azienda deve
farsi carico degli svantaggi oltre che dei
vantaggi che scaturiscono dal trasferimento
dell'impresa. Il cessionario, come si avvale
dei requisiti del cedente sul piano della
partecipazione a gare pubbliche, così
risente delle conseguenze delle eventuali
responsabilità del cedente sullo stesso
piano.
Nel caso di specie al centro del
mirino c'è un'azienda di Gomorra:
l'operazione, all'ombra di sospette
collusioni con la camorra, sembra posta in
essere per mettere l'azienda ceduta al
riparo da eventuali interdittive antimafia
(articolo ItaliaOggi
del 19.05.2012). |
URBANISTICA: Il
piano di zona per l’edilizia residenziale
pubblica previsto dalla l. n. 167/1962 si
connota in termini di strumento urbanistico
di secondo livello rispetto al programma di
fabbricazione e che, avendo una natura ed un
procedimento specializzato, con estensione
limitata e finalizzata ad acquisire le sole
aree per costruire alloggi da assegnare a
categorie popolari e per creare i relativi
standards, neppure può assimilarsi tout
court agli altri strumenti urbanistici
esecutivi di quelli generali.
Esso integra, cioè, una tipologia di
programmazione a sé stante, con cui
l’amministrazione opera le proprie scelte di
distribuzione temporale degli interventi
previsti, tenendo conto di tutte le
variabili (fabbisogno abitativo,
finanziamenti, necessità di urbanizzazione,
ecc.) e delle necessarie interconnessioni
con altri strumenti urbanistici, e che
assolve simultaneamente più funzioni,
producendo effetti giuridici di ordine
diverso: da un lato, è una species del genus
dei piani urbanistici particolareggiati –e
in questo senso attua e specifica, per una
limitata porzione del territorio comunale,
le previsioni del piano regolatore generale
mediante necessarie prescrizioni di
dettaglio– e, d’altro lato, è un programma
di interventi pubblici per la realizzazione
di nuovi alloggi di edilizia economica e
popolare –e in questo senso non è più tanto
uno strumento di pianificazione urbanistica,
quanto uno strumento di politica economica,
in forza del quale l'ente locale acquisisce,
mediante espropriazioni generalizzate, aree
fabbricabili, le urbanizza e le divide in
lotti che assegna ad un prezzo non
speculativo.
Sul punto, giova rimarcare che il piano di
zona per l’edilizia residenziale pubblica
previsto dalla l. n. 167/1962 si connota in
termini di strumento urbanistico di secondo
livello (cfr. Cons. Stato, ad. plen.
03.07.1997, n. 12; sez. IV, 21.05.2004, n.
3320) rispetto al programma di fabbricazione
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 25.01.1999, n.
70) e che, avendo una natura ed un
procedimento specializzato, con estensione
limitata e finalizzata ad acquisire le sole
aree per costruire alloggi da assegnare a
categorie popolari e per creare i relativi
standards (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
09.11.1995, n. 895), neppure può assimilarsi
tout court agli altri strumenti urbanistici
esecutivi di quelli generali.
Esso integra, cioè, una tipologia di
programmazione a sé stante, con cui
l’amministrazione opera le proprie scelte di
distribuzione temporale degli interventi
previsti, tenendo conto di tutte le
variabili (fabbisogno abitativo,
finanziamenti, necessità di urbanizzazione,
ecc.) e delle necessarie interconnessioni
con altri strumenti urbanistici, e che
assolve simultaneamente più funzioni,
producendo effetti giuridici di ordine
diverso: da un lato, è una species
del genus dei piani urbanistici
particolareggiati –e in questo senso attua e
specifica, per una limitata porzione del
territorio comunale, le previsioni del piano
regolatore generale mediante necessarie
prescrizioni di dettaglio– e, d’altro lato,
è un programma di interventi pubblici per la
realizzazione di nuovi alloggi di edilizia
economica e popolare –e in questo senso non
è più tanto uno strumento di pianificazione
urbanistica, quanto uno strumento di
politica economica, in forza del quale
l'ente locale acquisisce, mediante
espropriazioni generalizzate, aree
fabbricabili, le urbanizza e le divide in
lotti che assegna ad un prezzo non
speculativo– (cfr. TAR Basilicata, Potenza,
05.11.2004, n. 740) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 03.05.2012
n. 2030 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: A
mente dell'art. 9 del d.p.r. n. 380/2001,
costituisce regola generale ed imperativa,
in materia di governo del territorio, il
rispetto delle previsioni dello strumento
urbanistico di primo livello che impongano,
per una determinata zona, la pianificazione
di dettaglio: tali prescrizioni sono
vincolanti e idonee ad inibire l'intervento
diretto costruttivo. Corollari immediati di
tale principio fondamentale sono che:
a) quando lo strumento urbanistico generale
prevede che la sua attuazione debba aver
luogo mediante un piano di livello
inferiore, il rilascio del titolo edilizio
può essere legittimamente disposto solo dopo
che lo strumento esecutivo sia divenuto
perfetto ed efficace, ossia dopo la
conclusione del relativo procedimento;
b) in presenza di una normativa urbanistica
generale che preveda per il rilascio del
titolo edilizio in una determinata zona
l'esistenza di un piano attuativo, non è
consentito superare tale prescrizione
facendo leva sulla situazione di sufficiente
urbanizzazione della zona stessa.
Ed invero, i piani particolareggiati e i
piani di lottizzazione hanno lo scopo di
garantire che all'edificazione del
territorio a fini residenziali corrisponda
l'approvvigionamento delle dotazioni minime
di infrastrutture pubbliche, le quali, a
loro volta, garantiscono la normale qualità
del vivere in un aggregato urbano. Cosicché
può prescindersi dalle cennate convenzioni
urbanistiche, solo quando detti standards
siano altrimenti rispettati. Diversamente
opinando, col rilascio di singoli permessi
di costruire in area non pienamente
urbanizzata, gli interessati verrebbero
legittimati ad utilizzare l’intera proprietà
a fini privati, scaricando sulla
collettività i costi conseguenti alla
realizzazione di infrastrutture per i nuovi
insediamenti.
Il Collegio
intende dare seguito alla giurisprudenza in
base alla quale, a mente dell'art. 9 del
d.p.r. n. 380/2001, costituisce regola
generale ed imperativa, in materia di
governo del territorio, il rispetto delle
previsioni dello strumento urbanistico di
primo livello che impongano, per una
determinata zona, la pianificazione di
dettaglio: tali prescrizioni sono vincolanti
e idonee ad inibire l'intervento diretto
costruttivo (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
30.12.2008, n. 6625). Corollari immediati di
tale principio fondamentale sono che:
a) quando lo strumento urbanistico generale
prevede che la sua attuazione debba aver
luogo mediante un piano di livello
inferiore, il rilascio del titolo edilizio
può essere legittimamente disposto solo dopo
che lo strumento esecutivo sia divenuto
perfetto ed efficace, ossia dopo la
conclusione del relativo procedimento (cfr.
Cons. Stato sez. V, 01.04.1997, n. 300);
b) in presenza di una normativa urbanistica
generale che preveda per il rilascio del
titolo edilizio in una determinata zona
l'esistenza di un piano attuativo, non è
consentito superare tale prescrizione
facendo leva sulla situazione di sufficiente
urbanizzazione della zona stessa (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 03.11.2008, n. 5471).
Ed invero, i piani particolareggiati e i
piani di lottizzazione hanno lo scopo di
garantire che all'edificazione del
territorio a fini residenziali corrisponda
l'approvvigionamento delle dotazioni minime
di infrastrutture pubbliche, le quali, a
loro volta, garantiscono la normale qualità
del vivere in un aggregato urbano. Cosicché
può prescindersi dalle cennate convenzioni
urbanistiche, solo quando detti standards
siano altrimenti rispettati. Diversamente
opinando, col rilascio di singoli permessi
di costruire in area non pienamente
urbanizzata, gli interessati verrebbero
legittimati ad utilizzare l’intera proprietà
a fini privati, scaricando sulla
collettività i costi conseguenti alla
realizzazione di infrastrutture per i nuovi
insediamenti (Cons. Stato, sez. V,
03.03.2004, n. 1013) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 03.05.2012
n. 2030 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
diniego di una concessione edilizia volta
alla costruzione di un fabbricato può essere
legittimamente opposto, allorquando sia
verificata, sulla base della reale
situazione dell'area, l'effettiva esigenza
della redazione di un piano
particolareggiato; e che, pertanto, sia
legittimo il diniego di concessione edilizia
in presenza di un insediamento su un’area da
destinare ad urbanizzazione, quando
l'adozione di un nuovo piano attuativo sia
giustificata in virtù dell'insufficiente
urbanizzazione primaria e secondaria della
zona.
Ed invero, non è sufficiente un qualsiasi
stadio di urbanizzazione di fatto per
eludere il principio fondamentale della
pianificazione e per eventualmente aumentare
i guasti urbanistici già verificatisi,
essendo la pianificazione
dell'urbanizzazione doverosa fino a quando
essa conservi una qualche utile funzione
anche in aree già compromesse o edificate.
E' evidente
che, ove si tratti di asservire per la prima
volta ad insediamenti edilizi aree non
ancora urbanizzate –che obiettivamente
richiedano, per il loro armonico raccordo
col preesistente aggregato abitativo, la
realizzazione o il potenziamento delle opere
di urbanizzazione primaria e secondaria
volte a soddisfare le esigenze della
collettività– si rende necessario un piano
esecutivo (particolareggiato o di
lottizzazione), quale presupposto per il
rilascio del permesso di costruire (cfr.
Cons. Stato, ad. plen., 20.05.1980 n. 18;
06.12.1992 n. 12; sez. V, 13.11.1990, n.
776; 06.04.1991, n. 446; 07.01.1999, n. 1;
sez. IV, 22.05.2006, n. 3001; 04.12.2007, n.
6171 TAR Campania, sez. IV, 02.03.2000, n.
596; 08.05.2003, n. 5330; TAR Lazio, Latina,
27.10.2006, n. 1375; TAR Puglia, Lecce, sez.
III, 02.02.2005, n. 4403 - aprile 2007, n.
1501; 15.03.2007, n. 1037).
In tale fattispecie, nella quale
l’originaria integrità del territorio non è
sostanzialmente vulnerata, deve essere
rigorosamente rispettata la cadenza, in
ordine successivo, dell'approvazione del
piano regolatore generale e dello strumento
urbanistico attuativo, in modo da garantire
una pianificazione razionale e ordinata del
futuro sviluppo del territorio dal punto di
vista urbanistico.
Il piano esecutivo, previsto dallo strumento
urbanistico generale come presupposto
dell'edificazione, non ammette, cioè,
equipollenti, nel senso che, in sede
amministrativa o giurisdizionale, non
possono essere effettuate indagini volte a
verificare se sia tecnicamente possibile
realizzare costruzioni, che, ad avviso del
legislatore, incidono negativamente sul
razionale assetto del territorio,
vanificando la funzione del piano attuativo,
la cui approvazione può essere stimolata
dall'interessato, con gli strumenti
consentiti dal sistema (Cons. Stato, sez. V,
03.03.2004, n. 1013; 10.12.2003, n. 7799;
sez. IV, 19.02.2008, n. 531).
L’indefettibilità dello strumento
urbanistico attuativo neppure viene meno
nelle ipotesi di zone edificate, esposte al
rischio di compromissione di valori
urbanistici, nelle quali la pianificazione
può ancora conseguire l'effetto di
correggere e compensare il disordine
edificativo in atto (Cons. Stato, sez. V,
01.12.2003, n. 7799); zone nelle quali si
prospetti, quindi, l'esigenza di raccordare
armonicamente le nuove costruzioni col
preesistente aggregato urbano e di
potenziare le opere di urbanizzazione
esistenti, tanto più quando il nuovo
intervento edilizio, per le sue dimensioni,
abbia un consistente impatto sull'assetto
territoriale; e nelle quali la preventiva
redazione di un piano attuativo per il
rilascio del titolo abilitativo edilizio si
ponga, in definitiva, come imprescindibile
(TAR Veneto, Venezia, sez. II, 31.03.2003,
n. 2171; 08.09.2006, n. 2893; TAR Lazio,
Roma, sez. II, 13.09.2006, n. 8463).
Così, è stato ritenuto che il diniego di una
concessione edilizia volta alla costruzione
di un fabbricato possa essere legittimamente
opposto, allorquando sia verificata, sulla
base della reale situazione dell'area,
l'effettiva esigenza della redazione di un
piano particolareggiato; e che, pertanto,
sia legittimo il diniego di concessione
edilizia in presenza di un insediamento su
un’area da destinare ad urbanizzazione,
quando l'adozione di un nuovo piano
attuativo sia giustificata in virtù
dell'insufficiente urbanizzazione primaria e
secondaria della zona (TAR Calabria,
Catanzaro, sez. II, 05.02.2004, n. 230).
Ed invero, non è sufficiente un qualsiasi
stadio di urbanizzazione di fatto per
eludere il principio fondamentale della
pianificazione e per eventualmente aumentare
i guasti urbanistici già verificatisi,
essendo la pianificazione
dell'urbanizzazione doverosa fino a quando
essa conservi una qualche utile funzione
anche in aree già compromesse o edificate
(TAR Puglia, Lecce, sez. III, 18.01.2005, n.
164) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 03.05.2012
n. 2030 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
sottoposizione di un’area a vincoli quali
quelli paesaggistici unitamente alla
contemporanea ricorrenza delle ulteriori
condizioni elencate nell’art. 32, comma 27,
lett. d) d.l. n. 269, conv. in l. 326/2003,
rende impossibile l’accoglimento
dell’istanza di condono edilizio in essa
realizzato, configurando come atto dovuto
l’adozione da parte dell’Amministrazione del
diniego della stessa istanza.
Ne consegue che, ai sensi dell’art.
21-octies, comma 2, l. 07.08.1990 n. 241,
“non è annullabile il provvedimento adottato
in violazione di norme sul procedimento o
sulla forma degli atti qualora, per la
natura vincolata del provvedimento, sia
palese che il suo contenuto dispositivo non
avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato”.
La sottoposizione di un’area a vincoli quali
quelli paesaggistici, dichiarati con
riferimento all’area di specie, unitamente
alla contemporanea ricorrenza delle
ulteriori condizioni elencate nell’art. 32,
comma 27, lett. d) citato, rende impossibile
l’accoglimento dell’istanza di condono
edilizio in essa realizzato, configurando
come atto dovuto l’adozione da parte
dell’Amministrazione del diniego della
stessa istanza (TAR, Lazio, Roma, sez. II,
09.12.2009, n. 12644).
Ne consegue che, ai sensi dell’art.
21-octies, comma 2, l. 07.08.1990 n. 241, “non
è annullabile il provvedimento adottato in
violazione di norme sul procedimento o sulla
forma degli atti qualora, per la natura
vincolata del provvedimento, sia palese che
il suo contenuto dispositivo non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto
adottato” (TAR Lazio Roma,
sez. I, 09.02.2010, n. 1785)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 02.05.2012 n. 757 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: a)
la nozione di “pertinenza urbanistica” ha
peculiarità sue proprie, che la distinguono
da quella civilistica: si deve trattare,
invero, di un’opera -che abbia comunque una
propria individualità fisica e una propria
conformazione strutturale e non sia parte
integrante o costitutiva di altro
fabbricato- preordinata a un’oggettiva
esigenza dell’edificio principale,
funzionalmente e oggettivamente inserita al
servizio dello stesso, sfornita di un
autonomo valore di mercato, non valutabile
in termini di cubatura o comunque dotata di
un volume minimo tale da non consentire, in
relazione anche alle caratteristiche
dell’edificio principale, una sua
destinazione autonoma e diversa da quella a
servizio dell’immobile cui accede. La
pertinenza, in definitiva, esaurisce la
propria destinazione d’uso nel rapporto
funzionale con l’edificio principale, così
da non incidere sul carico urbanistico;
b) nello specifico, la relazione con la
costruzione preesistente deve essere, in
ogni caso, non d’integrazione ma “di
servizio”, allo scopo di renderne più
agevole e funzionale l’uso (carattere di
strumentalità funzionale), sicché non può
ricondursi alla nozione in esame
l’ampliamento di un edificio mediante
l’edificazione di un vano e relativi
servizi, che, per la relazione di
connessione fisica, costituisce parte di
esso quale elemento che attiene all’essenza
dell’immobile e lo completa affinché
soddisfi ai bisogni cui è destinato.
Secondo
giurisprudenza consolidata:
a) la nozione di “pertinenza urbanistica”
ha peculiarità sue proprie, che la
distinguono da quella civilistica: si deve
trattare, invero, di un’opera -che abbia
comunque una propria individualità fisica e
una propria conformazione strutturale e non
sia parte integrante o costitutiva di altro
fabbricato- preordinata a un’oggettiva
esigenza dell’edificio principale,
funzionalmente e oggettivamente inserita al
servizio dello stesso, sfornita di un
autonomo valore di mercato, non valutabile
in termini di cubatura o comunque dotata di
un volume minimo tale da non consentire, in
relazione anche alle caratteristiche
dell’edificio principale, una sua
destinazione autonoma e diversa da quella a
servizio dell’immobile cui accede. La
pertinenza, in definitiva, esaurisce la
propria destinazione d’uso nel rapporto
funzionale con l’edificio principale, così
da non incidere sul carico urbanistico (TAR
Sicilia, Palermo, sez. III, 25.01.2012, n.
164; TAR Marche, Ancona, sez. I, 01.08.2011,
n. 634; TAR Abruzzo Pescara, sez. I,
17.11.2010, n. 1221).
b) nello specifico, la relazione con la
costruzione preesistente deve essere, in
ogni caso, non d’integrazione ma “di
servizio”, allo scopo di renderne più
agevole e funzionale l’uso (carattere di
strumentalità funzionale), sicché non può
ricondursi alla nozione in esame
l’ampliamento di un edificio mediante
l’edificazione di un vano e relativi
servizi, che, per la relazione di
connessione fisica, costituisce parte di
esso quale elemento che attiene all’essenza
dell’immobile e lo completa affinché
soddisfi ai bisogni cui è destinato
(Cassazione penale, sez. III, 24.03.2010, n.
24241).
Ora, nel caso di specie, trattasi di vano,
con relativi servizi, privo di una propria
individualità fisica e di una propria
conformazione strutturale in quanto parte di
altro fabbricato (l’abitazione già
esistente), della quale costituisce un
ampliamento, completandola per i bisogni cui
è destinato (a residenza familiare),
valutabile in termini di cubatura (mq. 47,12
pari a mc. 162,50: cfr. dichiarazione del 6
dicembre 2004, allegata alla domanda di
definizione degli illeciti edilizi) e,
dunque, tale incidere sul carico
urbanistico.
Incorre, pertanto, nell’abuso edilizio colui
che realizza un ampliamento dell’abitazione
di proprietà, già sanata, in una zona
sottoposta a vincolo paesaggistico, non
suscettibile, per i motivi anzidetti, di
sanatoria edilizia (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 02.05.2012 n. 757 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’indicazione
dell’area di sedime, così come di quella necessaria per
opere analoghe a quelle abusive, da
acquisire al patrimonio comunale “non
deve considerarsi requisito dell’ordinanza
di demolizione -e dunque la mancanza non ne
inficia la legittimità- giacché siffatta
specificazione è elemento essenziale del
distinto provvedimento con cui
l’Amministrazione accerta la mancata
ottemperanza alla demolizione da parte
dell’ingiunto”.
Il contenuto essenziale dell’ingiunzione di
demolizione va individuato in relazione alla
funzione tipica del provvedimento, che è
quella di prescrivere la rimozione delle
opere abusive. Pertanto, ai fini della
legittimità dell’atto è necessaria e
sufficiente l’analitica indicazione delle
opere abusivamente realizzate in modo da
consentire al destinatario della sanzione di
rimuoverle spontaneamente.
Uniformandosi
alla giurisprudenza prevalente, la Sezione
ha ritenuto che l’indicazione dell’area di sedime, così come di quella necessaria per
opere analoghe a quelle abusive, da
acquisire al patrimonio comunale “non
deve considerarsi requisito dell’ordinanza
di demolizione -e dunque la mancanza non ne
inficia la legittimità- giacché siffatta
specificazione è elemento essenziale del
distinto provvedimento con cui
l’Amministrazione accerta la mancata
ottemperanza alla demolizione da parte
dell’ingiunto” (TAR Puglia Lecce, sez.
III, 28.07.2011, n. 1461, 24.03.2011, n. 518
e 09.12.2010, n. 2809; nello stesso senso,
TAR Piemonte Torino, sez. I, 24.03.2010, n.
1577).
Il contenuto essenziale dell’ingiunzione di
demolizione va individuato in relazione alla
funzione tipica del provvedimento, che è
quella di prescrivere la rimozione delle
opere abusive. Pertanto, ai fini della
legittimità dell’atto è necessaria e
sufficiente l’analitica indicazione delle
opere abusivamente realizzate in modo da
consentire al destinatario della sanzione di
rimuoverle spontaneamente (TAR Lazio Roma,
sez. I, 09.02.2010, n. 1785)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 02.05.2012 n. 757 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La disciplina dell’accesso agli
atti amministrativi non condiziona
l’esercizio del relativo diritto alla
titolarità di una posizione giuridica
tutelata in modo pieno, quale il diritto
soggettivo del soggetto che ha conferito un
capitale in una società commerciale, essendo
sufficiente il collegamento con una
situazione giuridicamente riconosciuta anche
in misura attenuata.
La giurisprudenza afferma, infatti, che la
legittimazione all'accesso va riconosciuta a
chiunque possa dimostrare che gli atti
procedimentali oggetto dell'accesso abbiano
spiegato o siano idonei a spiegare effetti
diretti o indiretti nei suoi confronti,
indipendentemente dalla lesione di una
posizione giuridica, stante l'autonomia del
diritto di accesso, inteso come interesse ad
un bene della vita distinto rispetto alla
situazione legittimante all'impugnativa
dell'atto.
---------------
L'interesse che legittima la richiesta di
accesso, oltre ad essere serio e non
emulativo, deve essere “personale e
concreto”, ossia ricollegabile alla persona
dell'istante da uno specifico nesso: in
sostanza occorre che il richiedente intenda
difendere una situazione di cui è portatore,
qualificata dall'ordinamento come meritevole
di tutela, non essendo sufficiente il
generico e indistinto interesse di ogni
cittadino alla legalità o al buon andamento
della attività amministrativa.
---------------
Per stabilire se sussiste il diritto
all’accesso, occorre avere riguardo al
documento cui si intende accedere, per
verificarne l’incidenza, anche potenziale,
sull’interesse di cui il soggetto è
portatore.
In altri termini, essere titolare di una
situazione giuridicamente tutelata non è
condizione sufficiente perché l’interesse
rivendicato possa considerarsi “diretto,
concreto e attuale”, essendo anche
necessario che la documentazione cui si
chiede di accedere sia collegata a quella
posizione sostanziale, impedendone o
ostacolandone il soddisfacimento.
L'Amministrazione, pertanto, secondo lo
schema logico imposto dall’art. 22 della
legge n. 241 del 1990, deve verificare se
gli atti, cui si chiede di accedere, siano
in qualche modo collegati con la suddetta
situazione giuridica, vale a dire se la
conoscenza degli atti stessi, e le
iniziative eventualmente conseguenti, siano
in grado di concorrere alla tutela della
medesima situazione giuridica.
La disciplina dell’accesso agli atti
amministrativi, infatti, non condiziona
l’esercizio del relativo diritto alla
titolarità di una posizione giuridica
tutelata in modo pieno, quale il diritto
soggettivo del soggetto che ha conferito un
capitale in una società commerciale, essendo
sufficiente il collegamento con una
situazione giuridicamente riconosciuta anche
in misura attenuata. La giurisprudenza
afferma, infatti, che la legittimazione
all'accesso va riconosciuta a chiunque possa
dimostrare che gli atti procedimentali
oggetto dell'accesso abbiano spiegato o
siano idonei a spiegare effetti diretti o
indiretti nei suoi confronti,
indipendentemente dalla lesione di una
posizione giuridica, stante l'autonomia del
diritto di accesso, inteso come interesse ad
un bene della vita distinto rispetto alla
situazione legittimante all'impugnativa
dell'atto (Consiglio di Stato, sezione VI,
09.03.2011, n. 1492 ).
-------------
Fin dalle prime
pronunce del Consiglio di Stato
sull’interpretazione dell’art. 22 della
legge 07.08.1990 n. 241, (sezione IV,
26.11.1993, n. 1036) fu riconosciuta la
legittimazione del Codacons ad esercitare il
diritto di accesso ai documenti
dell'Amministrazione in relazione ad
interessi che pertengono ai consumatori e
utenti di pubblici servizi.
Cionondimeno, già nella sentenza citata, si
precisò che la disposizione di cui all'art.
22, comma 1, della legge n. 241 del 1990,
pur riconoscendo il diritto di accesso a "chiunque
vi abbia interesse" non ha tuttavia
introdotto alcun tipo di azione popolare
diretta a consentire una sorta di controllo
generalizzato sulla Amministrazione, tant'è
che ha contestualmente definito siffatto
interesse come finalizzato alla “tutela”
di "situazioni giuridicamente rilevanti".
Anche sulla scorta dell’art. 2 del primo
regolamento attuativo della legge, con
riferimento all’accesso, approvato con
d.P.R. 27.06.1992 n. 352, fu chiarito che
l'interesse che legittima la richiesta di
accesso, oltre ad essere serio e non
emulativo, deve essere “personale e
concreto”, ossia ricollegabile alla
persona dell'istante da uno specifico nesso:
in sostanza occorre che il richiedente
intenda difendere una situazione di cui è
portatore, qualificata dall'ordinamento come
meritevole di tutela, non essendo
sufficiente il generico e indistinto
interesse di ogni cittadino alla legalità o
al buon andamento della attività
amministrativa.
Da questo indirizzo interpretativo la
giurisprudenza del Consiglio di Stato non si
è mai discostata (Sez. VI, 23.11.2000, n.
5930; Sez. IV, 06.10.2001 n. 5291; Sez. VI,
22.10.2002 n. 5818; Sez.. V, 16.01.2005 n.
127; Sez. IV, 24.02.2005, n. 658; Sez. VI,
10.02.2006 n. 555; Sez. VI, 01.02.2007 n.
416).
Il detto orientamento, del resto, ha
ricevuto ulteriore supporto dalla legge
11.02.2005 n. 15, cit. con la quale sono
state apportate modifiche alla legge n. 241
del 1990. Con la novella, non solo è stato
introdotto nell’art. 24, il comma 3, secondo
cui sono inammissibili istanze di accesso “preordinate
ad un controllo generalizzato dell’operato
delle pubbliche amministrazioni”, ma
anche e, soprattutto, si è meglio definita
la figura del soggetto “interessato”
all’accesso, come quello che -come era già
prescritto- abbia un interesse diretto,
concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata, ma anche
che -ed è questa l’innovazione- tale
situazione sia “collegata al documento al
quale è chiesto l’accesso”.
La puntualizzazione chiarisce che, per
stabilire se sussiste il diritto
all’accesso, occorre avere riguardo al
documento cui si intende accedere, per
verificarne l’incidenza, anche potenziale,
sull’interesse di cui il soggetto è
portatore.
In altri termini, essere titolare di una
situazione giuridicamente tutelata non è
condizione sufficiente perché l’interesse
rivendicato possa considerarsi “diretto,
concreto e attuale”, essendo anche
necessario che la documentazione cui si
chiede di accedere sia collegata a quella
posizione sostanziale, impedendone o
ostacolandone il soddisfacimento.
L'Amministrazione, pertanto, secondo lo
schema logico imposto dall’art. 22 della
legge n. 241 del 1990, deve verificare se
gli atti, cui si chiede di accedere, siano
in qualche modo collegati con la suddetta
situazione giuridica, vale a dire se la
conoscenza degli atti stessi, e le
iniziative eventualmente conseguenti, siano
in grado di concorrere alla tutela della
medesima situazione giuridica
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 24.04.2012 n. 7 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
carattere precario del manufatto non dipende
<<dai materiali utilizzati o dal suo sistema
di ancoraggio al suolo, bensì dall'uso al
quale il manufatto è destinato, e va dunque
valutata alla luce della obiettiva ed
intrinseca destinazione naturale dell'opera,
a nulla rilevando la temporanea destinazione
data alla stessa dai proprietari>>.
In questo prospettiva, un impianto
fotovoltaico a terra, indipendentemente dai
materiali utilizzati e dai criteri di
ancoraggio al suolo, si presenta
oggettivamente finalizzata a soddisfare
esigenze non temporanee dell’azienda
agricola e, quindi, non può essere
considerata in termini di opera precaria.
... per l'annullamento:
- del parere prot. 3302/2010 del 21.02.2011,
con cui il Comune di Cinigiano - Area
Tecnica Ufficio Urbanistica, ha espresso
parere contrario in merito al Programma di
Miglioramento Agricolo Ambientale, redatto
ai sensi della L.R. 1/2005 dal Sig. R.C. e
presentato in data 29.06.2010, e relativo
alla realizzazione di impianto fotovoltaico
a terra e incremento superficie vitata sui
terreni di proprietà dell'azienda Terra
Rossa, posti in Borgo S. Rita - Cinigiano (Gr);
...
Già in sede cautelare (TAR Toscana, sez. II,
01.06.2011 n. 634), la Sezione ha avuto modo
di rilevare, con riferimento al preteso
carattere pertinenziale e precario
dell’impianto fotovoltaico, come la
costruzione proposta da parte ricorrente non
possa trovare accoglimento, <<considerato
che non si riscontra l’invocata natura
pertinenziale dell’impianto fotovoltaico,
attesa la dimensione del medesimo e la sua
stessa destinazione evidenziata dal
ricorrente -tesa a conferire la corrente
elettrica alla rete e non ad asservire
esclusivamente un edificio principale-
nonché la conformazione dell’impianto che è
destinato ad una trasformazione funzionale
dello stato dei luoghi, indipendentemente
dall’amovibilità potenziale delle singole
componenti>>.
Ed in effetti, nella fattispecie manca
certamente quel <<rapporto di
strumentalità o complementarità funzionale>>
(Consiglio di Stato, sez. IV 15.12.2011 n.
6606; sez. VI 11.05.2011 n. 2781) con i
manufatti esistenti sull’area che, per
giurisprudenza univoca, costituisce il
requisito costitutivo delle cd. pertinenze
urbanistiche.
A questo proposito, la Sezione non dubita
certo che i proventi derivanti dalla
possibile installazione dell’impianto
costituiscano una fonte di entrate di tale
importanza da risultare complementare, nella
complessiva economia dell’azienda,
all’attività principale di coltivazione
agricola svolta sull’area; sotto il profilo
urbanistico-edilizio, si tratta però di
innovazione che non si pone certo in
rapporto di pertinenzialità con l’esistente,
ma che deve essere valutata come nuova ed
autonoma edificazione, in virtù delle
proprie caratteristiche intrinseche di
trasformazione del territorio.
Per quello che riguarda l’altro profilo
della possibile natura precaria delle opere,
deve poi trovare applicazione l’indirizzo
giurisprudenziale ormai consolidato che ha
rilevato come il carattere precario del
manufatto non dipenda <<dai materiali
utilizzati o dal suo sistema di ancoraggio
al suolo, bensì dall'uso al quale il
manufatto è destinato, e va dunque valutata
alla luce della obiettiva ed intrinseca
destinazione naturale dell'opera, a nulla
rilevando la temporanea destinazione data
alla stessa dai proprietari>> (Consiglio
Stato, sez. IV, 15.05.2009 n. 3029; sez. V
20.06.2011 n. 3683).
In questo prospettiva, l’opera progettata
dal ricorrente, indipendentemente dai
materiali utilizzati e dai criteri di
ancoraggio al suolo, si presenta
oggettivamente finalizzata a soddisfare
esigenze non temporanee dell’azienda
agricola e, quindi, non può essere
considerata in termini di opera precaria
(TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 23.04.2012
n. 809 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROGETTUALI:
I professionisti partecipanti a
gare pubbliche hanno l’obbligo di indicare
le eventuali forme di collaborazione tra
loro?
I progettisti che partecipano insieme ad una
gara devono sempre indicare la forma
giuridica in base alla quale intendono
collaborare al fine di svolgere l’incarico.
Questo è quanto stabilito dal TAR
Puglia-Lecce, Sez. III,con la
sentenza 23.04.2012 n. 713 che ha
rigettato il ricorso presentato da alcuni
professionisti che contestavano tale
obbligo, dopo la loro esclusione da parte
della Stazione Appaltante da una gara per
lavori di riqualificazione urbana.
In base alla sentenza, il mancato
chiarimento della forma di collaborazione
costituisce motivo di esclusione da una gara
pubblica (commento tratto da www.acca.it -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Lottizzazione, con i lotti si
cede anche la volumetria? Per la Cassazione
necessarie verifiche precise sulla
convenzione.
Il lottizzatore e'
titolare della cubatura sui lotti del
comparto edilizio. A meno che non si provi
che cedendo i singoli lotti ha ceduto anche
la volumetria.
E' quanto deciso dalla Corte di Cassazione,
III Sez. penale, con la sentenza
18.04.2012 n. 14894, che ha accolto il
ricorso dell'imputato.
Vediamo di ricostruire ciò che è successo
nel caso giudicato dalla cassazione nella
sentenza in commento e di illustrare il
principio di diritto enunciato.
Nel caso specifico due imputati hanno
dichiarato ad un comune di avere ancora
disponibilità di volumetria relativamente ad
alcuni lotti: secondo la tesi accusatoria si
è trattata di una falsa dichiarazione per
indurre in errore il comune e ottenere una
concessione edilizia per costruire su un
diverso lotto utilizzando la cubatura dei
primi.
Seppure prosciolti per prescrizione, il
procedimento è arrivato fino in cassazione,
su ricorso degli imputati, condannati a
risarcire i danni alle parti civili e cioè
gli acquirenti delle case costruite sui
singoli lotti, convinti di avere la
titolarità della cubatura, utilizzata invece
dai venditori.
Gli imputati hanno sostenuto che il giudice
di merito ha travisato la disciplina sulle
lottizzazioni.
Secondo i ricorrenti la capacità
edificatoria, conseguente alla
lottizzazione, non si trasferisce agli
acquirenti dei singoli lotti, su cui sono
state costruite le case.
Quindi questi ultimi non diventano titolari
della cubatura, tanto è vero che non possono
essere definiti lottizzanti.
Gli imputati hanno, quindi, sostenuto che,
nel caso di lottizzazione, la volumetria è
calcolata complessivamente sull'intero
comparto lottizzato ed è ricollegata alla
convenzione stipulata tra i lottizzanti ed
il comune.
Se così è, gli interessati ne hanno tratto
la conclusione di non avere formulato una
falsa dichiarazione nel momento in cui hanno
affermato di avere la disponibilità della
capacità insediativa sui lotti (già
venduti).
La corte ha accolto questa
argomentazione.
Secondo la cassazione la lottizzazione di
un'area si completa e diviene perfetta con
la stipula della convenzione, con la quale
vengono definiti il progetto lottizzatorio e
la volumetria dell'intero comparto
(cosiddetto indice territoriale), con
corrispondente assunzione da parte del
soggetto attuatore di tutti gli obblighi di
urbanizzazione necessari alla realizzazione
del comparto edificatorio.
La stipula, pertanto, è la condizione di
efficacia del provvedimento di
autorizzazione alla lottizzazione. Il
soggetto attuatore del piano di
lottizzazione è chi stipula la convenzione
di lottizzazione e poi costruisce o vende i
singoli lotti, dopo avere eseguito le opere
di urbanizzazione o ceduto le aree al comune
per l'esecuzione delle stesse, attuando
direttamente o per mezzo degli acquirenti
dei lotti la convenzione.
Tra l'altro in tema di volumetria del
comparto, se la convenzione ha stabilito la
volumetria massima edificabile per ciascun
lotto, vale la regola per cui sul lotto
singolo può essere realizzata una volumetria
inferiore o anche nulla; è perciò possibile
che alcuni lotti non vengano affatto
edificati oppure è anche possibile
concentrare le quantità di volumetria su
lotti contigui, nel rispetto della
volumetria consentita, distanze e
destinazione d'uso dei fabbricati e previa
approvazione di un nuovo piano di
lottizzazione, con tutte le varianti del
caso.
Nel caso specifico certamente la cubatura
residua su alcuni lotti è stata trasferita
ad altro lotto, previa dichiarazione di
disponibilità della capacità edificatoria e
da qui è scaturita la condanna per falso.
Il giudice di merito, tuttavia, si è
limitato ad affermare che la volumetria
fosse stata distribuita tra i vari lotti con
trasferimento dello ius aedificandi
insieme alla vendita dei singoli lotti e
degli edifici realizzati: gli acquirenti in
sostanza, secondo la corte di appello,
sarebbero diventati titolari del diritto
sulla cubatura residua con la semplice
acquisizione dei lotti.
Per il giudice di merito ciò era desumibile
dal fatto che mancavano gli atti di
trasferimento volumetrico o comunque di
conferimento della facoltà di utilizzo di
superficie da parte degli acquirenti dei
singoli lotti agli imputati.
Solo con atti di asservimento, secondo il
giudice di merito, gli imputati avrebbero
potuto dichiarare di avere la disponibilità
edificatoria.
In mancanza sarebbe integrato il delitto di
falsa dichiarazione di possedere la
cubatura.
La cassazione non è stata di questa
opinione, ritenendo che per pervenire a una
sentenza di condanna si sarebbe dovuto
accertare l'esatto tenore della convenzione
di lottizzazione e degli atti di cessione
dei lotti.
Con riferimento agli atti di cessione
bisognerebbe appurare se gli stessi abbiano
avuto ad oggetto le case realizzate sui
lotti o se invece siano stati ceduti i lotti
edificabili con la volumetria assegnata agli
stessi o ancora se nei contratti di cessione
i lottizzatori si siano riservati la
cubatura residua su ciascun lotto.
In quest'ultimo caso, infatti, i
lottizzatori ben potevano dichiarare di
essere titolari della volumetria al fine di
utilizzarla su altri lotti.
La corte di appello non ha compiuto questi
necessari accertamenti e, quindi, la
sentenza di merito è risultata viziata con
rinvio al giudice di secondo grado per un
rinnovato accertamento dei fatti (commento
tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione
penale, sentenza 18.04.2012 n. 14894). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abusi edilizi, la PA controlla
solo le denunce circostanziate.
La contestazione del
privato circa la realizzazione di abusi
edilizi fa sorgere l'obbligo della P.A. di
attivarsi solo se presentato in forma
scritta e recante l'indicazione, seppure
sintetica, della lamentata illegittimità
dell'intervento edilizio e la richiesta di
esercizio del potere/dovere di verifica e di
eventuale repressione.
Con
sentenza 12.04.2012 n. 1075, il
TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
ha affermato che, con specifico riferimento
ad interventi di carattere edilizio, che lo
schema normativo dell'art. 19, comma 6-ter,
della legge 07.08.1990 n. 241, prevede che
la presentazione di una denuncia di inizio
attività o di una segnalazione certificata
di inizio attività, non dà luogo ad alcun
procedimento amministrativo, per cui il
decorso del termine di legge di 60 o 30
giorni per l’adozione di provvedimenti
inibitori o repressivi da parte della
Pubblica amministrazione non configura
alcuna conclusione di procedimento
amministrativo né alcuna adozione di un
provvedimento tacito o implicito.
Ciò posto, è stato precisato che in tema di
denuncia di inizio attività o di s.c.i.a.,
l’azione contro il silenzio della Pubblica
amministrazione ai sensi dell’art. 31 D.L.vo
02.07.2010 n. 104 è sui generis,
considerato che l’esperimento della stessa è
consentito anche se la presentazione della
d.i.a./ s.c.i.a. non ha dato avvio ad alcun
procedimento amministrativo.
Il silenzio della pubblica amministrazione
che consente l’azione ai sensi dell'art. 31
Cod. proc. amm., presuppone, ex art. 19,
comma 6-ter, della legge 07.08.1990 n. 241,
la “sollecitazione” del terzo
all’Amministrazione, affinché quest’ultima
eserciti i propri poteri di verifica.
Tale segnalazione, non deve essere formulata
in modo particolare, ma deve contenere una
serie di requisiti minimi di “serietà”,
tra i quali la forma scritta con
l’indicazione (anche sintetica) della
lamentata illegittimità dell’intervento
edilizio e la richiesta di esercizio del
potere/dovere di verifica e di eventuale
repressione.
A differenza di una generica denuncia di
eventuali abusi, infatti, solo tali
requisiti rendono la segnalazione idonea a
porre in capo alla pubblica amministrazione
l’obbligo di esercitare i predetti poteri e
correlativamente a configurare, in caso di
inerzia della parte pubblica, un silenzio
inadempimento giuridicamente rilevante,
censurabile davanti al giudice
amministrativo (commento tratto da
www.ipsoa.it -
link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Inconfigurabilità della
violazione del principio della pari
opportunità (c.d. "quote rosa") in presenza
di uno Statuto provinciale che non
stabilisca quanti componenti di un sesso
debbano essere presenti nella Giunta
provinciale.
Non può essere accolto un ricorso proposto
da una cittadina italiana residente nella
Provincia avverso il provvedimento di nomina
della Giunta provinciale perché recante solo
un Assessore di sesso femminile, per
asserita violazione del principio delle "pari
opportunità", nel caso in cui nessuna
norma dello Statuto provinciale stabilisca
quanti componenti di un sesso debbano essere
presenti nella Giunta provinciale; infatti,
pur in presenza ormai del principio della "pari
opportunità", previsto in generale
dall’art. 51, primo comma, della
Costituzione, nel testo integrato dall’art.
1 della legge costituzionale 20.05.2003 n.
1, non è possibile che l’interprete si
sostituisca alla sede normativa e determini
egli stesso, estemporaneamente e
arbitrariamente, il numero di minimo di
componenti di ciascun sesso (1).
---------------
(1) Ha osservato il parere in rassegna
che, in assenza di specifiche norme
statutarie, se è nominato almeno un
componente di un sesso, ogni sospetto di
pregiudizio o discriminazione è per ciò
stesso fugato e gli articoli 6 del decreto
legislativo n. 267 del 2000 e 51 della
Costituzione sono rispettati.
Nella specie la Giunta provinciale nominata
aveva nel suo seno un componente di sesso
femminile e, in assenza di norme nello
statuto della Provincia (nella specie si
trattava della Provincia di Caserta) che
prevedano una quota di riserva, deve
ritenersi -secondo il parere in rassegna-
che la nomina di una donna renda impossibile
ravvisare gli estremi della violazione della
disposizione costituzionale e o di quella
del testo unico sugli enti locali.
E' stata poi ritenuta inammissibile
l’impugnazione dello statuto provinciale
nella parte in cui non prevede i criteri di
determinazione delle quote dei due sessi di
componenti della giunta, per l’assorbente
ragione che la censura di violazione di
legge di un provvedimento (la nomina della
Giunta), non può, senza contraddizione,
fondarsi sull’inesistenza della norma che si
assume violata; né l’inesistenza della norma
può essere configurata come atto presupposto
del provvedimento impugnato.
V. in arg. di recente TAR Lombardia-Brescia,
Sez. II, sentenza 05.01.2012 (ritiene
illegittimo l’atto di nomina di una Giunta
comunale per violazione del principio delle
"quote rosa", non ritenendo sufficiente il
fatto che, per reperire qualche Assessore di
sesso femminile, si è fatto ricorso a due
interpelli rimasti infruttuosi) ed ivi
ulteriori riferimenti (massima tratta da
www.regione.piemonte.it - Consiglio di
Stato, Sez. I,
parere 16.03.2012 n. 1306 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
vincolo idrogeologico e forestale, secondo
la disciplina recata dall’art 7 R.D.L.
30.12.1923 n. 3267, non comporta
necessariamente l’inedificabilità assoluta,
in quanto non ogni opera edilizia in zona
vincolata arreca pregiudizio all'interesse
pubblico tutelato ma solo le opere che, a
seguito di puntuale accertamento, da
condursi caso per caso, ne denotino un
effettivo contrasto.
Pertanto, il vincolo in questione non
interdice in modo assoluto l'attività
edificatoria, ma richiede soltanto che
l'intervento progettato sia espressamente
autorizzato dalla autorità preposta alla
tutela del vincolo stesso in uno con
eventuali prescrizioni imposte a
salvaguardia degli interessi pubblici
tutelati.
Il vincolo idrogeologico e forestale,
secondo la disciplina recata dall’art 7
R.D.L. 30.12.1923 n. 3267, non comporta
necessariamente l’inedificabilità assoluta,
in quanto non ogni opera edilizia in zona
vincolata arreca pregiudizio all'interesse
pubblico tutelato ma solo le opere che, a
seguito di puntuale accertamento, da
condursi caso per caso, ne denotino un
effettivo contrasto (TAR Piemonte sez I
13.06.2007 n. 2593, Consiglio di Stato sez.
V 05.05.1999 n. 516, Consiglio di Stato sez.
V 04.01.1993 n. 26).
Pertanto, il vincolo in questione non
interdice in modo assoluto l'attività
edificatoria, ma richiede soltanto che
l'intervento progettato sia espressamente
autorizzato dalla autorità preposta alla
tutela del vincolo stesso (cfr. TAR Puglia,
Lecce, sez. I, 24.08.2005, n. 4122) in uno
con eventuali prescrizioni imposte a
salvaguardia degli interessi pubblici
tutelati
(TAR Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 06.11.2009 n. 2638 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Ogni
provvedimento amministrativo deve indicare i
presupposti di fatto e le ragioni giuridiche
che determinano la decisione
dell'amministrazione, costituendo la
motivazione strumento di verifica del
rispetto dei limiti della discrezionalità,
allo scopo di far conoscere agli interessati
le ragioni che impongono la restrizione
delle rispettive sfere giuridiche o che ne
impediscono l'ampliamento, e di consentire
il sindacato di legittimità sia da parte del
giudice amministrativo che eventualmente
degli organi di controllo, impregiudicata la
possibilità di eventuale integrazione in via
postuma, secondo le forme ed i limiti
connaturati all’esercizio del potere
Deve ribadirsi che secondo il generale
disposto dell’art 3 l. 241/1990, ogni
provvedimento amministrativo deve indicare i
presupposti di fatto e le ragioni giuridiche
che determinano la decisione
dell'amministrazione, costituendo la
motivazione strumento di verifica del
rispetto dei limiti della discrezionalità,
allo scopo di far conoscere agli interessati
le ragioni che impongono la restrizione
delle rispettive sfere giuridiche o che ne
impediscono l'ampliamento, e di consentire
il sindacato di legittimità sia da parte del
giudice amministrativo che eventualmente
degli organi di controllo (TAR Campania
Napoli, sez. VIII, 25.03.2009, n. 1610),
impregiudicata la possibilità di eventuale
integrazione in via postuma, secondo le
forme ed i limiti connaturati all’esercizio
del potere
(TAR Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 06.11.2009 n. 2638 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
vincolo idrogeologico e forestale non
comporta inedificabilità assoluta, per cui
non ogni opera edilizia in zona vincolata
arreca pregiudizio all'interesse pubblico
tutelato ma solo quelle che, a seguito di
puntuale accertamento, da condursi caso per
caso, risultino con esso pubblico interesse
in effettivo contrasto; pertanto il
richiamato vincolo non interdice in modo
assoluto l'attività edificatoria, ma
richiede soltanto che l'intervento
progettato sia espressamente autorizzato
dalla autorità preposta alla tutela del
vincolo stesso.
... Ritenuto, infatti, che il vincolo
idrogeologico e forestale non comporta
inedificabilità assoluta, per cui non ogni
opera edilizia in zona vincolata arreca
pregiudizio all'interesse pubblico tutelato
ma solo quelle che, a seguito di puntuale
accertamento, da condursi caso per caso,
risultino con esso pubblico interesse in
effettivo contrasto; pertanto il richiamato
vincolo non interdice in modo assoluto
l'attività edificatoria, ma richiede
soltanto che l'intervento progettato sia
espressamente autorizzato dalla autorità
preposta alla tutela del vincolo stesso
(cfr. TAR Puglia, Lecce, sez. I, 24.08.2005,
n. 4122)
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 13.06.2007 n. 2593 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il vincolo idrogeologico e
forestale disciplinato dal Regio Decreto n.
3267/1923 non comporta inedificabilità
assoluta, per cui non ogni opera edilizia in
zona vincolata arreca pregiudizio
all'interesse pubblico tutelato ma solo
quelle che, a seguito di puntuale
accertamento, da condursi caso per caso,
risultino con esso pubblico interesse in
effettivo contrasto.
Il vincolo idrogeologico non interdice in
modo assoluto l'attività edificatoria, ma
richiede soltanto che l'intervento
progettato sia espressamente autorizzato
dalla autorità preposta alla tutela del
vincolo stesso.
Nell'esercizio dei poteri discrezionali
l'autorità è tenuta ad una idonea
istruttoria ed ha l'obbligo di motivare le
sue determinazioni in modo esauriente.
Va evidenziato che il vincolo idrogeologico
e forestale disciplinato dal Regio Decreto
n. 3267/1923 (in tal senso è l'orientamento
giurisprudenziale: C.d.S. Sez. V decisione
n. 832/1995 e TAR Toscana 3^ Sezione -
sentenze nn. 158/1997 e 251/1997) non
comporta inedificabilità assoluta, per cui
non ogni opera edilizia in zona vincolata
arreca pregiudizio all'interesse pubblico
tutelato ma solo quelle che, a seguito di
puntuale accertamento, da condursi caso per
caso, risultino con esso pubblico interesse
in effettivo contrasto.
Il vincolo idrogeologico non interdice in
modo assoluto l'attività edificatoria, ma
richiede soltanto che l'intervento
progettato sia espressamente autorizzato
dalla autorità preposta alla tutela del
vincolo stesso (Cons. di Stato, sez. V, n.
832/1995).
Nell'esercizio dei poteri discrezionali
l'autorità è tenuta ad una idonea
istruttoria ed ha l'obbligo di motivare le
sue determinazioni in modo esauriente
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 24.08.2005 n. 4122 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In tema di tutela del paesaggio,
la natura di zona boscata è determinata
dalla presenza effettiva di bosco fitto di
alto fusto o di bosco rado indipendentemente
dal dato che la zona sia riportata come tale
dalla Carta tecnica regionale e in
considerazione del fatto che la nozione di
territorio coperto da bosco nella
legislazione paesaggistica deve essere
ricavata non solo in senso naturalistico ma
anche normativo, riferendosi a provvedimenti
legislativi, nazionali e regionali, ad atti
amministrativi generali o particolari,
sicché non è possibile adottare una
concezione quantitativa e restrittiva del
bosco, indipendentemente dal momento in cui
il bosco si è formato.
La coltivazione di alberi che esclude il
vincolo suddetto è soltanto quella
finalizzata esclusivamente alla produzione
di legno, svolta su terreni non
precedentemente boscati.
-
che in tema di tutela del paesaggio, la
natura di zona boscata è determinata dalla
presenza effettiva di bosco fitto di alto
fusto o di bosco rado indipendentemente dal
dato che la zona sia riportata come tale
dalla Carta tecnica regionale (Cassazione
penale, sez. III, 21.03.2006, n. 17060) e in
considerazione del fatto che la nozione di
territorio coperto da bosco nella
legislazione paesaggistica deve essere
ricavata non solo in senso naturalistico ma
anche normativo, riferendosi a provvedimenti
legislativi, nazionali e regionali, ad atti
amministrativi generali o particolari,
sicché non è possibile adottare una
concezione quantitativa e restrittiva del
bosco, indipendentemente dal momento in cui
il bosco si è formato (Cass. Sez. III,
02.07.1994 e Sez. III 26.03.1997);
- Ritenuto, infatti, che la coltivazione di
alberi che esclude il vincolo suddetto è
soltanto quella finalizzata esclusivamente
alla produzione di legno, svolta su terreni
non precedentemente boscati, il che non
risulta nel caso di specie (cfr. Trib.
Livorno, 16.12.2002)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 24.08.2005 n. 4122 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 16.05.2012 |
ã |
Ci risiamo
con
la protervia della Regione Lombardia nel fregarsene
dei principi fondamentali dello Stato in materia
edilizia ... |
Sotto attacco della magistratura amministrativa la
recentissima
L.R. 18.04.2012 n. 7 e, precisamente, l'art. 17,
comma 1, il quale così dispone: "Art. 17.
(Disciplina dei titoli edilizi di cui all'articolo
27, comma 1, lettera d), della l. r. 12/2005 a
seguito della sentenza della Corte Costituzionale n.
309/2011).
1. In relazione agli interventi di ristrutturazione
edilizia oggetto della sentenza della Corte
Costituzionale del 21.11.2011, n. 309, al fine di
tutelare il legittimo affidamento dei soggetti
interessati, i permessi di costruire rilasciati alla
data del 30.11.2011 nonché le denunce di inizio
attività esecutive alla medesima data devono
considerarsi titoli validi ed efficaci fino al
momento della dichiarazione di fine lavori, a
condizione che la comunicazione di inizio lavori
risulti protocollata entro il 30.04.2012.".
---------------
Non appare irrilevante né manifestamente infondata
la questione di legittimità costituzionale dell’art.
17, comma 1°, della legge regionale n. 7/2012.
- considerato che, ad un primo sommario esame, non
appare irrilevante né manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art.
17, comma 1°, della legge regionale n. 7/2012, salvo
comunque l’approfondimento in sede di merito;
- ritenuto ancora di dover sospendere il
provvedimento impugnato, per evitare che la
definitiva realizzazione dell’opera possa
pregiudicare irrimediabilmente le pretese
dei ricorrenti,
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la
Lombardia (Sezione Seconda) accoglie e per
l'effetto:
a) sospende il provvedimento impugnato;
b) fissa per la trattazione di merito del ricorso
l'udienza pubblica del 12.07.2012
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
ordinanza 11.05.2012 n. 664 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
Al riguardo si legga un primo commento: L.
Spallino,
Ristrutturazione edilizia senza vincolo di
sagoma: il TAR Lombardia dubita della
legittimità costituzionale della L.R. 7/2012
(link a http://studiospallino.blogspot.it). |
16.05.2012 - LA
SEGRETERIA PTPL |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA: L.
Spallino,
Ristrutturazione edilizia senza vincolo di
sagoma: il TAR Lombardia dubita della
legittimità costituzionale della L.R. 7/2012
(link a http://studiospallino.blogspot.it). |
INCARICHI PROGETTUALI:
L. Bellagamba,
Ma le tariffe professionali sono state
proprio abrogate nell’ambito del codice dei
contratti pubblici? Note a margine della
deliberazione dell’Autorità di vigilanza,
03.05.2012 n. 49 (link a www.linobellagamba.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: L.
Bellagamba,
Antiquata pronuncia del Consiglio di Stato:
il singolo affidamento al legale è incarico
fiduciario e non appalto pubblico di
servizio (commento a Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 11.05.2012 n. 2730 (link a
www.giustizia-amministrativa.it e link a www.linobellagamba.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.
Bertagna,
LE NOVITÀ DELLA LEGGE N. 44/2012 IN MATERIA
DI PERSONALE
(tratto
dalla newsletter di www.publika.it n. 49 -
aprile 2012). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 19 del
09.05.2012, "Pubblicazione ai sensi
dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2000, n. 1, dell’elenco dei tecnici
competenti in acustica ambientale
riconosciuti dalla Regione Lombardia alla
data del 18.04.2012, in attuazione
dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge
26.10.1995, n. 447, della deliberazione
17.05.2006, n. 8/2561 e del decreto
30.05.2006, n. 5985"
(comunicato
regionale 08.05.2012 n. 49). |
SINDACATI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Protocollo P.A.: stop alle fasce
di merito di Brunetta e più spazio alla
contrattazione
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 07.05.2012). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Trasformazione da part-time a full-time e
deroga al limite di spesa di personale.
La Corte dei Conti, sezione regionale per la
Lombardia, con il
parere 26.04.2012 n.
154, conferma i
consolidati orientamenti secondo i quali la
trasformazione del rapporto di lavoro da
tempo parziale a tempo pieno in applicazione
dell'art. 4, comma 14, del CCNL 14.09.2000
(diritto del dipendente, decorso il biennio)
non costituisce nuova assunzione, ma l'ente
deve comunque rispettare i limiti di spesa
di personale (art. 1, commi 557 o 562, legge
296/2006).
Spetta all'autonomia amministrativa ed
organizzativa dell'amministrazione assumere
le iniziative e le decisioni più opportune
al fine di trovare il giusto equilibrio tra
il diritto soggettivo del singolo e le norme
che obbligano gli enti a perseguire gli
obiettivi di risanamento della finanza
pubblica. In caso di violazione delle norme
sui limiti di spesa di personale, l'ente
sconterà il divieto di assunzioni nell'anno
successivo (tratto da www.publika.it). |
QUESITI &
PARERI |
AMBIENTE-ECOLOGIA: A
che punto siamo con i rimborsi dell’IVA
pagata sulla TIA?
(14.05.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Sono
in atto modifiche al Codice ambientale in
materia di trattamento dei rifiuti tramite
compostaggio?
(14.05.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Quali
sono le alternative al sistema nazionale per
i produttori di imballaggi?
(14.05.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Sono
cambiati i requisiti del responsabile
tecnico per l’iscrizione in categoria 8?
(14.05.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Il
trasporto di rifiuti senza FIR o con FIR
incompleto/inesatto è reato?
(14.05.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
ENTI LOCALI - VARI: Si
paga l’IMU sui parchi eolici?
(14.05.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Le
associazioni di volontariato senza fine di
lucro possono raccogliere materiali o
prodotti che non siano rifiuti per poi
riutilizzarli?
(14.05.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: La
disciplina degli oli usati contempla deroghe
al divieto di miscelazione?
(14.05.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Le
autorizzazioni all’esercizio di impianti che
prevedono la miscelazione di rifiuti
speciali, consentite ai sensi dell’allegato
"G" ormai abrogato, sono ancora in vigore?
(14.05.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Gli
sfalci e le potature, derivanti da
manutenzione del verde pubblico e privato,
sono rifiuti
(14.05.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
ENTI LOCALI - VARI: Imu
per immobile inagibile.
Domanda.
Mi è stato segnalato che per gli immobili
inagibili non esistono agevolazioni ai fini
Imu. Potreste darmi conferma?
Risposta.
No, in realtà la recente legge di
conversione del dl n. 16/2012 (cfr. l'art.
4, comma 5, lettera b) del dl n. 16/2012,
che ha inserito nell'art. 13, 3° comma, u.p.
del dl n. 201/2011 le nuove lettere a) e b)
ha introdotto per gli immobili in questione
un'agevolazione in forma simile a quella già
prevista ai fini Ici, stabilendo che «la
base imponibile è ridotta del 50% per i
fabbricati dichiarati inagibili o
inabitabili e di fatto non utilizzati,
limitatamente al periodo dell'anno durante
il quale sussistono dette condizioni.
L'inagibilità o inabitabilità è accertata
dall'ufficio tecnico comunale con perizia a
carico del proprietario, che allega idonea
documentazione alla dichiarazione. In
alternativa, il contribuente ha facoltà di
presentare una dichiarazione sostitutiva ai
sensi del testo unico di cui al decreto del
presidente della repubblica 28.12.2000, n.
445, rispetto a quanto previsto dal periodo
precedente. Agli effetti dell'applicazione
della riduzione alla metà della base
imponibile, i comuni possono disciplinare le
caratteristiche di fatiscenza sopravvenuta
del fabbricato, non superabile con
interventi di manutenzione».
Come rilevabile, tale norma ricalca la
disciplina già in vigore ai fini dell'Ici
(articolo 8, 1° comma, del dlgs n. 504/1992
e art. 59, lettera h), del dlgs n.
446/1997), salvo che quest'ultima prevedeva
una riduzione del 50% riferita all'imposta e
non alla base imponibile.
In tema di immobili inagibili pare inoltre
utile segnalare l'opportunità di compiere
una verifica con un tecnico esperto di
catasto al fine di accertare se, in
relazione allo stato del bene, sussistano i
requisiti per poterlo accatastare in
categoria «F2», quale «immobile
collabente», come tale privo di rendita
catastale, nel qual caso l'Imu non sarà
dovuta, neppure su una base imponibile
ridotta al 50%
(articolo ItaliaOggi
Sette del 14.05.2012). |
NEWS |
INCARICHI PROFESSIONALI: Cosa
cambia per i legali con il dl
liberalizzazioni. Il cliente deve poter
confrontare i prezzi. Ora il tariffario è
personalizzato.
Onorari forfettari o
compenso orario; palmario o patto di quota
lite: sono alcune delle possibili tecniche
di definizione del compenso dell'avvocato,
che, abrogate le tariffe di categoria, è
chiamato a stabilire un tariffario di studio
da proporre ai clienti. Con la clientela i
legali sono chiamati a stipulare contratti
scritti, dopo avere fornito una esaustiva
informazione sul costo presumibile del
processo ed eventualmente dopo avere fornito
un preventivo di massima (scritto se
richiesto dal cliente). E dal 13.08.2012
obbligo per gli avvocati di dotarsi di una
polizza assicurativa contro i rischi
professionali.
Sono queste in sintesi le novità portate da
ultimo dall'articolo 9 del decreto 1/2012, a
seguito delle modifiche apportate dalla
legge di conversione n. 27 del 24.03.2012,
in vigore dal 25.03.2012. L'obiettivo
dichiarato è di favorire la concorrenza nel
mercato delle professioni legali, anche se
il provvedimento potrà avere l'effetto di
calmierare i compensi per le toghe.
Vediamo di illustrare le ricadute pratiche
delle ultime novità.
Le tariffe.
Per quanto concerne le tariffe il decreto ha
disposto l'abrogazione delle tariffe delle
professioni regolamentate nel sistema
ordinistico.
Risolvendo un problema sorto a causa della
formulazione originaria del decreto legge la
legge di conversione ha dettato la
disciplina per la liquidazione giudiziale
degli onorari degli avvocati al termine di
una causa. In questo caso il compenso del
professionista sarà determinato con
riferimento a parametri stabiliti con
decreto del ministro della giustizia, da
adottare nel termine di 120 giorni
successivi alla data di entrata in vigore
della legge di conversione del decreto. Fino
ad allora (23.07.2012), in virtù di una
disposizione transitoria, continuano ad
applicarsi le tariffe forensi, anche se
limitatamente alla liquidazione delle spese
giudiziali.
Preventivo e contratto col
cliente.
Cosa diversa dalla liquidazione giudiziale è
il contratto tra avvocato e cliente. A
questo proposito l'articolo 9 in commento
disciplina due fattispecie: il preventivo e
il contratto con il cliente.
Per il preventivo la legge dispone che in
ogni caso la misura del compenso è
previamente resa nota al cliente con un
preventivo di massima, che deve essere
adeguata all'importanza dell'opera e che va
pattuita indicando per le singole
prestazioni tutte le voci di costo,
comprensive di spese, oneri e contributi.
Inoltre il professionista deve rendere noto
al cliente il grado di complessità
dell'incarico, fornendo tutte le
informazioni utili circa gli oneri
ipotizzabili dal momento del conferimento
fino alla conclusione dell'incarico e deve
altresì indicare i dati della polizza
assicurativa per i danni provocati
nell'esercizio dell'attività professionale.
Il preventivo non deve essere
necessariamente fornito per iscritto e può
essere «di massima»: la legge sembra
chiedere al singolo avvocato di costruirsi
il personale tariffario, così da fornire ai
clienti la possibilità di confrontare i
prezzi praticati.
Il preventivo deve essere articolato per
voci di costo e quindi si potranno
articolare le attività di consulenza,
difensive e quelle accessorie di segreteria
e di accesso agli uffici giudiziari.
Diverso dal preventivo è il contratto con il
cliente, nel quale si pattuisce il compenso.
Mentre il preventivo potrebbe essere
pattuito anche oralmente, ai sensi
dell'articolo 2233 del codice civile, sono
nulli, se non redatti in forma scritta, i
patti conclusi tra gli avvocati e i
praticanti abilitati con i loro clienti che
stabiliscono i compensi professionali.
Quindi il contratto con il cliente deve
essere redatto in forma scritta.
A questo proposito l'articolo 9 prevede che
il compenso per le prestazioni professionali
deve essere pattuito, nelle forme previste
dall'ordinamento, al momento del
conferimento dell'incarico professionale.
Per il compenso è possibile usare anche una
delle seguenti tecniche:
-forfait
-palmario
-patto di quota lite
-compenso orario (anche per le attività
giudiziali).
Il compenso forfettario è quello che vincola
l'avvocato a un compenso fisso, ma potrebbe
dare adito a diversi problemi: se
sottostimato potrebbe non essere
remunerativo per l'avvocato e, quindi,
essere contrario al principio di
corrispondenza del compenso al decoro della
professione; se troppo alto potrebbe essere
disincentivante per il cliente a conferire
l'incarico; d'altra parte l'avvocato
potrebbe essere portato a stimare tutta la
possibile attività con una lievitazione
dell'importo.
Le altre fattispecie.
Il palmario è il premio pattuito in aggiunta
all'onorario per il caso di vittoria o di
risultato positivamente valutabile per il
cliente.
Il patto di quota lite è l'accordo con cui
si stabilisce un compenso dell'avvocato
esclusivamente in caso di vittoria (totale o
parziale) ed è quantificato in una quota del
risultato utile conseguito dal cliente.
Il compenso orario era già previsto dal
Tariffario forense, ma solo per l'attività
stragiudiziale (assistenza e pareri). Con le
nuove disposizioni si può pattuire un
compenso orario anche per l'attività
giudiziale. Anche se questo obbliga ad una
analitica registrazione del tempo impiegato.
Peraltro è opportuno osservare una
registrazione dettagliata delle attività
svolte, qualunque sia la tecnica seguita di
pattuizione del compenso.
Le tecniche di determinazione del compenso
potrebbero anche essere combinate insieme:
ad esempio un compenso fisso forfettario
combinato con un compenso orario, oppure un
compenso fisso forfettario combinato con un
onorario aggiuntivo in caso di risultato
favorevole o, ancora, un compenso orario
ridotto con l'aggiunta di un onorario di
risultato favorevole.
Quanto alle condizioni contrattuali, in
relazione all'esigenza di poter tenere conto
di eventi non prevedibili soprattutto dei
processi, si possono inserire clausole di
rinegoziazione del compenso o clausole
pattizie alternative
(articolo ItaliaOggi
Sette del 14.05.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti,
sforbiciata sugli obblighi. Semplificazioni
a 360° dai Raee alla miscelazione di oli
usati. Lo prevede il ddl approvato in senato
che riformula Codice ambientale e
provvedimenti satellite.
Esclusione dalla
disciplina dei rifiuti per sfalci e potature
derivanti dalla manutenzione di giardini e
parchi, semplificazioni per la gestione di
rifiuti da apparecchiature elettriche ed
elettroniche da parte dei venditori di nuovi
beni, allargamento dell'autocompostaggio
«light» a mense e mercati, attenuazione
degli obblighi per la gestione di oli usati
e terre da scavo, alleggerimento dei
controlli ambientali sulle imprese
ecocertificate.
Tornano in pista in parlamento, veicolate da
un autonomo disegno di legge, le
semplificazioni stralciate all'ultimo minuto
(in sede di conversione) dal recente
provvedimento d'urgenza in materia
ambientale (il dl 2/2012) per evitare
possibili censure di incostituzionalità
legate ai presupposti di necessità e
urgenza.
Il nuovo ddl, approvato il 9/5/2012 dal
senato e ora di nuovo alla camera dei
deputati in terza lettura, promette sia di
riformulare i punti nodali della parte
quarta del «Codice Ambientale» (dlgs
152/2006) in materia di rifiuti, sia di
rimodulare i relativi provvedimenti
satellite che disciplinano la stessa
gestione dei beni a fine vita.
Biomasse da manutenzione
verde pubblico.
Il disegno di legge in corso di approvazione
(recante, testualmente, «Modifiche al
dlgs 03.04.2006, n. 152») rivede
innanzitutto il confine tra rifiuti e non
rifiuti, allargando il novero dei materiali
esclusi dal campo di applicazione della
disciplina sui beni a fine vita disegnata
dal dlgs 152/2006.
In particolare, il ddl prevede che non
saranno più considerati «rifiuti»
paglia, sfalci e potature, nonché altro
materiale agricolo o forestale naturale non
pericoloso utilizzati in agricoltura, nella
selvicoltura anche derivante dalla
manutenzione del verde pubblico e privato,
purché tale biomassa abbia le
caratteristiche proprie dei sottoprodotti
(individuate dall'articolo 184-bis del
Codice ambientale) e sia destinata alla
produzione di energia.
Raee.
Il ddl in corsa prevede un allargamento del
regime agevolato che già consente ai
distributori di nuove Apparecchiature
elettriche ed elettroniche (Aee), dietro il
rispetto di precise condizioni, di
raggruppare presso i propri locali i Raee
(Rifiuti da apparecchiature elettriche ed
elettroniche) domestici ritirati dai propri
clienti e procedere in proprio al trasporto
verso un centro di gestione autorizzato.
Il disegno di legge rivede infatti,
allargandoli, i parametri dettati
dall'attuale dm 65/2010 ed entro i quali
tali soggetti possono procedere alla
raccolta e al trasporto dei rifiuti
adempiendo unicamente agli obblighi della
tenuta di uno «schedario di carico e
scarico» e di un «documento di
trasporto» (in luogo dei più complessi «registri
di carico e scarico» e «formulario di
trasporto» previsti dal dlgs 152/2006)
unitamente all'iscrizione semplificata
all'Albo gestori ambientali.
L'allargamento di tale regime agevolato è
effettuato mediante tre mosse: ampliando i
limiti temporali e quantitativi del «deposito»
massimo in situ dei Raee prima di dover
obbligatoriamente procedere al loro
trasporto verso i centri autorizzati;
rimuovendo i limiti al novero degli
automezzi utilizzabili per tale trasporto;
consentendo il conferimento anche a centri
autorizzati alla gestione generale dei
rifiuti ex dlgs 152/2006. In particolare, il
trasporto dei Raee ai centri di raccolta
potrà avvenire su base trimestrale (in luogo
di quella mensile) e comunque quando il
quantitativo superi i 3.500 Kg in relazione,
però, a ogni singolo raggruppamento per
classi omogenee (quelle previste ex allegato
1, dm 185/2007) e non in relazione (come
oggi previsto) al totale di tutti i Raee in
deposito.
Ancora, il trasporto potrà essere effettuato
(contrariamente al regime attuale) anche con
automezzi di portata superiore a 3.500 kg e
massa complessiva superiore a 6.000 kg.
Infine, i Raee potranno essere anche
conferiti a strutture che rispettano i
criteri autorizzatori ex articoli 208, 213 e
216 del dlgs 152/2006 oltre che agli
impianti realizzati e gestiti nel rispetto
delle norme dettate dal dm ambiente
8/4/2008.
Compostaggio non domestico.
È previsto l'allargamento alle utenze non
domestiche della possibilità di procedere
all'autocompostaggio in regime semplificato
rispetto alla gestione dei rifiuti ex dlgs
152/2006.
In base al disegno di legge, non sarà
infatti soggetto al regime autorizzatorio
per gli impianti di gestione dei rifiuti
(articolo 208 del «Codice ambientale»)
il trattamento tramite compostaggio aerobico
o digestione anaerobica dei rifiuti urbani
organici biodegradabili a condizione che:
oggetto del trattamento siano rifiuti
biodegradabili provenienti da cucine e
mense, mercati, parchi e giardini; la
quantità annua totale oggetto di trattamento
non ecceda le 80 tonnellate; il prodotto
ottenuto sia rispettoso del dlgs 75/2010 sui
fertilizzanti e utilizzato nello stesso
territorio comunale nel quale è ottenuto; lo
stoccaggio che precede il trattamento duri
un massimo di 72 ore per rifiuti di cucine,
mense, mercati, non oltre 7 giorni per i
rifiuti da giardini e parchi.
Realizzazione e gestione degli impianti di
compostaggio saranno soggetti alla «denuncia
di inizio attività» ex dpr 380/2001 e
alle norme in materia urbanistica,
ambientale, antincendio, sanitaria,
antisismica, di efficienza energetica e di
tutela paesaggistica. La gestione dovrà
infine avvenire sotto la responsabilità di
un professionista abilitato secondo le
modalità stabilite dal Minambiente con
proprio decreto.
Miscelazione oli usati.
È previsto un ammorbidimento dei divieti di
miscelazione previsti dal dlgs 152/2006 in
relazione alla gestione degli oli usati. Il
ddl in parola sancisce infatti (mediante la
riformulazione dell'articolo 216-bis del
Codice ambientale relativo a tali rifiuti)
la possibilità, nel rispetto delle regole
generali sancite dall'articolo 187, comma 2,
lettera a), b) e c) del dlgs 152/2006, di
miscelare tra di loro gli oli usati sia
nelle fasi del deposito temporaneo che in
quelle di gestione successive.
Terre e rocce da scavo.
In deroga alla disciplina generale sulla
gestione delle terre e rocce da scavo (a
oggi rappresentata dagli articoli 185 e 186
del dlgs 152/2006, quest'ultimo operativo
fino all'emanazione del futuro dm ambiente
previsto dall'articolo 49 del dl 1/2012 che
ne sostituirà le norme) la legge in corso di
approvazione prevede una disciplina speciale
per i materiali da scavo provenienti dalle
miniere dismesse e/o esaurite collocate
all'interno dei siti di interesse nazionale.
Tali materiali, nel tenore del ddl in
itinere, potranno essere riutilizzati nella
medesima area mineraria per riempimenti,
rimodellazioni e miglioramenti ambientali a
condizione che la concentrazione di
inquinanti non superi i parametri ex
allegato V, Parte IV del dlgs 152/2006. Le
aree sulle quali insistono detti materiali
saranno altresì restituite agli usi
legittimi ricorrendo le medesime condizioni
(di rispetto elle soglie di inquinamento)
per i suoli e per le acque.
Riduzione controlli
ambientali.
Allargato l'elenco delle imprese che
potranno godere di un alleggerimento dei
controlli di compatibilità ambientale della
propria attività. Mediante la diretta
modifica del dl 5/2012 il ddl in itinere
prevede infatti che il governo, nel
disciplinare con proprio provvedimento la
materia, dovrà includere tra le attività
oggetto di riduzione del monitoraggio sia
quelle certificate Iso 14001 sia quelle
certificate in base al regolamento Ce n.
1221/2009 (cd. «regolamento Emas»)
(articolo ItaliaOggi
Sette del 14.05.2012). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni,
sì alle quote di turn-over non utilizzate.
la Corte dei conti ammette il frazionamento.
Gli enti locali possono
utilizzare per assunzioni negli anni
successivi le quote di turn-over non
utilizzate.
E' questo l'orientamento prevalente della
maggior parte delle sezioni regionali della
Corte dei conti ... (articolo Il Sole 24
Ore del 14.05.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Per le gare telematiche contratti
subito operativi. Il decreto-legge sulla
spesa taglia i tempi negli appalti.
Con le gare telematiche per l'acquisto di
beni e servizi le amministrazioni possono
stipulare immediatamente i contratti
d'appalto e di non applicare i diritti di
segreteria.
Le disposizioni del Dl 52/2012 sulla
spending review hanno definito una serie
di misure ...
(articolo Il Sole 24
Ore del 14.05.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI: Sulle
Unioni di Comuni ancora un rinvio.
Tracciare una linea sulla carta è semplice,
pretendere che la realtà si adegui è
esercizio più complesso.
Su questo piccolo problema si sono finora
arenate quasi tutte le norme ...
(articolo Il Sole 24
Ore del 14.05.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
GIURISPRUDENZA |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Consiglio di Stato: il conferimento del
patrocinio legale non è soggetto a gara.
Con
sentenza 11.05.2012 n. 2730 la Sez. IV
del Consiglio di Stato -ribaltando la
decisione di primo grado del TAR Lazio, sez.
staccata di Latina, sez. I n. 604/2011- ha
ritenuto che l’affidamento
diretto di un incarico legale finalizzato
all’impugnazione di lodo arbitrale non
rientri tra i servizi giuridici di cui
all'allegato B, n. 21, del Codice degli
Appalti.
Al tempo stesso, sottolinea il Consiglio di
Stato, l’attività di
selezione del difensore dell’ente pubblico,
pur non soggiacendo all’obbligo di
espletamento di una procedura comparativa di
stampo concorsuale, è comunque soggetta "ai
principi generali dell’azione amministrativa
in materia di imparzialità, trasparenza e
adeguata motivazione onde rendere possibile
la decifrazione della congruità della scelta
fiduciaria posta in atto rispetto al bisogno
di difesa da appagare".
In definitiva, le norme in
tema di appalti di servizi vengono in
rilievo "quando il professionista sia
chiamato a organizzare e strutturare una
prestazione, altrimenti atteggiantesi a mera
prestazione di lavoro autonomo in un
servizio (nella fattispecie, legale), da
adeguare alle utilità indicate dall’ente,
per un determinato arco temporale e per un
corrispettivo determinato", ma non nel
caso di conferimento di "singolo incarico
episodico, legato alla necessità
contingente, non costituisca appalto di
servizi legali ma integri un contatto
d’opera intellettuale che esula dalla
disciplina codicistica in materia di
procedure di evidenza pubblica".
La decisione del Consiglio di Stato sembra
distinguere tra incarichi giudiziali e non:
di questo, tuttavia, non vi è certezza
assoluta, in quanto l'elemento
discriminatore non è individuato nella
natura del patrocinio ma "tra singole
prestazioni d’opera e servizi intesi come
complesso organizzato di utilità erogate con
prestazioni ripetute ed organizzate"
(commento tratto da http://studiospallino.blogspot.it).
---------------
2. L’appello è fondato.
2.1 I primi giudici hanno posto a
fondamento del decisum di accoglimento
l’assunto della riconduzione dell’atto di
conferimento del singolo incarico legale
nella categoria dei “servizi legali”
di cui all’allegato II B, n. 21, al codice
dei contratti pubblici, traendo da tale
premessa i precipitato dell’applicazione a
tale fattispecie, ai sensi dell’articolo 20,
delle norme di cui agli articoli 65, 68 e
225 del medesimo codice e dei principi
valevoli per i contratti esclusi ai sensi
dell’articolo 27.
Il Tribunale ha mostrato, in tal guisa, di
aderire all’orientamento ermeneutico secondo
cui tanto l’attività di assistenza e
consulenza giuridica di carattere
continuativo quanto il conferimento del
singolo incarico di patrocinio legale
sarebbero annoverabili nell’unica ed
omnicomprensiva nozione di “servizi
legali” di cui al punto 21 dell’allegato
II B del Codice degli appalti.
A sostegno della tesi il Tribunale ha
valorizzato l’ampiezza della nozione di
appalto di servizi abbracciata dal codice,
comprensiva anche di affidamenti a beneficio
di liberi professionisti oltre che di
imprenditori, in una con la considerazione
che il riferimento letterale ai “servizi”,
sarebbe sintomatico, con l’uso del plurale,
della volontà di comprendere sia il caso del
conferimento del singolo incarico che
l’ipotesi dell’attribuzione, in termini
generali, di un incarico di
consulenza-difesa dell’ente per un
determinato periodo di tempo.
Il Tribunale ha soggiunto che alla
differenziazione delle due fattispecie non è
dato pervenire per il tramite della
valorizzazione del carattere fiduciario del
singolo incarico, posto che l’intuitus
personae è tratto che permea in modo
identico e indefettibile qualsiasi incarico
professionale, ivi compreso quello
sostanziantesi nell’affidamento del
complesso delle attività di consulenza e di
patrocinio per un certo periodo di tempo.
2.2. La Sezione,
in adesione ai rilievi svolti
dall’appellante, reputa che l’assimilazione sostenuta dal Tribunale non
tenga nel debito conto la differenza
ontologica che, ai fini della qualificazione
giuridica delle fattispecie e delle ricadute
ad essa conseguenti in materia di soggezione
alla disciplina recata dal codice dei
contratti pubblici, connota l’espletamento
del singolo incarico di patrocinio legale,
occasionato da puntuali esigenze di difesa
dell’ente locale, rispetto all’attività di
assistenza e consulenza giuridica,
caratterizzata dalla sussistenza di una
specifica organizzazione, dalla complessità
dell’oggetto e dalla predeterminazione della
durata.
Tali elementi di differenziazione
consentono, infatti, di concludere che,
diversamente dall’incarico di consulenza e
di assistenza a contenuto complesso,
inserito in un quadro articolato di attività
professionali organizzate sulla base dei
bisogni dell’ente, il conferimento del
singolo incarico episodico, legato alla
necessità contingente, non costituisca
appalto di servizi legali ma integri un
contatto d’opera intellettuale che esula
dalla disciplina codicistica in materia di
procedure di evidenza pubblica.
2.2.1. A sostegno dell’assunto depone, in
prima battuta, il rilievo che le
disposizioni che riguardano i “servizi
legali” non rappresentano affatto una
novità introdotta nell’ordinamento interno a
seguito della direttiva 2004/18/CE, in
quanto già il D.Lgs 17.03.1995, n. 157 (“Attuazione
della direttiva 92/50/CEE in materia di
appalti pubblici di servizi”), indicava,
nell’allegato 2, una serie di servizi, tra
cui i “servizi legali”, relativamente
ai quali non si applicava la disciplina
generale nella sua integralità ma solo
alcune disposizioni del citato decreto
legislativo e, segnatamente: l’eventuale
pubblicazione dell’avvenuta aggiudicazione
(art. 8, co. 3); l’obbligo per
l’amministrazione aggiudicatrice di definire
le “specifiche tecniche” del servizio
nei capitolati d’oneri o nei documenti
contrattuali relativi a ciascun appalto
(art. 20), obbligo quest’ultimo, soggetto
peraltro a deroghe (art. 21).
Tutta una serie di servizi erano poi
esclusi, in via integrale,
dall’assoggettamento alle norme del decreto.
Veniva precisato, inoltre, nell’ottavo “considerando”
delle premesse alla direttiva 1992/50/CE,
trasfusa nel citato D.Lgs. n. 157/1995, che
“la prestazione di servizi è disciplinata
dalla presente direttiva soltanto quando si
fondi su contratti d'appalto; nel caso in
cui la prestazione del servizio si fondi su
altra base, quali leggi o regolamenti ovvero
contratti di lavoro, detta prestazione esula
dal campo d'applicazione della presente
direttiva”.
2.2.2. Detto dato storico consente di
lumeggiare la riproposizione della nozione
di servizi legali nella legislazione,
comunitaria e nazionale, successiva, nel
senso di limitare l’ambito di operatività
della categoria al soli affidamenti di
servizi legali conferiti mediante un appalto
-ossia un contratto caratterizzato da un
quid pluris, sotto il profilo
dell’organizzazione, della continuità e
della complessità- rispetto al contratto di
conferimento dell’incarico difensivo
specifico, integrante mero contratto d’
opera intellettuale, species del genus
contratto di lavoro autonomo, come tale
esulante dalla nozione di contratto di
appalto ratione materiae abbracciata
dal legislatore comunitario.
In altre parole, il servizio legale, per
essere oggetto di appalto, richiede un
elemento di specialità, per prestazione e
per modalità organizzativa, rispetto alla
mera prestazione di patrocinio legale.
L’affidamento di servizi legali è, a questa
stregua, configurabile allorquando l’oggetto
del servizio non si esaurisca nel patrocinio
legale a favore dell’Ente, ma si configuri
quale modalità organizzativa di un servizio,
affidato a professionisti esterni, più
complesso e articolato, che può anche
comprendere la difesa giudiziale ma in essa
non si esaurisce (cfr. determinazione n. 4
del 07.07.2011, dell’Autorità di Vigilanza
sui Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e
Forniture).
2.2.3. In tal senso depone, sul piano
normativo, anche la prescrizione che, per
l’affidamento di tali servizi, pretende
l’indicazione delle specifiche tecniche
fissate dal committente (art. 68 del
codice), così configurando la condizione,
non compatibile con un mero contratto di
patrocinio legale isolato, per permettere
l’apertura dell’appalto alla concorrenza
(cfr. il ventinovesimo “considerando”
alla direttiva n. 18 del 2004).
Ed ancora, una conferma in tal senso può
desumersi dal quarantasettesimo “considerando”
della medesima direttiva n. 18/2004 alla
stregua dei condivisibili rilevi svolti da
Corte dei Conti, Sezione Regionale di
Controllo per la Basilicata deliberazione n.
19/2009. “Posto che negli appalti
pubblici di servizi, i criteri di
aggiudicazione non devono influire
sull'applicazione delle disposizioni
nazionali relative alla rimunerazione di
taluni servizi, quali ad esempio le
prestazioni degli architetti, degli
ingegneri o degli avvocati, il prezzo di
tali servizi, così determinato, di per sé
solo, non sarebbe idoneo a garantire quella
valutazione delle offerte in condizioni di
effettiva concorrenza, che ammette soltanto
l'applicazione di uno dei due criteri di
aggiudicazione, quello del prezzo più basso
e quello della offerta economicamente più
vantaggiosa. Da quanto precede non sembra,
dunque, che il legislatore comunitario si
sia preoccupato di regolare le modalità di
affidamento dei contratti del tutto esclusi
dall’ambito della disciplina degli appalti
pubblici. Tra questi, il contratto di lavoro
autonomo avente a oggetto il patrocinio
legale, stipulato con un’amministrazione
aggiudicatrice”.
2.2.4. Le norme di tema di appalti di
servizi vengono, in definitiva, in rilievo
quando il professionista sia chiamato a
organizzare e strutturare una prestazione,
altrimenti atteggiantesi a mera prestazione
di lavoro autonomo in un servizio (nella
fattispecie, legale), da adeguare alle
utilità indicate dall’ente, per un
determinato arco temporale e per un
corrispettivo determinato.
Si può così affermare, in adesione alla
parabola argomentativa a tracciata dalla
richiamata deliberazione n. 19/2009 della
Corte dei conti, sez. reg. Basilicata, che,
solo con riguardo ad un appalto così
strutturato, l’obbligo del committente di
indicare, adeguandole alla natura del
servizio, le specifiche tecniche che
consentono di definire l’oggetto
dell’appalto e le modalità della
prestazione, assume concreta valenza
selettiva delle offerte presentate proprio
nell’ambito di un servizio organizzato e
strutturato.
Per converso, il contratto di conferimento
del singolo e puntuale incarico legale,
presidiato dalle specifiche disposizioni
comunitarie volte a tutelare la libertà di
stabilimento del prestatore in quanto
lavoratore, non può soggiacere, neanche nei
sensi di cui all’articolo 27 del codice dei
contratti pubblici, ad una procedura
concorsuale di stampo selettivo che si
appalesa incompatibile con la struttura
della fattispecie contrattuale, qualificata,
alla luce dell’aleatorietà dell’iter del
giudizio, dalla non predeterminabilità degli
aspetti temporali, economici e sostanziali
della prestazioni e dalla conseguente
assenza di basi oggettive sulla scorta delle
quali fissare i criteri di valutazione
necessari in forza della disciplina recata
dal codice dei contratti pubblici.
Lo stesso codice dei contratti pubblici, nel
dettare una specifica disciplina, di natura
speciale, dei servizi di ingegneria e di
architettura volta a enucleare un sistema di
qualificazione e di selezione per
determinate tipologie di prestazioni
d’opera, conferma l’inesistenza di un
principio generale di equiparazione tra
singole prestazioni d’opera e servizi intesi
come complesso organizzato di utilità
erogate con prestazioni ripetute ed
organizzate.
Si deve aggiungere che, come osservato da
attenta dottrina, l’attività del
professionista nella difesa e nella
rappresentanza dell’ente è prestazione
d’opera professionale che non può essere
qualificata in modo avulso dal contesto in
cui si colloca, id est l’ambito
dell’amministrazione della giustizia,
settore statale distinto e speciale rispetto
ai campi dell’attività amministrativa
regolati del codice dei contratti pubblici.
Resta inteso che l’attività di selezione del
difensore dell’ente pubblico, pur non
soggiacendo all’obbligo di espletamento di
una procedura comparativa di stampo
concorsuale, è soggetta ai principi generali
dell’azione amministrativa in materia di
imparzialità, trasparenza e adeguata
motivazione onde rendere possibile la
decifrazione della congruità della scelta
fiduciaria posta in atto rispetto al bisogno
di difesa da appagare.
2.2.5. Alla stregua dei rilievi che
precedono deve essere accolto il motivo di
appello volto a censurare il capo della
sentenza che ha accolto il motivo di ricorso
diretto a censurare l’omesso espletamento
della procedura di evidenza pubblica (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 11.05.2012 n. 2730 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - INCARICHI
PROFESSIONALI: Compete
al Sindaco o al Presidente della Provincia,
ai sensi del D.lgs. n. 267/2000, quale
organo di rappresentanza dell’ente, il
conferimento della procura alle liti del
difensore senza la necessità di alcuna
preventiva autorizzazione.
E’ infondato anche il motivo d’appello
diretto contestare il capo della sentenza
appellata con cui i Primi Giudici hanno
sancito la violazione del principio che
attribuisce al dirigente ratione materiae
competente il compito di scegliere il legale
e, comunque, di autorizzare il conferimento
del patrocinio legale.
La Sezione non ravvisa ragione di
discostarsi dall’orientamento interpretativo
secondo cui compete al Sindaco o al
Presidente della Provincia, ai sensi del
D.lgs. n. 267/2000, quale organo di
rappresentanza dell’ente, il conferimento
della procura alle liti del difensore senza
la necessità di alcuna preventiva
autorizzazione (Cons. St., Sez. VI,
01.10.2008, n. 4744; Cons. St., Sez. VI,
09.06.2006, n. 3452; TAR Campania, Napoli,
Sez. VII, 05.12.2006 n. 10402; Cass. civ.,
Sez. Un., 10.12.2002, n. 17550) (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 11.05.2012 n. 2730 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Non ha natura provvedimentale il
recupero di somme erroneamente corrisposte
dalla P.A. ai propri dipendenti.
Si tratta di atto dovuto
in quanto la percezione di emolumenti non
dovuti da parte dei pubblici dipendenti
impone all’Amministrazione l'esercizio del
diritto-dovere di ripetere le relative somme
ai sensi dell'art. 2033 c.c..
In tali termini si è espressa la quarta
sezione del Consiglio di Stato, Sez. IV, nella
sentenza 10.05.2012 n.
2705.
Non avendo valenza provvedimentale, l’omessa
comunicazione dell'avvio del procedimento
amministrativo ex art. 7 L. 241/1990, non
influisce né sulla debenza o meno delle
somme, né sulla possibilità di difesa del
destinatario, che, infatti, nell'ambito del
rapporto obbligatorio di reciproco
dare-avere paritetico, può far valere le sue
eccezioni contrarie all'esistenza del
credito nell'ordinario termine di
prescrizione.
Dunque, il recupero di somme erroneamente
erogate dalla P.A. a propri dipendenti non è
annullabile ex art. 21-octies, co. 2, L.
241/1990 per violazione dell'obbligo di
avviso di avvio del procedimento di
ripetizione, in quanto il suo contenuto non
avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato (cfr. infra multa
Consiglio Stato sez. VI, 24.02.2011, n.
1167).
Inoltre per tale fattispecie l’interesse
pubblico è "in re ipsa" e non
richiede specifica motivazione, considerato
che, a prescindere dal tempo trascorso,
l'atto oggetto di recupero produce di per sé
un danno per l'Amministrazione, consistente
nell'esborso di denaro pubblico senza
titolo, ed un vantaggio ingiustificato per
il dipendente.
L’asserito principio dell’ordinaria
ripetibilità dell'indebito, tuttavia,
incontra un limite rappresentato dalla
regola per cui le modalità di recupero
devono essere, in relazione alle condizioni
di vita del debitore, non eccessivamente
onerose, ma tali da consentire la duratura
percezione di una retribuzione che assicuri
un'esistenza libera e dignitosa (tratto da
www.diritto.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Pagare l’ente pubblico per ottenere
soluzioni urbanistiche potrebbe configurarsi
come eccesso di potere che porta in Procura
della Repubblica?
Il TAR Veneto, Sez. III, con la
sentenza 09.05.2012 n. 651, ha ritenuto
che l'impegno assunto da una società di
versare all'ente pubblico somme non dovute,
sia pure per finalità di interesse pubblico,
in sede di convenzione finalizzata al
rilascio di una autorizzazione paesaggistica
"costituisca un motivo di persuasione,
affinché il Presidente dell'Ente Parco
procedesse al rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica impugnata, anche a costo di
rilasciare un'autorizzazione paesaggistica
illegittima".
Di conseguenza, ha ritenuto l'atto
illegittimo anche per il vizio di eccesso di
potere sotto questo profilo (otre che per
altri e diversi profili).
Il TAR ha anche disposto la trasmissione
degli atti alla Procura della Repubblica,
perché valuti l'esistenza del reato di abuso
di ufficio di cui all'art. 323 del codice
penale, in considerazione del fatto che il
soggetto era consapevole della illegittimità
della autorizzazione paesaggistica (link a
http://venetoius.myblog.it). |
APPALTI: L'art. 46 (d.lgs. n. 163/2006)
costituisce … attuazione della
corrispondente disposizione contenuta nella
Direttiva 2004/18/CE.
La ratio va ricercata
nella esigenza di assicurare la massima
partecipazione alle gare di appalto,
evitando che l'esito delle stesse possa
essere alterato da carenze di ordine
meramente formale nella documentazione
comprovante il possesso dei requisiti dei
partecipanti. L'art. 46 ha il delicato
compito di contemperare principi talvolta in
antitesi come quello del favor
partecipationis e quello della par condicio
tra i concorrenti.
Il punto di equilibrio
deve essere trovato nella distinzione tra il
concetto di regolarizzazione e quello di
integrazione documentale. La
regolarizzazione dei documenti è sempre
possibile, mentre non sempre lo è
l'integrazione, che si risolverebbe in una
lesione della parità di trattamento tra i
partecipanti.
Il legislatore del Codice, non
ha affatto inteso assegnare alle
amministrazioni aggiudicatrici una facoltà,
bensì ha elevato a principio generale un
modo di procedere, volto a far prevalere,
entro certi limiti, la sostanza sulla forma.
In definitiva, l'art. 46 del Codice dei
Contratti, è espressione, nel settore degli
appalti pubblici, dei principi che
sovrintendono l'istruttoria procedimentale,
consacrati nell'art. 6 della L. 241 del
1990.
La disposizione deve essere intesa nel
senso che l'Amministrazione deve disporre la
regolarizzazione quando gli atti,
tempestivamente depositati, contengano
elementi che possano costituire un indizio e
rendano… ragionevole ritenere sussistenti i
requisiti di partecipazione.
Con il terzo motivo di ricorso,
che deve essere esaminato per primo per
ragioni di economia processuale, le
ricorrenti hanno lamentato l’omesso
esercizio da parte dell’Amministrazione in
loro favore del potere di “soccorso
istruttorio” di cui all’art. 46 d.lgs. n.
163/2006.
Dinanzi alla previsione del comma 1 del
suddetto articolo, per cui “…le stazioni
appaltanti invitano, se necessario, i
concorrenti a completare o a fornire
chiarimenti in ordine al contenuto dei
certificati, documenti e dichiarazioni
presentati” ed all’errore in cui erano
incorse ben cinque delle undici imprese
partecipanti alla procedura - depositando, a
riprova del possesso dei requisiti tecnici,
copie dei certificati rilasciati dai
committenti con dichiarazione di conformità
all’originale ed allegata fotocopia di un
documento di identità del dichiarante,
invece che “originale o copia conforme delle
certificazioni rilasciate dai Committenti
relative ai servizi dichiarati in sede di
offerta” (cfr. disciplinare di gara, doc. n.
2 delle ricorrenti, Sez. VIII),
l’Amministrazione avrebbe, infatti, potuto e
dovuto chiedere alle concorrenti di
regolarizzare la documentazione in atti,
consentendo loro, così, di dimostrare
pienamente, dopo aver fornito nel termine
previsto di 10 giorni, un serio inizio di
prova attraverso la dichiarazione
sostitutiva, il possesso dei requisiti
richiesti e di partecipare alle fasi
successive della gara.
Come evidenziato dalla giurisprudenza
amministrativa maggioritaria, (cfr., ex multis, TAR Sardegna, Sez. I, 11.09.2010 n.
2163) “l'art. 46 (d.lgs. n. 163/2006)
costituisce … attuazione della
corrispondente disposizione contenuta nella
Direttiva 2004/18/CE. La ratio va ricercata
nella esigenza di assicurare la massima
partecipazione alle gare di appalto,
evitando che l'esito delle stesse possa
essere alterato da carenze di ordine
meramente formale nella documentazione
comprovante il possesso dei requisiti dei
partecipanti. L'art. 46 ha il delicato
compito di contemperare principi talvolta in
antitesi come quello del favor
partecipationis e quello della par condicio
tra i concorrenti. Il punto di equilibrio
deve essere trovato nella distinzione tra il
concetto di regolarizzazione e quello di
integrazione documentale. La
regolarizzazione dei documenti è sempre
possibile, mentre non sempre lo è
l'integrazione, che si risolverebbe in una
lesione della parità di trattamento tra i
partecipanti. Il legislatore del Codice, non
ha affatto inteso assegnare alle
amministrazioni aggiudicatrici una facoltà,
bensì ha elevato a principio generale un
modo di procedere, volto a far prevalere,
entro certi limiti, la sostanza sulla forma.
In definitiva, l'art. 46 del Codice dei
Contratti, è espressione, nel settore degli
appalti pubblici, dei principi che
sovrintendono l'istruttoria procedimentale,
consacrati nell'art. 6 della L. 241 del
1990. La disposizione deve essere intesa nel
senso che l'Amministrazione deve disporre la
regolarizzazione quando gli atti,
tempestivamente depositati, contengano
elementi che possano costituire un indizio e
rendano… ragionevole ritenere sussistenti i
requisiti di partecipazione”.
Nel caso in questione le dichiarazioni
sostitutive, se pienamente valide per le
certificazioni provenienti dalla p.a.,
costituivano sicuramente, come detto, un
serio inizio di prova dell’effettivo
espletamento dei relativi servizi anche
verso i Committenti privati, che per un mero
errore nell’interpretazione del bando, le
ricorrenti avevano ritenuto di poter
dimostrare ai sensi del D.P.R. n. 445/2000
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 09.05.2012 n. 527 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’apposizione di una roulotte e di “una
struttura smontabile … costituita da una
base in assito di legno semplicemente
appoggiata al suolo e una struttura in
tubolari in ferro poggiata sull’assito … il
tutto coperto da teli di nylon”, appare corrispondere a pieno alla
previsione della norma comunale che
assoggetta alla necessità di titolo edilizio
“l’istallazione di manufatti leggeri, anche
prefabbricati, e di strutture di qualsiasi
genere, quali roulottes, campers, case
mobili, imbarcazioni che siano adibiti come
abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come
depositi, magazzini e simili e che non siano
diretti a soddisfare esigenze meramente
temporanee”.
Sul terreno di sua proprietà, gravato da un
vincolo paesaggistico ai sensi dell’art. 142
d.lgs. n. 42/2004 (in quanto ricadente nella
fascia di rispetto di 150 m. dall’argine di
un corso d’acqua pubblico) e considerato dal
PRGC come agricolo, con divieto di
costruzioni destinate a civile abitazione ad
eccezione dell’abitazione dell’imprenditore
agricolo a titolo principale, la ricorrente,
che è priva della predetta qualifica, ha
realizzato senza alcun permesso di costruire
né alcuna autorizzazione paesaggistica un
intervento di nuova costruzione in
violazione dell’art. 3, c. 1, lett. e.5.
L’apposizione di una roulotte e di “una
struttura smontabile … costituita da una
base in assito di legno semplicemente
appoggiata al suolo e una struttura in
tubolari in ferro poggiata sull’assito … il
tutto coperto da teli di nylon”, appare,
infatti, corrispondere a pieno alla
previsione della predetta norma che
assoggetta alla necessità di titolo edilizio
“l’istallazione di manufatti leggeri, anche
prefabbricati, e di strutture di qualsiasi
genere, quali roulottes, campers, case
mobili, imbarcazioni che siano adibiti come
abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come
depositi, magazzini e simili e che non siano
diretti a soddisfare esigenze meramente
temporanee”.
La natura di sistemazione non meramente
transitoria, ma di stabile abitazione (sia
pure dovuta al progressivo aggravarsi di una
già difficile situazione familiare) della
struttura in questione, contestata, almeno
in astratto dalla ricorrente (ma, in realtà,
confermata dalle sue stesse deduzioni circa
la necessità di far fronte alle urgenti
esigenze abitative della sua famiglia e
circa l’impossibilità di indicare una
presumibile data di cessazione del relativo
utilizzo) è d’altra parte dimostrata, come
evidenziato dalla difesa del Comune, da una
serie di elementi quali il carattere
risalente del manufatto (realizzato
nell’autunno 2010), l’istallazione in esso
di elettrodomestici ed arredi per la vita
quotidiana e la richiesta della ricorrente
di stabilire in tale luogo la sua residenza
(del settembre 2010)
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 09.05.2012 n. 525 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia di vincolo cimiteriale la
salvaguardia del rispetto dei duecento metri
prevista dal citato articolo (o del limite
inferiore di cui al d.p.r. numero 285/1990
che ha previsto la possibilità di riduzione
della fascia di rispetto da 200 mt. a 100 mt.)
si pone alla stregua di un vincolo assoluto
di inedificabilità che non consente in alcun
modo l'allocazione sia di edifici, che di
opere incompatibili col vincolo medesimo, in
considerazione dei molteplici interessi
pubblici che tale fascia di rispetto intende
tutelare e che possono enuclearsi nelle
esigenze di natura igienico sanitaria, nella
salvaguardia della peculiare sacralità che
connota i luoghi destinati all'inumazione e
alla sepoltura, nel mantenimento di un'area
di possibile espansione della cinta
cimiteriale.
Il vincolo di rispetto cimiteriale, riguarda
non solo i centri abitati, ma anche i
fabbricati sparsi e preclude il rilascio
della concessione, anche in sanatoria (ai
sensi dell'art. 33 L. 28.02.1985 n. 47),
senza necessità di compiere valutazioni in
ordine alla concreta compatibilità
dell'opera con i valori tutelati dal
vincolo.
Detto vincolo comporta, in definitiva, una
limitazione legale a carattere assoluto del
diritto di proprietà, che preclude il
rilascio della concessione per opere
incompatibili col vincolo medesimo.
---------------
Il vincolo cimiteriale comporta una
limitazione legale a carattere assoluto del
diritto di proprietà, che preclude il
rilascio della concessione, anche in
sanatoria, per opere incompatibili col
vincolo medesimo, dovendosi,
conseguentemente, escludere la necessità di
compiere valutazioni in ordine alla concreta
compatibilità dell'opera con i valori
tutelati dal vincolo stesso.
Al riguardo, la giurisprudenza, ormai
consolidata, ha affermato che in materia di
vincolo cimiteriale la salvaguardia del
rispetto dei duecento metri prevista dal
citato articolo (o del limite inferiore di
cui al d.p.r. numero 285/1990 che ha
previsto la possibilità di riduzione della
fascia di rispetto da 200 mt. a 100 mt.) "si
pone alla stregua di un vincolo assoluto di
inedificabilità che non consente in alcun
modo l'allocazione sia di edifici, che di
opere incompatibili col vincolo medesimo, in
considerazione dei molteplici interessi
pubblici che tale fascia di rispetto intende
tutelare e che possono enuclearsi nelle
esigenze di natura igienico sanitaria, nella
salvaguardia della peculiare sacralità che
connota i luoghi destinati all'inumazione e
alla sepoltura, nel mantenimento di un'area
di possibile espansione della cinta
cimiteriale” (ex multis C.d.S.,
V, 14.09.2010, n. 6671; C.d.S., IV
12.03.2007, n. 1185, C.d.S., V, 12.11.1999,
n. 1871; C.d.S., II, parere 28.02.1996, n.
3031/1995; TAR Sicilia, Palermo, III,
18.01.2012, n. 77; TAR Campania, Napoli, IV,
29.11.2007, n. 15615; Tar Lombardia-Milano,
11.07.1997, n. 1253; Tar Toscana, I,
29.09.1994, n. 471).
Il vincolo di rispetto cimiteriale, riguarda
non solo i centri abitati, ma anche i
fabbricati sparsi (cfr. TAR Milano, II,
06.10.993 n. 551) e preclude il rilascio
della concessione, anche in sanatoria (ai
sensi dell'art. 33 L. 28.02.1985 n. 47),
senza necessità di compiere valutazioni in
ordine alla concreta compatibilità
dell'opera con i valori tutelati dal vincolo
(cfr. C.d.S., V, 03.05.2007, n. 1933 e del
12.11.1999, n. 1871).
Detto vincolo, secondo consolidata
giurisprudenza, comporta, in definitiva, una
limitazione legale a carattere assoluto del
diritto di proprietà, che preclude il
rilascio della concessione per opere
incompatibili col vincolo medesimo.
---------------
Ugualmente
destituito di fondamento risulta il secondo
motivo di gravame, con cui il ricorrente, in
base all’assunto che alla fascia di rispetto
cimiteriale sia correlato solo un vincolo d’inedificabilità
relativa, ha lamentato la violazione
dell’art. 338 del R.D. 27.07.1934, n. 1265 e
l’eccesso di potere per difetto dei
presupposti e travisamento della realtà, per
difetto d’istruttoria e di motivazione e
l’erronea valutazione del pubblico
interesse, per essersi limitato il
Responsabile del Servizio di Igiene e Sanità
Pubblica ad un apodittico richiamo, nel
proprio parere (acriticamente recepito dal
Sindaco del Comune di Cuneo), alle norme di
legge e regolamentari e ad affermare che “l’intervento
in oggetto ricade totalmente nella suddetta
fascia di mt. 100”, anziché svolgere
un’adeguata istruttoria e formulare
un’analitica valutazione di carattere
igienico-sanitario, eventualmente ostativa,
nel caso specifico, all’accoglimento
dell’istanza di condono.
Al riguardo non possono, infatti, che
richiamarsi le diffuse considerazioni dianzi
svolte, con cui si è precisato che il
vincolo cimiteriale comporta una limitazione
legale a carattere assoluto del diritto di
proprietà, che preclude il rilascio della
concessione, anche in sanatoria, per opere
incompatibili col vincolo medesimo,
dovendosi, conseguentemente, escludere la
necessità di compiere valutazioni in ordine
alla concreta compatibilità dell'opera con i
valori tutelati dal vincolo stesso (C.d.S.,
V, 03.05.2007, n. 1933) (TAR
Piemonte, Sez. II,
sentenza 09.05.2012 n. 511 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nessuna competenza per la
stazione appaltante sulla valutazione del
durc.
Le stazioni appaltanti
in ordine al requisito della regolarità
contributiva non hanno né la competenza né
il potere di valutare i dati risultanti dal
d.u.r.c., ma devono attenersi alle
valutazioni dei competenti enti
previdenziali.
Ai sensi e per gli effetti dell'art. 38, c.
1, lett. i), d.lgs. n. 163 del 2006, anche
nel testo vigente anteriormente al d.l. n.
70 del 2011, secondo cui costituiscono causa
di esclusione dalle gare di appalto le gravi
violazioni alle norme in materia
previdenziale e assistenziale, la nozione di
"violazione grave" non è rimessa alla
valutazione caso per caso della stazione
appaltante, ma si desume dalla disciplina
previdenziale, e in particolare dalla
disciplina del documento unico di regolarità
contributiva; ne consegue che la verifica
della regolarità contributiva delle imprese
partecipanti a procedure di gara per
l'aggiudicazione di appalti con la pubblica
amministrazione è demandata agli istituti di
previdenza, le cui certificazioni (d.u.r.c.)
si impongono alle stazioni appaltanti, che
non possono sindacarne il contenuto.
Aggiungono i giudici del Consiglio di Stato
che se prima del decreto del Ministero del
lavoro e della previdenza sociale 24.10.2007
poteva essere dubbio se vi fosse o meno
automatismo nella valutazione di gravità
delle violazioni previdenziali da parte
della stazione appaltante, dopo il d.m. del
2007, risulta chiaro che la valutazione di
gravità o meno della infrazione
previdenziale è riservata agli enti
previdenziali.
Invero, se la violazione è ritenuta non
grave, il d.u.r.c. viene rilasciato con
esito positivo, il contrario accade se la
violazione è ritenuta grave. I giudici di
Palazzo Spada non hanno pertanto condiviso
la prospettazione, riportata nell’ordinanza
di rimessione, secondo cui il citato d.m.
del 2007 non costituisce atto attuativo del
codice appalti, con la conseguenza che la
valutazione di gravità compiuta alla luce di
tale d.m. non sarebbe automaticamente
vincolante per la stazione appaltante.
Secondo gli stesso giudici, infatti, il
codice appalti si inserisce, come parte del
tutto, in un sistema normativo unitario,
sicché le nozioni da esso utilizzate e da
esso non definite, -come nel caso della “violazione
previdenziale grave” non possono che
essere desunte dall’ordinamento giuridico
nel suo complesso, e segnatamente dallo
specifico settore da cui le nozioni sono
tratte e definite (commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato,
Adunanza Plenaria,
sentenza 04.05.2012 n. 8 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Trasporto di rifiuti
senza formulario o con formulario con dati
incompleti o inesatti.
La modifica normativa apportata dalla legge
n. 205 del 2010 all’art. 258 d.lgs. 152/2006
ha determinato il venir meno della
punibilità della condotta di trasporto di
rifiuti senza formulario o con formulario
con dati incompleti o inesatti non più
sanzionata penalmente in quanto non
riconducibile né alle previsioni del nuovo
testo dell’art. 258 né alla fattispecie
introdotta con l’art. 260-bis, che opera un
riferimento alla scheda Sistri e non ai
precedenti formulari con la conseguenza che,
in applicazione dei principi fissati
dall’art. 2 cod. pen., le condotte poste in
essere devono essere ritenute non più
riconducibili all’ipotesi di reato
contemplate dalla disciplina previgente
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.04.2012 n.
15732 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
sono assoggettabili al contributo
commisurato al costo di costruzione e agli
oneri di urbanizzazione i parcheggi c.d.
obbligatori fissati dall'art. 41-sexies
della l. n. 1150 del 1942.
Ai sensi delle l. n. 10 del 1977 e n. 122
del 1989, in sede di rilascio della
concessione edilizia, non sono
assoggettabili al contributo commisurato al
costo di costruzione e agli oneri di
urbanizzazione i parcheggi c.d. obbligatori
fissati dall'art. 41-sexies della l. n. 1150
del 1942.
La l. 24.03.1989 n. 122 (c.d. legge Tognoli),
recante disposizioni in materia di
parcheggi, dispone (art. 11 comma 1) che le
opere e gli interventi da essa previsti «costituiscono
opere di urbanizzazione anche ai sensi
dell'art. 9, comma 1, lett. f), della l.
28.01.1977 n. 10» e, dunque, non sono
soggetti a contributo concessorio (TAR
Puglia, Bari, 1284/2011, TAR Lombardia
Milano, sez. II, n. 1779/2007).
Nel caso di specie, infatti, le superfici
destinate a parcheggio sono state realizzate
nel rispetto del disposto degli artt. 11
legge 24.03.1989 n. 122 (c.d. legge Tognoli)
e 9, primo comma, lettera f), della legge
28.01.1977, n. 10 e devono ritenersi,
pertanto, costituenti opere di
urbanizzazione.
L’art. 9 della legge n. 10/1977 disciplina
infatti i casi di concessione gratuita
annoverando tra di essi le opere di
urbanizzazione eseguite anche da privati,
quali i parcheggi realizzati dalla
ricorrente nella misura prevista dalla
legge.
L’amministrazione, di contro, non ha
contestato, nel provvedimento impugnato, che
i parcheggi realizzati, in quanto
pertinenziali al fabbricato ad uso
residenziale realizzato, rientrino tra
quelli qualificabili come opere di
urbanizzazione
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 19.04.2012 n. 744 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
provvedimento abilitativo tacito costituito
per effetto del silenzio-assenso si può
formare soltanto se la domanda presentata
possiede i presupposti per essere accolta,
perché il difetto di taluno dei presupposti
sostanziale per potere accedere al condono
impedisce che possa avviarsi il procedimento
disciplinato dall'art. 35, l. n. 47 del 1985
in cui il decorso del tempo è co-elemento
costitutivo della fattispecie autorizzativa.
Perché possa formarsi il silenzio-assenso
occorre, pertanto, che il procedimento sia
stato avviato da un'istanza conforme al
modello legale previsto dalla norma che
regola il procedimento di condono, per cui
la mancata definizione da parte del Comune
entro il termine perentorio legalmente
fissato e decorrente dalla presentazione
della domanda di sanatoria, non determina
ope legis la regolarizzazione dell'abuso, in
applicazione dell'istituto del silenzio
assenso, ogni qualvolta manchino i
presupposti di fatto e di diritto previsti
dalla norma, ovvero ancora quando
l'oblazione autoliquidata dalla parte
interessata non corrisponda a quanto
effettivamente dovuto, oppure quando la
documentazione allegata all'istanza non
risulti completa ovvero quando la domanda si
presenti dolosamente infedele.
Sul punto infatti la giurisprudenza
amministrativa ha affermato, con
orientamento costante, che “Il
provvedimento abilitativo tacito costituito
per effetto del silenzio-assenso si può
formare soltanto se la domanda presentata
possiede i presupposti per essere accolta,
perché il difetto di taluno dei presupposti
sostanziale per potere accedere al condono
impedisce che possa avviarsi il procedimento
disciplinato dall'art. 35, l. n. 47 del 1985
in cui il decorso del tempo è co-elemento
costitutivo della fattispecie autorizzativa.
Perché possa formarsi il silenzio-assenso
occorre, pertanto, che il procedimento sia
stato avviato da un'istanza conforme al
modello legale previsto dalla norma che
regola il procedimento di condono, per cui
la mancata definizione da parte del Comune
entro il termine perentorio legalmente
fissato e decorrente dalla presentazione
della domanda di sanatoria, non determina
ope legis la regolarizzazione dell'abuso, in
applicazione dell'istituto del silenzio
assenso, ogni qualvolta manchino i
presupposti di fatto e di diritto previsti
dalla norma, ovvero ancora quando
l'oblazione autoliquidata dalla parte
interessata non corrisponda a quanto
effettivamente dovuto, oppure quando la
documentazione allegata all'istanza non
risulti completa ovvero quando la domanda si
presenti dolosamente infedele" (da
ultimo TAR Napoli, sez. II, 06.02.2012, n.
585, TAR Lecce, sez. III, 10.01.2012, n. 16,
TAR Bari, sez. II, 18.11.2011, n. 1762,
Consiglio di Stato, sez. V, 08.11.2011, n.
5894)
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 19.04.2012 n. 743 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI:
La domanda di risarcimento dei
danni è regolata dal principio dell’onere
della prova di cui all’art. 2697 cod. civ.,
in base al quale chi vuol far valere un
diritto in giudizio deve provare i fatti che
ne costituiscono il fondamento, per cui
grava sul danneggiato l’onere di provare, ai
sensi del citato articolo, tutti gli
elementi costitutivi della domanda di
risarcimento del danno per fatto illecito
(danno, nesso causale e colpa); segue da ciò
che il risarcimento del danno non è una
conseguenza automatica e costante
dell’annullamento giurisdizionale,
richiedendo la positiva verifica, oltre che
della lesione della situazione soggettiva di
interesse tutelata dall’ordinamento, della
sussistenza della colpa o del dolo
dell’Amministrazione e del nesso causale tra
l’illecito e il danno subito; in particolare
il risarcimento del danno conseguente a
lesione di interesse legittimo pretensivo è
subordinato, pur in presenza di tutti i
requisiti dell’illecito (condotta, colpa,
nesso di causalità, evento dannoso), alla
dimostrazione, secondo un giudizio di
prognosi formulato ex ante, che
l’aspirazione al provvedimento fosse
destinata nel caso di specie ad esito
favorevole, quindi alla dimostrazione,
ancorché fondata con il ricorso a
presunzioni, della spettanza definitiva del
bene collegato a tale interesse, ma siffatto
giudizio prognostico non può essere
consentito allorché detta spettanza sia
caratterizzata da consistenti margini di
aleatorietà.
---------------
In presenza di un’attività illegittima posta
in essere dall’Amministrazione e foriera di
danno per il privato, quest’ultimo non sarà
onerato di un particolare sforzo probatorio
in ordine alla sussistenza di una condotta
colposa da parte dell’Amministrazione, ben
potendosi limitare ad allegare la sola
illegittimità del provvedimento quale
elemento idoneo a fondare una presunzione
(semplice) circa la colpa della P.A.
In tali ipotesi, spetterà quindi
all’Amministrazione fornire la prova
liberatoria a contrario, dimostrando in
concreto che si sia trattato di un errore
scusabile, configurabile -ad es.- in caso di
contrasti giurisprudenziali
sull’interpretazione della norma, di
formulazioni polisense di disposizioni di
recente emanazione, ovvero di rilevante
complessità del fatto sotteso alla
determinazione amministrativa.
---------------
E' sperfluo l’accertamento, ai fini della
responsabilità della Amministrazione da
provvedimento illegittimo, dell’elemento
soggettivo della colpa: “La direttiva del
Consiglio 21.12.1989 n. 89/665/Cee, che
coordina le disposizioni legislative,
regolamentari e amministrative relative
all’applicazione delle procedure di ricorso
in materia di aggiudicazione degli appalti
pubblici di forniture e di lavori, come
modificata dalla direttiva del Consiglio
18.06.1992 n. 92/50/Cee, deve essere
interpretata nel senso che essa osta a una
normativa nazionale, la quale subordini il
diritto a ottenere un risarcimento a motivo
di una violazione della disciplina sugli
appalti pubblici da parte di
un’Amministrazione aggiudicatrice al
carattere colpevole di tale violazione,
anche nel caso in cui l’applicazione della
normativa in questione sia incentrata su una
presunzione di colpevolezza in capo
all’Amministrazione suddetta, nonché
sull’impossibilità per quest’ultima di far
valere la mancanza di proprie capacità
individuali e, dunque, un difetto di
imputabilità soggettiva della violazione
lamentata".
---------------
Agli effetti della quantificazione del danno
per lucro cessante, che l’impresa
partecipante a gara pubblica assume di aver
ingiustamente sofferto per effetto
dell’illegittima mancata aggiudicazione
dell’appalto, occorre che essa fornisca la
prova rigorosa della percentuale d’utile che
avrebbe conseguito se fosse risultata
aggiudicataria, prova desumibile
dall’esibizione dell’offerta economica da
essa presentata al seggio di gara, non
costituendo il criterio del 10% del prezzo a
base d’asta un criterio automatico, ma solo
presuntivo.
Tuttavia, "Il lucro cessante da mancata
aggiudicazione può essere risarcito per
intero se e in quanto l’impresa possa
documentare di non aver potuto utilizzare
mezzi e maestranze, lasciati disponibili,
per l’espletamento di altri servizi, mentre
quando tale dimostrazione non sia stata
offerta è da ritenere che l’impresa possa
avere ragionevolmente riutilizzato mezzi e
manodopera per lo svolgimento di altri,
analoghi servizi, così vedendo in parte
ridotta la propria perdita di utilità, con
conseguente riduzione in via equitativa del
danno risarcibile.
Si tratta di una applicazione del principio
dell’aliunde perceptum, in base al quale,
onde evitare che a seguito del risarcimento
il danneggiato possa trovarsi in una
situazione addirittura migliore rispetto a
quella in cui si sarebbe trovata in assenza
dell’illecito, va detratto dall’importo
dovuto a titolo risarcitorio, quanto da lui
percepito grazie allo svolgimento di diverse
attività lucrative, nel periodo in cui
avrebbe dovuto eseguire l’appalto in
contestazione.
Tuttavia, l’onere di provare (l’assenza
del)l’aliunde perceptum grava non
sull’Amministrazione, ma sull’impresa, e
tale ripartizione muove dalla presunzione, a
sua volta fondata sull’id quod plerumque
accidit, secondo cui l’imprenditore (specie
se in forma societaria), in quanto soggetto
che esercita professionalmente una attività
economica organizzata finalizzata alla
produzione di utili, normalmente non rimane
inerte in caso di mancata aggiudicazione di
un appalto, ma si procura prestazioni
contrattuali alternative dalla cui
esecuzione trae utili.”
In ordine al riparto dell’onere probatorio
in tema di illecito aquiliano della P.A.,
Cons. Stato, Sez. V, 15.09.2010, n. 6797 ha
affermato che “La domanda di risarcimento
dei danni è regolata dal principio
dell’onere della prova di cui all’art. 2697
cod. civ., in base al quale chi vuol far
valere un diritto in giudizio deve provare i
fatti che ne costituiscono il fondamento,
per cui grava sul danneggiato l’onere di
provare, ai sensi del citato articolo, tutti
gli elementi costitutivi della domanda di
risarcimento del danno per fatto illecito
(danno, nesso causale e colpa); segue da ciò
che il risarcimento del danno non è una
conseguenza automatica e costante
dell’annullamento giurisdizionale,
richiedendo la positiva verifica, oltre che
della lesione della situazione soggettiva di
interesse tutelata dall’ordinamento, della
sussistenza della colpa o del dolo
dell’Amministrazione e del nesso causale tra
l’illecito e il danno subito; in particolare
il risarcimento del danno conseguente a
lesione di interesse legittimo pretensivo è
subordinato, pur in presenza di tutti i
requisiti dell’illecito (condotta, colpa,
nesso di causalità, evento dannoso), alla
dimostrazione, secondo un giudizio di
prognosi formulato ex ante, che
l’aspirazione al provvedimento fosse
destinata nel caso di specie ad esito
favorevole, quindi alla dimostrazione,
ancorché fondata con il ricorso a
presunzioni, della spettanza definitiva del
bene collegato a tale interesse, ma siffatto
giudizio prognostico non può essere
consentito allorché detta spettanza sia
caratterizzata da consistenti margini di
aleatorietà.”.
Nel caso di specie, sicuramente sono
integrati gli estremi della lesione (i.e.
ingiustizia del danno ex art. 2043 cod.
civ.) della situazione soggettiva di
interesse tutelata dall’ordinamento facente
capo alla società ricorrente (i.e.
aggiudicazione dei lavori per cui è causa in
proprio favore laddove fosse stata esclusa
la Cosver), della sussistenza dell’elemento
oggettivo (adozione degli atti di gara che
questo Collegio ha accertato essere
illegittimi nei termini esposti in
precedenza), dell’elemento soggettivo
dell’Amministrazione resistente (che ha
adottato provvedimenti illegittimi, così
violando regole di buona amministrazione e
prudente apprezzamento) e del nesso causale
tra l’illecito e il danno subito (è evidente
che l’azione amministrativa illegittima è
causativa, secondo l’id quod plerumque
accidit, di un pregiudizio alla sfera
della odierna ricorrente che sarebbe dovuta
essere aggiudicataria dell’appalto).
Peraltro, sul punto della prova
dell’elemento psicologico dell’illecito
aquiliano della P.A. Cons. Stato, Sez. VI,
13.02.2009, n. 775 ha evidenziato che: «…,
in presenza di un’attività illegittima posta
in essere dall’Amministrazione e foriera di
danno per il privato, quest’ultimo non sarà
onerato di un particolare sforzo probatorio
in ordine alla sussistenza di una condotta
colposa da parte dell’Amministrazione, ben
potendosi limitare ad allegare la sola
illegittimità del provvedimento quale
elemento idoneo a fondare una presunzione
(semplice) circa la colpa della P.A.
In tali ipotesi, spetterà quindi
all’Amministrazione fornire la prova
liberatoria a contrario, dimostrando in
concreto che si sia trattato di un errore
scusabile, configurabile -ad es.- in caso di
contrasti giurisprudenziali
sull’interpretazione della norma, di
formulazioni polisense di disposizioni di
recente emanazione, ovvero di rilevante
complessità del fatto sotteso alla
determinazione amministrativa.».
Nella fattispecie oggetto del presente
giudizio l’Amministrazione evocata in
giudizio non ha fornito la prova liberatoria
dell’assenza di colpa, né ha dimostrato la
sussistenza in concreto di un errore
scusabile.
Va, altresì, rimarcato che l’accertamento in
sede giurisdizionale del carattere “non
iure” dell’attività amministrativa posta
in essere dalla stazione appaltante con
consequenziale lesione dell’interesse
legittimo dell’odierna ricorrente implica la
consolidazione di un danno ingiusto ex art.
2043 cod. civ. nella sfera giuridica della
stessa. In altri termini, la riscontrata
illegittimità dell’azione amministrativa
rappresenta l’indice della colpa
dell’Amministrazione convenuta.
In tale eventualità spettava, pertanto, alla
parte resistente fornire elementi istruttori
o anche meramente assertori volti a
dimostrare l’assenza di colpa, parte
resistente che all’opposto è rimasta inerte
sul punto.
Peraltro, deve essere evidenziato che, da
ultimo, Corte Giust. CE, Sez. III,
30.09.2010, n. 314 ha ritenuto superfluo
l’accertamento, ai fini della responsabilità
della Amministrazione da provvedimento
illegittimo, dell’elemento soggettivo della
colpa: “La direttiva del Consiglio
21.12.1989 n. 89/665/Cee, che coordina le
disposizioni legislative, regolamentari e
amministrative relative all’applicazione
delle procedure di ricorso in materia di
aggiudicazione degli appalti pubblici di
forniture e di lavori, come modificata dalla
direttiva del Consiglio 18.06.1992 n. 92/50/Cee,
deve essere interpretata nel senso che essa
osta a una normativa nazionale, la quale
subordini il diritto a ottenere un
risarcimento a motivo di una violazione
della disciplina sugli appalti pubblici da
parte di un’Amministrazione aggiudicatrice
al carattere colpevole di tale violazione,
anche nel caso in cui l’applicazione della
normativa in questione sia incentrata su una
presunzione di colpevolezza in capo
all’Amministrazione suddetta, nonché
sull’impossibilità per quest’ultima di far
valere la mancanza di proprie capacità
individuali e, dunque, un difetto di
imputabilità soggettiva della violazione
lamentata.”.
Relativamente al profilo del quantum
del danno da lucro cessante invocato da
parte ricorrente, va evidenziato che secondo
Cons. Stato, Sez. IV, 07.09.2010, n. 6485 “Agli
effetti della quantificazione del danno per
lucro cessante, che l’impresa partecipante a
gara pubblica assume di aver ingiustamente
sofferto per effetto dell’illegittima
mancata aggiudicazione dell’appalto, occorre
che essa fornisca la prova rigorosa della
percentuale d’utile che avrebbe conseguito
se fosse risultata aggiudicataria, prova
desumibile dall’esibizione dell’offerta
economica da essa presentata al seggio di
gara, non costituendo il criterio del 10%
del prezzo a base d’asta un criterio
automatico, ma solo presuntivo.”.
La deducente TSE ha prodotto in allegato al
ricorso introduttivo la propria offerta
economica con un ribasso del 24,691% così
assolvendo il proprio onere probatorio sul
punto.
Tuttavia, come rilevato da Cons. Stato, Sez.
VI, 09.06.2008, n. 2751, “Il lucro
cessante da mancata aggiudicazione può
essere risarcito per intero se e in quanto
l’impresa possa documentare di non aver
potuto utilizzare mezzi e maestranze,
lasciati disponibili, per l’espletamento di
altri servizi, mentre quando tale
dimostrazione non sia stata offerta è da
ritenere che l’impresa possa avere
ragionevolmente riutilizzato mezzi e
manodopera per lo svolgimento di altri,
analoghi servizi, così vedendo in parte
ridotta la propria perdita di utilità, con
conseguente riduzione in via equitativa del
danno risarcibile.
Si tratta di una applicazione del principio
dell’aliunde perceptum, in base al quale,
onde evitare che a seguito del risarcimento
il danneggiato possa trovarsi in una
situazione addirittura migliore rispetto a
quella in cui si sarebbe trovata in assenza
dell’illecito, va detratto dall’importo
dovuto a titolo risarcitorio, quanto da lui
percepito grazie allo svolgimento di diverse
attività lucrative, nel periodo in cui
avrebbe dovuto eseguire l’appalto in
contestazione.
Tuttavia, l’onere di provare (l’assenza
del)l’aliunde perceptum grava non
sull’Amministrazione, ma sull’impresa, e
tale ripartizione muove dalla presunzione, a
sua volta fondata sull’id quod plerumque
accidit, secondo cui l’imprenditore (specie
se in forma societaria), in quanto soggetto
che esercita professionalmente una attività
economica organizzata finalizzata alla
produzione di utili, normalmente non rimane
inerte in caso di mancata aggiudicazione di
un appalto, ma si procura prestazioni
contrattuali alternative dalla cui
esecuzione trae utili.”.
Poiché, nel caso di specie la dimostrazione
dell’assenza dell’aliunde perceptum
non è stata offerta dalla società ricorrente
su cui gravava il relativo onere probatorio,
è da opinare nel senso che l’impresa possa
avere ragionevolmente riutilizzato mezzi e
manodopera per lo svolgimento di altri,
analoghi lavori, così vedendo in parte
ridotta la propria perdita di utilità.
Ritiene, pertanto, il Collegio, alla stregua
delle considerazioni sopra esposte, di
determinare l’ammontare della somma
spettante alla società TSE, a titolo di
lucro cessante, nel 10% dell’importo
dell’offerta economica da quest’ultima
presentata.
Tale somma, secondo quanto indicato in
precedenza, va ridotta in via prudenziale al
5% dell’offerta economica, tenendo conto
dell’aliunde perceptum dell’impresa.
Invero, secondo Cons. Stato, Sez. VI,
19.04.2011, n. 2427, “Non costituisce,
normalmente e salvi casi particolari,
condotta ragionevole immobilizzare tutti i
mezzi di impresa nelle more del giudizio,
nell’attesa dell’aggiudicazione in proprio
favore, essendo invece ragionevole che
l’impresa si attivi per svolgere altre
attività. Di qui la piena ragionevolezza
della detrazione dal risarcimento del
mancato utile, nella misura del 50%, sia
dell’aliunde perceptum sia dell’aliunde
percipiendum con l’originaria diligenza”
(TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 18.04.2012 n. 741 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: È
illegittima per irragionevolezza e contrasto
con i principi comunitari di massima tutela
della concorrenza tra imprese, la clausola
del bando e del disciplinare di gara per
l’affidamento del servizio di refezione
scolastica, che impone ai partecipanti di
allestire un centro per la cottura e la
preparazione dei pasti esclusivamente nel
territorio del Comune appaltante, in quanto
tale prescrizione non è utile ai fini della
individuazione del miglior contraente, non è
giustificabile con addotte finalità di
controllo dell’attività di confezionamento e
contrasta con i principi di economicità e di
risparmio su scala aziendale, determinando
un indubbio favoritismo per i pochi (o
unici) soggetti che sono presenti in quel
preciso ambito territoriale.
Nel merito, reputa questo Collegio di
confermare la giurisprudenza citata da parte
ricorrente (TAR Puglia, Bari, Sez. I,
03.11.2009, n. 2602 e TAR Puglia, Bari, Sez.
I, 27.04.2010, n. 1495) perfettamente
pertinente con la fattispecie oggetto del
presente giudizio.
Infatti, il gravato art. 5 del capitolato
d’appalto si pone chiaramente in contrasto
con il principio affermato da questo
Tribunale (cfr. TAR Puglia, Bari, Sez. I,
03.11.2009, n. 2602): “È illegittima per
irragionevolezza e contrasto con i principi
comunitari di massima tutela della
concorrenza tra imprese, la clausola del
bando e del disciplinare di gara per
l’affidamento del servizio di refezione
scolastica, che impone ai partecipanti di
allestire un centro per la cottura e la
preparazione dei pasti esclusivamente nel
territorio del Comune appaltante, in quanto
tale prescrizione non è utile ai fini della
individuazione del miglior contraente, non è
giustificabile con addotte finalità di
controllo dell’attività di confezionamento e
contrasta con i principi di economicità e di
risparmio su scala aziendale, determinando
un indubbio favoritismo per i pochi (o
unici) soggetti che sono presenti in quel
preciso ambito territoriale.”.
Analogo principio è stato affermato da TAR
Puglia, Bari, Sez. I, 27.04.2010, n. 1495
con riferimento alla censura in sede
giurisdizionale, da parte di un istituto di
vigilanza, di clausole della lex
specialis di gara relativa alla
procedura aperta per l’affidamento del
servizio di vigilanza privata di immobili
comunali del Comune di Bisceglie
(TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 17.04.2012 n. 733 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
caso di violazione del divieto, previsto
dall’art. 23 Codice della Strada, di
collocare cartelli ed altri mezzi
pubblicitari lungo le strade in assenza di
autorizzazione, l’opposizione avverso il
provvedimento di irrogazione sia della
sanzione pecuniaria che di quella,
accessoria, della rimozione della pubblicità
abusiva, appartiene alla giurisdizione del
G.O. poiché in entrambi i casi la p.A. non
esercita alcun potere autoritativo, ma si
limita all’applicazione, scevra da
discrezionalità, delle disposizioni di
legge.
La determinazione dirigenziale di rimozione
di un impianto pubblicitario emessa dal
Comune ai sensi dell’art. 23, comma
13-quater, del Codice della Strada,
prevedendo detta norma (al comma 11) anche
l’applicazione di una sanzione
amministrativa pecuniaria, integra un nesso
di complementarietà, costituendo la
rimozione un accessorio della sanzione
amministrativa pecuniaria, con conseguente
impugnabilità innanzi al Giudice ordinario a
norma del combinato disposto di cui agli
artt. 22 e 23 della Legge 689/1981.
... per l'annullamento:
1) dell’ordinanza 15.11.2011, prot. n.
44663/2011 (Reg. Ord. n. 82), notificata in
data 13.12.2011, con la quale il Settimo
Settore Urbanistica ed Edilizia del Comune
di Manfredonia ha ordinato la rimozione di
n. 8 pali pubblicitari;
2) dell’ordinanza 29.11.2011, prot. n.
46203/2011 (Reg. Ord. n. 89), notificata in
data 13.12.2011, con la quale il Settimo
Settore Urbanistica ed Edilizia del Comune
di Manfredonia ha ordinato la rimozione di
n. 9 pali pubblicitari, n. 3 transenne di
protezione parapedonale, n. 1 orologio su
colonna con spazio pubblicitari;
3) dell’ordinanza 29.11.2011, prot. n.
45702/2011 (Reg. Ord. n. 88), notificata in
data 13.12.2011, con la quale il Settimo
Settore Urbanistica ed Edilizia del Comune
di Manfredonia ha ordinato la rimozione di
n. 15 pali pubblicitari, n. 1 orologio su
colonna con spazio pubblicitario, n. 3
transenne di protezione parapedonale;
4) dell’ordinanza 20.12.2011, prot. n.
48976/2011 (Reg. Ord. n. 94) notificata in
data 04.01.2012, con la quale il Settimo
Settore Urbanistica ed Edilizia del Comune
di Manfredonia ha ordinato la rimozione di
n. 25 pali pubblicitari, n. 4 pensiline
fermata BUS, n. 4 orologi su colonna, n. 58
transenne di protezione parapedonale;
...
Quanto all’oggetto del ricorso in esame,
rileva il Collegio che, anche a prescindere
dall’applicabilità o meno alla vicenda in
esame dei provvedimenti tipici sanzionatori
degli abusi edilizi limitatamente a talune
strutture o impianti in ipotesi
astrattamente idonei ad integrare opere
suscettibili di autorizzazione edilizia (con
riferimento alle pensiline per la sosta dei
bus e similari, in ragione delle loro
dimensioni e del relativo impatto
urbanistico), la qualificazione del potere
concretamente esercitato
dall’Amministrazione compete in via
esclusiva al Giudice Amministrativo e deve
essere effettuata sulla base della
valutazione del potere concretamente
esercitato, indipendentemente dal nomen
iuris attribuito al provvedimento e a
prescindere dai richiami normativi contenuti
nel provvedimento medesimo.
Alla luce di quanto sopra, è innegabile che
le impugnate ordinanze di rimozione degli
impianti pubblicitari e delle strutture
costituiscano essenzialmente esercizio del
potere di gestione e dell’uso di beni
demaniali connessi all’installazione degli
impianti su area pubblica, alla stregua
della normativa di cui al D.Lgs. 15.11.1993
n. 507 ed al Codice della Strada.
L’eventuale rilevanza urbanistico-edilizia
di taluni impianti o strutture di maggiori
dimensioni non sostituisce, ma semmai
integra additivamente, la disciplina sopra
richiamata, idonea comunque di per sé a
supportare l’esercizio del potere di
rimozione degli impianti medesimi,
indipendentemente dalle loro dimensioni.
Conseguentemente, così correttamente
qualificati gli impugnati provvedimenti,
tenuto conto della loro intrinseca natura e
del potere concretamente esercitato, la
controversia in esame rientra nell’ambito
della giurisdizione del Giudice Ordinario.
Ed invero con gli impugnati provvedimenti il
Comune ha ordinato la rimozione d’ufficio
dei cartelli, degli impianti e delle
strutture di che trattasi, vista l’inutilità
delle precedenti diffide in tal senso
rivolte alla società, con conseguente
automatica applicabilità del disposto di cui
all'art. 23, comma 13-bis, del Codice della
Strada, applicabilità non condizionata dal
richiamo o meno della norma nel preambolo
del provvedimento impugnato, non essendo
concepibile che l’applicazione di una norma
di legge tassativa e inderogabile possa
essere ritenuta inapplicabile solo perché
non oggetto di espresso richiamo nel
provvedimento amministrativo.
Ai fini della individuazione della
giurisdizione occorre infatti considerare
l’oggetto del giudizio così come risultante
dalla combinata lettura del petitum
sostanziale e della causa petendi,
che nel caso in esame è rappresentato dalla
impugnazione di ordinanze di rimozione
d’ufficio di impianti e strutture
pubblicitarie ex D.Lgs. 507/1993 e 23, comma
13-bis, del Codice della Strada, con
conseguente ricaduta della controversia
nella giurisdizione del G.O.
Ciò in conformità di orientamento, ormai da
ritenersi consolidato, espresso dalle
Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in
relazione alla circostanza che la
determinazione dirigenziale di rimozione di
un impianto pubblicitario emessa dal Comune
ai sensi dell’art. 23, comma 13-quater, del
Codice della Strada, prevedendo detta norma
(al comma 11) anche l’applicazione di una
sanzione amministrativa pecuniaria, integra
un nesso di complementarietà, costituendo la
rimozione un accessorio della sanzione
amministrativa pecuniaria, con conseguente
impugnabilità innanzi al Giudice ordinario a
norma del combinato disposto di cui agli
artt. 22 e 23 della Legge 689/1981 (Cass.
Civile SS.UU. 23.06.2010 n. 15170; Cass.
Civile SS.UU. 19.08.2009 n. 18357; Cass.
Civile SS.UU. 14.01.2009 n. 563; Cass.
Civile SS.UU. 16.04.2009 n. 8984; Cass.
Civile SS.UU. 18.11.2008 n. 27334; Cass.
Civile SS.UU. 06.06.2007, n. 13230; Cass.
Civile SS.UU. 17.07.2006, n. 16129).
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione,
con sentenza 06.06.2007 n. 13230, hanno
peraltro evidenziato l’inapplicabilità alla
fattispecie in esame del disposto di cui
all’art. 34 del D.Lgs. 80/1998, “non
vertendosi in tema di uso del territorio,
bensì di godimento abusivo di beni
demaniali, con riferimento al quale il
legislatore detta una disciplina specifica”.
La Corte di Cassazione ha affermato: “in
caso di violazione del divieto, previsto
dall’art. 23 Codice della Strada, di
collocare cartelli ed altri mezzi
pubblicitari lungo le strade in assenza di
autorizzazione, l’opposizione avverso il
provvedimento di irrogazione sia della
sanzione pecuniaria che di quella,
accessoria, della rimozione della pubblicità
abusiva, appartiene alla giurisdizione del
G.O. poiché in entrambi i casi la p.A. non
esercita alcun potere autoritativo, ma si
limita all’applicazione, scevra da
discrezionalità, delle disposizioni di legge”
(SS. UU. 15170/10).
In tal senso è la giurisprudenza
amministrativa prevalente (TAR Lazio-Roma,
Sez. II Ter, 09.04.2008, n. 3037; TAR
Lazio-Roma, Sez. II-ter, 2008), anche di
questo tribunale (TAR Bari, Sez. II, n.
3540/2010; TAR Bari, Sez. II, 214/2012)
(TAR Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 13.04.2012 n. 730 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Smaltimento rifiuti, dirigente PA
''esecutivo'' senza responsabilità.
Nessun rimprovero può essere posto a carico
del dirigente comunale del Settore
Patrimonio se allo stesso non siano stati
conferiti i compiti specifici relativi alle
procedure in materia di rifiuti quando
risulti che lo stesso, nel corso
dell'esecuzione di un ordinanza del Sindaco
per ragioni di necessità ed urgenza, ebbe a
svolgere tale attività anche coordinandosi
con il dirigente del Settore Ambiente
competente (questo sì munito dei relativi
poteri).
Particolarmente interessante la decisione
della Suprema Corte che, nel caso in esame,
si sofferma ad individuare l’ambito delle
responsabilità attribuibili in materia di
gestione dei rifiuti in seno alla struttura
organizzativa di un ente locale.
I giudici, nell’esaminare una vicenda che
vedeva interessato il dirigente del settore
patrimonio di un Comune, hanno sul punto
richiamato il principio secondo cui
l'amministratore o il legale rappresentante
di un ente non può essere automaticamente
ritenuto responsabile, a causa della carica
ricoperta, di tutte le infrazioni penali
verificatesi nella gestione dell'ente, a
maggior ragione quando trattasi di ente
pubblico, richiedendosi in tal caso che
l'attività funzionale sia stata
preventivamente suddivisa in settori, rami o
servizi, e che a ciascuno di essi siano in
concreto preposti soggetti qualificati ed
idonei, dotati della necessaria autonomia e
dei poteri indispensabili per la gestione
completa degli affari di quel servizio.
Da qui, dunque, l’esclusione della
responsabilità del malcapitato dirigente
comunale, cui non poteva essere mosso alcun
rimprovero penale.
Il caso
La vicenda processuale vedeva imputati il
dirigente di un Comune, il titolare di
un’impresa autorizzata alla raccolta ed al
trasporto dei rifiuti ed il direttore di
cantiere dell’impresa, cui era stato
contestato il reato di cui all’art. 256,
comma 1, lett. a), T.U.A., in relazione al
deposito senza autorizzazione di masse di
alghe marine (rifiuti organici) su terreno
di proprietà comunale e su due aree agricole
di proprietà privata.
Il ricorso
Condannato in sede di merito il solo
dirigente comunale, quest’ultimo proponeva
ricorso per cassazione, dolendosi del fatto
che i giudici di merito non avessero tenuto
in considerazione la situazione di estrema
urgenza in cui egli si era trovato ad
operare, quale dirigente comunale; in
particolare, però, censurava la decisione
perché era emerso che ad occuparsi della
gestione delle alghe dopo la loro raccolta
avrebbe dovuto essere il dirigente
dell’ufficio ambiente del Comune e, quindi,
il mancato smaltimento delle alghe non
avrebbe potuto essere addebitato
all’imputato, che, essendo invece dirigente
dell’ufficio patrimonio del Comune, non
sarebbe il destinatario di alcun obbligo
giuridico di provvedere in materia
ambientale.
In particolare, in sede di
motivi nuovi, la difesa dell’imputato
allegava documentazione da cui emergeva che
il progetto dell’amministrazione comunale
era quello di riutilizzare il materiale per
contrastare fenomeni erosivi delle spiagge,
progetto che, intrapreso dall’imputato, era
stato portato a termine dal dirigente del
settore ambiente. Alla stregua di quanto
sopra, dunque, era ancora più evidente che,
dopo i provvedimenti di urgenza,
responsabile della gestione del materiale
avrebbe dovuto essere proprio il dirigente
del settore ambiente.
La decisione della
Cassazione
La tesi è stata favorevolmente valutata
dagli Ermellini.
I giudici hanno infatti richiamato il
principio secondo cui l'amministratore o il
legale rappresentante di un ente non può
essere automaticamente ritenuto
responsabile, a causa della carica
ricoperta, di tutte le infrazioni penali
verificatesi nella gestione dell'ente, a
maggior ragione quando trattasi di ente
pubblico, richiedendosi in tal caso che
l'attività funzionale sia stata
preventivamente suddivisa in settori, rami o
servizi, e che a ciascuno di essi siano in
concreto preposti soggetti qualificati ed
idonei, dotati della necessaria autonomia e
dei poteri indispensabili per la gestione
completa degli affari di quel servizio
(Cass. pen., Sez. 3, n. 5889 del 27/03/1998,
dep. 19/05/1998, imp. S., in Ced Cass., n.
210946).
A ciò si aggiunge, che, in materia di
rifiuti, anche a seguito dell'entrata in
vigore dell'ordinamento degli enti locali (D.Lgs.
n. 267 del 2000 e successive integrazioni),
che ha conferito ai dirigenti amministrativi
autonomi poteri di organizzazione delle
risorse, permane in capo al sindaco, sia il
compito di programmazione dell'attività di
smaltimento dei rifiuti solidi urbani, sia
il potere di intervento nelle situazioni
contingibili e urgenti, sia il dovere di
controllo sul corretto esercizio delle
attività autorizzate (Cass. pen., Sez. 3, n.
19882 del 11/03/2009, dep. 11/05/2009, imp.
C., in Ced Cass., n. 243717).
In applicazione di tali principi, alla luce
delle prove raccolte nel caso concreto, era
evidente che l’ufficio competente a gestire
il progetto relativo all’utilizzazione della
alghe (posidonea oceanica) era quello del
settore ambiente ed ufficio unico dei
rifiuti; diversamente, l’imputato, preposto
al settore patrimonio e strategie
territoriali del Comune, si era limitato a
dare esecuzione all’ordinanza del Sindaco,
emessa nella sussistenza dei presupposti di
necessità ed urgenza, con cui si disponeva
la rimozione del materiale che ostruiva la
darsena, al fine di ripristinare la
sicurezza e la navigabilità.
Per quanto riguarda l’aspetto psicologico,
infine, è stata esclusa qualsiasi
possibilità di addebito di responsabilità al
dirigente del settore patrimonio del Comune,
in quanto lo stesso non svolgeva alcuna
funzione in materia ambientale.
In particolare, osserva La corte, se è vero
che il reato in esame può essere commesso
anche a titolo di colpa, la non riferibilità
all’imputato delle funzioni in materia
ambientale ed il fatto che lo stesso avesse
coinvolto il dirigente del settore
ambientale specificamente per i contatti con
la Provincia in riferimento alla
problematica delle alghe, impongono una
rivalutazione del giudizio di merito, posto
che il giudice di primo grado si era
limitato ad ancora la responsabilità del
dirigente comunale alla mera consapevolezza
che l’imputato aveva di operare in materia
di rifiuti.
Da qui, dunque, l’affermazione secondo cui,
osservano gli Ermellini, nessun rimprovero
può essere posto a carico del dirigente
comunale del Settore Patrimonio se allo
stesso non siano stati conferiti i compiti
specifici relativi alle procedure in materia
di rifiuti quando risulti che lo stesso, nel
corso dell'esecuzione di un ordinanza del
Sindaco per ragioni di necessità ed urgenza,
ebbe a svolgere tale attività anche
coordinandosi con il dirigente del Settore
Ambiente competente (questo sì munito dei
relativi poteri).
Si è invero precisato che i dirigenti
comunali possono essere titolari di
posizioni di garanzia nello svolgimento dei
compiti di gestione amministrativa a loro
devoluti, residuando in capo al Sindaco
unicamente poteri di sorveglianza e
controllo collegati ai compiti di
programmazione che gli appartengono quale
capo dell'amministrazione comunale ed
ufficiale di governo (Cass. pen., Sez. 4, n.
22341 del 21/04/2011, dep. 06/06/2011, imp.
B., in Ced Cass., n. 250720) (commento tratto da
www.ipsoa.it - Corte di Cassazione penale,
sentenza 12.04.2012 n. 13927
- sentenza tratta da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'istituto del preavviso di
rigetto di cui all'art. 10-bis della legge
n. 241 del 1990, stante la sua portata
generale, trova applicazione anche nei
procedimenti di sanatoria o di condono
edilizio.
Deve, conseguentemente, ritenersi
illegittimo il provvedimento di diniego
dell'istanza di permesso in sanatoria che
non sia stato preceduto dall'invio della
comunicazione di cui al citato art. 10-bis
in quanto preclusivo, per il soggetto
interessato, della piena partecipazione al
procedimento e, dunque, della possibilità di
un suo apporto collaborativo, capace di
condurre ad una diversa conclusione della
vicenda.
Nondimeno, occorre considerare che tali
omissioni non determinano comunque
l'annullabilità del provvedimento qualora
trovi applicazione il disposto dell'art.
21-octies, comma 2, prima parte della legge
n. 241 del 1990, a tenore del quale “non è
annullabile il provvedimento adottato in
violazione di norme sul procedimento o sulla
forma degli atti qualora, per la natura
vincolata del provvedimento, sia palese che
il suo contenuto dispositivo non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto
adottato”.
Il provvedimento di diniego di condono
edilizio costituisce espressione di potere
vincolato rispetto ai presupposti normativi
richiesti e dei quali deve farsi
applicazione.
Il Collegio, aderendo alla giurisprudenza
amministrativa già fatta propria da questa
Sezione e dalla quale non ha motivo di
discostarsi, ritiene che, a seguito delle
modifiche introdotte dalla legge 11.02.2005,
n. 15, l'istituto del preavviso di rigetto
di cui all'art. 10-bis della legge n. 241
del 1990 -Comunicazione dei motivi ostativi
all'accoglimento dell'istanza- introdotto
dall’art. 6 della prima legge menzionata,
stante la sua portata generale, trovi
applicazione anche nei procedimenti di
sanatoria o di condono edilizio (cfr. TAR
Bari, Sezione III, 22.09.2011, n. 1383, TAR
Liguria Genova, Sez. I, 22.04.2011, n. 666).
Deve, conseguentemente, ritenersi
illegittimo il provvedimento di diniego
dell'istanza di permesso in sanatoria che
non sia stato preceduto dall'invio della
comunicazione di cui al citato art. 10-bis
in quanto preclusivo, per il soggetto
interessato, della piena partecipazione al
procedimento e, dunque, della possibilità di
un suo apporto collaborativo, capace di
condurre ad una diversa conclusione della
vicenda (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. VIII,
07.03.2011, n. 1318).
Nondimeno, occorre considerare che tali
omissioni non determinano comunque
l'annullabilità del provvedimento qualora
trovi applicazione il disposto dell'art.
21-octies, comma 2, prima parte della legge
n. 241 del 1990, a tenore del quale “non
è annullabile il provvedimento adottato in
violazione di norme sul procedimento o sulla
forma degli atti qualora, per la natura
vincolata del provvedimento, sia palese che
il suo contenuto dispositivo non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto
adottato”.
Orbene, non vi è alcun dubbio che il
provvedimento di diniego di condono edilizio
costituisce espressione di potere vincolato
rispetto ai presupposti normativi richiesti
e dei quali deve farsi applicazione (negli
stessi termini TAR Liguria Genova, Sez. I,
22.04.2011, n. 666, cit. e la giurisprudenza
ivi richiamata: Consiglio di Stato, IV,
14.04.2010, n. 2105; TAR Lombardia-Milano,
II, 22.07.2010, n. 3253, da ultimo TAR Bari,
Sezione III, 08.03.2012, n. 520) (TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 05.04.2012 n. 676 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Non
può essere escluso il concorrente che abbia
diligentemente formulato la propria offerta
tecnico-economica e le dichiarazioni sul
possesso dei requisiti generali,
conformandosi al contenuto della lex
specialis di gara ed ai relativi allegati,
giacché le eventuali imperfezioni
rinvenibili in questi ultimi non gli possono
essere addebitate.
---------------
Il giudizio comparativo operato nelle gare
d’appalto, caratterizzate dalla complessità
delle discipline specialistiche di
riferimento e dall’opinabilità dell’esito
della valutazione, sfugge al sindacato
intrinseco del giudice, se non vengono in
rilievo specifiche contestazioni circa la
plausibilità dei criteri valutativi o circa
la loro manifesta violazione (che nella
specie, ad avviso del Collegio, non è
ravvisabile), non essendo ammissibile che
l’impresa ricorrente vi contrapponga le
proprie valutazioni di parte sulla qualità
dei rispettivi progetti tecnici.
Vale, in tal caso, il principio
ripetutamente affermato dalla giurisprudenza
e condiviso anche da questa Sezione, secondo
il quale non può essere escluso il
concorrente che abbia diligentemente
formulato la propria offerta
tecnico-economica e le dichiarazioni sul
possesso dei requisiti generali,
conformandosi al contenuto della lex
specialis di gara ed ai relativi
allegati, giacché le eventuali imperfezioni
rinvenibili in questi ultimi non gli possono
essere addebitate (cfr., in questo senso,
TAR Puglia, Bari, sez. I, 08.06.2011 n. 842
ed i numerosi precedenti ivi richiamati).
---------------
Secondo un
principio ripetutamente affermato dalla
giurisprudenza amministrativa, il giudizio
comparativo operato nelle gare d’appalto,
caratterizzate dalla complessità delle
discipline specialistiche di riferimento e
dall’opinabilità dell’esito della
valutazione, sfugge al sindacato intrinseco
del giudice, se non vengono in rilievo
specifiche contestazioni circa la
plausibilità dei criteri valutativi o circa
la loro manifesta violazione (che nella
specie, ad avviso del Collegio, non è
ravvisabile), non essendo ammissibile che
l’impresa ricorrente vi contrapponga le
proprie valutazioni di parte sulla qualità
dei rispettivi progetti tecnici (così, tra
molte, Cons. Stato, sez. V, 08.03.2011 n.
1464) (TAR
Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 04.04.2012 n. 659 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Considerata
la specialità del procedimento di condono
edilizio rispetto all'ordinario procedimento
di rilascio del permesso di costruire e
l'assenza di una specifica previsione in
ordine alla sua necessità per il rilascio
del titolo edilizio in sanatoria, il parere
della commissione edilizia non è
obbligatorio ma, al più, facoltativo.
Considerata la specialità del procedimento
di condono edilizio rispetto all'ordinario
procedimento di rilascio del permesso di
costruire e l'assenza di una specifica
previsione in ordine alla sua necessità per
il rilascio del titolo edilizio in
sanatoria, il parere della commissione
edilizia non è obbligatorio ma, al più,
facoltativo (cfr. da ultimo Tar
Lombardia-Milano, sez. II, 11.06.2009 n.
3958; in termini Cons. Stato, sez. VI,
27.06.2008, n. 3282; sez. V, 04.10.2007, n.
5153 e 21.06.2007, n. 3315; sez. IV,
16.10.1998, n. 1306)
(TAR Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 02.04.2012 n. 636 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’assenza
di una regolamentazione comunale non può, di
per sé, essere di ostacolo alla
realizzazione di nuovi impianti di telefonia
mobile, che sono dalla legge considerati
opera di pubblica utilità, urbanizzazione
primaria e come tali compatibili con
qualsiasi zonizzazione.
Quanto al primo aspetto va rilevato che é
ormai consolidato in Giurisprudenza il
principio per cui l’assenza di una
regolamentazione comunale non può, di per
sé, essere di ostacolo alla realizzazione di
nuovi impianti, che sono dalla legge
considerati opera di pubblica utilità,
urbanizzazione primaria e come tali
compatibili con qualsiasi zonizzazione
(C.d.S. sez. VI n. 1767/2008; C.d.S. sez. VI
n. 9414/2010)
(TAR Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 02.04.2012 n. 634 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Un
freno alle diagnosi fai-da-te. È
contestabile il certificato medico
rilasciato senza visita. L'orientamento
espresso in una sentenza della Cassazione
sulle assenze dal lavoro per malattia.
Per il dipendente
«fannullone» adesso paga pure il medico
compiacente. Nell'ipotesi di assenza per
malattia, infatti, è vero che il datore di
lavoro non può controllare direttamente lo
stato d'infermità del lavoratore, ma adesso
può contestare il certificato «anamnestico»,
cioè il certificato redatto senza visita del
paziente, ma sulla base soltanto di quanto
dichiarato dallo stesso paziente. Una
tipologia di certificato ora vietata, la cui
eventuale redazione è punita con un mese di
sospensione dall'esercizio della professione
medica.
Lo stabilisce la
sentenza
09.03.2012 n. 3705
della Corte di Cassazione, di fatto
introducendo una nuova ipotesi di valido
motivo di accertamento e contestazione della
malattia dei lavoratori da parte dei datori
di lavoro.
Vietati gli accertamenti in
proprio.
La legge n. 300/1970 (lo Statuto dei
lavoratori) vieta al datore di lavoro ogni
possibilità di eseguire, personalmente o
attraverso medici di sua fiducia,
accertamenti sullo stato di salute del
dipendente. Al datore di lavoro è consentita
unicamente la facoltà di controllare
l'idoneità fisica e l'infermità del
dipendente avvalendosi di enti pubblici ed
enti specializzati, ricadenti nella sfera
del diritto pubblico, cioè appartenenti al
servizio sanitario nazionale.
La centralità dell'utilizzo del servizio
sanitario pubblico nell'accertamento della
malattia del dipendente, spiega il parere n.
10/2012 della Fondazione studi dei
consulenti del lavoro, è stata di recente
ribadita dall'articolo 25 della legge n.
183/2010 (il collegato lavoro), il quale ha
uniformato il regime legale del rilascio e
della trasmissione delle certificazioni per
il caso di assenza per malattia dei
dipendenti pubblici e di quelli privati,
disponendo che la malattia protratta per un
periodo superiore a dieci giorni e, in ogni
caso, il secondo evento morboso nell'anno
solare (1° gennaio-31 dicembre) devono
essere giustificati (a partire, quindi, dal
terzo evento) esclusivamente mediante
certificazione medica rilasciata da: a) una
struttura sanitaria pubblica; oppure b) un
medico convenzionato con il servizio
sanitario nazionale.
A tanto, adesso, alla luce della sentenza
della Corte di cassazione n. 3705 del
09.03.2012 (si veda ItaliaOggi del 12
marzo), deve aggiungersi pure che il
certificato medico può essere rilasciato
solo a seguito di visita al paziente,
essendo esclusa l'ammissibilità di
certificati di tipo anamnestico, in cui il
sanitario si limita ad attestare quanto
sostenuto dal dipendente rispetto al proprio
stato di salute.
Impugnabile il certificato
medico.
È vero che il datore di lavoro non può
controllare lo stato di salute dei
lavoratori, anche quando tale stato
giustifichi l'assenza dal lavoro (malattia);
tuttavia, nel caso in cui dovesse nutrire
fondati dubbi sul reale stato di salute del
lavoratore, potrebbe mettere in discussione
la validità del «titolo» che abilita
il lavoratore a quell'assenza. Infatti la
giurisprudenza consolidata ritiene che il
certificato medico attestante lo stato di
malattia del lavoratore dipendente può
essere contestato dal datore di lavoro che
abbia motivo di ritenere insussistente la
denunciata malattia del lavoratore
(Cassazione sentenza n. 6010/2000).
In particolare, il datore di lavoro può
domandare in giudizio la verifica
dell'attendibilità della certificazione
prodotta dal lavoratore, anche laddove non
abbia richiesto una visita di controllo
(Cassazione sentenza n. 13056/1997).
Infatti, il controllo delle assenze del
lavoratore per infermità (previsto dal
citato articolo 5 dello Statuto dei
lavoratori) non costituisce l'unico mezzo
concesso al datore di lavoro per contestare
l'attendibilità del certificato medico
prodotto dal lavoratore, che può sempre
mettere in dubbio tale certificazione
mediante il ricorso all'autorità giudiziaria
(Cassazione sentenza n. 1044/1990).
Ciò in quanto la natura di atti pubblici dei
certificati redatti da medici appartenenti
al Servizio sanitario nazionale conferisce a
tali documenti la fede pubblica, fino a
querela di falso, per ciò che concerne i
seguenti fatti: a) la provenienza del
documento dal pubblico ufficiale che lo ha
formato; c) i fatti che il pubblico
ufficiale medesimo attesta di aver compiuto
o essere avvenuti in sua presenza
(Cassazione sentenza n. 5000/1999).
Viceversa, la fede pubblica non si estende
alla diagnosi, e dunque ai giudizi del
medico relativi allo stato di malattia e
alla relativa impossibilità temporanea a
fornire la prestazione lavorativa; Tali
valutazioni, pur essendo dotate di un
elevato grado di attendibilità in ragione
della qualifica funzionale e professionale
del pubblico ufficiale, non sono vincolanti
per il giudice, che può anche decidere di
sconfessarle in presenza di elementi
probatori di segno contrario.
Infatti, sempre l'articolo 5 della legge n.
300/1970, nella parte in cui demanda solo
agli enti pubblici il controllo della
idoneità fisica del lavoratore su richiesta
del datore di lavoro, lascia integro il
potere-dovere del giudice di merito di
controllare l'attendibilità degli
accertamenti sanitari, avvalendosi dei
poteri istruttori che gli conferisce il rito
del lavoro. In tal caso, spiega Fondazione
dei consulenti del lavoro, deve di
conseguenza escludersi che la norma
(articolo 5), la quale ha inteso garantire
l'imparzialità della valutazione tecnica
affidandola ad organi pubblici, abbia
attribuito alle predette indagini una
particolare insindacabile efficacia
probatoria (Cassazione sentenza n.
6045/2000)
(articolo ItaliaOggi
Sette del 14.05.2012). |
COMPETENZE GESTIONALI - INCARICHI
PROFESSIONALI: Al
Sindaco e al Presidente della provincia,
quali legali rappresentanti dell’ente, può
riconoscersi solo il potere di conferire il
mandato al difensore, fermo restando che la
decisione in ordine all’opportunità o meno
di agire o resistere in giudizio spetta al
dirigente nella cui sfera di competenza
rientra il rapporto sostanziale che viene in
rilievo.
Il Collegio è consapevole che gran parte
della giurisprudenza ritiene che negli enti
locali –e nel sistema del d.lgs. 17.08.2000,
n. 267- il potere di agire e resistere in
giudizio (e il conseguente conferimento del
mandato alle liti al difensore) è funzione
spettante al Sindaco o al Presidente della
provincia, quali rappresentanti legali
dell’ente, senza che occorra, in difetto di
diverse disposizioni statutarie o
regolamentari che attribuiscano il potere in
questione alla giunta o al personale munito
di qualifica dirigenziale, un’autorizzazione
da parte di questi ultimi organi (Consiglio
di Stato, sez. IV, 01.10.2008, n. 4744,
Cassazione civile, sez. un., 10.12.2002, n.
17550); di conseguenza il Presidente della
provincia (e il Sindaco) legittimamente
conferiscono al difensore il mandato
professionale senza che occorra che siano
autorizzati da altri organi (ciò tra l’altro
significherebbe che il mandato conferito ai
controinteressati dal Presidente della
provincia resterebbe valido e efficace anche
in caso di annullamento della delibera della
giunta impugnata, che sarebbe un atto
sostanzialmente non necessario o “inutile”).
Tuttavia questa impostazione non è
condivisibile.
La decisione di agire e resistere in
giudizio e, se è per questo e a maggior
ragione, la scelta del professionista cui
affidare il patrocinio, non possono che
esser considerate una decisione di carattere
gestionale attinente ai rapporti di
carattere sostanziale che volta a volta
vengono in rilievo, che è pertanto
riservata, in base all’articolo 107 del
d.lgs. 17.08.2000, n. 267, al personale
burocratico e non agli organi di governo,
cui è riservato invece l’esercizio del
potere di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo.
Del resto, ad es., non potrebbe dubitarsi
che la decisione di transigere in ordine
alla controversia e la definizione dei
termini della transazione siano un compito
dei dirigenti (cui spetta, per espressa
disposizione di legge, la stipulazione dei
contratti); insomma –una volta affermato il
principio che spetta ai dirigenti la
gestione della sfera di attribuzioni
dell’ente rientrante nella competenza degli
organi cui sono preposti e l’adozione di
tutti i relativi atti che impegnano l’ente
nei rapporti con i terzi- non può non
ritenersi che questa competenza abbracci
ogni aspetto e decisione attinente alla
gestione dei rapporti giuridici facenti capo
all’organo, ivi comprese le decisioni
inerenti alla eventuale instaurazione (o
resistenza) a giudizi e alla definizione
(d’intesa con il difensore dell’ente) delle
relative strategie processuali.
Ciò, del resto, trova conferma nella
disposizione citata che espressamente
assegna ai dirigenti il compito di
presiedere le commissioni di gara e
stipulare i contratti; di conseguenza al
Sindaco e al Presidente della provincia,
quali legali rappresentanti dell’ente, può
riconoscersi solo il potere di conferire il
mandato al difensore, fermo restando che la
decisione in ordine all’opportunità o meno
di agire o resistere in giudizio spetta al
dirigente nella cui sfera di competenza
rientra il rapporto sostanziale che viene in
rilievo (Cassazione civile, sez. trib.,
17.12.2003, n. 19380, Consiglio di Stato,
sez. V, 25.01.2005, n. 155)
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 20.07.2011 n. 604 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - INCARICHI
PROFESSIONALI: La
rappresentanza in giudizio del comune è
riservata, in via esclusiva, al Sindaco e
non può essere esercitata dal dirigente
titolare della direzione di un ufficio o di
un servizio neppure se così preveda lo
statuto comunale.
Il riconosciuto potere dei dirigenti di
promuovere o resistere alle liti riguarda la
loro legittimazione processuale e non già la
rappresentanza dell’ente, che è l’elemento
rilevante in materia di notifica degli atti.
---------------
La proposizione di appello giurisdizionale,
da parte del sindaco senza la previa
delibera del competente dirigente comunale,
necessita la previa determinazione del
dirigente in ordine alla opportunità di
promuovere una lite o resistere in giudizio.
Invero, nel vigore dell’ordinamento degli
enti locali approvato con il d.lgs.
18.08.2000 n. 267, la norma dello statuto
comunale che attribuisce al dirigente la
funzione di gestione amministrativa deve
ritenersi comprensiva dell’attribuzione al
medesimo del potere di determinazione -in
luogo della delibera autorizzativa della
giunta municipale- in ordine alla
opportunità di promuovere o resistere ad una
lite, atteso che tale determinazione non
appartiene all’attuazione dell’indirizzo
politico-amministrativo generale del Comune
(spettante al sindaco ed alla giunta), ma
alla gestione amministrativa del singolo
caso, ed assume il carattere di una proposta
e di una valutazione di natura tecnica, la
quale viene accolta discrezionalmente dal
sindaco, quale capo dell’amministrazione ed
esclusivo rappresentante dell’ente locale
dinanzi agli organi giudiziari.
Né ha alcun fondamento la tesi
dell’appellato, secondo la quale la notifica
sarebbe rituale, perché il vigente (anche
all’epoca in cui il ricorso è stato
proposto) statuto comunale attribuisce ai
dirigenti il potere di promuovere e
resistere alle liti.
Invero, a prescindere dalla dubbia
legittimità di una disposizione siffatta
-considerato che, secondo un fermo
orientamento della Corte di Cassazione, la
rappresentanza in giudizio del comune è
riservata, in via esclusiva, al Sindaco e
non può essere esercitata dal dirigente
titolare della direzione di un ufficio o di
un servizio neppure se così preveda lo
statuto comunale (cfr., tra le sentenze più
recenti, Cass. civ., Sez. Trib., 07.06.2004
n. 10787)- il riconosciuto potere dei
dirigenti di promuovere o resistere alle
liti riguarda la loro legittimazione
processuale e non già la rappresentanza
dell’ente, che è l’elemento rilevante in
materia di notifica degli atti.
Per quanto concerne, poi, l’eccezione di
inammissibilità dell’appello, per essere
stato proposto dal sindaco senza la previa
delibera del competente dirigente comunale,
si deve convenire che, al riguardo, non solo
da questo Consiglio, con il precedente
invocato a sostegno di detta argomentazione
(Sez. IV, 05.07.1999 n. 1164), ma, in epoca
più recente, anche dalla Corte di Cassazione
(cfr. Cass. Civ., Sez. Trib., 17.12.2003 n.
19380) è stato affermato che occorre la
previa determinazione del dirigente in
ordine alla opportunità di promuovere una
lite o resistere in giudizio.
In particolare, la Corte di Cassazione ha
chiarito che, nel vigore dell’ordinamento
degli enti locali approvato con il d.lgs.
18.08.2000 n. 267, la norma dello statuto
comunale che attribuisce al dirigente la
funzione di gestione amministrativa deve
ritenersi comprensiva dell’attribuzione al
medesimo del potere di determinazione -in
luogo della delibera autorizzativa della
giunta municipale- in ordine alla
opportunità di promuovere o resistere ad una
lite, atteso che tale determinazione non
appartiene all’attuazione dell’indirizzo
politico-amministrativo generale del Comune
(spettante al sindaco ed alla giunta), ma
alla gestione amministrativa del singolo
caso, ed assume il carattere di una proposta
e di una valutazione di natura tecnica, la
quale viene accolta discrezionalmente dal
sindaco, quale capo dell’amministrazione ed
esclusivo rappresentante dell’ente locale
dinanzi agli organi giudiziari
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 25.01.2005 n. 155 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 14.05.2012 |
ã |
UTILITA' |
SICUREZZA LAVORO: Ecco
la guida completa alla prevenzione incendi e
alla valutazione del rischio d’incendio.
Il D.Lgs. 81/2008 (Testo Unico sulla
Sicurezza) e s.m.i. obbliga ogni datore di
lavoro, in relazione alla natura
dell’attività dell’azienda di cui è
responsabile, ad una valutazione dei rischi
cui sono esposti i lavoratori.
L’INAIL ha pubblicato la nuova guida
antincendio, contenente i criteri generali
di sicurezza antincendio per la gestione
dell’emergenza sui luoghi di lavoro.
Il documento è utile a tutti i tecnici
impegnati nel settore della sicurezza o
dell’antincendio, ai datori di lavoro, ai
responsabili del servizio di prevenzione e
protezione e ai responsabili dei lavoratori
per la sicurezza.
Infatti, la guida risulta molto completa e
tratta i seguenti argomenti:
● Evoluzione normativa antincendio
● Criteri generali di prevenzione incendi
● Valutazione del rischio incendio
● Criteri di verifica della resistenza al
fuoco e calcolo del carico d’incendio
● Quantificazione e dislocazione degli
estintori
● Tipologie di impianti di estinzione
● Piano di emergenza
● Formazione e informazione
● Esempio di registro della sicurezza
antincendio
● Schede tipo sulla formazione ed
esercitazioni antincendio
● Glossario antincendio
Il documento può essere utilizzato anche
come strumento per la formazione antincendio
per le figure impegnate nella sicurezza
(11.05.2012 - link a www.acca.it). |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Chiarimenti alla nota prot.
DCPREV 1324 del 07.02.2012 "Guida per
l'installazione degli impianti fotovoltaici
- Edizione 2012" (Ministero
dell'Interno,
nota
04.05.2012 n. 6334 di prot.). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 19 del
10.05.2012, "Testo
coordinato della l.r. 11.03.2005, n. 12
«Legge per il governo del territorio»". |
APPALTI:
G.U. 08.05.2012 n. 106 "Disposizioni
urgenti per la razionalizzazione della spesa
pubblica" (D.L.
07.05.2012 n. 52).
---------------
In Gazzetta il
decreto-Legge sulla Spending Review:
Modifiche al Codice dei contratti ed al
regolamento.
Sulla Gazzetta ufficiale n. 106 di ieri 8
maggio è stato pubblicato il decreto-legge
07.05.2012, n. 52 recante “Disposizioni
urgenti per la razionalizzazione della spesa
pubblica” sulla cosiddetta Spending Review.
Il decreto-legge in argomento introduce
ulteriori modifiche al Codice dei contratti
ed al Regolamento di attuazione e nuove
norme per garantire la trasparenza negli
appalti pubblici.
Nel dettaglio con
l'articolo 8
del provvedimento viene previsto che saranno
resi pubblici, attraverso l'Osservatorio dei
contratti pubblici dell'Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici di lavori,
servizi e forniture, tutti i dati relativi
agli appalti di lavori, servizi e forniture
e nel dettaglio il contenuto dei bandi e dei
verbali di gara, i soggetti invitati,
l'importo di aggiudicazione, il nominativo
dell'affidatario e del progettista ma anche,
la data di inizio dei lavori, gli stati di
avanzamento, la data di ultimazione e del
collaudo.
I dati saranno resi pubblici con modalità
che consentiranno la ricerca delle
informazioni anche aggregate relative
all’amministrazione aggiudicatrice,
all’operatore economico aggiudicatario ed
all’oggetto della fornitura.
Con l'articolo 11
rubricato come "Mercato elettronico della
Pubblica Amministrazione" viene introdotta
una modifica all'articolo 11, comma 10-bis,
lettera b), del Codice dei contratti per
mezzo della quale nel caso di acquisti
effettuati attraverso il "mercato
elettronico della pubblica amministrazione",
non viene applicato il termine di 35 giorni
decorrenti dall'aggiudicazione definitiva
dell'appalto, entro il quale è vietato
stipulare il contratto. Nel caso in cui si
svolgano gare elettroniche sarà, pertanto,
possibile stipulare il contratto anche prima
dei 35 giorni.
Con l'articolo 12
dello schema di decreto-legge rubricato come
"Aggiudicazione di appalti con il criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa"
vengono introdotte alcune di attuazione del
Codice dei contratti ed, in particolare
viene precisato che con il sistema di
aggiudicazione con il criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa viene
prevista una seduta pubblica per l'apertura
delle buste contenenti le offerte tecniche
al fine di procedere alla verifica della
presenza dei documenti prodotti.
Si tratta, certamente, di un notevole passo
avanti in termini di trasparenza ma che
dovrebbe essere ancor più migliorato con una
eventuale modifica dell’articolo 84 del
Codice dei contratti relativo alla
Commissione giudicatrice per rendere più
trasparente la scelta della commissione
stessa (commento tratto da
www.lavoripubblici.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA: L.
Spallino,
Ristrutturazione edilizia senza vincolo di
sagoma: la Regione Lombardia interviene sul
passato
(link a http://studiospallino.blogspot.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: G.
Perrotta,
I delitti contro la pubblica amministrazione (link a www.diritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: G.
Perrotta,
L'attività amministrativa, in riferimento
agli atti della pubblica amministrazione
(link a www.diritto.it). |
LAVORI PUBBLICI: L.
Bellagamba,
LAVORI PUBBLICI: IL PROBLEMA DEI COSTI DELLA
SICUREZZA SOGGETTI AD OFFERTA ECONOMICA, IN
DUE TROPPO GENERALIZZANTI PRONUNCE DEL
CONSIGLIO DI STATO
(10.05.2012 - link a www.linobellagamba.it). |
URBANISTICA:
S. Deliperi,
Il piano di lottizzazione e le relative
convenzioni non sono eterni (link a
www.lexambiente.it). |
QUESITI &
PARERI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Attività organizzata per traffico illecito
di rifiuti.
Domanda.
In tema di delitto di attività organizzata
per il traffico illecito di rifiuti quando
si verifica il presupposto di gestione
abusiva?
Risposta.
Per il Tribunale di Udine, sezione penale
(sentenza del 12.03.2011, numero 1624),
in tema di delitto di attività organizzata
per il traffico illecito di rifiuti per
aversi gestione abusiva «sarebbe sufficiente
una gestione di rifiuti anche astrattamente
lecita, quando, indipendentemente dalla
violazione di specifiche disposizioni
normative si determini empiricamente una
situazione di fatto tale da impedire un
qualunque controllo sulle rispettive fasi di
lavorazione, su quelle di smistamento,
riciclaggio e stoccaggio, restando
definitivamente precluse le corrette e
doverose procedure cautelative, così da
suscitare rischi di contaminazioni e
commistioni, dalle quali si può suscitare,
in una condizione di dissesto e di
squilibrio territoriale e ambientale, un
pericolo per la pubblica incolumità».
Pertanto, per il Tribunale di Udine, il
delitto di cui all'articolo 53-bis del
decreto legislativo 05.02.1997, numero
22, ora articolo 260 del decreto legislativo
numero 152, del 03.04.2006, che sanziona
i soggetti che gestiscono in modo abusivo
grosse quantità di rifiuti allo scopo di
conseguire un ingiusto profitto, si
perfeziona quando, al di là della violazione
di specifiche disposizioni normative, viene
a determinarsi, come su riportato, una
situazione di fatto tale da impedire un
qualunque controllo sulla gestione dei
rifiuti, restando definitivamente precluse
le corrette e doverose procedure
cautelative, così da suscitare rischi di
contaminazioni e commistioni, dalle quali si
può suscitare, in una condizione di dissesto
e di squilibrio territoriale ed ambientale,
un pericolo per la pubblica incolumità.
La Corte di cassazione, sezione III, con le
sentenze dell'08.01.2008, ricorso P. ed
altri, del 06.10.2005, ricorso C., e del
10.07.2008, ricorso A., in tema di delitto
di attività organizzata per il traffico
illecito di rifiuti ha sottolineato, che ai
fini della contestazione del relativo reato,
hanno valenza quella attività, da
qualificare abusive per il fatto di essere
sostanzialmente o totalmente difformi
dall'autorizzazione. Pertanto, per la
Suprema corte sono fuori dall'area del
delitto summenzionato quelle violazioni
formali, prive della necessaria potenzialità
offensiva nei confronti del bene tutelato (articolo
ItaliaOggi Sette del 07.05.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Traffico illecito di rifiuti.
Domanda.
Vorrei avere qualche chiarimento sul
soggetto responsabile, nonché sul concetto
di quantitativo ingente di rifiuti con
riferimento al delitto di attività
organizzata per il traffico illecito di
rifiuti.
Risposta.
Il Tribunale di Udine, sezione penale, con
la sentenza del 12.03.2011, numero 1624,
assecondando l'indirizzo giurisprudenziale
in atto ha affermato che, in tema di
individuazione del soggetto responsabile nel
delitto di attività organizzata per il
traffico illecito di rifiuti, «_ la
pluralità delle operazioni attraverso
l'allestimento di mezzi ed attività
continuative ed organizzate costituiscono
elementi che devono configurarsi
cumulativamente».
Ha aggiunto, poi, che il
concetto di quantitativo ingente di rifiuti
«non può essere desunto, né automaticamente
dalla stessa organizzazione e continuità
dell'attività di gestione dei rifiuti, né
nell'ipotesi di traffico illecito eseguito
ad esempio in una discarica autorizzata, dal
rapporto tra il quantitativo di rifiuti
gestiti illecitamente e l'intero
quantitativo di rifiuti trattati nella
discarica, dovendosi in tale caso fare
riferimento al lato oggettivo della mole dei
rifiuti non autorizzati ed abusivamente
gestiti»; va riferito: «_ al quantitativo di
materiale complessivamente gestito
attraverso una pluralità di operazioni,
anche se queste, considerate singolarmente
potrebbero essere di modesta entità».
Il
citato tribunale ha sottolineato, pure, che
il profitto «non deve avere carattere
necessariamente patrimoniale_ ben potendo lo
stesso essere integrato dal mero risparmio
dei costi o dal perseguimento di vantaggi di
altra natura o dalla mera circostanza che
dai vantaggi produttivi dell'impianto possa
discendere un premio di produzione o un
incentivo per l'indagato», oppure il
«rafforzamento della posizione apicale
nell'ambito della struttura dirigenziale
dell'impresa, con conseguente vantaggio
personale immediato e futuro, degli indagati
artefici dei risparmi dei costi di
produzione».
Il lettore può consultare, anche, la
sentenza della Corte di cassazione, sezione
III, del 10.11.2005, ric. C., Ced
232350, nonché la sentenza della stessa
Corte, stessa sezione, del 09.08.2006,
ric. B., Ced 234931 (articolo
ItaliaOggi Sette del 07.05.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Gestione dei rifiuti.
Domanda.
Si chiede quando si concretizza il reato
connesso alla gestione dei rifiuti?
Risposta.
Il delitto connesso a qualsiasi forma di
gestione dei rifiuti sussiste, alla luce
dell'articolo 183, del decreto legislativo
numero 152, del 2006, così come riscritto
dal decreto legislativo numero 205, del
2010, quando vengono commessi atti illeciti
in ordine «la raccolta, il trasporto, il
recupero e lo smaltimento dei rifiuti,
compresi il controllo di tali operazioni e
gli interventi successivi alla chiusura dei
siti di smaltimento, nonché le operazioni
effettuate in qualità di commerciante o
intermediario».
Il Tribunale di Udine, Sezione penale, con
la sentenza del 12.03.2011, numero 1624,
ha puntualizzato che, in ordine alla
gestione dei rifiuti, il risparmio dei costi
della produzione e la sua ingiustizia deve
essere riconosciuta non soltanto quando il
profitto sia stato conseguito con modalità
illecite, e cioè con modalità esplicitamente
contra legem, ma anche quando esso sia
collegato a mediazioni o traffici illeciti o
ad operazioni volte a manipolazioni
fraudolente dei codici tipologici.
Il lettore, in materia, può consultare,
anche, la sentenza della Corte di
cassazione, sezione III, del 10.11.2005, ric. C., Ced 232350, nonché la
sentenza della stessa Corte, stessa sezione,
del 09.08.2006, ric. B., Ced 234931 (articolo
ItaliaOggi Sette del 07.05.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Delitto di disastro ambientale.
Domanda.
Quando si parla di delitto di disastro
ambientale?
Risposta.
Per aversi il delitto di disastro
ambientale, secondo la costante
giurisprudenza (per tutti cfr., Corte
costituzionale, sentenza dell'01.08.2008,
numero 327), occorre che l'evento di danno o
di pericolo per la pubblica incolumità deve
essere molto grave e complesso, ma non
immane. A tal fine, è sufficiente, nonché
necessario, che il danno deve essere di
prorompente diffusione tale da esporre al
pericolo, nell'insieme, un numero
indeterminato di persone.
Inoltre l'eccezionalità della dimensione dell'evento
deve destare un esteso senso di allarme.
Pertanto, non è necessario che il fatto
abbia direttamente prodotto, nella
collettività, morte o lesioni alle persone.
Esso, infatti, può colpire anche le cose,
purché dalla rovina di queste scaturisca,
nell'effettività, un pericolo grave per la
salute della collettività. Non è necessario
che questo delitto comporti un danno, o un
pericolo di danno, ambientale di eccezionale
gravità non necessariamente irreversibile,
ma certamente non riparabile con le normali
opere di bonifica.
Per la dottrina «la polimorfa figura
giurisprudenziale del disastro ambientale
viene usata attraverso inammissibili e
infondate prospettazioni accusatorie al fine
di aggirare le difficoltà probatorie in
punto di causalità e di colpevolezza,
mediante il compattamento dei fatti in una
dimensione antistorica e atemporale, al fine
di potere contestare in modo indistinto
un'assorbente macro-figura di disastro
ecologico che, livellando le specifiche
posizioni individuali, si rivela un
pericoloso strumento di elusione
dell'articolo 27 della Costituzione».
Il Tribunale di Udine, sezione penale, con
la sentenza del 12.03.2011, numero 1624,
ha sottolineato (la fattispecie esaminata
riguardava la conduzione illecita di un
depuratore) che «la conduzione illecita del
depuratore (ha) realizzato un disastro
ambientale innominato, consistente nella
compromissione chimica e biologica del
sedimento marino, nell'area circostante la
condotta, mediante un rischio di diffusione,
grazie a probabili fenomeni di biomagnificazione
attraverso la catena trofica di sostanze
tossiche quali i metalli pesanti, trasmesse
agli organismi marini destinati poi
all'alimentazione umana» (articolo
ItaliaOggi Sette del 07.05.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Esposizione a rumore.
Domanda.
Quali sono le modalità di misurazione del
rumore nei luoghi di lavoro?
Risposta.
Una recente sentenza della Corte di
giustizia Ue fornisce utili indicazioni
sulle modalità di misurazione del rumore nei
luoghi di lavoro. Secondo la stessa,
infatti, il livello di esposizione
giornaliera al rumore superiore agli 85 dB(A)
dei lavoratori va misurato senza tenere
conto dell'attenuazione dei Dpi ed il datore
di lavoro ha anzi l'obbligo di applicare un
programma di misure tecniche o organizzative
volte a ridurre alla fonte tale esposizione.
Il caso della sentenza riguarda un
procedimento avviato da due lavoratori,
addetti all'esercizio di una tagliatrice
automatica in un'azienda di produzione di
materiali pietrosi, nei confronti del loro
datore di lavoro.
Nel corso degli accertamenti era risultato
che nell'arco della giornata lavorativa il
livello di rumore al quale erano esposti i
lavoratori superava il valore medio
giornaliero di 85 dB(A) per cui l'azienda,
per porre rimedio a tale situazione, aveva
dotato gli stessi di un dispositivo
individuale di protezione dell'udito grazie
al quale l'esposizione al rumore si era
attenuata ad un livello al di sotto dei
valori inferiori di azione agli 80 dB(A). I
lavoratori, in base al loro contratto
collettivo, hanno chiesto il versamento di
un'indennità salariale, in ragione della
gravosità delle condizioni del loro posto di
lavoro ed hanno fatto quindi ricorso al
competente Tribunale per la legislazione in
materia sociale che ha respinto le loro
domande.
Dopo le decisioni del giudice di rinvio il
caso è stato portato all'attenzione della
Corte di giustizia Ue che si così espressa:
«un datore di lavoro nella cui impresa il
livello di esposizione giornaliera dei
lavoratori al rumore è superiore agli 85 dB(A),
misurato senza tenere conto degli effetti
dell'utilizzo di dispositivi individuali di
protezione dell'udito, non adempie agli
obblighi derivanti dalla direttiva europea
mettendo semplicemente a disposizione dei
lavoratori dei dispositivi di protezione
dell'udito, poiché tale datore di lavoro ha
l'obbligo di applicare un programma di
misure tecniche o organizzative volte a
ridurre tale esposizione al rumore a un
livello inferiore agli 85 dB(A), misurato
senza tenere conto dell'effetto
dell'utilizzo dei dispositivi di protezione
dell'udito» (articolo
ItaliaOggi Sette del 07.05.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: È
on-line l'applicazione per la compilazione
della Dichiarazione MUD 2011?
(04.05.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Comuni
vantano potestà regolamentare in materia di
spandimento dei fanghi biologici?
(04.05.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Nel
FIR devono essere scritti gli orari di
inizio/fine trasporto?
(04.05.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Come
si interpreta il divieto di smaltimento dei
rifiuti urbani di provenienza
extraregionale?
(04.05.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AUTORITA'
VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI |
INCARICHI PROGETTUALI: Tariffe
professionali fuori gara.
Il parametro sono i costi storici più la
media dei ribassi. L'Autorità vigilanza
contratti pubblici sul calcolo dei compensi
per ingegneri e architetti.
Nelle gare di progettazione e direzione
lavori, abrogate le tariffe professionali,
le amministrazioni dovranno definire
l'importo a base di gara con riferimento ai
costi sostenuti per affidamenti analoghi
negli ultimi anni, incrementato della media
dei ribassi; necessario predisporre un
computo metrico delle prestazioni da
affidare; i requisiti di partecipazione non
potranno più essere riferiti alle tariffe,
ma avranno riguardo alle prestazioni
analoghe; non congrue le offerte non
rispondenti ai valori di mercato e comunque
inferiori all'importo dell'incentivo ai
tecnici della pubblica amministrazione.
È
quanto afferma l'Autorità per la vigilanza
sui contratti pubblici nella
delibera
03.05.2012 n. 49 (relatore il consigliere
Giuseppe Borgia) che affronta le più urgenti
tematiche legate all'applicazione, nel
settore degli appalti pubblici di servizi di
ingegneria e architettura, dell'articolo 9
della legge 1/2012, che ha abrogato le
tariffe professionali.
I problemi principali derivanti dalla legge
sulle liberalizzazioni riguardano: la
determinazione dei corrispettivi da porre a
base di gara, l'individuazione dei requisiti
di capacità tecnica e la verifica delle
offerte anomale.
Sul primo punto l'Autorità ribadisce che «alla
luce della abrogazione totale delle tariffe
disposte dall'articolo 9, le stesse non
possono più essere indicate nemmeno quale
possibile riferimento per l'individuazione
del valore della prestazione». Sono
quindi inapplicabili anche le norme del
Regolamento del Codice dei contratti
pubblici che consentivano di richiamare
indirettamente le tariffe professionali,
laddove ritenute motivatamente adeguate.
Il vuoto determinato dalla legge 1/2012
porta quindi l'Autorità presieduta da Sergio
Santoro a fornire indicazioni operative ai
responsabili del procedimento anche al fine
della individuazione della procedura di
affidamento da seguire, che dipende
dall'importo stimato del contratto da
affidare (ad esempio sotto i 40.000 si
procede con affidamento diretto, al di sopra
di tale soglia con una gara informale a 5;
sopra i 100 mila euro con una vera e propria
gara). L'organismo di vigilanza ribadisce
innanzitutto la necessità di una «dettagliata
individuazione delle attività da svolgere e
dei relativi costi»; per fare ciò le
stazioni appaltanti, tenendo conto gli
elaborati previsti dal Regolamento del
Codice, potranno quindi prendere come
riferimento –così suggerisce l'Authority- le
tabelle allegate alla determinazione 5/2010
e indicare dei costi presunti.
In sostanza è come se si arrivasse alla
definizione di una sorta di computo metrico
per la prestazione di servizi di ingegneria
e architettura. Il punto più delicato, però
è quello dell'individuazione dei costi e a
tale riguardo la delibera afferma che
occorre tenere conto del grado di
complessità dell'incarico, dell'importanza
dell'opera e di tutte le voci di costo,
comprese le spese, gli oneri e i contributi
e che un riferimento potrebbe essere quello
dei «costi sostenuti dalla propria
amministrazione o da amministrazioni
consimili negli ultimi anni»,
incrementati «della media dei ribassi
ottenuti in passato».
In sostanza gli importi dei compensi degli
ultimi anni, rapportati al valore delle
opere progettate potrebbero fornire una
percentuale che a sua volta dovrebbe essere
rapportata al costo preventivato dei lavori
da progettare per arrivare al costo stimato
dell'affidamento. Per quel che riguarda i
requisiti di partecipazione, una volta
abrogate le tariffe, i richiami previsti nel
regolamento del Codice alle classi e
categorie della legge 143/1949 (tariffa di
ingeneri e architetti) non sono più
applicabili. L'Autorità suggerisce quindi di
fare riferimento alle tabelle 1, 2 e 3 della
determina 5/2010 in cui le opere progettate
sono raggruppate per destinazione funzionale
(se si affida la progettazione di una scuola
elementare si farà riferimento in generale
agli organismi edilizi per l'istruzione e i
servizi saranno provati con certificati che
in passato facevano riferimento alle classi
e categorie dell'articolo 14 della legge
143/1949.
Infine per la verifica delle offerte anomale
la delibera, precisato che la mancanza di
utile è indice di offerta inaffidabile,
afferma che si può considerare non congruo
l'importo che «al netto del ribasso
offerto in gara risulta inferiore in misura
elevata rispetto all'importo a base di gara»
e quindi la «valore di mercato». In
ogni caso non sarà considerata conseguente
una offerta che preveda un importo più basso
del corrispettivo previsto come incentivo ai
pubblici dipendenti dall'articolo 92 del
Codice
(articolo ItaliaOggi del
12.05.2012). |
CORTE DEI
CONTI |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Incarichi e danno erariale.
Un'altra condanna per danno erariale dalla
Corte dei Conti, Sez. giurisdizionale per
il Lazio, con la
sentenza
19.04.2012 n. 427.
L'oggetto dell'incarico a personale estraneo
sono prestazioni di consulenza
tecnico-amministrativa al Sindaco ed agli
altri organi politici del Comune, rapporti
con organi tecnici di enti sovracomunali,
consulenza sugli adempimenti per i
finanziamenti extra bilancio e per gli
adempimenti del settore tecnico comunale,
rapporti con i professionisti esterni
dell'amministrazione e controllo degli atti
progettuali e amministrativi.
I profili di illegittimità e causa di danno
patrimoniale attengono alla violazione dei
presupposti per il conferimento degli
incarichi esterni previsti dall'art. 7,
comma 6, del d.lgs. 165/2001,
sinteticamente:
- attività ordinaria ed istituzionale
anziché esigenze straordinarie con necessità
di competenze altamente qualificate;
- oggetti non definiti, ma tematiche ad
ampio spettro;
- assenza di una reale ricognizione in
ordine alla mancanza di personale interno
idoneo, quantitativamente e/o
qualitativamente, allo svolgimento dei
compiti;
- assenza di relazioni ricognitive e
riepilogative redatte dal professionista al
termine dell'incarico.
Precisa, la Corte "... nella fattispecie,
l'illiceità della condotta di conferimento
dell'incarico deriva principalmente dal
ricorso allo strumento dell'incarico
esterno, pur in situazione di carenza di
personale, quale mezzo per lo svolgimento di
funzioni ordinarie e continuative" (tratto da www.publika.it).
---------------
...
L'ipotesi di
danno portata all'esame della Sezione
involge, come desumibile dalla precedente
narrativa, in via generale, la problematica
sottesa al conferimento di incarichi a
personale estraneo all'Amministrazione e, in
particolare, le modalità di pratica
attuazione di tali scelte operative, non
improntate, secondo la tesi accusatoria
riferita al caso di specie, al perseguimento
degli obiettivi di economicità ed
efficienza, ed anzi rivelatesi produttive di
un danno concreto a carico
dell'Amministrazione.
La contestazione mossa ai convenuti è quella
di avere nella specie violato oltreché il
principio costituzionale di buon andamento
dell'attività della P.A. anche, nello
specifico, la disposizione di cui all'art. 7
del d.l.vo n. 29/1993, così come modificato
dall'art. 5 del d.l.vo n. 546/1993, che pone
il divieto di conferire incarichi a
personale estraneo all'apparato
amministrativo per l'espletamento di compiti
istituzionalmente attribuiti al personale
dipendente, salvo che si tratti (giusta
quanto ha avuto modo di affermare la
giurisprudenza contabile nella soggetta
materia) di soddisfare esigenze eccezionali
e straordinarie e difetti la struttura
organizzativa necessaria al loro
soddisfacimento, ovvero quando, pur
sussistendo tale struttura, il personale che
vi è addetto non risulti idoneo
quantitativamente e qualitativamente.
Il legislatore, come noto, ha disciplinato
la materia in via generale con l'art. 7, del
d.lgs. 30.03.2001, n. 165 (già d.lgs.
03.02.1993, n. 29 e successive modificazioni
ed integrazioni) che prevede al comma 6 che:
“Per esigenze cui non possono far fronte
con personale in servizio, le
amministrazioni pubbliche possono conferire
incarichi individuali ad esperti di provata
competenza, determinando preventivamente
durata, luogo, oggetto e compenso della
collaborazione.”.
In proposito la giurisprudenza di questa
Corte si è più volte pronunciata indicando i
parametri entro i quali tali rapporti e le
correlative spese sono da ritenersi lecite
(v., fra le altre, Sez. II, 22.04.2002, n.
136/A; Sez. III, 08.01.2003, n. 9 ; Sez. I,
31.05.2005, n. 187; Sez. I, 08.08.2005, n.
259; Sez. Lazio, 21.10.2003, n. 2137).
Il giudice contabile ha ammesso la
legittimazione della P.A. ad affidare il
perseguimento di determinate finalità
all'opera di estranei dotati di provata
capacità professionale e specifica
conoscenza tecnica della materia di cui
vengono chiamati ad occuparsi, ogni volta
che si verifichino:
a) la straordinarietà e l'eccezionalità
delle esigenze da soddisfare;
b) la mancanza di strutture e di apparati
preordinati al loro soddisfacimento, ovvero,
pur in presenza di detta organizzazione, la
carenza, in relazione all'eccezionalità
delle finalità, del personale addetto, sia
sotto l'aspetto qualitativo che
quantitativo.
Tali parametri, se da un lato attestano che
nell'ordinamento non sussiste un generale
divieto per la P.A. di ricorrere ad
esternalizzazioni per l'assolvimento di
determinati compiti, dall'altro, tuttavia,
confermano che la utilizzazione del modulo
negoziale non può concretizzarsi se non nel
rispetto delle condizioni e dei limiti sopra
specificati.
Dal quadro normativo sopra riportato e dalla
giurisprudenza contabile che si è andata via
via formando sia in sede di controllo che in
sede giurisdizionale, è possibile riassumere
i seguenti criteri per valutare la
legittimità degli incarichi e delle
consulenze esterne:
a) rispondenza dell'incarico agli obiettivi
dell'amministrazione;
b) inesistenza, all'interno della propria
organizzazione, della figura professionale
idonea allo svolgimento dell'incarico, da
accertare per mezzo di una reale
ricognizione;
c) indicazione specifica dei contenuti e dei
criteri per lo svolgimento dell'incarico;
d) indicazione della durata dell'incarico.
Ma soprattutto è dato cogliere un principio
normativo di fondo che disciplina tutta la
materia:
il conferimento di incarichi
all'esterno, in qualunque delle ipotesi
sopra riportate, è possibile solo
allorquando nell'ambito della dotazione
organica non sia possibile reperire
personale qualitativamente competente ad
affrontare problematiche di particolare
complessità od urgenza.
A fronte di tale impostazione, i convenuti
si difendono, in buona sostanza, adducendo
la perfetta conformità della delibera di
conferimento dell’incarico in contestazione
ai principi costituzionali, normativi e
giurisprudenziali invocati dalla Procura a
sostegno della domanda, essendosi reso
indispensabile il ricorso alla consulenza
del geometra Scarsella a cagione della
carenza nell'organico di personale ed alla
sussistenza di esigenze particolari.
Tanto precisato occorre verificare se nella
fattispecie dedotta in giudizio ricorrano o
meno le sopra richiamate condizioni.
La delibera G.M. n. 105 del 24/05/2006 di
affidamento dell’ incarico annuale di
consulenza tecnico-amministrativa al Geom.
S.M. per l’importo di €
22.032,00, prevedeva lo svolgimento di varie
attività:
- consulenza tecnico-amministrativa al
sindaco ed agli altri organi politici del
Comune;
- rapporti con gli organi tecnici degli Enti
sovracomunali;
- consulenza nella programmazione e sugli
iter burocratici delle opere pubbliche;
- consulenza sugli adempimenti delle
documentazioni relative alla richiesta di
finanziamento extra bilancio;
- consulenza sugli adempimenti
tecnico-amministrativi al settore tecnico
comunale;
- rapporti con i professionisti esterni
dell’amministrazione e controllo degli atti
progettuali e amministrativi.
Dall’esame della sua motivazione e di quanto
emerge agli atti del giudizio in merito alla
situazione del personale in organico,
l'incarico non appare legittimamente
conferito con riferimento alle mansioni
affidate, che si sostanziano in attività
assolutamente affrontabili da un qualunque
tecnico e in assenza di esigenze di
carattere straordinario, o necessità di
competenze altamente qualificate (che non
emergono dal curriculum e comunque non sono
necessarie per l'espletamento
dell'incarico).
Si tratta infatti di attività dirette al
coordinamento delle varie attività tecniche,
al controllo degli atti procedimentali
amministrativi, tutte attività riservate a
dipendenti dell’ente e che, nella specie,
dovrebbero essere, in gran parte, di
competenza dei dirigenti.
Tra l’altro la relazione finale, redatta
dall’Amministrazione (prot. non
V2007/02474), sul lavoro svolto dal geom.
S. evidenzia che gran parte delle
attività elencate (in materia cimiteriale,
di raccolta differenziata, di smaltimento
acque, di sistemazione della rete fognaria)
attengono a mansioni che successivamente
alla riorganizzazione dell’ente erano state
demandate al dipendente U. D’O. (nota
del segretario comunale in data 15.01.2007).
Si consideri inoltre che dalla convenzione
d'incarico non è dato rinvenire un ambito di
intervento del consulente connotato da
oggetti ben definiti, bensì tematiche
d'intervento contenutisticamente orientate
per lo più ad un'attività tecnico
professionale di consulenza propositiva ed
emendativa ad ampio spettro in aperta
violazione con il contenuto del comma 6
dell'art. 7 del d.lvo n. 165/2001.
Ma vi sono ulteriori profili di
illegittimità che val la pena di
evidenziare.
Dagli atti non risulta che l’amministrazione
si sia preoccupata di effettuare una reale
ricognizione in ordine alla mancanza di
personale idoneo a svolgere l'attività
conferita all'esterno.
Al contrario con motivazioni generiche e
prive di riscontri concreti, viene riferita
la assoluta carenza di personale interno
idoneo allo svolgimento dell’incarico
esternalizzato.
E pertanto in presenza di incarico quale
quello in questione connotato da un oggetto
oltremodo esteso per ambiti di intervento e
contemporaneamente generico nella
definizione dei relativi contenuti (e
pertanto censurabile sotto il profilo della
difficoltà di operare un controllo di
ragionevolezza sulla rispondenza delle
prestazioni richieste ad effettive esigenze
dell'amministrazione non altrimenti
fronteggiabili con il personale interno), e
non rivelatisi in rapporto alle particolari
circostanze ed emergenze sopra evidenziate
sicuramente orientato al raggiungimento di
finalità istituzionali, non sussistendo agli
atti relazioni ricognitive e riepilogative
redatte dal professionista al termine
dell'attività - ritiene il Collegio
ravvisabile nel comportamento posto in
essere dalle parti convenute la sussistenza
del requisito della gravità della colpa.
Inoltre, ancorché sia provata nella
fattispecie la carenza di personale, non
pare ammissibile il ricorso allo strumento
dell'incarico esterno per la attribuzione di
competenze del tutto ordinarie della
amministrazione, svincolate da esigenze di
carattere straordinario o eccezionale. In
altri termini, se pur mancasse personale
adeguato per le attività segnalate, non è
per ciò solo dimostrato che una razionale ed
efficiente organizzazione dell’Ente non
avrebbe potuto aversi, facendo invece leva
su meccanismi di adibizione temporanea di
personale di altri uffici eventualmente
utilizzabile, e che nella fattispecie non è
affatto dimostrato che fosse inesistente o,
appunto, inutilizzabile.
Inoltre occorre aggiungere, come sostenuto
anche dalla Procura che
se effettivamente
sussistevano necessità di personale, si
sarebbero potute colmare le carenze
strutturali con assunzioni a tempo
indeterminato. Tali assunzioni, al contrario
di quanto affermato in sede di deduzioni
dalle parti convenute, potevano essere
effettuate, nei limiti previsti dalle norme
per il personale degli enti locali.
In altri termini,
nella fattispecie
l’illiceità della condotta di conferimento
dell’incarico deriva principalmente dal
ricorso allo strumento dell'incarico
esterno, pur in situazione di carenza di
personale, quale mezzo per lo svolgimento di
funzioni ordinarie e continuative.
Profilo di colpa grave nella condotta dei
convenuti è dunque quello di non aver
utilizzato lo strumento dell'incarico
esterno conformemente alla lettera e allo
spirito delle disposizioni sull'utilizzo del
personale nelle pubbliche amministrazioni
sopra citate e del più generale principio di
economicità nella spesa, accertandosi
previamente della impossibilità del ricorso
all'utilizzo di altro personale in servizio
presso l’Ente.
In ordine all'imputabilità del fatto, il
Collegio ritiene che dell'instaurazione dei
rapporti negoziali produttivi di danno
ingiusto per l'erario devono ritenersi in
buona parte coloro che concorsero ad
approvare la delibera n. 105 del 24/05/2006
(T., Di N., Di S., C.,
V.) il cui comportamento illecito, alla
luce degli elementi probatori in atti,
configura sotto l'aspetto soggettivo la
colpa grave contestata dal Requirente.
Infatti la condotta dei medesimi non è
risultata conforme al dettato normativo,
essendosi discostati con evidente e
inescusabile leggerezza dal modello
organizzativo previsto dal sistema e che,
per la posizione rivestita, avrebbero dovuto
ben conoscere.
Il comportamento dei convenuti,
contrassegnato dalla mancanza di una idonea
e preventiva valutazione circa la
sussistenza dei presupposti necessari per il
legittimo conferimento dell'incarico e per
il conseguente pagamento della prestazione,
deve ritenersi ingiustificabile e
approssimativo, considerato anche che non si
rinvengono nella fattispecie situazioni e
circostanze particolari atte a dar luogo ad
errore scusabile.
Pertanto, nel rammentare che, ai sensi
dell’art. 1 della legge 20 del 1994, testo
novellato dall’art. 3 del decreto-legge n.
543 del 1996 convertito con legge 639 del
1996 il criterio di imputazione del danno
all’agente è ormai costituito dalla colpa
grave, che la giurisprudenza individua nella
“sprezzante trascuratezza dei propri
doveri, resa estensiva da un comportamento
improntato alla massima negligenza o
imprudenza, ovvero ad una particolare
noncuranza degli interessi dell’Ente
amministrato o ancora a grossolana
superficialità nell’applicazione del norme
di diritto” (SSRR 27/A/1997), osserva il
Collegio che nella fattispecie, condizioni
simili possono ritenersi presenti a carico
dei sig.ri F.T., A. Di N., M.C., G.V. e V.
di S. (link a www.corteconti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Rimborso
spese legali a maglie larghe.
Il rimborso delle spese legali al personale
per procedimenti relativi alle attività di
ufficio spetta anche nel caso in cui non vi
sia stato il preventivo coinvolgimento
dell'ente nella scelta dell'avvocato:
l'amministrazione può in questo caso
limitare la cifra. Esso deve inoltre essere
effettuato nel caso di sentenza di non luogo
a procedere caratterizzata dal
proscioglimento di merito.
Sono queste le indicazioni contenute nei
pareri 05.04.2012 n.
245 e
12.03.2012 n. 184 della sezione regionale di controllo
della Corte dei conti del Veneto.
L'importanza di questi
pareri è costituita essenzialmente dalla
decisione con cui si fa prevalere il dato
sostanziale, il diritto di derivazione
costituzionale di non dover sostenere oneri
per la difesa relativamente a fatti
d'ufficio, sulle carenze di tipo formale.
Il diritto al rimborso matura anche se «la
circostanza che sia stata emessa una
sentenza di non luogo a procedere,
nonostante la sua natura preminentemente
processuale che le impedirebbe di escludere
giudizialmente la responsabilità
dell'imputato per dolo o colpa grave: ciò
non rende, di per sé, legittimo il diniego
del diritto al rimborso delle spese
processuali sostenute dal dipendente. Così
argomentando si vedrebbe compromessa la
stessa ratio della disciplina sopra
illustrata che vuole appunto evitare che il
dipendente pubblico, ingiustamente accusato
di presunti fatti illeciti commessi
nell'adempimento dei propri doveri
d'ufficio, debba sopportare il peso
economico della propria difesa in giudizio».
Per cui il parere conclude che deve «essere
rimesso al prudente apprezzamento della
singola amministrazione valutare se, nel
caso concreto, ricorrano i presupposti sopra
evidenziati per poter procedere al rimborso
delle spese legali nei termini previsti
dalla legge».
Il rimborso «postumo» delle spese legali,
cioè in assenza della preventiva intesa tra
il dipendente e l'ente sulla scelta del
legale, è ammissibile.
Il parere richiama i principi dettati
dall'articolo 51 della Costituzione, ma
«l'amministrazione di appartenenza dovrà
verificare, all'esito del procedimento (in
questo senso ex post), che non sussista un
conflitto di interessi tra l'attività
istituzionale dell'ente e la condotta del
lavoratore».
Si deve pervenire a tale conclusione perché
«il principio del diritto alla difesa non
può subire alcuna limitazione, sempre a
condizione che il giudizio si sia concluso
con una sentenza favorevole» e come tale
«diritto al rimborso delle spese sostenute
in un giudizio penale non può essere escluso
dalla circostanza che il comune non abbia
previamente espresso il proprio assenso
nella scelta del difensore da parte
dell'interessato». Il che vuol dire che esse
devono verificare essenzialmente la misura
del rimborso delle spese legali, che viene
qualificato dal parere come un atto a natura indennitaria
e non risarcitoria.
Da qui discende la conseguenza che «l'amministrazione
non sarebbe più tenuta a un rimborso pieno
della parcella in assenza della preventiva
intesa, possa ridurre il rimborso alla parte
della spesa che la stessa avrebbe assunto
ove la scelta fosse stata concordata»,
anche senza tenere conto del parere espresso
dall'organo professionale.
E, infine, vista l'abrogazione dei minimi
tariffari le amministrazioni possono «fare
riferimento, ai fini della verifica della
congruità della parcella da rimborsare, al
dm 08.04.2004, n. 127 (G.U. 18/05/2004, n.
115) con il quale è stato approvato il
regolamento per la determinazione degli
onorari, dei diritti e delle indennità
spettanti agli avvocati per le prestazioni
giudiziali»
(articolo ItaliaOggi dell'11.05.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Enti privi di dirigenza – trattamento
accessorio dei dipendenti con qualifica.
La Corte dei Conti per la Lombardia con
il
parere 05.04.2012 n. 124 ha
risposto ad una richiesta di chiarimenti
posta da un comune su una questione
concernente le modalità di determinazione
dell'"ammontare complessivo delle risorse
destinate annualmente al trattamento
accessorio del personale di cui all'art. 9,
comma 2-bis, Decreto Legge n. 78/2010,
convertito con modifiche con Legge n.
122/2010, le indennità corrisposte ai
dipendenti con qualifica apicale degli enti
privi di dirigenza ai quali sono corrisposte
specifiche responsabilità ai sensi dell'art.
109, comma 2, del Decreto Legislativo n.
267/2000".
La Corte afferma che "le risorse da
assoggettare a contenimento sono
identificabili con quelle che confluiscono
nel fondo delle risorse decentrate, (...) si
deve ritenere che nel calcolo dell'ammontare
complessivo delle risorse previste per il
trattamento accessorio, tanto per la
definizione del limite (totale del 2010)
tanto per il computo del monte dell'anno di
rifermento, si deve tenere conto solo delle
somme rivenienti dal fondo per la
contrattazione decentrata e non di quelle
attinte direttamente dal bilancio. (...) In
merito alla possibilità per i Comuni privi
di dirigenza di procedere comunque ed in
ogni caso alla retribuzione del personale
non dirigente incaricato ai sensi del comma
2 dell'art. 109 T.U.E.L., a prescindere dal
superamento del tetto fissato dall'art. 9,
comma 2-bis, del D.L. n. 78 del 2010, la
Sezione ha ritenuto che la questione
rimanesse assorbita da quanto sopra
richiamato a proposito dell'identificazione
della base di calcolo della norma
(l'"ammontare complessivo") con i fondi per
la contrattazione decentrata".
La Corte ha poi concluso ritenendo che "in
definitiva, è onere dell'amministrazione
adottare moduli organizzativi che consentano
di dotarsi di soggetti abilitati ad agire
con i poteri dei dirigenti con i necessari
risparmi di spesa, come, ad esempio,
l'attribuzione di tali funzioni ai
componenti dell'organo esecutivo (ai sensi
dell'art. 53 della Legge n. 388 del 2000).
In ogni caso, resta ferma la necessità per
l'amministrazione medesima di verificare la
compatibilità di qualsiasi scelta con la
vigente disciplina finanziaria". |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Indennità di funzione e gettoni di presenza
– riduzione 10%.
La Corte dei Conti Toscana, con
parere 13.03.2012 n. 32 ha
risposto ad una richiesta di chiarimenti
posta da un Comune in cui si chiede se ai
nuovi amministratori dell'ente si debba
applicare la disciplina di cui all'art. 1,
comma 54, della L. 266/2005 (inerente la
riduzione del 10% degli emolumenti a titolo
di indennità di funzione e di gettoni di
presenza) e di conseguenza se ad essi spetti
l'indennità di funzione e di presenza nella
misura edittale di cui al D.M. 119/2000 con la
riduzione del 10%, oppure l'intera misura
edittale, anche alla luce della delibera n.
1/2012 delle Sezioni Riunite della Corte dei
conti.
La Corte chiarisce che "Le Sezioni Riunite,
con deliberazione 12.01.2012 n. 1
resa in funzione nomofilattica ai sensi
dell'art. 17, comma 31, del decreto-legge 01.07.2009, n. 78, convertito, con
modificazioni, dalla legge 03.08.2009, n.
102, affermano che all'attualità,
l'ammontare delle indennità e dei gettoni di
presenza spettanti agli amministratori e
agli organi politici delle Regioni e degli
Enti locali, non possa che essere quello in
godimento alla data di entrata in vigore del
citato DL 112 del 2008, cioè dell'importo
rideterminato in diminuzione ai sensi della
legge finanziaria per il 2006; ritengono
altresì di richiamare come l'intera materia
concernente il meccanismo di determinazione
degli emolumenti all'esame è stata da ultimo
rivista dall'art. 5, comma 7, del DL 78 del
2010, convertito nella legge 122 del
medesimo anno, che demanda ad un successivo
decreto del Ministro dell'Interno la
revisione degli importi tabellari,
originariamente contenuti nel d.m. 04.08.2000 n. 119 sulla base di parametri legati
alla popolazione, in parte diversi da quelli
originariamente previsti. Ad oggi, il
decreto non risulta ancora approvato e deve
pertanto ritenersi ancora vigente il
precedente meccanismo di determinazione dei
compensi".
I giudici ritengono dunque "vigente e
applicabile l'art. 1, comma 54, della L.
266/2005 al caso di specie, sottolineando
che la misura alla quale fare riferimento è
quella edittale decurtata della percentuale
di cui all'art. 1, comma 54 ,della L.
266/2005, anche sul presupposto che
l'intenzione del legislatore con la norma di
cui all'art. 76, comma 3, L. 133/2008 che ha
introdotto l'attuale versione dell'art. 82,
comma 11, del TUEL, è stata quella di negare
incrementi "delle indennità rispetto alla
misura massima edittale di cui al D.M.
119/2000" (come precisato anche dalla
Sezione delle autonomie con deliberazione n.
6/2010)". |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti, assunzioni a ostacoli.
Contratti soggetti ai vincoli della legge
Brunetta e del dl fiscale. Sono cinque i
paletti da rispettare per incrementare le
dotazioni di manager a termine.
Le assunzioni di dirigenti e, negli enti che
ne sono sprovvisti, di responsabili sono
sottoposte sia ai limiti numerici dettati
dalla legge Brunetta e ampliati dalla
recente legge n. 44/2012 sia ai limiti di
spesa per le assunzioni flessibili. Sfuggono
da questi limiti invece i comandi, le
assunzioni finanziate dalla Ue, da altre
p.a. o da privati e le convenzioni per la
gestione associata.
Sono queste le indicazioni operative che
stanno emergendo nell'applicazione delle più
recenti disposizioni dettate in materia di
assunzioni di personale.
Come precisato da numerose sezioni regionali
di controllo della Corte dei conti, ex pluris
parere 31.01.2012 n. 6 della sezione della
Toscana, non vi sono ragioni per escludere
la spesa per le assunzioni a tempo
determinato di dirigenti e/o responsabili ai
sensi dell'articolo 110, sia comma 1,
copertura di posti vacanti in dotazione
organica, sia comma 2, extra dotazione
organica, dal tetto alla spesa per le
assunzioni flessibili.
Per cui queste
assunzioni sono sottoposte ai seguenti
cinque vincoli: avere rispettato il patto di
stabilità (ovviamente per gli enti
soggetti), avere rispettato il tetto alla
spesa del personale (cioè l'anno precedente
per gli enti soggetti al patto e il 2008 per
quelli non soggetti al patto), avere
rispettato il rapporto massimo del 50% tra
spesa del personale (ivi compresa quella dei
dipendenti delle società dell'ente) e spesa
corrente (cioè i vincoli dettati per tutte
le assunzioni), restare entro il tetto del
50% della spesa per le assunzioni flessibili
sostenuta nel 2009 e restare entro i tetti
numerici per queste assunzioni (tetti che
sono stati aumentati per gli enti locali
dalla recente legge n. 44/2012).
Il sommarsi
dei vincoli di spesa per le assunzioni
flessibili e di quelli numerici alle
assunzioni ex articolo 110 Tuel è spiegato
dalla diversa finalità a cui tali vincoli
sono preordinati: riduzioni della spesa del
personale e del ricorso a forme di lavoro
precario per il tetto alla spesa,
penalizzazioni per il ricorso allo spoil
system per il tetto numerico. Ovviamente, le
assunzioni di dirigenti e/o responsabili che
sono disposte nel 2012 per i vigili e dal
2013 per i vigili e le funzioni di
istruzione pubblica e servizi sociali, vanno
al di fuori del tetto alla spesa in quanto
il legislatore ha previsto specifiche
deroghe.
La sezione regionale di controllo della
Corte dei conti della Liguria, con il
recente
parere
27.02.2012 n. 7, ha chiarito che gli
oneri sostenuti per i comandi non vanno
compresi nel tetto alla spesa per le
assunzioni flessibili. Alla base di tale
considerazione il fatto che in questo caso
non siamo in presenza di un'assunzione, ma
di una forma di utilizzazione che non
comporta alcun ingresso dall'esterno.
Per cui, mentre è da considerare scontato
che gli oneri sostenuti a questo titolo
devono essere compresi tra le spese del
personale dell'ente che li utilizza, non si
può arrivare al loro inserimento tra quelli
per le assunzioni flessibili in quanto non
siamo in presenza di un rapporto di lavoro
subordinato che si costituisce ex novo,
dovendo il comando essere considerato come
una forma di utilizzazione.
La stessa sezione regionale di controllo,
con il
parere
02.03.2012 n. 9, ha chiarito che le
assunzioni flessibili finanziate interamente
dalla Unione europea, da altre pubbliche
amministrazioni o da privati non debbano
essere inserite nel tetto del 50% della
spesa sostenuta nell'anno 2009.
Si deve pervenire a questa conclusione in
quanto l'ente non è in alcun modo coinvolto
in tali oneri; ovviamente ciò impone che vi
sia il finanziamento integrale da parte di
tali amministrazioni. Ricordiamo che analogo
orientamento è già consolidato da tempo per
gli incarichi di consulenza, studio e
ricerca.
Si deve infine ricordare che anche gli oneri
determinati dalle convenzioni tra enti
locali stipulate ai sensi dell'articolo 30
del dlgs n. 267/2000 vanno al di fuori della
spesa per le assunzioni flessibili e, più in
generale, anche di quella per il personale.
In questi casi siamo infatti in presenza di
una fornitura di servizi, per cui in
tutt'altro ambito di applicazione
(articolo ItaliaOggi dell'11.05.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
NEWS |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Per il T.u. ambientale le riforme
non finiscono mai. Via libera al senato per
il ddl con le novità in materia di rifiuti
da potatura e materassi dismessi.
Non sarà considerato rifiuto il materiale
derivante dalla potatura degli alberi,
proveniente anche dalle attività di
manutenzione delle aree verdi urbane, se
utilizzato per la produzione di energia da
tale biomassa, mediante processi o metodi
che non danneggiano l'ambiente né mettono in
pericolo la salute umana.
Questo l'art. 1
del disegno di legge recante «modifiche al
decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, e
altre disposizioni in materia ambientale»
(T.u. ambientale), approvato in seconda
lettura dal senato il 9 maggio scorso e ora
alla camera per il via libera definitivo.
Ciò dovrebbe porre fine alla «querelle» che
si era originata in varie aree verdi per la
gestione di questo materiale, conteso tra
municipalizzate e altre organizzazioni.
Ma potremmo essere anche alla vigilia
dell'istituzione di una sorta di «Assomaterasso».
Infatti l'art. 19 prevede che il ministero
dell'ambiente entro 90 giorni dalla data di
entrata in vigore della leggi emani un
decreto per la gestione dei materassi
dismessi, specificando le modalità di
recupero, prevedendo l'introduzione di
meccanismi che in osservanza delle normative
nazionali e comunitarie favoriscano il
recupero e l'avvio al riciclaggio dei
materiali impiegati.
Altra norma molto importante è quella
contenuta nell'art. 2 del ddl che prevede
che i materiali di scavo provenienti dalle
miniere dismesse, o comunque esaurite,
collocate all'interno dei siti di interesse
nazionale, possono essere utilizzati
nell'ambito delle medesime aree minerarie
per la realizzazione di reinterri,
riempimenti, rimodellazioni, miglioramenti
fondiari o viari oppure altre forme di
ripristini e miglioramenti ambientali, a
condizione che la caratterizzazione di tali
materiali, tenuto conto del valore di fondo
naturale, abbia accertato concentrazioni
degli inquinanti che si collochino al di
sotto di una certa soglia e qualora
risultino conformi al test di cessione.
Arriva, poi, la norma sulla raccolta degli
indumenti e che cambierà quindi la raccolta
differenziata nelle nostre città. Infatti,
le associazioni di volontariato senza fine
di lucro potranno effettuare raccolte di
prodotti o materiali, nonché di indumenti
ceduti da privati, per destinarli al
riutilizzo, previa convenzione a titolo non
oneroso con i comuni, fatto salvo l'obbligo
del conferimento dei materiali residui a
operatori autorizzati, ai fini del
successivo recupero o smaltimento dei
medesimi (art. 4).
Tali materiali
rientreranno nelle percentuali di raccolta
differenziata. Raccolta differenziata che
verrà indirizzata al riciclo, considerato
prioritario dalle norme e dal nuovo art. 5
che prevede che i soggetti detentori che
conferiscono i rifiuti al trattamento sono
tenuti a intervenire per assicurare, nel
caso in cui la dinamica dei prezzi di
mercato produca esiti diversi, che il prezzo
riconosciuto per il conferimento al riciclo
sia, per la medesima tipologia di rifiuti,
superiore a quello riconosciuto per il
conferimento al recupero energetico. La
violazione di tale obbligo è punita con la
sanzione pecuniaria di 200 euro per ogni
tonnellata di rifiuti.
Non mancano disposizioni che incidono sulla
realizzazione di infrastrutture (art. 15).
Infatti, in tutti i casi in cui possono
essere imposte, dalle autorità competenti e
nei modi consentiti dalla normativa vigente,
misure di compensazione e riequilibrio
ambientale e territoriale in relazione alla
realizzazione di attività, opere, impianti o
interventi, tali misure non possono comunque
avere carattere meramente monetario. Infine,
cambia ancora la validità
dell'autorizzazione per scarichi idrici (non
contenenti sostanze pericolose) che viene
portata da cinque a sei anni (art. 2-bis)
(articolo ItaliaOggi del
12.05.2012). |
ENTI LOCALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Servizi sociali, consorzi ko.
Vanno eliminati a partire dal primo rinnovo
del cda. In caso di scioglimento la
divisione del patrimonio deve avvenire pro
quota.
Un consorzio composto da 144 comuni,
costituito al fine della gestione dei
soggiorni climatici per bambini ed anziani,
rientra, quale consorzio di funzioni, nelle
disposizioni di legge che ne prevedono la
soppressione? Nel caso affermativo, da quale
data decorre la soppressione? Come va diviso
il patrimonio immobiliare tra i comuni
aderenti al consorzio medesimo, in assenza
di una previsione statutaria?
In merito all'individuazione dei consorzi
oggetto delle norme che ne prevedono la
soppressione, va rilevato preliminarmente
che l'art. 31, comma 1, del dlgs n. 267/2000
definisce le attività consortili,
identificandole nella gestione associata di
uno o più servizi e nell'esercizio di
funzioni, delimitando l'ambito di
operatività dell'istituto consortile e
configurando due tipi di consorzi:
1) i consorzi di servizi, ossia quelli che
gestiscono attività a rilevanza economica o,
sulla base di una precisa opzione
statutaria, servizi sociali in forma
imprenditoriale;
2) i consorzi di funzioni che gestiscono
servizi sociali in forma non imprenditoriale
o funzioni meramente amministrative e
strumentali: per tali tipi di consorzi
l'acquisto della personalità giuridica si
collega alla sottoscrizione dell'atto
costitutivo rappresentato dalla convenzione.
In sostanza il consorzio si connota come un
ente con capacità imprenditoriale istituito
dall'ente locale e, quindi, soggetto da esso
distinto, dotato di personalità giuridica.
Ciò considerato, si ritiene che per
«consorzi di funzione» debbano intendersi
quelli previsti e disciplinati dall'art. 31
del Tuel, forme associative, cioè, non
aventi attività economiche e che a questi
intenda riferirsi l'art. 2, comma 186, della
legge n. 191 del 2009, che ne prevede la
soppressione.
In proposito la Corte dei conti, sezione
regionale della Campania, con il parere n.
188 del 29/07/2010 ha chiarito che un
consorzio, istituito per la gestione dei
servizi sociali ex legge n. 328/2000, deve
essere considerato un consorzio di funzioni.
Pertanto, il consorzio costituito al fine
della gestione dei soggiorni climatici per
bambini ed anziani sembra potersi ricondurre
tra quelli per i quali è prevista la
soppressione.
Quanto alla decorrenza dello scioglimento
del consorzio (posto che tra i tanti comuni
aderenti vi sono scadenze differenziate per
l'elezione degli organi) si rileva che sulla
questione si è pronunciata la sezione
regionale di controllo per il Piemonte della
Corte dei conti, con delibera n. 101 del
30/12/2010.
La Corte, in relazione all'art. 1, comma 2,
della legge n. 42/2010 –in cui si prevede,
tra l'altro, che le disposizioni relative
alla soppressione dei consorzi si applichino
a decorrere dal 2011 e per tutti gli anni a
seguire ai singoli enti per i quali ha luogo
il primo rinnovo del rispettivo consiglio,
con efficacia dalla data del medesimo– ha
affermato che il termine «enti», volutamente
generico poiché riferito a più fattispecie
diverse tra loro, nel caso in questione, non
può che indicare, secondo una
interpretazione logico-sistematica, i
singoli consorzi oggetto della prescrizione.
Pertanto essa si applicherà e produrrà i
suoi effetti, «a decorrere dal primo rinnovo
–a partire dal 2011 e per tutti gli anni a
seguire– del consiglio di amministrazione
del Consorzio interessato».
Per quanto attiene alle modalità di
divisione del patrimonio immobiliare tra
tutti i comuni partecipanti al momento della
cessazione del consorzio, ove le
disposizioni statutarie non disciplinino il
caso specifico, la soluzione più ragionevole
si ritiene vada ricercata nelle norme che
regolano il conferimento pro-quota, all'atto
della costituzione della forma associativa,
e, comunque, nella disciplina vigente in
materia di partecipazioni associative
(articolo ItaliaOggi dell'11.05.2012). |
ENTI LOCALI - VARI: Enti a prova di web.
Comuni, accolta l'anagrafe digitale.
Circolare del Viminale sull'invio delle dichiarazioni.
Da ieri i comuni devono agevolare l'invio
delle dichiarazioni anagrafiche dei
cittadini evidenziando sui siti web
istituzionali tutti i recapiti a
disposizione degli utenti. E utilizzare le
nuove procedure informatiche messe a
disposizione degli ufficiali d'anagrafe dal
dipartimento per gli affari interni e
territoriali.
Lo ha stabilito il Ministero dell'Interno
con la
circolare
08.05.2012 n. 10.
La legge 35/2012 ha confermato le nuove
procedure anagrafiche introdotte con il dl
5/2012 che ha innovato la disciplina in
materia di cambi di residenza stabilendo,
tra l'altro, che gli effetti giuridici delle
iscrizioni anagrafiche e delle
corrispondenti cancellazioni decorrono dalla
data della dichiarazione. Ciò significa che
l'iscrizione anagrafica ha efficacia
immediata coincidente con la data di
presentazione della relativa richiesta
attraverso uno dei mezzi previsti dal codice
dell'amministrazione digitale.
Dalla data di
presentazione decorreranno i termini (due
giorni lavorativi) entro cui il comune
destinatario di tale comunicazione è
obbligato alla registrazione della
dichiarazione. Entro i successivi 45 giorni
l'ufficio registrante dovrà provvedere
all'accertamento della sussistenza dei
requisiti previsti per l'iscrizione. Per
illustrare concretamente le procedure
introdotte con il nuovo istituto, in vigore
dal 9 maggio 2012, il Viminale ha diramato
le prime indicazioni il 27 aprile scorso con
la circolare n. 9 (si veda ItaliaOggi dell'01/05/2012).
Con le istruzioni dell'8 maggio
sono state fornite ulteriori precisazioni di
carattere tecnico. Innanzitutto sul portale
ministeriale è stata pubblicata tutta la
modulistica necessaria ad effettuare le
dichiarazioni anagrafiche in conformità
all'art. 13 del dpr 223/1989, specifica la
nota centrale, nonché l'elenco dei documenti
che devono predisporre i cittadini.
Per
assecondare lo spirito di semplificazione
delle procedure anagrafiche sarà però
necessario che i comuni mettano
immediatamente a disposizioni degli utenti
«sul proprio sito istituzionale, gli
indirizzi esatti ai quali inoltrare le
dichiarazioni sopracitate con particolare
riferimento all'indirizzo postale, di posta
elettronica nonché al numero di fax».
Sul
medesimo portale servizidemografici.interno.it,
conclude la nota, è anche disponibile il
manuale operativo dedicato agli addetti ai
lavori
(articolo ItaliaOggi del
10.05.2012). |
ENTI LOCALI - VARI: La
tua IMU. Le istruzioni per l’uso dei
contribuenti. Le indicazioni Ifel-Anci per
sindaci e amministratori
(articolo
Il Sole 24 Ore del 07.05.2012 - tratto da
www.anci.lombardia.it). |
GIURISPRUDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Le
richieste di integrazione documentale sono
idonee per arrestare l'iter del procedimento
e quindi assumono, per questi aspetti,
natura provvedimentale. Nel caso in esame la
fattispecie risulta espressamente
disciplinata dall’art. 25, comma 5, del DPR n.
380/2001 per cui, a fronte della legale
interruzione del termine di conclusione del
procedimento, non può certo parlarsi di
illegittima inerzia dell’amministrazione.
Di conseguenza, qualora l'interessato le
consideri illegittime e lesive dei propri
interessi, dovrà contestarle con autonoma
impugnazione, chiedendone l’annullamento
attraverso le forme del rito ordinario,
senza possibilità di attivare il rito
speciale di cui all’art. 21-bis della Legge
n. 1034/1971 applicabile solo di fronte al
silenzio ingiustificato
dell'amministrazione.
---------------
L’art. 24, comma 1, del DPR n. 380/2001,
stabilisce che il certificato di agibilità
attesta la sussistenza delle condizioni di
sicurezza, igiene, salubrità, risparmio
energetico degli edifici e degli impianti
negli stessi installati, valutate secondo
quanto dispone la normativa vigente. Di
conseguenza le verifiche demandate alla
pubblica amministrazione non si esauriscono
con la sola ispezione dell'edificio (tra
l'altro meramente eventuale) ai sensi
dell’art. 25, comma 3, del predetto DPR n.
380/2001, ma comprendono accertamenti e
valutazioni ben più ampie che non possono
essere svolte senza la necessaria
documentazione.
I ricorrenti denunciano un
preteso silenzio-inadempimento del Comune di Montelupone nel rilascio del certificato di
agibilità richiesto con istanza in data
02.07.2009 relativamente all'edificio di
proprietà degli stessi.
In punto di fatto il Collegio osserva che
l’Amministrazione comunale ha sempre
risposto alle istanze dei ricorrente,
seppure reiterando le richieste di
integrazione documentale considerate
indispensabili per la conclusione del
procedimento.
Non si può quindi sostenere che l’Ente sia
rimasto inerte. Pare invece emergere una
situazione di stallo, poiché entrambe le
parti si sono arroccate sulle loro posizioni
dando luogo a circostanze ben diverse da
quelle del silenzio (nell'arco di quattro
mesi si contano, infatti, ben otto missive
scambiate tra le stesse parti).
In punto di diritto va osservato che le
richieste di integrazione documentale sono
idonee per arrestare l'iter del procedimento
e quindi assumono, per questi aspetti,
natura provvedimentale. Nel caso in esame la
fattispecie risulta espressamente
disciplinata dall’art. 25, comma 5, del DPR n.
380/2001 per cui, a fronte della legale
interruzione del termine di conclusione del
procedimento, non può certo parlarsi di
illegittima inerzia dell’amministrazione.
Di conseguenza, qualora l'interessato le
consideri illegittime e lesive dei propri
interessi, dovrà contestarle con autonoma
impugnazione, chiedendone l’annullamento
attraverso le forme del rito ordinario,
senza possibilità di attivare il rito
speciale di cui all’art. 21-bis della Legge
n. 1034/1971 applicabile solo di fronte al
silenzio ingiustificato
dell'amministrazione.
Del resto va osservato che le richieste
istruttorie dell'Amministrazione si fondano
su specifiche disposizioni che disciplinano
la documentazione da allegare all’istanza
(cfr. art. 24, comma 4, e art. 25, commi 1 e 3,
del DPR n. 380/2001), comprese quelle del
Regolamento edilizio comunale; prescrizioni
che non risultano essere contestate, per cui
non possono rilevarsi eventuali intenti
elusivi dell'obbligo, in capo al Comune, di
pronunciarsi sull'istanza.
L’art. 24, comma 1, del DPR n. 380/2001,
stabilisce che il certificato di agibilità
attesta la sussistenza delle condizioni di
sicurezza, igiene, salubrità, risparmio
energetico degli edifici e degli impianti
negli stessi installati, valutate secondo
quanto dispone la normativa vigente. Di
conseguenza le verifiche demandate alla
pubblica amministrazione non si esauriscono
con la sola ispezione dell'edificio (tra
l'altro meramente eventuale) ai sensi
dell’art. 25, comma 3, del predetto DPR n.
380/2001, come pretendono i ricorrenti, ma
comprendo, come si è visto, accertamenti e
valutazioni ben più ampie che non possono
essere svolte senza la necessaria
documentazione.
L’onere di allegare la prescritta
documentazione grava, ovviamente, sui
soggetti legittimati alla richiesta del
certificato in questione, tra cui, a norma
dell'art. 24, comma 3, del DPR n. 380/2001,
gli “aventi causa” del titolare del permesso
di costruire (come i ricorrenti). Di
conseguenza, se i Sigg. Baldoni e Santone
sono certamente legittimati a chiedere il
rilascio del certificato di agibilità, in
qualità di soggetti “aventi causa”, sono
anche onerati dal produrre tutta la
necessaria documentazione che non è stata
prodotta dal loro “dante causa” a questo
fine
(TAR Marche,
sentenza 11.05.2012 n. 334 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nonostante
alcune oscillazioni giurisprudenziali
riscontratesi sul punto in vigenza dell’art.
13 della legge 47/1985, l’art. 36 del D.P.R.
06.06.2001, n. 380, ha recepito “in toto” la precedente
formulazione, pienamente ribadendo il
principio della “doppia conformità”, secondo
il quale il presupposto inderogabile per la
sanatoria ordinaria è la conformità
dell’abuso sia alla disciplina vigente al
momento della realizzazione, che a quella
vigente al momento della domanda.
In sintesi, gli abusi sostanziali sono
sanabili solo attraverso il diverso istituto
giuridico del condono, e nei limiti
temporali legislativamente previsti, ad
evitare che ogni abuso possa essere sanato
dalla sopravvenienze normative, con effetti
sostanzialmente premianti per le difformità
sostanziali.
Quanto alla dedotta antieconomicità della
imposizione di una doppia attività (prima
demolitiva e poi ricostruttiva) per
realizzare uno stesso risultato edilizio
attualmente assentibile, va rimarcato che,
per insindacabile valutazione legislativa,
il punto di equilibrio tra legalità ed
economicità è stato individuato nella
ordinaria sanabilità dei soli abusi formali,
cioè sottraendo alla demolizione le sole
opere che, ancorché realizzate senza titolo,
siano “ab origine” e attualmente conformi;
e che, comunque, il procedimento
sanzionatorio e quello autorizzativo sono
reciprocamente autonomi e non dipendenti.
Con il primo motivo la
ricorrente invoca la conformità delle opere
abusive alla disciplina vigente al momento
della domanda e l’istituto della “sanatoria
giurisprudenziale”.
La sezione ritiene che, nonostante alcune
oscillazioni giurisprudenziali riscontratesi
sul punto in vigenza dell’art. 13 della
legge 47/1985, l’art. 36 del D.P.R. 06.06.2001,
n. 380, ha recepito “in toto” la precedente
formulazione, pienamente ribadendo il
principio della “doppia conformità”, secondo
il quale il presupposto inderogabile per la
sanatoria ordinaria è la conformità
dell’abuso sia alla disciplina vigente al
momento della realizzazione, che a quella
vigente al momento della domanda (cfr. TAR
Lombardia, Brescia, 23.06.2003, n. 873; Tar
Emilia Romagna, sez. II, 15.01.2004, n. 16;
TAR Lombardia, Milano, n. 1352/2006; Tar
Piemonte, sez. I, 20.04.2005 n. 1094; TAR
Toscana, sez. III, 15.06.2006, n. 2792; Cons.
Stato, sez. IV, 17.09.2007, n. 4838).
In sintesi, gli abusi sostanziali sono
sanabili solo attraverso il diverso istituto
giuridico del condono, e nei limiti
temporali legislativamente previsti, ad
evitare che ogni abuso possa essere sanato
dalla sopravvenienze normative, con effetti
sostanzialmente premianti per le difformità
sostanziali.
Quanto alla dedotta antieconomicità della
imposizione di una doppia attività (prima
demolitiva e poi ricostruttiva) per
realizzare uno stesso risultato edilizio
attualmente assentibile, va rimarcato che,
per insindacabile valutazione legislativa,
il punto di equilibrio tra legalità ed
economicità è stato individuato nella
ordinaria sanabilità dei soli abusi formali,
cioè sottraendo alla demolizione le sole
opere che, ancorché realizzate senza titolo,
siano “ab origine” e attualmente conformi;
e che, comunque, il procedimento
sanzionatorio e quello autorizzativo sono
reciprocamente autonomi e non dipendenti
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 11.05.2012 n. 204 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’istituto dell’avvalimento,
disciplinato dagli articoli 49 e 50 del
d.lgs. 12.04.2006, n. 163, consiste nella
possibilità, riconosciuta a qualunque
operatore economico, singolo o in
raggruppamento, di soddisfare la richiesta
relativa al possesso dei requisiti necessari
per partecipare ad una procedura di gara,
facendo affidamento sulle capacità di altri
soggetti, indipendentemente dai legami
sussistenti con questi ultimi.
La spendita dei requisiti di imprese terze
nell’ambito della gara presuppone un legame
contrattuale fra la società partecipante e
quelle ausiliarie con il quale queste ultime
assumono l’obbligazione di mettere a
disposizione dell’impresa ausiliata, in
relazione all’esecuzione dell’appalto, le
proprie risorse e il proprio apparato
organizzativo, in tutte le parti che
giustificano l’attribuzione di uno specifico
requisito di qualificazione (a seconda dei
casi: mezzi, personale, prassi e tutti gli
altri elementi aziendali qualificanti).
Il contratto di avvalimento, benché atipico
nella causa, deve, pertanto, essere
specifico quanto all’oggetto, non potendo
risolversi nel “prestito” del requisito
richiesto, quale mero valore astratto,
perché solo in tal modo è possibile
garantire una effettiva corrispondenza tra
fase della qualificazione e fase
dell’esecuzione, evitando una mera
circolazione di certificati e documenti cui
non corrisponda la messa a disposizione di
risorse reali.
Ciò è tanto più vero nei casi, come quello
di specie, in cui ad essere oggetto di
avvalimento sono certificazioni di qualità
che attestano l’efficienza dei processi
produttivi propri di una determinata
organizzazione aziendale. Ove il contratto
di avvalimento non specifichi quali risorse
vengano messe a disposizione dell’impresa
ausiliata per assicurare che essa sia in
grado di eseguire il servizio affidatole con
il medesimo grado di qualità, tutta
l’operazione rischia di esaurirsi in una
mera apparenza documentale elusiva dei
prescritti requisiti.
Il contratto di avvalimento obbliga
l’impresa ausiliaria anche nei confronti
della stazione appaltante (art. 49, comma 2,
lett. d), del D.Lgs. 163/2006) la quale
deve, quindi, conoscere in partenza quali
saranno le specifiche risorse aziendali
messe a disposizione della aggiudicataria in
modo da poterne esigere l’effettivo impiego
anche nella fase di esecuzione dell’appalto.
L’istituto dell’avvalimento, disciplinato
dagli articoli 49 e 50 del d.lgs.
12.04.2006, n. 163, consiste nella
possibilità, riconosciuta a qualunque
operatore economico, singolo o in
raggruppamento, di soddisfare la richiesta
relativa al possesso dei requisiti necessari
per partecipare ad una procedura di gara,
facendo affidamento sulle capacità di altri
soggetti, indipendentemente dai legami
sussistenti con questi ultimi.
La spendita dei requisiti di imprese terze
nell’ambito della gara presuppone un legame
contrattuale fra la società partecipante e
quelle ausiliarie con il quale queste ultime
assumono l’obbligazione di mettere a
disposizione dell’impresa ausiliata, in
relazione all’esecuzione dell’appalto, le
proprie risorse e il proprio apparato
organizzativo, in tutte le parti che
giustificano l’attribuzione di uno specifico
requisito di qualificazione (a seconda dei
casi: mezzi, personale, prassi e tutti gli
altri elementi aziendali qualificanti).
Il contratto di avvalimento, benché atipico
nella causa, deve, pertanto, essere
specifico quanto all’oggetto, non potendo
risolversi nel “prestito” del
requisito richiesto, quale mero valore
astratto, perché solo in tal modo è
possibile garantire una effettiva
corrispondenza tra fase della qualificazione
e fase dell’esecuzione, evitando una mera
circolazione di certificati e documenti cui
non corrisponda la messa a disposizione di
risorse reali.
Ciò è tanto più vero nei casi, come quello
di specie, in cui ad essere oggetto di
avvalimento sono certificazioni di qualità
che attestano l’efficienza dei processi
produttivi propri di una determinata
organizzazione aziendale. Ove il contratto
di avvalimento non specifichi quali risorse
vengano messe a disposizione dell’impresa
ausiliata per assicurare che essa sia in
grado di eseguire il servizio affidatole con
il medesimo grado di qualità, tutta
l’operazione rischia di esaurirsi in una
mera apparenza documentale elusiva dei
prescritti requisiti.
A ciò si aggiunga che il contratto di
avvalimento obbliga l’impresa ausiliaria
anche nei confronti della stazione
appaltante (art. 49, comma 2, lett. d), del
D.Lgs. 163/2006) la quale deve, quindi,
conoscere in partenza quali saranno le
specifiche risorse aziendali messe a
disposizione della aggiudicataria in modo da
poterne esigere l’effettivo impiego anche
nella fase di esecuzione dell’appalto (TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 10.05.2012 n. 1322 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
I principi del favor
partecipationis e della tutela
dell'affidamento vietano l'esclusione di
un’impresa che abbia fatto affidamento sul
bando di gara e sui relativi allegati,
compilando l’offerta in conformità al
facsimile all’uopo approntato dalla stazione
appaltante.
Nessuna
esclusione può essere disposta sulla scorta
di una lacuna formale indotta
dall’amministrazione nella predisposizione
degli atti di gara e che, qualora fosse
accompagnata da un’applicazione formalistica
della normativa, avrebbe l'unico risultato,
contrario alla ratio prima ancora che alla
lettera della disciplina degli appalti, di
un fattivo quanto inammissibile
restringimento della concorrenza in assenza
di qualsivoglia lesione sostanziale.
A fronte di una dichiarazione come
quella resa dalla controinteressata,
perfettamente ricalcante l’indicazione dello
schema di domanda, non risulta applicabile
l’esclusione potendo l’amministrazione –in
presenza di dubbi sulla reale portata di
quanto dichiarato– considerare necessaria
una regolarizzazione, sul piano formale,
della dichiarazione stessa, ai sensi di
quanto disposto dall’art. 46 del Codice
Appalti, volto a dare rilevanza, anche nel
testo anteriore al cd. Decreto Sviluppo
(D.L. 70/2011), alle mancanze sostanziali,
piuttosto che alle mancanze formali.
---------------
Con l’entrata in vigore dell’art. 46, comma
1-bis, del Codice dei contratti pubblici,
aggiunto dall’art. 4, comma 2, lett. d), del
D.L. 13/05/2011 conv. in L. 12/07/2011 n.
106– è stato introdotto il principio di
tassatività delle cause di esclusione dalle
gare d’appalto.
In base alla novella legislativa, deve
ritenersi illegittima la mancata ammissione
di una ditta da una procedura selettiva per
una circostanza che non costituisce motivo
di esclusione in virtù di una precisa
disposizione di legge.
Sul medesimo presupposto, anche il Consiglio
di Stato ha dichiarato l’illegittimità
dell’esclusione dalla gara di un’impresa che
aveva presentato una cauzione provvisoria di
importo inferiore a quello richiesto per
poter concorrere all’assegnazione di più
lotti.
L’art. 49 del D.Lgs. 163/2006, nel
disciplinare l’istituto dell’avvalimento,
non prevede alcuna sanzione di
inammissibilità dell’offerta o di esclusione
del concorrente per l’ipotesi in cui la
dichiarazione risulti carente ovvero priva
degli allegati di cui all’art. 2 lett. a-g
del medesimo articolo, a differenza di
quanto prevedono espressamente invece i
commi 3 (dichiarazioni mendaci) e 8
(pluralità di concorrenti che si avvalgono
della stessa impresa ausiliaria).
Nel caso di lacune individuate nella
dichiarazione di avvalimento, in
applicazione della regola di cui all’art.
46, comma 1, del Codice dei contratti
l’amministrazione deve consentire la
regolarizzazione/integrazione degli atti
tempestivamente depositati (dai quali
comunque l’intenzione di ricorrere
all’istituto sia, come nella fattispecie,
chiaramente desumibile).
Atteso:
- che la recente giurisprudenza (cfr. TAR
Abruzzo Pescara – 24/02/2012 n. 86) è
dell’avviso che i principi del favor
partecipationis e della tutela
dell'affidamento vietano l'esclusione di
un’impresa che abbia fatto affidamento sul
bando di gara e sui relativi allegati,
compilando l’offerta in conformità al
facsimile all’uopo approntato dalla stazione
appaltante;
- che è stato precisato che nessuna
esclusione può essere disposta sulla scorta
di una lacuna formale indotta
dall’amministrazione nella predisposizione
degli atti di gara e che, qualora fosse
accompagnata da un’applicazione formalistica
della normativa, avrebbe l'unico risultato,
contrario alla ratio prima ancora che
alla lettera della disciplina degli appalti,
di un fattivo quanto inammissibile
restringimento della concorrenza in assenza
di qualsivoglia lesione sostanziale (cfr.
TAR Piemonte, sez. I – 09/01/2012 n. 5);
- che, a fronte di una dichiarazione come
quella resa dalla controinteressata,
perfettamente ricalcante l’indicazione dello
schema di domanda, non risulta applicabile
l’esclusione potendo l’amministrazione –in
presenza di dubbi sulla reale portata di
quanto dichiarato– considerare necessaria
una regolarizzazione, sul piano formale,
della dichiarazione stessa, ai sensi di
quanto disposto dall’art. 46 del Codice
Appalti, volto a dare rilevanza, anche nel
testo anteriore al cd. Decreto Sviluppo
(D.L. 70/2011), alle mancanze sostanziali,
piuttosto che alle mancanze formali
(Consiglio di Stato, sez. V – 10/01/2012 n.
31);
Tenuto conto:
- che, inoltre, con l’entrata in vigore
dell’art. 46, comma 1-bis, del Codice dei
contratti pubblici, aggiunto dall’art. 4,
comma 2, lett. d), del D.L. 13/05/2011 conv.
in L. 12/07/2011 n. 106– è stato introdotto
il principio di tassatività delle cause di
esclusione dalle gare d’appalto;
- che, in base alla novella legislativa,
deve ritenersi illegittima la mancata
ammissione di una ditta da una procedura
selettiva per una circostanza che non
costituisce motivo di esclusione in virtù di
una precisa disposizione di legge (cfr. TAR
Lazio Roma, sez. I – 08/03/2012 n. 2308, che
ha censurato l’esclusione di una ditta che
aveva prestato la cauzione provvisoria
mediante polizza fideiussoria avente come
beneficiario un soggetto diverso dalla
stazione appaltante);
- che, sul medesimo presupposto, anche il
Consiglio di Stato (sez. III – 01/02/2012 n.
493) ha dichiarato l’illegittimità
dell’esclusione dalla gara di un’impresa che
aveva presentato una cauzione provvisoria di
importo inferiore a quello richiesto per
poter concorrere all’assegnazione di più
lotti;
- che l’art. 49 del D.Lgs. 163/2006, nel
disciplinare l’istituto dell’avvalimento,
non prevede alcuna sanzione di
inammissibilità dell’offerta o di esclusione
del concorrente per l’ipotesi in cui la
dichiarazione risulti carente ovvero priva
degli allegati di cui all’art. 2 lett. a-g
del medesimo articolo, a differenza di
quanto prevedono espressamente invece i
commi 3 (dichiarazioni mendaci) e 8
(pluralità di concorrenti che si avvalgono
della stessa impresa ausiliaria);
- che pertanto, nel caso di lacune
individuate nella dichiarazione di
avvalimento, in applicazione della regola di
cui all’art. 46, comma 1, del Codice dei
contratti l’amministrazione deve consentire
la regolarizzazione/integrazione degli atti
tempestivamente depositati (dai quali
comunque l’intenzione di ricorrere
all’istituto sia, come nella fattispecie,
chiaramente desumibile)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 10.05.2012 n. 814 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’omessa indicazione di un termine di
efficacia non costituisce profilo di
illegittimità del provvedimento impugnato,
poiché, in tal caso, trova automatica
applicazione il richiamato termine massimo
di 45 giorni legislativamente fissato,
decorso il quale l’ordine cessa di produrre
effetti.
Al riguardo va ricordato l’orientamento
della giurisprudenza amministrativa che
ritiene addirittura inammissibile il
ricorso, avverso l'ordinanza di sospensione
dei lavori, proposto dopo lo spirare del
citato termine, qualora non sussista uno
specifico interesse al relativo annullamento
anche dopo che l’atto abbia esaurito la
propria efficacia.
Con il secondo motivo viene dedotta
violazione dell’art. 27, comma 3, del DPR n.
380/2001 sotto il profilo della omessa
indicazione del termine di efficacia del
provvedimento cautelare, da individuarsi nel
limite massimo di 45 giorni.
Anche tale censura va disattesa.
L’omessa indicazione di un termine di
efficacia non costituisce profilo di
illegittimità del provvedimento impugnato,
poiché, in tal caso, trova automatica
applicazione il richiamato termine massimo
di 45 giorni legislativamente fissato,
decorso il quale l’ordine cessa di produrre
effetti.
Al riguardo va ricordato l’orientamento
della giurisprudenza amministrativa che
ritiene addirittura inammissibile il
ricorso, avverso l'ordinanza di sospensione
dei lavori, proposto dopo lo spirare del
citato termine, qualora non sussista uno
specifico interesse al relativo annullamento
anche dopo che l’atto abbia esaurito la
propria efficacia (cfr. TAR Lazio, Roma,
Sez. I, 08.06.2011 n. 5121; TAR Puglia, Lecce,
Sez. III, 07.04.2011 n. 620; TAR Liguria,
Sez. I, 15.01.2009 n. 66)
(TAR Marche,
sentenza 10.05.2012 n. 307 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: L'art.
39 del DPR n. 327/2001, avente natura
ricognitiva del preesistente quadro
normativo, non impone l'indicazione di un
indennizzo nel caso di reiterazione del
vincolo preordinato all'esproprio (e,
dunque, la relativa copertura finanziaria),
poiché la sua spettanza o meno è del tutto
eventuale e va accertata (solo quando il
vincolo sia stato effettivamente reiterato)
sulla base della istanza dell'interessato,
che può attivare un procedimento nel corso
del quale ha l'onere di dare prova del
pregiudizio concretamente ricevuto dagli
atti amministrativi.
-------------
V'è ampia discrezionalità che connota le
scelte dell'amministrazione in ordine alla
destinazione dei suoli in sede di
pianificazione generale del territorio, tali
da non richiedere una particolare
motivazione al di là di quella ricavabile
dai criteri e principi generali che ispirano
il PRG, derogandosi a tale regola solo in
presenza di specifiche situazioni di
affidamento qualificato del privato a una
specifica destinazione del suolo.
Riguardo alla denunciata carenza di
copertura finanziaria, va osservato che
l'art. 39 del DPR n. 327/2001, avente natura
ricognitiva del preesistente quadro
normativo, non impone l'indicazione di un
indennizzo nel caso di reiterazione del
vincolo preordinato all'esproprio (e,
dunque, la relativa copertura finanziaria),
poiché la sua spettanza o meno è del tutto
eventuale e va accertata (solo quando il
vincolo sia stato effettivamente reiterato)
sulla base della istanza dell'interessato,
che può attivare un procedimento nel corso
del quale ha l'onere di dare prova del
pregiudizio concretamente ricevuto dagli
atti amministrativi (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. 24.05.2007 n. 7; id. Sez. IV,
06.11.2009
n. 6936).
----------------
Al
riguardo va richiamato il consolidato
indirizzo giurisprudenziale circa l'ampia
discrezionalità che connota le scelte
dell'amministrazione in ordine alla
destinazione dei suoli in sede di
pianificazione generale del territorio, tali
da non richiedere una particolare
motivazione al di là di quella ricavabile
dai criteri e principi generali che ispirano
il PRG (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 24.02.2011
n. 1222; id. 18.10.2010 n. 7554; id.
04.05.2010 n. 2545; id. 03.07.2009 n. 4847),
derogandosi a tale regola solo in presenza
di specifiche situazioni di affidamento
qualificato del privato a una specifica
destinazione del suolo (cfr. Cons. Stato,
Sez. IV, 18.01.2011 n. 352; id. 12.01.2011
n. 133; id. 09.12.2010 n. 8682; id.
13.10.2010 n. 7492; id. 24.04.2009 n. 2630;
id. 07.04.2008 n. 1476)
(TAR Marche,
sentenza 10.05.2012 n. 306 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Danni derivati ai cittadini a causa delle
insidie stradali.
La Corte di Cassazione, Sez. III civile, con la
sentenza
09.05.2012 n.
7035, ribadisce la responsabilità del
Comune per i danni derivati ai cittadini a
causa delle insidie, non segnalate, del
manto stradale.
Il caso riguarda l'incidente occorso ad un
bambino, caduto dalla bicicletta a causa di
un dislivello del manto stradale dovuto ad
un'escavazione posta intorno ad un tombino.
Secondo la Corte di Cassazione, la
responsabilità di quanto accaduto è da
attribuirsi sia all'azienda idrica
appaltatrice, sia al Comune, per aver
disatteso, entrambi, l'obbligo di vigilanza,
controllo e manutenzione della strada.
Contrariamente a quanto lamentato dal
Comune, e cioè che l'uso generale e diretto
della strada comporta l'impossibilità della
custodia di essa, la Cassazione ha infatti
affermato che "l'impossibilità della
custodia non sussiste quando l'evento
dannoso si è verificato su un tratto di
strada che, posto all'interno della perimetrazione del centro abitato, era
adibito al pubblico transito di persone e
veicoli e che incombe sul Comune, che
pertanto ne conserva la custodia, apporre o
controllare che l'appaltatore apponga, se in
tal senso è il relativo contratto, adeguata
segnalazione a tutela degli utenti, (…)
diversamente dovendo rispondere, ancorché
unitamente all'appaltatore, dei danni
derivanti a terzi". |
EDILIZIA PRIVATA:
L’esercizio del potere di
annullamento d’ufficio di un titolo edilizio
deve rispondere ai requisiti di legittimità
codificati nell’art. 21-nonies della legge
07.08.1990 n. 241 ss.mm.ii., consistenti
nell’illegittimità originaria del titolo e
nell’interesse pubblico concreto ed attuale
alla sua rimozione diverso dal mero
ripristino della legalità, comparato con i
contrapposti interessi dei privati.
Va ricordato che, com’è noto, anche
l’esercizio del potere di annullamento
d’ufficio di un titolo edilizio deve
rispondere ai requisiti di legittimità
codificati nell’art. 21-nonies della legge
07.08.1990 n. 241 ss.mm.ii., consistenti
nell’illegittimità originaria del titolo e
nell’interesse pubblico concreto ed attuale
alla sua rimozione diverso dal mero
ripristino della legalità, comparato con i
contrapposti interessi dei privati
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 09.05.2012 n. 2683 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Va escluso che possa essere
applicato il procedimento di sanatoria ex
art. 36 citato –destinato a sanare i soli
abusi c.d. formali– allorché siano necessari
ulteriori interventi per garantire il
rispetto della normativa urbanistica ed
edilizia.
Nella domanda di sanatoria ex art. 36 del
DPR 380/2001, infatti, l’Associazione non si
limita a chiedere l’accertamento della c.d.
doppia conformità dell’attività edilizia
posta in essere –secondo lo schema del
citato art. 36, comma 1°, del Testo Unico
dell’edilizia– ma chiede altresì di
effettuare nuove opere, qualificate di
manutenzione straordinaria (cfr. il doc. 2
della ricorrente, pag. 3 e soprattutto il
doc. 6 del resistente, vale a dire la
relazione tecnica allegata alla domanda di
sanatoria, dove si ammette espressamente la
necessità di effettuare nuovi lavori per la
messa a norma dell’immobile, lavori del
resto descritti da apposito computo
metrico).
La giurisprudenza amministrativa, anche
della scrivente Sezione, esclude però che
possa essere applicato il procedimento di
sanatoria ex art. 36 citato –destinato a
sanare i soli abusi c.d. formali– allorché
siano necessari ulteriori interventi per
garantire il rispetto della normativa
urbanistica ed edilizia (cfr. sul punto, TAR
Lombardia, Milano, sez. II, 22.11.2010, n.
7311)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.05.2012 n. 1279 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il
fatto che i ricorrenti vivano abitualmente
in prossimità del sito prescelto per la
realizzazione dell'intervento di che
trattasi appare sufficiente a legittimare il
ricorso, in ragione dell'interesse
rappresentato dalla "semplice possibilità
di ricavare dalla invocata decisione di
accoglimento una qualche utilità pratica,
indiretta ed eventuale.
Più in
particolare, nel caso di ricorso proposto da
persone fisiche, la vicinitas vale a
fondare la legittimazione, perché chi la
invoca allega, implicitamente, un
pregiudizio, effettivo o temuto, alla
propria salute, che è diritto fondamentale
ai sensi dell'art. 32 della Costituzione e
quindi sicuramente abilita il titolare leso
a richiedere la tutela giurisdizionale.
La giurisprudenza (cfr. tra le tante C.d.S.
sez. V 18.08.2010 n. 5819) ha chiarito che "il
fatto che i ricorrenti vivano abitualmente
in prossimità del sito prescelto per la
realizzazione" dell'intervento di che
trattasi appare sufficiente a legittimare il
ricorso, in ragione dell'interesse
rappresentato dalla "semplice possibilità
di ricavare dalla invocata decisione di
accoglimento una qualche utilità pratica,
indiretta ed eventuale".
Più in
particolare, nel caso di ricorso proposto da
persone fisiche, la vicinitas vale a
fondare la legittimazione, perché chi la
invoca allega, implicitamente, un
pregiudizio, effettivo o temuto, alla
propria salute, che è diritto fondamentale
ai sensi dell'art. 32 della Costituzione e
quindi sicuramente abilita il titolare leso
a richiedere la tutela giurisdizionale
(TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 08.05.2012 n. 795 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Le scelte operate in sede di
pianificazione urbanistica sono espressione
di una discrezionalità molto ampia, di cui
l'ente territoriale dispone in materia, e
pertanto non sono sindacabili in sede
giurisdizionale di legittimità al di fuori
dei casi di illogicità ovvero incoerenza
manifeste.
---------------
L'Amministrazione non è tenuta a fornire
apposita motivazione in ordine alle scelte
operate in sede di pianificazione del
territorio comunale, se non richiamando le
ragioni di carattere generale che
giustificano l'impostazione del piano.
La destinazione di singole aree non
necessitano di una specifica motivazione, se
non nel caso in cui esse vadano ad incidere
negativamente su posizioni giuridicamente
differenziate, rispetto alle quali il
principio della tutela dell'affidamento
impone che lo strumento urbanistico dia
conto del modo in cui sia stata effettuata
la ponderazione degli interessi pubblici e
siano state operate le scelte di
pianificazione, rendendole, così,
sindacabili davanti al giudice
amministrativo; posizioni giuridiche
differenziate la cui sussistenza non è stata
comprovata nel caso di specie.
Il Collegio
ritiene di poter condividere il costante
insegnamento giurisprudenziale secondo il
quale le scelte operate in sede di
pianificazione urbanistica sono espressione
di una discrezionalità molto ampia, di cui
l'ente territoriale dispone in materia, e
pertanto non sono sindacabili in sede
giurisdizionale di legittimità al di fuori
dei casi di illogicità ovvero incoerenza
manifeste (per tutte, in tal senso, da
ultimo C.d.S. sez. IV 24.02.2011 n. 1222,
richiamata nella sentenza TAR Lombardia,
Brescia Sez. I, 16.01.2012, n. 56).
---------------
In conclusione,
considerato il principio generale secondo
cui l'Amministrazione non è tenuta a fornire
apposita motivazione in ordine alle scelte
operate in sede di pianificazione del
territorio comunale, se non richiamando le
ragioni di carattere generale che
giustificano l'impostazione del piano (cfr.
sul punto Consiglio di Stato, Sez. IV,
16.02.2011, n. 1015), anche nel caso di
specie le scelte adottate risultano
adeguatamente supportate dal richiamo alle
scelte generali del Piano.
Sul punto il Collegio ritiene di poter
condividere quanto affermato dal TAR
Lombardia Milano Sez. II, nella sentenza
27.01.2012, n. 297, nella quale si legge che
“la destinazione di singole aree non
necessitano di una specifica motivazione, se
non nel caso in cui esse vadano ad incidere
negativamente su posizioni giuridicamente
differenziate, rispetto alle quali il
principio della tutela dell'affidamento
impone che lo strumento urbanistico dia
conto del modo in cui sia stata effettuata
la ponderazione degli interessi pubblici e
siano state operate le scelte di
pianificazione, rendendole, così,
sindacabili davanti al giudice
amministrativo”; posizioni giuridiche
differenziate la cui sussistenza non è stata
comprovata nel caso di specie (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 08.05.2012 n. 795 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
piena conoscenza dell’atto amministrativo si
concretizza con la cognizione dei suoi
elementi essenziali, identificabili
nell’autorità emanante, nell’oggetto, nel
contenuto dispositivo del provvedimento e
del suo effetto lesivo, essendo detti
elementi sufficienti a rendere consapevole
l’interessato dell’incidenza dell’atto nella
sua sfera giuridica, senza per un verso che
sia invece necessaria anche la compiuta
conoscenza della motivazione e degli
ulteriori atti del procedimenti, che può
giustificare la proposizione di motivi
aggiunti e, per altro verso, che possa
rilevare la consapevolezza/convinzione
soggettiva dell’illegittimità che
inficerebbe l’atto e quindi la data della
scoperta di un suo possibile vizio.
Secondo un consolidato indirizzo
giurisprudenziale, dal quale non vi è motivo
per discostarsi, la piena conoscenza
dell’atto amministrativo si concretizza con
la cognizione dei suoi elementi essenziali,
identificabili nell’autorità emanante,
nell’oggetto, nel contenuto dispositivo del
provvedimento e del suo effetto lesivo,
essendo detti elementi sufficienti a rendere
consapevole l’interessato dell’incidenza
dell’atto nella sua sfera giuridica, senza
per un verso che sia invece necessaria anche
la compiuta conoscenza della motivazione e
degli ulteriori atti del procedimenti, che
può giustificare la proposizione di motivi
aggiunti e, per altro verso, che possa
rilevare la consapevolezza/convinzione
soggettiva dell’illegittimità che
inficerebbe l’atto e quindi la data della
scoperta di un suo possibile vizio (ex
pluriuso e tra le più recenti, C.d.S., sez.
V, 14.12.2011, n. 6543; 01.09.2011, n. 4895;
28.02.2011, n. 1250; 26.01.2010, n. 291)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 07.05.2012 n. 2609 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: L'aggiotaggio espelle
dall'appalto.
Il reato innesca l'esclusione immediata
dell'impresa dalla gara. Lo dice il
Consiglio di stato. L'abuso di mercato è una
turbativa rilevante anche nei contratti pubblici.
Il reato di aggiotaggio determina
l'esclusione del concorrente da una gara di
appalto pubblico in quanto incide gravemente
sulla moralità professionale; trattandosi di
reato di «market abuse» costituisce elemento
di turbativa delle regole di mercato
rilevante ai fini dei contratti pubblici.
È
quanto afferma il Consiglio di Stato con la
sentenza
07.05.2012 n. 2607 della III Sezione rispetto ad una gara di appalto
triennale per l'affidamento del servizio di
pulizia della sede di un Comando Provinciale
dei Vigili del fuoco in riforma della
sentenza di primo grado del Tar Toscana n.
1351 del 2011.
In primo grado il Tar toscano aveva
annullato il provvedimento di diniego
dell'aggiudicazione a favore di un soggetto
il cui legale rappresentante era stato
condannato per il reato di aggiotaggio. La
questione che aveva dovuto affrontare il
giudice amministrativo di primo grado
consisteva nell'accertamento della effettiva
configurabilità di una delle cause di
esclusione previste dall'articolo 38 del
Codice dei contratti pubblici a carico della
società inizialmente aggiudicataria, che
aveva subito il provvedimento di revoca
dell'aggiudicazione.
La normativa (art. 38
del dlgs n. 163 del 2006) dispone
l'esclusione dalla gara per l'affidamento di
appalti pubblici del soggetto, nei cui
confronti sia stata pronunciata sentenza di
condanna passata in giudicato, o emesso
decreto penale di condanna divenuto
irrevocabile, oppure sentenza di
applicazione della pena su richiesta, ai
sensi dell'articolo 444 del codice di
procedura penale, per reati gravi in danno
dello stato o della Comunità, che incidono
sulla moralità professionale.
A tale
riguardo il Tar aveva ritenuto insussistente
la configurabilità dell'esclusione partendo
dalla considerazione che il patteggiamento
della condanna penale per aggiotaggio,
regolarmente dichiarato in sede di gara, non
presentasse alcuna attinenza, neppure
indiretta, con l'attività oggetto
dell'affidamento. Inoltre, secondo i
giudici, l'esclusione non poteva scattare in
quanto la condotta di reato era stata posta
in essere a titolo personale dal legale
rappresentante.
Il Consiglio di stato
ribalta la decisione assumendo invece la
rilevanza della condanna patteggiata per
aggiotaggio rispetto all'articolo 38 del
Codice dei contratti; per fare ciò il
Consiglio di Stato richiama in particolare
un parere dell'Avvocatura generale nel quale
si precisa che la previsione del reato di
aggiotaggio «tende alla tutela della
concorrenza che è valore ovviamente decisivo
con riguardo al settore dei pubblici
appalti, con conseguente rilevanza del reato
per cui è intervenuta condanna in relazione
alle dinamiche fiduciarie del contratto».
Nel caso del reato di aggiotaggio vengono
puniti tutti quei comportamenti che per
ragioni di modo, tempo e luogo, sono tali da
alterare le dinamiche della domanda e
dell'offerta nel mercato. Il fatto quindi di
perturbare il libero gioco del mercato
inserendovi un elemento fraudolento e così
alterando i comportamenti degli operatori fa
sì che si configuri un illecito di «market abuse» (in quanto lesione della tutela del
«market egalitarism» o della «parità
informativa», premessa essenziale per la
regolare formazione dei prezzi). Ancorché il
reato sia stato posto in essere «a titolo
personale», i giudici ritengono comunque
che ciò sia comunque sufficiente ad incidere
sull'attività professionale di imprenditore
e legale rappresentante di una società che
opera nel mercato e per il mercato dei
contratti pubblici.
In altre parole il fatto di non avere
rispettato delle regole poste a tutela del
mercato incide e deve essere apprezzato
anche rispetto alla partecipazione a gare di
appalto pubblico. Nel caso specifico sono
state rilevate gravi dalla stazione
appaltante sia le poste oggetto della
confisca conseguente al reato, sia il tempo
relativamente breve trascorso dalla
commissione del fatto-reato, sia ancora la
mancanza di atti di dissociazione della
società a fronte della condotta penalmente
rilevante del suo rappresentante
(articolo ItaliaOggi del
10.05.2012). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il
termine di prescrizione (decennale) per la
riscossione del contributo di concessione
dovuto decorre dall'emanazione della
concessione edilizia.
Tali arresti giurisprudenziali
costituiscono, peraltro, puntuale
applicazione del principio di cui all’art.
2935 c.c., secondo cui la prescrizione
decorre dal giorno in cui il diritto può
essere fatto valere. L'obbligazione di
pagamento degli oneri concessori sorge,
infatti, con il rilascio della concessione
edilizia e la giurisprudenza è concorde nel
ritenere che la determinazione del
contributo dovuto per gli oneri in questione
debba essere riferita al momento in cui
sorge l'obbligazione.
Il collegio ritiene che il ricorso sia
fondato per l’assorbente censura relativa
all’insussistenza, conseguente al decorso
del termine decennale di prescrizione, del
potere esercitato dal comune nel disporre la
rideterminazione del contributo e nel
richiedere il conguaglio.
Per giurisprudenza costante, infatti, il
termine di prescrizione (decennale) per la
riscossione del contributo di concessione
dovuto decorre dall'emanazione della
concessione edilizia (Cons. Stato, sez. IV,
16.01.2009, n. 216; 06.06.2008, n. 2686;
sez. V, 13.06.2003, n. 3332).
Tali arresti giurisprudenziali
costituiscono, peraltro, puntuale
applicazione del principio di cui all’art.
2935 c.c., secondo cui la prescrizione
decorre dal giorno in cui il diritto può
essere fatto valere. L'obbligazione di
pagamento degli oneri concessori sorge,
infatti, con il rilascio della concessione
edilizia e la giurisprudenza è concorde nel
ritenere che la determinazione del
contributo dovuto per gli oneri in questione
debba essere riferita al momento in cui
sorge l'obbligazione.
Essendo, dunque, trascorsi oltre tredici
anni dal rilascio della concessione edilizia
(avvenuto il 07.08.1986) ed oltre dodici
anni dalla notificazione della stessa
(dell’11.05.1987), alla data dell’emanazione
del provvedimento impugnato (26.10.1999) il
credito doveva in ogni caso ritenersi
estinto per prescrizione, ai sensi del
combinato disposto degli artt. 2934, 2935 e
2946 c.c., non essendo intervenuto alcun
atto interruttivo della prescrizione
decennale e non potendo, quindi, il comune
intimato richiederne il pagamento
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 07.05.2012 n. 1274 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
rilascio di una variante non essenziale non
è idonea a riaprire i termini per
l’impugnazione del titolo edilizio
originariamente assentito.
Ed il criterio discretivo tra una mera
variante ed un nuovo titolo edilizio è stato
individuato nell’entità delle modificazioni
quantitative e qualitative apportate
all’originario progetto, per cui nelle
ipotesi di complessiva compatibilità del
nuovo elaborato con il disegno ispiratore di
quello inizialmente approvato la variante è
stata qualificata come non essenziale.
Cioè, in definitiva, si sono distinte al
riguardo le varianti in senso proprio (o
“leggere”) dalla varianti c.d. “improprie” o
“essenziali”: le prime sono quelle che si
riferiscono a modifiche quantitative e
qualitative di limitata consistenza e di
scarso rilievo rispetto al progetto
originario e si distinguono da quelle che,
pur chiamate varianti nel linguaggio usuale
del termine, tali non possono essere
considerate perché richiedono la
realizzazione di un quid novi (da valutarsi
con riferimento alle evidenze progettuali
quali la superficie coperta, il perimetro,
il numero dei piani, la volumetria, le
distanze dalle proprietà vicine, nonché le
caratteristiche funzionali e strutturali del
fabbricato complessivamente inteso); in
questa seconda categoria vanno ricondotte le
varianti cc.dd. improprie o essenziali, che
si configurano come un nuovo titolo edilizio
e quindi comportano la necessità, laddove
ritenute lesive, di un’autonoma e specifica
impugnativa giurisdizionale.
Tale rapporto che lega un titolo edilizio
alla successiva variante è stato, in
particolare, analizzato ai fini della
necessità di impugnativa del nuovo titolo
edilizio nelle ipotesi in cui sia stato
impugnato il titolo originariamente
assentito e si è al riguardo affermato che
nel mentre l’annullamento del titolo
originario ha effetto caducante nei
confronti delle varianti c.d. leggere (ossia
quelle relative ad aspetti non essenziali),
è necessaria, per contro, un’autonoma
impugnativa delle restanti varianti a
carattere essenziale.
Con la conseguenza che in caso di
inoppugnabilità del titolo edilizio
originario, non residua alcun interesse
all’autonoma impugnazione del permesso di
costruire in variante, con il quale si siano
autorizzate variazioni non essenziali del
progetto che, in quanto tali, non
determinano modificazioni idonee a
considerare il manufatto sostanzialmente
diverso da quello già assentito.
In estrema sintesi deve ritenersi che:
- sono varianti essenziali solo quelle che
contengono consistenti modificazioni
quantitative e qualitative dell’originario
progetto e che non siano complessivamente
compatibili con il disegno ispiratore di
quello inizialmente approvato;
- solo in tali ipotesi il nuovo titolo
edilizio deve essere necessariamente
impugnato;
- il rilascio di una variante non essenziale
non è idonea a riaprire i termini per
l’impugnazione del titolo edilizio
originariamente assentito;
- anche le varianti non essenziali,
peraltro, possono essere autonomamente
impugnate, ove vengano dedotti specifici
vizi che attengono a tali titoli edilizi e
non al titolo edilizio originariamente
assentito.
Va, invero, al riguardo
ricordato che -come è stato pacificamente
affermato dalla giurisprudenza
amministrativa (Cons. St., sez. V, 27.04.2006, n. 2363, TAR Liguria, sez. I, 12.03.2009, n. 303, e TAR Puglia, sez.
Lecce, sez. III, 06.06.2007, n. 2226)-
il rilascio di una variante non essenziale
non è idonea a riaprire i termini per
l’impugnazione del titolo edilizio
originariamente assentito.
Ed il criterio discretivo tra una mera
variante ed un nuovo titolo edilizio è stato
individuato nell’entità delle modificazioni
quantitative e qualitative apportate
all’originario progetto, per cui nelle
ipotesi di complessiva compatibilità del
nuovo elaborato con il disegno ispiratore di
quello inizialmente approvato la variante è
stata qualificata come non essenziale (Cons.
St., sez. IV, 10.12.2010, n. 8730, e
20.11.2008, n. 5743).
Cioè, in definitiva, si sono distinte al
riguardo le varianti in senso proprio (o
“leggere”) dalla varianti c.d. “improprie” o
“essenziali”: le prime sono quelle che si
riferiscono a modifiche quantitative e
qualitative di limitata consistenza e di
scarso rilievo rispetto al progetto
originario e si distinguono da quelle che,
pur chiamate varianti nel linguaggio usuale
del termine, tali non possono essere
considerate perché richiedono la
realizzazione di un quid novi (da valutarsi
con riferimento alle evidenze progettuali
quali la superficie coperta, il perimetro,
il numero dei piani, la volumetria, le
distanze dalle proprietà vicine, nonché le
caratteristiche funzionali e strutturali del
fabbricato complessivamente inteso); in
questa seconda categoria vanno ricondotte le
varianti cc.dd. improprie o essenziali, che
si configurano come un nuovo titolo edilizio
e quindi comportano la necessità, laddove
ritenute lesive, di un’autonoma e specifica
impugnativa giurisdizionale (TAR
Lombardia, sede Milano, sez. II, 02.09.2011, n. 2149).
Tale rapporto che lega un titolo edilizio
alla successiva variante è stato, in
particolare, analizzato ai fini della
necessità di impugnativa del nuovo titolo
edilizio nelle ipotesi in cui sia stato
impugnato il titolo originariamente
assentito e si è al riguardo affermato che
nel mentre l’annullamento del titolo
originario ha effetto caducante nei
confronti delle varianti c.d. leggere (ossia
quelle relative ad aspetti non essenziali),
è necessaria, per contro, un’autonoma
impugnativa delle restanti varianti a
carattere essenziale.
Con la conseguenza che in caso di
inoppugnabilità del titolo edilizio
originario, non residua alcun interesse
all’autonoma impugnazione del permesso di
costruire in variante, con il quale si siano
autorizzate variazioni non essenziali del
progetto che, in quanto tali, non
determinano modificazioni idonee a
considerare il manufatto sostanzialmente
diverso da quello già assentito.
In aggiunta, ai fini della determinazione
della qualificazione come essenziale o meno
di una variante, va anche osservato che
nella Regione Abruzzo la L.R. 13.07.1989, n. 52, recante “norme per l’esercizio
dei poteri di controllo dell'attività
urbanistica ed edilizia, sanzioni
amministrative e delega alle Province delle
relative funzioni”, all’art. 7 ha, tra
l’altro, testualmente precisato che “non
realizzano le fattispecie di parziale
difformità le variazioni ai parametri
edilizi che non superino, per ciascuno di
essi, la tolleranza di cantiere del 3%”.
In estrema sintesi deve ritenersi che:
- sono varianti essenziali solo quelle che
contengono consistenti modificazioni
quantitative e qualitative dell’originario
progetto e che non siano complessivamente
compatibili con il disegno ispiratore di
quello inizialmente approvato;
- solo in tali ipotesi il nuovo titolo
edilizio deve essere necessariamente
impugnato;
- il rilascio di una variante non essenziale
non è idonea a riaprire i termini per
l’impugnazione del titolo edilizio
originariamente assentito;
- anche le varianti non essenziali,
peraltro, possono essere autonomamente
impugnate, ove vengano dedotti specifici
vizi che attengono a tali titoli edilizi e
non al titolo edilizio originariamente
assentito
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 07.05.2012 n. 200 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sugli
atti di imposizione di un vincolo
storico-artistico, in via generale, è
precluso al giudice amministrativo sindacare
le scelte di merito effettuate
dall’Amministrazione, per cui la
sostituzione da parte del giudice
amministrativo della propria valutazione a
quella riservata alla discrezionalità
dell’amministrazione costituisce una ipotesi
di sconfinamento vietato nelle ipotesi di
giurisdizione di legittimità, come quella
che ricorre nel caso di specie.
Di conseguenza, il controllo del giudice
amministrativo sulle valutazioni
discrezionali deve essere svolto ab
estrinseco e non può essere mai sostitutivo;
tale sindacato deve, pertanto, essere
rigorosamente mantenuto sul piano della
verifica della non erroneità della
valutazione degli elementi di fatto e non
può avvalersi di criteri che portano ad
evidenziare la mera non condivisibilità
della valutazione stessa, nei soli limiti
della rilevabilità ictu oculi dei vizi di
legittimità dedotti.
Quanto al sindacato di questo Giudice sugli
atti di imposizione di un vincolo da parte
di organi del Ministero per i Beni e le
Attività Culturali, va ricordato che la
giurisprudenza amministrativa ha
costantemente precisato che tale potere di
vincolo -sia pure sorretto da quel
particolare criterio di giudizio che è
proprio di una discrezionalità ampia (data
sia da una valutazione storico-scientifica e
sia da un apprezzamento di interesse
pubblico delle stesse)- è soggetto al
giudizio del giudice amministrativo nei
limiti del c.d. “sindacato debole”, ossia
entro i canoni della ragionevolezza, della
assenza di evidenti e di palesi
contraddittorietà logiche o abnormità di
fatto, non potendo il giudice amministrativo
sostituire il proprio giudizio a quello
della Pubblica Amministrazione, dal momento
che in presenza di interessi, la cui cura è
dalla legge espressamente delegata ad un
certo organo amministrativo, ammettere che
il giudice possa auto attribuirseli
rappresenterebbe quanto meno una violazione
delle competenze, se non addirittura del
principio di separazione tra i poteri dello
Stato.
In definitiva, tale valutazione del
particolare interesse culturale di un
immobile è sindacabile in sede di
legittimità nei limiti del corretto
esercizio dei poteri affidati
all’Amministrazione sotto il profilo della
completezza dell’istruttoria, della
sussistenza dei presupposti del provvedere,
dell’osservanza di criteri di
proporzionalità e ragionevolezza, ovvero
quando risulti che il risultato raggiunto
dall’Amministrazione, a prescindere dalla
sua fisiologica opinabilità, si colloca
comunque al di fuori dei quei limiti di
naturale elasticità sottesi al concetto
giuridico indeterminato che
l’Amministrazione è chiamata ad applicare,
risultando così, in tutto o in parte
inattendibile.
Deve al riguardo
ricordarsi che questa stessa Sezione ha
recentemente già avuto modo di puntualizzare
con sentenza 08.03.2012, n. 121, i limiti
del sindacato del Giudice amministrativo
sugli atti di imposizione di un vincolo
storico-artistico.
In particolare, in tale occasione si è già
ricordato che la giurisprudenza (anche del
giudice della giurisdizione, Cass. Civ.
SS.UU., 17.02.2012, nn. 2312 e 2313)
ha costantemente chiarito che, in via
generale, è precluso al giudice
amministrativo sindacare le scelte di merito
effettuate dall’Amministrazione, per cui la
sostituzione da parte del giudice
amministrativo della propria valutazione a
quella riservata alla discrezionalità
dell’amministrazione costituisce una ipotesi
di sconfinamento vietato nelle ipotesi di
giurisdizione di legittimità, come quella
che ricorre nel caso di specie. Di
conseguenza, il controllo del giudice
amministrativo sulle valutazioni
discrezionali deve essere svolto ab
estrinseco e non può essere mai sostitutivo;
tale sindacato deve, pertanto, essere
rigorosamente mantenuto sul piano della
verifica della non erroneità della
valutazione degli elementi di fatto e non
può avvalersi di criteri che portano ad
evidenziare la mera non condivisibilità
della valutazione stessa, nei soli limiti
della rilevabilità ictu oculi dei vizi di
legittimità dedotti (così, da ultimo, anche
Cons. St, sez. V, 22.03.2012, n. 1640, e
sez. III, 13.03.2012, n. 1409).
Quanto, poi, al sindacato di questo Giudice
sugli atti di imposizione di un vincolo da
parte di organi del Ministero per i Beni e
le Attività Culturali, va ricordato che la
giurisprudenza amministrativa ha
costantemente precisato che tale potere di
vincolo -sia pure sorretto da quel
particolare criterio di giudizio che è
proprio di una discrezionalità ampia (data
sia da una valutazione storico-scientifica e
sia da un apprezzamento di interesse
pubblico delle stesse)- è soggetto al
giudizio del giudice amministrativo nei
limiti del c.d. “sindacato debole”, ossia
entro i canoni della ragionevolezza, della
assenza di evidenti e di palesi
contraddittorietà logiche o abnormità di
fatto, non potendo il giudice amministrativo
sostituire il proprio giudizio a quello
della Pubblica Amministrazione, dal momento
che in presenza di interessi, la cui cura è
dalla legge espressamente delegata ad un
certo organo amministrativo, ammettere che
il giudice possa auto attribuirseli
rappresenterebbe quanto meno una violazione
delle competenze, se non addirittura del
principio di separazione tra i poteri dello
Stato.
In definitiva, tale valutazione del
particolare interesse culturale di un
immobile è sindacabile in sede di
legittimità nei limiti del corretto
esercizio dei poteri affidati
all’Amministrazione sotto il profilo della
completezza dell’istruttoria, della
sussistenza dei presupposti del provvedere,
dell’osservanza di criteri di
proporzionalità e ragionevolezza, ovvero
quando risulti che il risultato raggiunto
dall’Amministrazione, a prescindere dalla
sua fisiologica opinabilità, si colloca
comunque al di fuori dei quei limiti di
naturale elasticità sottesi al concetto
giuridico indeterminato che
l’Amministrazione è chiamata ad applicare,
risultando così, in tutto o in parte
inattendibile (Cons. giust. amm. Reg. Sic.,
10.06.2011, n. 418)
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 07.05.2012 n. 193 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
termine di 45 giorni, previsto dall’art. 4
della L. n. 47 del 1985, entro cui il
Comune, dopo l’emissione dell’ordinanza di
sospensione dei lavori abusivi, deve emanare
i provvedimenti definitivi diretti a
reprimere l’abuso edilizio accertato,
designa solo il termine della legale durata
del provvedimento di sospensione dei lavori,
trascorso il quale lo stesso perde la sua
efficacia, e che la scadenza di detto
termine, tuttavia, non priva il Comune del
potere di adottare i provvedimenti
definitivamente repressivi della violazione
edilizia perpetrata; con la conseguenza che
l’avvenuto decorso di tale termine senza
l’adozione dei provvedimenti definitivi non
rende illegittimo né l’ordine di sospensione
dei lavori già emesso, né il successivo
definitivo provvedimento repressivo
dell’abuso che sia stato emanato dopo la
scadenza di tale termine.
Le impugnazioni di
tali ordinanze di sospensione dei lavori
divenute inefficaci a seguito del decorso
del termine massimo di efficacia previsto
dalla legge sono inammissibili, ove la
perdita degli effetti si verifichi prima
della proposizione dell'impugnazione, o improcedibili,
ove, al contrario, la perdita di efficacia
sopraggiunga nel corso del processo.
Ora va al riguardo ricordato che
la giurisprudenza amministrativa ha
costantemente affermato che il termine di
quarantacinque giorni, previsto dall’art. 4
della L. n. 47 del 1985, entro cui il
Comune, dopo l’emissione dell’ordinanza di
sospensione dei lavori abusivi, deve emanare
i provvedimenti definitivi diretti a
reprimere l’abuso edilizio accertato,
designa solo il termine della legale durata
del provvedimento di sospensione dei lavori,
trascorso il quale lo stesso perde la sua
efficacia, e che la scadenza di detto
termine, tuttavia, non priva il Comune del
potere di adottare i provvedimenti
definitivamente repressivi della violazione
edilizia perpetrata; con la conseguenza che
l’avvenuto decorso di tale termine senza
l’adozione dei provvedimenti definitivi non
rende illegittimo né l’ordine di sospensione
dei lavori già emesso, né il successivo
definitivo provvedimento repressivo
dell’abuso che sia stato emanato dopo la
scadenza di tale termine.
La stessa giurisprudenza ha, in definitiva,
al riguardo precisato che le impugnazioni di
tali ordinanze di sospensione dei lavori
divenute inefficaci a seguito del decorso
del termine massimo di efficacia previsto
dalla legge sono inammissibili, ove la
perdita degli effetti si verifichi prima
della proposizione dell'impugnazione, o
improcedibili, ove, al contrario, la perdita
di efficacia sopraggiunga nel corso del
processo (cfr. per tutti e da ultimo, TAR
Lazio, sede Roma, sez. II, 02.01.2012,
n. 1, sez. II, 14.11.2011, n. 8825, 09.05.2011, n. 3989, 22.12.2010, n.
38234, e sez. I, 08.11.2011, n. 8579, e
04.06.2010, n. 15297, nonché, TAR
Valle d’Aosta 16.05.2011, n. 35, TAR
Puglia, sez. Lecce, sez. III, 07.04.2011,
n. 620, e 17.11.2010, n. 2662, e sede
Bari, sez. III, 30.09.2010, n. 3524,
e TAR Campania, sede Napoli, sez. VII, 27.05.2009, n. 2948, e 24.07.2008, n.
9321).
Tale orientamento della giurisprudenza trova
evidentemente la sua giustificazione nella
circostanza che, una volta decorso il
termine di efficacia della sospensione dei
lavori, il destinatario dell’atto non ha
generalmente più alcun interesse a
contestarne la legittimità.
Tale considerazione è stata oggi recepita
dal codice del processo amministrativo, che
all’art. 34 ha in merito testualmente
previsto che non può disporsi l’annullamento
dell’atto impugnato, “quando nel corso del
giudizio l’annullamento del provvedimento
impugnato non risulta più utile per il
ricorrente”, con l’esclusione, peraltro, dei
soli casi in cui “sussiste l’interesse ai
fini risarcitori”
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 07.05.2012 n. 191 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Ai
sensi dell’art. 43, comma 2, del D.lgs.
18.08.2000, n. 267, i
consiglieri comunali hanno diritto di
ottenere dagli uffici del comune tutte le
notizie e le informazioni in loro possesso,
utili all’espletamento del proprio mandato.
Il diritto di accesso del consigliere
comunale agli atti del Comune assume un
connotato particolare, in quanto finalizzato
al pieno ed effettivo svolgimento delle
funzioni assegnate al Consiglio comunale,
con la conseguenza che sul consigliere
comunale non grava alcun onere di motivare
le proprie richieste d’informazione, né gli
uffici comunali hanno titolo a richiederle
ed conoscerle.
Tra l’accesso ai documenti
dei soggetti interessati di cui agli art. 22
ss. della L. 07.08.1990, n. 241, e quello
del consigliere comunale di cui al predetto
art. 43, sussiste una profonda differenza,
poiché il primo è un istituto che consente
ai singoli soggetti di conoscere atti e
documenti al fine di poter predisporre la
tutela delle proprie posizioni soggettive
eventualmente lese, mentre il secondo è un
istituto giuridico posto al fine di
consentire al consigliere comunale di poter
esercitare il proprio mandato, verificando e
controllando il comportamento degli organi
istituzionali decisionali del comune.
Per
cui, in definitiva, in base al predetto art.
43 i consiglieri comunali, ivi inclusi
ovviamente quelli di minoranza, hanno un
diritto di accesso incondizionato a tutti
gli atti che possano essere “utili”
all’espletamento del loro mandato, anche al
fine di permettere di valutare con piena
cognizione la correttezza e l’efficacia
dell’operato dell’Amministrazione, nonché
per esprimere un voto consapevole sulle
questioni di competenza del Consiglio e per
promuovere, anche nell’ambito del Consiglio
stesso, le iniziative che spettano ai
singoli rappresentanti del corpo elettorale
locale.
Pertanto, al consigliere comunale non può
essere opposto alcun diniego (salvo casi
eccezionali e contingenti, da motivare
puntualmente e adeguatamente, e salvo il
caso -da dimostrare- che lo stesso agisca
per interesse personale), determinandosi
altrimenti un illegittimo ostacolo al
concreto esercizio della sua funzione, che è
quella di verificare che il sindaco e la
giunta municipale esercitino correttamente
la loro funzione.
Nessuna limitazione può
derivare al diritto d’accesso del
consigliere comunale agli atti del Comune,
qualunque sia il loro destinatario,
dall’eventuale natura riservata delle
informazioni richieste, essendo il
consigliere vincolato al segreto d’ufficio; fermo restando che anche tali
richieste sono soggette al rispetto di
alcune forme e modalità, quali l’allegazione
della qualità di consigliere comunale e la
formulazione dell’istanza in maniera
specifica e dettagliata, recando l’esatta
indicazione degli estremi identificativi
degli atti e dei documenti o, qualora siano
ignoti tali estremi, almeno degli elementi
che consentano l’individuazione dell’oggetto
dell’accesso.
Il consigliere comunale non
può abusare del diritto all’informazione
riconosciutogli dall’ordinamento, piegandone
le alte finalità a scopi meramente emulativi
od aggravando eccessivamente, con richieste
non contenute entro gli immanenti limiti
della proporzionalità e della
ragionevolezza, la corretta funzionalità
amministrativa, incidendo in termini
rilevanti sulle spese generali dell’Ente.
Va al riguardo premesso che,
come è noto, ai sensi dell’art. 43, comma 2,
del D.lgs. 18.08.2000, n. 267, i
consiglieri comunali hanno diritto di
ottenere dagli uffici del comune tutte le
notizie e le informazioni in loro possesso,
utili all’espletamento del proprio mandato.
Ora, interpretando tale normativa, il
giudice amministrativo ha costantemente
chiarito che il diritto di accesso del
consigliere comunale agli atti del Comune
assume un connotato particolare, in quanto
finalizzato al pieno ed effettivo
svolgimento delle funzioni assegnate al
Consiglio comunale, con la conseguenza che
sul consigliere comunale non grava alcun
onere di motivare le proprie richieste
d’informazione, né gli uffici comunali hanno
titolo a richiederle ed conoscerle (Cons.
St., sez. V, 29.08.2011, n. 4829).
In definitiva -come la giurisprudenza
amministrativa ha costantemente avuto modo
di precisare- tra l’accesso ai documenti
dei soggetti interessati di cui agli art. 22
ss. della L. 07.08.1990, n. 241, e quello
del consigliere comunale di cui al predetto
art. 43, sussiste una profonda differenza,
poiché il primo è un istituto che consente
ai singoli soggetti di conoscere atti e
documenti al fine di poter predisporre la
tutela delle proprie posizioni soggettive
eventualmente lese, mentre il secondo è un
istituto giuridico posto al fine di
consentire al consigliere comunale di poter
esercitare il proprio mandato, verificando e
controllando il comportamento degli organi
istituzionali decisionali del comune.
Per
cui, in definitiva, in base al predetto art.
43 i consiglieri comunali, ivi inclusi
ovviamente quelli di minoranza, hanno un
diritto di accesso incondizionato a tutti
gli atti che possano essere “utili”
all’espletamento del loro mandato, anche al
fine di permettere di valutare con piena
cognizione la correttezza e l’efficacia
dell’operato dell’Amministrazione, nonché
per esprimere un voto consapevole sulle
questioni di competenza del Consiglio e per
promuovere, anche nell’ambito del Consiglio
stesso, le iniziative che spettano ai
singoli rappresentanti del corpo elettorale
locale.
Pertanto, al consigliere comunale non può
essere opposto alcun diniego (salvo casi
eccezionali e contingenti, da motivare
puntualmente e adeguatamente, e salvo il
caso -da dimostrare- che lo stesso agisca
per interesse personale), determinandosi
altrimenti un illegittimo ostacolo al
concreto esercizio della sua funzione, che è
quella di verificare che il sindaco e la
giunta municipale esercitino correttamente
la loro funzione.
In particolare, è stato
precisato che nessuna limitazione può
derivare al diritto d’accesso del
consigliere comunale agli atti del Comune,
qualunque sia il loro destinatario,
dall’eventuale natura riservata delle
informazioni richieste, essendo il
consigliere vincolato al segreto d’ufficio
(Cons. St., sez. V, 08.09.2011, n.
5053); fermo restando che anche tali
richieste sono soggette al rispetto di
alcune forme e modalità, quali l’allegazione
della qualità di consigliere comunale e la
formulazione dell’istanza in maniera
specifica e dettagliata, recando l’esatta
indicazione degli estremi identificativi
degli atti e dei documenti o, qualora siano
ignoti tali estremi, almeno degli elementi
che consentano l’individuazione dell’oggetto
dell’accesso.
Peraltro, la stessa giurisprudenza ha anche
precisato che il consigliere comunale non
può abusare del diritto all’informazione
riconosciutogli dall’ordinamento, piegandone
le alte finalità a scopi meramente emulativi
od aggravando eccessivamente, con richieste
non contenute entro gli immanenti limiti
della proporzionalità e della
ragionevolezza, la corretta funzionalità
amministrativa, incidendo in termini
rilevanti sulle spese generali dell’Ente.
Con riferimento a tali principi
costantemente affermati in giurisprudenza e
dai quali non sussistono ragioni per
discostarsi, sembra evidente al Collegio che
l’istante abbia di certo diritto ad accedere
a tutti gli atti richiesti con la predetta
istanza del 14.11.2011. Sembra infatti
evidente che tale richiesta, da un lato, sia
funzionale allo svolgimento dell’attività di
verifica e di controllo propria del
consigliere comunale e, dall’altro, non
comporti alcun aggravio alle spese ed alla
funzionalità dell’Ente; mentre la ipotizzata
natura “strettamente personale” degli
atti richiesti non avrebbe potuta essere
opposta al richiedente, in quanto il
consigliere è vincolato al segreto d’ufficio
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 07.05.2012 n. 190 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Interpretando
la previgente normativa contenuta nell’art.
43 del T.U. sulle espropriazioni, la
giurisprudenza amministrativa ha già
costantemente precisato che il Consiglio
comunale è competente a deliberare tale
acquisizione, in quanto tale atto è emesso
ab externo al procedimento espropriativo,
quindi non è disciplinato dalle relative
norme; inoltre, i provvedimenti di
acquisizione rientrano a pieno titolo nelle
competenze consiliari di cui alla lett. l)
dell’art. 42, comma 2, D.Lgs. 18.08.2000, n.
267, la quale elenca “acquisti e alienazioni
immobiliari, relative permute, appalti e
concessioni che non siano previsti
espressamente in atti fondamentali del
Consiglio o che non ne costituiscano mera
esecuzione e che, comunque, non rientrino
nella ordinaria amministrazione di funzioni
e servizi di competenza della Giunta, del
segretario o di altri funzionari”, così
ricomprendendo anche l’ipotesi di acquisto
di immobili mediante lo strumento di diritto
pubblico in parola.
Tale principio è applicabile anche alla
acquisizioni disposte ai sensi dell’art.
42-bis, che ha nella sostanza reintrodotto
un meccanismo di acquisizione sanante delle
occupazioni illegittime parzialmente analogo
a quello disciplinato dal predetto art. 43.
... per l'annullamento del decreto
05.03.2012, n. 1, con il quale il
Responsabile del Settore Tecnico del Comune
di Moscufo ha disposto, ai sensi dell’art.
42-bis del D.P.R. 08.06.2001, n. 327,
l’acquisizione al patrimonio indisponibile
del Comune di un fondo di proprietà del
ricorrente utilizzato per scopi di pubblico
interesse; nonché degli atti presupposti e
connessi.
Va, invero, al riguardo, ricordato che,
interpretando la previgente normativa
contenuta nell’art. 43 del T.U. sulle
espropriazioni, la giurisprudenza
amministrativa ha già costantemente
precisato che il Consiglio comunale è
competente a deliberare tale acquisizione,
in quanto tale atto è emesso ab externo
al procedimento espropriativo, quindi non è
disciplinato dalle relative norme; inoltre,
i provvedimenti di acquisizione rientrano a
pieno titolo nelle competenze consiliari di
cui alla lett. l) dell’art. 42, comma 2,
D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, la quale elenca “acquisti
e alienazioni immobiliari, relative permute,
appalti e concessioni che non siano previsti
espressamente in atti fondamentali del
Consiglio o che non ne costituiscano mera
esecuzione e che, comunque, non rientrino
nella ordinaria amministrazione di funzioni
e servizi di competenza della Giunta, del
segretario o di altri funzionari”, così
ricomprendendo anche l’ipotesi di acquisto
di immobili mediante lo strumento di diritto
pubblico in parola (così, da ultimo, Cons.
St., sez. V, 13.10.2010, n. 7472, e sez. III,
31.08.2010, n. 775). Nello stesso senso si
è, inoltre, già pronunciato anche questo
stesso Tribunale con sentenza 12.01.2010, n.
15, in conformità, peraltro, ad un costante
orientamento seguito dagli organi di
giustizia amministrativa di primo grado
(cfr. TAR Toscana, sez. I, 12.05.2009, n.
817, TAR Emilia Romagna, sez. Parma,
11.06.2008, n. 307, TAR Campania, sede
Napoli, 09.01.2008, n. 74, e TAR Calabria,
sez. Reggio Calabria, 22.02.2006, n. 322).
Ritiene il Collegio che tale principio sia
applicabile anche alla acquisizioni disposte
ai sensi dell’art. 42-bis, che ha nella
sostanza reintrodotto un meccanismo di
acquisizione sanante delle occupazioni
illegittime parzialmente analogo a quello
disciplinato dal predetto art. 43 (TAR
Abruzzo-Pescara,
sentenza 07.05.2012 n. 189 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Il
partecipante ad una gara non risultato
vincitore ha la facoltà (ma non l’onere) di
impugnare l’aggiudicazione provvisoria,
anche se tale impugnativa non esime il
soggetto leso dall’impugnare anche il
provvedimento conclusivo della procedura,
cioè l’atto di aggiudicazione definitiva.
L'’onere di immediata impugnazione di
un bando di gara è limitato alle sole cause
escludenti che stabiliscono, con
prescrizioni inequivoche, requisiti di
partecipazione alla procedura selettiva non
posseduti dalla ricorrente o quelle
clausole che incidono direttamente sulla
formulazione dell’offerta, impedendone la
corretta e consapevole elaborazione, per
cui la loro lesività può e deve essere
immediatamente contestata senza attendere
l’esito della gara; mentre va escluso un
immediato onere di impugnazione nei riguardi
di ogni altra clausola dotata solo di
astratta e potenziale lesività, la cui
idoneità a produrre una concreta ed attuale
lesione può essere valutata unicamente
all’esito, non scontato, della medesima
procedura e solo nel caso in cui tale esito
sia negativo per l’interessato.
Negli appalti pubblici da aggiudicare
con il criterio dell’offerta economicamente
più vantaggiosa il principio della
pubblicità delle operazioni trova
applicazione con specifico riferimento anche
all’apertura della busta contenente
l’offerta tecnica atteso che la pubblicità
delle sedute di gara risponde all’esigenza
di tutela non solo della parità di
trattamento dei concorrenti, ai quali deve
essere permesso di effettuare gli opportuni
riscontri sulla regolarità formale degli
atti prodotti e di avere così la garanzia
che non siano successivamente intervenute
indebite alterazioni, ma anche
dell’interesse pubblico alla trasparenza e
all’imparzialità dell’azione amministrativa,
le cui conseguenze negative sono
difficilmente apprezzabili ex post una volta
rotti i sigilli ed aperti i plichi, in
mancanza di un riscontro immediato; con la
conseguenza che è illegittima la clausola
del bando che prevede, per la fase di
apertura delle buste contenenti le offerte
tecniche, una seduta riservata, atteso che
all’apertura delle buste delle offerte
tecniche, come per quelle contenenti la
documentazione amministrativa e l’offerta
economica, deve procedersi in seduta
pubblica, trattandosi di un passaggio
essenziale e determinante dell’esito della
procedura concorsuale che deve essere
presidiata dalle medesime garanzie previste
per l’apertura delle buste contenenti la
documentazione amministrativa e l'offerta
economica, a tutela degli interessi privati
e pubblici coinvolti dal procedimento.
Tale principio di pubblicità dei
procedimenti di gara, che trova fondamento
nel dettato costituzionale (art. 97) e nei
principi comunitari, è applicabile in
qualunque tipo di gara ed anche agli appalti
concernenti i cc. dd. settori esclusi, a
nulla rilevando sul punto il silenzio della
legge.
Va, invero, ricordato che la
giurisprudenza amministrativa ha al
riguardo, affermato i seguenti principi dai
quali il Collegio non ritiene di potersi
discostare:
- che il partecipante ad una gara non
risultato vincitore ha la facoltà (ma non
l’onere) di impugnare l’aggiudicazione
provvisoria, anche se tale impugnativa non
esime il soggetto leso dall’impugnare anche
il provvedimento conclusivo della procedura,
cioè l’atto di aggiudicazione definitiva
(Cons. St., sez. V, 31.01.2012, n. 467,
e sez. VI, 26.09.2011, n. 5367, e TAR
Lazio sede Roma, sez. III, 07.10.2011,
n. 7808);
- che l’onere di immediata impugnazione di
un bando di gara è limitato alle sole cause
escludenti che stabiliscono, con
prescrizioni inequivoche, requisiti di
partecipazione alla procedura selettiva non
posseduti dalla ricorrente (Cons. St., sez.
III, 07.12.2011, n. 6466) o quelle
clausole che incidono direttamente sulla
formulazione dell’offerta, impedendone la
corretta e consapevole elaborazione (Cons.
St., sez. III, 03.10.2011, n. 5421), per
cui la loro lesività può e deve essere
immediatamente contestata senza attendere
l’esito della gara; mentre va escluso un
immediato onere di impugnazione nei riguardi
di ogni altra clausola dotata solo di
astratta e potenziale lesività, la cui
idoneità a produrre una concreta ed attuale
lesione può essere valutata unicamente
all’esito, non scontato, della medesima
procedura e solo nel caso in cui tale esito
sia negativo per l’interessato (Cons. St,
sez. V, 05.10.2011, n. 5454);
- che negli appalti pubblici da aggiudicare
con il criterio dell’offerta economicamente
più vantaggiosa il principio della
pubblicità delle operazioni trova
applicazione con specifico riferimento anche
all’apertura della busta contenente
l’offerta tecnica atteso che la pubblicità
delle sedute di gara risponde all’esigenza
di tutela non solo della parità di
trattamento dei concorrenti, ai quali deve
essere permesso di effettuare gli opportuni
riscontri sulla regolarità formale degli
atti prodotti e di avere così la garanzia
che non siano successivamente intervenute
indebite alterazioni, ma anche
dell’interesse pubblico alla trasparenza e
all’imparzialità dell’azione amministrativa,
le cui conseguenze negative sono
difficilmente apprezzabili ex post una volta
rotti i sigilli ed aperti i plichi, in
mancanza di un riscontro immediato (Cons.
St. Ad. Pl., 28.07.2011, n. 13); con la
conseguenza che è illegittima la clausola
del bando che prevede, per la fase di
apertura delle buste contenenti le offerte
tecniche, una seduta riservata, atteso che
all’apertura delle buste delle offerte
tecniche, come per quelle contenenti la
documentazione amministrativa e l’offerta
economica, deve procedersi in seduta
pubblica, trattandosi di un passaggio
essenziale e determinante dell’esito della
procedura concorsuale che deve essere
presidiata dalle medesime garanzie previste
per l’apertura delle buste contenenti la
documentazione amministrativa e l'offerta
economica, a tutela degli interessi privati
e pubblici coinvolti dal procedimento (Cons.
Stato, sez. III, 04.11.2011, n. 5866).
- che tale principio di pubblicità dei
procedimenti di gara, che trova fondamento
nel dettato costituzionale (art. 97) e nei
principi comunitari, è applicabile in
qualunque tipo di gara (Cons. St. sez. V, 25.08.2011, n. 4806) ed anche agli appalti
concernenti i cc. dd. settori esclusi, a
nulla rilevando sul punto il silenzio della
legge (Cons. Stato, sez. V, 05.10.2011, n.
5454)
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 07.05.2012 n. 188 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L’impugnazione
di un atto presupposto, di per sé lesivo
dell’interesse del privato, consente di
soprassedere dalla impugnativa dell’atto
consequenziale tutte le volte in cui
l’eventuale annullamento del primo sia in
grado provocare una automatica caducazione
del secondo, vale a dire se il provvedimento
successivo abbia carattere meramente
esecutivo dell’atto presupposto e si ponga
in rapporto di immediata derivazione
dall’atto precedente.
Secondo un consolidato
orientamento degli organi di giustizia
amministrativa- l’impugnazione di un atto
presupposto, di per sé lesivo dell’interesse
del privato, consente di soprassedere dalla
impugnativa dell’atto consequenziale tutte
le volte in cui l’eventuale annullamento del
primo sia in grado provocare una automatica caducazione
del secondo, vale a dire se il provvedimento
successivo abbia carattere meramente
esecutivo dell’atto presupposto e si ponga
in rapporto di immediata derivazione
dall’atto precedente (TAR Sicilia, sez.
Catania, sez. I, 13.02.2012, n. 383, e TAR
Puglia, sez. Lecce, sez. I, 12.05.2011, n.
840)
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 07.05.2012 n. 185 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’amministrazione
in ipotesi di segnalazioni sottoscritte,
circostanziate e documentate, ha comunque
l’obbligo di attivare un procedimento di
controllo e verifica dell’abuso della cui
conclusione deve restare traccia, sia essa
nel senso dell’esercizio dei poteri
sanzionatori, che in quella della motivata
archiviazione, e ciò in forza dei principi
di cui all’art. 2 della legge sul
procedimento, dovendosi in particolare
escludere che la ritenuta mancanza dei
presupposti per l’esercizio dei poteri
sanzionatori possa giustificare un
comportamento meramente silente.
Non v’è dubbio che la tutelabilità
dell’affidamento ingeneratosi in capo al
privato circa la legittimità dell’azione
amministrativa della quale egli è
destinatario sia principio che ha ormai
trovato, sulla spinta della giurisprudenza
comunitaria, piena cittadinanza pur a fronte
di un’attività autoritativa e discrezionale.
Fonda le sue ragioni sull’imputabilità
all’amministrazione, del comportamento
illegittimo che ha prodotto o concorso a
produrre un ampliamento della sfera
giuridica dell’incolpevole destinatario,
giungendo a riconoscere protezione o
comunque rilievo alla ragionevole
aspettativa nella bontà e stabilità degli
effetti che ne derivano in suo favore.
Ciò può predicarsi per i casi di titoli
abilitativi in materia edilizia, poi
annullati in autotutela dalla stessa
amministrazione ed a ben vedere non mancano
espresse e specifiche previsioni normative
che positivizzano il principio (v. art. 38
dPR 380/2001).
Nel caso dell’abuso edilizio, tuttavia, la
situazione è affatto diversa. V’è un
soggetto che pone in essere un comportamento
contrastante con le prescrizioni
dell’ordinamento, che confida nell’omissione
dei controlli o comunque nella persistente
inerzia dell’amministrazione nell’esercizio
del potere di vigilanza. Il fattore tempo
non agisce qui in sinergia con l’apparente
legittimità dell’azione amministrativa
favorevole, a tutela di un’aspettativa
conforme alle statuizioni amministrative
pregresse, ma opera in antagonismo con
l’azione amministrativa sanzionatoria,
secondo una logica che al passare del tempo
riduce o limita, sino ad annullare, il
potere dell’amministrazione di reagire
all’illecito, molto simile a quella che
presidia i meccanismi decadenziali o quelli
prescrizionali nel diritto penale.
Una logica siffatta non può trovare
fondamento nei principi generali
dell’affidamento né in quelli di efficacia e
buon andamento dell’amministrazione,
necessitando invece di un’apposita
previsione normativa che, agendo sulla
patologia dell’inerzia, la sanzioni con
l’estinzione o con il mutamento del potere
amministrativo esercitabile. In assenza,
vale il principio dell’inesauribilità del
potere amministrativo di vigilanza e
controllo e della sanzionabilità del
comportamento illecito dei privati,
qualunque sia l’entità dell’infrazione e il
lasso temporale trascorso, salve le ipotesi
di dolosa preordinazione o di abuso.
E’ quanto costantemente affermato dalla
giurisprudenza del Consiglio di Stato che ha
sempre posto l’accento sulla non
configurabilità di un affidamento alla
conservazione di una situazione di fatto
abusiva, in forza di una legittimazione
fondata sul tempo (Cfr. da ultimo, Consiglio
Stato, sez. IV, 31/08/2010, n. 3955; sez. V,
27/04/2011, n. 2497; sez. VI, 11/05/2011, n.
2781; sez. I, 30/06/2011, n. 4160).
Giova altresì evidenziare, in linea con
quanto dedotto dall’appellante, che anche a
prescindere dalla condivisione
dell’impostazione di cui sopra,
l’amministrazione in ipotesi di segnalazioni
sottoscritte, circostanziate e documentate,
ha comunque l’obbligo di attivare un
procedimento di controllo e verifica
dell’abuso della cui conclusione deve
restare traccia, sia essa nel senso
dell’esercizio dei poteri sanzionatori, che
in quella della motivata archiviazione, e
ciò in forza dei principi di cui all’art. 2
della legge sul procedimento, dovendosi in
particolare escludere che la ritenuta
mancanza dei presupposti per l’esercizio dei
poteri sanzionatori possa giustificare un
comportamento meramente silente (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.05.2012 n. 2592 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Per i soggetti non destinatari di
notifica individuale, la decorrenza del
termine per impugnare un atto decorre dalla
scadenza del termine di pubblicazione
all'Albo Pretorio del comune di riferimento.
Le persone direttamente contemplate
nell'atto amministrativo a cui, a norma
dell'art. 2 r.d. n. 17.08.1907 n. 642, deve
essere notificato o comunicato l'atto
stesso, non sono soltanto i soggetti
menzionati nell'atto, ma anche chi, pur non
essendo menzionato, sia in qualche modo da
ritenersi destinatario del medesimo.
Pertanto, nei confronti di tali soggetti, la
pubblicazione dell'atto nelle forme di rito
non fa decorrere il termine per
l'impugnazione occorrendo, a tal fine, la
notificazione o comunicazione individuale,
ovvero la prova dell'effettiva conoscenza.
Posto che l’ordinanza si dirigeva ad una
platea non indeterminata di destinatari, in
carenza di prova della notifica della stessa
ovvero di piena conoscenza antecedente a
quest’ultima, il termine di impugnazione non
può farsi decorrere dalla data della (mera)
pubblicazione nell’albo pretorio.
E' noto che per pacifica giurisprudenza per
i soggetti non destinatari di notifica
individuale, la decorrenza del termine per
impugnare un atto decorre dalla scadenza del
termine di pubblicazione all'Albo Pretorio
del comune di riferimento.
E’ altresì pacifico, però (ex multis
si veda Consiglio Stato, sez. VI,
14.01.2002, n. 151) che le persone
direttamente contemplate nell'atto
amministrativo a cui, a norma dell'art. 2
r.d. n. 17.08.1907 n. 642, deve essere
notificato o comunicato l'atto stesso, non
sono soltanto i soggetti menzionati
nell'atto, ma anche chi, pur non essendo
menzionato, sia in qualche modo da ritenersi
destinatario del medesimo. Pertanto, nei
confronti di tali soggetti, la pubblicazione
dell'atto nelle forme di rito non fa
decorrere il termine per l'impugnazione
occorrendo, a tal fine, la notificazione o
comunicazione individuale, ovvero la prova
dell'effettiva conoscenza.
Posto che l’ordinanza si dirigeva ad una
platea non indeterminata di destinatari, in
carenza di prova della notifica della stessa
ovvero di piena conoscenza antecedente a
quest’ultima, il termine di impugnazione non
può farsi decorrere dalla data della (mera)
pubblicazione nell’albo pretorio (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.05.2012 n. 2591 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
La comunicazione dell'avvio del
procedimento prevista dall'art. 7, L.
07.08.1990 n. 241, non è necessaria nel caso
di approvazione del progetto preliminare di
un'opera pubblica, atteso che tale
comunicazione occorre solo nel caso in cui
sia stato approvato il progetto definitivo
dell’opera, al quale è riconnessa per
implicito anche
Non sussiste alcun obbligo
dell'Amministrazione di comunicare l'avvio
del procedimento ex art. 7 L. n. 241/1990
relativamente all'approvazione del progetto
preliminare, il quale non è nemmeno di per
sé un atto autonomamente impugnabile, in
quanto solo endoprocedimentale, diversamente
dai progetti definitivo ed esecutivo,
impugnabili poiché in grado di ledere la
posizione giuridica soggettiva del singolo.
Osserva la Sezione che la problematica così
sollevata è stata da tempo risolta dalla
giurisprudenza, che con orientamento
consolidato –dal quale non si rinvengono
ragioni per discostarsi- ha chiarito che la
comunicazione dell'avvio del procedimento
prevista dall'art. 7, L. 07.08.1990 n. 241,
non è necessaria nel caso di approvazione
del progetto preliminare di un'opera
pubblica, atteso che tale comunicazione
occorre solo nel caso in cui sia stato
approvato il progetto definitivo dell’opera,
al quale è riconnessa per implicito anche la
dichiarazione di pubblica utilità, come
previsto dall'art. 14, comma 13, L.
11.02.1994 n. 109 (C.d.S., IV, 29.05.2009,
n. 3364; 11.04.2007, n. 1668; 14.12.2002, n.
6917; 26.09.2001, n. 5070).
Non sussiste, quindi, alcun obbligo
dell'Amministrazione di comunicare l'avvio
del procedimento ex art. 7 L. n. 241/1990
relativamente all'approvazione del progetto
preliminare (IV, 03.08.2010, n. 5155), il
quale non è nemmeno di per sé un atto
autonomamente impugnabile, in quanto solo
endoprocedimentale, diversamente dai
progetti definitivo ed esecutivo,
impugnabili poiché in grado di ledere la
posizione giuridica soggettiva del singolo (IV,
22.06.2006, n. 3949) (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 03.05.2012 n. 2535 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Al privato non è chiesto un
particolare sforzo probatorio per dimostrare
la colpa della p.a., potendo invocare
l’illegittimità del provvedimento quale
presunzione semplice della colpa e anche
allegare circostanze ulteriori idonee a
dimostrare che non si è trattato di errore
scusabile. Spetterà all’amministrazione di
provare che si è trattato di un errore
scusabile, configurabile, secondo il
suddetto orientamento giurisprudenziale, nel
caso di contrasto giurisprudenziale
sull’interpretazione di una norma o di
comportamenti di altri soggetti o di
applicazione di una norma successivamente
dichiarata incostituzionale.
Secondo l’orientamento prevalente, al
privato non è chiesto un particolare sforzo
probatorio per dimostrare la colpa della
p.a., potendo invocare l’illegittimità del
provvedimento quale presunzione semplice
della colpa e anche allegare circostanze
ulteriori idonee a dimostrare che non si è
trattato di errore scusabile. Spetterà
all’amministrazione di provare che si è
trattato di un errore scusabile,
configurabile, secondo il suddetto
orientamento giurisprudenziale, nel caso di
contrasto giurisprudenziale
sull’interpretazione di una norma o di
comportamenti di altri soggetti o di
applicazione di una norma successivamente
dichiarata incostituzionale (Cons. Stato,
sez. V. 12.02.2008, n. 491; sez. VI,
03.06.2006, n. 3981; 09.03.2007, n. 1114).
L’accertata illegittimità dell’atto ritenuto
lesivo dall’interessata rappresenta, quindi,
indice grave preciso e concordante della
colpa dell’amministrazione, in quanto la
decisione del giudice indica la violazione
del parametro che specifica la colpa
dell’amministrazione (Cons. stato, V. n.
4239 del 2001).
Ciò posto in via di principio, nel caso in
esame, l’accertamento contenuto nella
sentenza del TAR Campania n. 2308 del 1997
confermata in appello con decisione del
Consiglio di Stato, sezione IV, n. 5734 del
2000 che affermava “alla data del bando,
24.09.1995, la Allianz Subalpina poteva
vantare quale proprio fatturato del 1994 non
solo quello dell’Unione subalpina
d’Assicurazioni s.p.a. ma anche quello della
Allainz Pace assicurazioni e riassicurazioni
s.p.a., in quanto di queste ultime società
l’Unione Subalpina –era divenuta per effetto
della fusione per incorporazione– l’avente
causa a titolo universale”) costituisce
indizio grave e preciso della colpa
dell’amministrazione.
Quanto alle difficoltà interpretative delle
norme sul diritto societario ed in
particolare sulla fusione per
incorporazione, addotte dall’amministrazione
regionale ad errore scusabile e, quindi, ad
errore non rimproverabile, non costituiscono
esimente per l’amministrazione che ben
poteva acquisire pareri legali
nell’incertezza interpretativa delle norme
in materia.
Invero, nemmeno appaiono ipotizzabili tali
difficoltà interpretative in presenza della
chiara dizione della norma codicistica che
stabilisce che “una volta avvenuta la
fusione, questa produce tutti i suoi
effetti, compresa l’imputazione al nuovo
soggetto dei rapporti facenti capo ai
soggetti che danno luogo alla fusione” (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 03.05.2012 n. 2534 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La valutazione della gravità
delle condanne riportate dai concorrenti di
una gara pubblica ed alla loro incidenza
sulla moralità professionale, spetta alla
Stazione Appaltante e non al concorrente
medesimo che non può operare a monte alcun
"filtro" sulla base di una selezione
compiuta secondo criteri personali ed è
obbligato ad indicare tutte le condanne
riportate.
Lo ha affermato la Sez. VI del Consiglio di
Stato con la
sentenza
02.05.2012 n. 2507 che ha confermato
una sentenza di primo grado del Tribunale
Amministrativo Regionale per la Puglia che
aveva respinto il ricorso presentato contro
l'esclusione da una gara per la mancata
dichiarazione della condanna riportata
dall'amministratore unico dell'impresa
ausiliaria per la violazione di una norma
relativa alla prevenzione degli infortuni
sul lavoro, dichiarazione resa obbligatoria
dal disciplinare di gara.
In particolare, la parte appellante ha
sostenuto che l'obbligo di dichiarazione
delle condanne deve essere riferito alle
clausole di esclusione di cui all'art. 38,
comma 1, del d.lgs. 12.04.2006, n. 163
(Codice degli Appalti), tra le quali non può
essere ricondotta la condanna in esame,
riportata nel 1996 e relativa ad ammenda di
250.000 lire, per la quale è stata concessa
la riabilitazione.
I giudici del Consiglio di Stato,
confermando quanto sostenuto dal primo
giudice, non ha condiviso la tesi
dell'appellante in quanto ha precisato che
l'esclusione in questione non deriva
dall'applicazione del Codice degli Appalti,
bensì da quanto espressamente previsto dal
disciplinare di gara che, all'art. 2.1,
pretendeva la dichiarazione di "tutti i
reati commessi, anche se ritenuti non
rilevanti o non incidenti sulla moralità
professionale: la dichiarazione deve
comprendere anche….gli eventuali
provvedimenti di riabilitazione …Ogni
difformità tra quanto risultante dal
predetto certificato del casellario
giudiziale e la dichiarazione resa, a
prescindere dalla natura del reato,
comporterà l'esclusione del concorrente
dalla gara e la sua segnalazione alle
competenti Autorità".
Dunque, la mancata dichiarazione della
condanna di cui è causa è, di per sé,
indipendentemente dalla qualificazione del
reato e della sua gravità, causa di
esclusione dalla gara, non, quindi, in forza
della riconducibilità della condanna alle
fattispecie individuate dall'art. 38 d.lgs.
n. 163 del 2006, ma in quanto omissione di
un adempimento specificamente richiesto
dalla legge della gara, che rileva in quanto
indice di una non completa aderenza alla
disciplina precontrattuale delineata
dall'Amministrazione.
Le valutazioni in ordine alla gravità delle
condanne riportate dai concorrenti ed alla
loro incidenza sulla moralità professionale
spettano alla stazione appaltante e non al
concorrente medesimo: questi è comunque
tenuto a indicare tutte le condanne
riportate, non potendo operare a monte alcun
"filtro" sulla base di una selezione
compiuta secondo criteri personali. Ciò è
tanto più evidente nel caso di specie nel
quale, come si è detto, lo stesso
disciplinare di gara specificava
l'estensione dell'obbligo.
L'omissione, o la non veridicità, della
dichiarazione in ordine al possesso dei
requisiti necessari per la partecipazione
alle procedure di affidamento delle
concessioni e degli appalti pubblici,
specificamente richiesta dal disciplinare
nella fattispecie in esame, rileva, quindi,
non solo in quanto non consente alla
stazione appaltante una completa valutazione
dell'affidabilità del concorrente, ma anche,
e soprattutto, in quanto interrompe il nesso
fiduciario che necessariamente deve
presiedere ai rapporti tra pubblica
Amministrazione e soggetto aggiudicatario
del contratto posto in gara (commento tratto
da www.lavoripubblici.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Conferenza di servizi: ricorso va notificato
agli atti impugnabili autonomamente.
Come infatti segnalato dalla giurisprudenza,
l’utilizzo del modulo procedimentale della
conferenza di servizi -che come tale non
configura un ufficio speciale della p.a.,
autonomo rispetto ai soggetti che vi
partecipano- non altera le regole che
presiedono, in via ordinaria e generale,
all’individuazione delle autorità emananti,
con la conseguenza che il ricorso va
notificato a tutte le amministrazioni che,
nell’ambito della conferenza, hanno espresso
pareri o determinazioni che la parte
ricorrente avrebbe avuto l’onere di
impugnare autonomamente, se fossero stati
emanati al di fuori del peculiare modulo
procedimentale in esame (Cons. St., sez. VI,
03.03.2010, n. 1248) (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 02.05.2012 n. 2488 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La giunta
ed il consiglio comunale non possono
effettuare valutazioni che contrastino con
quelle già formalizzate con il piano
regolatore. Infatti, se un’area è stata da
questo destinata all’edificazione, nel corso
del procedimento di approvazione del piano
attuativo non è giuridicamente possibile che
la medesima area non vada considerata in
concreto edificabile ‘per ragioni ambientali
e paesaggistiche’, e cioè sulla base di
valutazioni diametralmente opposte a quelle
già poste a base dello strumento primario
che ha previsto l’edificabilità sul piano
urbanistico. Ove emergano le relative
ragioni, può essere attivato il procedimento
per la modifica del piano regolatore, ma
–sul piano urbanistico- non può essere
respinto il progetto di lottizzazione
conforme allo strumento primario.
---------------
Stante lo stretto collegamento tra la
pianificazione generale comunale e
l’individuazione della rete viaria
necessaria all’attuazione delle scelte di
piano, è “evidente come la valutazione dei
temi della viabilità, e quindi della
sufficienza dei collegamenti esterni
all’area oggetto di lottizzazione, non sia
un elemento da sviluppare in occasione
dell’approvazione del piano di
lottizzazione, che ha natura attuativa, ma
debba essere contenuto, a monte, nello
strumento urbanistico generale il quale,
sulla base di una previsione complessiva dei
temi della gestione del territorio, è il
mezzo giuridico funzionalmente idoneo a dare
ingresso alle tematiche della circolazione
nell’ambito del territorio comunale”.
---------------
L’azione del Comune che, intervenendo su una
propria precedente determinazione
nell’ambito del governo del territorio,
incide sulle situazioni giuridiche dei
terzi, non è di per sé illegittima, essendo
certamente esplicazione di una potestà
generale di ordine per la fruizione del bene
comune, ma in quanto tale rimane soggetta
alle regole generali dell’azione
amministrativa, prima tra tutte quella di
rendere conto delle ragioni del proprio
agire. Ed in questo senso, la motivazione
non è un mero elemento accessorio, ma si
presenta conformato dalle vicende
antecedenti, tant’è che, se il Comune decide
di modificare il proprio avviso, deve dare
contezza non solo delle ragioni inerenti
alla scelta concretamente attuata, ma anche
specificare i presupposti per l’intervenuto
mutamento.
Tanto si è affermato, ad esempio, nelle
decisioni sopra citate, in relazione al tema
della viabilità di accesso ad un’area
lottizzata, precedentemente ritenuta
sufficiente in sede di adozione del piano
regolatore generale e poi invece considerata
inadeguata, senza altri mutamenti della
situazione di fatto, al momento
dell’approvazione del progetto di
lottizzazione.
Questa Sezione ha già avuto modo di
soffermarsi in più occasioni sulla questione
della riconsiderazione successiva, da parte
dell’ente territoriale competente, di
elementi cognitivi già precedentemente
valutati in ordine all’adozione di uno
strumento urbanistico, anche eventualmente
susseguente alla concorde volontà della
parte privata interessata, evidenziando
come, a fronte di una generale potestà di
intervento a tutela dell’ordinato governo
del territorio, debbano essere comunque
fatti salvi gli strumenti di controllo
dell’azione amministrativa, anche penetrando
nei percorsi motivazionali che vengano
utilizzati per giustificare il mutato
atteggiamento.
In questo senso, ad esempio, si è affermato
che, con la decisione n. 4368 del
16.09.2008, che “la giunta ed il
consiglio comunale non possono effettuare
valutazioni che contrastino con quelle già
formalizzate con il piano regolatore.
Infatti, se un’area è stata da questo
destinata all’edificazione, nel corso del
procedimento di approvazione del piano
attuativo non è giuridicamente possibile che
la medesima area non vada considerata in
concreto edificabile ‘per ragioni ambientali
e paesaggistiche’, e cioè sulla base di
valutazioni diametralmente opposte a quelle
già poste a base dello strumento primario
che ha previsto l’edificabilità sul piano
urbanistico. Ove emergano le relative
ragioni, può essere attivato il procedimento
per la modifica del piano regolatore, ma
–sul piano urbanistico- non può essere
respinto il progetto di lottizzazione
conforme allo strumento primario”.
Secondo lo stesso ordine argomentativo, si è
successivamente affermato, con sentenza n.
5485 del 06.10.2011, che, stante lo stretto
collegamento tra la pianificazione generale
comunale e l’individuazione della rete
viaria necessaria all’attuazione delle
scelte di piano, è “evidente come la
valutazione dei temi della viabilità, e
quindi della sufficienza dei collegamenti
esterni all’area oggetto di lottizzazione,
non sia un elemento da sviluppare in
occasione dell’approvazione del piano di
lottizzazione, che ha natura attuativa, ma
debba essere contenuto, a monte, nello
strumento urbanistico generale il quale,
sulla base di una previsione complessiva dei
temi della gestione del territorio, è il
mezzo giuridico funzionalmente idoneo a dare
ingresso alle tematiche della circolazione
nell’ambito del territorio comunale”.
Come appare palmare, l’azione del Comune
che, intervenendo su una propria precedente
determinazione nell’ambito del governo del
territorio, incide sulle situazioni
giuridiche dei terzi, non è di per sé
illegittima, essendo certamente esplicazione
di una potestà generale di ordine per la
fruizione del bene comune, ma in quanto tale
rimane soggetta alle regole generali
dell’azione amministrativa, prima tra tutte
quella di rendere conto delle ragioni del
proprio agire. Ed in questo senso, la
motivazione non è un mero elemento
accessorio, ma si presenta conformato dalle
vicende antecedenti, tant’è che, se il
Comune decide di modificare il proprio
avviso, deve dare contezza non solo delle
ragioni inerenti alla scelta concretamente
attuata, ma anche specificare i presupposti
per l’intervenuto mutamento.
Tanto si è affermato, ad esempio, nelle
decisioni sopra citate, in relazione al tema
della viabilità di accesso ad un’area
lottizzata, precedentemente ritenuta
sufficiente in sede di adozione del piano
regolatore generale e poi invece considerata
inadeguata, senza altri mutamenti della
situazione di fatto, al momento
dell’approvazione del progetto di
lottizzazione (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.04.2012 n. 2466 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI - COMPETENZE GESTIONALI:
Ai sensi dell’art. 107 D.Lgs. n.
267/2000, tra le attribuzioni dirigenziali,
figura espressamente anche quella di
assumere la presidenza delle commissioni di
gara.
L’ampliamento della sfera di responsabilità,
facenti capo al dirigente, delineatosi a
seguito della privatizzazione del pubblico
impiego, infatti, ha rafforzato l’esigenza
che il medesimo dirigente sia posto in grado
di seguire, in prima persona, le procedure
dei cui esiti è responsabile.
Così come non vi è incompatibilità tra le
funzioni di presidente della commissione di
gara e quella di responsabile del
procedimento, analogamente deve ritenersi
nel caso di un dirigente dell’ente locale
che ha svolto le funzioni di presidente del
seggio e di responsabile del procedimento al
quale sia stato anche attribuito il compito
di approvare gli atti della commissione di
gara.
---------------
Il potere di nominare una commissione con
funzioni di carattere istruttorio,
trattandosi di gara aggiudicata secondo il
criterio del massimo ribasso, rientra nei
poteri del dirigente responsabile del
settore e che la decisione di chiedere
giustificazioni in merito alla propria
offerta anormalmente bassa da parte del
Presidente deriva proprio dal fatto che tale
Commissione ha compiti soltanto istruttori e
non deliberativi.
In primo luogo l’impresa ricorrente in primo
grado lamenta la sussistenza di un ulteriore
conflitto d’interessi per il fatto che
l’ing. Nicola Anaclerio, quale Dirigente del
Settore Viabilità (settore preposto alla
gara di appalto in esame) abbia svolto anche
le funzioni di Presidente della commissione
di gara, oltre a quelle di RUP.
Tuttavia, la giurisprudenza della Sezione
(cfr. Consiglio di Stato, Sezione V,
22.06.2010, n. 3890 e 12.06.2009 n. 3716) ha
già messo in evidenza che, ai sensi
dell’art. 107 D.Lgs. n. 267/2000, tra le
attribuzioni dirigenziali, figura
espressamente anche quella di assumere la
presidenza delle commissioni di gara.
L’ampliamento della sfera di responsabilità,
facenti capo al dirigente, delineatosi a
seguito della privatizzazione del pubblico
impiego, infatti, ha rafforzato l’esigenza
che il medesimo dirigente sia posto in grado
di seguire, in prima persona, le procedure
dei cui esiti è responsabile.
Così come non vi è incompatibilità tra le
funzioni di presidente della commissione di
gara e quella di responsabile del
procedimento, analogamente deve ritenersi
nel caso di un dirigente dell’ente locale
che ha svolto le funzioni di presidente del
seggio e di responsabile del procedimento al
quale sia stato anche attribuito il compito
di approvare gli atti della commissione di
gara.
Con un ulteriore motivo di ricorso in primo
grado si contesta che il bando non
prevedesse la nomina di una commissione e
che, comunque, il dirigente (presidente del
seggio di gara) avrebbe preso, senza un
deliberato della commissione, l’iniziativa
di chiedere alla soc. ricorrente in primo
grado giustificazioni sull’offerta anomala
da essa presentata, nonché di chiedere
ulteriori precisazioni sulle giustificazioni
presentate ed infine di convocarla
successivamente in audizione dinanzi alta
commissione.
Il Collegio osserva che il potere di
nominare una commissione con funzioni di
carattere istruttorio, trattandosi di gara
aggiudicata secondo il criterio del massimo
ribasso, rientra nei poteri del dirigente
responsabile del settore e che la decisione
di chiedere giustificazioni in merito alla
propria offerta anormalmente bassa da parte
del Presidente deriva proprio dal fatto che
tale Commissione ha compiti soltanto
istruttori e non deliberativi; peraltro, la
stessa Commissione aveva evidenziato tale
necessità nel corpo del verbale della seduta
n. 1 dell’11.12.2009 (cfr. doc. n. 3
appellante, recante copia di tutti i verbali
di gara).
Identicamente, la decisione di convocare
l’impresa in audizione dinanzi alla
commissione è stata prefigurata dalla stessa
commissione nella seduta n. 14
dell’08.03.2010, in cui la commissione,
collegialmente, ha predisposto e riportato a
verbale anche il testo della nota da inviare
all’impresa.
Anche la censura circa la violazione
dell’art. 84, comma 10, D.Lgs. n. 163/2006,
è infondata; la situazione per cui la
commissione in oggetto sarebbe stata
nominata e si sarebbe costituita lo stesso
giorno nel quale scadeva il termine per la
presentazione delle offerte è assolutamente
inconferente rispetto a quanto disposto
dalla surrichiamata norma, non riguardando
essa il collegio tecnico di supporto
nominato per valutare l’anomalia
dell’offerta.
Tale disposizione, infatti, concernendo gli
appalti aggiudicati con il criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa,
non può trovare alcuna applicazione nella
procedura de qua che è regolata
interamente secondo il criterio dell’offerta
più bassa.
Le ulteriori doglianze, volte a contestare
il giudizio della commissione in ordine alla
non congruità delle giustificazioni e delle
successive precisazioni addotte dall’impresa
a fronte dell’offerta anormalmente bassa da
essa presentata, sono da ritenersi
inammissibili.
Nel caso di specie, infatti, le valutazioni
si sottraggono a tutte le censure proposte a
mezzo del ricorso per motivi aggiunti di
primo grado e in sede di appello riproposto,
non ravvisandosi profili tali di
macroscopica erroneità e di evidente
incongruenza, in presenza della correttezza
metodologica seguita dalla stazione
appaltante e delle conclusioni, formulate,
circa l’analisi sia dei singoli prezzi e del
loro valore ponderale, in rapporto alle
lavorazioni previste in progetto, sia del
prezzo complessivamente offerto (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.04.2012 n. 2445 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
violazione di oneri formali imposti a pena
di esclusione dalla lex specialis esprime la
prevalenza del principio di formalità
collegato alla garanzia della par condicio
che, in assenza di clausole equivoche o di
significato oscuro, non può essere superato
dall’opposto principio del favor
partecipationis.
---------------
Il provvedimento di espulsione da una gara
d’appalto costituisce atto vincolato
rispetto alla clausola del bando che indica
le modalità di presentazione dei documenti a
pena di esclusione, in quanto in sede di
aggiudicazione di contratti con la p.a. la
stazione appaltante è tenuta ad applicare in
modo rigoroso ed incondizionato le clausole
inserite nella lex specialis relative ai
requisiti, formali e sostanziali, di
partecipazione ovvero alle cause di
esclusione. Il formalismo che caratterizza
la disciplina delle procedure di gara
risponde, per un verso, ad esigenze pratiche
di certezza e celerità e, per altro verso,
alla necessità di garantire l’imparzialità
dell’azione amministrativa e la parità di
condizioni tra i ricorrenti.
Dunque, i formalismi richiesti espressamente
e tassativamente dalle prescrizioni di gara
costituiscono lo strumento tipico con il
quale si rende trasparente la
discrezionalità amministrativa e si pongono
tutti i concorrenti sullo stesso piano
partecipativo, richiedendo loro un eguale
impegno di diligenza, attenzione e rispetto
verso le clausole dei bandi e dei
capitolati.
---------------
Deve ritenersi applicabile a qualunque
procedura selettiva il principio, predicato
con riferimento a procedure ad evidenza
pubblica, per cui qualora il bando commini
l’esclusione obbligatoria in conseguenza di
determinate violazioni, anche soltanto
formali, l’amministrazione è tenuta a dare
precisa ed incondizionata esecuzione a tali
previsioni, essendole preclusa qualunque
valutazione discrezionale circa la rilevanza
dell’inadempimento e l’incidenza di questo
sulla regolarità della procedura selettiva o
ancora sulla congruità della sanzione
contemplata nella lex specialis, alla cui
osservanza la stessa amministrazione si è
autovincolata al momento dell’adozione del
bando.
In applicazione del principio “secondo il
quale la violazione di oneri formali imposti
a pena di esclusione dalla lex specialis
esprime la prevalenza del principio di
formalità collegato alla garanzia della par
condicio che, in assenza di clausole
equivoche o di significato oscuro, non può
essere superato dall’opposto principio del
favor partecipationis” (Tar Sicilia
Catania, III, 07.04.2011, n. 854; v. anche
Tar Molise, 07.10.2009, n. 669; Tar Campania
Napoli, I, 23.04.2009, n. 2147; Consiglio
Stato, 05.09.2007, n. 4644), correttamente
la p.a. escludeva dalla gara l’odierna
ricorrente principale (la giurisprudenza, in
definitiva, pone in rilievo come il
provvedimento di espulsione da una gara
d’appalto costituisca “atto vincolato
rispetto alla clausola del bando che indica
le modalità di presentazione dei documenti a
pena di esclusione, in quanto in sede di
aggiudicazione di contratti con la p.a. la
stazione appaltante è tenuta ad applicare in
modo rigoroso ed incondizionato le clausole
inserite nella lex specialis relative ai
requisiti, formali e sostanziali, di
partecipazione ovvero alle cause di
esclusione. Il formalismo che caratterizza
la disciplina delle procedure di gara
risponde, per un verso, ad esigenze pratiche
di certezza e celerità e, per altro verso,
alla necessità di garantire l’imparzialità
dell’azione amministrativa e la parità di
condizioni tra i ricorrenti.
Dunque, i formalismi richiesti espressamente
e tassativamente dalle prescrizioni di gara
costituiscono lo strumento tipico con il
quale si rende trasparente la
discrezionalità amministrativa e si pongono
tutti i concorrenti sullo stesso piano
partecipativo, richiedendo loro un eguale
impegno di diligenza, attenzione e rispetto
verso le clausole dei bandi e dei capitolati”;
Tar Lazio Roma, III, 01.06.2011, n. 4984.
E ancora: “deve ritenersi applicabile a
qualunque procedura selettiva il principio,
predicato con riferimento a procedure ad
evidenza pubblica, per cui qualora il bando
commini l’esclusione obbligatoria in
conseguenza di determinate violazioni, anche
soltanto formali, l’amministrazione è tenuta
a dare precisa ed incondizionata esecuzione
a tali previsioni, essendole preclusa
qualunque valutazione discrezionale circa la
rilevanza dell’inadempimento e l’incidenza
di questo sulla regolarità della procedura
selettiva o ancora sulla congruità della
sanzione contemplata nella lex specialis,
alla cui osservanza la stessa
amministrazione si è autovincolata al
momento dell’adozione del bando”; Tar
Lombardia Milano, I, 14.12.2011, n. 3158;
Tar Trentino Alto Adige Trento, 10.02.2011,
n. 38; Cons. Stato, V, 16.03.2010, n. 1513)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 27.04.2012 n. 731 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROFESSIONALI: Prove
su terre e rocce, la direzione è del geologo.
Vittoria per i geologi. Va annullata la
circolare ministeriale in cui si prevede che
anche un architetto o ingegnere possano
diventare direttori dei laboratori
autorizzati per l'esecuzione e la
certificazione di prove su terre e rocce di
cui all'articolo 59 del testo unico
sull'edilizia.
È quanto emerge dalla
sentenza 26.04.2012 n. 3757, pubblicata dalla
III Sez. del TAR Lazio-Roma.
Sanatoria esclusa - Veniamo al merito: in
mancanza di indicazioni più precise, è
necessario rifarsi alle leggi professionali.
E il prelievo e l'esame di campioni dal
terreno rientra nell'ambito delle competenze
dei geologi, anche se nelle opere
geotecniche hanno voce in capitolo anche gli
ingegneri civili. Deve allora essere
bocciato l'atto esplicativo pubblicato nel
2010 dal ministero delle Infrastrutture
laddove prevede indifferentemente la laurea
in architettura e in ingegneria, oltre che
in geologia, come titolo per sedere al
vertice dei laboratori autorizzati: il
direttore, infatti, non ha soltanto compiti
gestionali ma è l'autorità che certifica i
risultati delle analisi svolte.
Il ricorso
proposto dal Consiglio nazionale dei
geometri, tuttavia, è solo parzialmente
fondato: rientra nell'ampia discrezionalità
dell'amministrazione disciplinare le
autorizzazioni già rilasciate, comunque
valide ed efficaci. E la prescrizione non
appare irragionevole: non prevede una
generale sanatoria, ma richiede
l'adeguamento al nuovo regime.
Forma e sostanza
- Inutile, per l'avvocatura dello stato,
contestare l'impugnazione della circolare:
l'interesse immediato ad agire sussiste
senza necessità di attendere l'atto
applicativo, a patto che il provvedimento
amministrativo incida direttamente su
posizioni giuridiche soggettive o contenga
disposizioni integrative dell'ordinamento e
non solo interpretative. L'atto impugnato
porta sì la denominazione di «circolare»,
ma è in realtà ha contenuto normativo,
perché introduce prescrizioni
sull'autorizzazione ai laboratori con
rilevanza esterna e non risulta soltanto
indirizzata agli uffici.
Ciò che viene dedotto innanzi al giudice
amministrativo è l'illegittimità dei criteri
dettati dall'amministrazione nell'ambito del
potere di disciplinare l'autorizzazione di
cui al testo unico dell'edilizia. E la
disciplina si deve ritenere immediatamente
impugnabile di fronte al Tar perché può
determinare di per sé un «vulnus»
immediato nell'interesse dei destinatari
delle norme. Vale a dire i geologi
(articolo ItaliaOggi del
12.05.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Aria. Installazione impianto di verniciatura
industriale.
La installazione di un impianto di
verniciatura industriale con due camini di
aspirazione per le emissioni in atmosfera,
in una azienda per attività di carrozzeria
che non prevedeva tale tipo di lavorazione,
costituisce indubbiamente una modificazione
sostanziale dello stabilimento soggetta
anche essa a preventiva autorizzazione, la
cui carenza è punita con la stessa pena di
quella prevista per la totale mancanza di
autorizzazione (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza
23.04.2012 n. 15500 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
comporta piena conoscenza, tale da far
decorrere il termine di impugnazione di un
diniego di titolo edilizio, la conoscenza
del provvedimento da parte dei
professionisti incaricati della
progettazione.
Invero, l'incarico professionale, in difetto
di prova contraria, non comprende la
rappresentanza nella totalità della gestione
degli affari del soggetto, ivi compresi i
rapporti con la p.a. e ciò anche in presenza
di autorizzazione a trasmettere
comunicazioni inerenti la pratica edilizia
presso lo studio del professionista
incaricato della progettazione, nel caso di
specie rilasciata dai ricorrenti all’atto
della richiesta del permesso di costruire.
Conseguentemente il termine decadenziale per
la proposizione del ricorso non può
decorrere dal giorno della notifica del
provvedimento presso il progettista, ma
ragionevolmente dal momento in cui le parti
hanno avuto piena conoscenza dell’atto
Il Collegio deve rilevare che secondo un
condiviso orientamento giurisprudenziale non
comporta piena conoscenza, tale da far
decorrere il termine di impugnazione di un
diniego di titolo edilizio, la conoscenza
del provvedimento da parte dei
professionisti incaricati della
progettazione (cfr. TAR Liguria Genova, I,
06.02.2010, n. 303).
Invero, l'incarico professionale, in difetto
di prova contraria, non comprende la
rappresentanza nella totalità della gestione
degli affari del soggetto, ivi compresi i
rapporti con la p.a. e ciò anche in presenza
di autorizzazione a trasmettere
comunicazioni inerenti la pratica edilizia
presso lo studio del professionista
incaricato della progettazione, nel caso di
specie rilasciata dai ricorrenti all’atto
della richiesta del permesso di costruire.
Conseguentemente il termine decadenziale per
la proposizione del ricorso non può
decorrere dal giorno della notifica del
provvedimento presso il progettista, ma
ragionevolmente dal momento in cui le parti
hanno avuto piena conoscenza dell’atto
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 23.04.2012 n. 712 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Omessa denuncia di opere in
conglomerato cementizio armato.
Il reato di omessa denuncia delle opere in
conglomerato cementizio armato (artt. 65 e
72, d.P,R. 06.06.2001, n. 380), in quanto
reato omissivo proprio, è configurabile in
capo al costruttore, essendo imposto dalla
legge, in via esclusiva a carico di
quest'ultimo, l'obbligo di denuncia, sicché,
non essendo destinatario del suddetto
obbligo, nessun altro soggetto è tenuto a
rispondere del reato de quo.
In particolare, il reato omissivo non si
estende al direttore dei lavori, in capo al
quale non sussiste l'obbligo di impedire
l'omissione della denuncia in questione.
Altri soggetti, come il committente o il
direttore dei lavori, potranno rispondere
del reato in esame soltanto quando abbiano
in concreto compiuto atti tali da
configurare un concorso materiale o morale
con il costruttore, come, ai esempio, quando
la denuncia sia stata omessa proprio su
istigazione di chi ha ordinato i lavori
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 19.04.2012 n.
15184 - tratto da
www.lexambiente.it). |
URBANISTICA:
Convenzione di
lottizzazione.
La lottizzazione di un'area si completa e
diviene perfetta con la stipula della
convenzione con la quale -unitamente al
piano di riferimento- vengono definiti il
progetto lottizzatorio e la volumetria
dell'intero comparto (indice territoriale),
con corrispondente assunzione da parte del
soggetto attuatore di tutti gli obblighi di
urbanizzazione necessari alla realizzazione
del comparto edificatorio stesso; la stipula
rappresenta pertanto la condizione di
efficacia del provvedimento di
autorizzazione alla lottizzazione. Soggetto
attuatore del piano di lottizzazione è
quindi, chi stipula la convenzione di
lottizzazione e poi costruisce o vende i
singoli lotti, dopo avere eseguito le opere
di urbanizzazione o ceduto le aree ai Comune
per l'esecuzione di esse, attuando cosi
direttamente, ovvero per mezzo degli
acquirenti dei lotti, la convenzione.
Seppure il piano di lottizzazione abbia
fissato la volumetria massima edificabile su
ciascun lotto, nulla toglie che possa essere
realizzata volumetria inferiore (od al
limite nessuna volumetria) ed è perciò
possibile che alcuni lotti non vengano
affatto edificati, oppure è anche possibile
concentrare le quantità edificabili su lotti
contigui, sempre che vengano rispettate la
volumetria consentita, le distanze e la
destinazione d'uso dei fabbricati e previa
approvazione di un nuovo piano di
lottizzazione, ove quello precedente venga
significativamente variato (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza
18.04.2012 n. 14849 - tratto da
www.lexambiente.it). |
APPALTI:
Il mancato ricorso alle procedure di
evidenza pubblica può comportare una perdita
di chance risarcibile.
Con la decisione in commento la quinta
sezione del Consiglio di Stato ha fatto il
punto della risarcibilità della perdita di
chance nella materia degli appalti pubblici.
Il caso è offerto dalla vicenda
dell’affidamento in house alla Fondazione Petruzzelli della gestione del teatro
Piccinni del comune di Bari. Il consorzio di
cooperative che fino a quel momento aveva
gestito il Teatro comunale di Bari ha
impugnato la decisione del Comune di
affidare il medesimo patrimonio con
trattativa privata alla Fondazione e per
questo ha chiesto anche il risarcimento
danni.
La difesa del Comune ha sostenuto
l’insussistenza dell’elemento soggettivo
della colpa e comunque la mancanza di chance
da parte del consorzio in ordine
all’affidamento, secondo il comune non vi
sarebbe dimostrazione della possibilità di
aggiudicare la gestione all’esito di un
ipotetico confronto competitivo svolto
secondo un metodo selettivo. L’assunto del
comune non ha trovato l’assenso del
Consiglio di Stato il quale anzi ha
proceduto alla confutazione delle
presunzioni della difesa comunale.
Nello
specifico i magistrati amministrativi hanno
chiarito che “la risarcibilità della chance,
la quale consiste nella ragionevole
probabilità, già presente nel patrimonio del
danneggiato, di conseguire un risultato
economico utile, non è evidentemente
subordinata all’offerta in giudizio di una
prova in termini di certezza, perché ciò è
logicamente incompatibile con la natura di
tale voce di danno, appalesandosi invece
sufficiente che gli elementi addotti, in
virtù dell’inderogabile principio contenuto
nell’art. 2697 c.c., consentano una prognosi
concreta e ragionevole circa la possibilità
di vantaggi futuri, invece impediti a causa
della condotta illecita altrui. La chance
costituisce infatti lo strumento concettuale
grazie al quale sono ammessi alla tutela
risarcitoria aspettative di incremento
patrimoniale, vantaggi proiettati nel
futuro, attraverso una attualizzazione della
relativa possibilità di conseguirli
(segnalandosi per configurare,
simultaneamente, una posizione sostanziale
“derivata” dall’utilità finale che la
prefigura e una “tecnica” di liquidazione
del danno, connessa al tipo di elemento
patrimoniale indeterminato a priori, ma
comunque determinabile, sotteso alla
peculiare situazione sostanziale vulnerata).
Tipica ipotesi nelle quali è invocata la
perdita di chance è quella di conseguire
l’aggiudicazione di un appalto, come
dimostra l’ampia casistica registratasi
presso la giurisprudenza amministrativa già
all’indomani del superamento del dogma dell’irrisarcibilità
dell’interesse legittimo, essendosi al
riguardo affermato che essa ha natura di
bene giuridico autonomo, dotata di rilevanza
giuridica ed economica, e caratterizzata
dall’elemento prognostico-probabilistico, in
quanto legato agli esiti non conoscibili di
una ipotetica procedura di affidamento.
(C.d.S., Sez. VI, 07/02/2002, n. 686; da
ultimo Sez. III, 30/05/2011, n. 3243; sez. V,
07/07/2011, n. 4052).”
Peraltro -sostiene il
Consiglio di Stato- il fatto che
l’affidamento diretto sia stato preceduto da
una procedura negoziata con esito negativo,
non esclude che ci sia perdita di chance, in
quanto la medesima è perorata in ragione del
mancato ricorso a procedure ad evidenza
pubblica. D’altro canto la posizione del
consorzio di cooperative era tale da far
qualificare la sua posizione certamente
differenziata e qualificata alla luce dei
principi di matrice comunitaria di
pubblicità, massima concorrenzialità e
trasparenza considerato il fatto che lo
stesso consorzio è stato precedente
affidatario del servizio per un quinquennio (commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 18.04.2012 n. 2276 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: Fuori
dall'appalto chi non fa il tagliando alla Soa.
Fuori dalla gara d'appalto chi non fa il
tagliando alla Soa. L'attestazione, infatti,
vale cinque anni a patto che l'azienda
chieda tempestivamente e superi la verifica
triennale e risulta sempre necessaria in
ogni fase che riguarda l'affidamento
dell'opera pubblica.
La
sentenza 18.04.2012 n. 2247
del Consiglio di Stato, Sez. V,
conferma il cambio di orientamento
giurisprudenziale.
Richiesta intempestiva - Legittima
l'esclusione dell'impresa dalla gara bandita
dal Comune per la gestione e la manutenzione
degli impianti di illuminazione pubblica.
Non si scherza con l'attestazione rilasciata
dalle Società organismo di attestazione
(donde la sigla) che certifica «l'esistenza
dei requisiti di capacità tecnica,
finanziaria e gestionale» in capo
all'impresa che partecipa alle gare e punta
all'affidamento di lavori o appalti
pubblici.
Durante l'istruttoria del giudizio
di primo grado si accerta che l'azienda
«incriminata» non chiede tempestivamente la
revisione triennale della Soa posseduta:
rilasciata il 24.11.2006,
l'attestazione ha validità quinquennale, con
obbligo di verifica triennale entro il 23.11.2009; la ditta invece presenta
l'istanza per il rinnovo della
certificazione solo il 09.10.2009 e
l'ottiene il 14 dicembre.
Insomma: nel
periodo della richiesta di rinnovo la
società è priva di una valida attestazione:
non ha infatti rispettato il termine di
sessanta giorni prima della scadenza del
termine per sottoporsi a verifica triennale,
stabilito dagli articoli 15 e 15-bis dpr
34/2000.
Giurisprudenza in termini
- Ai fini dell'efficacia della
certificazione senza soluzione di continuità
per tutto il quinquennio non risulta
sufficiente il mero esito positivo della
verifica triennale, è invece necessario che
il procedimento di revisione si concluda
entro la scadenza triennale di iniziale
validità (cfr. sentenza 4477/2010). In
precedenza Palazzo Spada ha stabilito che
l'impresa può sottoporsi a verifica anche
dopo la scadenza, ma comunque non può
partecipare alle gare nel periodo compreso
fra la scadenza del triennio e
l'effettuazione della verifica con esito
positivo. (cfr. sentenza 3878/2009).
I requisiti di qualificazione devono
sussistere al momento della presentazione
dell'offerta e in ogni successiva fase del
procedimento: bisogna tutelare l'affidamento
della stazione appaltante e la par condicio
fra i partecipanti
(articolo ItaliaOggi del 09.05.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
APPALTI: Una concreta lesione del principio
dell’unicità dell’offerta si verifica nelle
ipotesi di più offerte, o di più proposte
nell’ambito della medesima offerta,
formulate in via alternativa o subordinata,
in modo che tale scelta ricadente su una di
esse escluda necessariamente la
praticabilità delle altre.
Infatti, è palese che solo in queste ipotesi
il concorrente munito di un’offerta plurima
è effettivamente avvantaggiato rispetto agli
altri, potendo contare su un più ampio
ventaglio di soluzioni in grado di
soddisfare le esigenze della stazione
appaltante, a differenza dei rimanenti
concorrenti che non possono fare altro che “scommettere”
sull’unica proposta avanzata.
Il
suddetto pericolo non si coglie nel caso di
offerta contenente alcune imprecisioni
giacché in tale evenienza il candidato
formula un’offerta unica dal punto di vista
sostanziale, in grado di non creare
squilibri all’interno del meccanismo
concorrenziale.
Una concreta lesione del principio
dell’unicità dell’offerta si verifica nelle
ipotesi di più offerte, o di più proposte
nell’ambito della medesima offerta,
formulate in via alternativa o subordinata,
in modo che tale scelta ricadente su una di
esse escluda necessariamente la
praticabilità delle altre.
Infatti, è palese che solo in queste ipotesi
il concorrente munito di un’offerta plurima
è effettivamente avvantaggiato rispetto agli
altri, potendo contare su un più ampio
ventaglio di soluzioni in grado di
soddisfare le esigenze della stazione
appaltante, a differenza dei rimanenti
concorrenti che non possono fare altro che “scommettere”
sull’unica proposta avanzata (TAR Campania,
Napoli, sez. I, 26.09.2011, n. 4488).
Il
suddetto pericolo non si coglie nel caso di
offerta contenente alcune imprecisioni
giacché in tale evenienza il candidato
formula un’offerta unica dal punto di vista
sostanziale, in grado di non creare
squilibri all’interno del meccanismo
concorrenziale.
---------------
Secondo
giurisprudenza costante, “in sede di
valutazione comparativa delle offerte
tecniche presentate nelle gare d’appalto le
valutazioni tecniche, caratterizzate dalla
complessità delle discipline specialistiche
di riferimento e dall’opinabilità dell’esito
della valutazione, sfuggono al sindacato
intrinseco del giudice amministrativo, se
non vengono in rilievo specifiche censure
circa la plausibilità dei criteri valutativi
o la loro applicazione” (Consiglio di Stato,
sez. III, 19.01.2012, n. 249).
---------------
Il punto III.2.3 del bando di gara, relativo alla
capacità tecnica, alla lett. c), consente il
ricorso all’avvalimento di cui all’art. 49
d.lgs. 163/2006, al fine di soddisfare la
richiesta relativa al possesso dei requisiti
di carattere economico, finanziario, tecnico
e organizzativo.
L’art. 49, comma 2, lett. c) del decreto
citato, in particolare, espressamente
richiede, ai fini di quanto sopra previsto,
l’allegazione da parte del concorrente di: …
“una dichiarazione sottoscritta da parte
dell’impresa ausiliaria attestante il
possesso da parte di quest’ultima dei
requisiti generali di cui all’articolo 38,
nonché il possesso dei requisiti tecnici e
delle risorse oggetto di avvalimento”.
Ne consegue che “qualora l’impresa
partecipante ad una gara d’appalto intenda
avvalersi, ai fini del possesso del
requisito della SOA in una determinata
categoria, della corrispondente
certificazione SOA posseduta da altra
società, è obbligata al rispetto della
prescrizione dell’art. 49, comma 2, lettera
c) del D. Lgs. n. 163 del 12.04.2006 …
in base al quale, in tali ipotesi”, si
dispone, “sul piano dell’accertamento dei
requisiti di ordine generale, una totale
equiparazione fra gli operatori economici
offerenti e gli operatori economici in
rapporto di avvalimento" (TAR Sardegna,
Cagliari, sez. I, 17.03.2010, n. 337).
---------------
In
termini generali, i soggetti esecutori di
lavori pubblici devono essere “qualificati”
e l’attestazione SOA è il documento
obbligatorio unico, necessario e sufficiente
a comprovare la capacità dell’impresa di
eseguire opere pubbliche con importo a base
d’asta superiore a €. 150.000,00; tale
documento qualifica le aziende
suddividendole in otto classi, espresse in
valori crescenti di euro, abilitandole così
a partecipare agli appalti con importi pari
alla relativa classe, incrementata di un
quinto (cfr., art. 40 del Codice dei
contratti pubblici e artt. 60 e ss. del
D.P.R. 5.10.2010, n. 207).
Detto sistema, di conseguenza, richiede che
il requisito di partecipazione stabilito da
un bando di gara attinente alla capacità
tecnica minima -quindi, il possesso di una
precisa classifica per la categoria dei
lavori realizzandi- debba essere posseduto
per l’intero da almeno un partecipante.
Diversamente opinando, si consentirebbe a
chi non ha i requisiti minimi di
partecipazione di presentare offerte e di
impegnarsi ad eseguire lavori per i quali
non ha i presupposti o, quanto meno, non ne
è stata verificata la sussistenza da parte
di un organismo di attestazione
appositamente autorizzato, così eludendo il
sistema di qualificazione per l’esecuzione
dei lavori pubblici.
In questo senso, il Collegio condivide la
lettura del comma 6 dell’art. 49 del Codice
dei contratti pubblici effettuata dalla VI
Sezione del Consiglio di Stato, con la
pronuncia n. 3565, del 13.06.2011, la
quale ha precisato che il divieto di
utilizzo frazionato dei requisiti
economico-finanziari e tecnico-organizzativi
di cui all’articolo 40, comma 3, lettera b),
sancito al comma 6 dell’invocato art. 49, è
riferito anche al caso in cui il concorrente
si avvalga di una sola impresa ausiliaria.
Tale interpretazione è confermata dalla
intervenuta abrogazione del comma 7 del
medesimo art. 49, ai sensi del d.lgs. n. 152
del 2008, in cui era anche previsto “che l’avvalimento
possa integrare un preesistente requisito
tecnico o economico già posseduto
dall’impresa avvalente in misura o
percentuale indicata nel bando stesso”,
nonché dall’osservazione che la somma delle
classifiche risulta espressamente prevista
soltanto per i consorzi stabili (art. 36,
comma 7, del d.lgs. n. 163 del 2006).
Va, pertanto, in conclusione escluso dalla
gara il concorrente che, al fine di colmare
la parziale carenza della qualificazione SOA
si sia avvalso di impresa ausiliaria a sua
volta priva dell’intero requisito richiesto
dal bando. Infatti, la finalità dell’avvalimento
non è quella di arricchire la capacità
(tecnica o economica che sia) del
concorrente, ma quella di consentire a
soggetti che ne siano privi di concorrere
alla gara ricorrendo ai requisiti di altri
soggetti se e in quanto da questi
integralmente e autonomamente posseduti, in
coerenza con la normativa comunitaria sugli
appalti pubblici che è volta in ogni sua
parte a far sì che la massima concorrenza
sia anche condizione per la più efficiente e
sicura esecuzione degli appalti (TAR
Trentino Alto Adige, Trento, sez. I, 21.03.2012, n. 90; Consiglio Stato, sez. VI,
13.06.2011, n. 3565) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 18.04.2012 n. 708 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: E'
vietato agli architetti la progettazione di
opere di urbanizzazione primaria o di
ingegneria idraulica quali una rete di
distribuzione idrica o fognaria; può,
invece, essere legittimamente progettata da
un architetto una costruzione civile con
sistema idrico-fognario pertinenziale, quale
quella in esame, opera di edilizia civile
con annessa parte tecnica, non coinvolgente
conoscenze specifiche degli ingegneri.
In particolare, “la nozione di opere di
edilizia civile, che ai sensi dell’art. 52,
r.d. 23.10.1925 n. 2537 formano oggetto
della professione sia dell’ingegnere che
dell’architetto, si estende oltre gli ambiti
più specificamente strutturali, fino a
ricomprendere l’intero complesso degli
impianti tecnologici a corredo del
fabbricato, e quindi non solo gli impianti
idraulici ma anche quelli di riscaldamento
compresi nell’edificazione” .
Le previsioni
contenute negli art. 51-54 r.d. 23.10.1925 n. 2537, individuanti le rispettive
competenze degli ingegneri e degli
architetti vietano a quest’ultimi la
progettazione di opere di urbanizzazione
primaria o di ingegneria idraulica quali una
rete di distribuzione idrica o fognaria;
può, invece, essere legittimamente
progettata da un architetto una costruzione
civile con sistema idrico-fognario
pertinenziale, quale quella in esame, opera
di edilizia civile con annessa parte
tecnica, non coinvolgente conoscenze
specifiche degli ingegneri (TAR Veneto,
Venezia, sez. I, 08.07.2011, n. 1153;
TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 09.04.2008).
In particolare, “la nozione di opere di
edilizia civile, che ai sensi dell’art. 52,
r.d. 23.10.1925 n. 2537 formano oggetto
della professione sia dell’ingegnere che
dell’architetto, si estende oltre gli ambiti
più specificamente strutturali, fino a
ricomprendere l’intero complesso degli
impianti tecnologici a corredo del
fabbricato, e quindi non solo gli impianti
idraulici ma anche quelli di riscaldamento
compresi nell’edificazione” (Consiglio
Stato, sez. IV, 31.07.2009, n. 4866) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 18.04.2012 n. 708 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Il
procedimento di verifica dell’anomalia
dell’offerta è finalizzato ad assicurare che
gli appalti vengano affidati a un prezzo che
consenta un adeguato margine di guadagno per
le imprese, visto che le acquisizioni in
perdita porterebbero gli affidatari a una
negligente esecuzione, oltre che a un
probabile contenzioso.
In sede di giustificazioni delle offerte
anomale:
a) l’impresa concorrente deve giustificare
la riduzione dell’utile di impresa solo
mediante l’indicazione di specifiche e
comprovate economie di scala realizzate,
dato che grava sull’impresa offerente
l’onere di fornire la congruità della
propria offerta e cioè la dimostrazione che,
nonostante il ridotto margine di utile, sia
in grado di fornire una prestazione adeguata
a soddisfare l’interesse pubblico alla
regolare esecuzione dell’opera, essendo
insufficiente il semplice richiamo generico
all’abbattimento delle spese generali. Nella
specie, una quota di costo indicata
nell’offerta a titolo di spese generali non
può essere invocata, nel corso del
subprocedimento di giustificazione, per
coprire costi diversi.
b) non è possibile aggiustare le voci di
costo cambiandole “ad libitum”. Il sub—procedimento di giustificazione dell’offerta
anomala non è volto a consentire
aggiustamenti dell’offerta “in itinere” ma
mira, al contrario, a verificare la serietà
di un’offerta consapevolmente già formulata
e immutabile, come confermato dall’art. 86
comma 5, codice dei contratti pubblici il
quale richiede che le offerte siano
corredate dalle relative giustificazioni sin
dalla loro presentazione.
Quello che non si
può consentire è che, in sede di
giustificazioni, vengano apoditticamente
rimodulate le voci di costo senza alcuna
motivazione, con un’operazione di finanza
creativa, al solo scopo di “far quadrare i
conti” ossia di assicurarsi che il prezzo
complessivo offerto resti immutato e si
superino le contestazioni sollevate dalla
stazione appaltante su alcuni voci di costo.
Da ciò discende, in generale,
l’inaccettabilità delle giustificazioni che,
nel tentativo di far apparire seria
un’offerta, che viceversa non è stata
adeguatamente meditata, risultino
tardivamente dirette ad un’allocazione dei
costi diversa rispetto a quella
originariamente enunciata;
c) se l’amministrazione è
tenuta a prendere in esame le
giustificazioni rese dall’impresa la cui
offerta sia sottoposta a verifica, e a
esporre con chiarezza le ragioni della
propria eventuale determinazione
sfavorevole, ai fini del successivo
scrutinio di legittimità su quest’ultima non
possono tuttavia essere prese in
considerazione eventuali integrazioni o
modifiche postume delle stesse
giustificazioni rese in sede giudiziale da
parte dell’impresa.
Il Collegio, in
accoglimento alle censure avanzate con i
ricorsi incidentali, ritiene di non doversi
discostare dall’orientamento prevalente,
secondo il quale:
- il procedimento di verifica dell’anomalia
dell’offerta è finalizzato ad assicurare che
gli appalti vengano affidati a un prezzo che
consenta un adeguato margine di guadagno per
le imprese, visto che le acquisizioni in
perdita porterebbero gli affidatari a una
negligente esecuzione, oltre che a un
probabile contenzioso (TAR Lombardia
Milano, sez. I, 28.07.2008, n. 3049).
- in sede di giustificazioni delle offerte
anomale:
a) l’impresa concorrente deve giustificare
la riduzione dell’utile di impresa solo
mediante l’indicazione di specifiche e
comprovate economie di scala realizzate,
dato che grava sull’impresa offerente
l’onere di fornire la congruità della
propria offerta e cioè la dimostrazione che,
nonostante il ridotto margine di utile, sia
in grado di fornire una prestazione adeguata
a soddisfare l’interesse pubblico alla
regolare esecuzione dell’opera, essendo
insufficiente il semplice richiamo generico
all’abbattimento delle spese generali. Nella
specie, una quota di costo indicata
nell’offerta a titolo di spese generali non
può essere invocata, nel corso del
subprocedimento di giustificazione, per
coprire costi diversi (TAR Campania
Napoli, sez. I, 27.10.2006, n. 9178).
b) non è possibile aggiustare le voci di
costo cambiandole “ad libitum”. Il sub—procedimento di giustificazione dell’offerta
anomala non è volto a consentire
aggiustamenti dell’offerta “in itinere” ma
mira, al contrario, a verificare la serietà
di un’offerta consapevolmente già formulata
e immutabile, come confermato dall’art. 86
comma 5, codice dei contratti pubblici il
quale richiede che le offerte siano
corredate dalle relative giustificazioni sin
dalla loro presentazione.
Quello che non si
può consentire è che, in sede di
giustificazioni, vengano apoditticamente
rimodulate le voci di costo senza alcuna
motivazione, con un’operazione di finanza
creativa, al solo scopo di “far quadrare i
conti” ossia di assicurarsi che il prezzo
complessivo offerto resti immutato e si
superino le contestazioni sollevate dalla
stazione appaltante su alcuni voci di costo.
Da ciò discende, in generale,
l’inaccettabilità delle giustificazioni che,
nel tentativo di far apparire seria
un’offerta, che viceversa non è stata
adeguatamente meditata, risultino
tardivamente dirette ad un’allocazione dei
costi diversa rispetto a quella
originariamente enunciata (TAR Campania
Napoli, sez. I, 18.03.2011, n. 1498;
Consiglio Stato, sez. V, 12.07.2010, n.
4483).
c) se l’amministrazione è tenuta a prendere
in esame le giustificazioni rese
dall’impresa la cui offerta sia sottoposta a
verifica, e a esporre con chiarezza le
ragioni della propria eventuale
determinazione sfavorevole, ai fini del
successivo scrutinio di legittimità su
quest’ultima non possono tuttavia essere
prese in considerazione eventuali
integrazioni o modifiche postume delle
stesse giustificazioni rese in sede
giudiziale da parte dell’impresa (TAR
Lazio, sez. I, 01.09.2004, n. 8228)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 18.04.2012 n. 707 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: L’obbligo
previsto dall’art 79, comma 5, d.lgs.
12.04.2006, n. 163, di comunicare al
partecipante a gara pubblica l’avvenuta sua
esclusione dalla procedura selettiva entro
un termine non superiore a cinque giorni,
non contiene alcuna espressa sanzione; di
conseguenza non può dedursi da un’omissione,
che non ha arrecato alcun nocumento alla
parte interessata, l’esistenza di un vizio
tale da rendere annullabile il provvedimento
recante l’esclusione stessa.
La
tardività di tale comunicazione, pertanto,
non incide sulla legittimità
dell’aggiudicazione ma solamente sulla
decorrenza del termine per l’impugnazione,
anche in ragione della natura ordinatoria
del termine previsto dall’art. 79, comma 5,
del d.lgs. 12.04.2006 n. 163.
---------------
Nella materia dei contratti pubblici, le
formalità prescritte dal bando di gara sono
dirette ad assicurare la trasparenza e
l’imparzialità dell’Amministrazione e la
parità di condizioni tra i concorrenti;
dette formalità, pertanto, ove poste a pena
di esclusione dalla gara, devono rispondere
al comune canone di ragionevolezza, in
stretta relazione con i richiamati principi.
Ne deriva che l’inserimento di clausole che
prevedono la sanzione dell’esclusione deve
essere giustificata da un particolare
interesse pubblico, evitando il mero
formalismo non legato a finalità d’interesse
pubblico e oneri procedimentali inutili ed
eccessivi.
Trattasi, tuttavia, d’ipotesi che non
ricorrono nel caso di specie, ove, come
detto, la “lex specialis” di gara richiede,
a pena di esclusione, la formalità della
controfirma sui lembi di chiusura del plico,
compresi quelli preincollati dal
fabbricante. Tale modalità di autenticazione
della chiusura della busta è, infatti,
ragionevolmente finalizzata -ai fini della
regolarità della procedura, interesse
essenziale della Stazione Appaltante-, non
solo a evitare il rischio della manomissione
del plico e dell’alterazione del suo
contenuto, e, quindi, ad assicurare la
necessaria segretezza di tale offerta, a
tutela della “par condicio”, funzione
propria della sigillatura, ma anche a
garantire che il contenuto della stessa sia
quello approvato dal concorrente che lo ha
presentato e, quindi, l’effettiva
provenienza del plico e dell’offerta nel
rispetto del principio dell’integrità e
imputabilità dell’offerta che governa la
materia delle gare pubbliche, senza con ciò
imporre ai partecipanti alla gara di appalto
oneri particolarmente gravosi.
Tale funzione non può essere assicurata, ad
esempio, dalla mera apposizione del timbro
sociale, che in teoria potrebbe essere stato
apposto da un qualsiasi impiegato
dell’impresa concorrente.
È conseguentemente legittima l’esclusione
dalla gara dell’impresa che ometta la
controfirma del plico contenente l’offerta
sui lembi preincollati in sede di
fabbricazione delle buste ove prevista a
pena di irricevibilità dell’offerta (rectius,
di esclusione del partecipante) dal bando di
gara, indipendentemente dalla prova
dell’effettiva manomissione.
Una volta esclusi i profili di illegittimità
di esclusione di un concorrente da una gara
d’appalto, non ricorrono gli estremi di un
danno “iniuria datum”, che possa dare
ingresso alla pretesa risarcitoria per
perdita di chance.
L’obbligo previsto dall’art 79,
comma 5, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, di
comunicare al partecipante a gara pubblica
l’avvenuta sua esclusione dalla procedura
selettiva entro un termine non superiore a
cinque giorni, non contiene alcuna espressa
sanzione; di conseguenza non può dedursi da
un’omissione, che non ha arrecato alcun
nocumento alla parte interessata,
l’esistenza di un vizio tale da rendere
annullabile il provvedimento recante
l’esclusione stessa (Consiglio di Stato,
sez. IV, 06.10.2011, n. 5491).
La
tardività di tale comunicazione, pertanto,
non incide sulla legittimità
dell’aggiudicazione ma solamente sulla
decorrenza del termine per l’impugnazione,
anche in ragione della natura ordinatoria
del termine previsto dall’art. 79, comma 5,
del d.lgs. 12.04.2006 n. 163 (TAR
Campania Napoli, sez. I, 11.03.2011, n.
1441; TAR Sicilia Palermo, sez. I, 18.12.2008, n. 1761).
---------------
Vero è
che nella materia dei contratti pubblici, le
formalità prescritte dal bando di gara sono
dirette ad assicurare la trasparenza e
l’imparzialità dell’Amministrazione e la
parità di condizioni tra i concorrenti;
dette formalità, pertanto, ove poste a pena
di esclusione dalla gara, devono rispondere
al comune canone di ragionevolezza, in
stretta relazione con i richiamati principi.
Ne deriva che l’inserimento di clausole che
prevedono la sanzione dell’esclusione deve
essere giustificata da un particolare
interesse pubblico, evitando il mero
formalismo non legato a finalità d’interesse
pubblico e oneri procedimentali inutili ed
eccessivi (TAR Lecce Puglia, sez. III, 13.01.2011, n. 15).
Trattasi, tuttavia, d’ipotesi che non
ricorrono nel caso di specie, ove, come
detto, la “lex specialis” di gara richiede,
a pena di esclusione, la formalità della
controfirma sui lembi di chiusura del plico,
compresi quelli preincollati dal
fabbricante. Tale modalità di autenticazione
della chiusura della busta è, infatti,
ragionevolmente finalizzata -ai fini della
regolarità della procedura, interesse
essenziale della Stazione Appaltante-, non
solo a evitare il rischio della manomissione
del plico e dell’alterazione del suo
contenuto, e, quindi, ad assicurare la
necessaria segretezza di tale offerta, a
tutela della “par condicio”, funzione
propria della sigillatura, ma anche a
garantire che il contenuto della stessa sia
quello approvato dal concorrente che lo ha
presentato e, quindi, l’effettiva
provenienza del plico e dell’offerta nel
rispetto del principio dell’integrità e
imputabilità dell’offerta che governa la
materia delle gare pubbliche, senza con ciò
imporre ai partecipanti alla gara di appalto
oneri particolarmente gravosi.
Tale funzione non può essere assicurata, ad
esempio, dalla mera apposizione del timbro
sociale, che in teoria potrebbe essere stato
apposto da un qualsiasi impiegato
dell’impresa concorrente (TAR Valle
d’Aosta, Aosta, sez. I, 17.02.2012, n.
15; Consiglio di Stato, sez. V, 23.05.2011, n. 3067; TAR Lazio, Roma, sez. II,
02.04.2008, n. 2818).
È conseguentemente legittima
l’esclusione dalla gara dell’impresa che
ometta la controfirma del plico contenente
l’offerta sui lembi preincollati in sede di
fabbricazione delle buste ove prevista a
pena di irricevibilità dell’offerta (rectius,
di esclusione del partecipante) dal bando di
gara, indipendentemente dalla prova
dell’effettiva manomissione.
Una volta esclusi i profili di
illegittimità di esclusione di un
concorrente da una gara d’appalto, non
ricorrono gli estremi di un danno “iniuria datum”, che possa dare ingresso alla pretesa
risarcitoria per perdita di chance
(Consiglio Stato, sez. VI, 02.03.2011, n.
1288)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 18.04.2012 n. 706 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Considerata
la natura di atto dovuto dell'ordine di
demolizione di opere edilizie abusive -il cui presupposto è
rappresentato solamente dalla constatata
esecuzione di opere edilizie in assenza o in
difformità dal titolo abilitativo- il
procedimento non è inficiato dall'omissione
della comunicazione di avvio del
procedimento ex art. 7, l. n. 241 del 1990,
poiché nella fattispecie trova applicazione
l'art. 21-octies della stessa legge che
statuisce la non annullabilità del
provvedimento adottato in violazione delle
norme sul procedimento qualora, come nel
caso di specie, sia palese che il suo
contenuto non avrebbe potuto essere diverso
da quello concretamente adottato.
---------------
L'ingiunzione a demolire le opere edilizie
abusive non deve essere preceduta dal parere
della Commissione edilizia comunale, anche
qualora questa non sia stata cancellata
dall’organigramma comunale ai sensi
dell’art. 96 del D.Lgs. n. 267 del 2000, dal
momento che l'ordine di ripristino, quale
atto vincolato, discende direttamente dalla
violazione della disciplina edilizia vigente
e non è inficiato, ai sensi dell’art.
21-octies L. 241/1990, da supposte
violazioni procedimentali.
---------------
Il provvedimento che ordina la demolizione
di una costruzione abusiva costituisce atto
dovuto e rigorosamente vincolato, affrancato
dalla ponderazione discrezionale
dell’opposto interesse privato al
mantenimento dell’opera abusiva, in quanto
la repressione dell'abuso corrisponde ipso
facto all'interesse pubblico al ripristino
dello stato dei luoghi illecitamente
alterato.
Pertanto, l’ordinanza è da ritenersi
sorretta da adeguata e autosufficiente
motivazione, già solo rinvenibile nella
compiuta descrizione delle strutture abusive
e nella constatazione della loro esecuzione
in assenza del necessario titolo abilitativo
edilizio.
Inoltre anche nel caso di abuso risalente
nel tempo l’ordine di demolizione di opere
edilizie abusive costituisce atto dovuto non
potendo il semplice trascorrere del tempo
giustificare il legittimo affidamento del
contravventore.
Il potere di ripristino dello status quo non
è infatti soggetto a termine di prescrizione
né è tacitamente rinunciabile, poiché il
semplice trascorrere del tempo non può
legittimare una situazione di illegalità, né
imporre all’Amministrazione la necessità di
una comparazione dell’interesse del privato
alla conservazione dell’abuso con
l’interesse pubblico alla repressione
dell’illecito.
Secondo l’indirizzo consolidato
della giurisprudenza anche di questa
Sezione, considerata la natura di atto
dovuto dell'ordine di demolizione di opere
edilizie abusive -il cui presupposto è
rappresentato solamente dalla constatata
esecuzione di opere edilizie in assenza o in
difformità dal titolo abilitativo- il
procedimento non è inficiato dall'omissione
della comunicazione di avvio del
procedimento ex art. 7, l. n. 241 del 1990,
poiché nella fattispecie trova applicazione
l'art. 21-octies della stessa legge che
statuisce la non annullabilità del
provvedimento adottato in violazione delle
norme sul procedimento qualora, come nel
caso di specie, sia palese che il suo
contenuto non avrebbe potuto essere diverso
da quello concretamente adottato.
---------------
L'ingiunzione
a demolire le opere edilizie abusive non
doveva essere preceduta dal parere della
Commissione edilizia comunale, anche qualora
questa non sia stata cancellata
dall’organigramma comunale ai sensi
dell’art. 96 del D.Lgs. n. 267 del 2000, dal
momento che l'ordine di ripristino, quale
atto vincolato, discende direttamente dalla
violazione della disciplina edilizia vigente
e non è inficiato, ai sensi dell’art.
21-octies L. 241/1990, da supposte
violazioni procedimentali.
---------------
Il
provvedimento che ordina la demolizione di
una costruzione abusiva costituisce atto
dovuto e rigorosamente vincolato, affrancato
dalla ponderazione discrezionale
dell’opposto interesse privato al
mantenimento dell’opera abusiva, in quanto
la repressione dell'abuso corrisponde ipso
facto all'interesse pubblico al ripristino
dello stato dei luoghi illecitamente
alterato.
Pertanto, l’ordinanza è da ritenersi
sorretta da adeguata e autosufficiente
motivazione, già solo rinvenibile nella
compiuta descrizione delle strutture abusive
e nella constatazione della loro esecuzione
in assenza del necessario titolo abilitativo
edilizio.
Inoltre anche nel caso di abuso risalente
nel tempo l’ordine di demolizione di opere
edilizie abusive costituisce atto dovuto non
potendo il semplice trascorrere del tempo
giustificare il legittimo affidamento del
contravventore.
Il potere di ripristino dello status quo
non è infatti soggetto a termine di
prescrizione né è tacitamente rinunciabile,
poiché il semplice trascorrere del tempo non
può legittimare una situazione di
illegalità, né imporre all’Amministrazione
la necessità di una comparazione
dell’interesse del privato alla
conservazione dell’abuso con l’interesse
pubblico alla repressione dell’illecito (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 18.04.2012 n. 702 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia di repressione degli abusi edilizi,
l’ordinanza di sospensione dei lavori
surroga utilmente la comunicazione di avvio
del procedimento.
La realizzazione di interventi edilizi in
assenza dei prescritti titoli abilitativi
costituisce presupposto necessario e
sufficiente per l’esercizio del potere
sanzionatorio, trattandosi di attività
doverosa e vincolata, idoneamente motivata
con l’indicazione delle norme violate e il
richiamo ai contenuti del verbale di
accertamento dell’abuso formato dalla
polizia locale e alla relazione del tecnico
comunale.
Nel sistema delineato dagli artt. 27 ss.
del d.p.r. n. 380 del 2001 è l’esecuzione di
interventi privi del titolo amministrativo
necessario (rectius: già il loro inizio) a
giustificare l’esercizio dei poteri
sanzionatori della p.a., eventualmente
preceduti da quelli per così dire cautelari
(e cioè dall’ordine di sospensione dei
lavori): i termini ex art. 15 t.u. edilizia,
d’altronde, riguardano l’efficacia temporale
del p.d.c., fermo restando che anche medio
tempore il titolare non può che attenersi ai
contenuti dello stesso, risultando
evidentemente irragionevole immaginare che,
in presenza di lavori abusivi,
l’amministrazione debba attendere il termine
di decadenza del titolo e così consentire
che gli stessi vengano portati alle ultime
conseguenze.
L’indicazione dell’area di sedime, così
come di quella necessaria per opere analoghe
a quelle abusive, da acquisire al patrimonio
comunale, non deve considerarsi requisito
dell’ordinanza di demolizione -e dunque la
mancanza non ne inficia la legittimità-
giacché siffatta specificazione è elemento
essenziale del distinto provvedimento con
cui l’Amministrazione accerta la mancata
ottemperanza alla demolizione da parte
dell’ingiunto.
Deve osservarsi, in specie, che:
a) non può essere condivisa la censura
formulata con riguardo all’art. 7 l. n. 241
del 1990, avendo i ricorrenti ricevuto,
circa tre mesi prima dell’ingiunzione
impugnata, l’ordinanza di sospensione dei
lavori n. 189 del 03.06.2010, la quale,
secondo il costante orientamento della
giurisprudenza amministrativa, surrogava
utilmente la comunicazione di avvio del
procedimento (fra le ultime, Tar Molise,
I, 23.12.2011, n. 1000; Tar
Campania Napoli, VIII, 01.09.2011, n.
4272; Tar Puglia Lecce, III, 10.09.2010, n. 1962).
b) la realizzazione di interventi edilizi in
assenza dei prescritti titoli abilitativi
costituiva presupposto necessario e
sufficiente per l’esercizio del potere
sanzionatorio, trattandosi di attività
doverosa e vincolata, idoneamente motivata
con l’indicazione delle norme violate e il
richiamo ai contenuti del verbale di
accertamento dell’abuso formato dalla
polizia locale e alla relazione del tecnico
comunale (cfr. Tar Campania Napoli, VII,
22.02.2012, n. 885; Consiglio di
Stato, IV, 14.02.2012, n. 703).
c) nel sistema delineato dagli artt. 27 ss.
del d.p.r. n. 380 del 2001 è l’esecuzione di
interventi privi del titolo amministrativo
necessario (rectius: già il loro inizio) a
giustificare l’esercizio dei poteri
sanzionatori della p.a., eventualmente
preceduti da quelli per così dire cautelari
(e cioè dall’ordine di sospensione dei
lavori): i termini ex art. 15 t.u. edilizia,
d’altronde, riguardano l’efficacia temporale
del p.d.c., fermo restando che anche medio
tempore il titolare non può che attenersi ai
contenuti dello stesso, risultando
evidentemente irragionevole immaginare che,
in presenza di lavori abusivi,
l’amministrazione debba attendere il termine
di decadenza del titolo e così consentire
che gli stessi vengano portati alle ultime
conseguenze.
d) con riguardo, infine, alla dedotta
violazione dell’art. 31, commi 2 ss., d.p.r.
n. 380 citato, va sottolineato come secondo
il prevalente indirizzo della giurisprudenza
amministrativa (da ultimo Tar Campania
Napoli, VII, 13.01.2012, n. 143)
<<l’indicazione dell’area di sedime, così
come di quella necessaria per opere analoghe
a quelle abusive, da acquisire al patrimonio
comunale, non deve considerarsi requisito
dell’ordinanza di demolizione -e dunque la
mancanza non ne inficia la legittimità-
giacché siffatta specificazione è elemento
essenziale del distinto provvedimento con
cui l’Amministrazione accerta la mancata
ottemperanza alla demolizione da parte
dell’ingiunto>> (Tar Puglia Lecce, III,
27.03.2012, n. 558; III, 15.12.2011, n. 2172; III, 28.07.2011, n.
1461).
Né in questo caso mancava la prescritta
analitica indicazione delle opere
abusivamente realizzate, poiché il
riferimento alla “costruzione realizzata
abusivamente a primo piano in luogo dei
volumi tecnici, con esclusione dell’area di sedime trattandosi di sopraelevazione”,
non determinava a ben vedere alcuna
incertezza sulle opere da acquisire
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 18.04.2012 n. 701 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
sanatoria giurisprudenziale non trova ormai
alcuno spazio, trattandosi di istituto
elaborato dalla giurisprudenza nel vigore
della l. n. 10 del 1977 e in mancanza di una
specifica regolamentazione legislativa ma
che non ha più ragione di esistere nel
vigente ordinamento, caratterizzato da una
disciplina puntuale ed esaustiva delle
ipotesi di condono e sanatoria edilizia.
Secondo il costante orientamento
interpretativo, la sanatoria
giurisprudenziale (alla quale, in
definitiva, dovrebbe assimilarsi l’ipotesi
di cui si controverte, con un titolo
edilizio rilasciato illegittimamente ma
conforme, secondo la prospettazione della
p.a., alla normativa vigente al momento
dell’esame successivo) non trova ormai
alcuno spazio, trattandosi di istituto
elaborato dalla giurisprudenza nel vigore
della l. n. 10 del 1977 e in mancanza di una
specifica regolamentazione legislativa ma
che non ha più ragione di esistere nel
vigente ordinamento, caratterizzato da una
disciplina puntuale ed esaustiva delle
ipotesi di condono e sanatoria edilizia (fra
le ultime, Tar Toscana, III, 11.02.2011, n.
263)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 18.04.2012 n. 699 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
previsione dei requisiti di ammissione alle
procedure di evidenza pubblica rientra nella
sfera di discrezionalità
dell'amministrazione, purché sia adeguata e
pertinente alla tipologia ed oggetto della
prestazione per la quale è stata indetta la
gara.
---------------
L’art. 38 D.lgs 163/2006 impone che anche in relazione
agli amministratori cessati dalla carica
siano assenti le cause ostative di cui alla
lett. c) del medesimo articolo, relative
essenzialmente all’assenza di condanne per
determinate tipologie di reati; lo stesso
art. 38 non richiede testualmente, che in
relazione all’amministratore cessato non
siano sussistenti altre cause ostative,
applicabili invece agli amministratori in
carica e richiamate alle lett. b) e m-ter)
dello stesso articolo.
Nessun operazione interpretativa di tipo
estensivo o analogico della norma di cui
all’art. 38 può consentire
l’allargamento delle ipotesi di esclusione e
del relativo obbligo dichiarativo; la norma
deve essere infatti oggetto di stretta
interpretazione, dovendosi dare prevalenza
alle espressioni letterali in essa contenuta
e restando preclusa ogni lettura estensiva
che contrasterebbe con i principi di
affidamento dei partecipanti, di trasparenza
della procedura e di massima partecipazione.
---------------
Le clausole
del bando che devono essere rispettate a
pena di esclusione -posto che incidono
sulla "par condicio" dei partecipanti-
vincolano l’Amministrazione alla loro
applicazione dovendosi in tal caso ritenere
prevalente l’applicazione del principio di
imperatività della "lex specialis" rispetto
all'assicurazione del "favor partecipationis".
La previsione dei requisiti di
ammissione alle procedure di evidenza
pubblica rientra nella sfera di
discrezionalità dell'amministrazione, purché
sia adeguata e pertinente alla tipologia ed
oggetto della prestazione per la quale è
stata indetta la gara (cfr. da ultimo Con.
Stato, sez. V, 09.04.2010 n. 1999).
---------------
L’art. 38 D.lgs 163/2006 impone che anche in relazione
agli amministratori cessati dalla carica
siano assenti le cause ostative di cui alla
lett. c) del medesimo articolo, relative
essenzialmente all’assenza di condanne per
determinate tipologie di reati; lo stesso
art. 38 non richiede testualmente, che in
relazione all’amministratore cessato non
siano sussistenti altre cause ostative,
applicabili invece agli amministratori in
carica e richiamate alle lett. b) e m-ter)
dello stesso articolo.
Nessun operazione interpretativa di tipo
estensivo o analogico della norma di cui
all’art. 38 può, come invece sostiene la
difesa del controinteressato, consentire
l’allargamento delle ipotesi di esclusione e
del relativo obbligo dichiarativo; la norma
deve essere infatti oggetto di stretta
interpretazione, dovendosi dare prevalenza
alle espressioni letterali in essa contenuta
e restando preclusa ogni lettura estensiva
che contrasterebbe con i principi di
affidamento dei partecipanti, di trasparenza
della procedura e di massima partecipazione.
---------------
Non
sussistono pertanto ragioni perché il
Collegio si discosti dal saldo orientamento
giurisprudenziale secondo cui le clausole
del bando che devono essere rispettate a
pena di esclusione -posto che incidono
sulla "par condicio" dei partecipanti-
vincolano l’Amministrazione alla loro
applicazione dovendosi in tal caso ritenere
prevalente l’applicazione del principio di
imperatività della "lex specialis" rispetto
all'assicurazione del "favor partecipationis"
(ex multis TAR Puglia Lecce n. 1632/2010) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 18.04.2012 n. 696 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: E'
illegittima l'aggiudicazione di una gara
d'appalto in considerazione della mancata
indicazione nell’offerta dell’importo
relativo agli oneri di sicurezza.
Invero, l’art. 87, comma 4, del d.lgs
163/2006 impone, anche per gli appalti di
servizi e forniture, la specifica
indicazione nell’offerta economica di costi
relativi alla sicurezza. In particolare, gli
oneri di sicurezza –sia nel comparto dei
lavori che in quelli dei servizi e delle
forniture– devono essere indicati dai
soggetti partecipanti nelle rispettive
offerte, con il conseguente onere per la
stazione appaltante di valutarne la
congruità rispetto all’entità ed alle
caratteristiche del servizio appaltato.
La mancanza di una specifica previsione sul
tema in seno alla lex specialis non toglie
che la disciplina legale contenuta nel
citato art. 87 sia immediatamente precettiva
e idonea ad eterointegrare le regole
procedurali, imponendo agli offerenti di
indicare separatamente i costi per la
sicurezza sul lavoro.
Né può venire in considerazione la
circostanza di natura fattuale, e comunque
opinabile, in base alla quale nello
svolgimento dello specifico servizio
l’esigenze di sicurezza sarebbero minime; la
norma ha infatti carattere imperativo e
impone alle imprese partecipanti
l’enucleazione degli oneri preventivati per
la sicurezza a prescindere dall’ammontare,
esiguo o meno, degli stessi in quanto la
predetta omissione rende l’offerta
incompleta sotto un profilo particolarmente
rilevante alla luce della natura
costituzionalmente sensibile degli interessi
protetti.
L’aggiudicazione
allo Studio Bonacchi risulta, altresì
illegittima in considerazione della mancata
indicazione nell’offerta dell’importo
relativo agli oneri di sicurezza (quarto
motivo del ricorso principale).
Invero, l’art. 87, comma 4, del d.lgs
163/2006 impone, anche per gli appalti di
servizi e forniture, la specifica
indicazione nell’offerta economica di costi
relativi alla sicurezza. In particolare, gli
oneri di sicurezza –sia nel comparto dei
lavori che in quelli dei servizi e delle
forniture– devono essere indicati dai
soggetti partecipanti nelle rispettive
offerte, con il conseguente onere per la
stazione appaltante di valutarne la
congruità rispetto all’entità ed alle
caratteristiche del servizio appaltato (cfr.
da ultimo Cons. Stato 212/2002).
La mancanza di una specifica previsione sul
tema in seno alla lex specialis non toglie
che la disciplina legale contenuta nel
citato art. 87 sia immediatamente precettiva
e idonea ad eterointegrare le regole
procedurali, imponendo agli offerenti di
indicare separatamente i costi per la
sicurezza sul lavoro (cfr. in termini Cons.
Stato 4849/2010).
Né può venire in considerazione la
circostanza di natura fattuale, e comunque
opinabile, in base alla quale nello
svolgimento dello specifico servizio
l’esigenze di sicurezza sarebbero minime; la
norma ha infatti carattere imperativo e
impone alle imprese partecipanti
l’enucleazione degli oneri preventivati per
la sicurezza a prescindere dall’ammontare,
esiguo o meno, degli stessi in quanto la
predetta omissione rende l’offerta
incompleta sotto un profilo particolarmente
rilevante alla luce della natura
costituzionalmente sensibile degli interessi
protetti (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 18.04.2012 n. 696 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai fini dell’ammissibilità o meno del
condono edilizio, i vincoli paesistico-ambientali non implicano di
per sé, almeno in termini generali, l’inedificabilità
assoluta, e la p.a. preposta alla tutela
degli stessi deve compiere una concreta
valutazione sulla ravvisabilità o meno di
ragioni ostative al rilascio del nulla osta.
Il provvedimento con cui il Comune, invece,
‘automaticamente’ ricollega alla presenza
di vincoli anteriori alle opere abusive la
non condonabilità delle stesse è dunque
illegittimo e dev’essere annullato.
... per l’annullamento:
- della nota in data 02.05.2011, prot. n.
3923, a firma del Funzionario Responsabile
dell’Ufficio Condono Edilizio del Comune di
Castrignano del Capo;
- di ogni altro atto comunque connesso,
presupposto e/o consequenziale;
- e per l’accertamento del condono edilizio
ex lege 724/1994 relativo alle opere di cui
si controverte e, in via consequenziale, del
diritto dei ricorrenti a ottenere il
richiesto provvedimento di sanatoria-condono
edilizio con riferimento a tali opere, come
da istanza acclarata al protocollo comunale
in data 28.02.1995 al n. 1236.
...
Deve osservarsi, anzitutto, che
l’Amministrazione giustificava il rigetto
dell’istanza evidenziando che il lotto
interessato dall’intervento abusivo era
interessato da una pluralità di vincoli
paesaggistici, in gran parte precedenti alle
opere in parola.
Ciò scritto, non può tuttavia non
evidenziarsi come siffatto iter
motivazionale, adeguato e sufficiente ove si
discutesse di un condono ex lege n. 326 del
2003, non lo è nel caso in esame, posto che
l’art. 32 della legge n. 47 del 1985,
richiamato nel sistema della legge n. 724
del 1994, ammetteva anche la condonabilità
degli abusi commessi su immobili sottoposti
a vincoli di inedificabilità relativa, pur
subordinandola a una valutazione di
compatibilità paesaggistica (e, ciò, a
prescindere dalla anteriorità o posteriorità
del vincolo rispetto alla realizzazione
dell’abuso, sicché ciò che era compatibile
con la tutela del paesaggio poteva essere
condonato; cfr. Tar Lecce, III, 03.09.2009, n. 2058; 10.01.2009, n.
17; 06.03.2009, n. 385).
Ai fini dell’ammissibilità o meno del
condono edilizio, dunque, i vincoli
paesistico-ambientali non implicavano di
per sé, almeno in termini generali, l’inedificabilità
assoluta, e la p.a. preposta alla tutela
degli stessi doveva (e tuttora deve, nei
casi in cui venga in rilievo un procedimento
ex lege n. 724/1994) compiere una concreta
valutazione sulla ravvisabilità o meno di
ragioni ostative al rilascio del nulla osta
(Tar Lazio Roma, II, 03.11.2010, n.
33123): il provvedimento con cui il Comune
di Castrignano del Capo, invece,
‘automaticamente’ ricollegava alla presenza
di vincoli anteriori alle opere abusive la
non condonabilità delle stesse era dunque
illegittimo e dev’essere annullato (fermo
restando, tuttavia, che la suddetta concreta
valutazione dovrà essere comunque compiuta,
sicché non v’è allo stato lo spazio per ‘accertare’
la sanabilità delle opere, come pure
richiesto dai ricorrenti)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 18.04.2012 n. 695 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione di un’istanza di sanatoria -sia essa di
accertamento di conformità sia essa di
condono- produce l’effetto di rendere
inefficace l’ordine di demolizione delle
opere abusive oggetto di quest’ultima.
Invero il riesame dell’abusività dell’opera
provocato dalla predetta istanza comporta la
necessaria formazione di un nuovo
provvedimento (o di accoglimento o di
rigetto della richiesta sanatoria) che varrà
comunque a superare quello sanzionatorio
oggetto della presente impugnativa.
In caso di rigetto dell’istanza,
l’Amministrazione sarà perciò tenuta a
riprovvedere emanando le conseguenti
sanzioni.
Conseguentemente il ricorso proposto
avverso l’ingiunzione che ha dato adito al
procedimento di sanatoria deve essere
ritenuto improcedibile per carenza di
interesse.
Il ricorso in oggetto è rivolto
avverso il provvedimento del Comune di Melendugno
06.10.2006 n. 22/2006 con cui
si è ingiunto alla ricorrente, ai sensi e
per gli effetti dell’articolo 31 del D.P.R.
n. 380 del 2001, di demolire le opere
eseguite abusivamente in località S. Andrea,
su area sottoposta a vincolo paesaggistico e
a vincolo idrogeologico, consistenti nella
“ristrutturazione di un vecchio trullo di
pietrame a secco suddiviso in vani della
superficie di mq. 80 ca. e altezza di ml.
2,75 ca. con copertura in pannelli
coibentati”, nonché nella realizzazione “di
una tettoia in legno antistante il trullo,
della superficie di mq. 40 e altezza di ml.
2,75.
A sostegno del gravame deduce con
l’unico articolato motivo la violazione e
falsa applicazione della legge n. 47 del
1985 e del D.P.R. n. 380 del 2001, l’eccesso
di potere sotto i diversi profili
dell’illogicità e contraddittorietà
dell’azione amministrativa, del travisamento
dei fatti e della carenza di motivazione.
Nessuno si è costituito in giudizio per
il Comune di Melendugno e all’udienza del 14.03.2012, fissata per la discussione, la
ricorrente dopo aver manifestato il proprio
interesse alla decisione ai sensi e per gli
effetti dell’articolo 85, comma 2 del c.p.a,
ha chiesto che il ricorso fosse trattenuto
in decisione.
Il Collegio rileva che il ricorso dev’essere
dichiarato improcedibile per sopravvenuto
difetto di interesse, avendo la ricorrente
avanzato, in data 17.12.2006, una
domanda di sanatoria ex art. 36 d.p.r. n.
380 del 2001 per i lavori di cui
all’impugnata ordinanza di demolizione.
Va infatti osservato che secondo il
preferibile indirizzo della giurisprudenza
amministrativa, la presentazione di
un’istanza di sanatoria -sia essa di
accertamento di conformità sia essa di
condono- produce l’effetto di rendere
inefficace l’ordine di demolizione delle
opere abusive oggetto di quest’ultima.
Invero il riesame dell’abusività dell’opera
provocato dalla predetta istanza comporta la
necessaria formazione di un nuovo
provvedimento (o di accoglimento o di
rigetto della richiesta sanatoria) che varrà
comunque a superare quello sanzionatorio
oggetto della presente impugnativa.
In caso di rigetto dell’istanza,
l’Amministrazione sarà perciò tenuta a
riprovvedere emanando le conseguenti
sanzioni (cfr., fra le molte, Tar Puglia
Lecce, III, 16.12.2011, n. 2214).
Conseguentemente il ricorso proposto
avverso l’ingiunzione che ha dato adito al
procedimento di sanatoria deve essere
ritenuto improcedibile per carenza di
interesse
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 16.04.2012 n. 672 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
caso di titoli edilizi, il dies a
quo assume una particolare conformazione,
essendo pacifico che, al fine della
decorrenza del termine per l'impugnazione da
parte di terzi, l'effettiva conoscenza
dell'atto si verifica quando la costruzione
realizzata rivela in modo certo e univoco le
essenziali caratteristiche dell'opera e
l'eventuale non conformità della stessa alla
disciplina urbanistico-edilizia, onde, in
mancanza di altri ed inequivoci elementi
probatori il termine decorre non con il mero
inizio dei lavori, bensì con il loro
completamento.
Al riguardo va richiamato
l’orientamento giurisprudenziale secondo
cui, nel caso di titoli edilizi, il dies a
quo assume una particolare conformazione,
essendo pacifico che, al fine della
decorrenza del termine per l'impugnazione da
parte di terzi, l'effettiva conoscenza
dell'atto si verifica quando la costruzione
realizzata rivela in modo certo e univoco le
essenziali caratteristiche dell'opera e
l'eventuale non conformità della stessa alla
disciplina urbanistico-edilizia, onde, in
mancanza di altri ed inequivoci elementi
probatori il termine decorre non con il mero
inizio dei lavori, bensì con il loro
completamento (cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
12.02.2007 n. 599)
(TAR Marche,
sentenza 14.04.2012 n. 274 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
silenzio-assenso previsto in tema di condono
edilizio non si forma per il solo fatto
dell'inutile decorso del termine indicato da
tale norma (ventiquattro mesi dalla
presentazione dell'istanza) e del pagamento
dell'oblazione, senza alcuna risposta del
Comune, ma occorre altresì la prova della
ricorrenza dei requisiti soggettivi ed
oggettivi stabiliti dall’art. 32 comma 37
del d.l. 269/2003 convertito nella l.
326/2003 cui è subordinata l'ammissibilità
del condono,
che la domanda sia stata correlata dalla
prescritta documentazione, non sia infedele,
sia stata interamente pagata l'oblazione e,
soprattutto, che l'opera sia stata ultimata
nel termine di legge e non sia in contrasto
con i vincoli di inedificabilità di cui
all'art. 33, l. 28.02.1985 n. 47.
Il semplice decorso del termine per
provvedere costituisce, pertanto, solo uno
degli elementi necessari, ma di per sé non
sufficiente, per il perfezionamento della
fattispecie.
Il termine di ventiquattro mesi, fissato
dall'amministrazione comunale per
determinarsi sull'istanza di condono
edilizio decorre, in caso di incompletezza
della domanda o della documentazione
inoltrata a suo corredo, soltanto dal
momento in cui dette carenze sono state
eliminate.
---------------
L'art. 29, l. 28.02.1985 n. 47, nella parte
in cui comprende l'adozione e l'approvazione
di varianti agli strumenti urbanistici
finalizzate al recupero urbanistico degli
abusi, si riferisce agli insediamenti
abusivi, con ciò intendendosi i nuclei di
espansione di edilizia abitativa di una
certa consistenza, cui si correla la
difficoltà sociale di un ripristino
generalizzato, e non alle situazioni di
diffusione sul territorio rurale di piccoli
abusi.
Invero, la ratio della norma non è quella di
imporre alle Regioni e alle amministrazioni
comunali, in sede di adozione e approvazione
delle varianti generali agli strumenti
urbanistici, l'obbligo di considerare gli
insediamenti abusivi a fini del recupero;
bensì quella di affiancare una speciale
tipologia di variante a quelle già
contemplate dall'ordinamento urbanistico,
demandando alle regioni la disciplina di
dettaglio.
Del resto, il terzo comma dell'art. 29 cit.,
laddove sancisce, in via transitoria, che
fino all'emanazione delle leggi regionali,
gli insediamenti in tutto o in parte abusivi
possono formare oggetto di varianti
urbanistiche ordinarie (fermi restando gli
effetti della mancata presentazione della
domanda di condono per gli immobili
abusivi), ai fini del loro recupero dal
punto di vista urbanistico, nel rispetto
comunque degli obblighi relativi alla
indicazione di criteri per la formazione di
consorzi tra proprietari, del programma
finanziario e alla definizione degli oneri
di urbanizzazione, prevede una mera facoltà
e non l'obbligo di contemplare all'interno
delle varianti generali gli insediamenti
abusivi.
Secondo pacifici orientamenti
giurisprudenziali, dai quali non vi è motivo
per discostarsi, il silenzio-assenso
previsto in tema di condono edilizio non si
forma per il solo fatto dell'inutile decorso
del termine indicato da tale norma
(ventiquattro mesi dalla presentazione
dell'istanza) e del pagamento
dell'oblazione, senza alcuna risposta del
Comune, ma occorre altresì la prova della
ricorrenza dei requisiti soggettivi ed
oggettivi stabiliti dall’art. 32 comma 37
del d.l. 269/2003 convertito nella l.
326/2003 cui è subordinata l'ammissibilità
del condono (ex multis TAR Campania
Napoli, sez. VI, 10.04.2009, n. 1944),
che la domanda sia stata correlata dalla
prescritta documentazione, non sia infedele,
sia stata interamente pagata l'oblazione e,
soprattutto, che l'opera sia stata ultimata
nel termine di legge e non sia in contrasto
con i vincoli di inedificabilità di cui
all'art. 33, l. 28.02.1985 n. 47.
Il semplice decorso del termine per
provvedere costituisce, pertanto, solo uno
degli elementi necessari, ma di per sé non
sufficiente, per il perfezionamento della
fattispecie (TAR Campania Napoli, sez. III, 25.10.2010, n. 21436 Consiglio
Stato, sez. IV, 22.07.2010, n. 4823).
In particolare, l’art. 32, c. 37, della citata
l. 326/2003 prevede che “Il pagamento degli
oneri di concessione, la presentazione della
documentazione di cui al comma 35, della
denuncia in catasto, della denuncia ai fini
dell'imposta comunale degli immobili di cui
al decreto legislativo 30.12.1992, n.
504, nonché, ove dovute, delle denunce ai
fini della tassa per lo smaltimento dei
rifiuti solidi urbani e per l'occupazione
del suolo pubblico, entro il 31 ottobre
2005, nonché il decorso del termine di
ventiquattro mesi da tale data senza
l'adozione di un provvedimento negativo del
comune, equivalgono a titolo abilitativo
edilizio in sanatoria”.
Nella specie, come risulta dal provvedimento
di diniego del 17.02.2011, la domanda
del ricorrente è priva della documentazione
prevista dalla normativa richiamata “in
quanto mancante della prova dell’avvenuta
iscrizione in catasto, delle denunce ai fini
dell’imposta comunale sugli immobili e ai
fini dello smaltimento dei rifiuti solidi
urbani”, oltre a ricadere nel regime
vincolistico di cui alla variante al P.d.F.
costituita dal Piano di recupero degli
insediamenti abusivi e nel nucleo n. 2 ove è
prevista una infrastruttura viaria con
un’area a parcheggio.
Le circostanze suindicate escludono quindi
la formazione del c.d. silenzio assenso in
quanto parte ricorrente non ha fornito prova
della ricorrenza di tutti i requisiti per la
condonabilità delle opere oggetto
dell'istanza di condono, né della
completezza della documentazione, dato che
il termine di ventiquattro mesi, fissato
dall'amministrazione comunale per
determinarsi sull'istanza stessa decorre, in
caso di incompletezza della domanda o della
documentazione inoltrata a suo corredo,
soltanto dal momento in cui dette carenze
sono state eliminate (TAR Basilicata
Potenza, 03.05.2004, n. 305; TAR
Sicilia Palermo, sez. II, 23.04.2004,
n. 741).
---------------
Può
difatti farsi applicazione dei pacifici
orientamenti giurisprudenziali che ritengono
che “l'art. 29, l. 28.02.1985 n. 47,
nella parte in cui comprende l'adozione e
l'approvazione di varianti agli strumenti
urbanistici finalizzate al recupero
urbanistico degli abusi, si riferisce agli
insediamenti abusivi, con ciò intendendosi i
nuclei di espansione di edilizia abitativa
di una certa consistenza, cui si correla la
difficoltà sociale di un ripristino
generalizzato, e non alle situazioni di
diffusione sul territorio rurale di piccoli
abusi” (TAR Umbria Perugia, sez. I, 29.07.2008, n. 453).
Invero, la ratio della norma non è quella di
imporre alle Regioni e alle amministrazioni
comunali, in sede di adozione e approvazione
delle varianti generali agli strumenti
urbanistici, l'obbligo di considerare gli
insediamenti abusivi a fini del recupero;
bensì quella di affiancare una speciale
tipologia di variante a quelle già
contemplate dall'ordinamento urbanistico,
demandando alle regioni la disciplina di
dettaglio.
Del resto, il terzo comma dell'art. 29 cit.,
laddove sancisce, in via transitoria, che
fino all'emanazione delle leggi regionali,
gli insediamenti in tutto o in parte abusivi
possono formare oggetto di varianti
urbanistiche ordinarie (fermi restando gli
effetti della mancata presentazione della
domanda di condono per gli immobili
abusivi), ai fini del loro recupero dal
punto di vista urbanistico, nel rispetto
comunque degli obblighi relativi alla
indicazione di criteri per la formazione di
consorzi tra proprietari, del programma
finanziario e alla definizione degli oneri
di urbanizzazione, prevede una mera facoltà
e non l'obbligo di contemplare all'interno
delle varianti generali gli insediamenti
abusivi (Consiglio Stato, sez. IV, 25.07.2001, n. 4078).
Non sussiste, dunque, alcun "diritto" della
parte a ottenere la ricognizione del proprio
abuso tanto più se lo tesso si presenti
(come nella fattispecie) di lieve entità e
tale da non stravolgere l’assetto urbanistico-edilizio
della zona
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 12.04.2012 n. 625 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
piena conoscenza dell'attività
amministrativa e della sua lesività, al fine del decorso del
termine di impugnazione, non può essere
affermata in via meramente presuntiva, ma
deve formare oggetto di prova rigorosa da
parte di chi eccepisce la tardività del
gravame. Inoltre la conoscenza dell'atto
deve essere, oltre che piena (con
riferimento alla sua esistenza e lesività),
anche personale (e quindi formarsi in capo
al diretto interessato).
Al riguardo va richiamato
l’ormai costante orientamento
giurisprudenziale secondo cui la piena
conoscenza dell'attività amministrativa e
della sua lesività, al fine del decorso del
termine di impugnazione, non può essere
affermata in via meramente presuntiva, ma
deve formare oggetto di prova rigorosa da
parte di chi eccepisce la tardività del
gravame. Inoltre la conoscenza dell'atto
deve essere, oltre che piena (con
riferimento alla sua esistenza e lesività),
anche personale (e quindi formarsi in capo
al diretto interessato) (cfr. Cons. Stato,
Sez. V, 08.06.2011 n. 3458; Sez. IV, 15.05.2008
n. 2236; 18.12.2008 n. 6365)
(TAR Marche,
sentenza 12.04.2012 n. 273 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Il
Piano attuativo conserva efficacia in
applicazione del principio di ultrattività
disciplinato dall’art. 17 della stessa Legge
n. 1150/1942, secondo cui resta comunque
“fermo a tempo indeterminato l’obbligo di
osservare nella costruzione di nuovi edifici
e nella modificazione di quelli esistenti
gli allineamenti e le prescrizioni di zona
stabiliti dal piano stesso”.
La giurisprudenza ha chiarito il significato
da attribuire agli artt. 16, 17 e 28 della
Legge n. 1150/1942, affermando che
l’imposizione del termine decennale va
inteso nel senso che le attività dirette
alla realizzazione dello strumento
urbanistico attuativo, sia convenzionali che
autoritative, non possono essere attuate
oltre un certo termine, scaduto il quale
l’autorità competente riacquista il
potere-dovere di dare un nuovo assetto
urbanistico alle parti non realizzate, fermo
restando che, fino a quando tale potere non
verrà esercitato, l’assetto urbanistico
dell’area rimane definito dal piano
particolareggiato o di lottizzazione.
Come
hanno giustamente osservato le parti
resistenti, il citato Piano attuativo
conserva efficacia in applicazione del
principio di ultrattività disciplinato
dall’art. 17 della stessa Legge n.
1150/1942, secondo cui resta comunque “fermo
a tempo indeterminato l’obbligo di osservare
nella costruzione di nuovi edifici e nella
modificazione di quelli esistenti [come nel
caso in esame] gli allineamenti e le
prescrizioni di zona stabiliti dal piano
stesso”.
È pur vero che la L.r. n. 31/1979 aveva
natura straordinaria, poiché riguardava gli
edifici con impianto edilizio preesistente e
compresi nelle zone residenziali di
completamento, per consentire gli
ampliamenti di quelli con un piano fuori
terra e di quelli che, avuto riguardo alla
struttura edilizia esistente e agli edifici
circostanti, presentavano evidenti
caratteristiche di non completezza.
Va tuttavia osservato che, fino a quando
detto obiettivo di recupero urbanistico non
viene realizzato (o non intervengono
discipline urbanistiche difformi e
incompatibili), non si intravedono ragioni
affinché non possa essere raggiunto anche
dopo la scadenza decennale del Piano
attuativo, proprio in forza del principio di
cui al sopra ricordato art. 17 volto a dare
tendenziale stabilità alle previsioni
pianificatorie particolareggiate.
Al riguardo la giurisprudenza ha chiarito il
significato da attribuire agli artt. 16, 17
e 28 della Legge n. 1150/1942, affermando
che l’imposizione del termine decennale va
inteso nel senso che le attività dirette
alla realizzazione dello strumento
urbanistico attuativo, sia convenzionali che
autoritative, non possono essere attuate
oltre un certo termine, scaduto il quale
l’autorità competente riacquista il
potere-dovere di dare un nuovo assetto
urbanistico alle parti non realizzate, fermo
restando che, fino a quando tale potere non
verrà esercitato, l’assetto urbanistico
dell’area rimane definito dal piano
particolareggiato o di lottizzazione (cfr.
Cons. Stato, Sez. V, 30.04.2009 n. 2768; Sez. IV, 19.02.2007
n. 851)
(TAR Marche,
sentenza 12.04.2012 n. 273 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: A
fronte di un’ambiguità delle previsioni del
bando di gara deve operare il principio di
massima partecipazione alle gare.
Inoltre, a seguito dell’entrata in
vigore dell’art. 46, comma 1-bis, del codice
dei contratti pubblici (aggiunto dall’art.
4, comma 2, lett. d), del decreto-legge 13.05.2011, n. 70, convertito in legge, con
modificazioni, dall'art. 1, comma 1, legge
12.07.2011, n. 106), che ha introdotto il
principio di tassatività delle cause di
esclusione dalle gare di appalto, deve
ritenersi illegittima l’esclusione di una
ditta da una gara solo per irregolarità di
carattere formale nelle presentazione della
domanda di partecipazione.
---------------
La verifica di anomalia non ha per oggetto
la ricerca di specifiche e singole
inesattezze dell’offerta economica, ma mira
ad accertare se l’offerta, nel suo
complesso, sia attendibile o inattendibile,
e dunque se dia o meno serio affidamento
circa la corretta esecuzione dell’appalto.
Pertanto, sono stati affermati i seguenti
principi:
- che il procedimento di verifica è avulso
da ogni formalismo ed è improntato alla
massima collaborazione tra stazione
appaltante ed offerente;
- che il contraddittorio deve essere
effettivo;
- che non vi sono preclusioni alla
presentazione di giustificazioni, ancorate
al momento della scadenza del termine di
presentazione delle offerte;
- che mentre l’offerta è immodificabile,
modificabili sono le giustificazioni e sono
ammesse quelle sopravvenute e compensazioni
tra sottostime e sovrastime, purché
l'offerta risulti nel suo complesso
affidabile al momento dell'aggiudicazione, a
garanzia di una seria esecuzione del
contratto.
Per cui, la Commissione giudicatrice, una
volta che ritenga non soddisfacenti le
giustificazioni rese dall’impresa la cui
offerta è risultata sospetta di anomalia,
può legittimamente procedere ad una nuova
richiesta volta ad acquisire ulteriori
chiarimenti integrativi rispetto a quelli
già presentati in risposta al primo
sollecito e può legittimamente esaminare
anche le giustificazioni rese con ritardo,
in quanto il procedimento di verifica è
avulso da ogni formalismo ed è improntato
alla massima collaborazione tra stazione
appaltante ed offerente e le relative
valutazioni sono rimesse alla
discrezionalità della Commissione di gara.
---------------
L’esame delle giustificazioni volte a
dimostrare la non anomalia dell’offerta è
vicenda che rientra nella discrezionalità
tecnica dell'Amministrazione, per cui
soltanto in caso di macroscopiche
illogicità, vale a dire di errori di
valutazione evidenti e gravi, oppure di
valutazioni abnormi o affette da errori di
fatto, il giudice della legittimità può
intervenire, restando per il resto la
capacità di giudizio confinata entro i
limiti dell'apprezzamento tecnico proprio di
tale tipo di discrezionalità.
E' precluso al giudice amministrativo
sindacare le scelte di merito effettuate
dall’Amministrazione, per cui la
sostituzione da parte del giudice
amministrativo della propria valutazione a
quella riservata alla discrezionalità
dell’amministrazione costituisce, in via
generale, una ipotesi di sconfinamento
vietato nelle ipotesi di giurisdizione di
legittimità. Di conseguenza il controllo del
giudice amministrativo sulle valutazioni
discrezionali deve essere svolto ab
estrinseco e non può essere mai sostitutivo;
il sindacato sulla motivazione deve,
pertanto, essere rigorosamente mantenuto sul
piano della verifica della non erroneità
della valutazione degli elementi di fatto e
non può avvalersi di criteri che portano ad
evidenziare la mera non condivisibilità
della valutazione stessa.
Il giudizio di verifica della congruità di
un’offerta ha natura globale e sintetica
sulla serietà o meno dell’offerta nel suo
insieme, con conseguente irrilevanza di
eventuali “singole” voci di scostamento, e
non ha per oggetto la ricerca di specifiche
e singole inesattezze dell’offerta
economica, mirando, invece, ad accertare se
l’offerta nel suo complesso sia attendibile;
inoltre, nell’ambito di tale giudizio il
margine di utile richiesto è irrilevante ai
fini della relativa affidabilità, con
l’unico limite che lo stesso non venga del
tutto azzerato.
Essendo tale indagine di natura sintetica e
globale, in sede di verifica dell’anomalia
delle offerte è possibile sia una modifica
delle giustificazioni delle singole voci di
costo (rispetto alle giustificazioni già
fornite), lasciando le voci di costo
invariate, oppure un aggiustamento di
singole voci di costo.
Le tabelle sui costi del lavoro predisposte
dal Ministero del Lavoro, in base ai valori
previsti dalla contrattazione collettiva,
non assumono valore di parametro assoluto ed
inderogabile, ma sono suscettibili di
scostamento in relazione a valutazioni
statistiche e ad analisi aziendali svolte
dall’offerente, che evidenzino una
particolare organizzazione aziendale;
cosicché è rimessa alla stazione appaltante
la valutazione della congruità e
dell’affidabilità dell’offerta, in caso di
sensibile scostamento, mediante il
procedimento di verifica delle anomalie
Secondo un costante e
consolidato orientamento della
giurisprudenza amministrativa a fronte di
un’ambiguità delle previsioni del bando di
gara deve operare il principio di massima
partecipazione alle gare.
Inoltre, va anche
ricordato che a seguito dell’entrata in
vigore dell’art. 46, comma 1-bis, del codice
dei contratti pubblici (aggiunto dall’art.
4, comma 2, lett. d), del decreto-legge 13.05.2011, n. 70, convertito in legge, con
modificazioni, dall'art. 1, comma 1, legge
12.07.2011, n. 106), che ha introdotto
il principio di tassatività delle cause di
esclusione dalle gare di appalto, deve
ritenersi illegittima l’esclusione di una
ditta da una gara solo per irregolarità di
carattere formale nelle presentazione della
domanda di partecipazione (cfr., da ultimo,
Cons. St., sez. III, 01.02.2012, n.
493, e TAR Calabria, sez. Reggio Calabria,
sez. I, 22.03.2012, n. 245, TAR Valle
d’Aosta 15.03.2012 n. 38, e TAR Lazio,
Roma, sez. I, 08.03.2012, n. 2308).
---------------
Va
ricordato che la giurisprudenza
amministrativa ha già chiarito che la
verifica di anomalia non ha per oggetto la
ricerca di specifiche e singole inesattezze
dell’offerta economica, ma mira ad accertare
se l’offerta, nel suo complesso, sia
attendibile o inattendibile, e dunque se dia
o meno serio affidamento circa la corretta
esecuzione dell’appalto. Pertanto, sono
stati affermati i seguenti principi:
- che il procedimento di verifica è avulso
da ogni formalismo ed è improntato alla
massima collaborazione tra stazione
appaltante ed offerente;
- che il contraddittorio deve essere
effettivo;
- che non vi sono preclusioni alla
presentazione di giustificazioni, ancorate
al momento della scadenza del termine di
presentazione delle offerte;
- che mentre l’offerta è immodificabile,
modificabili sono le giustificazioni e sono
ammesse quelle sopravvenute e compensazioni
tra sottostime e sovrastime, purché
l'offerta risulti nel suo complesso
affidabile al momento dell'aggiudicazione, a
garanzia di una seria esecuzione del
contratto (Cons. St., sez. V 20.02.2012 n. 875, e sez. VI, 24.08.2011, n.
4801).
Per cui, la Commissione giudicatrice, una
volta che ritenga non soddisfacenti le
giustificazioni rese dall’impresa la cui
offerta è risultata sospetta di anomalia,
può legittimamente procedere ad una nuova
richiesta volta ad acquisire ulteriori
chiarimenti integrativi rispetto a quelli
già presentati in risposta al primo
sollecito e può legittimamente esaminare
anche le giustificazioni rese con ritardo,
in quanto il procedimento di verifica è
avulso da ogni formalismo ed è improntato
alla massima collaborazione tra stazione
appaltante ed offerente e le relative
valutazioni sono rimesse alla
discrezionalità della Commissione di gara.
-------------
L’esame
delle giustificazioni volte a dimostrare la
non anomalia dell’offerta è vicenda che
rientra nella discrezionalità tecnica
dell'Amministrazione, per cui soltanto in
caso di macroscopiche illogicità, vale a
dire di errori di valutazione evidenti e
gravi, oppure di valutazioni abnormi o
affette da errori di fatto, il giudice della
legittimità può intervenire, restando per il
resto la capacità di giudizio confinata
entro i limiti dell'apprezzamento tecnico
proprio di tale tipo di discrezionalità
(Cons. St., sez. V, 29.02.2012, n.
1183, e sez. III, 14.02.2012, n. 710).
Deve, invero, al riguardo ricordarsi che,
come è noto, è precluso al giudice
amministrativo sindacare le scelte di merito
effettuate dall’Amministrazione, per cui la
sostituzione da parte del giudice
amministrativo della propria valutazione a
quella riservata alla discrezionalità
dell’amministrazione costituisce, in via
generale, una ipotesi di sconfinamento
vietato nelle ipotesi di giurisdizione di
legittimità, che ricorre nel caso di specie.
Di conseguenza -come è stato di recente
anche chiarito dal Giudice della
giurisdizione, chiamato a meglio definire il
c.d. “eccesso di potere giurisdizionale”
(cfr., da ultimo, Cass. Civ. SS.UU., 17.02.2012, nn. 2312 e 2313)- il
controllo del giudice amministrativo sulle
valutazioni discrezionali deve essere svolto
ab estrinseco e non può essere mai
sostitutivo; il sindacato sulla motivazione
deve, pertanto, essere rigorosamente
mantenuto sul piano della verifica della non
erroneità della valutazione degli elementi
di fatto e non può avvalersi di criteri che
portano ad evidenziare la mera non condivisibilità della valutazione stessa.
Ciò premesso, va anche ricordato che il
giudizio di verifica della congruità di
un’offerta ha natura globale e sintetica
sulla serietà o meno dell’offerta nel suo
insieme, con conseguente irrilevanza di
eventuali “singole” voci di scostamento, e
non ha per oggetto la ricerca di specifiche
e singole inesattezze dell’offerta
economica, mirando, invece, ad accertare se
l’offerta nel suo complesso sia attendibile
(Cons. St., sez. III, 26.01.2012, n.
343); inoltre, nell’ambito di tale giudizio
il margine di utile richiesto è irrilevante
ai fini della relativa affidabilità, con
l’unico limite che lo stesso non venga del
tutto azzerato.
Essendo tale indagine di natura sintetica e
globale, in sede di verifica dell’anomalia
delle offerte è possibile sia una modifica
delle giustificazioni delle singole voci di
costo (rispetto alle giustificazioni già
fornite), lasciando le voci di costo
invariate, oppure un aggiustamento di
singole voci di costo (Cons. St., sez. VI, 07.02.2012, n. 636).
Relativamente, infine al costo del lavoro la
stessa giurisprudenza ha anche precisato che
le tabelle sui costi del lavoro predisposte
dal Ministero del Lavoro, in base ai valori
previsti dalla contrattazione collettiva,
non assumono valore di parametro assoluto ed
inderogabile, ma sono suscettibili di
scostamento in relazione a valutazioni
statistiche e ad analisi aziendali svolte
dall’offerente, che evidenzino una
particolare organizzazione aziendale;
cosicché è rimessa alla stazione appaltante
la valutazione della congruità e
dell’affidabilità dell’offerta, in caso di
sensibile scostamento, mediante il
procedimento di verifica delle anomalie
(Cons. St., sez. III, 26.01.2012, n. 343)
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 10.04.2012 n. 162 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L’art.
37 del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, recante norme
generali sull’ordinamento del lavoro alle
dipendenze delle amministrazioni pubbliche,
dispone testualmente che a decorrere dall'01.01.2000 i bandi di concorso per
l’accesso alle pubbliche amministrazioni
debbono prevedere l’accertamento della
conoscenza dell’uso delle apparecchiature e
delle applicazioni informatiche più diffuse
e di almeno una lingua straniera.
La giurisprudenza amministrativa ha
precisato che tale articolo impone a
decorrere dall'01.01.2000 a tutte le
amministrazioni pubbliche (statali,
autonome, regionali, locali ecc.) di
prevedere, in sede di redazione dei bandi di
concorso, la conoscenza di almeno una lingua
straniera e delle applicazioni ed
apparecchiature informatiche e che la
mancata emanazione delle previste
disposizioni regolamentari non pregiudica la
possibilità che i bandi dispongano
direttamente le modalità di accertamento e i
livelli delle conoscenze in questione; per
cui tali bandi possono alternativamente
prevedere o che l’accertamento di tali
conoscenze costituisca parte integrante
delle prove di esame ovvero che venga in
rilievo quale requisito di ammissione al
concorso.
Ai fini del decidere deve
partirsi dal rilievo che l’art. 37 del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, recante norme
generali sull’ordinamento del lavoro alle
dipendenze delle amministrazioni pubbliche,
dispone testualmente che a decorrere dall'01.01.2000 i bandi di concorso per
l’accesso alle pubbliche amministrazioni
debbono prevedere l’accertamento della
conoscenza dell’uso delle apparecchiature e
delle applicazioni informatiche più diffuse
e di almeno una lingua straniera.
Ora, interpretando tale normativa, la
giurisprudenza amministrativa ha precisato
che tale articolo impone a decorrere dall'01.01.2000 a tutte le amministrazioni
pubbliche (statali, autonome, regionali,
locali ecc.) di prevedere, in sede di
redazione dei bandi di concorso, la
conoscenza di almeno una lingua straniera e
delle applicazioni ed apparecchiature
informatiche e che la mancata emanazione
delle previste disposizioni regolamentari
non pregiudica la possibilità che i bandi
dispongano direttamente le modalità di
accertamento e i livelli delle conoscenze in
questione; per cui tali bandi possono
alternativamente prevedere o che
l’accertamento di tali conoscenze
costituisca parte integrante delle prove di
esame ovvero che venga in rilievo quale
requisito di ammissione al concorso (Cons.
St., sez. V, 25.08.2008, n. 408, e TAR
Veneto, sez. II, 07.10.2010, n. 5285)
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 10.04.2012 n. 158 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Provvedimenti repressivi di abusi
edilizi: competenza del dirigente e non del
Sindaco.
Lottizzazione abusiva: disciplina prevista
dall’art. 18 della L. n. 47 del 1985.
Lottizzazione abusiva: provvedimento di
sospensione dei lavori per pretesa
lottizzazione.
Rientra nella competenza del dirigente di un
Comune -e non già del Sindaco- l’adozione di
provvedimenti repressivi di abusi edilizi, a
nulla rilevando che le norme di cui alla l.
n. 142/1990 in materia di competenze,
rispettivamente, dei vertici politici e dei
dirigenti non abbiano ricevuto ancora la
necessaria attuazione nell’ambito del Comune
(nella specie si trattava del Comune di
Napoli), nel caso in cui risulti che lo
statuto comunale preveda la competenza dei
dirigenti comunali all’emanazione dei
provvedimenti di autorizzazione, licenze,
concessioni e di tutti gli atti che
impegnano l’Amministrazione verso l’esterno
e risulti comunque che i provvedimenti in
questione sono stati emanati dopo la entrata
in vigore della l. n. 191/1998, il cui art.
2, al comma 12, ha trasferito ai dirigenti
la competenza ad adottare i provvedimenti
repressivi in materia di abusivismo edilizio
di competenza del Sindaco.
Il bene giuridico protetto dall’art. 18
della l. n. 47/1985, descrivente le
caratteristiche della lottizzazione abusiva,
non è tanto o solo la tutela dell’interesse
al rispetto della pianificazione
urbanistica, quanto, invece, la tutela
dell’interesse all’effettività del controllo
del territorio da parte del soggetto
pianificatore (cioè gli organi comunali)
tenuto a reprimere qualsiasi intervento
lottizzatorio che non sia stato previamente
assentito.
E’ ravvisabile l’ipotesi di lottizzazione
abusiva cartolare o negoziale, ai sensi
dell’art. 18 della l. n. 47/1985, solamente
quando sussistono elementi precisi ed
univoci da cui possa ricavarsi
oggettivamente l’intento di asservire
all'edificazione un’area non urbanizzata
(1). Pertanto, ai fini dell’accertamento
della sussistenza dei presupposti di cui
all’art. 18 della l. n. 47/1985, non è
sufficiente il mero riscontro del
frazionamento di un terreno collegato a
plurime vendite, ma sussiste anche la
necessità di acquisire un sufficiente quadro
indiziario dal quale sia possibile desumere
in maniera non equivoca la destinazione a
scopo edificatorio degli atti posti in
essere dalle parti (2), giustificandosi
l’adozione del provvedimento repressivo
anche a fronte della dimostrazione della
sussistenza di almeno uno degli elementi
precisi e univoci a tal fine occorrenti (3).
La cosiddetta lottizzazione cartolare o
negoziale, ossia il tipo di lottizzazione
che si realizza sulla base non tanto della
realizzazione di alcune opere, quanto del
frazionamento contrattuale di un vasto
terreno con la creazione di lotti
sufficienti per la costruzione di un singolo
edificio, può concretizzare in astratto già
di per sé il fenomeno della lottizzazione
abusiva, purché si possa desumere in modo
non equivoco dalle dimensioni e dal numero
dei lotti, dalla natura del terreno,
dall’eventuale revisione di opere di
urbanizzazione e dalla loro destinazione a
scopo edificatorio (4).
E’ illegittimo un provvedimento che ha
ingiunto ai proprietari la sospensione di
opere ritenute preordinate alla
lottizzazione abusiva di terreni nel caso in
cui, nel relativo provvedimento, non sia
contenuta alcuna precisazione circa la
consistenza dei lotti e lo stato dei
terreni, né si faccia riferimento alla
creazione di opere di urbanizzazione e ci si
riferisca invece genericamente all’esistenza
di strade, recinzioni dei lotti ed
edificazioni, elementi questi oggettivamente
del tutto insufficienti.
L’individuazione della lottizzazione abusiva
presuppone l’accertamento di una serie di
elementi, accertamento che implica indagini
complesse che impongono la necessaria
partecipazione dei soggetti interessati al
relativo procedimento, per cui deve essere
consentita ad essi la proposizione delle
rispettive osservazioni e deduzioni (5); è
pertanto illegittimo un provvedimento di
sospensione dei lavori per asserita
lottizzazione abusiva non preceduto da
comunicazione di avvio del procedimento ai
proprietari interessati, ove non sussistano
esigenze di indifferibilità ed urgenza che
avrebbero potuto giustificare l’omissione di
detta comunicazione.
---------------
(1) Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 11.10.2006
n. 6060 e Sez. V, 13.09.1991 n. 1157
(2) Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 20.10.2004, n.
6810
(3) Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 14.05.2004, n.
3136
(4) Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 11.09.2006,
n. 6060
(5) Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 11.05.2004 n.
2953, 29.01.2004 n. 296 e 23.02.2000 n. 948
(massima
tratta da www.regione.piemonte.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 12.03.2012 n. 1374 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
presenza del chiaro disposto legislativo,
non trova spazio la cosiddetta sanatoria
giurisprudenziale, che ricorrerebbe
allorquando la conformità dell’opera abusiva
sussista rispetto alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente al momento
del rilascio del titolo sanante, ma non
anche rispetto a quella del tempo in cui
l’opera è stata realizzata; quest’ultimo
istituto, infatti, elaborato dalla
giurisprudenza quando era in vigore la legge
n. 10/1977, in mancanza di una
regolamentazione legislativa della sanatoria
degli interventi abusivi, non ha più ragione
di esistere nel vigente ordinamento,
caratterizzato da una disciplina puntuale ed
esaustiva delle ipotesi di condono e
sanatoria edilizia.
L’art. 13 della legge n. 47/1985, l’art. 36
del D.P.R. n. 380/2001 e l’art. 140 della
L.R. n. 1/2005 abilitano al rilascio della
concessione edilizia in sanatoria quando
l’intervento è conforme alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al
momento della realizzazione dello stesso,
sia al momento della presentazione della
domanda.
Secondo l’ormai costante orientamento della
giurisprudenza amministrativa, in presenza
del chiaro disposto legislativo non trova
spazio la cosiddetta sanatoria
giurisprudenziale, che ricorrerebbe
allorquando la conformità dell’opera abusiva
sussista rispetto alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente al momento
del rilascio del titolo sanante, ma non
anche rispetto a quella del tempo in cui
l’opera è stata realizzata; quest’ultimo
istituto, infatti, elaborato dalla
giurisprudenza quando era in vigore la legge
n. 10/1977, in mancanza di una
regolamentazione legislativa della sanatoria
degli interventi abusivi, non ha più ragione
di esistere nel vigente ordinamento,
caratterizzato da una disciplina puntuale ed
esaustiva delle ipotesi di condono e
sanatoria edilizia (Cons. Stato, IV,
26/04/2006, n. 2306; TAR Lombardia, Milano,
II, 02/05/1989, n. 193; TAR Lombardia,
Brescia, 23/06/2003, n. 873; TAR Toscana,
III, 15/04/2002, n. 724; si veda anche Cons.
Stato, IV, ordinanza cautelare, 06/11/2010,
n.5046).
Nel caso di specie, tuttavia, il Comune di
Firenze, con l’art. 9-bis del regolamento
edilizio, ha aderito all’orientamento
minoritario che riconosce l’istituto in
questione sulla base dell’art. 97 della
Costituzione (sull’assunto che sarebbe
contrario al buon andamento demolire
un’opera che può essere nuovamente assentita
sulla base della differente disciplina
urbanistica attualmente in vigore: Cass. pen.,
III, 26/11/2003, n. 291).
Tuttavia, concedere la sanatoria in
questione senza applicare alcuna sanzione
amministrativa significherebbe creare una
disparità di trattamento rispetto a chi
ottiene la sanatoria, ai sensi dell’art. 13
della legge n. 47/1985, e a chi, in caso di
difformità parziale dalla concessione
edilizia, conserva l’opera abusiva per
impossibilità della demolizione ex art. 139,
comma 2, della L.R. n. 1/2005.
Invero le opere abusive conformi sia alla
disciplina urbanistica vigente al momento
della realizzazione dell’intervento, sia a
quella vigente al momento del rilascio del
titolo sanante, e quindi rientranti nella
sanatoria ordinaria, sono connotate da un
minor disvalore rispetto a quelle
assentibili con la cosiddetta sanatoria
giurisprudenziale
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 11.02.2011 n. 263 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 07.05.2012 |
ã |
SINDACATI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Spending review - Secondo il
Viceministro Grilli è solo una questione di
personale
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 26.04.2012). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
La contrattazione integrativa nel
pubblico impiego - EE.LL.: la contrattazione
integrativa nei CCNL e i limiti previsti
dalle disposizioni finanziarie
(CGIL-FP di Bergamo,
nota aprile 2012). |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Limiti alle assunzioni a tempo
indeterminato applicabili agli enti non
sottoposti al patto di stabilità (ANCI,
nota 27.04.2012). |
UTILITA' |
APPALTI SERVIZI: Servizi
pubblici: il timing dei vecchi
affidamenti. Le scadenze per gli enti locali
dopo la conversione del c.d. Dl
liberalizzazioni
(tratto da Diritto e Pratica
Amministrativa n. 4/2012). |
LAVORI PUBBLICI:
C. A. Crosato, La
verifica va effettuata su ogni livello di
progetto e progressivamente - La verifica
del progetto proposta per una lista di
controllo (tratto da Diritto e Pratica
Amministrativa n. 2/2012). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 18 del
04.05.2012, "Attuazione criteri per
l’esercizio dei controlli in materia di
certificazione energetica degli edifici:
modifica della tabella 4 di cui al punto c)
dell’allegato al decreto regionale n. 33 del
09.01.2012" (decreto
D.U.O. 27.04.2012 n. 3673). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 18 del
02.05.2012, "Aggiornamento dell’elenco
degli enti locali idonei all’esercizio delle
funzioni paesaggistiche loro attribuite
dall’art. 80 della legge regionale
11.03.2005, n. 12" (decreto
D.G. 18.04.2012 n. 3410). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 18 del
02.05.2012, "Comunicato regionale
14.02.2012, n. 9 “Direzione generale
Agricoltura – Pubblicazione dei testi
coordinati del regolamento regionale n.
4/2008 e del titolo X della l.r. 31/2008”,
pubblicato sul BURL n. 8, Serie ordinaria di
martedì 21.02.2012" (avviso
di rettifica). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA: L.
Spallino,
L.r. 7/2012: la Regione Lombardia introduce
la categoria della sostituzione edilizia
(link a http://studiospallino.blogspot.it). |
LAVORI PUBBLICI:
L. Bellagamba,
Project financing: la funzione della
subprocedura di selezione dei competitors
del promotore - La non condivisibile
tesi di TAR Toscana, Sez. I, 15.03.2012 n.
541, secondo cui l’unica offerta presentata
andrebbe ammessa direttamente alla procedura
negoziata finale, senza nessuna valutazione
di merito (04.05.2012 - link a
www.linobellagamba.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
F. Federici,
Abuso d’ufficio, peculato d’uso e
rivelazione ed utilizzazione di segreti
d’ufficio - nota a Corte di Cassazione, Sez.
VI penale, sentenza 16.01.2012 n. 1208
(link a www.filodiritto.com). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.
Bertagna,
Enti locali e part-time: soluzione o fonte di
problemi? - Numerosi gli interventi
restrittivi all’uso del tempo parziale, con
molti dubbi di interpretazione
(tratto da Diritto e Pratica
Amministrativa n. 4/2012). |
EDILIZIA PRIVATA: G.
G.A. Dato,
Anche il locatore ha titolo al rilascio del
permesso di costruire - Due recenti pronunce
riaffrontano il tema della legittimazione al
rilascio del permesso di costruire
(tratto da Diritto e Pratica
Amministrativa n. 3/2012). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
M. Gargano,
Incarichi legali esterni solo in assenza di
una struttura interna competente - Tutta la
disciplina per il conferimento di incarichi
esterni da parte delle PA
(tratto da Diritto e Pratica
Amministrativa n. 3/2012). |
ATTI AMMINISTRATIVI: A.
Baldanza,
Inerzia della PA: arrivano sostituti e nuove
responsabilità - Con il Dl semplificazioni
ancora modifiche alla legge sul procedimento
amministrativo
(tratto da Diritto e Pratica
Amministrativa n. 3/2012). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
G. G.A. Dato, Incarichi
professionali: obbligatoria l’evidenza
pubblica? Rimane divisa la giurisprudenza
sulle modalità di “affidamento” degli
incarichi professionali.
La sentenza del
TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 31.12.2011 n. 1680
racchiude una decisa presa di posizione
sulla vexata quaestio della necessità
(o meno) per il soggetto pubblico tenuto
all’osservanza della c.d. evidenza pubblica
di stimolare il confronto concorrenziale
prima di conferire un incarico
professionale.
Sulla questione la giurisprudenza appare
divisa, probabilmente in conseguenza delle
dissensiones che caratterizzano a
monte la stessa qualificazione (in termini
di appalto o meno) del rapporto negoziale
fra soggetto pubblico e libero
professionista.
Sono tre le tesi avanzate in giurisprudenza
sulla questione che ci occupa:
a)
secondo un primo orientamento, gli incarichi
ai liberi professionisti vanno qualificati
come contratti di lavoro autonomo, e non
appalti; la disciplina che li governa è,
quella dell’art. 7, comma 6 e ss., Dlgs n.
165/2001, il quale rinvia alla normativa
degli artt. 2222 e ss. c.c., in tema di
prestazione d’opera (Cons. Stato, sez. IV,
n. 263/2008);
b)
secondo altra ricostruzione (Tar Napoli,
sez. II, n. 4855/2008; Corte dei conti, sez.
reg. contr. Lombardia, delib. n.
29/pareri/2008; Corte dei conti, sez. reg.
contr. Calabria, delib. n. 144/2008; Corte
dei conti, sez. reg. contr. Veneto, delib.
n. 7/2009) l’affidamento diretto di un
incarico professionale viola i principi
costituzionali di buon andamento e
trasparenza e quelli comunitari di non
discriminazione, parità di trattamento,
pubblicità e proporzionalità, recepiti dal
citato art. 7 del Dlgs n. 165/2001, nel
testo novellato dall’art. 32 del Dl n.
223/2006 (c.d. decreto Bersani), conv. con
legge n. 248/2006, che impone alle PA
l’obbligo di concorrenza per il conferimento
degli incarichi (cfr. circolare del
ministero della Funzione pubblica n. 2
dell’11.03.2008), anche ove l’importo del
compenso sia inferiore alle soglie
comunitarie.
È stato osservato, altresì, che elementari e
indefettibili canoni di legalità impongono
alla PA che si determini a ricercare sul
libero mercato le forniture (di servizi,
beni, lavori, mano d’opera e collaborazione
professionale) di cui ha bisogno per il suo
funzionamento, di agire in modo imparziale e
trasparente, predefinendo criteri di
selezione e assicurando un minimo di
pubblicità e un minimo di concorso dei
soggetti interessati e titolati a stipulare
il contratto (Tar Napoli, sez. V, n.
382/2008);
c)
secondo una tesi intermedia (Corte dei
conti, sez. reg. contr. Basilicata, parere
n. 19/2009, con riferimento al caso degli
incarichi ai legali), la disciplina
riguardante gli appalti di servizi si
applica nella sola ipotesi in cui, insieme
all’esercizio della difesa, siano richieste
ulteriori prestazioni; dunque, la sola
prestazione del patrocinio è oggetto di un
contratto di prestazione d’opera
intellettuale che rientra nella disciplina
dell’art. 19, comma 1, lett. e), del Dlgs n.
163/2001, a mente del quale i contratti di
lavoro sono da considerare interamente
esclusi dal campo di applicazione del c.d.
codice dei contratti (cfr. anche Tar Lecce,
sez. II, n. 5053/2006, e Tar Reggio
Calabria, sez. I, n. 330/2007, che hanno
ritenuto applicabile la disciplina
codicistica in materia di appalti in caso di
affidamento di un’articolata attività
legale, che comprende l’assistenza e la
consulenza, oltre l’eventualità del
patrocinio legale).
La decisione in commento rafforza
l’orientamento proconcorrenziale: non
sussiste ragione alcuna che giustifichi un
affidamento diretto dell’incarico
professionale, dovendo l’ente rispettare le
regole procedurali dell’evidenza pubblica
(tratto da Diritto e Pratica
Amministrativa n. 2/2012). |
QUESITI &
PARERI |
AMBIENTE-ECOLOGIA: I
soggetti che effettuano a titolo
professionale attività di raccolta e
trasporto dei rifiuti sono tenuti alla
presentazione del “mudino”? Chi deve
essere indicato come destinatario dei
rifiuti?
(02.05.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: È
confermata l’Autorizzazione Unica Ambientale
prevista dal D.L. n. 5/2012?
(02.05.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Le
imprese che svolgono trasporti
transfrontalieri dei rifiuti in Italia
devono iscriversi all’Albo? Con quale
modello?
(02.05.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Quali
sono gli adempimenti del produttore e
destinatario nel caso di carico parzialmente
accettato o respinto?
(02.05.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI:
Una “colazione di lavoro” può
rientrare fra le spese di rappresentanza
sostenute dagli organi di governo degli enti
locali?
Al riguardo, appare preferibile attenersi ad
un’interpretazione il più possibile
restrittiva, alla luce del consolidato
orientamento della Corte dei conti (fra le
ultime, si vedano Sezione Friuli Venezia
Giulia,
sentenza
31.12.2010 n. 216 e sezione II centrale d’appello,
sentenza 25.08.2010
n. 338).
Secondo la magistratura contabile,
anzitutto, la mancata, rigorosa
giustificazione e documentazione delle spese
di rappresentanza sostenute comportano
l’illiceità delle stesse sotto il profilo
amministrativo contabile, in quanto non
viene esplicitato caso per caso l’interesse
istituzionale dell’ente, e configura il
danno erariale.
La spesa, inoltre, deve essere in ogni caso
sorretta dalla necessità dell’ente di una
proiezione esterna o di intrattenere
pubbliche relazioni con soggetti estranei,
al fine di mantenere o accrescere il
prestigio dell’amministrazione e richiamare
l’attenzione di soggetti qualificati.
Deve viceversa escludersi che l’attività di
rappresentanza possa configurarsi
nell’ambito dei normali rapporti
istituzionali o di servizio o nei confronti
di soggetti i quali, ancorché esterni
all’ente stesso, non siano tuttavia
rappresentativi degli organismi di
appartenenza. Va quindi riconosciuto
carattere dirimente al ruolo e alle
caratteristiche dell’ospite.
Questa impostazione trova conferma anche nel
recente decreto ministeriale del 23.01.2012,
di adozione dello schema di prospetto nel
quale vanno elencate le spese di
rappresentanza sostenute dagli organi di
governo degli enti locali (tratto da
Diritto e Pratica Amministrativa n. 3/2012). |
APPALTI SERVIZI:
In che limiti è ancora oggi
ammissibile la gestione diretta di servizi
pubblici locali?
Entro ristretti limiti, anche temporali,
appare per vero ancora consentita. Occorre
tuttavia distinguere, al riguardo, fra i
servizi pubblici locali diversi da quello
idrico, da un lato, e quest’ultimo,
dall’altro lato.
Con riferimento ai primi, l’articolo 25 del
decreto legge n. 1/2012 ha fra l’altro
modificato il comma 32 all’articolo 4 del
decreto legge n. 138/2011 (convertito con
modificazioni dalla legge n. 148/2011), il
quale ora oltre a prevedere che gli
affidamenti diretti relativi a servizi il
cui valore economico sia superiore alla
somma di cui al comma 13, ovvero non
conformi a quanto previsto al medesimo
comma, nonché gli affidamenti diretti che
non rientrano nei casi di cui alle
successive lettere da b) a d) cessano,
improrogabilmente e senza necessità di
apposita deliberazione dell'ente affidante,
alla data del 31.12.2012 contempla anche
un’eccezione.
In deroga alla regola della scadenza
automatica del 31.12.2012, l’affidamento per
la gestione in house può infatti
avvenire a favore di azienda risultante
dalla integrazione operativa, purché
perfezionata entro il termine del
31.12.2012, di preesistenti gestioni dirette
o in house tale da configurare un
unico gestore del servizio a livello di
ambito o di bacino territoriale ottimale ai
sensi dell’art. 3-bis.
In tal caso, la valutazione dell’efficacia e
dell’efficienza della gestione e il rispetto
delle condizioni previste nel contratto di
servizio sono peraltro sottoposti a verifica
annuale.
La durata dell’affidamento in house
all’azienda risultante dalla predetta
integrazione non può essere in ogni caso
superiore a tre anni.
Fermo restando che la norma in questione
potrebbe subire cambiamenti in sede di
conversione del decreto legge, essa allo
stato delle cose, parla di azienda
risultante dall’integrazione operativa,
purché perfezionata entro il termine del
31.12.2012, “di preesistenti gestioni
dirette o in house” (nel presupposto,
corretto, che la gestione diretta è altro
rispetto all’in house).
Ciò avrebbe evidentemente poco senso se alla
data di entrata in vigore del decreto legge
le gestioni dirette dovessero ritenersi
definitivamente venute meno, in particolare
ai sensi dell’art. 23-bis, comma 8, lett.
e), decreto legge n. 112/2008, convertito
dalla legge n. 133/2008.
Se, dunque, la nuova norma sembrerebbe
produrre una sorta di sanatoria implicita
per le gestioni dirette che, per effetto
dell’univoca previsione di cui alla
disposizione da ultimo citata, dovrebbero
oggi risultare cessate, per altro verso essa
individua una nuova data limite per le (in
questo modo rilegittimate) gestioni dirette,
ovvero il 31.12.2012, subordinatamente al
ricorrere delle condizioni anzidette.
Del resto, l’impressione che già l’art. 4,
comma 32, del decreto legge n. 138/2011
avesse realizzato una sorta di sanatoria
implicita per le gestioni dirette sembra
trarre conferma dal combinato disposto
dell’ultima parte della lett. a) di
quest’ultima norma e del nuovo comma 32-ter
del medesimo articolo4, nella parte in cui
specifica che per non pregiudicare la
necessaria continuità nell'erogazione dei
servizi pubblici locali di rilevanza
economica, i soggetti pubblici e privati
esercenti “a qualsiasi titolo”
attività di gestione dei servizi pubblici
locali assicurano l'integrale e regolare
prosecuzione delle attività medesime anche
oltre le scadenze previste nel comma 32,
fino al subentro del nuovo gestore e
comunque, in caso di liberalizzazione del
settore, fino all'apertura del mercato alla
concorrenza.
Diverso è invece il caso del servizio idrico
integrato, poiché la gestione diretta resta
possibile, ex articolo 148, comma 5, del
decreto legislativo n. 152/2006, per i
comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti
inclusi nel territorio delle comunità
montane, sempreché gestiscano l’intero
servizio idrico integrato, e previo consenso
della Autorità d'ambito competente (Sez.
reg. controllo della Corte dei conti per la
regione Abruzzo, parere 29/03/2011 n. 16, e
parere, ministero dell’Ambiente del
26.01.2012).
Al di sopra di questa soglia e al di fuori
di questo ambito, tale forma di gestione è
da ritenere non più consentita, in quanto
confluita nella categoria residuale di cui
all’articolo 23-bis, comma 8, lett. e), per
la quale, come noto, la cessazione
dell’affidamento si è irreversibilmente
verificata il 31.12.2010 (si veda anche il
parere Conviri del 06.12.2011).
Resta fermo che per le gestioni in regime
Cipe la definitiva cessazione dovrebbe
ritenersi verificata ancor prima.
Più precisamente ai sensi dell’articolo 10,
comma 28, del decreto legge n. 70 del 2011,
convertito con modificazioni dalla legge n.
106 del 2011 con l’entrata in vigore del
decreto legge n. 135 del 25.09.2009,
convertito, con modificazioni, dalla legge
n. 166 del 20.11.2009, (in tema, si veda
peraltro il parere Conviri n. 8338
dell’11.11.2011) (tratto da Diritto e
Pratica Amministrativa n. 3/2012). |
APPALTI:
In caso di omessa allegazione di
un documento o di una dichiarazione previsti
a pena di esclusione in una gara, a quali
condizioni ne è permessa l’integrazione o la
regolarizzazione postuma?
Si tratta di un’operazione non consentita.
Per consolidato orientamento
giurisprudenziale in tema di c.d. dovere di
soccorso (codificato dall’art. 46 Dlgs n.
163/2006), l’omessa allegazione di un
documento o di una dichiarazione previsti a
pena di esclusione non può considerarsi alla
stregua di un’irregolarità sanabile, e,
quindi, non ne è permessa l’integrazione o
la regolarizzazione postuma, non trattandosi
di rimediare a vizi puramente formali,
specie quando non sussistano equivoci o
incertezze generati dall’ambiguità di
clausole della legge di gara.
In presenza di una prescrizione chiara
un’ammissione alla regolarizzazione
costituirebbe una violazione della par
condicio fra i concorrenti, che può esporre
a responsabilità la stazione appaltante e il
funzionario che vi procedesse. Ove
pervenuta, pertanto, la richiesta di
regolarizzazione va considerata
inammissibile (tratto da Diritto e
Pratica Amministrativa n. 2/2012). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
È di immediata applicazione
l’art. 1 del Dl n. 5/2012, che prevede
misure per sanzionare il ritardo nella
conclusione dei procedimenti amministrativi?
Sì tale articolo è di immediata applicazione
e ha sostituito i commi 8 e 9 dell’art. 2,
l. n. 241/1990 con i seguenti:
“8. La tutela in materia di silenzio
dell’amministrazione è disciplinata dal
codice del processo amministrativo. Le
sentenze passate in giudicato che accolgono
il ricorso proposto avverso il silenzio
inadempimento dell’amministrazione sono
trasmesse, in via telematica, alla Corte dei
conti.
9. La mancata o tardiva emanazione del
provvedimento nei termini costituisce
elemento di valutazione della performance
individuale, nonché di responsabilità
disciplinare e amministrativo-contabile del
dirigente e del funzionario inadempiente.
9-bis. L’organo di governo individua,
nell’ambito delle figure apicali
dell’amministrazione, il soggetto cui
attribuire il potere sostitutivo in caso di
inerzia. Nell’ipotesi di omessa
individuazione il potere sostitutivo si
considera attribuito al dirigente generale
o, in mancanza, al dirigente preposto
all’ufficio o in mancanza al funzionario di
più elevato livello presente
nell’amministrazione.
9-ter. Decorso inutilmente il termine per la
conclusione del procedimento o quello
superiore di cui al comma 7, il privato può
rivolgersi al responsabile di cui al comma
9-bis perché, entro un termine pari alla
metà di quello originariamente previsto,
concluda il procedimento attraverso le
strutture competenti o con la nomina di un
commissario.
9-quater. Il responsabile individuato ai
sensi del comma 9-bis, entro il 30 gennaio
di ogni anno, comunica all’organo di governo
i procedimenti, suddivisi per tipologia e
strutture amministrative competenti, nei
quali non è stato rispettato il termine di
conclusione previsti dalla legge o dai
regolamenti. Le Amministrazioni provvedono
all’attuazione del presente comma, con le
risorse umane, strumentali e finanziarie
disponibili a legislazione vigente, senza
nuovi o maggiori oneri a carico della
finanza pubblica.
9-quinquies. Nei provvedimenti rilasciati in
ritardo su istanza di parte è espressamente
indicato il termine previsto dalla legge o
dai regolamenti di cui all’articolo 2 e
quello effettivamente impiegato”.
È necessario che le amministrazioni
provvedano senza indugio a individuare il
soggetto cui attribuire il potere
sostitutivo in caso di inerzia, anche
perché, in caso di omissione, detto potere
sostitutivo si considera ex lege
attribuito al dirigente generale o, in
mancanza, al dirigente preposto all’ufficio
o in mancanza al funzionario di più elevato
livello presente nell’amministrazione.
Decorso inutilmente il termine per la
conclusione del procedimento o quello
superiore ex comma 7, il privato può
rivolgersi al soggetto cui è attribuito il
potere sostitutivo in caso di inerzia,
affinché, entro un termine pari alla metà di
quello originariamente previsto, concluda il
procedimento. La necessità dell’istanza di
parte per attivare il potere sostitutivo non
appare in grado di escludere le forme di
responsabilità di cui al comma 9.
Dal combinato disposto dei commi si ricava
l’impressione che, ove dall’inutile decorso
del termine per la conclusione del
procedimento o quello superiore di cui al
comma 7 derivi un comprovato danno certo e
attuale, la relativa pretesa risarcitoria
sarà avanzabile nei confronti del
responsabile (in via principale) del
ritardo, mentre la responsabilità del
soggetto cui è attribuito il potere
sostitutivo esercitabile in caso di inerzia
potrà concorrere specie nei casi in cui,
attivato a istanza di parte il
subprocedimento d’urgenza di cui al comma
9-ter, esso si concluda in un termine
superiore alla metà di quello
originariamente previsto, e parimenti da ciò
derivi un comprovato danno certo e attuale.
Nell’ambito dei danni imputabili al
responsabile (in via principale) del ritardo
potrà risultare computabile anche quello
(propriamente “erariale”) pari al
compenso erogato all’eventuale commissario
ad acta che venisse nominato ai sensi
del comma 9-ter (tratto da Diritto e
Pratica Amministrativa n. 2/2012). |
EDILIZIA PRIVATA:
Si chiede un chiarimento in
relazione al rispetto, per le richieste di
nuove costruzioni, degli adempimenti di cui
all’art. 11, Dlgs n. 28/2011: in particolare
sebbene il decreto di che trattasi sia
entrato in vigore il 29.03.2011, dalla
lettura del citato art. 11 comma 1,
sembrerebbe che per tali obblighi debbano
osservarsi le ”decorrenze di cui
all’allegato 3” (rif all. 3, art. 1 ovvero a
partire dal 31.05.2012). In ultimo, tale
condizione risulterebbe contrastare con
quanto definito all’art. 2 lett. n) ovvero
che è da intendersi quale ”nuovo fabbricato”
l’edificio la cui richiesta di titolo
edilizio sia stata presentata dopo il
29.03.2011.
Il Dlgs n. 28/2011 ha dato attuazione alla
direttiva 2009/28/ CE sulla promozione
dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili e
recante modifica e successiva abrogazione
delle direttive 2001/77/CE e 2003/30/CE.
L’art. 2 comma 1 lett. n) definisce edifici
di nuova costruzione ”edificio per il
quale la richiesta del pertinente titolo
edilizio, comunque denominato, sia stata
presentata successivamente alla data di
entrata in vigore del presente decreto”.
Il successivo art. 11 (Obbligo di
integrazione delle fonti rinnovabili negli
edifici di nuova costruzione e negli edifici
esistenti sottoposti a ristrutturazioni
rilevanti) prevede che ”i progetti di
edifici di nuova costruzione ed i progetti
di ristrutturazioni rilevanti degli edifici
esistenti prevedono l’utilizzo di fonti
rinnovabili per la copertura dei consumi di
calore, di elettricità e per il
raffrescamento secondo i principi minimi di
integrazione e le decorrenze di cui
all’allegato 3.”.
La decorrenza degli obblighi del presente
decreto viene indicata, in base
all’esplicito rinvio contenuto nell’art. 11,
nell’allegato 3 il quale prevede che ”nel
caso di edifici nuovi o edifici sottoposti a
ristrutturazioni rilevanti, gli impianti di
produzione di energia termica devono essere
progettati e realizzati in modo da garantire
il contemporaneo rispetto della copertura,
tramite il ricorso ad energia prodotta da
impianti alimentati da fonti rinnovabili,
del 50% dei consumi previsti per l’acqua
calda sanitaria e delle seguenti percentuali
della somma dei consumi previsti per l’acqua
calda sanitaria, il riscaldamento e il
raffrescamento:
a) il 20% quando la richiesta del pertinente
titolo edilizio è presentata dal 31.05.2012
al 31.12.2013;
b) il 35% quando la richiesta del pertinente
titolo edilizio è presentata dall'01.01.2014
al 31.12.2016;
c) il 50% quando la richiesta del pertinente
titolo edilizio è rilasciato dall'01.01.2017
]...]”.
Quindi, gli obblighi in materia di
efficienza energetica dovranno essere
rispettati a partire dal 31.05.2012, con
percentuali variabili secondo il momento di
presentazione della domanda per ottenere il
titolo edilizio. Il presunto contrasto nella
definizione di ”nuova costruzione”
non sussiste considerato che l’art. 2 viene
dedicato alle definizioni, e si inserisce
all’interno del titolo I dedicato a Finalità
e obiettivi, mentre il successivo art. 11
specifica, attraverso un preciso rinvio
all’allegato 3, il momento in cui gli
edifici dovranno rispettare i nuovi indici
di risparmio energetico.
In conclusione, i termini di decorrenza
degli obblighi di cui al Dlgs n. 28/2011
sono quelli fissati dall’allegato 3 (tratto
da Diritto e Pratica Amministrativa n.
1/2012). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI:
La Corte dei Conti cambia indirizzo: il
limite alle assunzioni vale anche per gli
Enti non sottoposti al Patto di stabilità
interno.
L'art. 14, comma 9, D.L. n. 78 del 2010,
convertito in L. n. 122 del 2010, ha
introdotto per tutti gli enti, sia quelli
sottoposti al patto che quelli esclusi, una
restrizione alle assunzioni di personale che
possono essere effettuate nel limite del 20
per cento della spesa corrispondente alle
cessazioni dell'anno precedente.
Resta
fermo, inoltre, per gli enti non sottoposti
al patto di stabilità l'obbligo di contenere
la spesa entro il limite del 2004 (Corte dei conti, Sez. riunite di controllo,
delibera 17.04.2012 n.
11). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Circa l’incarico di provvedere
alla redazione dell’aggiornamento degli
oneri di urbanizzazione primaria e
secondaria:
1) è doveroso che sia affidato a risorse
umane interne dell’ente;
2) sussiste l’impossibilità di attribuzione
i compensi incentivanti di cui al codice dei
contratti, essendo ricomprese le prestazioni
in questione nell’ordinaria attività
lavorativa già retribuita a norma di legge.
Il sindaco del comune di Cernusco sul
Naviglio (MI) ha formulato alla Sezione una
richiesta di parere concernente il regime
giuridico degli incentivi alla realizzazione
interna degli atti di pianificazione.
Il sindaco, nella richiesta di parere,
riferiva in particolare della necessità di
provvedere a uno studio relativo
all’aggiornamento degli oneri di
urbanizzazione, in adempimento della legge
regionale 11.03.2005, n. 3, che prevede la
determinazione degli oneri di urbanizzazione
primaria e secondaria sulla base del piano
dei servizi e del programma triennale delle
opere pubbliche, emanato dai comuni
interessati.
Era di presso sottolineato nella richiesta
il rilievo normativo che riveste il piano
dei servizi, il quale si pone
sostanzialmente in rapporto di
consequenzialità rispetto al programma
triennale dei lavori pubblici, e di
presupposizione rispetto alla successiva
determinazione degli oneri di
urbanizzazione, in quanto integra ai fini
della determinazione del detto costo le
statuizioni effettuate in sede di
pianificazione urbanistica.
Tanto premesso, il comune richiedeva alla
Sezione la possibilità di affidare a risorse
già appartenenti all’Amministrazione
l’incarico di provvedere alla redazione
dell’aggiornamento degli oneri di
urbanizzazione primaria e secondaria, e la
ricomprensione di detta attività nell’alveo
degli atti di pianificazione di cui all’art.
92, comma 6, del decreto legislativo
12.04.2006, n. 163.
Il comune precisava, altresì, di essersi già
dotato di atto regolamentare determinante la
costituzione e la ripartizione del fondo
incentivante.
...
Il quesito promanante dal comune di Cernusco
sul Naviglio concerne l’esatto perimetro
applicativo dell’art. 92, comma 6, del d.lgs
163/2006 (codice dei contratti pubblici).
La disposizione prevede che “Il trenta
per cento della tariffa professionale
relativa alla redazione di un atto di
pianificazione comunque denominato é
ripartito, con le modalità e i criteri
previsti nel regolamento tra i dipendenti
dell'amministrazione aggiudicatrice che lo
abbiano redatto”.
Il codice dei contratti ha inteso in tal
modo favorire l’affidamento di incarichi
concretanti prestazioni d’opera
professionale a dipendenti di ruolo
dell’ente interessato, disponendo al
contempo misure atte a remunerare le
specifiche professionalità coinvolte.
La norma deve infatti essere letta in
correlazione con la disposizione generale di
cui all’art. 90, che consente, in relazione
alle “prestazioni relative alla
progettazione preliminare, definitiva ed
esecutiva di lavori, nonché alla direzione
dei lavori e agli incarichi di supporto
tecnico-amministrativo alle attività del
responsabile del procedimento e del
dirigente” che tali attività siano
espletate da risorse interne alla stazione
appaltante, purché in possesso dei requisiti
di abilitazione professionale. In effetti,
l’affidamento a soggetti comunque interni al
plesso pubblicistico viene considerato dal
codice dei contratti preferenziale, tanto
che il comma 6 dello stesso articolo 90
stabilisce i casi in cui l’incarico di
progettazione preliminare può essere
legittimamente affidato a professionalità
esterne all’Amministrazione.
Ciò posto, nella richiesta è evidenziato che
ai predetti fini della determinazione degli
oneri di urbanizzazione l’ente comunale
dovrà provvedere:
i) alla costituzione di apposito gruppo di
lavoro;
ii) alla determinazione dei costi reali
sostenuti per la realizzazione delle opere
di urbanizzazione;
iii) alla rielaborazione degli stessi anche
in relazione alle scelte pianificatorie
operate dal Piano dei servizi.
Il punto decisivo ai fini della resa del
parere discende, sostanzialmente, dalla
possibilità di ricondurre la prestazione
espletanda ai fini della determinazione del
costo di urbanizzazione alle attività di
pianificazione, in relazione a cui il
dettato del codice dei contratti prevede
l’erogazione di un compenso incentivante; o
alle ordinarie attività di carattere
autoritativo e provvedimentale, il cui
espletamento è ricompreso nei doveri di
ufficio, e che pertanto sono già remunerati
dalla retribuzione erogata ai dipendenti
coinvolti in base al rapporto di impiego.
Sopperiscono in modo univoco, al riguardo,
il criterio logico-sistematico e quello
letterale.
Sotto il primo profilo, occorre evidenziare
che la ragione fondante i compensi
incentivanti disciplinati dall’art. 92 del
codice dei contratti è quello di
privilegiare l’opzione dell’affidamento a
dipendenti di ruolo dell’Amministrazione di
incarichi richiedenti specifiche competenze
tecnico–professionali; al contempo, una
volta raggiunto l’obiettivo dell’economia di
spesa, una quota di detto risparmio è
ritenuta dal legislatore legittimamente
utilizzabile quale corrispettivo di una
prestazione che ha coinvolto professionalità
eccedenti quelle normalmente necessarie per
l’espletamento dei doveri di ufficio.
La Sezione, con il
parere 27.01.2009 n. 9,
ha infatti già avuto modo di precisare che
gli atti di pianificazione richiamati
dall'art. 92, comma 6, del codice dei
contratti devono presentare un’attinenza con
lo svolgimento di attività di governo del
territorio, nonché un contenuto
tecnico-documentale rientrante in specifiche
competenze professionali.
Analoga impostazione era desumibile, tra
l’altro, dall’orientamento dell’Autorità per
la vigilanza sui contratti pubblici di
lavori, servizi e forniture nella
deliberazione n. 296, resa nell’adunanza del
25.10.2007. L’Autorità ha al riguardo
sottolineato che “anche le prestazioni
professionali relative alla redazione degli
strumenti urbanistici rientrano,
letteralmente, nella sfera degli appalti
pubblici di servizi: essi infatti sono
inclusi nei servizi di cui all’allegato II A
del Codice dei contratti di cui al d.lgs. n.
163/2006 e s.m., ed in particolare nella
categoria 12 (CPV n. 74250000-6, n.
74251000-3), dove sono enumerati i servizi
assoggettati integralmente alla disciplina
del Codice stesso (cfr. art. 20, comma 2,
del Codice)”.
In altre parole, la disciplina incentivante
risulta giustificata, come sopra premesso,
nei limiti in cui l’incarico interno esoneri
l’ente dal dispendio di risorse derivante
dal ricorso ad appalto per il conseguimento
della medesima professionalità.
Del resto, la norma riveste carattere
eccezionale e non è quindi suscettibile di
applicazione analogica (in tal senso Sez.
Controllo Campania, 22.04.2008, n. 7),
verificandosi infatti per le ipotesi
eccettuate la riespansione del principio di
onnicomprensività della retribuzione, e di
sua definizione tramite i contratti
collettivi, secondo quanto previsto
dall’art. 45 del decreto legislativo
30.03.2001, n. 165.
Sotto il profilo letterale, invece, deve
essere evidenziato come la qualificazione di
funzione pianificatoria possa essere
riferita alla sola attività di governo del
territorio realizzato tramite l’emanazione
di disposizioni generali, e non alla
puntuale determinazione di oneri o
contributi che discendono, in modo pressoché
vincolato (ancorché a seguito di complessa
attività di studio e ricerca) da scelte già
operate a monte dall’amministrazione
procedente.
Di conseguenza, l’incentivo di cui in
premessa non può essere esteso alle
ordinarie attività istituzionali, quali
quelle regolatorie (così anche Sez.
Controllo Toscana,
parere 18.10.2011 n. 213).
Dalla ricostruzione sopra operata sorgono
quali corollari, da un lato:
i) non già la mera legittimità, ma
addirittura la doverosità dell’affidamento a
risorse interne dell’ente; e, dall’altro,
ii) l’impossibilità di attribuzione dei
compensi incentivanti di cui al codice dei
contratti, essendo ricomprese le prestazioni
in questione nell’ordinaria attività
lavorativa già retribuita a norma di legge
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 06.03.2012 n.
57). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Reati contro l’amministrazione. Danno
all’immagine pubblica.
... Il Procuratore regionale
della Corte dei Conti per la Regione
Lombardia ha promosso azione di
responsabilità nei confronti del sig. C.M.P.,
all’epoca dei fatti Presidente della
Commissione Sviluppo e Territorio del Comune
di Milano, per un danno recato all’immagine
del Comune medesimo.
In sintesi, l’attore espone che il convenuto
è stato arrestato in flagranza di reato,
in data 11.02.2010, per avere indotto un
imprenditore, il sig. M.B., a
consegnargli la complessiva somma di €
10.000/00 (suddivisa in due tranches
da €. 5.000/00 ciascuna) per favorirlo
nell’ambito di una concessione edilizia da
costui a suo tempo richiesta.
...
e la Corte dei conti, Sezione
Giurisdizionale per la Regione Lombardia,
definitivamente pronunciando, condanna
C.M.P. al pagamento, in favore in favore del
Comune di Milano, della somma di euro
45.000,00 (diconsi euro
quarantacinquemila e zero centesimi), oltre
interessi legali, da calcolare secondo le
modalità indicate in parte motiva.
---------------
La giurisdizione della Corte dei conti in
materia di responsabilità amministrativa si
esercita nei confronti di soggetti legati
alla pubblica amministrazione da una
relazione funzionale, il cd. rapporto di
servizio; pertanto, per rapporto di servizio
si intende la relazione con la pubblica
amministrazione, caratterizzata per il
tratto di investire un soggetto, altrimenti
estraneo all'amministrazione, del compito di
porre in essere in sua vece un'attività,
senza che rilevi né la natura giuridica
dell'atto di investitura, provvedimento,
convenzione o contratto.
Nell’alveo della giurisdizione contabile è
irragionevole ritenere che il danno
all’immagine sia perseguibile nei confronti
dei soli dipendenti pubblici, perché non
sussiste alcuna valida motivazione che
giustifichi tale discrimine, con particolare
riferimento alla circostanza che il danno
all’immagine dell’amministrazione è maggiore
quando segue al comportamento illecito di un
suo amministratore, perché in tal caso
nell’opinione pubblica tende a essere più
intensa l’identificazione tra soggetto
agente e amministrazione da esso
rappresentata.
Ai fini del ristoro del danno all’immagine
pubblica il reato di concussione è uno dei
reati contro la P.A. più gravi che un
pubblico ufficiale possa commettere, perché
oltre a sfruttare illecitamente le funzioni
pubbliche svolte, il reo esercita una
costrizione, più o meno intensa, sul
soggetto passivo, che finisce per essere
posto in una condizione di sudditanza,
alterando in modo profondo il rapporto che,
in un paese civile, deve intercorrere tra la
pubblica amministrazione e il cittadino.
Sussiste il pregiudizio all’immagine della
pubblica amministrazione quando un reato
contro la stessa è commesso da chi svolge un
ruolo apicale nell’ambito dell’apparato
amministrativo, poiché è più facile che si
diffonda all’esterno la convinzione che le
pratiche illecite siano ampiamente estese
nell’amministrazione con la conseguente
preoccupante lesione del prestigio
dell’amministrazione medesima che vede
compromessi interessi di assoluto rilievo
costituzionale, compendiati
nell’imparzialità e nel buon andamento
dell’azione amministrativa (massima tratta da
www.regione.piemonte.it -
Corte dei Conti, Sez. giurisdiz.
Lombardia,
sentenza 20.02.2012 n. 96
- link a www.corteconti.it). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Compenso Merloni: va riconosciuto solo per
le attività inerenti alle opere pubbliche.
Secondo un'interpretazione di natura
sistematica, che tiene conto della
collocazione della norma nel capo e nella
sezione dedicata alla progettazione di opere
pubbliche, deve ritenersi che l'art. 92,
comma 6, D.Lgs. n. 163 del 2006, secondo cui
il 30% della tariffa professionale relativa
alla redazione di un atto di pianificazione
comunque denominato è ripartito, con le
modalità e i criteri previsti nel
regolamento, tra i dipendenti
dell'amministrazione aggiudicatrice che lo
abbiano redatto, trova applicazione
esclusivamente in materia di lavori pubblici
e non è quindi consentita alcuna
interpretazione analogica atta ad includere
nel sopracitato disposto normativo attività
di pianificazione non attinenti alla
progettazione di opere pubbliche.
Il Presidente
della Provincia di Lecce, con la nota
riportata in epigrafe, richiede il parere
della Sezione in materia di interpretazione
dell’art. 92, comma 6, del D.Lgs. 12/04/2006
n. 163 che prevede che il trenta per cento
della tariffa professionale relativa alla
redazione di un atto di pianificazione
comunque denominato e' ripartito, con le
modalità e i criteri previsti nel
regolamento, tra i dipendenti
dell'amministrazione aggiudicatrice che lo
abbiano redatto.
In particolare, il Presidente della
Provincia di Lecce specifica che i dubbi
interpretativi si concentrano
sull’espressione “atto di pianificazione
comunque denominato” al fine di
accertare se debba intendersi per tale solo
un atto di pianificazione urbanistica come
il Piano territoriale di coordinamento
provinciale (P.T.C.P.) o anche qualsiasi
altro atto che sia chiamato piano come ad
esempio i cosiddetti piani strategici, i
piani per l’ambiente, per il servizio
rifiuti, per il turismo, per i trasporti,
per la comunicazione, per la caccia, per le
politiche comunitarie o per l’innovazione
tecnologica.
Ad avviso del Presidente della Provincia di
Lecce, sulla base di una lettura sistematica
della norma che è inserita nella sezione
dedicata a “progettazione interna ed
esterna, livelli della progettazione”
avente esclusivo riferimento ai lavori
pubblici, si potrebbe dedurre che gli atti
di pianificazione in parola siano quelli
rientranti nelle competenze di architetti ed
ingegneri per potenziali progetti di lavori
pubblici e pertanto l’art. 92, comma 6, del
D.Lgs. n. 163/2006 non dovrebbe riferirsi a
piani di servizi pubblici.
Il Presidente della Provincia di Lecce
chiede, quindi, se può essere oggetto di
incentivazione, oltre al Piano territoriale
di coordinamento provinciale, il piano
triennale delle opere pubbliche ed, ai fini
di una corretta interpretazione del sesto
comma dell’art. 92 del D.Lgs. 163/2006,
chiede il parere della Sezione in merito
all’accezione “atti di pianificazione
comunque denominati”.
...
L’art. 92, comma 6, del D.Lgs. 12/04/2006 n.
163 prevede che il trenta per cento della
tariffa professionale relativa alla
redazione di un atto di pianificazione
comunque denominato è ripartito, con le
modalità e i criteri previsti nel
regolamento tra i dipendenti
dell'amministrazione aggiudicatrice che lo
abbiano redatto.
La disposizione normativa su richiamata è
dettata in materia di corrispettivi,
incentivi per la progettazione e fondi a
disposizione delle stazioni appaltanti ed è
collocata nella sezione I dedicata alla “progettazione
interna ed esterna, livelli della
progettazione” del capo IV del codice
dei contratti pubblici denominato “servizi
attinenti all'architettura e all'ingegneria”
e la prima norma del predetto capo, l’art.
90, è rubricata “progettazione interna ed
esterna alle amministrazioni aggiudicatrici
in materia di lavori pubblici”.
Inoltre, nello stesso testo del comma 6
dell’art. 92 del D.Lgs. n. 163/2006 è
presente il riferimento ai dipendenti
dell’amministrazione aggiudicatrice.
Pertanto il Collegio osserva che, secondo
un’interpretazione di natura sistematica,
che tiene conto della collocazione della
norma nel capo e nella sezione dedicata alla
progettazione di opere pubbliche, deve
ritenersi che tale disposizione trova
applicazione esclusivamente in materia di
lavori pubblici e non è quindi consentita
alcuna interpretazione analogica atta ad
includere nel disposto del comma sesto
dell’art. 92 attività di pianificazione non
attinenti alla progettazione di opere
pubbliche.
La Sezione Regionale di Controllo per la
Campania, con
parere
10.07.2008 n. 14 ha, infatti,
chiarito che: “le disposizioni di cui
all’art. 92 del D.Lgs. n.163/2006 (che per
la loro puntualità descrittiva non sono
suscettibili di interpretazione analogica)
trovano applicazione unicamente in materia
di lavori pubblici, per i casi in cui il
Comune agisca in veste di Amministrazione
aggiudicatrice di un’opera o di un lavoro
rientrante in una delle ipotesi richiamate
all’art. 3 del medesimo decreto”.
Anche la Sezione Regionale di Controllo per
la Toscana, con il
parere 18.10.2011 n. 213, ha
specificato che lo stesso comma 6 dell’art.
92 prevede che l’incentivo alla
progettazione venga ripartito “tra i
dipendenti dell’amministrazione
aggiudicatrice che lo abbiano redatto”
e, dunque, è di palmare evidenza come il
riferimento normativo e la conseguente
voluntas legis sia ascrivibile solo alla
materia dei lavori pubblici, presupponendosi
una procedura ad evidenza pubblica
finalizzata alla realizzazione di un’opera
di pubblico interesse
(Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia,
parere 16.01.2012 n.
1). |
NEWS |
PUBBLICO IMPIEGO:
Licenziamenti disciplinari, per
gli statali c’è solo il reintegro. In caso
di illegittimità non c’è l’alternativa
indennizzo.
Licenziamenti: per i dipendenti pubblici non
cambierà nulla. Se il provvedimento viene
giudicato illegittimo ci sarà sempre e
comunque il reintegro.
Si chiude così la partita sulle tutele
dell’articolo 18 per gli statali. Ovvero,
senza modifiche. Nessuna convergenza quindi
con le nuove norme previste dalla riforma
del mercato del lavoro elaborata dal
ministro Fornero per il settore privato.
Dopo circa tre mesi di trattativa è stato
raggiunto un protocollo di intesa tra il
ministro della funzione Pubblica, Filippo
Patroni Griffi, le amministrazioni locali e
le organizzazioni sindacali tutte, compresa
la Cgil.
Otto paginette che, dopo un passaggio
formale nella riunione del 10 maggio della
Conferenza unificata degli enti locali,
verranno definitivamente siglate e portate
in Consiglio dei ministri per il varo del
relativo provvedimento: un disegno di legge
delega, ma non è escluso che il premier
possa optare per un emendamento al pacchetto
lavoro all’esame del Senato.
La parte sui licenziamenti, naturalmente, è
solo un pezzo dell’accordo. Che prevede un
nuovo modello di relazioni industriali con
un ruolo più significativo delle
organizzazioni sindacali nei processi di
mobilità e di riorganizzazione; la
razionalizzazione e la semplificazione dei
sistemi di valutazione e premialità; la
valorizzazione del salario di produttività
attraverso la contrattazione di secondo
livello; una spinta alla formazione; un
rafforzamento delle responsabilità dei
dirigenti.
Non manca -e qui c’è il percorso di
convergenza con la riforma Fornero- una
nuova architettura della flessibilità in
entrata. Basta con quella cattiva, basta con
i co.co.co, basta con l’esercito dei
duecentomila precari a vita: anche il datore
di lavoro pubblico dovrà adeguarsi all’idea
che «la forma ordinaria» di
assunzione è «il lavoro subordinato a
tempo indeterminato». Tipologie di
lavoro flessibile saranno ancora
utilizzabili, ma solo «per esigenze
temporanee o eccezionali» e quindi per
durate limitate.
Per gestire la fase di transizione entro il
30 maggio si apriranno una serie di tavoli
ad hoc al ministero con i sindacati,
in modo da superare gradualmente la selva di
contratti di collaborazione, ma anche per
consentire «la proroga e il rinnovo dei
contratti esistenti nell’ambito delle
risorse disponibili». Tra le idee dei
sindacati c’è quella di introdurre anche
nella pubblica amministrazione una sorta di
concorso per gli apprendisti con contratti
di 36 mesi e relativa certificazione valida
ai fini di successive tornate concorsuali.
L’unica forma di licenziamento individuale
prevista resta quella per motivi
disciplinari. A questo proposito l’intesa, «fermo
restando le competenze attribuite alla
contrattazione collettiva nazionale»
prevede «un rafforzamento dei doveri
disciplinari dei dipendenti» e «al contempo
garanzie di stabilità in caso di
licenziamento illegittimo». Ovvero il
reintegro.
Per quanto riguarda i processi di
riorganizzazione e razionalizzazione che
comportano esuberi o trasferimenti, anche in
vista della spending review, i
sindacati hanno chiesto la definizione di
criteri trasparenti e hanno ottenuto il loro
coinvolgimento nelle relative procedure.
«L’intesa sarà una buona base in vista
della delega legislativa che a breve
presenterò al Consiglio dei Ministri»
dice Patroni Griffi. Per la Cgil «è un
primo segnale di discontinuità che riapre,
dopo le macerie prodotte dalla legge
Brunetta, un percorso sindacale che riguarda
il mondo del lavoro pubblico». Gianni
Baratta, segretario confederale Cisl, parla
di «importante traguardo, per la prima
volta l’intesa è condivisa da tutti i pezzi
della pubblica amministrazione».
Soddisfazione anche in casa Uil. Osserva il
segretario confederale Paolo Pirani: «L’intesa
rappresenta una positiva e importante
risposta sia ai temi posti dalla Uil con lo
sciopero generale delle categorie del
pubblico impiego, svoltosi nei mesi scorsi,
sia alla piattaforma presentata per il
rilancio del valore e della qualità del
lavoro pubblico»
(articolo
Il Messaggero del 05.05.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Licenziamenti disciplinari,
l'accordo è più vicino.
Si profila un accordo sindacale articolato
sul documento presentato ieri dal ministro
della Pa e la Semplificazione, Filippo
Patroni Griffi, per la traduzione in norme
valide per il pubblico impiego dei
principi e criteri generali contenuti nel
ddl di riforma del mercato del lavoro. ... (articolo
Il Sole 24 Ore del 04.05.2012 - tratto
da www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Censimento, compensi fuori dal
tetto della contrattazione.
I compensi che i comuni hanno corrisposto o
corrisponderanno ai propri dipendenti per
l'effettuazione del censimento della
popolazione e che sono finanziati dall'Istat
vanno al di fuori del tetto al fondo per la
contrattazione decentrata.
E' questa la indicazione fornita dalla
Ragioneria Generale dello Stato nel conto
annuale del personale ... (articolo
Il Sole 24 Ore del 04.05.2012 - tratto
da www.corteconti.it).). |
APPALTI SERVIZI: Acquisti online, niente più
diritti di segreteria. La novità è contenuta
nel decreto legge sulla spending review.
I comuni e le province non potranno più
chiedere il pagamento dei diritti di
segreteria (comunemente conosciuti come
diritti di rogito) per i contratti che
regolino gli acquisti di beni e servizi
scaturenti da modalità elettroniche.
Lo schema di decreto-legge pensato per
determinare i poteri e le funzioni di Enrico
Bondi ai fini della spending review sottrae
alle amministrazioni locali il potere
impositivo di acquisire i diritti di
segreteria, previsti per la stipulazione dei
contratti, nei quali intervenga il
segretario comunale e provinciale,
disapplicando le disposizioni dell'articolo
40 della legge 604/1962 ai casi di acquisti
effettuati mediante sistemi informatici.
L'ipotesi è riferita alle forme di
individuazione del contraente definite dal
dlgs 163/2006 e riferibili al mercato
elettronico della Consip (sia mediante
confronto concorrenziale tra i beni e
servizi presenti nel catalogo, sia mediante
la procedura concorrenziale denominata
“richiesta d'offerta"), alle aste
elettroniche ed infine ai sistemi dinamici
di acquisizione, e ad ogni altro sistema di
selezione del contraente realizzato da
centrali di committenza o da stazioni
appaltanti con modalità informatiche.
La disapplicazione dell'esigibilità dei
diritti di segreteria riguarda
esclusivamente lo strumento selettivo, cioè
la modalità di gara su basi informatiche e
non è connessa al valore del contratto.
Dunque, qualunque sia l'importo del
contratto, i diritti di segreteria non
saranno esigibili, anche laddove la
stipulazione avvenga mediante atto pubblico
in forma amministrativa, redatto dal
segretario comunale e provinciale.
Nel caso degli acquisti da mercato
elettronico Consip, in effetti, i diritti di
segreteria non potrebbero comunque essere
esatti, perché la stipulazione del contratto
avviene attraverso la sottoscrizione con
firma digitale dell'ordine di acquisto
informatico, prodotto al sistema. Da notare
che il decreto estende agli acquisti da
mercato elettronico il beneficio della
possibilità di non attendere il termine
dilatorio di 35 giorni appunto per la
stipulazione del contratto. Il che
consentirà di abbreviare i tempi di
approvvigionamento e di pagamento.
Si tratta indubbiamente di disposizioni
miranti alla semplificazione, che
probabilmente avrebbero dovuto trovare il
loro posto nel d.l. 5/2012, più che nella
disciplina della spending review.
A ben guardare, infatti, la previsione non
comporta alcun taglio della spesa per le
amministrazioni locali, ma anzi implica una
mancata entrata, dal momento che i diritti
di segreteria costituiscono una fonte di
acquisizione di risorse per comuni e
province. Un po' un controsenso,
controbilanciato da una maggiore speditezza
delle procedure e, soprattutto, dalla
riduzione degli oneri a carico delle imprese
appaltatrici
(articolo ItaliaOggi
del 04.05.2012). |
ENTI LOCALI - VARI: Aree
edificabili, caos Imu.
Il pagamento non esclude l'accertamento
dell'ente. Se il comune ravvisa che il
valore venale è superiore scatta l'azione di recupero.
Altra tegola sui contribuenti: anche se
pagheranno l'Imu sui valori delle aree
edificabili indicati dall'amministrazione
comunale, non saranno comunque al riparo da
possibili accertamenti. È l'effetto
dell'abrogazione, disposta dalla legge di
conversione del decreto fiscale, dell'art.
59 del dlgs 446/1997.
Che consentiva ai comuni di individuare i
valori delle aree fabbricabili «al fine
della limitazione del potere di
accertamento» qualora l'imposta fosse stata
versata sulla base di un valore non
inferiore a quello predeterminato dal
comune. Ciò non significa che ai municipi
sia ora preclusa la possibilità di fornire
dei parametri di riferimento utili a
indirizzare i contribuenti nella
quantificazione della base imponibile, ma
qualora l'ufficio tributi reperisse elementi
atti a dimostrare che il valore venale è
superiore a quello a suo tempo indicato
dallo stesso comune, l'azione accertatrice
diventerebbe necessaria, stante il principio
di irrinunciabilità del prelievo tributario
di cui una parte (pari al 3,8 per mille del
valore) è dovuta allo stato.
La norma abrogata. L'art. 59, c. 1 lett. g),
del dlgs 446/1997, con l'intento di ridurre
l'insorgenza del contenzioso in materia di
Ici, riconosceva ai comuni la possibilità di
predeterminare i valori presunti dei terreni
edificabili. Con la conseguenza che, laddove
tale potere veniva esercitato, il
contribuente che versava l'imposta sulla
base degli elementi forniti dall'ente non
poteva essere accertato: neppure
nell'ipotesi in cui l'ufficio tributi fosse
entrato in possesso di riscontri oggettivi
(per esempio perizie di stima o atti di
compravendita) idonei confutare
l'inattendibilità del parametro di
riferimento.
Lo scenario attuale. Dall'art. 14, c. 6, del dlgs n. 23/2011, che in materia di Imu
riconosceva ai comuni la stessa potestà
regolamentare Ici di cui agli art. 52 e 59
del dlgs 446/1997, la legge (n. 44/2012) di
conversione del dl 16/2012 ha espunto il
richiamo all'art. 59. Cosicché l'unico
riferimento normativo resta ora l'art. 52,
il quale, riconoscendo ai comuni la
possibilità di disciplinare le proprie
entrate tributarie (salvo per quanto attiene
all'individuazione e alla definizione delle
fattispecie imponibili, dei soggetti passivi
e dell'aliquota massima), potrebbe indurre a
ritenere che quanto prima previsto dall'art.
59, c. 1, lett. g) sia, comunque, ricompreso
nella più ampia portata dell'art. 52.
In realtà, oltre al rispetto del principio
di riserva di legge di cui all'art. 23 della
Costituzione, occorre evidenziare che la
potestà regolamentare dei comuni non può
neppure travalicare i principi generali
dell'ordinamento tributario, tra cui, ai
fini che qui interessano, vanno ricordati
quello di indisponibilità dell'obbligazione
tributaria e quello di irrinunciabilità del
prelievo tributario.
Il che sta a significare che i comuni
potranno ancora fissare i valori presunti
delle aree edificabili ai fini Imu, ma, in
assenza di una specifica norma di legge,
sarà precluso ai regolamenti limitare
l'attività di accertamento dell'ufficio nei
casi in cui la base imponibile dichiarata
dal contribuente, ancorché in linea con i
parametri comunali, risulti inferiore a
quella effettiva di mercato determinata in
ossequio all'art. 5, c. 5, del dlgs n.
504/1992.
Circolare esplicativa del Mef. Intanto,
l'attesa circolare esplicativa del Mef sulla
disciplina Imu prende tempo. Attesa per
oggi, la nota molto probabilmente arriverà
la prossima settimana
(articolo ItaliaOggi
del 04.05.2012). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Osservatorio Viminale/ Trasferimento non di diritto.
È applicabile a un consigliere comunale il
beneficio di cui all'art. 78, comma 6, del
Tuel, in ordine alla richiesta di
trasferimento temporaneo, fino al termine
del mandato, in una località prossima a
quella nella quale svolge il mandato stesso?
La disposizione normativa richiamata prevede
che la richiesta degli amministratori
lavoratori dipendenti pubblici e privati,
«di avvicinamento al luogo in cui viene
svolto il mandato amministrativo deve essere
esaminata dal datore di lavoro con criteri
di priorità». Priorità che tuttavia non si
identifica con un dovere assoluto di
provvedere in senso favorevole.
Infatti,
l'articolo 78, comma 6, del citato decreto
legislativo, che è norma di garanzia a
favore di tutti i lavoratori dipendenti per
evitare loro restrizioni o limitazioni
all'esercizio delle funzioni connesse
all'espletamento del proprio mandato, se
garantisce agli amministratori lavoratori
dipendenti l'inamovibilità dal posto di
lavoro già coperto, non assicura, tuttavia,
agli stessi il diritto ad essere trasferiti,
su domanda, presso la sede nella quale
espletano il mandato elettorale, dovendo la
richiesta di avvicinamento soltanto «essere
esaminata dal datore di lavoro con criteri
di priorità».
In occasione della richiesta
di avvicinamento, proposta ai sensi del
riferito art. 78, l'amministrazione/datore
di lavoro deve, pertanto, effettuare una
valutazione comparativa tra le esigenze
dell'amministratore/dipendente e quelle
organizzative
dell'azienda/l'amministrazione, quanto meno
riconoscendo al lavoratore investito del
mandato amministrativo il godimento di un
titolo preferenziale.
Il testo della norma conferma, quindi, che
si tratta di una disposizione di stretta
interpretazione che non autorizza a
concludere che al lavoratore, che ricopre
una carica politica, sia riconosciuto il
diritto al trasferimento, bensì attribuisce
allo stesso il solo diritto ad un esame
prioritario della sua istanza, nel rispetto
della specifica disciplina recata
dall''ordinamento speciale
dell'amministrazione di appartenenza
(articolo ItaliaOggi
del 04.05.2012). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Niente
incentivi agli uffici tributi. L'Anutel
non condivide la scelta del governo.
Tra gli effetti prodotti dall'abrogazione
dell'art. 59 rientra l'inapplicabilità della
disposizione che consentiva ai comuni di
riconoscere compensi incentivanti
nell'ambito della lotta all'evasione Ici,
applicabile in ambito Imu grazie al richiamo
dell'art. 59 a opera del dlgs 23/2011.
È una
scelta che non mancherà di produrre
conseguenze negative tra gli addetti agli
uffici tributi e che contraddice lo spirito
iniziale che aveva portato all'istituzione
di quell'incentivo, in un paese ove il
fenomeno dell'evasione fiscale sembra aver
raggiunto livelli altissimi.
Secondo il
legislatore, il contributo che i comuni
possono dare nella gestione della fiscalità
locale è di fondamentale importanza. Anche
la stessa Agenzia delle entrate, al fine di
una maggiore lotta all'evasione, riconosce
un incentivo ai comuni per le segnalazioni
qualificate, quindi implicitamente viene
riconosciuto un maggiore ruolo degli enti
locali che sono conoscitori dei territori,
ma che non hanno gli strumenti propri
dell'Agenzia. Allora perché sminuire il
ruolo di funzionari e operatori che
s'ingegnano a costruire sistemi di controllo
e incrocio di banche dati per il solo fine
di conseguire l'equità fiscale?
Rincorrere
un contribuente che si diletta nell'evasione
o elusione fiscale non è uno sport così
gratificante. La gratifica economica serviva
per dare anche un briciolo di dignità
professionale. Sarebbe stato più saggio
regolare l'incentivo piuttosto che
falciarlo. Ma, caso molto strano,
l'incentivo a determinate figure operanti
nella p.a. viene salvaguardato, operando
così una evidente discriminazione tra i
diversi settori. Se oggi, attraverso
l'eliminazione degli incentivi al personale,
il governo ritiene di ridurre i costi deve
farlo per tutti gli appartenenti alla p.a.
iniziando proprio dai ministeri, dalle
Agenzie, e da tutte le figure che oggi
possono usufruire di norme specifiche di
tutela, in poche parole i sacrifici li fanno
tutti. Non bastavano alcuni provvedimenti
dell'ex ministro Brunetta, relativamente
all'uso dei mezzi propri da parte dei
dipendenti della p.a. per partecipare alle
attività formative?
L'Anutel non può tacere
davanti alla dispersione di un patrimonio
accumulato dai dipendenti negli anni e
dimostrerà come moltissimi comuni saranno
costretti a esternalizzare le attività
accertative, con rimunerazioni che a oggi
raggiungono anche cifre del 40% sulle somme
riscosse, con evidente danno economico
(articolo ItaliaOggi
del 04.05.2012). |
APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Il
Durc dalla cassa edile. Il rilascio solo se
l'ente ha valenza nazionale. Il ministero
chiarisce i requisiti richiesti: reciprocità
e rappresentatività.
Il Durc è un'esclusiva
delle casse edili. Infatti, non può essere
emesso da organismi operativi al solo
livello territoriale, non costituiti sulla
base di ccnl comparativamente più
rappresentativi e non in possesso di
collegamento con la Cnce (che garantisce
l'osservanza del principio di reciprocità
tra le diverse casse edili provinciali).
A precisarlo è il Ministero del Lavoro nella
nota 02.05.2012 n.
8367 di prot., in risposta alle
richieste di chiarimenti in merito ai
criteri di individuazione delle casse edili
ai fini della verifica della legittimazione
al rilascio del documento unico di
regolarità contributiva.
Enti bilaterali.
Il ministero ribadisce, prima di tutto, che
ai fini della costituzione di un ente
bilaterale (qual è una cassa edile)
legittimato allo svolgimento dell'attività
certificativa, la fonte normativa di
riferimento è l'articolo 2, lettera h, del
dlgs n. 276/2003 (riforma Biagi), il quale
individua tali organismi come quelli «costituiti
a iniziativa di una o più associazioni dei
datori e dei prestatori di lavoro
comparativamente più rappresentative»;
nonché il dm 24.10.2007, attuativo della
legge n. 296/2006, il quale specifica che il
requisito della maggiore rappresentatività
comparata deve essere posseduto da ciascuna
organizzazione, sia datoriale sia sindacale,
che concorre alla costituzione della cassa
edile (articolo 2, comma 2).
Principio di reciprocità.
In secondo luogo, aggiunge il ministero, le
casse abilitate sono quelle che osservano il
cosiddetto principio di reciprocità in base
al quale, al fine di armonizzare le
dichiarazioni di regolarità contributiva
rilasciate dalle diverse casse edili
operanti sul territorio nazionale, si ha un
reciproco riconoscimento dei versamenti
operati presso ciascuna di esse.
Si tratta, precisa il ministero, di un
requisito imprescindibile poiché il dlgs n.
163/2006 stabilisce che «le casse edili
che non applicano la reciprocità con altre
case edili regolarmente costituite non
possono rilasciare dichiarazioni liberatorie
di regolarità contributiva» (articolo
252, comma 5). Tale principio, spiega il
ministero, è oggi assicurato attraverso la
cooperazione telematica con la commissione
nazionale paritetica per le casse edili (Cnce).
L'esclusiva delle casse
edili.
In conclusione, il ministero spiega che il
possesso dei predetti requisiti è «elemento
di carattere costitutivo ai fini della
possibilità per le casse di svolgere gli
adempimenti certificativi» legati alla
regolarità contributiva (Durc).
Ne deriva che gli organismi che non ne sono
in possesso, perché operanti al solo livello
territoriale, non costituiti da contratti
collettivi stipulati dalle organizzazioni
comparativamente più rappresentative e non
in possesso del requisito della reciprocità
assicurato dal collegamento con la Cnce, «non
possono definirsi casse edili ai sensi del
dlgs n. 276/2003 e, conseguentemente, non
possono rilasciare il Durc». Pertanto,
eventuali attestazioni di regolarità
rilasciate da tali casse devono considerarsi
giuridicamente inefficaci a tutti gli
effetti di legge
(articolo ItaliaOggi
del 03.05.2012). |
GIURISPRUDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
disposizione di cui all'art. 10, lett. b),
della L. 241/1990 impone all'amministrazione
procedente di "valutare" le osservazioni,
ovvero di tenerne conto e di non ignorarle.
Peraltro, l'obbligo per l'amministrazione di
tenere conto delle osservazioni presentate a
seguito della comunicazione di avvio del
procedimento non impone la puntuale e
analitica confutazione delle argomentazioni
svolte dalla parte privata, essendo
sufficiente, ai fini della giustificazione
del provvedimento adottato, la motivazione
complessivamente e logicamente resa a
sostegno dell'atto stesso.
La disposizione di cui all'art. 10, lett.
b), della L. 241/1990 impone
all'amministrazione procedente di "valutare"
le osservazioni, ovvero di tenerne conto e
di non ignorarle.
Peraltro, l'obbligo per l'amministrazione di
tenere conto delle osservazioni presentate a
seguito della comunicazione di avvio del
procedimento non impone la puntuale e
analitica confutazione delle argomentazioni
svolte dalla parte privata, essendo
sufficiente, ai fini della giustificazione
del provvedimento adottato, la motivazione
complessivamente e logicamente resa a
sostegno dell'atto stesso (Cfr. TAR Sardegna
Sez. II, 23.02.2012 n. 181; TAR Liguria,
Sez. I, 21.03.2011 n. 432; TAR Campania,
Sez. VII, 07.05.2010 n. 3072; TAR Lazio,
Sez. I, 04.08.2006 n. 6950)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 04.05.2012 n. 772 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Laddove
intercorra un breve lasso temporale
intercorso tra il rilascio del premesso di
costruire, e la comunicazione di avvio del
procedimento di annullamento, e non sia
ancora iniziata la realizzazione dell’opera,
è da ritenersi sufficiente, quale
presupposto per l'esercizio del potere di
autotutela, l'esigenza di ripristino della
legalità ed una motivazione che faccia
unicamente riferimento alla disposizione
violata.
In tale contesto, infatti, non si è
ingenerato alcun legittimo affidamento nel
destinatario del provvedimento, posto che
l'annullamento d'ufficio interviene a breve
distanza di tempo dall'adozione del
provvedimento illegittimo, sicché la
giurisprudenza è concorde nel non ritenere
necessaria una penetrante motivazione
sull'interesse pubblico all'annullamento, né
una comparazione di tale interesse con
l'interesse privato sacrificato.
Laddove, come
nel caso all’esame, intercorra un breve
lasso temporale intercorso tra il rilascio
del premesso di costruire (che è avvenuto in
data 25.03.2011), e la comunicazione di
avvio del procedimento di annullamento
(effettuata in data 21.04.2011), e non sia
ancora iniziata la realizzazione dell’opera,
è da ritenersi sufficiente, quale
presupposto per l'esercizio del potere di
autotutela, l'esigenza di ripristino della
legalità ed una motivazione che faccia
unicamente riferimento alla disposizione
violata.
In tale contesto, infatti, non si è
ingenerato alcun legittimo affidamento nel
destinatario del provvedimento, posto che
l'annullamento d'ufficio interviene a breve
distanza di tempo dall'adozione del
provvedimento illegittimo, sicché la
giurisprudenza è concorde nel non ritenere
necessaria una penetrante motivazione
sull'interesse pubblico all'annullamento, né
una comparazione di tale interesse con
l'interesse privato sacrificato (cfr. TAR
Milano, Sez. IV, 13.04.2011 , n. 971; TAR
Lecce Sez. III 06.06.2008 n. 1680; TAR
Campania, Sez. VII, 04.07.2007, n. 6461;
TRGA, Bolzano, 07.10.2006, n. 379; TAR
Brescia, 04.06.2004, n. 609)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 04.05.2012 n. 772 - link a
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ATTI AMMINISTRATIVI:
Secondo i consolidati principi
forgiati dalla giurisprudenza in relazione
all’individuazione dei presupposti per la
proposizione dell’azione di accertamento
dell’illegittimità del silenzio–inadempimento:
a) i provvedimenti di autotutela sono
manifestazione dell’esercizio di un potere
tipicamente discrezionale
dell’amministrazione che non ha alcun
obbligo di attivarlo e, qualora intenda
farlo, deve valutare la sussistenza o meno
di un interesse che giustifichi la rimozione
dell’atto, valutazione della quale essa sola
è titolare e che non può ritenersi dovuta
nel caso di una situazione già definita con
provvedimento inoppugnabile; pertanto, una
volta che il privato, o per aver esaurito i
mezzi di impugnazione che l’ordinamento gli
garantisce, o per aver lasciato trascorrere
senza attivarsi il termine previsto a pena
di decadenza, si trovi di fronte ad un
provvedimento inoppugnabile a fronte del
quale può solo sollecitare l’esercizio del
potere da parte dell’amministrazione,
quest’ultima, a fronte della domanda di
riesame non ha alcun obbligo di rispondere;
b) è esclusa la possibilità di fare ricorso
alla procedura del silenzio rifiuto allo
scopo di provocare il ricorso
dell’amministrazione all’autotutela; tale
divieto trova il proprio fondamento
nell’esigenza di evitare il superamento
della regola della necessaria impugnazione
dell’atto amministrativo nel termine di
decadenza; siffatto escamotage presuppone in
definitiva una sequenza procedimentale in
cui sussista un provvedimento non impugnato,
e l’intrapresa della procedura del silenzio
rifiuto allo scopo di provocare l’adozione
di un secondo provvedimento, volto a mettere
nel nulla quello non tempestivamente
impugnato;
c) la richiesta dei privati, rivolta
all’amministrazione, di esercizio
dell’autotutela, è una mera denuncia, con
funzione sollecitatoria, ma non fa sorgere
in capo all’amministrazione alcun obbligo di
provvedere.
---------------
Per quanto concerne la violazione
dell’obbligo di preavviso di rigetto sancito
dall’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, è
sufficiente evidenziare che:
a) non ha carattere tassativo l’elenco delle
ipotesi, di cui all’ultimo periodo dell’art.
10-bis, l. n. 241 del 1990, per le quali non
è necessaria la comunicazione dei motivi
ostativi all’accoglimento della domanda;
b) la mancata comunicazione del preavviso di
rigetto non comporta ex se l’illegittimità
del provvedimento finale in quanto la norma
sancita dall’art. 10-bis cit., và
interpretata alla luce del successivo art.
21-octies, co. 2, l. n. 241 del 1990, il
quale, nell’imporre al giudice di valutare
il contenuto sostanziale del provvedimento e
di non annullare l’atto nel caso in cui le
violazioni formali non abbiano inciso sulla
legittimità sostanziale del medesimo, rende
irrilevante la violazione delle disposizioni
sul procedimento o sulla forma dell’atto
allorché il contenuto dispositivo non
avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato;
c) la comunicazione dei motivi ostativi
all’accoglimento della domanda non è
necessaria in relazione alle decisioni di
ricorsi gerarchici per le seguenti ragioni:
I) il preavviso di rigetto si applica ai procedimenti ad «istanza
di parte»; invece il ricorso amministrativo
non è assimilabile a un’istanza di
provvedimento perché costituisce la
contestazione di un provvedimento già
emanato;
II) la previsione del preavviso di rigetto è diretta a promuovere
il contraddittorio prima dell’adozione di un
provvedimento di amministrazione attiva;
invece nel caso del ricorso amministrativo
il provvedimento di amministrazione attiva è
già stato emanato e impugnato;
III) prima del provvedimento impugnato il privato, di regola, ha
già potuto interloquire con
l’amministrazione; pertanto un ulteriore
preavviso di rigetto introdurrebbe una
ulteriore fase di contraddittorio,
sostanzialmente inutile e in contrasto con
le esigenze di buon andamento, economicità e
celerità dell’azione amministrativa;
IV) la comunicazione del preavviso di rigetto interrompe i termini
per l’emanazione del provvedimento finale;
questo effetto è però incompatibile con la
disciplina del ricorso amministrativo perché
comporterebbe il raddoppio dei termini di
decisione del ricorso;
V) il procedimento avviato col ricorso gerarchico può concludersi
col «silenzio», con l’effetto di consentire
al ricorrente di impugnare in sede
giurisdizionale il provvedimento già
impugnato in sede amministrativa; tale
disciplina è incompatibile con la necessità
del preavviso di rigetto;
VI) la decisione dell’amministrazione sul ricorso gerarchico ha
carattere di segretezza fino alla sua
emanazione, e pertanto non ammette un
preavviso di rigetto.
Il diniego opposto dal comune, da
qualificarsi come rifiuto espresso di
autotutela, si è limitato, nella sostanza,
ad esplicitare quanto stabilito, in modo
vincolante per l’ente, dai presupposti
provvedimenti rimasti inoppugnati; esso,
come tale, risulta privo di autonoma
lesività in considerazione della sua
oggettiva natura non provvedimentale e del
suo contenuto interamente vincolato.
Il potere di autotutela amministrativa
mediante annullamento è un potere di merito
dell’amministrazione, incoercibile da parte
del giudice amministrativo.
L’art. 21-nonies l. n. 241 del 1990 ha
disciplinato i presupposti e le forme
dell’annullamento d’ufficio, ma non ha
modificato la natura del potere, e non lo ha
trasformato da discrezionale in
obbligatorio, né ha previsto un interesse
legittimo dei privati all’autotutela
amministrativa.
Il potere di autotutela resta un potere di
merito, che si esercita previa valutazione
delle ragioni di pubblico interesse,
valutazione riservata alla p.a. e
insindacabile da parte del giudice.
Si deve anzitutto osservare che, di regola,
il diniego di autotutela è privo di autonoma
portata lesiva, e pertanto difetta, in
relazione ad esso, un interesse concreto e
attuale a contestarlo.
Infatti la lesione discende già dal
provvedimento originario, in relazione al
quale viene invocata l’autotutela, ed è tale
atto che deve (avrebbe dovuto) essere
tempestivamente impugnato.
Ordinariamente, il diniego espresso di
autotutela è un atto meramente confermativo
dell’originario provvedimento, che non
compie una nuova valutazione degli interessi
in gioco, e che pertanto non può essere un
mezzo per una sostanziale rimessione in
termini quanto alla contestazione
dell’originario provvedimento.
In secondo luogo il diniego di autotutela si
fonda su ragioni di merito amministrativo,
che esulano dalla giurisdizione di
qualsivoglia giudice.
Il giudice non può valutare se il diniego di
autotutela è stato bene o male esercitato,
perché se ciò facesse la conseguenza sarebbe
un ordine, rivolto all’amministrazione, di
riesercizio del potere di autotutela secondo
parametri fissati dal giudice, ma è evidente
che questo sarebbe uno sconfinamento in un
potere di merito riservato esclusivamente
all’amministrazione e incoercibile; il
diniego espresso di autotutela non è
impugnabile per l’assorbente ragione che si
tratta di atto espressione di un potere di
merito, su cui il giudice amministrativo non
ha giurisdizione.
Solo nel caso –che nella specie non ricorre– in cui l’amministrazione, sollecitata ad
esercitare l’autotutela –riesamina
l’originario provvedimento e a seguito di
appropriato procedimento amministrativo
conferma –con una nuova valutazione degli
interessi in gioco e con una motivazione
nuova– l’originario provvedimento, si ha un
atto di conferma in senso proprio,
autonomamente lesivo e pertanto impugnabile.
Sul piano sistematico tali
conclusioni sono coerenti con i consolidati
principi forgiati dalla giurisprudenza in
relazione all’individuazione dei presupposti
per la proposizione dell’azione di
accertamento dell’illegittimità del silenzio–inadempimento (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
12.03.2010, n. 1469; sez. IV, 16.09.2008 n. 4362; sez. IV,
09.08.2005, n. 4227; sez. VI, 04.02.2002, n.
4453; sez. VI, 01.04.1992, n. 201, cui si
rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett.
d), c.p.a.), in forza dei quali:
a) i provvedimenti di autotutela sono
manifestazione dell’esercizio di un potere
tipicamente discrezionale
dell’amministrazione che non ha alcun
obbligo di attivarlo e, qualora intenda
farlo, deve valutare la sussistenza o meno
di un interesse che giustifichi la rimozione
dell’atto, valutazione della quale essa sola
è titolare e che non può ritenersi dovuta
nel caso di una situazione già definita con
provvedimento inoppugnabile; pertanto, una
volta che il privato, o per aver esaurito i
mezzi di impugnazione che l’ordinamento gli
garantisce, o per aver lasciato trascorrere
senza attivarsi il termine previsto a pena
di decadenza, si trovi di fronte ad un
provvedimento inoppugnabile a fronte del
quale può solo sollecitare l’esercizio del
potere da parte dell’amministrazione,
quest’ultima, a fronte della domanda di
riesame non ha alcun obbligo di rispondere;
b) è esclusa la possibilità di fare ricorso
alla procedura del silenzio rifiuto allo
scopo di provocare il ricorso
dell’amministrazione all’autotutela; tale
divieto trova il proprio fondamento
nell’esigenza di evitare il superamento
della regola della necessaria impugnazione
dell’atto amministrativo nel termine di
decadenza; siffatto escamotage presuppone in
definitiva una sequenza procedimentale in
cui sussista un provvedimento non impugnato,
e l’intrapresa della procedura del silenzio
rifiuto allo scopo di provocare l’adozione
di un secondo provvedimento, volto a mettere
nel nulla quello non tempestivamente
impugnato;
c) la richiesta dei privati, rivolta
all’amministrazione, di esercizio
dell’autotutela, è una mera denuncia, con
funzione sollecitatoria, ma non fa sorgere
in capo all’amministrazione alcun obbligo di
provvedere.
---------------
Per
quanto concerne, infine, la violazione
dell’obbligo di preavviso di rigetto sancito
dall’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, è
sufficiente evidenziare, in una con la
giurisprudenza di questo Consiglio (cfr., ex plurimis, Cons. giust. amm.,
04.07.2011,
n. 472; 03.03.2011, n. 161; Cons. Stato,
sez. III, 11.01.2011, n. 1638/2010;
com. spec., 26.02.2008, n. 2518/2007,
cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2,
lett. d), c.p.a.), che:
a) non ha carattere tassativo l’elenco delle
ipotesi, di cui all’ultimo periodo dell’art.
10-bis, l. n. 241 del 1990, per le quali non
è necessaria la comunicazione dei motivi
ostativi all’accoglimento della domanda;
b) la mancata comunicazione del preavviso di
rigetto non comporta ex se l’illegittimità
del provvedimento finale in quanto la norma
sancita dall’art. 10-bis cit., và
interpretata alla luce del successivo art.
21-octies, co. 2, l. n. 241 del 1990, il
quale, nell’imporre al giudice di valutare
il contenuto sostanziale del provvedimento e
di non annullare l’atto nel caso in cui le
violazioni formali non abbiano inciso sulla
legittimità sostanziale del medesimo, rende
irrilevante la violazione delle disposizioni
sul procedimento o sulla forma dell’atto
allorché il contenuto dispositivo non
avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato;
c) la comunicazione dei motivi ostativi
all’accoglimento della domanda non è
necessaria in relazione alle decisioni di
ricorsi gerarchici per le seguenti ragioni:
I) il preavviso di rigetto si applica ai
procedimenti ad «istanza di parte»; invece
il ricorso amministrativo non è assimilabile
a un’istanza di provvedimento perché
costituisce la contestazione di un
provvedimento già emanato;
II) la previsione del preavviso di rigetto è
diretta a promuovere il contraddittorio
prima dell’adozione di un provvedimento di
amministrazione attiva; invece nel caso del
ricorso amministrativo il provvedimento di
amministrazione attiva è già stato emanato e
impugnato;
III) prima del provvedimento impugnato il
privato, di regola, ha già potuto
interloquire con l’amministrazione; pertanto
un ulteriore preavviso di rigetto
introdurrebbe una ulteriore fase di
contraddittorio, sostanzialmente inutile e
in contrasto con le esigenze di buon
andamento, economicità e celerità
dell’azione amministrativa;
IV) la comunicazione del preavviso di
rigetto interrompe i termini per
l’emanazione del provvedimento finale;
questo effetto è però incompatibile con la
disciplina del ricorso amministrativo perché
comporterebbe il raddoppio dei termini di
decisione del ricorso;
V) il procedimento avviato col ricorso
gerarchico può concludersi col «silenzio»,
con l’effetto di consentire al ricorrente di
impugnare in sede giurisdizionale il
provvedimento già impugnato in sede
amministrativa; tale disciplina è
incompatibile con la necessità del preavviso
di rigetto;
VI) la decisione dell’amministrazione sul
ricorso gerarchico ha carattere di
segretezza fino alla sua emanazione, e
pertanto non ammette un preavviso di
rigetto.
Le conclusioni cui è pervenuto
questo Consiglio, circa l’inapplicabilità
dell’art. 10-bis cit. ai ricorsi
amministrativi nonché ai procedimenti di
carattere vincolato, si attagliano al caso
di specie, caratterizzato dalla presenza di
un procedimento attivato in sede di
autotutela (che presenta, nella sostanza,
alcune delle sopra evidenziate
caratteristiche del procedimento
giustiziale), il quale interviene su un
assetto di interessi pubblici e privati
interamente definito da un contesto provvedimentale
ormai intangibile
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 03.05.2012 n. 2550 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: L’annullamento
d’ufficio (ndr: della concessione edilizia)
presuppone una congrua motivazione
sull’interesse pubblico attuale e concreto a
sostegno dell’esercizio discrezionale dei
poteri di autotutela, con un’adeguata
ponderazione comparativa la quale tenga
anche conto dell’interesse dei destinatari
dell’atto al mantenimento delle posizioni
che su di esso si sono consolidate, e del
conseguente affidamento derivante dal
comportamento seguito dall’amministrazione.
Per costante giurisprudenza, l’annullamento
d’ufficio (ndr: della concessione edilizia)
presuppone una congrua motivazione
sull’interesse pubblico attuale e concreto a
sostegno dell’esercizio discrezionale dei
poteri di autotutela, con un’adeguata
ponderazione comparativa la quale tenga
anche conto dell’interesse dei destinatari
dell’atto al mantenimento delle posizioni
che su di esso si sono consolidate, e del
conseguente affidamento derivante dal
comportamento seguito dall’amministrazione
(cfr. ex plurimis, TAR Campania
Salerno, sez. I – 03/01/2012 n. 3; Consiglio
di Stato, sez. IV – 16/04/2010 n. 2178) (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 03.05.2012 n. 740 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
giurisprudenza scinde gli effetti caducatori
derivanti dall’annullamento dell’atto a
contenuto generale –i quali espandono la
propria efficacia erga omnes– dagli effetti
conformativi del giudicato che statuiscono
vincoli e limiti alla successiva azione
amministrativa, producendo effetti
preclusivi (e vietando pertanto di assumere
nuovi provvedimenti di contenuto analogo a
quelli annullati) solo nei confronti di
coloro che sono stati parti in quel
giudizio.
E’ stato puntualmente osservato che “la
sfera di efficacia soggettiva di una
pronuncia giurisdizionale amministrativa di
annullamento va differenziatamente
individuata a seconda che si abbia riguardo
alla sua parte dispositiva-cassatoria
dell’atto, ovvero a quella
ordinatoria-prescrittiva, statuente limiti e
vincoli per la successiva azione
dell’Amministrazione. Infatti, in ordine
alla prima parte, in quanto comportante
l’eliminazione dal mondo giuridico di una
entità obiettiva quale il provvedimento
impugnato, la pronuncia non può che operare,
necessariamente, erga omnes, essendo
l'istituto dell'annullamento ontologicamente
insuscettibile di produrre la caducazione di
un atto per taluni e non per altri.
Al contrario, relativamente alla parte
ordinatoria-prescrittiva, la pronuncia si
atteggia come tipicamente inerente al
rapporto giuridico dedotto in giudizio ….,
che viene esaminato ed in ordine al quale
prescrizioni e vincoli sono posti negli
stretti limiti degli interessi sostanziali
fatti valere dall'istante, delle censure
dedotte e delle contrapposte eccezioni
sollevate. Donde l'applicabilità in parte
qua … del principio proprio delle pronunce
giurisdizionali civili -pur esse, di norma,
tipicamente inerenti a rapporti- secondo cui
il giudicato fa stato unicamente fra le
parti, i loro eredi ed aventi causa (art.
2909 del c.c.)”.
---------------
A seguito dell’annullamento in sede
giurisdizionale di un provvedimento, quello
precedente non rivive in quanto
definitivamente abrogato e sostituito dal
successivo. In altri termini l’atto
soppresso da un successivo provvedimento
(poi annullato dal giudice) è
definitivamente venuto meno (e non
semplicemente posto in stato di quiescenza)
e non può “riaffiorare” nel mondo giuridico
a seguito della caducazione dell’effetto
abrogante.
Più in generale questo Tribunale,
nell’affrontare una questione di successione
di leggi in materia urbanistica, ha
affermato che l’abrogazione di disposizioni
abrogative non fa rivivere le disposizioni
da queste ultime soppresse: se il
legislatore intende far rivivere una
disposizione abrogata, infatti, non deve
soltanto espungere dall’ordinamento la
disposizione abrogativa, ma è necessario che
disponga altresì la reviviscenza della prima
in modo espresso ed univoco, derogando alla
regola generale per cui, in linea di
principio, l’abrogazione degli atti
normativi ha carattere di definitività.
La giurisprudenza scinde gli effetti
caducatori derivanti dall’annullamento
dell’atto a contenuto generale –i quali
espandono la propria efficacia erga omnes–
dagli effetti conformativi del giudicato che
statuiscono vincoli e limiti alla successiva
azione amministrativa, producendo effetti
preclusivi (e vietando pertanto di assumere
nuovi provvedimenti di contenuto analogo a
quelli annullati) solo nei confronti di
coloro che sono stati parti in quel giudizio
(cfr. TAR Veneto, sez. III – 04/08/2011 n.
1346; 21/04/2010 n. 1494; TAR Campania
Salerno, sez. II – 18/2/2010 n. 1510).
E’ stato puntualmente osservato (cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV – 15/06/2004 n.
3939) che “la sfera di efficacia
soggettiva di una pronuncia giurisdizionale
amministrativa di annullamento va
differenziatamente individuata a seconda che
si abbia riguardo alla sua parte
dispositiva-cassatoria dell’atto, ovvero a
quella ordinatoria-prescrittiva, statuente
limiti e vincoli per la successiva azione
dell’Amministrazione. Infatti, in ordine
alla prima parte, in quanto comportante
l’eliminazione dal mondo giuridico di una
entità obiettiva quale il provvedimento
impugnato, la pronuncia non può che operare,
necessariamente, erga omnes, essendo
l'istituto dell'annullamento ontologicamente
insuscettibile di produrre la caducazione di
un atto per taluni e non per altri.
Al contrario, relativamente alla parte
ordinatoria-prescrittiva, la pronuncia si
atteggia come tipicamente inerente al
rapporto giuridico dedotto in giudizio ….,
che viene esaminato ed in ordine al quale
prescrizioni e vincoli sono posti negli
stretti limiti degli interessi sostanziali
fatti valere dall'istante, delle censure
dedotte e delle contrapposte eccezioni
sollevate. Donde l'applicabilità in parte
qua … del principio proprio delle pronunce
giurisdizionali civili -pur esse, di norma,
tipicamente inerenti a rapporti- secondo cui
il giudicato fa stato unicamente fra le
parti, i loro eredi ed aventi causa (art.
2909 del c.c.)”.
---------------
In linea
generale, a seguito dell’annullamento in
sede giurisdizionale di un provvedimento,
quello precedente non rivive in quanto
definitivamente abrogato e sostituito dal
successivo. In altri termini l’atto
soppresso da un successivo provvedimento
(poi annullato dal giudice) è
definitivamente venuto meno (e non
semplicemente posto in stato di quiescenza)
e non può “riaffiorare” nel mondo
giuridico a seguito della caducazione
dell’effetto abrogante (cfr. TAR Sicilia
Palermo, sez. III – 15/02/2011 n. 277).
Più in generale questo Tribunale,
nell’affrontare una questione di successione
di leggi in materia urbanistica, ha
affermato che l’abrogazione di disposizioni
abrogative non fa rivivere le disposizioni
da queste ultime soppresse: se il
legislatore intende far rivivere una
disposizione abrogata, infatti, non deve
soltanto espungere dall’ordinamento la
disposizione abrogativa, ma è necessario che
disponga altresì la reviviscenza della prima
in modo espresso ed univoco, derogando alla
regola generale per cui, in linea di
principio, l’abrogazione degli atti
normativi ha carattere di definitività (cfr.
sentenze TAR Brescia, sez. I – 24/06/2009 n.
1321; 12/02/2010 n. 732; 05/04/2007 n. 349,
che richiama ampia giurisprudenza ossia
Consiglio di Stato, sez. VI – 15/04/1987 n.
254; Consiglio di Stato, sez. VI –
31/03/1981 n. 133; Corte di cassazione, sez.
lavoro – 08/06/1979 n. 3284)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 03.05.2012 n. 739 - link a
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APPALTI: Nelle
gare pubbliche il giudizio di verifica delle
congruità di un'offerta anomala ha natura
globale e sintetica sulla serietà
dell'offerta stessa nel suo insieme e
costituisce espressione di un potere
tecnico-discrezionale dell'Amministrazione
di per sé insindacabile in sede di
legittimità, salvo che nelle ipotesi in cui
le valutazioni siano manifestamente
illogiche o fondate su insufficiente
motivazione o affette da errori di fatto.
---------------
In sede di presentazione delle
giustificazioni sulle offerte anomale,
l’impresa partecipante può operare
modulazioni dell’offerta a suo tempo
presentata con la conseguenza che, mentre
l’offerta economica in quanto tale resta
immodificabile, possono invece essere
modificate e integrate le giustificazioni,
sino a consentire (ad esempio) compensazioni
fra sovrastime e sottostime, purché
l’offerta risulti nel suo complesso coerente
ed affidabile al momento
dell’aggiudicazione.
Tuttavia, se ciò è vero, è anche vero che
l’impresa la cui offerta è assoggettata a
verifica di anomalia è tenuta a fornire dati
concreti ed attendibili, idonei a descrivere
in modo univoco il contenuto dell’offerta e
a confermarne la complessiva attendibilità e
sostenibilità sotto il profilo
economico-finanziario.
In caso contrario (ossia, laddove si
ammettesse la possibilità di giustificare in
vari modi fra loro alternativi una
determinata struttura di costi), verrebbe
meno la ratio stessa dell’istituto della
verifica dell’anomalia, il quale consiste
nel consentire all’amministrazione di
verificare sulla base di elementi concreti
ed attendibili la sostenibilità
dell’offerta.
Giova premettere al riguardo che, secondo un
consolidato (e qui condiviso) orientamento
giurisprudenziale, nelle gare pubbliche il
giudizio di verifica delle congruità di
un'offerta anomala ha natura globale e
sintetica sulla serietà dell'offerta stessa
nel suo insieme e costituisce espressione di
un potere tecnico-discrezionale
dell'Amministrazione di per sé insindacabile
in sede di legittimità, salvo che nelle
ipotesi in cui le valutazioni siano
manifestamente illogiche o fondate su
insufficiente motivazione o affette da
errori di fatto (fra le molte: Cons. Stato,
III, 15.07.2011, n. 4322).
---------------
Secondo
un condiviso orientamento, in sede di
presentazione delle giustificazioni sulle
offerte anomale, l’impresa partecipante può
operare modulazioni dell’offerta a suo tempo
presentata con la conseguenza che, mentre
l’offerta economica in quanto tale resta
immodificabile, possono invece essere
modificate e integrate le giustificazioni,
sino a consentire (ad esempio) compensazioni
fra sovrastime e sottostime, purché
l’offerta risulti nel suo complesso coerente
ed affidabile al momento dell’aggiudicazione
(Cons. Stato, V, 20.02.2012, n. 875;
id., VI, 24.08.2011, n. 4801).
Tuttavia, se ciò è vero, è anche vero che
l’impresa la cui offerta è assoggettata a
verifica di anomalia è tenuta a fornire dati
concreti ed attendibili, idonei a descrivere
in modo univoco il contenuto dell’offerta e
a confermarne la complessiva attendibilità e
sostenibilità sotto il profilo
economico-finanziario.
In caso contrario (ossia, laddove si
ammettesse la possibilità di giustificare in
vari modi fra loro alternativi una
determinata struttura di costi), verrebbe
meno la ratio stessa dell’istituto
della verifica dell’anomalia, il quale
consiste nel consentire all’amministrazione
di verificare sulla base di elementi
concreti ed attendibili la sostenibilità
dell’offerta
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza
02.05.2012 n. 2506 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Di per
sé, la mera pendenza di un procedimento
sanzionatorio non è ostativa al rilascio
dell’agibilità, a meno che, come prevede la
legge, non si ravvisino differenze tra
l’autorizzato (o il dichiarato) ed il
realizzato.
Per quanto concerne il diniego di agibilità,
si osserva che le norme di riferimento sono
gli artt. 24 e 25 del D.Lgs. 380/2001; il
primo stabilisce che “il certificato di
agibilità attesta la sussistenza delle
condizioni di sicurezza, igiene, salubrità,
risparmio energetico degli edifici e degli
impianti negli stessi installati, valutate
secondo quanto dispone la normativa vigente”,
quindi pare renderlo del tutto indipendente
dal rapporto che il manufatto ha con la
disciplina urbanistica; tuttavia il
successivo art. 26 impone che tra la
documentazione presentata vi sia anche una “dichiarazione,
sottoscritta dallo stesso richiedente il
certificato di agibilità, di conformità
dell’opera rispetto al progetto approvato,
nonché in ordine alla avvenuta prosciugatura
dei muri e della salubrità degli ambienti”,
il che può far, invece, ritenere che la
mancata conformità di quanto edificato al
relativo progetto (e, quindi, anche alle
norme che disciplinano l’edificabilità nella
zona) sia, di per sé, ostativa al rilascio
dell’abitabilità.
La non perfetta coerenza delle due norme ha
portato la giurisprudenza a differenti
soluzioni, quanto alla legittimità del
diniego di certificato di agibilità per
ragioni esclusivamente o prevalentemente
urbanistico/edilizie ovvero per pendenza di
procedimenti sanzionatori; infatti, accanto
a decisioni che negano la rilevanza di tali
motivazioni (si veda, per tutti: TAR Liguria
n. 1754/2011, secondo cui, “essendo
finalizzato -il certificato di agibilità- al
controllo di tipo igienico-sanitario ed
escludendo qualsiasi riferimento alla
conformità dell’edificio al progetto
approvato, non assume alcun rilievo sotto il
profilo urbanistico-edilizio, onde la
pendenza di un procedimento repressivo
edilizio di per sé non costituisce idonea
motivazione di diniego del certificato”),
ve ne sono altre che ritengono corretto il
diniego motivato (prevalentemente o
esclusivamente) con riferimento a violazioni
urbanistiche.
Ad esempio, TAR Lombardia-Milano n.
332/2010, ritiene che “l’agibilità possa
essere negata non solo in caso di mancanza
di condizioni igieniche ma anche in caso di
contrasto con gli strumenti urbanistici o
con il titolo edilizio (DIA o permesso di
costruire)”, precisando che “a tale
conclusione perviene gran parte della
giurisprudenza (TAR Lazio, n. 4129/2005,
Consiglio di Stato, n. 6174/2008 e n.
1542/2005; TAR Lombardia-Milano, n.
4672/2009), senza contare che questa
interpretazione ha anche un supporto
normativo nell’art. 25, comma 1, del Testo
Unico dell'Edilizia”; dovendo, per
l’appunto, la domanda di agibilità deve
essere corredata anche da una dichiarazione
del richiedente di conformità dell'opera
rispetto al progetto approvato, il che “significa
che in caso di difformità dell’opera dal
progetto edilizio, ma anche evidentemente in
caso di assenza di idoneo progetto,
l’agibilità dovrà essere negata”.
Soggiunge poi la decisione che “appare
assurdo che il Comune rilasci l’agibilità a
fronte di un’opera magari palesemente
abusiva e destinata quindi con certezza alla
demolizione, apparendo tale comportamento
dell'Amministrazione contraddittorio
rispetto al perseguimento del pubblico
interesse”, con la conseguenza che “il
diniego di agibilità non può essere reputato
illegittimo per la sola circostanza che è
motivato con riferimento a presunte
violazioni della normativa urbanistica o
edilizia”.
Il Collegio (che condivide questo
orientamento) è dell’avviso che, di per sé,
la mera pendenza di un procedimento
sanzionatorio non sia ostativa al rilascio
dell’agibilità, a meno che, come prevede la
legge, non si ravvisino differenze tra
l’autorizzato (o il dichiarato) ed il
realizzato, come è nel presente caso, ove la
DIA rappresentava cose diverse rispetto a
quanto poi (in pretesa applicazione delle
norme sull’edilizia libera) di fatto è stato
posto in essere.
Il diniego di agibilità, a tenore del citato
art. 25, appare pertanto correttamente
emesso, anche trascurando di considerare che
la ricorrente non pare avere un apprezzabile
interesse a lamentare il mancato rilascio
del certificato di agibilità di un manufatto
di cui è stata ordinata la demolizione per
violazione delle norme urbanistiche.
Infatti, se otterrà il titolo a sanatoria,
l’istante potrà riproporre la domanda, alla
quale il Comune risponderà previa
valutazione dei soli requisiti
igienico-sanitari dell’edificio (TAR Friuli
Venezia Giulia,
sentenza 30.04.2012 n. 146 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
determinazione degli oneri di urbanizzazione
si correla a una precisa disciplina
normativa, di modo che i provvedimenti
applicativi di essa non richiedono di per sé
alcuna puntuale motivazione allorché le
scelte dell’Amministrazione si conformino a
detti criteri.
Per ciascun titolo concessorio gli oneri
dovuti sono calcolati applicando la
normativa e i parametri vigenti al momento
in cui esso è rilasciato, esclusa quindi
ogni ultrattività della disciplina in vigore
all’epoca del rilascio del titolo
originario.
La tesi del Comune, che ha operato un
ricalcolo degli oneri già corrisposti per la
prima concessione applicando anche ad essi
la nuova disciplina (fermo restando, come è
ovvio, lo scomputo delle somme già
corrisposte), trova un aggancio nella
pregressa giurisprudenza in materia, secondo
cui un tale ricalcolo è legittimo nella sola
ipotesi in cui le opere assentite col
secondo permesso comportino un mutamento di
destinazione d’uso ovvero una variazione
essenziale del manufatto con passaggio da
una categoria urbanistica ad altra
funzionalmente autonoma, in tale caso
giustificandosi col maggior carico
urbanistico conseguente il ricalcolo degli
oneri dovuto.
Innanzi tutto, è opportuno sottolineare come
la questione dell’adeguatezza o meno della
motivazione con cui il Comune ha esplicitato
i criteri di calcolo applicati è destinata a
restare recessiva rispetto a quella della
correttezza o meno di tali criteri: al
riguardo, infatti, va richiamato il
consolidato indirizzo giurisprudenziale
secondo cui la determinazione degli oneri di
urbanizzazione si correla a una precisa
disciplina normativa, di modo che i
provvedimenti applicativi di essa non
richiedono di per sé alcuna puntuale
motivazione allorché le scelte
dell’Amministrazione si conformino a detti
criteri (cfr. Cons. Stato, sez. V, 09.02.2001, nr. 584).
Nel caso che qui occupa, non è dubbio che il
Comune odierno appellante abbia fin dal
primo grado depositato documentazione
illustrativa dei criteri applicati per la
commisurazione degli oneri richiesti per la
concessione edilizia rilasciata nel 2003; di
modo che, a prescindere da ogni
approfondimento circa la conoscenza o
conoscibilità di tali criteri da parte della
società destinataria, l’eventuale
correttezza degli stessi rileverebbe nel
senso dell’irrilevanza del vizio ex art. 21-octies della legge
07.08.1990, nr. 241,
in considerazione della natura vincolata
dell’atto.
Di conseguenza, la questione centrale del
presente giudizio attiene alle modalità con
cui deve avvenire il calcolo degli oneri di
urbanizzazione in sede di rilascio di un
nuovo permesso di costruire dopo che quello
originario è decaduto ai sensi dell’art. 15,
comma 3, del d.P.R. 06.06.2001, nr. 380
(e, prima, dell’art. 4 della legge 28.01.1977, nr. 10).
Più specificamente, l’ipotesi che qui
interessa è quella in cui una parte del
manufatto assentito col primo titolo
concessorio sia stato effettivamente
realizzato, e gli oneri relativi siano stati
integralmente pagati, di modo che il nuovo
provvedimento abilitativo ha a oggetto solo
il completamento dell’opera.
In un caso del genere, sembra pacifico (e
sul punto le parti convengono) che non possa
addivenirsi ad alcuna duplicazione, non
essendo possibile accollare all’istante per
due volte gli oneri relativi alle medesime
opere.
Al di là di ciò, alla Sezione non paiono
altrettanto scontati gli ulteriori due
assunti su cui si regge la prospettazione
del ricorso introduttivo (condivisa dal
primo giudice): e cioè che, in occasione del
rilascio del secondo permesso, non sia
possibile calcolare gli oneri dovuti in base
alla disciplina eventualmente innovativa che
sia sopravvenuta dopo il rilascio del primo
titolo ad aedificandum, e che in ogni caso
detti oneri debbano sempre essere limitati a
quelli inerenti la parte di opere non
realizzata nei termini e oggetto del secondo
permesso, escluso ogni “ricalcolo” degli
oneri già corrisposti.
Quanto al primo profilo, il Collegio reputa
del tutto ragionevole –anche in
applicazione del principio tempus regit
actum– che per ciascun titolo concessorio
gli oneri dovuti siano calcolati applicando
la normativa e i parametri vigenti al
momento in cui esso è rilasciato, esclusa
quindi ogni ultrattività della disciplina in
vigore all’epoca del rilascio del titolo
originario (poi decaduto).
Per quanto concerne il secondo aspetto, una
rigorosa accettazione della tesi
dell’odierna appellata porterebbe, nella
specie, a un sostanziale azzeramento degli
oneri dovuti, dal momento che –come già
accennato– la nuova concessione edilizia
rilasciata nel 2003 concerne unicamente
opere interne e di finitura, essendo stato
già illo tempore l’immobile interamente
realizzato nella sua struttura.
La tesi del Comune, che invece ha operato un
ricalcolo degli oneri già corrisposti per la
prima concessione applicando anche ad essi
la nuova disciplina (fermo restando, come è
ovvio, lo scomputo delle somme già
corrisposte), trova un aggancio nella
pregressa giurisprudenza in materia, secondo
cui un tale ricalcolo è legittimo nella sola
ipotesi in cui le opere assentite col
secondo permesso comportino un mutamento di
destinazione d’uso ovvero una variazione
essenziale del manufatto con passaggio da
una categoria urbanistica ad altra
funzionalmente autonoma, in tale caso
giustificandosi col maggior carico
urbanistico conseguente il ricalcolo degli
oneri dovuto (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29.04.2004, nr. 2611; Cons. Stato, sez. V,
25.05.2004, nr. 6289; id., 23.01.2004, nr. 174; id., 29.01.2004, nr.
295; id., 24.09.2001, nr. 1427).
Orbene, non risulta specificamente
contestato dalla parte privata l’assunto
dell’Amministrazione appellante secondo cui
la nuova richiesta di permesso di costruire
comportava, oltre che la realizzazione di
opere interne, anche un rilevante mutamento
di destinazione d’uso dell’immobile rispetto
al progetto originario (tale essendo, nella
prospettazione del Comune, la ragione del
ricalcolo degli oneri dovuti); e, anzi, la
circostanza trova conferma nella stessa
documentazione depositata in primo grado,
dalla quale è dato evincere che
effettivamente la diversa distribuzione
degli spazi interni comportava anche una
diversa ripartizione tra i locali a
destinazione residenziale e quelli a
destinazione direzionale, con conseguente
variazione del carico urbanistico rispetto a
quello originario.
Dal che consegue l’infondatezza delle
censure articolate nel ricorso introduttivo,
con riguardo sia all’indebita duplicazione
degli oneri percepiti sia all’assenza di
ogni giustificazione a sostegno del
ricalcolo delle somme già corrisposte (fermo
restando che esula dalla presente sede la
verifica della correttezza del calcolo in
concreto compiuto dall’Amministrazione, non
risultando formulata alcuna specifica
censura sul punto)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza
27.04.2012 n. 2471 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Una distanza superiore al chilometro è
tale da far seriamente dubitare,
specialmente in assenza di puntuali
allegazioni ad opera della stessa parte,
dell’esistenza del presupposto della vicinitas: e questo pur tenendo nel debito
conto il principio per cui la vicinitas che
legittima la proposizione di un’impugnativa
non va necessariamente intesa come stretta
contiguità, bensì nel senso di uno stabile e
significativo collegamento del ricorrente,
da verificare caso per caso, con la zona il
cui ambiente s'intende proteggere.
---------------
L'azione innanzi al Giudice amministrativo
non rappresenta un'azione popolare che possa
essere esercitata dal quisque de populo.
Essa, al contrario, richiede l'esistenza sia
della legittimazione al ricorso (da
intendersi come titolarità di una posizione
giuridica differenziata rispetto alla
collettività indifferenziata, quale quella
che può radicarsi in una particolare
vicinitas), sia di un interesse al ricorso
(da intendersi come utilità, anche
strumentale, che possa derivare dal suo
accoglimento).
Il ricorso giurisdizionale è dunque
proponibile solo da chi abbia la titolarità
di un interesse legittimo e dimostri,
inoltre, che tale interesse possa subire una
lesione per la illegittimità dell'atto
impugnato.
La mera vicinanza di un fondo ad una
discarica non legittima per ciò solo ed
automaticamente il proprietario frontista ad
insorgere avverso il provvedimento
autorizzativo dell'opera, essendo
necessaria, al riguardo, anche la prova del
danno che egli da questa possa ricevere, per
quanto non sia permesso addossare su chi
agisca il gravoso onere della prova
dell'effettività del danno subendo allorché
la stessa prova non possa prescindere, in
concreto, dall'effettiva realizzazione
dell'impianto, il che finirebbe per svuotare
il principio costituzionale del diritto di
difesa.
La mera vicinanza di un'abitazione ad una
discarica non legittima, pertanto, il
proprietario frontista ad insorgere avverso
il provvedimento di approvazione dell'opera,
essendo al riguardo necessaria la prova del
danno che da questa egli riceva nella sua
sfera giuridica, o per il fatto che la
localizzazione dell'impianto riduce il
valore economico del fondo situato nelle sue
vicinanze, o perché le prescrizioni dettate
dall'autorità competente in ordine alle
modalità di gestione dell'impianto sono
inidonee a salvaguardare la salute di chi
vive nelle sue vicinanze, o, infine, per il
significativo incremento del traffico
veicolare, potenzialmente idoneo ad incidere
in senso pregiudizievole sui terreni
limitrofi. Da ciò la conferma che il mero
collegamento di un fondo con il territorio
sul quale è localizzata una discarica non è
da solo sufficiente a legittimare il suo
proprietario a provocare uti singulus il
sindacato di legittimità su qualsiasi
provvedimento amministrativo preordinato
alla tutela di interessi generali che nel
territorio trovano la loro esplicazione.
Osserva la Sezione che queste deduzioni non
possono essere condivise.
Le stesse lasciano infatti integro il nucleo
fondamentale della pronuncia appellata,
quale si trova compendiato nella notazione
che “nessuno dei ricorrenti è stato in grado
di precisare il concreto pregiudizio che
deriverebbe alla propria sfera giuridica
dalla realizzazione dell’impianto in
relazione al quale va, peraltro,
sottolineato che tutti gli accertamenti
tecnici svolti dall’ARPA e dall’ASL hanno
consentito di individuare valori di
emissioni inquinanti ampiamente inferiori ai
limiti prescritti dalla legge.”
Una distanza superiore al chilometro è
tale da far seriamente dubitare,
specialmente in assenza di puntuali
allegazioni ad opera della stessa parte,
dell’esistenza del presupposto della vicinitas: e questo pur tenendo nel debito
conto il principio per cui la vicinitas che
legittima la proposizione di un’impugnativa
non va necessariamente intesa come stretta
contiguità, bensì nel senso di uno stabile e
significativo collegamento del ricorrente,
da verificare caso per caso, con la zona il
cui ambiente s'intende proteggere (v. tra le
più recenti C.d.S., V, 26.02.2010, n.
1134).
Ancor più evidente, peraltro, è
l’assorbente carenza, nella fattispecie,
dell’estremo dell’interesse a ricorrere.
E’ appena il caso di ricordare che l'azione
innanzi al Giudice amministrativo non
rappresenta un'azione popolare che possa
essere esercitata dal quisque de populo.
Essa, al contrario, richiede l'esistenza sia
della legittimazione al ricorso (da
intendersi come titolarità di una posizione
giuridica differenziata rispetto alla
collettività indifferenziata, quale quella
che può radicarsi in una particolare
vicinitas), sia di un interesse al ricorso
(da intendersi come utilità, anche
strumentale, che possa derivare dal suo
accoglimento) (C.d.S, VI, 01.02.2010,
n. 413).
Il ricorso giurisdizionale è dunque
proponibile solo da chi abbia la titolarità
di un interesse legittimo e dimostri,
inoltre, che tale interesse possa subire una
lesione per la illegittimità dell'atto
impugnato.
Sulla base di tale principio, la mera
vicinanza di un fondo ad una discarica non
legittima per ciò solo ed automaticamente il
proprietario frontista ad insorgere avverso
il provvedimento autorizzativo dell'opera,
essendo necessaria, al riguardo, anche la
prova del danno che egli da questa possa
ricevere (C.d.S., V, 20.05.2002, n.
2714), per quanto non sia permesso addossare
su chi agisca il gravoso onere della prova
dell'effettività del danno subendo allorché
la stessa prova non possa prescindere, in
concreto, dall'effettiva realizzazione
dell'impianto, il che finirebbe per svuotare
il principio costituzionale del diritto di
difesa (cfr. V, 18.08.2010, n. 5819).
La mera vicinanza di un'abitazione ad una
discarica non legittima, pertanto, il
proprietario frontista ad insorgere avverso
il provvedimento di approvazione dell'opera
(cfr. V, 16.04.2003, n. 1948), essendo
al riguardo necessaria la prova del danno
che da questa egli riceva nella sua sfera
giuridica, o per il fatto che la
localizzazione dell'impianto riduce il
valore economico del fondo situato nelle sue
vicinanze, o perché le prescrizioni dettate
dall'autorità competente in ordine alle
modalità di gestione dell'impianto sono
inidonee a salvaguardare la salute di chi
vive nelle sue vicinanze, o, infine, per il
significativo incremento del traffico
veicolare, potenzialmente idoneo ad incidere
in senso pregiudizievole sui terreni
limitrofi (su quest’ultimo profilo cfr. V,
16.06.2009 n. 3849). Da ciò la conferma
che il mero collegamento di un fondo con il
territorio sul quale è localizzata una
discarica non è da solo sufficiente a
legittimare il suo proprietario a provocare
uti singulus il sindacato di legittimità su
qualsiasi provvedimento amministrativo
preordinato alla tutela di interessi
generali che nel territorio trovano la loro
esplicazione (cfr. C.d.S., IV, 13.07.1998,
n. 1088; V, 23.04.2007, n. 1830)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
27.04.2012 n. 2460 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Se
nella nozione di “affidamento diretto” di
cui all'art. 23-bis d.l. n. 112/2008
rientri, o meno, la proroga che segue un
primo affidamento con gara.
La previsione preclude l'acquisizione della
gestione di servizi ulteriori, con o senza
gara, ai soggetti che gestiscono servizi
pubblici locali ad essi affidati senza il
rispetto dei principi dell'evidenza pubblica
che si condensano nei principi comunitari di
tutela della concorrenza, e, segnatamente,
nei principi di "economicità, efficacia,
imparzialità, trasparenza, adeguata
pubblicità, non discriminazione, parità di
trattamento, mutuo riconoscimento,
proporzionalità", elencati nel co. 2,
richiamato espressamente dal co. 9 del
citato art. 23-bis.”.
All'affidamento senza una procedura
competitiva deve essere equiparato il caso
in cui ad un affidamento con gara segua,
dopo la sua scadenza, un regime di proroga
diretta che non trovi fondamento nel diritto
comunitario. Infatti le proroghe dei
contratti affidati con gara sono consentite
se già previste ab origine, e comunque entro
termini determinati. Una volta che il
contratto scada e si proceda ad una sua
proroga senza che essa sia prevista ab
origine, o oltre i limiti temporali
consentiti, la proroga è da equiparare ad un
affidamento senza gara.
Il divieto previsto dall’art. 23-bis, comma
9, del d.l. 25.06.2008, n. 112,
convertito con la legge n. 133 del 2008,
colpisce, per quanto qui interessa, le
società che gestiscano “di fatto o per
disposizione di legge, di atto
amministrativo o per contratto servizi
pubblici locali in virtù di affidamento
diretto”, o comunque “di una procedura non
ad evidenza pubblica”, e comporta che le
medesime società “non possono acquisire la
gestione di servizi ulteriori ovvero in
ambiti territoriali diversi, né svolgere
servizi o attività per altri enti pubblici o
privati, né direttamente, né tramite loro
controllanti o altre società che siano da
essi controllate o partecipate, né
partecipando a gare". Divieto che opera per
tutta la durata della loro gestione.
Ora, questo Consiglio ha già avuto modo
di prendere posizione sulla questione se
nella nozione di “affidamento diretto” di
cui all'art. 23-bis d.l. n. 112/2008
rientri, o meno, la proroga che segue un
primo affidamento con gara (VI, 16.02.2010, n. 850).
Nell’occasione, questo Consesso ha
rammentato introduttivamente che “la
previsione preclude l'acquisizione della
gestione di servizi ulteriori, con o senza
gara, ai soggetti che gestiscono servizi
pubblici locali ad essi affidati senza il
rispetto dei principi dell'evidenza pubblica
che si condensano nei principi comunitari di
tutela della concorrenza, e, segnatamente,
nei principi di "economicità, efficacia,
imparzialità, trasparenza, adeguata
pubblicità, non discriminazione, parità di
trattamento, mutuo riconoscimento,
proporzionalità", elencati nel co. 2,
richiamato espressamente dal co. 9 del
citato art. 23-bis.”
Posta questa premessa, sulla problematica il
Consiglio ha assunto la seguente, univoca
posizione.
“All'affidamento senza una procedura
competitiva deve essere equiparato il caso
in cui ad un affidamento con gara segua,
dopo la sua scadenza, un regime di proroga
diretta che non trovi fondamento nel diritto
comunitario. Infatti le proroghe dei
contratti affidati con gara sono consentite
se già previste ab origine, e comunque entro
termini determinati. Una volta che il
contratto scada e si proceda ad una sua
proroga senza che essa sia prevista ab
origine, o oltre i limiti temporali
consentiti, la proroga è da equiparare ad un
affidamento senza gara” (VI, n. 850/2010
cit.)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
27.04.2012 n. 2459 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: La
domanda di risarcimento del danno non
sostenuta dalle allegazioni necessarie
all’accertamento della responsabilità
dell’Amministrazione deve essere disattesa:
grava infatti sul danneggiato l’onere di
provare gli elementi costitutivi della
domanda di risarcimento del danno e dunque
in materia di appalti, almeno
successivamente alle recenti pronunce della
Corte di Giustizia UE in materia di elemento
soggettivo, l’entità del danno e il nesso
causale.
Se colui che agisce può eventualmente
offrire al giudice elementi anche solo
indiziari in ordine alla gravità della
violazione o all’univocità della normativa
di riferimento, il medesimo deve almeno
indicare la prova dell’esistenza di un
danno, ovverosia di una diminuzione
patrimoniale o di perdita di chance, ma la
totale assenza di queste ultime indicazioni
priva il giudice anche della possibilità di
una valutazione equitativa.
Pacifica giurisprudenza afferma il principio
che la domanda di risarcimento del danno non
sostenuta dalle allegazioni necessarie
all’accertamento della responsabilità
dell’Amministrazione deve essere disattesa:
grava infatti sul danneggiato l’onere di
provare gli elementi costitutivi della
domanda di risarcimento del danno e dunque
in materia di appalti, almeno
successivamente alle recenti pronunce della
Corte di Giustizia UE in materia di elemento
soggettivo, l’entità del danno e il nesso
causale (Cons. Stato, V, 04.03.2011 n.
1408; id., 06.04.2009 n. 2143; id., 13.06.2008
n. 2967).
Se colui che agisce può eventualmente
offrire al giudice elementi anche solo
indiziari in ordine alla gravità della
violazione o all’univocità della normativa
di riferimento, il medesimo deve almeno
indicare la prova dell’esistenza di un
danno, ovverosia di una diminuzione
patrimoniale o di perdita di chance, ma la
totale assenza di queste ultime indicazioni
priva il giudice anche della possibilità di
una valutazione equitativa
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
27.04.2012 n. 2449 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Se
l’espressione “intervento urbanistico”, di
cui al quinto comma del R.D. 338/1934 (ndr:
area di vincolo cimiteriale), debba
intendersi in senso letterale oppure
–estensivamente- come riferita a qualsiasi
attività di trasformazione del territorio,
comprensiva di opere private di nuova
edificazione.
Orbene, è chiara,
nell’ordinamento, la distinzione tra
l’attività urbanistica e quella edilizia.
La prima concerne la pianificazione
dell’uso del territorio a mezzo dei vari
strumenti urbanistici generali ed attuativi,
ed implica scelte altamente discrezionali in
ordine –per esempio- all’indicazione delle
vie di comunicazione, alla divisione in zone
del territorio comunale, alla fissazione dei
relativi indici di edificabilità, etc.;
la seconda riguarda più propriamente i
singoli interventi costruttivi e, dovendo
svolgersi nel rispetto della prima, ha
carattere sostanzialmente vincolato.
La natura discrezionale o vincolata delle
relative scelte si riflette anche nelle
rispettive competenze, posto che
l’approvazione dei piani territoriali ed
urbanistici, che costituiscono atti generali
di pianificazione e di indirizzo, è
demandata ai consigli comunali (art. 42,
comma 2, lett. b, D.Lgs. 18.08.2000, n.
267), mentre i titoli abilitativi sono
rilasciati dal dirigente competente (art.
13, comma 1, D.P.R. 06.06.2001, n. 380),
proprio sul presupposto che trattasi di
attività vincolata, comportando il mero
accertamento della sua conformità alla
disciplina urbanistica in vigore.
Giova preliminarmente riportare il testo
dell’art. 338 R.D. 27.07.1934 n. 1265, a
mente del quale “1. I cimiteri devono
essere collocati alla distanza di almeno 200
metri dal centro abitato. È vietato
costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici
entro il raggio di 200 metri dal perimetro
dell'impianto cimiteriale, quale risultante
dagli strumenti urbanistici vigenti nel
comune o, in difetto di essi, comunque quale
esistente in fatto, salve le deroghe ed
eccezioni previste dalla legge.
2. Le disposizioni di cui al comma
precedente non si applicano ai cimiteri
militari di guerra quando siano trascorsi 10
anni dal seppellimento dell'ultima salma.
3. Il contravventore è punito con l'ammenda
fino a lire 1000 e deve inoltre, a sue
spese, demolire l'edificio o la parte di
nuova costruzione, salvi i provvedimenti di
ufficio in caso di inadempienza.
4. Il consiglio comunale può approvare,
previo parere favorevole della competente
azienda sanitaria locale, la costruzione di
nuovi cimiteri o l'ampliamento di quelli già
esistenti ad una distanza inferiore a 200
metri dal centro abitato, purché non oltre
il limite di 50 metri, quando ricorrano,
anche alternativamente, le seguenti
condizioni:
a) risulti accertato dal medesimo consiglio comunale che, per
particolari condizioni locali, non sia
possibile provvedere altrimenti;
b) l'impianto cimiteriale sia separato dal centro urbano da strade
pubbliche almeno di livello comunale, sulla
base della classificazione prevista ai sensi
della legislazione vigente, o da fiumi,
laghi o dislivelli naturali rilevanti,
ovvero da ponti o da impianti ferroviari.
5. Per dare esecuzione ad un'opera pubblica
o all'attuazione di un intervento
urbanistico, purché non vi ostino ragioni
igienico-sanitarie, il consiglio comunale
può consentire, previo parere favorevole
della competente azienda sanitaria locale,
la riduzione della zona di rispetto tenendo
conto degli elementi ambientali di pregio
dell'area, autorizzando l'ampliamento di
edifici preesistenti o la costruzione di
nuovi edifici. La riduzione di cui al
periodo precedente si applica con identica
procedura anche per la realizzazione di
parchi, giardini e annessi, parcheggi
pubblici e privati, attrezzature sportive,
locali tecnici e serre.
6. Al fine dell'acquisizione del parere
della competente azienda sanitaria locale,
previsto dal presente articolo, decorsi
inutilmente due mesi dalla richiesta, il
parere si ritiene espresso favorevolmente.
7. All'interno della zona di rispetto per
gli edifici esistenti sono consentiti
interventi di recupero ovvero interventi
funzionali all'utilizzo dell'edificio
stesso, tra cui l'ampliamento nella
percentuale massima del 10 per cento e i
cambi di destinazione d'uso, oltre a quelli
previsti dalle lettere a), b), c) e d) del
primo comma dell'articolo 31 della legge
05.08.1978, n. 457”.
La questione sottoposta al collegio consiste
nello stabilire se l’espressione “intervento
urbanistico”, di cui al quinto comma,
debba intendersi in senso letterale oppure
–estensivamente- come riferita a qualsiasi
attività di trasformazione del territorio,
comprensiva di opere private di nuova
edificazione, come quella oggetto
dell’istanza di permesso di costruire
avanzata dal ricorrente.
Orbene, ritiene il collegio che sia chiara,
nell’ordinamento, la distinzione tra
l’attività urbanistica e quella edilizia.
La prima concerne la pianificazione dell’uso
del territorio a mezzo dei vari strumenti
urbanistici generali ed attuativi, ed
implica scelte altamente discrezionali in
ordine –per esempio- all’indicazione delle
vie di comunicazione, alla divisione in zone
del territorio comunale, alla fissazione dei
relativi indici di edificabilità, etc.; la
seconda riguarda più propriamente i singoli
interventi costruttivi e, dovendo svolgersi
nel rispetto della prima, ha carattere
sostanzialmente vincolato.
La natura discrezionale o vincolata delle
relative scelte si riflette anche nelle
rispettive competenze, posto che
l’approvazione dei piani territoriali ed
urbanistici, che costituiscono atti generali
di pianificazione e di indirizzo, è
demandata ai consigli comunali (art. 42,
comma 2, lett. b, D.Lgs. 18.08.2000, n.
267), mentre i titoli abilitativi sono
rilasciati dal dirigente competente (art.
13, comma 1, D.P.R. 06.06.2001, n. 380),
proprio sul presupposto che trattasi di
attività vincolata, comportando il mero
accertamento della sua conformità alla
disciplina urbanistica in vigore (Cons. di
St., V, 24.08.2007, n. 4507)
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 27.04.2012 n. 594 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
rilascio del certificato di abitabilità di
un fabbricato, conseguente al condono
edilizio, può legittimamente avvenire in
deroga solo a norme regolamentari e non
anche quando siano carenti condizioni di
salubrità richieste invece da fonti
normative di livello primario, in quanto la
disciplina del condono edilizio, per il suo
carattere di eccezionalità e derogatorio,
non è suscettibile di interpretazioni
estensive e, soprattutto, tali da incidere
sul fondamentale principio della tutela
della salute, con evidenti riflessi sul
piano della legittimità costituzionale.
La deroga introdotta dall’art. 35, comma 20,
L. 47/1985 "non riguarda i requisiti
richiesti da disposizioni legislative e
deve, pertanto, escludersi una automaticità
assoluta nel rilascio del certificato di
abitabilità ... a seguito di concessione in
sanatoria, dovendo invece il Comune
verificare che al momento del rilascio del
certificato di abitabilità siano osservate
non solo le disposizioni di cui all'art. 221
T.U. delle leggi sanitarie (rectius, di cui
all'art. 4 del D.p.r. 425/1994), ma, altresì
quelle previste da altre disposizioni di
legge in materia di abitabilità e servizi
essenziali relativi e rispettiva normativa
tecnica .... Permangono, infatti, in capo ai
Comuni tutti gli obblighi inerenti alla
verifica delle condizioni igienico-sanitarie
per l'abitabilità degli edifici, con l'unica
possibile deroga ai requisiti fissati da
norme regolamentari".
Deve ritenersi che le disposizioni di cui al
D.M. 05.07.1975 integrino una normativa di
rango primario in virtù del rinvio disposto
dall’art. 218 del R.D. 27.07.1934, n. 1265,
e pertanto, diversamente dalle disposizioni
integrative e supplementari portate dai
regolamenti comunali di igiene (espressione
di esigenze locali e comunque non attuative
di norme di legge gerarchicamente
sovraordinate), anch’esse –al pari delle
disposizioni in materia di sicurezza statica
e di prevenzione degli incendi e degli
infortuni- siano inderogabili in sede di
rilascio del certificato di abitabilità a
seguito del condono.
Ai sensi della disposizione di cui all’art.
35, comma 20, L. n. 47/1985 (1° condono),
richiamata dall’art. 32, comma 25, del D.L.
30.9.2003, n. 269 (3° condono), “a seguito
della concessione o autorizzazione in
sanatoria viene altresì rilasciato il
certificato di abitabilità o agibilità anche
in deroga ai requisiti fissati da norme
regolamentari, qualora le opere sanate non
contrastino con le disposizioni vigenti in
materia di sicurezza statica, attestata dal
certificato di idoneità di cui alla lettera
b) del terzo comma e di prevenzione degli
incendi e degli infortuni”.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato, in
merito all’interpretazione di detta norma,
ha già avuto modo di affermare che il
rilascio del certificato di abitabilità di
un fabbricato, conseguente al condono
edilizio, può legittimamente avvenire in
deroga solo a norme regolamentari e non
anche quando siano carenti condizioni di
salubrità richieste invece da fonti
normative di livello primario, in quanto la
disciplina del condono edilizio, per il suo
carattere di eccezionalità e derogatorio,
non è suscettibile di interpretazioni
estensive e, soprattutto, tali da incidere
sul fondamentale principio della tutela
della salute, con evidenti riflessi sul
piano della legittimità costituzionale
(Cons. Stato, IV, 30.05.2011, n. 2620, di cui
di seguito è riportato ampio stralcio; id.,
V, 15.04.2004 n. 2140).
Tale orientamento –è stato chiarito-
risulta peraltro coerente con quello
espresso dalla Corte Costituzionale, che,
con sentenza 18.07.1996 n. 256, ha
affermato che la deroga introdotta dall’art.
35, comma 20, "non riguarda i requisiti
richiesti da disposizioni legislative e
deve, pertanto, escludersi una automaticità
assoluta nel rilascio del certificato di
abitabilità ... a seguito di concessione in
sanatoria, dovendo invece il Comune
verificare che al momento del rilascio del
certificato di abitabilità siano osservate
non solo le disposizioni di cui all'art. 221
T.U. delle leggi sanitarie (rectius, di cui
all'art. 4 del D.p.r. 425/1994), ma, altresì
quelle previste da altre disposizioni di
legge in materia di abitabilità e servizi
essenziali relativi e rispettiva normativa
tecnica .... Permangono, infatti, in capo ai
Comuni tutti gli obblighi inerenti alla
verifica delle condizioni igienico-sanitarie
per l'abitabilità degli edifici, con l'unica
possibile deroga ai requisiti fissati da
norme regolamentari".
Orbene, alla luce della giurisprudenza
riportata e della lettura costituzionalmente
orientata della norma, resa dalla Corte
Costituzionale, appare evidente che non è
possibile ritenere che l’art. 35, comma 20,
L. n. 47/1985 contenga una deroga generale
ed indiscriminata alle norme che presidiano
i requisiti di abitabilità degli edifici, e
ciò proprio perché –come chiarito sempre
dalla Corte Costituzionale con la sentenza
citata (e già prima con sentenza n.
427/1995)– detta legge intende contemperare
valori tutti costituzionalmente garantiti,
quali, tra gli altri, da un lato il diritto
alla salute e dall’altro il diritto
all’abitazione e al lavoro.
Una interpretazione che validi una deroga
“generale” alla normativa a tutela della
salute, con particolare riguardo al luogo di
abitazione, si porrebbe, dunque, in
contrasto non solo con l’art. 32 Cost., ma
anche con quelle stesse esigenze di
contemperamento tra diversi valori
costituzionali, proprie della legge n.
47/1995.
Pertanto, mentre possono essere derogate
norme regolamentari, non possono esserlo
norme di legge, in quanto rispetto ad esse
la deroga non è evocata nell’art. 35, comma
20.
Tanto precisato, appare evidente come –nel
definire l’ambito della deroga– non può
assumere esclusiva rilevanza il mero dato
formale dell’appartenenza della disposizione
(e della norma da essa espressa) ad una
fonte primaria (come tale non derogabile)
ovvero ad una fonte secondaria (quindi
derogabile), ma occorre verificare se le
specifiche condizioni igienico-sanitarie
violino norme regolamentari imposte, ad
esempio, dai regolamenti comunali, quale
ulteriore e specifica esigenza da essi
rappresentata con riferimento a specificità
di quel singolo territorio, ovvero si tratti
di norme regolamentari che attuano
precedenti disposizioni primarie.
L’art. 35, comma 20, l. n. 47/1985 ha inteso
evitare che singole, specifiche disposizioni
regolamentari –espressione di esigenze
locali e comunque non attuative di norme di
legge gerarchicamente sovraordinate–
possano costituire, ex post, mediante il
diniego del certificato di abitabilità,
ostacolo al condono, e quindi alla
regolarizzazione, delle costruzioni abusive,
frustrando l’esigenza di “rientro nella
legalità”, che, per il tramite della detta
legge, si è inteso attuare.
Ma, allo stesso tempo, la citata
disposizione non ha inteso porre nel nulla
la tutela igienico-sanitaria degli edifici
e, quindi, il diritto alla salute dei
cittadini.
In altre parole, deve ritenersi che le
disposizioni di cui al D.M. 05.07.1975
integrino una normativa di rango primario in
virtù del rinvio disposto dall’art. 218 del
R.D. 27.07.1934, n. 1265, e pertanto,
diversamente dalle disposizioni integrative
e supplementari portate dai regolamenti
comunali di igiene (espressione di esigenze
locali e comunque non attuative di norme di
legge gerarchicamente sovraordinate),
anch’esse –al pari delle disposizioni in
materia di sicurezza statica e di
prevenzione degli incendi e degli infortuni- siano inderogabili in sede di rilascio del
certificato di abitabilità a seguito del
condono.
In tal senso si è –ancora recentemente–
espressa la giurisprudenza della Sezione
(cfr. TAR Liguria, I, 23.03.2012, n. 422).
Nel caso di specie, è pacifico e non
contestato che l’alloggio in questione,
della superficie complessiva utile di mq.
13,00 (cfr. la perizia giurata 14.03.2012,
produzione 19.03.2012 di parte ricorrente),
non raggiunge la dimensione minima di 28 mq.
stabilita dall’art. 3 del D.M. 05.07.1975 per
l’abitabilità degli alloggi monostanza
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 27.04.2012 n. 593 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: La
destinazione di zona F a servizi
(attrezzature ed impianti di interesse
generale, tra le quali rientrano quelle
religiose) corrisponde a destinazione di
zona di p.r.g. di natura conformativa.
Con ricorso notificato in data 30.11.2005 la
Parrocchia di N.S. del Rosario ha impugnato
la deliberazione del consiglio comunale di
Genova 20.09.2005, n. 89, di controdeduzione
alla osservazione presentata alla variante
di P.U.C. adottata con deliberazione C.C.
11.05.2004, n. 60 e di definitiva
approvazione della variante stessa, che ha
destinato la porzione di area di proprietà
della società controinteressata Park Tennis
Club s.c.r.l., compresa tra via Zara e via
Rosselli, a zona AV (edifici, giardini o
parchi di pertinenza di pregio storico
contraddistinti da valore paesistico e
ambientale costituenti un sistema unitario
da conservare), con conseguente eliminazione
del vincolo a servizi di quartiere derivante
dalla precedente disciplina urbanistica.
...
Il ricorso è inammissibile per difetto di
interesse a ricorrere, sotto un duplice
profilo.
Innanzitutto, come eccepito da entrambe le
difese del comune e della controinteressata,
con deliberazione C.C. 10.09.2010, n. 73 doc.
6 delle produzioni 09.03.2012 di parte
comunale), il comune di Genova ha approvato
la variante generale al P.U.C., con la quale
è stata confermata la disciplina urbanistica
dell’area in questione.
Orbene, se è vero che la disciplina
dell’area ivi contenuta è meramente
confermativa della variante impugnata,
nondimeno essa ha comportato una novazione
della fonte procedimentale del rapporto.
Ne consegue che non trova applicazione al
caso di specie la giurisprudenza formatasi
circa gli effetti automaticamente caducanti
dell’annullamento della delibera comunale di
adozione del piano regolatore sul successivo
provvedimento di approvazione.
L’effetto di caducazione automatica opera
infatti pur sempre nell’ambito di distinte
fasi di un unico procedimento urbanistico,
mentre nel caso di specie ci si trova in
presenza di due distinti procedimenti
urbanistici.
Secondariamente, non risulta provato che la
previgente disciplina urbanistica
contemplasse sull’area in questione un vero
e proprio vincolo preordinato all’esproprio.
Un vincolo di tal fatta sorge infatti
soltanto con la specifica indicazione di una
determinata opera pubblica o di interesse
collettivo o sociale (ex art. 7, comma 1, n. 4
L. 17.08.1942, n. 1150), non già per effetto
della semplice operazione di zonizzazione
(ex art. 7, comma 1, n. 2 L. 17.08.1942, n.
1150), cioè della suddivisione del
territorio comunale in zone con destinazione
urbanistica omogenea, la quale ha la
precipua finalità di indicare la tipologia
di interventi edificatori assentibili e,
conseguentemente, di conformare l'attività
edilizia (TAR Lazio, II, 24.04.2008, n.
3535).
E ciò, ovviamente, anche con riguardo alla
destinazione a zona F ex art. 2 D.M.
02.04.1968 (sottozona FF per servizi di
quartiere di livello urbano o territoriale
destinati a istruzione, interesse comune,
verde, gioco e sport e attrezzature
pubbliche di interesse generale, secondo la
terminologia adottata dal P.U.C. di Genova),
che, in mancanza della specifica previsione
e localizzazione di un determinato
intervento di interesse generale
realizzabile soltanto ad iniziativa
pubblica, costituisce nient’altro che un
vincolo di carattere conformativo.
La giurisprudenza –anche della Sezione- si
è più volte espressa in tal senso,
affermando che la destinazione di zona F a
servizi (attrezzature ed impianti di
interesse generale, tra le quali rientrano
quelle religiose) corrisponde a destinazione
di zona di p.r.g. di natura conformativa
(Cons. di St., IV, 03.08.2010, n. 5155; TAR
Liguria, I, 22.02.2010, n. 663; TAR Puglia-Lecce, I,
06.12.2006, n. 5720).
Né –in senso contrario- risulta decisivo
il tenore delle controdeduzioni
all’osservazione n. 180 al P.R.G. adottato
con deliberazione C.C. 16.07.1997 presentata
dalla controinteressata Park Tennis Club
s.c.r.l. (doc. 12 delle produzioni 05.03.2012
di parte ricorrente), giacché, al di là
dell’improprio riferimento alla reiterazione
del vincolo, la finalità di dotare la chiesa
di un accesso consono attiene, propriamente,
ai motivi della scelta pianificatoria a
sottozona FF.
Stando così le cose, è evidente la carenza
di interesse a ricorrere, in quanto da un
lato la precedente disciplina non conteneva
un vincolo preordinato all’esproprio,
dall’altro anche la nuova disciplina
urbanistica consente a sua volta la
realizzazione dell’intervento auspicato
dalla ricorrente, soltanto che questa
esperisca il procedimento specificamente
previsto dall’art. 10, comma 1, del D.P.R. n.
327/2001 e dall’art. 59 della L.U.R., per
l’approvazione di un’opera di pubblica
utilità non specificamente e direttamente
prevista dal piano urbanistico generale.
Non è provato -in conclusione- che la
nuova destinazione di zona concernente
un’area non appartenente alla ricorrente
incida direttamente su suoi interessi propri
e specifici (Cons. di St., IV, 24.12.2007,
n. 6619), nel senso di precluderle
oggettivamente –come lamentato- la
realizzazione dell’intervento auspicato
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 27.04.2012 n. 592 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
necessario il rilascio di una concessione
edilizia in caso di apertura di un dehor
destinato all'esercizio dell'attività di
ristorazione o di somministrazione di
alimenti e bevande, perché le
caratteristiche tecniche della struttura,
realizzata su suolo pubblico, nonché il
perdurante previsto utilizzo della stessa
nel tempo per il ricevimento della
clientela, costituiscono elementi
sufficienti ad escludere il carattere della
c.d. precarietà strutturale.
Inoltre, trattandosi a tutti gli effetti di
nuova costruzione, trova senz’altro
applicazione l’art. 907 c.c..
Con il secondo ed il terzo motivo la società
ricorrente deduce che l’intervento in
oggetto, concretandosi in opere di
manutenzione di un preesistente manufatto di
natura pertinenziale, non sarebbe
subordinato al previo rilascio di permesso
di costruire, ma unicamente a denuncia di
inizio attività.
Orbene, la ricorrente non ha provato affatto
la regolarità edilizia del preesistente
manufatto, onde la realizzazione del dehor
sanzionato non può in alcun modo
qualificarsi come opera di manutenzione.
Inoltre, anche a voler considerare (il che
non è, come si vedrà infra) l’opera in
questione come una pertinenza, essa,
ricadendo in zona sottoposta a vincolo, era
soggetta a concessione edilizia già nel
vigore dell’art. 7, comma 2, D.L. 23.01.1982,
n. 9 (convertito in legge 25.03.1982, n. 94).
In ogni caso, in relazione a casi analoghi,
la giurisprudenza amministrativa ha
ripetutamente affermato che é necessario il
rilascio di una concessione edilizia in caso
di apertura di un dehor destinato
all'esercizio dell'attività di ristorazione
o di somministrazione di alimenti e bevande,
perché le caratteristiche tecniche della
struttura, realizzata su suolo pubblico,
nonché il perdurante previsto utilizzo della
stessa nel tempo per il ricevimento della
clientela, costituiscono elementi
sufficienti ad escludere il carattere della
c.d. precarietà strutturale (TAR Sicilia-Palermo, III,
06.07.2010, n. 8269;
nello stesso senso cfr. TAR Campania-Napoli, IV, 12.01.2009, n. 68; id.,
15.09.2008, n. 10138; sempre con specifico
riferimento a gezebo destinati alla
ristorazione, cfr. Cons. di St., V.
01.12.2003, n. 7822; id., VI, 27.01.2003, n.
419).
Trattandosi a tutti gli effetti di nuova
costruzione, trova senz’altro applicazione
l’art. 907 c.c.
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 27.04.2012 n. 591 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Presupposto
per l'adozione dell'ordine di demolizione di
opere abusive è soltanto la constatata
esecuzione di un intervento edilizio in
assenza del prescritto titolo abilitativo,
con la conseguenza che, essendo tale ordine
un atto dovuto, esso è sufficientemente
motivato con l'accertamento dell'abuso, e
non necessita di una particolare motivazione
in ordine all'interesse pubblico alla
rimozione dell'abuso stesso, che è in re
ipsa, consistendo nel ripristino
dell'assetto urbanistico violato.
E ciò –a maggior ragione– nel caso in cui vi
sia stato a monte il rigetto dell'istanza di
sanatoria, ciò che esclude in radice che,
all'atto dell'adozione dell'ingiunzione di
demolizione, possa reputarsi sussistente un
qualsiasi affidamento circa la assentibilità
del manufatto.
Con
l’ultimo motivo è censurata la mancanza di
motivazione circa l’interesse pubblico alla
demolizione dell’opera.
Anch’esso è infondato.
Per costante giurisprudenza, anche della
Sezione, presupposto per l'adozione
dell'ordine di demolizione di opere abusive
è soltanto la constatata esecuzione di un
intervento edilizio in assenza del
prescritto titolo abilitativo, con la
conseguenza che, essendo tale ordine un atto
dovuto, esso è sufficientemente motivato con
l'accertamento dell'abuso, e non necessita
di una particolare motivazione in ordine
all'interesse pubblico alla rimozione
dell'abuso stesso, che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell'assetto
urbanistico violato (TAR Campania-Napoli,
VII, 08.04.2011, n. 1999).
E ciò –a maggior ragione– nel caso in cui
vi sia stato a monte il rigetto dell'istanza
di sanatoria, ciò che esclude in radice che,
all'atto dell'adozione dell'ingiunzione di
demolizione, possa reputarsi sussistente un
qualsiasi affidamento circa la assentibilità
del manufatto (TAR Liguria, I, 21.03.2011,
n. 432)
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 27.04.2012 n. 591 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza sulle piscine è molto
variegata e questo stesso tribunale ha
affermato che le piscine in generale hanno
la natura di opere pertinenziali che
non implicano consumo dei suoli per le loro
caratteristiche; vi è comunque
una giurisprudenza maggioritaria che afferma
l’illegittimità degli atti di diniego
assunti dall’amministrazione motivati con
espressioni stereotipate, generiche che non
facciano riferimento ad elementi concreti
della fattispecie considerata quali la
visibilità o l’impatto del manufatto le
dimensioni della piscina in relazione alla
estensione del terreno circostante in cui la
stessa è collocata.
Invero, l'Amministrazione, nell'adottare un
provvedimento di diniego del richiesto
nulla-osta per la costruzione in area
soggetta a vincolo paesaggistico, non può
limitare la sua valutazione al mero
riferimento ad un pregiudizio ambientale,
utilizzando espressioni vaghe o formule
stereotipate, ma tale motivazione deve
contenere una sufficiente esternazione delle
specifiche ragioni per le quali si ritiene
che un'opera non sia idonea ad inserirsi
nell'ambiente, attraverso l'individuazione
degli elementi di contrasto; pertanto,
occorre un concreto ed analitico
accertamento del disvalore delle valenze
paesaggistiche (nel caso di specie, la
motivazione del diniego era del tutto
generica e stereotipata, non essendovi nel
provvedimento alcun riferimento puntuale al
progetto presentato o alla situazione dei
luoghi in cui si sarebbe dovuta realizzare
la piscina).
Premesso che la giurisprudenza sulle piscine
è molto variegata e questo stesso tribunale
ha affermato che le piscine in generale
hanno la natura di opere pertinenziali che
non implicano consumo dei suoli per le loro
caratteristiche (TAR Liguria Genova, sez.
I, 16.02.2008, n. 299); vi è comunque
una giurisprudenza maggioritaria che afferma
l’illegittimità degli atti di diniego
assunti dall’amministrazione motivati con
espressioni stereotipate, generiche che non
facciano riferimento ad elementi concreti
della fattispecie considerata quali la
visibilità o l’impatto del manufatto le
dimensioni della piscina in relazione alla
estensione del terreno circostante in cui la
stessa è collocata.
Si è infatti affermato che
“L'Amministrazione, nell'adottare un
provvedimento di diniego del richiesto nulla
osta per la costruzione in area soggetta a
vincolo paesaggistico, non può limitare la
sua valutazione al mero riferimento ad un
pregiudizio ambientale, utilizzando
espressioni vaghe o formule stereotipate, ma
tale motivazione deve contenere una
sufficiente esternazione delle specifiche
ragioni per le quali si ritiene che un'opera
non sia idonea ad inserirsi nell'ambiente,
attraverso l'individuazione degli elementi
di contrasto; pertanto, occorre un concreto
ed analitico accertamento del disvalore
delle valenze paesaggistiche (nel caso di
specie, la motivazione del diniego era del
tutto generica e stereotipata, non essendovi
nel provvedimento alcun riferimento puntuale
al progetto presentato o alla situazione dei
luoghi in cui si sarebbe dovuta realizzare
la piscina)" (TAR Lazio Roma, sez. II, 08.10.2008, n. 8829).
Ora senza giungere a quelle affermazioni
perentorie che pure si trovano in
giurisprudenza secondo le quali “L'introduzione dell'elemento «piscina» in
uno scenario naturalistico bello come quello
dell'Isola di Capri non comporta, di regola,
l'eliminazione di essenze arboree (o
comunque ne comporta un'eliminazione assai
limitata) e migliora significativamente
l'impatto ambientale” (TAR Campania
Napoli, sez. VI, 06.11.2008, n.
19288), tuttavia va riconosciuto come
afferma il ricorso che nel caso di specie,
non vi è alcun elemento di specificità nel
provvedimento impugnato che consenta al
lettore neppure di immaginare le dimensioni
del manufatto ed il suo rapporto con
l’ambiente circostante.
Ciò denuncia l’esistenza dei numerosi
profili di eccesso di potere lamentati con
il primo motivo di ricorso in relazione alle
notevoli dimensioni del terreno (17.000 mq.)
mantenuto a giardino e parco alberato,
all’interno del quale la piscina di modeste
dimensioni (m. 10,25 per m. 5,30) è collocata.
La documentazione fotografica mostra poi
come il muro di sostegno regolarmente
autorizzato mascheri l’impatto della piscina
risultando pertanto apodittiche e smentite
dai documenti sia “le notevoli dimensioni
del manufatto” apprezzabili solo in
relazione all’estensione ed alla
destinazione dell’ambiente circostante, sia
con riferimento all’affermazione senza
ulteriori specificazioni secondo la quale la
piscina “non si inserirebbe in maniera
appropriata” nel contesto naturalistico
sottoposto a tutela
(TAR Liguria. Sez. I,
sentenza 27.04.2012 n. 582 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
natura di locale tecnico presuppone in
materia edilizia un’oggettiva relazione di
funzionalità tra il locale e l'edificio,
desumibile dalla dislocazione in esso
d’impianti di servizio.
Quanto al secondo e più delicato aspetto in
cui si afferma che il locale tecnico ove
sono collocate le pompe sarebbe stato
realizzato attraverso un movimento di terra
e la costruzione di un locale interrato in
violazione degli artt. 7 e 13 delle NdA del
PRG del monte di Portofino, va anzitutto
evidenziato che in assenza di costituzione
dell’amministrazione intimata, la
documentazione depositata propone una
ricostruzione dei fatti differenti.
Il locale pompe risulta infatti dal progetto
oltre che totalmente interrato, realizzato
all’interno di un muro di contenimento di
una piccola terrazza esistente.
Pertanto nessuna costruzione né movimento di
terra appare posto in essere sulla base del
progetto presentato.
Inoltre la funzione e le dimensioni del
locale (m. 2,55 lunghezza per m. 1,35 largh.
Per m.1,20 di h.) ne testimoniano la natura
puramente tecnica, a servizio della piscina.
La giurisprudenza recente di questa sezione
ha in proposito avuto modo di affermare che
“la natura di locale tecnico presuppone in
materia edilizia un’oggettiva relazione di
funzionalità tra il locale e l'edificio,
desumibile dalla dislocazione in esso
d’impianti di servizio" (TAR Liguria
Genova, sez. I, 18.11.2010, n.
10389).
Ciò premesso va ricordato che l’art. 64, del
codice del processo amministrativo
(D.lgs. 02.07.2010 n. 104) dopo aver affermato
che spetta alle parti l’onere di fornire gli
elementi di prova che sono nella loro
disponibilità, impone al giudice di porre a
fondamento della lite, secondo il suo
prudente apprezzamento, le prove proposte
dalle parti, nonché desumere argomenti di
prova dal comportamento processuale tenuto
dalle parti nel corso del processo.
Nel caso di specie, a fronte del progetto
presentato dalla parte e dalla
documentazione versata in atti vi è
l’assenza di costituzione
dell’amministrazione che pure lamenta la
compromissione di un bene tutelato, ma che
in oltre dieci anni non si è costituita né
ha depositato documentazione integrativa a
sostegno del provvedimento impugnato
(TAR Liguria. Sez. I,
sentenza 27.04.2012 n. 582 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - LAVORI PUBBLICI:
Ai sensi dell'art. 48, d.lgs. 18.08.2000 n. 267 rientra nella competenza
della giunta municipale l'approvazione dello
schema del programma triennale e del suo
aggiornamento annuale, quale atto di
proposta e di impulso, mentre per
l'approvazione definitiva del programma e
dell'elenco annuale delle opere da
realizzare è competente solo il consiglio
comunale, ai sensi del precedente art. 42,
trattandosi di atto di programmazione e di
indirizzo.
Come si afferma in giurisprudenza, “ai sensi dell'art. 48, d.lgs. 18.08.2000 n. 267 rientra nella competenza
della giunta municipale l'approvazione dello
schema del programma triennale e del suo
aggiornamento annuale, quale atto di
proposta e di impulso, mentre per
l'approvazione definitiva del programma e
dell'elenco annuale delle opere da
realizzare è competente solo il consiglio
comunale, ai sensi del precedente art. 42,
trattandosi di atto di programmazione e di
indirizzo” (cfr. C. Stato, sez. IV, 12.05.2009,
n. 2910)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 24.04.2012 n. 802 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
E' il progetto definitivo ad
assumere la valenza di dichiarazione di
pubblica utilità ed urgenza e pertanto la
sua approvazione richiede la contestuale
variazione della disciplina urbanistica
affinché vi sia sempre perfetta simmetria
tra l’opera pubblica approvata e le
previsioni dello strumento urbanistico
generale.
L’infondatezza
del sesto motivo di ricorso, con il quale si
lamenta la pretermissione del momento
dialogico scolpito dall’art. 7 della legge n.
241/1990, si deve alla circostanza, più volte
peraltro evidenziata in ricorso, della nuova
comunicazione di avviso procedimentale del
23.01.2006 a seguito della riapprovazione
del progetto preliminare; non assume
l’auspicato rilievo viziante la circostanza
della successione cronologica tra
approvazione del progetto preliminare e la
successiva variante allo strumento
urbanistico, in quanto è il progetto
definitivo ad assumere la valenza di
dichiarazione di pubblica utilità ed urgenza
(TAR Campania Salerno, sez. I, 09.11.2007,
n. 2482) e pertanto la sua approvazione
richiede la contestuale variazione della
disciplina urbanistica affinché vi sia
sempre perfetta simmetria tra l’opera
pubblica approvata e le previsioni dello
strumento urbanistico generale (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 24.04.2012 n. 802 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione dell'istanza di
accertamento di conformità ai sensi
dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001,
produce l'effetto di rendere improcedibile
l'impugnazione dell'ordine di demolizione
dell'opera edilizia ritenuta abusiva per
sopravvenuta carenza di interesse; tanto
perché l'esercizio della facoltà di
regolarizzare la propria posizione da parte
del privato impedisce l'esercizio del potere
repressivo dell'amministrazione, almeno fino
a quando la stessa non si pronunci in senso
negativo sull'istanza medesima, ed, inoltre,
in quanto l'applicazione di detto principio,
determina, sotto l'aspetto processuale, la
sopravvenuta carenza di interesse
all'annullamento dell'atto sanzionatorio in
relazione al quale è stata prodotta la
suddetta domanda di sanatoria e la
traslazione e differimento dell'interesse ad
impugnare verso il futuro provvedimento che,
eventualmente, respinga la domanda medesima,
disponendo nuovamente la demolizione
dell'opera edilizia ritenuta abusiva.
---------------
La circostanza che l'immobile abusivamente
realizzato sia sottoposto a sequestro penale
non osta all'adozione dell'ordine di
demolizione, dal momento che è possibile
motivatamente domandare all'autorità
giudiziaria il dissequestro dell'immobile
proprio al fine di ottemperare al predetto
ordine. Pertanto è legittima l'ingiunzione a
demolire emessa in pendenza di sequestro
penale sul manufatto abusivo, dal momento
che è onere del responsabile motivatamente
domandare all'autorità giudiziaria il
dissequestro dell'immobile e, pertanto,
qualora il soggetto obbligato neppure
dimostri di aver richiesto il dissequestro
del bene allo scopo di demolirlo, non può
successivamente far valere il fatto del
sequestro quale causa di forza maggiore
impeditiva della demolizione.
Il
ricorso va dichiarato improcedibile per
sopravvenuta carenza di interesse dopo la
presentazione di istanza di accertamento di
conformità prot. n. 938 del 12.01.2010.
E’ noto, infatti, che “La presentazione
dell'istanza di accertamento di conformità
ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del
2001, produce l'effetto di rendere
improcedibile l'impugnazione dell'ordine di
demolizione dell'opera edilizia ritenuta
abusiva per sopravvenuta carenza di
interesse; tanto perché l'esercizio della
facoltà di regolarizzare la propria
posizione da parte del privato impedisce
l'esercizio del potere repressivo
dell'amministrazione, almeno fino a quando
la stessa non si pronunci in senso negativo
sull'istanza medesima, ed, inoltre, in
quanto l'applicazione di detto principio,
determina, sotto l'aspetto processuale, la
sopravvenuta carenza di interesse
all'annullamento dell'atto sanzionatorio in
relazione al quale è stata prodotta la
suddetta domanda di sanatoria e la
traslazione e differimento dell'interesse ad
impugnare verso il futuro provvedimento che,
eventualmente, respinga la domanda medesima,
disponendo nuovamente la demolizione
dell'opera edilizia ritenuta abusiva” (cfr.
TAR Campania Salerno, sez. I, 22.02.2011, n. 350).
---------------
Va
osservato, secondo costante giurisprudenza,
che “La circostanza che l'immobile
abusivamente realizzato sia sottoposto a
sequestro penale non osta all'adozione
dell'ordine di demolizione, dal momento che
è possibile motivatamente domandare
all'autorità giudiziaria il dissequestro
dell'immobile proprio al fine di ottemperare
al predetto ordine. Pertanto è legittima
l'ingiunzione a demolire emessa in pendenza
di sequestro penale sul manufatto abusivo,
dal momento che è onere del responsabile
motivatamente domandare all'autorità
giudiziaria il dissequestro dell'immobile e,
pertanto, qualora il soggetto obbligato
neppure dimostri di aver richiesto il
dissequestro del bene allo scopo di
demolirlo, non può successivamente far
valere il fatto del sequestro quale causa di
forza maggiore impeditiva della demolizione”
(cfr TAR Campania Napoli, sez. IV, 13.01.2011,
n. 84) (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 24.04.2012 n. 802 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per accertare se
sussistono o meno i presupposti per la
decadenza di un permesso di costruire o di
una concessione edilizia l'effettivo inizio
dei lavori deve essere valutato non in via
generale ed astratta, ma con specifico
riferimento all'entità ed alle dimensioni
dell'intervento edificatorio programmato ed
autorizzato, all'evidente scopo di evitare
che il termine prescritto possa essere eluso
con ricorso a lavori fittizi e simbolici e
non oggettivamente significativi di un
effettivo intendimento del titolare della
concessione di procedere alla realizzazione
dell'opera assentita.
Si afferma condivisibilmente in giurisprudenza che “Per accertare se
sussistono o meno i presupposti per la
decadenza di un permesso di costruire o di
una concessione edilizia l'effettivo inizio
dei lavori deve essere valutato non in via
generale ed astratta, ma con specifico
riferimento all'entità ed alle dimensioni
dell'intervento edificatorio programmato ed
autorizzato, all'evidente scopo di evitare
che il termine prescritto possa essere eluso
con ricorso a lavori fittizi e simbolici e
non oggettivamente significativi di un
effettivo intendimento del titolare della
concessione di procedere alla realizzazione
dell'opera assentita” (cfr. T.A.R Abruzzo
Pescara, sez. I, 29.03.2011, n. 193).
Proprio l’assai ridotta consistenza dello
scavo realizzato (mq. 6 per una profondità
di cm. 90), peraltro unico intervento
riscontrato nell’area di cantiere, rispetto
a quello programmato (mq. 250 per una
profondità di mt. 9,00) non consente di
configurare un effettivo inizio dei lavori
secondo i criteri enucleati in
giurisprudenza.
Né può assumere l’auspicato
rilievo la circostanza del ridotto lasso
temporale intercorrente tra la data di
rilascio del permesso di costruire
(11.03.2010) e l’entrata in vigore delle
nuove disposizioni del P.U.C. (13.03.2010)
in quanto essa può al più rilevare
nell’ambito di un giudizio di colpevolezza
che non ha diritto di cittadinanza rispetto
al dato obiettivo -il solo preso in
considerazione dalla norma di cui all’art.
15, comma 4, del D.P.R. n. 380/2001,- del
mancato inizio dei lavori quale causa ex
se giustificativa ai fini della
decadenza del permesso di costruire in caso
di sopravvenienza di contrastanti
disposizioni urbanistiche (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 24.04.2012 n. 799 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presenza sull’area interessata
dai lavori abusivi del vincolo archeologico
non assume carattere ineluttabilmente
ostativo al rilascio del titolo edilizio in
sanatoria, come evidenziato in
giurisprudenza.
Invero,
l’art. 32, co. 27, lett. d), d.l. 269/2003,
convertito dalla l. 326/2003, “fermo
restando quanto previsto dagli artt. 32 e 33
della l. 47/1985, prescrive l'insuscettibilità
della sanatoria di opere edilizie non
autorizzate, realizzate su immobili soggetti
a vincoli imposti sulla base di leggi
statali e regionali a tutela degli interessi
idrogeologici e delle falde acquifere, dei
beni ambientali e paesistici, nonché dei
parchi e delle aree protette nazionali,
regionali e provinciali istituiti prima
della esecuzione di dette opere, ove le
stesse non siano conformi alle norme
urbanistiche ed alle prescrizioni degli
strumenti urbanistici; quest'ultima
condizione, che costituisce una novità
rispetto alle precedenti leggi sul condono
edilizio, ha dato vita ad un meccanismo di
sanatoria che si avvicina fortemente
all'istituto dell'accertamento di
conformità, previsto dall'art. 36 T.U. 380
/2001”.
Il complessivo tenore della
disciplina di riferimento, segnatamente
l’art. 32 comma 27, lett. d), d.l. n. 269
del 2003 convertito dalla l. n. 326 del
2003, consente quindi di affermare che “il
condono delle opere realizzate su aree
vincolate è ammissibile solo in due ipotesi,
previste disgiuntamente, costituite dalla
realizzazione delle opere abusive prima
dell'imposizione dei vincoli (e in questo
caso trattasi della mera riproposizione di
una caratteristica propria della disciplina
posta dalle due precedenti leggi sul condono
con riferimento ai vincoli di inedificabilità assoluta di cui all'art. 33,
comma 1, l. n. 47 del 1985); dal fatto che
le opere oggetto di sanatoria, benché non
assentite o difformi dal titolo abilitativo,
risultino comunque conformi alle norme
urbanistiche e alle prescrizioni degli
strumenti urbanistici”.
Invero, la presenza sull’area interessata dai lavori abusivi del vincolo
archeologico non assume carattere
ineluttabilmente ostativo al rilascio del
titolo edilizio in sanatoria, come
evidenziato in giurisprudenza.
Invero,
l’art. 32, co. 27, lett. d), d.l. 269/2003,
convertito dalla l. 326/2003, espressamente
citato nel provvedimento impugnato, “fermo
restando quanto previsto dagli artt. 32 e 33
della l. 47/1985, prescrive l'insuscettibilità
della sanatoria di opere edilizie non
autorizzate, realizzate su immobili soggetti
a vincoli imposti sulla base di leggi
statali e regionali a tutela degli interessi
idrogeologici e delle falde acquifere, dei
beni ambientali e paesistici, nonché dei
parchi e delle aree protette nazionali,
regionali e provinciali istituiti prima
della esecuzione di dette opere, ove le
stesse non siano conformi alle norme
urbanistiche ed alle prescrizioni degli
strumenti urbanistici; quest'ultima
condizione, che costituisce una novità
rispetto alle precedenti leggi sul condono
edilizio, ha dato vita ad un meccanismo di
sanatoria che si avvicina fortemente
all'istituto dell'accertamento di
conformità, previsto dall'art. 36 T.U. 380
/2001”.
Il complessivo tenore della
disciplina di riferimento, segnatamente
l’art. 32 comma 27, lett. d), d.l. n. 269
del 2003 convertito dalla l. n. 326 del
2003, consente quindi di affermare che “il
condono delle opere realizzate su aree
vincolate è ammissibile solo in due ipotesi,
previste disgiuntamente, costituite dalla
realizzazione delle opere abusive prima
dell'imposizione dei vincoli (e in questo
caso trattasi della mera riproposizione di
una caratteristica propria della disciplina
posta dalle due precedenti leggi sul condono
con riferimento ai vincoli di inedificabilità assoluta di cui all'art. 33,
comma 1, l. n. 47 del 1985); dal fatto che
le opere oggetto di sanatoria, benché non
assentite o difformi dal titolo abilitativo,
risultino comunque conformi alle norme
urbanistiche e alle prescrizioni degli
strumenti urbanistici”. E’ proprio questo
profilo che l’Amministrazione ha omesso di
considerare in sede di diniego del condono
edilizio, per tal via consolidandosi il
difetto di motivazione, come denunciato dal
ricorrente.
Il provvedimento impugnato è quindi
illegittimo, risultando assorbita ogni altra
censura, ivi compresa quella di cui al terzo
motivo di gravame, relativa all’ordinanza di
demolizione, avendo tale atto carattere
conseguenziale al precedente diniego (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 24.04.2012 n. 786 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Secondo quanto stabilito dal
comma 13 dell’art. 37 del d.lgs. n.
163/2006, “i concorrenti riuniti in
raggruppamenti temporanei devono eseguire le
prestazioni nella percentuali corrispondente
alla quota di partecipazione”. Tale norma
pone la regola del parallelismo tra quote di
partecipazione e quote di esecuzione e
quindi tra quote di qualificazione e quote
di partecipazione all'A.T.I. affinché la
stazione appaltante possa concretamente
verificare la serietà ed affidabilità
dell’offerta.
La indicazione delle rispettive quote
percentuali di partecipazione ai lavori in
seno all’offerta del concorrente
raggruppato, ha la specifica finalità di
consentire alla stazione appaltante di
verificare che tale indicazione venga
concretamente rispettata nella fase di
attuazione del programma contrattuale,
ancorché la fase dell’esecuzione non sia
connotata da una rigida e meccanica
applicazione di tale regola della
corrispondenza, in quanto, qualora dopo la
stipulazione del contratto si verifichino
eventi sopravvenuti idonei ad incidere sul
contenuto del contratto, è possibile, nei
limiti consentiti dal Codice degli appalti,
adeguare il contenuto stesso, anche
eventualmente in ordine alla distribuzione
delle quote di esecuzione, alla nuova
situazione fattuale.
---------------
Deve ritenersi sussistente lo specifico
obbligo delle imprese associate in ATI
orizzontale di dichiarare espressamente le
quote di partecipazione, di svolgere la
corrispondente percentuale del lavoro ed
altresì di essere qualificata, ciascuna, per
un importo non inferiore alla quota assunta:
ciò in quanto l'associazione orizzontale
serve bensì a consentire a più imprese
associate di potersi aggiudicare gare per
cui non sarebbero state singolarmente idonee
sotto il profilo tecnico o finanziario, ma
senza che ciò consenta loro di aggirare le
norme sulla qualificazione che, appunto,
deve sussistere in capo a ciascuna in misura
almeno pari all'entità di lavoro che essa
dovrà svolgere.
---------------
Va escluso dalla gara, in applicazione
dell'art. 3 del D.P.R. n. 34/2000, il
Raggruppamento nel quale una delle imprese
mandanti non possiede qualificazione
sufficiente ad effettuare la quota pari al
cinquanta per cento dei lavori relativi alla
categoria prevalente che il programma
dell'associazione l'aveva designata a
svolgere. Infatti, l'attuale sistema si
propone di perseguire la finalità di evitare
le distorsioni del precedente, in cui non vi
era necessaria correlazione tra quota di
lavori svolta da ciascuna associata e quota
di partecipazione della stessa nell'ambito
dell'associazione, e privilegia il principio
di effettiva corrispondenza tra quota di
qualificazione, quota di partecipazione
all'ATI e quota di esecuzione dei lavori.
---------------
La disposizione dell'art. 13 della legge n.
109/1994 impone a tutte le imprese di una
costituenda ATI partecipante alle procedure
ad evidenza pubblica che la mandataria e le
altre imprese associate siano già in
possesso dei requisiti di qualificazione per
la rispettiva quota percentuale, essendo
necessaria la previa indicazione delle quote
di partecipazione di tutte e di ciascuna
impresa fin dall'ammissione alla gara.
---------------
Ai sensi dell'art. 13, comma 5, della legge
n. 109/1994 e dell'art. 93, comma 1, del
D.P.R. n. 554/1999, deve ritenersi che
sussista l'obbligo per le imprese di un
Raggruppamento temporaneo di imprese,
orizzontale o verticale, di indicare
l'importo dei lavori in relazione alle
singole partecipanti, anche in assenza di
previsione in seno alla lex specialis, in
modo da permettere subito la verifica dei
requisiti di partecipazione alla gara,
atteso che la normativa vigente si impernia
su un principio di corrispondenza
sostanziale, già nella fase della offerta,
tra quote di qualificazione e quote di
partecipazione all'A.T.I. (art. 13, comma 1,
della legge n. 109/1994) e tra quote di
partecipazione e quote di esecuzione (art.
93, comma 4, del D.P.R. 554/1999).
---------------
Ai sensi dell'art. 37, d.lgs. 12.04.2006 n.
163, nelle gare indette per l'aggiudicazione
di appalti di lavori pubblici, ai fini
dell'ammissione alla gara di un
raggruppamento consortile o di un'A.T.I.
occorre che già nella fase di offerta sia
evidenziata la corrispondenza sostanziale
tra quote di qualificazione e quote di
partecipazione, nonché tra quote di
partecipazione e quote di esecuzione,
trattandosi di obbligo costituente
espressione di un principio generale che
prescinde dall'assoggettamento o meno della
gara alla disciplina comunitaria e non
consente distinzioni legate alla natura
morfologica del raggruppamento (verticale o
orizzontale), o alla tipologia delle
prestazioni (principali o secondarie,
scorporabili o unitarie).
La ricorrente principale osserva di non aver costituito un’ATI verticale,
ma orizzontale, sicché sarebbe rilevante ai
fini della partecipazione unicamente la
qualificazione complessiva dell’ATI
costituenda, stante il regime di
responsabilità solidale che avvince le
rispettive posizioni delle singole imprese.
Un tale ragionamento non può essere
condiviso, trovando applicazione anche nel
caso di specie quanto stabilito dal comma 13
dell’art. 37 del d.lgs. n. 163/2006, il
quale prevede che “i concorrenti riuniti in
raggruppamenti temporanei devono eseguire le
prestazioni nella percentuali corrispondente
alla quota di partecipazione”. Tale norma
pone la regola del parallelismo tra quote di
partecipazione e quote di esecuzione e
quindi tra quote di qualificazione e quote
di partecipazione all'A.T.I. affinché la
stazione appaltante possa concretamente
verificare la serietà ed affidabilità
dell’offerta.
La indicazione delle
rispettive quote percentuali di
partecipazione ai lavori in seno all’offerta
del concorrente raggruppato, ha la specifica
finalità di consentire alla stazione
appaltante di verificare che tale
indicazione venga concretamente rispettata
nella fase di attuazione del programma
contrattuale, ancorché la fase
dell’esecuzione non sia connotata da una
rigida e meccanica applicazione di tale
regola della corrispondenza, in quanto,
qualora dopo la stipulazione del contratto
si verifichino eventi sopravvenuti idonei ad
incidere sul contenuto del contratto, è
possibile, nei limiti consentiti dal Codice
degli appalti, adeguare il contenuto stesso,
anche eventualmente in ordine alla
distribuzione delle quote di esecuzione,
alla nuova situazione fattuale (TAR
Calabria Catanzaro, sez. II, 28.07.2008,
n. 1101).
È invero assolutamente consolidata
la giurisprudenza che afferma che “...deve
ritenersi sussistente lo specifico obbligo
delle imprese associate in ATI orizzontale
di dichiarare espressamente le quote di
partecipazione, di svolgere la
corrispondente percentuale del lavoro ed
altresì di essere qualificata, ciascuna, per
un importo non inferiore alla quota
assunta: ciò in quanto l'associazione
orizzontale serve bensì a consentire a più
imprese associate di potersi aggiudicare
gare per cui non sarebbero state
singolarmente idonee sotto il profilo
tecnico o finanziario, ma senza che ciò
consenta loro di aggirare le norme sulla
qualificazione che, appunto, deve sussistere
in capo a ciascuna in misura almeno pari
all'entità di lavoro che essa dovrà
svolgere” (cfr., C.G.A., nn. 88 dell'08.03.2005 e 221 del 21.03.2007).
Della questione si è occupato spesso il
TAR Palermo, che ha costantemente
affermato che "va escluso dalla gara, in
applicazione dell'art. 3 del D.P.R. n.
34/2000, il Raggruppamento nel quale una
delle imprese mandanti non possiede
qualificazione sufficiente ad effettuare la
quota pari al cinquanta per cento dei lavori
relativi alla categoria prevalente che il
programma dell'associazione l'aveva
designata a svolgere. Infatti, l'attuale
sistema si propone di perseguire la finalità
di evitare le distorsioni del precedente, in
cui non vi era necessaria correlazione tra
quota di lavori svolta da ciascuna associata
e quota di partecipazione della stessa
nell'ambito dell'associazione, e privilegia
il principio di effettiva corrispondenza tra
quota di qualificazione, quota di
partecipazione all'ATI e quota di esecuzione
dei lavori" (Sez. 3^, n. 2368 del 25.10.2006).
Con altra sentenza (la n. 1001 dell'01.03.2007), la VI Sezione del Consiglio di Stato
ha affermato che "...la disposizione
dell'art. 13 della legge n. 109/1994 impone
a tutte le imprese di una costituenda ATI
partecipante alle procedure ad evidenza
pubblica che la mandataria e le altre
imprese associate siano già in possesso dei
requisiti di qualificazione per la
rispettiva quota percentuale, essendo
necessaria la previa indicazione delle quote
di partecipazione di tutte e di ciascuna
impresa fin dall'ammissione alla gara".
Ed ancora: il Consiglio di Stato ha statuito
che "ai sensi dell'art. 13, comma 5, della
legge n. 109/1994 e dell'art. 93, comma 1,
del D.P.R. n. 554/1999, deve ritenersi che
sussista l'obbligo per le imprese di un
Raggruppamento temporaneo di imprese,
orizzontale o verticale, di indicare
l'importo dei lavori in relazione alle
singole partecipanti, anche in assenza di
previsione in seno alla lex specialis, in
modo da permettere subito la verifica dei
requisiti di partecipazione alla gara,
atteso che la normativa vigente si impernia
su un principio di corrispondenza
sostanziale, già nella fase della offerta,
tra quote di qualificazione e quote di
partecipazione all'A.T.I. (art. 13, comma
1, della legge n. 109/1994) e tra quote di
partecipazione e quote di esecuzione (art.
93, comma 4, del D.P.R. 554/1999")
(Consiglio di Stato-Sezione 6^, n. 2310
dell'11.05.2007; C.G.A., n. 116 del 31.03.2006).
Tale orientamento è stato di recente
confermato dal Supremo Consesso di Giustizia
Amministrativa, laddove ha affermato che “Ai
sensi dell'art. 37, d.lgs. 12.04.2006 n.
163, nelle gare indette per l'aggiudicazione
di appalti di lavori pubblici, ai fini
dell'ammissione alla gara di un
raggruppamento consortile o di un'A.T.I.
occorre che già nella fase di offerta sia
evidenziata la corrispondenza sostanziale
tra quote di qualificazione e quote di
partecipazione, nonché tra quote di
partecipazione e quote di esecuzione,
trattandosi di obbligo costituente
espressione di un principio generale che
prescinde dall'assoggettamento o meno della
gara alla disciplina comunitaria e non
consente distinzioni legate alla natura
morfologica del raggruppamento (verticale o
orizzontale), o alla tipologia delle
prestazioni (principali o secondarie,
scorporabili o unitarie)” (cfr. C. Stato
sez. IV, 27.01.2011, n. 606)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 24.04.2012 n. 785 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'interesse strumentale del
partecipante ad una gara pubblica di appalto
ad ottenerne la riedizione non sussiste in
capo al soggetto legittimamente escluso,
dato che esso, per effetto dell'esclusione è
privo non solo del titolo legittimante a
partecipare alla gara, ma anche a
contestarne gli esiti e la legittimità delle
distinte scansioni procedimentali; ed invero
il suo interesse, da qualificare di mero
fatto, non è diverso da quello di qualsiasi
operatore del settore che, non avendo
partecipato alla gara, non ha titolo ad
impugnarne gli atti, pur essendo titolare di
un interesse di mero fatto alla caducazione
dell'intera selezione, al fine di poter
presentare la propria offerta nel caso di
riedizione della medesima gara.
Invero,
“L'interesse strumentale del partecipante ad
una gara pubblica di appalto ad ottenerne la
riedizione non sussiste in capo al soggetto
legittimamente escluso, dato che esso, per
effetto dell'esclusione è privo non solo del
titolo legittimante a partecipare alla gara,
ma anche a contestarne gli esiti e la
legittimità delle distinte scansioni
procedimentali; ed invero il suo interesse,
da qualificare di mero fatto, non è diverso
da quello di qualsiasi operatore del settore
che, non avendo partecipato alla gara, non
ha titolo ad impugnarne gli atti, pur
essendo titolare di un interesse di mero
fatto alla caducazione dell'intera
selezione, al fine di poter presentare la
propria offerta nel caso di riedizione della
medesima gara” (cfr. C. Stato. sez. IV, 12.01.2011,
n. 127).
La domanda risarcitoria non può che
essere disattesa, fondandosi sulla pretesa
illegittimità degli atti impugnati
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 24.04.2012 n. 785 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione
della domanda di condono o di accertamento
di conformità in data successiva
all’impugnazione dell’ordinanza di
demolizione produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione stessa per
carenza sopravvenuta di interesse, in quanto
l’istanza di sanatoria comporta il riesame
dell’abusività dell’opera mediante
l’emanazione di un nuovo provvedimento, di
accoglimento o di rigetto, che vale comunque
a superare il provvedimento sanzionatorio
oggetto dell'impugnativa.
Rileva il Tribunale che –stante l’ottenuta sanatoria per gli abusi,
contestati sub-3) dell’impugnata ordinanza,
e la presentazione di domanda di
accertamento di conformità, ex art. 37 d.P.R. 380/2011, relativamente alle altre opere
abusive, sanzionate con la medesima– il
ricorso è divenuto improcedibile, per
sopravvenuta carenza d’interesse,
conformemente al fermissimo orientamento
della giurisprudenza, espresso, ex multis,
nella massima che segue: “La presentazione
della domanda di condono o di accertamento
di conformità in data successiva
all’impugnazione dell’ordinanza di
demolizione produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione stessa per
carenza sopravvenuta di interesse, in quanto
l’istanza di sanatoria comporta il riesame
dell’abusività dell’opera mediante
l’emanazione di un nuovo provvedimento, di
accoglimento o di rigetto, che vale comunque
a superare il provvedimento sanzionatorio
oggetto dell'impugnativa” (TAR Lazio
Roma, sez. II, 13.12.2010, n. 36294) (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 24.04.2012 n. 770 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La denunzia di
inizio attività non ha valore di
provvedimento amministrativo né lo acquista
in virtù del decorso del termine previsto
per l’attività di riscontro della p. a.,
sicché la sua impugnativa è inammissibile.
La d.i.a. in materia di edilizia costituisce
un atto soggettivamente ed oggettivamente
privato che in presenza delle condizioni
richieste attribuisce al privato una
legittimazione ex lege allo svolgimento di
una determinata attività, che viene quindi
liberalizzata. Da quanto detto deriva che,
decorso il termine senza l’esercizio, da
parte della p. a., del potere inibitorio, il
terzo controinteressato potrà avvalersi solo
dei provvedimenti sanzionatori previsti,
facendo ricorso, in caso di inerzia, alla
procedura del silenzio–rifiuto, che avrà
quindi come riferimento solo il generale
potere sanzionatorio e non quello
inibitorio, dato che il giudice non potrebbe
comunque costringere l’amministrazione ad
esercitare un potere da cui è decaduta;
pertanto, deve essere dichiarato
inammissibile il ricorso con cui il
controinteressato impugna il c. d. atto
abilitativo tacito formatosi sulla d.i.a.
anziché chiedere al Comune direttamente la
rimozione dell’atto, una volta scaduto il
termine di esercizio del potere inibitorio
dell’amministrazione.
Secondo la giurisprudenza prevalente, infatti: “La denunzia di
inizio attività non ha valore di
provvedimento amministrativo né lo acquista
in virtù del decorso del termine previsto
per l’attività di riscontro della p. a.,
sicché la sua impugnativa è inammissibile”
(TAR Campania Napoli, sez. III, 01.12.2008, n. 20723).
Né, del resto, potrebbe giungersi a diverse
conclusioni, ove si ritenesse che la
ricorrente (che afferma, a fol. 5 del
ricorso, d’aver interesse ad impugnare “il
provvedimento emesso dal Comune di Pollica”),
abbia inteso gravare l’atto abilitativo
tacito, formatosi a cagione del mancato
esercizio da parte del Comune, nel termine
di legge, del proprio potere inibitorio.
Tanto, in conformità all’ulteriore massima
che segue: “La d.i.a. in materia di
edilizia costituisce un atto soggettivamente
ed oggettivamente privato che in presenza
delle condizioni richieste attribuisce al
privato una legittimazione ex lege allo
svolgimento di una determinata attività, che
viene quindi liberalizzata.
Da quanto detto
deriva che, decorso il termine senza
l’esercizio, da parte della p. a., del
potere inibitorio, il terzo controinteressato potrà avvalersi solo dei
provvedimenti sanzionatori previsti, facendo
ricorso, in caso di inerzia, alla procedura
del silenzio–rifiuto, che avrà quindi come
riferimento solo il generale potere
sanzionatorio e non quello inibitorio, dato
che il giudice non potrebbe comunque
costringere l’amministrazione ad esercitare
un potere da cui è decaduta; pertanto, deve
essere dichiarato inammissibile il ricorso
con cui il controinteressato impugna il c.
d. atto abilitativo tacito formatosi sulla
d.i.a. anziché chiedere al Comune
direttamente la rimozione dell’atto, una
volta scaduto il termine di esercizio del
potere inibitorio dell’amministrazione” (TAR Calabria Catanzaro, sez. II,
10.05.2007, n. 404; conforme: TAR Puglia
Lecce, sez. I, 10.11.2006, n. 5284) (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 24.04.2012 n. 769 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 146, comma 12 –nella versione
modificata dall’entrata in vigore del d.lgs.
n. 157 del 2006– prevede che non possano
più essere rilasciate autorizzazioni
paesaggistiche “in sanatoria”, ossia
successive alla realizzazione, anche
parziale, degli interventi, salvo le ipotesi
tassative volte a sanare “ex post” gli
interventi abusivi di cui all’art. 167; in
tali casi deve essere instaurata un’apposita
procedura ad istanza della parte interessata
che contempla –a differenza dell’ordinario
procedimento di rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica (in vigore in via transitoria)– l’accertamento della compatibilità
paesaggistica, demandato all’amministrazione
preposta alla gestione del vincolo, previa
acquisizione del parere della Soprintendenza
che nella particolare fattispecie in esame
assume carattere non solo obbligatorio, ma
vincolante.
Il Collegio osserva come l’art. 167 del d. l.vo 42/04, ai commi 4 e 5,
stabilisca:
“L’autorità amministrativa competente
accerta la compatibilità paesaggistica,
secondo le procedure di cui al comma 5, nei
seguenti casi:
a) per i lavori, realizzati in assenza o
difformità dall’autorizzazione
paesaggistica, che non abbiano determinato
creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l’impiego di materiali in difformità
dall’autorizzazione paesaggistica;
c) per i lavori comunque configurabili quali
interventi di manutenzione ordinaria o
straordinaria ai sensi dell’articolo 3 del
decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380.
Il proprietario, possessore o detentore a
qualsiasi titolo dell’immobile o dell’area
interessati dagli interventi di cui al comma
4 presenta apposita domanda all’autorità
preposta alla gestione del vincolo ai fini
dell’accertamento della compatibilità
paesaggistica degli interventi medesimi.
L’autorità competente si pronuncia sulla
domanda entro il termine perentorio di
centottanta giorni, previo parere vincolante
della soprintendenza da rendersi entro il
termine perentorio di novanta giorni.
Qualora venga accertata la compatibilità
paesaggistica, il trasgressore è tenuto al
pagamento di una somma equivalente al
maggiore importo tra il danno arrecato e il
profitto conseguito mediante la
trasgressione. L’importo della sanzione
pecuniaria è determinato previa perizia di
stima. In caso di rigetto della domanda si
applica la sanzione demolitoria di cui al
comma 1. La domanda di accertamento della
compatibilità paesaggistica presentata ai
sensi dell'articolo 181, comma 1-quater, si
intende presentata anche ai sensi e per gli
effetti di cui al presente comma”.
Rileva poi il Collegio che l’art. 181, commi
1-ter e quater, dello stesso d. l.vo,
prevede, poi, quanto segue:
“Ferma restando l’applicazione delle
sanzioni amministrative pecuniarie di cui
all’articolo 167, qualora l’autorità
amministrativa competente accerti la
compatibilità paesaggistica secondo le
procedure di cui al comma 1-quater, la
disposizione di cui al comma 1 non si
applica:
a) per i lavori, realizzati in assenza o
difformità dall’autorizzazione
paesaggistica, che non abbiano determinato
creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l’impiego di materiali in difformità
dall’autorizzazione paesaggistica;
c) per i lavori configurabili quali
interventi di manutenzione ordinaria o
straordinaria ai sensi dell’articolo 3 del
decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380.
Il proprietario, possessore o detentore a
qualsiasi titolo dell’immobile o dell’area
interessati dagli interventi di cui al comma
1-ter presenta apposita domanda all’autorità
preposta alla gestione del vincolo ai fini
dell’accertamento della compatibilità
paesaggistica degli interventi medesimi.
L’autorità competente si pronuncia sulla
domanda entro il termine perentorio di
centottanta giorni, previo parere vincolante
della soprintendenza da rendersi entro il
termine perentorio di novanta giorni”.
Dall’esposizione che precede risulta
evidente come la richiesta del ricorrente di
compatibilità paesaggistico-ambientale,
avanzata ai sensi dell’art. 181 comma 1-quater d. l.vo 42/2004, andasse
necessariamente istruita mercé
l’acquisizione di parere vincolante da parte
della Soprintendenza di Salerno, competente
per territorio; ma detto adempimento
procedurale, come dedotto in ricorso e come
si ricava altresì dallo stesso tenore
letterale del provvedimento gravato, è stato
nella specie completamente pretermesso (né
alcunché in contrario è stato osservato da
parte dell’Amministrazione intimata, rimasta
estranea al giudizio).
Si cfr. quanto statuito, in giurisprudenza,
con riferimento al procedimento in oggetto:
“L’art. 146, comma 12 –nella versione
modificata dall’entrata in vigore del d.lgs.
n. 157 del 2006– prevede che non possano
più essere rilasciate autorizzazioni
paesaggistiche “in sanatoria”, ossia
successive alla realizzazione, anche
parziale, degli interventi, salvo le ipotesi
tassative volte a sanare “ex post” gli
interventi abusivi di cui all’art. 167; in
tali casi deve essere instaurata un’apposita
procedura ad istanza della parte interessata
che contempla –a differenza dell’ordinario
procedimento di rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica (in vigore in via transitoria)– l’accertamento della compatibilità
paesaggistica, demandato all’amministrazione
preposta alla gestione del vincolo, previa
acquisizione del parere della Soprintendenza
che nella particolare fattispecie in esame
assume carattere non solo obbligatorio, ma
vincolante” (TAR Veneto Venezia, sez. II, 23.04.2010,
n. 1550) (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 24.04.2012 n. 759 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
In una società mista al socio
privato deve essere affidata ogni attività
necessaria all'esecuzione dell'appalto che
sia suscettibile di rendere una utilità
economica.
Il criterio guida nella utilizzazione della
società mista è quello della salvaguardia
della libera concorrenza, che risulta
garantita solo se il capitale pubblico
interviene senza sottrarre all'imprenditoria
privata le utilità che questa potrebbe
trarre da un affidamento del medesimo
appalto al di fuori dello schema societario,
in esito al semplice esperimento della gara
per la scelta del contraente.
Ne consegue che, la conformità allo schema
delineato impone che al socio privato sia
affidata -non un qualunque compito
operativo, purché precisamente determinato-
bensì ogni attività necessaria
all'esecuzione dell'appalto che sia
suscettibile di rendere una utilità
economica.
Appare evidente, nel caso di specie, -in
base agli atti di gara- che Idra Patrimonio
(società ad integrale capitale pubblico
locale, proprietaria delle reti, impianti e
dotazioni per lo svolgimento del servizio
idrico integrato), nell'ambito della società
mista, e quindi ai fini dell'esecuzione
dell'appalto, ha riservato a sé stessa
rilevanti compiti operativi, quali
l'amministrazione della società con
locazione dei locali, la provvista del
personale e i relativi beni strumentali; la
direzione dei lavori; la redazione dei
progetti esecutivi.
Tale modalità, non corrisponde al modello di
affidamento legittimo di opere pubbliche a
società mista come sopra delineato, posto
che la società appaltatrice a capitale
pubblico non ha la facoltà di affidare
direttamente alla propria controllata quote
di attività nell'ambito dell'esecuzione di
opere pubbliche, in violazione del principio
di libera concorrenza (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 20.04.2012 n. 2348 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Non sussiste alcun vincolo
normativo che limiti la ponderazione da
attribuire ai fattori nel sistema
dell'offerta economicamente più vantaggiosa,
purché non ne venga azzerato il peso
ponderale.
In materia di appalti, non sussiste alcun
tipo di preclusione in capo
all'amministrazione, in ordine alla
valutazione dei fattori inerenti
l'attendibilità dell'offerente e la qualità
del servizio oggetto dell'offerta. Trattasi,
invero, di elementi rimessi all'ampio potere
discrezionale dell'amministrazione, pertanto
ne è preclusa la sindacabilità ove
corrispondano e siano coerenti a precise
scelte dell'amministrazione, non esistendo
alcun vincolo normativo che limiti la
ponderazione da attribuire ai fattori nel
sistema dell'offerta economicamente più
vantaggiosa, purché non ne venga azzerato il
peso ponderale.
Pertanto, nel caso di specie, poiché
l'amministrazione ha specificato nel bando
di gara i singoli elementi di valutazione sì
da rendere possibile un'offerta del servizio
conforme ai criteri che l'amministrazione
riteneva maggiormente apprezzabili, deve
riconoscersi che il bando e il comportamento
dell'amministrazione non sono censurabili,
perché risultano correttamente individuati
gli elementi qualificanti del progetto ed i
punteggi da assegnare per ciascuno dei tre
aspetti principali componenti l'offerta
tecnica ed i punteggi per l'offerta
economica, nonché l'ambito entro cui si
sarebbe esplicata la discrezionalità
dell'amministrazione.
Ne consegue che la lex di gara è
tutt'altro che generica e tanto meno può
ritenersi che abbia impedito la valutazione
di convenienza dell'offerta da parte dei
potenziali partecipanti (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 20.04.2012 n. 2339 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Non appare conforme alla piena
esplicazione del diritto alla difesa e del
diritto di libertà di iniziativa economica
privata, nonché del principio di libera
concorrenza, subordinare la legittimazione
di un soggetto sostanzialmente leso in via
immediata da una clausola del bando che gli
preclude la partecipazione alla gara, al
mero formalismo della presentazione di una
domanda che ne comporterebbe la sua
esclusione.
La questione sulla necessità della
presentazione della domanda di
partecipazione alla gara da parte
dell'impresa che lamenti l'illegittimità di
clausole del bando di gara, è stata più
volte affrontata dalla giurisprudenza, con
decisioni non sempre univoche.
E' comunque indubbio che ove le clausole del
bando siano ex se immediatamente
lesive e tali da precludere la
partecipazione alla gara, la presentazione
della domanda di partecipazione finisce con
l'essere un adempimento inutile meramente
formale cui seguirebbe l'estromissione dalla
gara con appesantimento della tutela
dell'interessato obbligato ad aspettare
l'esclusione dalla gara, onde impugnare
anche tale provvedimento (Cons. Stato, sez.
II, parere n. 149 del 07.03.2011; sez. IV,
30.05.2005, n. 2804; sez. V, 11.11.2004, n.
7341) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 20.04.2012 n. 2339 - link a
http://www.mediagraphic.it). |
APPALTI:
Non sussiste un'equipollenza tra
la firma di un documento in calce e quella
apposta solo in apertura di esso ("in
testa").
"La sottoscrizione dell'offerta di gara,
che si configura come lo strumento mediante
il quale l'autore fa propria la
dichiarazione contenuta nel documento, serve
a rendere nota la paternità ed a vincolare
l'autore alla manifestazione di volontà in
esso contenuta.
Essa assolve la funzione di assicurare
provenienza, serietà, affidabilità e
insostituibilità dell'offerta e costituisce
elemento essenziale per la sua
ammissibilità, sia sotto il profilo formale
che sotto quello sostanziale, potendosi solo
ad essa riconnettere gli effetti
dell'offerta come dichiarazione di volontà
volta alla costituzione di un rapporto
giuridico. La sua mancanza inficia,
pertanto, la validità e la ricevibilità
della manifestazione di volontà contenuta
nell'offerta senza che sia necessaria, ai
fini dell'esclusione, una espressa
previsione della legge di gara (Cons. St.
Sez. V, 07.11.2008, n. 5547)" (C.d.S.,
V, 25.01.2011 n. 528).
Tanto premesso, osserva la Sezione che una "sottoscrizione"
deve per definizione essere apposta in calce
al documento al quale si riferisce (nel
senso che per "sottoscrizione" debba
intendersi la firma in calce, e che questa
nemmeno "può essere sostituita dalla
sottoscrizione solo parziale delle pagine
precedenti quella conclusiva della
dichiarazione stessa" v. C.d.S., IV,
31.03.2010, n. 1832).
Non si può pertanto condividere l'idea che
esista un'equipollenza tra la firma di un
documento in calce e quella apposta solo in
apertura di esso ("in testa"), o
tanto meno sul mero frontespizio di un testo
di più pagine, dal momento che è soltanto
con la firma in calce che si esprime il
senso della consapevole assunzione della
paternità di un testo e della responsabilità
in ordine al suo contenuto (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 20.04.2012 n. 2317 -
link a www.mediagraphic.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Contro le
determinazioni e contro il silenzio sulle
istanze di accesso ai documenti
amministrativi il ricorso è proposto entro
30 giorni dalla conoscenza della
determinazione impugnata o dalla formazione
del silenzio, mediante notificazione
all’amministrazione e ad almeno un controinteressato.
Non è
consentito superare il regime decadenziale
previsto dall'art. 25, l. n. 241 del 1990,
reiterando l'istanza di accesso a fronte
della mancata impugnazione del silenzio
serbato dall'Amministrazione sulla prima
istanza di accesso, in specie allorché la
nuova domanda non sia giustificata da
circostanze nuove.
Dalla natura impugnatoria del processo in materia di
accesso ai documenti amministrativi,
nonostante la qualificazione dell'accesso
come diritto, deriva l'inammissibilità del
ricorso per mancata tempestiva impugnazione
del diniego o del silenzio e l'impossibilità
di reiterare la medesima istanza se non è
stata contestata giudizialmente la
precedente risposta negativa; sicché una
nuova istanza di accesso può ritenersi
ammissibile solo per fatti nuovi,
sopravvenuti o meno, non rappresentati
nell'originaria istanza o anche a fronte di
una diversa prospettazione dell'interesse
giuridicamente rilevante.
Non può eludersi, mediante la
riproposizione della stessa domanda e la
tempestiva impugnazione del secondo diniego,
meramente confermativo, la perentorietà del
termine per impugnare un diniego di accesso
ai documenti amministrativi. Infatti, il
termine per la presentazione del ricorso,
previsto dall'art. 25, comma 5, legge 07.08.1990,
n. 241, non può riprendere a decorrere per
effetto della presentazione di un'ulteriore
domanda di accesso avente a oggetto i
medesimi documenti: si consentirebbe,
altrimenti, l'elusione di un termine
perentorio previsto dalla legge ai fini
della presentazione di un ricorso
giurisdizionale, a prescindere dalla
qualificazione della situazione giuridica
soggettiva lesa (diritto soggettivo o
interesse legittimo), di per sé ininfluente
sul carattere perentorio del termine,
previsto dalla legge a pena di decadenza.
- Rilevato che il ricorso in esame attiene alla materia dell’accesso ai
documenti detenuti dalla P.A., sebbene
l’oggetto della domanda sia prospettato come
rivolto a contestare il silenzio
dell’amministrazione intimata (a fronte
dell’istanza di accesso presentata in data
25.03.2011 dai ricorrenti e reiterata in data
23.12.2011);
-
Evidenziato che, ai sensi dell’art. 116,
comma 1, cod. proc. amm., “contro le
determinazioni e contro il silenzio sulle
istanze di accesso ai documenti
amministrativi il ricorso è proposto entro
30 giorni dalla conoscenza della
determinazione impugnata o dalla formazione
del silenzio, mediante notificazione
all’amministrazione e ad almeno un controinteressato”;
-
Richiamato il condivisibile orientamento
giurisprudenziale secondo cui (cfr. TAR
Lazio, Sez. I, 04.01.2012, n. 63) “non è
consentito superare il regime decadenziale
previsto dall'art. 25, l. n. 241 del 1990,
reiterando l'istanza di accesso a fronte
della mancata impugnazione del silenzio
serbato dall'Amministrazione sulla prima
istanza di accesso, in specie allorché la
nuova domanda non sia giustificata da
circostanze nuove (Consiglio Stato, sez. VI,
30.07.2009, n. 4810).
Dalla natura impugnatoria del processo in materia di
accesso ai documenti amministrativi,
nonostante la qualificazione dell'accesso
come diritto, deriva l'inammissibilità del
ricorso per mancata tempestiva impugnazione
del diniego o del silenzio e l'impossibilità
di reiterare la medesima istanza se non è
stata contestata giudizialmente la
precedente risposta negativa; sicché una
nuova istanza di accesso può ritenersi
ammissibile solo per fatti nuovi,
sopravvenuti o meno, non rappresentati
nell'originaria istanza o anche a fronte di
una diversa prospettazione dell'interesse
giuridicamente rilevante (TAR Marche
Ancona, sez. I, 30.09.2009, n. 913).
(…)
Va dunque ribadito il costante
orientamento giurisprudenziale richiamati
secondo cui non può eludersi, mediante la
riproposizione della stessa domanda e la
tempestiva impugnazione del secondo diniego,
meramente confermativo, la perentorietà del
termine per impugnare un diniego di accesso
ai documenti amministrativi (TAR Lazio
Roma Sez. III, 2003, n. 223). Infatti, il
termine per la presentazione del ricorso,
previsto dall'art. 25, comma 5, legge 07.08.1990, n. 241, non può riprendere a
decorrere per effetto della presentazione di
un'ulteriore domanda di accesso avente a
oggetto i medesimi documenti: si
consentirebbe, altrimenti, l'elusione di un
termine perentorio previsto dalla legge ai
fini della presentazione di un ricorso
giurisdizionale, a prescindere dalla
qualificazione della situazione giuridica
soggettiva lesa (diritto soggettivo o
interesse legittimo), di per sé ininfluente
sul carattere perentorio del termine,
previsto dalla legge a pena di decadenza
(Cons. di Stato, sez. VI, sent. del 07.06.2006 n. 3431)”;
-
Rilevato che in data 23.12.2011, dopo il
decorso del termine di trenta giorni
concesso agli interessati per impugnare il
silenzio serbato dal Comune intimato a
fronte dell’istanza di accesso del
25.3.20110, i ricorrenti hanno reiterato
quest’ultima, mediante la sua mera
rinotificazione;
- Rilevato che, in applicazione dei citati
principi interpretativi, il ricorso deve
quindi essere dichiarato inammissibile ... (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 20.04.2012 n. 750 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
E' legittima l'aggiudicazione di
un appalto a favore di un concorrente che ha
conseguito il decreto di omologazione del
concordato da parte del Tribunale
fallimentare prima della presentazione della
domanda di partecipazione.
L'art. 38 del D.Lgs. 163/2006 prevede che: "sono
esclusi dalla partecipazione alle procedure
di affidamento delle concessioni e degli
appalti di lavori, forniture e servizi, né
possono essere affidatari di subappalti, e
non possono stipulare i relativi contratti i
soggetti: a) che si trovano in stato
di….concordato preventivo, o nei cui
riguardi sia in corso un procedimento per la
dichiarazione di una di tali situazioni."
L'art. 181 L.F., pur dopo talune modifiche
intervenute nel tempo, prevede, che "la
procedura di concordato preventivo si
chiude...con l'omologazione". Il dato
testuale delle norme summenzionate fa
esplicito riferimento, allo stato di
concordato preventivo "in corso" e
alla "chiusura" della procedura con
il decreto di omologazione del concordato.
Non è dato quindi procedere a una lettura
estensiva di tali previsioni pervenendo a
conclusioni ermeneutiche che non si
rinvengono nelle stesse se non con
inammissibili forzature, essendo pacifico
che ogni restrizione della capacità
giuridica in generale e di quella a
contrarre in particolare deve trovare
espressa copertura normativa ovvero in
esplicite prescrizioni della lex
specialis.
Ne consegue che, la dizione "in corso"
non può che riferirsi alla fase precedente
alla "omologazione" del concordato,
la quale "chiude" pertanto la
procedura dell'ammissione al concordato
stesso, posto che il decreto di
autorizzazione alla chiusura emesso dal
Tribunale nelle funzioni di sorveglianza e
controllo attribuite agli organi
fallimentari costituisce atto conseguenziale
ed esecutivo del concordato riguardo al
complesso di obbligazioni assunte dal
debitore con il concordato.
Nel caso di specie, pertanto,
l'aggiudicazione dell'appalto a favore della
società era da ritenersi legittima, in
quanto lo "stato" del concordato era
definito e il procedimento era "chiuso"
all'atto della domanda per cui la
fattispecie non era da ricomprendersi
nell'esclusione prevista dalla citata norma
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 19.04.2012 n. 2305 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In caso di annullamento in sede giurisdizionale di una concessione
edilizia, considerata illegittima per vizio
sostanziale, l’amministrazione non può
ricorrere all’art. 38 d.p.r. 380/2001, norma
che consente di rimediare ai soli vizi
formali o procedurali.
La regola posta dal richiamato art. 38,
comma 1, è rappresentata dall'operatività
della sanzione reale che, in quanto effetto
primario e naturale derivante
dall'annullamento del permesso di costruire,
non richiede all'amministrazione un
particolare onere della motivazione, ma
rinviene la sua giustificazione, in re ipsa,
nella legalità violata. Ne consegue che la
sanzione alternativa pecuniaria deve
intendersi riferita alle sole costruzioni
assentite mediante titoli abilitativi
annullati per vizi formali.
In caso di annullamento in sede giurisdizionale di una concessione
edilizia, considerata illegittima per vizio
sostanziale, l’amministrazione non può
ricorrere all’art. 38 d.p.r. 380/2001, norma
che consente di rimediare ai soli vizi
formali o procedurali.
Come chiarito da
questo Tar (sez. I, 31.05.2011, n. 1029
), la regola posta dal richiamato art. 38,
comma 1, è rappresentata dall'operatività
della sanzione reale che, in quanto effetto
primario e naturale derivante
dall'annullamento del permesso di costruire,
non richiede all'amministrazione un
particolare onere della motivazione, ma
rinviene la sua giustificazione, in re ipsa,
nella legalità violata. Ne consegue che la
sanzione alternativa pecuniaria deve
intendersi riferita alle sole costruzioni
assentite mediante titoli abilitativi
annullati per vizi formali (cfr. anche TAR
Genova, Liguria, sez. I, 05.02.2011, n. 235) (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 19.04.2012 n. 738 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
È inammissibile il ricorso
proposto avverso l’ingiunzione di
demolizione di edificio abusivamente
realizzato ove sia passato in giudicato il
diniego di sanatoria dello stesso.
È inammissibile l’impugnazione
giurisdizionale del provvedimento di
demolizione di opere edilizie abusivamente
realizzate, che surrettiziamente tenti di
rimettere in discussione la legittimità del
presupposto diniego di concessione edilizia
in sanatoria non impugnato ed ormai divenuto
inoppugnabile.
... Tanto, in conformità all’orientamento giurisprudenziale
dominante, espresso, ex multis, nelle
seguenti massime: “È inammissibile il
ricorso proposto avverso l’ingiunzione di
demolizione di edificio abusivamente
realizzato ove sia passato in giudicato il
diniego di sanatoria dello stesso” (TAR
Piemonte Torino, sez. I, 25.03.2011, n.
289); “È inammissibile l’impugnazione
giurisdizionale del provvedimento di
demolizione di opere edilizie abusivamente
realizzate, che surrettiziamente tenti di
rimettere in discussione la legittimità del
presupposto diniego di concessione edilizia
in sanatoria non impugnato ed ormai divenuto
inoppugnabile” (TAR Emilia Romagna
Parma, sez. I, 01.07.2008, n. 342) (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 19.04.2012 n. 737 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
Legittimazione ad agire del
progettista e del direttore dei lavori
avverso l'atto che ha denegato il titolo
abilitativo.
E' inammissibile il ricorso proposto dal
progettista dell'opera non assentita avverso
l’atto che ha denegato la relativa
abilitazione, difettando questi di
legittimazione attiva.
Si è, infatti, ritenuto che detta
legittimazione spetti soltanto a coloro che
sono titolari di un interesse legittimo
differenziato, ma "…tra costoro non rientra
il progettista che è, invece, titolare di un
mero interesse semplice o di fatto alla
realizzazione dell'opera secondo il
progetto, per cui non può impugnare in via
autonoma il diniego di concessione
edilizia...".
Quanto alla legittimazione del direttore dei
lavori, se essa in astratto è ammissibile le
quante volte si colleghi ad atti e
comportamenti che la legge direttamente
riconnette alla responsabilità del direttore
dei lavori (e dunque non in via generale per
tutti gli atti connessi all’attività
edilizia, come affermato dall’appellante),
nella fattispecie non può ritenersi
sussistente una posizione differenziata
dalla generalità del geom. G., quale
direttore dei lavori, così come anche per
l’interesse a ricorrere, perché difetta il
necessario collegamento tra l’atto che si
censura di illegittimità e la posizione
giuridica di detto direttore dei lavori, sia
nel contesto della generale procedura di
abilitazione all’edificazione, sia nel
segmento più limitato dell’autorizzazione
sismica.
In entrambi tali procedimenti, infatti, il
direttore dei lavori non è portatore di
alcun interesse diretto, attuale e concreto
al conseguimento delle abilitazioni,
permessi ed autorizzazioni richieste dalla
legge per la legittima edificazione di
manufatti edilizi, siccome tutte
riconducibili, invece, esclusivamente alla
posizione giuridica del proprietario
dell’area o del committente (se diverso dal
primo) che ha richiesto alle competenti
Autorità i relativi provvedimenti.
E’ appellata la
sentenza del TAR Toscana con la quale è
stato dichiarato inammissibile il ricorso
proposto dal Geom. M.G., nella
sua dichiarata qualità di progettista e
direttore dei lavori per la costruzione di
un fabbricato per civili abitazioni
assentito dal Comune di Poggibonsi alla Due
Erre s.r.l., avverso il diniego di
autorizzazione sismica opposto dalla
competente Regione Toscana, siccome carente
del necessario interesse a ricorrere.
...
La non titolarità del progettista ad
impugnare gli atti che non abilitano la
parte interessata alla edificazione è
affermata da giurisprudenza ormai
consolidata che è condivisa dal Collegio e
ben può essere applicata al caso in esame.
In particolare, detta giurisprudenza è ferma
nel ritenere inammissibile il ricorso
proposto dal progettista dell'opera non
assentita avverso l’atto che ha denegato la
relativa abilitazione, difettando questi di
legittimazione attiva (cfr. ex multis, TAR
Puglia, sede di Lecce, sez. III, n. 225 del
02.02.2011; TAR Liguria Genova,
sez. II, 12.04.2007, n. 629 e sez. I,
17.03.2006, n. 251; TAR Sicilia
Catania, sez. I, 06.03.2001, n. 523,
TAR Piemonte, sez. I, 18.06.2003, n.
924 e Consiglio Stato, sez. V, 05.03.2001,
n. 1250).
Si è, infatti, ritenuto che detta
legittimazione spetti soltanto a coloro che
sono titolari di un interesse legittimo
differenziato, ma "…tra costoro non rientra
il progettista che è, invece, titolare di un
mero interesse semplice o di fatto alla
realizzazione dell'opera secondo il
progetto, per cui non può impugnare in via
autonoma il diniego di concessione
edilizia...".
Quanto alla legittimazione del
direttore dei lavori, se essa in astratto è
ammissibile le quante volte si colleghi ad
atti e comportamenti che la legge
direttamente riconnette alla responsabilità
del direttore dei lavori (e dunque non in
via generale per tutti gli atti connessi
all’attività edilizia, come affermato
dall’appellante), nella fattispecie non può
ritenersi sussistente una posizione
differenziata dalla generalità del geom. G., quale direttore dei lavori, così
come anche per l’interesse a ricorrere,
perché difetta il necessario collegamento
tra l’atto che si censura di illegittimità e
la posizione giuridica di detto direttore
dei lavori, sia nel contesto della generale
procedura di abilitazione all’edificazione,
sia nel segmento più limitato
dell’autorizzazione sismica.
In entrambi tali procedimenti, infatti, il
direttore dei lavori non è portatore di
alcun interesse diretto, attuale e concreto
al conseguimento delle abilitazioni,
permessi ed autorizzazioni richieste dalla
legge per la legittima edificazione di
manufatti edilizi, siccome tutte
riconducibili, invece, esclusivamente alla
posizione giuridica del proprietario
dell’area o del committente (se diverso dal
primo) che ha richiesto alle competenti
Autorità i relativi provvedimenti.
Né può valere l’eventuale posizione di
responsabilità sotto il profilo
sanzionatorio, anche penale, del direttore
dei lavori poiché essa rileva su un distinto
ed autonomo piano ed in ragione di
altrettanta distinta ed autonoma
responsabilità personale per gli atti ed i
comportamenti posti in essere in violazione
di norme vigenti.
Così pure, non può farsi riferimento
all’interesse collegato all’eventuale
ipotesi di sanatoria di abusi edilizi poiché
ogni questione su tale tipo di interesse è,
comunque, inconferente nella specie, in
disparte il rilievo che anche in tale
eventuali ipotesi occorre pur sempre
verificare che si sia in presenza di una
posizione giuridica differenziata del
soggetto che assume di essere legittimato.
Inoltre, ritiene il Collegio che il
ricorrente sia, in ogni caso, anche carente
di interesse ad impugnare il diniego in
esame tenuto conto che esso non ha valenza provvedimentale, bensì di atto di mera
comunicazione, avuto presente che il Comune
di Poggibonsi è classificato di “bassa
sismicità” e che, dunque, ex art. 94 del d.P.R.
n. 380 del 2001 e della speculare norma
regionale, le opere edilizie in questione
non avevano bisogno di una preventiva
autorizzazione sismica, come ha spiegato la
Regione nell’atto di diniego impugnato che,
giova ribadirlo, ha solo carattere di
informazione della disciplina applicabile
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 18.04.2012 n. 2275 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
L'ininterrotta efficacia della
certificazione SOA per tutto il periodo
quinquennale di validità, previsto dal c. 5
dell'art. 15 d.p.r. n. 34/2000, postula la
tempestiva richiesta di verifica triennale.
L'ininterrotta efficacia della
certificazione SOA per tutto il periodo
quinquennale di validità, previsto dal c. 5
dell'art. 15 d.p.r. n. 34/2000, postula la
tempestiva richiesta di verifica triennale,
secondo quanto prescritto dal c. 1 dell'art.
15-bis del citato d.p.r. n. 34/2000.
Inoltre, ai fini della suddetta efficacia
della certificazione senza soluzione di
continuità non è sufficiente il mero esito
positivo della verifica triennale,
occorrendo che il procedimento di revisione
si concluda entro la scadenza triennale di
iniziale validità.
Oltre a ciò, secondo l'incontrastata
interpretazione dell'art. 40 d.lgs. n
163/2006 i requisiti di qualificazione SOA
devono sussistere non solo al momento della
presentazione dell'offerta, ma permanere
anche in ogni successiva fase del
procedimento ad evidenza pubblica, a tutela
dell'affidamento della stazione appaltante
sulla capacità tecnico-organizzativa dei
partecipanti alle procedure di affidamento
di contratti e di parità di trattamento tra
questi ultimi.
Pertanto, nel caso di specie, è
l'illegittima l'ammissione in gara della
concorrente priva dei requisiti di
qualificazione SOA, in quanto all'atto della
presentazione della domanda, non ha
adempiuto all'onere di richiesta della
verifica triennale di validità della
certificazione SOA, ma ha solo richiesto il
rinnovo, il quale, peraltro, interveniva in
data successiva alla presentazione della
domanda di partecipazione, risultando quindi
l'impresa priva di corrente attestazione nel
periodo intercorrente tra la scadenza del
termine triennale e il successivo rinnovo.
La richiesta di rinnovo è cosa diversa dalla
verifica triennale e non è idonea ad
assicurare il periodo di validità
quinquennale della SOA, che invece è
subordinato alla tempestiva richiesta della
verifica triennale (Consiglio di Stato, Sez.
V,
sentenza 18.04.2012 n. 2247 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione di una tettoia,
soggetta a concessione edilizia ai sensi
dell’art. 1, l. 28.01.1977 n. 10 (oggi
permesso di costruire), incide sull’assetto
edilizio preesistente, incisione
particolarmente significativa ove, come nel
caso di specie, insista su un territorio
vincolato.
Si è, infatti, chiarito che la realizzazione
di una tettoia, indipendentemente dalla sua
eventuale natura pertinenziale, è
configurabile come intervento di
ristrutturazione edilizia ai sensi
dell’articolo 3, comma 1, lettera d), del
D.P.R. n. 380/2001, nella misura in cui
realizza impianti ed elementi nuovi ed è
quindi subordinata al regime del permesso di
costruire, ai sensi dell’articolo 10, comma
primo, lettera c), dello stesso D.P.R.,
laddove comporti una modifica della sagoma o
del prospetto del fabbricato cui inerisce. E
ciò viepiù nei casi in cui le dimensioni
della tettoia siano di entità tale da non
poter più ritenersi assorbite, ovvero
ricomprese in ragione dell’accessorietà,
dell’edificio principale o della parte dello
stesso cui accedono, al quale, viceversa,
arrecano un’apprezzabile alterazione.
Il diniego di autorizzazione paesaggistica “postuma”,
richiesto dalla ricorrente ai sensi
dell’art. 181, comma 1-ter, dlgs 42/2004, risulta motivato sulla
base della circostanza che gli interventi
edilizi per i quali si richiede
l’autorizzazione non rientrano tra quegli
abusi minori per i quali il legislatore ha
previsto la deroga alla regola della
insanabilità delle violazioni alla
disciplina paesaggistica.
Gli interventi per i quali, in forza
dell’art. 181, comma 1-ter, dlgs 42/2004, è
possibile presentare domanda ai fini
dell’accertamento della compatibilità
paesaggistica sono solo i seguenti:
“a) i lavori, realizzati in assenza o
difformità dall'autorizzazione
paesaggistica, che non abbiano determinato
creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) l'impiego di materiali in difformità
dall'autorizzazione paesaggistica;
c) i lavori configurabili quali interventi
di manutenzione ordinaria o straordinaria ai
sensi dell'articolo 3 del decreto del
Presidente della Repubblica 06.06.2001,
n. 380.”
L’intervento per il quale la sig.ra
B. chiede l’accertamento di
conformità è una tettoia, costruita ex novo,
di rilevanti dimensioni (pianta m. 72,30 x
25,00, con altezza alla gronda di m. 9,20
ed al colmo di m. 10,20), da destinarsi a
ricovero mezzi agricoli.
L’opera, quindi, non rientra tra quelle di
cui alla lettera a) atteso che la stessa
crea comunque una superficie utile di
dimensioni almeno pari alla sua pianta, né è
configurabile come intervento di
manutenzione straordinaria atteso che si può
parlare di manutenzione di un manufatto
preesistente, legittimamente realizzato, ma
non certo di un manufatto costruito ex novo.
La giurisprudenza ha, poi, reiteratamente
evidenziato come il legislatore, partito da
una posizione di rigore che escludeva
l'estensione nell'ambito della materia della
tutela del paesaggio della norma
sull'accertamento di conformità propria
della materia edilizia, stante la rilevanza
costituzionale del bene paesaggio, ha
successivamente introdotto un temperamento
alla assolutezza, prevedendo la sanatoria
tassativamente per i c.d. "abusi minori".
In considerazione del bene da tutelare, la
scelta di una previsione tassativa dei casi
suscettibili di sanatoria è stata, anche,
ritenuta scevra da profili di illegittimità
(Così TAR Lombardia Milano, sez. II, 09.12.2008, n. 5737).
Con riguardo al tipo di costruzione, la
giurisprudenza ha ripetutamente evidenziato
che la realizzazione di una tettoia,
soggetta a concessione edilizia ai sensi
dell’art. 1, l. 28.01.1977 n. 10 (oggi
permesso di costruire), incide sull’assetto
edilizio preesistente, incisione
particolarmente significativa ove, come nel
caso di specie, insista su un territorio
vincolato (cfr. ex multis TAR Campania
Napoli, sez. VI, 16.12.2009, n. 8781).
Si è, infatti, chiarito che la realizzazione
di una tettoia, indipendentemente dalla sua
eventuale natura pertinenziale, è
configurabile come intervento di
ristrutturazione edilizia ai sensi
dell’articolo 3, comma 1, lettera d), del
D.P.R. n. 380/2001, nella misura in cui
realizza impianti ed elementi nuovi ed è
quindi subordinata al regime del permesso di
costruire, ai sensi dell’articolo 10, comma
primo, lettera c), dello stesso D.P.R.,
laddove comporti una modifica della sagoma o
del prospetto del fabbricato cui inerisce
(TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 21.12.2007, n. 16493; 17.02.2010,
n. 968). E ciò viepiù nei casi –com’è
quello di specie– in cui le dimensioni
della tettoia siano di entità tale da non
poter più ritenersi assorbite, ovvero
ricomprese in ragione dell’accessorietà,
dell’edificio principale o della parte dello
stesso cui accedono, al quale, viceversa,
arrecano un’apprezzabile alterazione (così,
Tar Napoli 3510/2011).
Tutto ciò premesso, è evidente che il
provvedimento adottato dal Comune riguarda
un profilo assolutamente pregiudiziale
dell’accertamento di compatibilità, ovvero
l’ammissibilità della domanda.
Ne consegue che il Comune non era tenuto ad
inoltrarla alla Soprintendenza per il
parere, con conseguente infondatezza della
censura di cui al primo motivo di ricorso.
---------------
E’, infatti, insuperabile la esclusione
dell’opera da quelle per le quali può
chiedersi la sanatoria postuma.
Non può parlarsi di riqualificazione di ciò
che non esisteva prima della commissione
dell’abuso. Si finirebbe per aggirare la
disposizione di cui all’art. 181 dlgs
42/2004 che vieta, in assenza della
prescritta autorizzazione, ogni
modificazione dell'assetto del territorio,
attuata attraverso qualsiasi opera non
soltanto edilizia, ma di qualunque genere,
ad eccezione degli interventi espressamente
e tassativamente elencati nel comma 1-ter
del predetto articolo (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 12.04.2012 n. 728 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Laddove una determinazione
amministrativa di segno negativo tragga
forza da una pluralità di ragioni, ciascuna
delle quali sia di per sé idonea a
supportarla in modo autonomo, è sufficiente
che anche una sola di esse passi indenne
alle censure mosse in sede giurisdizionale
perché il provvedimento nel suo complesso
resti esente dall’annullamento.
Il terzo ed ultimo motivo è invece
inammissibile per carenza di interesse,
atteso che il provvedimento risulta fondato
su più motivi, e quello sopra menzionato è
idoneo e sufficiente ad integrare l’onere
motivazionale.
Soccorre, al riguardo, il condiviso
principio secondo il quale, laddove una
determinazione amministrativa di segno
negativo tragga forza da una pluralità di
ragioni, ciascuna delle quali sia di per sé
idonea a supportarla in modo autonomo, è
sufficiente che anche una sola di esse passi
indenne alle censure mosse in sede
giurisdizionale perché il provvedimento nel
suo complesso resti esente dall’annullamento
(cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. VI,
05.07.2010 n. 4243; Consiglio di Stato, Sez.
V, 27.09.2004 n. 6301) (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 12.04.2012 n. 728 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione di una tettoia
(di non irrilevante consistenza
dimensionale) ancorata al suolo costituisce
opera idonea ad alterare lo stato dei luoghi
e a trasformare il territorio
permanentemente ed è tale da richiedere il
rilascio del permesso di costruire.
La nozione di costruzione, ai fini del
rilascio del permesso di costruire, si
configura in presenza di opere che attuino
una trasformazione urbanistico-edilizia del
territorio, con perdurante modifica dello
stato dei luoghi, a prescindere dal fatto
che essa avvenga mediante realizzazione di
opere murarie, essendo irrilevante che le
opere siano state realizzate in metallo, in
laminati di plastica, in legno o altro
materiale, ove si sia in presenza di
un'evidente trasformazione del tessuto
urbanistico ed edilizio e le opere siano
preordinate a soddisfare esigenze non
precarie sotto il profilo funzionale. In
altri termini, rilevano non soltanto gli
elementi strutturali (composizione dei
materiali, smontabilità o meno del
manufatto) ma anche i profili funzionali
dell'opera.
---------------
La nozione di pertinenza in materia edilizia
è più ristretta di quella civilistica ed è
riferibile ai soli manufatti di dimensioni
tanto modeste e ridotte rispetto alla cosa
cui ineriscono da potersi considerare
sostanzialmente irrilevanti sotto il profilo
edilizio, non potendosi, conseguentemente,
attribuire carattere pertinenziale ai fini
edilizi ad opere di rilevante consistenza,
anche se destinate al servizio od ornamento
del bene principale.
● Considerato, in punto di diritto, che le
disposizioni della legge n. 326 del 2003
subordinano il rilascio del titolo
abilitativo edilizio in sanatoria –tra
l’altro- alla:
- riconducibilità delle opere realizzate alle tipologie d’illecito
descritte nell’allegato 1, con la
precisazione, contenuta nell’art. 32, comma
26, lett. a), della legge n. 326 del 2003,
che, nell'ambito degli immobili soggetti a
vincolo di cui all'articolo 32 della legge
28.02.1985, n. 47, sono ammesse (unicamente)
le tipologie descritte ai numeri 4, 5 e 6
ovvero:
a) opere di restauro e risanamento
conservativo come definite dall'articolo 3,
comma 1, lettera c) del D.P.R. 06.06.2001,
n. 380, realizzate in assenza o in
difformità dal titolo abilitativo edilizio,
nelle zone omogenee A di cui all'articolo 2
del decreto ministeriale 02.04.1968, n.
1444;
b) opere di restauro e risanamento
conservativo come definite dall'articolo 3,
comma 1, lettera c) del D.P.R. 06.06.2001,
n. 380, realizzate in assenza o in
difformità dal titolo abilitativo edilizio;
c) opere di manutenzione straordinaria, come
definite all'articolo 3, comma 1, lettera b)
del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, realizzate in
assenza o in difformità dal titolo
abilitativo edilizio; opere o modalità di
esecuzione non valutabili in termini di
superficie o di volume;
- insussistenza di preclusioni alla sanatoria ai sensi dell’art.
32, comma 27, della legge medesima e degli
artt. 32 e 33 della L. 28.02.1985, n. 47;
● Considerato che il punto nodale della
vicenda oggetto di contenzioso consiste, ad
avviso del Collegio, nello stabilire se le
opere per le quali il ricorrente ha invocato
il condono siano da considerarsi “nuova
costruzione”, dato che la
riconducibilità o meno a tale categoria
appare dirimente ai fini della valutazione
in ordine alla loro condonabilità, anche
avuto riguardo a quanto stabilito dall’art.
2 della L.R. 10.11.2004, n. 33, recante
disposizioni regionali per l’attuazione
della sanatoria edilizia degli abusi edilizi
prevista dall'articolo 32 del decreto-legge
30.09.2003, n. 269, convertito, con
modificazioni, dalla legge 24.11.2003, n.
326, che precisa, per l’appunto, che “ai
fini della presente legge si intende per
nuova costruzione il manufatto che risulti
realizzato in forma autonoma non connesso o
pertinente ad altro manufatto esistente”,
lasciando, conseguentemente, intendere che
la sola “nuova costruzione” incontra
i limiti imposti dalla normativa sul
condono;
● Considerato che la realizzazione di una
tettoia (di non irrilevante consistenza
dimensionale) ancorata al suolo costituisce
opera idonea ad alterare lo stato dei luoghi
e a trasformare il territorio
permanentemente ed è tale da richiedere il
rilascio del permesso di costruire (TAR
Piemonte, sez. I, 16.03.2009, n. 752);
● Considerato che è noto, del resto, che la
nozione di costruzione, ai fini del rilascio
del permesso di costruire, si configura in
presenza di opere che attuino una
trasformazione urbanistico-edilizia del
territorio, con perdurante modifica dello
stato dei luoghi, a prescindere dal fatto
che essa avvenga mediante realizzazione di
opere murarie, essendo irrilevante che le
opere siano state realizzate in metallo, in
laminati di plastica, in legno o altro
materiale, ove si sia in presenza di
un'evidente trasformazione del tessuto
urbanistico ed edilizio e le opere siano
preordinate a soddisfare esigenze non
precarie sotto il profilo funzionale (TAR
Campania Napoli, sez. II, 26.09.2008, n.
11309; C.d.S., sez. IV, n. 2705 del 2008).
In altri termini, rilevano non soltanto gli
elementi strutturali (composizione dei
materiali, smontabilità o meno del
manufatto) ma anche i profili funzionali
dell'opera (cfr. TAR Lazio, Roma, sez.
I-quater, n. 11679 del 23.11.2007);
● Considerato che, applicando le coordinate
su indicate al caso di specie, si può
affermare che il manufatto realizzato,
ancorché collocato all’interno della
proprietà del ricorrente e deputato a
servizio dell’edificio principale, per i
materiali utilizzati, le caratteristiche
strutturali e le dimensioni (copre una
superficie di mq. 50,40), sia tale da
configurare una nuova costruzione,
integrando un organismo edilizio
suscettibile di autonomo utilizzo,
preordinato a soddisfare esigenze non
precarie sotto il profilo funzionale, in
quanto tale idoneo ad alterare lo stato dei
luoghi ed a comportare una significativa
trasformazione del territorio (cfr., ex
multis, C.d.S., sez. V, 13.06.2006, n.
3490; TAR Lazio, Roma, sez. I, 18.06.2008,
n. 5965; id., sez. I-quater, 23.11.2007, n.
11679), dato –tra l’altro- che non appare
condivisibile la riduttiva definizione
dell’intervento sopra descritto come mera
pertinenza, atteso che, per principio
pacifico, la nozione di pertinenza in
materia edilizia è più ristretta di quella
civilistica ed è riferibile ai soli
manufatti di dimensioni tanto modeste e
ridotte rispetto alla cosa cui ineriscono da
potersi considerare sostanzialmente
irrilevanti sotto il profilo edilizio, non
potendosi, conseguentemente, attribuire
carattere pertinenziale ai fini edilizi ad
opere di rilevante consistenza, anche se
destinate al servizio od ornamento del bene
principale (fra le tante, TAR Lombardia
Milano, sez. II, 17.06.2008, n. 2045);
● Considerato, in ogni caso, che non sono
stati offerti in questa sede elementi per
poter verificare la sussumibilità della
tettoia realizzata tra gli interventi
pertinenziali non costituenti nuova
costruzione, secondo la definizione
ritraibile dalla lettura “a contrario”
dell’art. 3, comma 1, lett. e.6), del d.P.R.
n. 380 del 2001, dato che il ricorrente non
ha ritenuto di portare a conoscenza di
questo giudice il volume dell’edificio
principale, sì da consentire di accertare
che quello dell’opera abusiva realizzata è
effettivamente inferiore al 20% del primo,
come dallo stesso, invero, solo
ripetutamente affermato;
● Considerato, inoltre, che, nella zona ove
è stata realizzata l’opera, il PRGC non
consente la realizzazione di parcheggi, se
non nel sottosuolo o al piano terra degli
edifici, derivandone, anche per tale motivo,
che le opere deputate a tale funzione
realizzate isolatamente, come la tettoia in
questione, costituiscono nuova costruzione;
● Considerato, altresì, che, ai fini della
qualificazione di una costruzione, rilevano
le caratteristiche oggettive della stessa,
prescindendosi dall’intento dichiarato dal
privato di voler destinare l’opera ad
utilizzazioni più ristrette di quelle alle
quali il manufatto potenzialmente si presta
(fra le tante TAR Campania-Napoli, sez. II,
sentenza 31.10.2011 n. 5093);
● Ritenuto, conseguentemente, che, alla luce
delle considerazioni innanzi svolte, debba
ritenersi corretta la qualificazione
dell’illecito quale nuova costruzione,
riconducibile alla tipologia n. 1 (“opere
realizzate in assenza o in difformità del
titolo abilitativo edilizio e non conformi
alle norme urbanistiche e alle prescrizioni
degli strumenti urbanistici”)
dell’allegato 1 alla legge n. 326 del 2003,
in quanto tale non suscettibile di sanatoria
edilizia ai sensi dell’art. 32, comma 26,
lett. a), della legge medesima, data la
sottoposizione della zona nell’ambito della
quale è ubicato il manufatto abusivo a
vincolo ambientale e paesaggistico ai sensi
del D.Lgs. n. 42/2004, ove sono ammesse a
sanatoria solo le tipologie di illecito 4, 5
e 6 descritte nel medesimo allegato 1;
● Ritenuto, invero, che le censure svolte
dal ricorrente (“Violazione e/o falsa
applicazione di legge con rifermento agli
artt. 3 e 10-bis della legge 07.08.1990, n.
241 e s.m.i.; all’art. 4 della L.R.
Piemontese 08.07.1999, n. 19; all’art. 4
della L.R. Piemontese 10.11.2004, n. 33;
nonché all’art. 1, commi 37 e 39, della
legge 15.12.2004, n. 308 e s.m.i.;
violazione del principio del giusto
procedimento e del legittimo affidamento.
Eccesso di potere per travisamento dei fatti
e dei presupposti; difetto e/o insufficienza
di istruttoria e di motivazione;
irragionevolezza, contraddittorietà,
ingiustizia grave e manifesta; illogicità,
perplessità, sviamento”) non siano in
grado di inficiare la legittimità del
diniego opposto (TAR
Piemonte, Sez. II,
sentenza 11.04.2012 n. 438 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La specialità del procedimento di
condono edilizio rispetto all'ordinario
procedimento di rilascio della concessione
ad edificare e l'assenza di una specifica
previsione in ordine alla sua necessità
rendono, per il rilascio della concessione
in sanatoria c.d. straordinaria (o condono),
il parere della Commissione edilizia non
obbligatorio, ma, tutt'al più, facoltativo,
in quelle specifiche ipotesi in cui
l'amministrazione ritenga discrezionalmente
di acquisire eventuali informazioni e
valutazioni con riguardo a particolari e
sporadici casi incerti e complessi. In
assenza dei predetti casi di acquisizione
facoltativa del parere dell'organo
collegiale, il rilascio della concessione in
sanatoria è subordinato alla semplice
verifica dei (pur numerosi) presupposti e
condizioni espressamente e chiaramente
fissati dal legislatore.
● Ritenuto, in particolare, che:
- l’omessa espressa considerazione del contributo partecipativo
offerto dal ricorrente dopo il ricevimento
del preavviso di diniego, peraltro volto
unicamente ad evidenziare l’avvenuta
presentazione della “domanda di
accertamento di compatibilità paesaggistica”
e, dunque, in ogni caso non idoneo ad
incidere sulla qualificazione data
all’intervento dal Comune, è da ritenersi
vizio non invalidante ai sensi dell’art.
21-octies, comma 2, della legge n. 241 del
1990 e s.m.i., dato che l’acclarata non
sussumibilità dell’illecito commesso tra le
tipologie ammesse a sanatoria nell’ambito
degli immobili soggetti a vincolo ambientale
e paesistico rende palese che, data la
natura necessariamente vincolata del
provvedimento, il suo contenuto dispositivo
non avrebbe potuto essere diverso da quello
in concreto adottato;
- l’eventuale ottenimento dell’accertamento della compatibilità
ambientale dell’intervento non fa venire
meno il vincolo esistente, ma attesta,
unicamente, la compatibilità del primo con
il secondo. Non incide, dunque, né sulla
qualificazione dell’intervento medesimo,
posto che sempre di nuova opera abusiva
realizzata in area soggetta a vincolo si
tratta, né sulle tipologie di interventi che
la legge ammette a sanatoria in tale aree;
- la verifica della sussumibilità dell’opera realizzata tra le
tipologie ammesse a sanatoria deve,
necessariamente, precedere ogni ulteriore
valutazione, inclusa quella della sua
compatibilità con gli eventuali vincoli da
cui è gravata l’area, dato che la sua
riconducibilità all’astratta previsione
normativa costituisce pre-requisito
fondamentale del condono;
- risultano, conseguentemente, del tutto condivisibili le ragioni,
rappresentate dalla difesa del Comune, che
hanno indotto il competente dirigente ad
omettere di svolgere le valutazioni in
ordine alla compatibilità dell’opera con il
vincolo ambientale e paesistico insistente
sull’area, dato che le stesse si sarebbero
tradotte in un inutile aggravio
istruttorio-procedimentale;
- correttamente, dunque, il Comune ha omesso di avviare il
procedimento di cui all’art. 4 della L.R.
33/2004 e di sentire la commissione edilizia
integrata, ai fini del rilascio del parere
di cui all'articolo 32 della legge
28.02.1985, n. 47;
- per costante indirizzo giurisprudenziale, espresso dal Consiglio
di Stato (ex multis sez. IV,
30.06.2010, n. 4178) e da una cospicua
giurisprudenza del Giudice di primo grado, è
stato sempre ed univocamente ritenuto che la
specialità del procedimento di condono
edilizio rispetto all'ordinario procedimento
di rilascio della concessione ad edificare e
l'assenza di una specifica previsione in
ordine alla sua necessità rendono, per il
rilascio della concessione in sanatoria c.d.
straordinaria (o condono), il parere della
Commissione edilizia non obbligatorio, ma,
tutt'al più, facoltativo, in quelle
specifiche ipotesi in cui l'amministrazione
ritenga discrezionalmente di acquisire
eventuali informazioni e valutazioni con
riguardo a particolari e sporadici casi
incerti e complessi. In assenza dei predetti
casi di acquisizione facoltativa del parere
dell'organo collegiale, il rilascio della
concessione in sanatoria è subordinato alla
semplice verifica dei (pur numerosi)
presupposti e condizioni espressamente e
chiaramente fissati dal legislatore (cfr.
C.d.S.,. IV, 12.02.2010, n. 772 ; id., IV,
15.05.2009, n. 3010; id., VI, 27.06.2008, n.
3282; id., V, 04.10.2007, n. 5153);
- non va sottaciuto, inoltre, che l'art. 4 d.P.R. n. 380/2001, nel
rendere per i comuni facoltativa
l'istituzione della commissione edilizia, ha
introdotto un principio fondamentale in
materia di governo del territorio, al quale
deve sottostare la normativa regionale, ai
sensi dell'art. 117 Cost. (cfr. C.d.S., IV,
02.10.2008, n. 4793), conseguendone che le
norme regionali in materia devono essere
interpretate in senso costituzionalmente
coerente con i principi generali introdotti
in materia dal predetto Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in
materia edilizia n. 380 (cfr. Consiglio
Stato, sez. IV, 02.10.2008, n. 4793) e,
dunque, devono ritenersi implicitamente
abrogate ai sensi dell’art. 10 della L.n.
62/1953, laddove, eventualmente, prevedano
ancora l’obbligatorietà del parere della CEC
(cfr. C.d.S., IV, 23.02.2012, n. 974) (TAR
Piemonte, Sez. II,
sentenza 11.04.2012 n. 438 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: a. 1) il fenomeno della cd.
occupazione appropriativa, che ha il
carattere dell'illiceità, si consuma alla
scadenza del periodo di occupazione
legittima o, se più breve, alla scadenza del
termine stabilito dalla dichiarazione di
pubblica utilità, sempre che, però, nel
frattempo, l'opera pubblica sia stata
realizzata, con la corrispondente
irreversibile trasformazione del suolo;
a.
2) si consuma, invece, al momento di detta
trasformazione qualora l'ingerenza nella
proprietà privata abbia già carattere
abusivo o se essa acquisti tale carattere
perché la trasformazione medesima avviene
dopo la scadenza del periodo di occupazione
legittima o, se più breve, del termine
stabilito dalla dichiarazione di pubblica
utilità;
b. 1) il termine di prescrizione
quinquennale del relativo diritto al
risarcimento del danno, ex art. 2947 c.c.,
decorrendo dal momento in cui si perfeziona
la vicenda ablatoria, è ancorato alla data
di scadenza dell'occupazione legittima o, se
anteriore, a quello di scadenza del termine
stabilito nella dichiarazione di pubblica
utilità, qualora l'opera pubblica venga
realizzata nel corso di tale occupazione o
di tale termine;
b. 2) il termine di prescrizione decorre,
invece, dal momento dell'irreversibile
trasformazione del fondo qualora
quest'ultima risulti avvenuta dopo quelle
scadenze.
... per la dichiarazione e l’accertamento:
- dell’illegittima occupazione appropriativa,
operata dal comune di Policoro, delle aree
di proprietà dell’istante occorrenti per la
realizzazione dei lavori di ampliamento e
completamento per la costruzione di cappelle
gentilizie e loculi a colombaio ubicate nel
medesimo comune;
- del diritto della ricorrente all’indennità
di occupazione legittima ed al risarcimento
dei danni quantificati nella misura pari ad
euro 27.981,74 o nella diversa somma che
risulterà in corso di causa a seguito dell’espletanda
C.T.U. oltre agli interessi legali e alla
rivalutazione monetaria dal dì del dovuto al
dì del soddisfo.
...
Il Collegio ritiene che la
domanda risarcitoria proposta sia infondata
per effetto dell’intervenuta prescrizione,
eccepita della difesa del Comune.
Poiché si tratta di opere assistite da
dichiarazione di pubblica utilità, vanno
applicati i principi elaborati dalla
giurisprudenza in materia di occupazione
appropriativa o acquisitiva e tuttora
condivisi da questo TAR.
In particolare, viene affermato (cfr. TAR
Campania Salerno, sez. I, 08.11.2006,
n. 1968) che:
a. 1) il fenomeno della cd.
occupazione appropriativa, che ha il
carattere dell'illiceità, si consuma alla
scadenza del periodo di occupazione
legittima o, se più breve, alla scadenza del
termine stabilito dalla dichiarazione di
pubblica utilità, sempre che, però, nel
frattempo, l'opera pubblica sia stata
realizzata, con la corrispondente
irreversibile trasformazione del suolo;
a.
2) si consuma, invece, al momento di detta
trasformazione qualora l'ingerenza nella
proprietà privata abbia già carattere
abusivo o se essa acquisti tale carattere
perché la trasformazione medesima avviene
dopo la scadenza del periodo di occupazione
legittima o, se più breve, del termine
stabilito dalla dichiarazione di pubblica
utilità;
b. 1) il termine di prescrizione
quinquennale del relativo diritto al
risarcimento del danno, ex art. 2947 c.c.,
decorrendo dal momento in cui si perfeziona
la vicenda ablatoria, è ancorato alla data
di scadenza dell'occupazione legittima o, se
anteriore, a quello di scadenza del termine
stabilito nella dichiarazione di pubblica
utilità, qualora l'opera pubblica venga
realizzata nel corso di tale occupazione o
di tale termine;
b. 2) il termine di
prescrizione decorre, invece, dal momento
dell'irreversibile trasformazione del fondo
qualora quest'ultima risulti avvenuta dopo
quelle scadenze (cfr. Cass., SS.UU.,
06.05.2003, n. 6853; Cass., 29.05.2003, n.
8593; Cass., 08.02.2006, n. 2824)
(TAR Basilicata,
sentenza 06.04.2012 n. 144 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nulla-osta paesaggistico.
Illegittimo annullamento in sede statale da
parte della Soprintendenza.
E’ illegittimo il provvedimento con il quale
la Soprintendenza per i beni ambientali e
architettonici ha annullato un nulla osta
paesaggistico emesso in sede locale ai sensi
dell’art. 39 l. n. 724/1994, nel caso in cui
risulti che non sia stato dato specifico
avviso agli interessati dell’avvio del
procedimento di controllo (1). Né tale vizio
è superabile con il richiamo all’art.
21-octies l. n. 241/1990, non trattandosi di
atto vincolato.
Anche se l’avviso di inizio del procedimento
di controllo in sede statale del nulla osta
paesaggistico può surrogato da atti
equipollenti, tuttavia non può costituire di
regola equipollente la dizione, nel nulla
osta paesaggistico, che l’atto sarà
trasmesso alla Soprintendenza per il
controllo (2).
---------------
(1) Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 20.01.2003
n. 203; Cons. Stato, sez. VI, 29.03.2002 n.
1790; Cons. Stato, sez. VI, 17.09.2002 n.
4709, secondo le quali sussiste dell’obbligo
dell’autorità statale di dare notizia
all’interessato, anche nell’ipotesi in cui
il nulla osta rechi l’avviso che l’atto sarà
trasmesso alla Soprintendenza, dell’avvio
del procedimento preordinato all’eventuale
annullamento del nulla-osta paesaggistico.
(2) Cfr. Cons. Stato, sez. VI, n. 1790/2002,
cit.
Ha osservato la sentenza in rassegna che la
impossibilità di ritenere equipollente la
dizione, nel nulla osta paesaggistico, che
l’atto sarà trasmesso alla Soprintendenza
per il controllo, deriva dal fatto che
l’atto comunale costituisce l’oggetto della
nuova fase procedimentale destinata ad
aprirsi di fronte all’autorità statale,
sicché la stessa non può, strutturalmente,
essere considerata equivalente all’avviso
dell’inizio di tale nuova fase, dal momento
che esso non contiene alcuna generica
informazione circa l’oggetto, il
responsabile del procedimento, le modalità
di partecipazione, ed in genere lo
svolgimento della predetta nuova fase.
E’ stato quindi ribadito che l’onere di cui
all’art. 7, comma 1, della l. n. 241/1990,
viene soddisfatto soltanto dalla formale
comunicazione ad opera dell’autorità statale
competente a pronunciare l’eventuale
annullamento dell’autorizzazione
paesaggistica, così come, del resto,
esplicitamente previsto dalla normativa
regolamentare attuativa della l. n. 241/1990
appositamente dettata dal Ministero dei beni
culturali ed ambientali, con d.m. n. 495 del
13.06.1994 (art. 4 e tabella A punto 4)
(massima tratta da www.regione.piemonte.it -
Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 08.03.2012 n. 1318
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Diritto di accesso delle organizzazioni
sindacali - Condizioni - Limiti - Diniego -
Ricorso avverso il diniego - Individuazione
dei controinteressati titolari del diritto
alla riservatezza.
Le organizzazioni sindacali sono legittimate
ad agire a tutela sia degli interessi di cui
sono dirette titolari, sia degli interessi
giuridicamente rilevanti di loro
appartenenza, sicché sono titolari del
diritto ad accedere agli atti adottati dal
datore di lavoro, ove coinvolgano tanto le
prerogative sovraindividuali di cui sono
portatrici, quanto le posizioni dei singoli
iscritti nel cui interesse operano.
In caso di ricorso avverso il diniego
opposto all’ostensione in parola, dopo la
novella introdotta all’art. 116, primo
comma, c.p.a. con il Dlgs n. 195 del 15.11.2011 l’atto introduttivo, a pena di
inammissibilità, deve essere notificato ad
almeno un controinteressato, che, in
ipotesi, alla stregua del Dlgs n. 196 del 30.06.2003
recante il Codice di protezione dei dati
personali, è agevolmente individuabile nel
titolare dei dati personali, afferenti la
propria vita lavorativa, contenuti nei
documenti oggetto dell’istanza di accesso
interdetta (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 23.02.2012 n. 1034
- link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Precedenti
Sulla legittimazione all’accesso Consiglio
di Stato, sezione V, dec. n. 3000 del 30.05.2003; id. sezione VI, dec. n. 2938
del 27.05.2003; Consiglio di Stato,
sezione VI, dec. n. 24 dell’11.01.2010.
Sull’accesso a dati sensibili, in
particolare in materia di accesso alle
offerte tecniche, Consiglio di Stato,
sezione VI, dec. n. 5062 del 30.07.2010
e in punto di ostensione delle cartelle
cliniche id. sezione V, dec. n. 7166 del 28.09.2010.
---------------
Il sindacato può fare l’accesso, purché non
sia un preventivo e generalizzato controllo
dell’attività della PA
Sindacati: sì al diritto di accesso
per la tutela di posizioni individuali.
Con la pronuncia in commento i Giudici di
Palazzo
Spada delineano i contorni del diritto di
accesso delle
organizzazioni sindacali, ormai ampliato
fino a ricomprendere
tutti gli atti strumentali a garantire la
tutela sia
degli interessi collettivi di cui sono
esponenti, sia delle
posizioni lavorative dei loro iscritti, non
senza un’interessante
digressione sulle modalità dell’azione
esperibile
avverso il diniego opposto dal datore di
lavoro. Il caso
trae origine dalla richiesta avanzata da un
sindacato
indipendente nei confronti dell’Autorità
garante della
concorrenza e del mercato di accedere a
tutti gli atti di
assunzione a tempo determinato, anche
mediante comando
di personale proveniente da altre pubbliche
amministrazioni,
nonché ai relativi atti di assegnazione ai
diversi uffici e alle mansioni espletate, al
trattamento
economico loro riservato e ai titoli
professionali dagli
stessi posseduti, allo scopo di verificarne
la conformità
agli accordi collettivi e alla normativa
vigente in materia.
Ostensione denegata dal datore di lavoro in
ragione
della presunta carenza di legittimazione del
sindacato
istante, esulando gli atti dall’interesse
collettivo di sua
spettanza, ma accordata dal Tribunale
amministrativo
di prossimità in sede di ricorso, con
pronuncia(1)
integralmente confermata in secondo grado
con la
sentenza in epigrafe.
Legittimazione all’accesso
In disparte l’annosa e mai sopita questione
intorno alla
natura dell’istituto dell’accesso, di
diritto soggettivo(2)
o interesse legittimo(3), peraltro ritenuta
pragmaticamente
irrilevante anche dal Consiglio di Stato in
Adunanza
Plenaria(4), nelle due occasioni di
intervento,
ciò che risulta di maggiore interesse in
sede applicativa
è l’esatta individuazione del novero dei
soggetti legittimati
a esercitarlo, avuto riguardo all’interesse
di cui
sono portatori, di non agevole demarcazione
soprattutto
quante volte essi non siano persone fisiche
e si
rivolgano ad atti recanti dati personali
alieni, più o
meno sensibili, spesso artata trincea del
diniego opposto
dall’ente detentore, smodatamente
affezionato alla
più comoda gestione segretata della propria
attività,
ancorché di interesse pubblico, presidiata
dal Dpr n. 3
del 10.01.1957, prima dell’entrata in
vigore della
legge n. 241/1990, fatti salvi specifici
obblighi di trasparenza
introdotti da leggi settoriali. Obblighi di
trasparenza,
ritenuti viceversa coerenti con i canoni
democratici
di imparzialità e buon andamento introdotti
dalla Carta Costituzionale, che hanno
ricevuto ulteriore
impulso dapprima con la legge n. 15 dell’11.02.2005 e, da ultimo, con quello più radicale
della legge n.
69 del 18.06.2009 che ne ha modificato
l’art. 29,
definendo la prerogativa in disamina come
prestazione
di livello essenziale, ai sensi dell’art.
117, comma 2,
lett. m), Cost., come tale non comprimibile
dalle leggi
regionali e da regolamenti locali, potendo
questi soltanto
innovarne la disciplina in senso ampliativo.
Probabilmente è da ricondursi al citato
rafforzamento
lo sforzo mostrato dalla dottrina e dalla
giurisprudenza,
ferma la legittimazione attiva delle persone
giuridiche
e delle associazioni, di rendere più
elastici i caratteri
di attualità, personalità e concretezza del
relativo
interesse all’ostensione, di cui al
regolamento approvato
con Dpr n. 184 del 12.04.2006 (in parte
qua
confermativo del precedente di cui al Dpr n.
352 del
27.06.1992) così da ampliarne le ipotesi
di assenso.
Se, infatti, risulta confermato
l’orientamento che
esclude che il legislatore abbia voluto
riconoscere alle
associazioni di categoria la legittimazione
a scrutinare, in via generale, l’intero
operato della pubblica amministrazione
per tramite di un accesso indiscriminato,
solo in ragione del loro essere portatori di
interessi
collettivi, non essendo il diritto de quo
un’azione popolare(5), non di meno, la giurisprudenza
amministrativa
si è mostrata sempre più incline ad ampliare
le
maglie dell’interesse sindacale
riconducendovi non solo
quello sovraindividuale in senso stretto, ma
anche
quello individuale dei suoi iscritti(6).
Segnatamente per le associazioni sindacali,
il diritto
pretorio, in fase di prima applicazione, nel
mentre ne
ha riconosciuto il diritto ad accedere, ad
esempio agli
atti di distribuzione degli incrementi
salariali e dei
premi di produzione corrisposti ai
dipendenti dell’amministrazione,
in quanto rientranti nelle materie oggetto
di concertazione, lo ha viceversa escluso
con
riferimento ai provvedimenti di avanzamento
di carriera
in considerazione del fatto che “nella
materia in
questione non si versa in una ipotesi di
tutela dell’interesse
indifferenziato della categoria, che, nel
corso di una situazione
rilevante e tutelabile secondo l’ordinamento
giuridico,
legittimerebbe l’accesso alla documentazione
amministrativa
ai fini della tutela dell’interesse stesso,
ma di
interessi propri, diretti e personali dei
singoli associati”.
Gli approdi del Consiglio di Stato
Si inserisce nel predetto solco, ampliativo,
la decisione
dei Giudici di Palazzo Spada di accordare al
sindacato
l’accesso non solo a tutti quei documenti
che possano
coinvolgere le sue prerogative, quale
istituzione esponenziale
di una determinata categoria di lavoratori,
ma
anche a tutti quelli che afferiscano alle
posizioni di
lavoro di singoli iscritti nel cui interesse
e rappresentanza
opera, purché “l’accesso non finisca per
costituire
un preventivo e generalizzato controllo
dell’intera attività
dell’amministrazione datrice di lavoro,
sovrapponendosi e
duplicando compiti e funzioni demandati ai
soggetti istituzionalmente
e ordinariamente preposti nel settore di
impiego
alla gestione del rapporto di lavoro”.
Rispondendo, peraltro, tale assunto ai
principi fissati
dall’Adunanza Plenaria in punto di interesse
ad agire
degli enti esponenziali di interessi
collettivi, esistente
ogniqualvolta sia riconducibile al c.d.
interesse istituzionalizzato,
ovverossia a quello che ha determinato la
creazione dell’associazione medesima. Né a
ciò osta la
presenza negli atti richiesti di dati
personali di terzi,
lavoratori, dovendo gli opposti interessi
dell’ostensione
e della riservatezza ricomporsi alla stregua
dei
principi e dei limiti dettati dal Dlgs n.
196 del 30.06.2003, recante il c.d. Codice della
privacy.
La riservatezza, che esprime l’esigenza,
avvertita in
tempi più recenti, di tutelare l’interesse
privatistico a
che sia mantenuto il riserbo in ordine a
vicende o atti
che coinvolgano la sfera personale o
economicopatrimoniale
di singoli soggetti, sia persone fisiche,
che
giuridiche, può, infatti, essere
potenzialmente collidente
con quello alla partecipazione e trasparenza
che
connota l’agere publicum, quante volte esso
si intersechi
con attività o atti riconducibili a privati
di cui dà
contezza l’art. 24 della legge n. 241/1990,
che infatti al da contemplare con
regolamento governativo, ai sensi
dell’art. 17, comma 2, della legge n.
400/1988, quello
dei documenti concernenti “la vita privata o
la riservatezza
di persone fisiche … con particolare
riferimento agli
interessi … sanitario, professionale … di
cui siano in concreto
titolari, ancorché i relativi dati siano
forniti all’amministrazione
dagli stessi soggetti cui si riferiscono”,
mentre, al
successivo comma 7, prescrive che “deve
essere garantito
ai richiedenti l’accesso ai documenti
amministrativi la cui
conoscenza sia necessaria per curare o per
difendere i
propri interessi giuridici. Nel caso di
documenti contenenti
dati sensibili e giudiziari, l’accesso è
consentito nei limiti in
cui sia strettamente indispensabile e nei
termini previsti
dall’art. 60, Dlgs n. 196 del 30.06.2003, in caso di dati
idonei a rivelare lo stato di salute e la
vita sessuale”.
Con ciò significando che non soffrono i
citati limiti gli atti
che pur contenendo dati personali, non
rivelino lo stato
di salute o la vita sessuale, ossia dati
sensibili o sensibilissimi,
che, se del caso, potrebbero essere
debitamente
oscurati dall’ente detentore in sede di
ostensione, comunque
assentibile per la restante parte del
documento,
onde evitare che costituiscano surrettizio
velo all’esibizione
della restante documentazione richiesta.
Tanto, anche considerando che la posizione
del titolare
dei dati riceve adeguata tutela, in sede
procedimentale,
con l’art. 25 della legge n. 241/1990, che
contempla
il parere del Garante della privacy e, in
sede processuale,
con l’art. 116 c.p.a., come novellato dal
Dlgs
n. 195 del 15.11.2011, a tenore del
quale, a
pena di inammissibilità il ricorso avverso
il diniego di
accesso va notificato ad almeno un
controinteressato,
nella specie, evidentemente, del lavoratore
i cui dati
personali siano riportati nell’atto da
esibirsi.
---------------
(1) Tar Lazio, Roma, sezione I, dec. n.
8014 del 12.10.2011.
(2) Consiglio di Stato, sezione VI, dec. n.
2938 del 27.05.2003, id. dec. n. 14 del
03.01.2004; Tar Roma, sez. II, dec. n.
2206 dell’08.03.2004; Tar Valle d’Aosta, dec. n. 102 del 23.05.2003.
(3) Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
dec. n. 16 del 24.06.1999.
(4) Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
dec. n. 16 del 18.04.2006.
(5) Sul punto deve segnalarsi che la
Commissione Nigro nello schema di legge
originario della legge n. 214/1990 prevedeva
il diritto d’accesso a “tutti i cittadini”,
con ciò intendendo istituire una vera e
propria “azione popolare”, successivamente
stralciata nel testo definitivamente
approvato.
(6) Infatti nel primo decennio di
applicazione della normativa in materia, la
giurisprudenza era tesa a escludere la
legittimazione dei soggetti portatori di
interessi diffusi ad accedere agli atti a
tutela degli interessi dei propri iscritti.
Per tutte: Consiglio di Stato, sezione VI,
dec. n. 1683 del 16.12.1998, id. sezione IV,
dec. n. 32 del 14.01.1999 (commento
tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 4/2012 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Decadenza del permesso di
costruire per mancata osservanza del termine
annuale per l’inizio dei lavori e di quello
triennale per il loro completamento. Termini
di efficacia del Permesso di costruire.
Istituzione della commissione edilizia
comunale e sue competenze.
La decadenza del permesso di costruire, per
mancata osservanza del termine annuale per
l’inizio dei lavori e di quello triennale
per il loro completamento, disciplinata
dall’art. 15 del t.u. 06.06.2001 n. 380: a)
è espressione di un potere strettamente
vincolato; b) ha una natura ricognitiva,
perché accerta il venir meno degli effetti
del titolo edilizio in conseguenza
dell'inerzia del titolare ovvero della
sopravvenienza di un nuovo piano regolatore;
c) pertanto ha decorrenza ex tunc
(1).
Il termine di durata del permesso edilizio
non può mai intendersi automaticamente
sospeso, essendo, al contrario, sempre
necessaria, a tal fine, la presentazione di
una formale istanza di proroga, cui deve
comunque seguire un provvedimento da parte
della stessa amministrazione che ha
rilasciato il titolo ablativo, che accerti
l’impossibilità del rispetto del termine; e
solamente nei casi in cui possa ritenersi
sopravvenuto un "factum principis"
ovvero l’insorgenza di una causa di forza
maggiore (2).
Una istanza con la quale il titolare di un
permesso di costruire ha dichiarato di aver
iniziato le opere, è meramente formale ed è
comunque ininfluente ai fini del rispetto
del termine di decadenza per l’inizio dei
lavori, nel caso in cui sia stata effettuata
in totale assenza di una qualsiasi attività
edilizia per la realizzazione dell'edificio,
non testimoniando affatto un effettivo e
significativo inizio dei lavori edilizi nel
termine stabilito (3).
Nel caso in cui sia stata presentata una
istanza di proroga del termine annuale per
l’inizio dei lavori previsti dal permesso di
costruire, il Comune deve comunque valutare
l'idoneità delle opere realizzande a
costituire un inizio effettivo dei lavori
edilizi in rapporto al contesto complessivo
del progetto stesso (4).
L'art. 4 del d.P.R. n. 380/2001 (T.U.
edilizia), nel rendere per i Comuni
facoltativa l'istituzione della Commissione
edilizia, ha introdotto un principio
fondamentale in materia di governo del
territorio, al quale deve sottostare la
normativa regionale, ai sensi dell'art. 117
Cost. (5). A seguito dell’entrata in vigore
di tale disposizione, le norme regionali in
materia devono essere interpretate in senso
costituzionalmente coerente con i principi
generali introdotti in materia dal predetto
T.U. (6) e deve quindi ritenersi che le
eventuali norme legislative regionali che
prevedano l’obbligatorietà del parere della
C.E.C. sono state implicitamente abrogate ai
sensi dell’art. 10 della L. n. 62/1953.
La Commissione edilizia comunale ha
competenza in materia di specifiche
valutazioni sul merito tecnico, urbanistico,
costruttivo ed architettonico dei progetti,
ma non è titolare di alcun potere in ordine
alla verifica dell'inesistenza o al venir
meno dei presupposti legali
dell’edificazione effettuata (7); ne
discende che la dichiarazione di decadenza
della concessione di costruzione non
richiede l'acquisizione del parere della
Commissione edilizia comunale (8).
---------------
(1) Cfr. infra multa: Cons. Stato, sez.
IV, 10.08.2007, n. 4423; Cons. Stato, sez.
IV, 18.06.2008, n. 3030
(2) Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 15 luglio
2008, n. 3527; Cons. Stato, sez. IV,
08.02.2008, n. 434.
(3) Cfr. Cons. Stato, sez. V, 29.11.2004, n.
7748
(4) Cfr. Consiglio Stato, sez. IV,
18.06.2008, n. 3030; Cons. Stato, sez. IV,
15.07.2008, n. 3527.
(5) Cfr, Cons. Stato, sez. IV, 02.10.2008,
n. 4793
(6) Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 02.10.2008,
n. 4793
(7) Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 01.10.2007,
n. 5049.
(8) V. per tutte Cons. Stato, sez. IV,
31.08.2010, n. 3955 e Cons. Stato, sez. V,
11.01.2011, n. 79 (massima tratta da
www.regione.piemonte.it -
Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 23.02.2012 n. 974
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La Cassazione chiarisce i
significati di volume tecnico e pertinenza
urbanistica. Il titolo edilizio non può
essere eluso parcellizzando l’attività.
● Il regime dei titoli
abilitativi edilizi non può essere eluso
attraverso la suddivisione dell’attività
edificatoria finale nelle singole opere che
concorrono a realizzarla. L’opera deve
essere considerata unitariamente nel suo
complesso, senza che sia consentito scindere
e considerare separatamente i suoi singoli
componenti.
● Volumi tecnici sono
quelli non utilizzabili né adattabili a uso
abitativo strettamente necessari a
consentire l’eccesso di quelle parti degli
impianti tecnici che non possono, per
esigenze tecniche di funzionalità degli
stessi non altrimenti soddisfabili, trovare
allocazione all’interno della parte
abitativa dell’edificio realizzabile nei
limiti imposti dalle norme urbanistiche. I
volumi tecnici, dovendosi porre rispetto
alla costruzione come elementi tecnicamente
essenziali per l’utilizzazione della stessa,
non possono ricomprendere gli spazi
destinati ad assolvere a funzioni
complementari.
● La pertinenza
urbanistica ha peculiarità sue proprie che
la distinguono da quella civilistica:
trattasi di un’opera avente propria
individualità fisica e conformazione
strutturale, che non è parte integrante di
altro fabbricato e che è preordinata a
un’oggettiva esigenza dell’edificio
principale, funzionalmente e oggettivamente
inserita al servizio dello stesso allo scopo
di renderne più agevole e funzionale l’uso
(nesso di strumentalità funzionale), come
tale sfornita di un autonomo valore di
mercato e non valutabile in termini di
cubatura o comunque dotata di un volume
minimo, tale da non consentire una sua
destinazione autonoma e diversa da quella a
servizio dell’immobile cui accede.
---------------
Con la
sentenza 14.02.2012 n. 5618
la Corte di Cassazione, Sez. III penale, fa
nuovamente il punto su alcune importanti
questioni in materia di titoli abilitativi
edilizi e di inerenti fattispecie criminose,
con particolare riguardo a quelle realizzate
mediante pratiche elusive.
Le questioni rilevanti.
Vengono in rilevo, segnatamente, le seguenti
questioni:
- l’individuazione dell’ambito di
riferimento del permesso di costruire, se
come intervento complessivo ovvero come
singole opere in cui esso si estrinseca, con
quanto ne consegue in ordine al fenomeno
della parcellizzazione dell’attività
edificatoria;
- la nozione di “volume tecnico” e la
sua riferibilità o meno alle parti di
edificio destinate all’assolvimento di
funzioni complementari;
- la puntualizzazione del concetto di “pertinenza
urbanistica”, con particolare
riferimento ai profili della strumentalità
funzionale e della individualità strutturale
rispetto all’edificio principale.
Le soluzioni.
La pronuncia in commento riafferma,
ponendosi in linea di continuità con una
consolidata giurisprudenza sia di
legittimità che amministrativa, la rilevanza
penale degli interventi edilizi che non
trovino abilitazione in un corrispondente
permesso di costruire, nonché l’approccio
sostanziale che deve guidare tali riscontri.
La suddivisione
dell’attività edificatoria.
Viene ribadito, segnatamente, che la realizzazione di opere riguardanti un
preesistente fabbricato necessita sempre di
un permesso di costruire, la cui valenza
abilitativa va riferita all’intervento
complessivo, al fine di evitare che i
vincoli urbanistici possano essere aggirati
per il tramite di pratiche elusive
consistenti nella artificiosa
parcellizzazione dell’attività edificatoria.
Invero, il regime dei titoli abilitativi
edilizi non può essere eluso attraverso la
suddivisione dell’attività edificatoria
finale nelle singole opere che concorrono a
realizzarla, facendo leva sul fatto che le
stesse sono astrattamente suscettibili di
forme di controllo preventivo più limitate,
in ragione della loro più modesta incisività
sull’assetto territoriale. Per contro,
l’opera deve essere sempre “considerata
unitariamente nel suo complesso, senza che
sia consentito scindere e considerare
separatamente i suoi singoli componenti”
(Cass., sez. III, sent. 29.01.2003; sent.
11.10.2005).
Al citato fine antielusivo, la Cassazione
puntualizza inoltre i contenuti di alcune
nozioni urbanistiche che sovente sono
invocate al fine, per l’appunto
stigmatizzato dal Giudice della legittimità,
di reperirvi una pretesa giustificazione in
ordine a interventi edilizi sostanzialmente
ampliativi dei fabbricati preesistenti.
Il volume tecnico.
Un primo concetto in tal senso esaminato è
quello di volume tecnico. La Cassazione ne
ribadisce una interpretazione restrittiva,
rigorosamente ancorata al dato funzionale e
perimetrata in termini di effettiva
indispensabilità tecnica. In questa
prospettiva, richiamandosi la risalente e
consolidata giurisprudenza del Consiglio di
Stato (sez. V, sent. n. 6038 del
16.09.2004), vengono individuati come tali
esclusivamente i volumi che siano “strettamente
necessari a consentire l’eccesso di quelle
parti degli impianti tecnici che non
possono, per esigenze tecniche di
funzionalità degli impianti stessi, trovare
allocazione all’interno della parte
abitativa dell’edificio realizzabile nei
limiti imposti dalle norme urbanistiche”.
Trattasi, in altri termini, di volumi “che,
per funzione e dimensione, si pongono
rispetto alla costruzione come elementi
tecnici essenziali per l’utilizzazione della
stessa” (Cons. Stato, sez. V, sent. n.
239/1982; sez. V, sent. n. 44/1991) e ai
quali, soltanto e nella misura delineata
dalla necessità tecnica ineludibile, è
consentito eccedere rispetto ai limiti
urbanistici posti alla parte abitativa, la
quale, diversamente, si vedrebbe
pregiudicata con riferimento a profili
funzionali essenziali.
Dalle esposte premesse discende una serie di
più articolate conseguenze. In primis,
quella per cui i volumi tecnici, quali “parti
di edificio destinate a comprendere gli
impianti tecnici che, per la loro
funzionalità, non possono essere contenuti
entro i limiti volumetrici previsti dalla
legge” (Cass., sez. III, sent.
28.10.1981), non possono mai fare
riferimento all’intero edificio,
legittimandone indifferenziati e
generalizzati aumenti di volume, bensì
soltanto a porzioni ben individuate
dell’edificio stesso, la cui eccedenza
rispetto ai limiti urbanistici non può che
essere commisurata e perimetrata in ragione
di quanto necessario e sufficiente ad
assicurare la funzionalità degli impianti.
Ne discende, ancora, che possono
qualificarsi come volumi tecnici soltanto
quelli destinati a ospitare “le parti
degli impianti tecnici che non possono, per
esigenze tecniche di funzionalità degli
impianti stessi, trovare allocazione
all’interno della parte abitativa
dell’edificio realizzabile nei limiti
imposti dalle norme urbanistiche”, con
esclusione dunque di ogni ampliamento
volumetrico che fosse invece finalizzato a
contenere parti di impianti
che ben potrebbero, senza alcun pregiudizio
funzionale, essere localizzate e contenute
all’interno della parte abitativa.
Ulteriore corollario attiene al fatto che i
volumi tecnici “non sono utilizzabili né
adattabili a uso abitativo” (Cons.
Stato, sez. V, sent. n. 638/2004, richiamata
da Cass., sez. III, sent. n. 5618/2012 in
commento), non potendosi, in buona sostanza,
approfittare della copertura offerta dal
regime abilitativo di favore consentito, in
via di stretta eccezione, per fronteggiare
le necessità tecniche essenziali ineludibili
degli impianti al fine distorto ed elusivo
dei vincoli urbanistici e, come tale,
illecito di espandere il volume della parte
abitativa oltre quanto obiettivamente
indispensabile in relazione alle necessità
tecniche suddette.
Un’altra importante conseguenza è quella per
cui i volumi tecnici “non ricomprendono
quelli suscettibili di assolvere a funzioni
complementari” (Cons. Stato, sez. V,
sent. n. 239 del 19.03.1982; sez. V, sent.
n. 44 del 14.01.1991). Ciò è connesso al
carattere di “funzionalità essenziale”
che il volume tecnico deve rivestire,
dovendo trattarsi, ai fini dell’esclusione
del calcolo della volumetria ammissibile, di
spazi destinati e “strettamente necessari
a contenere o a consentire l’accesso a
quelle parti degli impianti (es. idrico,
termico, elevatoio, televisivo, di
parafulmine, di ventilazione ecc.)” che
pur non potendo “per esigenze tecniche di
funzionalità degli impianti stessi, trovare
luogo entro il corpo dell’edificio
realizzabile nei limiti imposti dalle norme
urbanistiche” “si pongono rispetto
alla costruzione come elementi tecnici
essenziali per l’utilizzazione della stessa”,
il cui difetto ne pregiudicherebbe pertanto
l’obiettiva attitudine all’uso essenziale
(abitativo) cui essa è destinata (Cons.
Stato, sent. n. 6038/2004). Non può quindi
invocarsi il regime di favore in relazione
ad ampliamenti volumetrici connessi alla
realizzazione di finalità complementari,
stante la non essenzialità ad assicurare la
funzionalità del fabbricato, attenendo
piuttosto gli stessi a una maggiore
valorizzazione del costrutto che non trova
giustificazione in termini di ineludibile
necessità e che, come tale, è soggetta
all’ordinario regime abilitativo.
La suddetta caratteristica di strumentalità
necessaria è inoltre presidiata per il
tramite della remissione dell’individuazione
della tipologia e della volumetria delle
parti di impianti qualificabili come volumi
tecnici, cui consegue l’ammissione al regime
derogatorio di favore, alle specifiche
elencazioni e ai relativi indici come
definiti, per ciascuna zona, a opera dei
competenti strumenti urbanistici.
Elencazioni e prescrizioni alle quali la
giurisprudenza riconosce “natura
tassativa” (Cons. Stato, sent. n.
6038/2004), con conseguente esclusione della
invocabilità del favorevole regime
derogatorio di non computo del volume
tecnico con riferimento sia a tipologie di
impianti che esulino da quelle
tassativamente elencate e sia a volumi
eccedenti rispetto agli indici altrettanto
tassativamente prescritti.
In tale prospettiva, è stato escluso dalla
sentenza penale in commento che
l’insediamento di tipologia di impianto
esulante dalla tassativa elencazione
contenuta nello strumento urbanistico
potesse giustificare la maggiore altezza di
tutto l’edificio in termini di destinazione
al volume tecnico, ritenendosi piuttosto che
si trattasse di una vera e propria
sopraelevazione, assolvente a funzioni
complementari all’abitazione e non invece “alla
necessaria funzionalità degli impianti del
fabbricato preesistente”.
A tale ultimo riguardo va sottolineata
l’importanza del riferimento della
funzionalità necessaria al fabbricato
preesistente, che sottende l’esclusione del
beneficio della scomputabilità del volume
tecnico con riferimento alla sopraelevazione
o ultraedificazione a beneficio di parte del
fabbricato che non sia sorretta da un
corrispondente titolo abilitante. In altri
termini, il volume tecnico può riferirsi
soltanto agli spazi eccedentari che sono
necessari ad assicurare la funzionalità
degli impianti a servizio essenziale del
preesistente fabbricato, sul presupposto e
nella misura in cui lo stesso sia conforme
alle abilitazioni edilizie, dovendo invece
escludersi che lo scomputo volumetrico possa
invocarsi anche con riferimento agli spazi
destinati a servire la sopraelevazione o
ultraedificazione illegittima.
Ciò in quanto l’illiceità della stessa,
conseguente al difetto ab origine di
un idoneo titolo abilitante, si estende
automaticamente e conseguenzialmente anche a
ogni opera che sia servente rispetto a
quella abusiva. In tal senso la
giurisprudenza ha precisato che “Il
regime delle pertinenze urbanistiche … non è
applicabile allorché l’accessorio acceda a
un manufatto principale abusivo non sanato
ex art. 13 della legge n. 47/1985 e non
condonato. […] Infatti: il regime
pertinenziale è un regime eccezionale di
favore che non può essere esteso a
situazioni non corrispondenti alla sua ratio;
l’accessorio è intimamente connesso al
principale, per cui se quest’ultimo è
abusivo non vi è alcuna ragione per
agevolare la costruzione di altra opera
destinata a produrre una compromissione del
territorio ulteriore rispetto a quella
causata dal manufatto principale; la non
conformità, o comunque la mancata verifica
di conformità allo strumento urbanistico
dell’opera principale, realizzata in assenza
di concessione edilizia, priva il comune del
parametro di legalità in relazione al quale
può essere esercitato il potere di
autorizzare opere pertinenziali che
costituiscono completamento di quanto
conserva caratteristiche di contrarietà
all’assetto urbanistico del territorio”
(Cass. pen., sez. VI, sent. n. 4164 del
19.07.1995, richiamata da Cass. pen., sez.
III, sent. n. 4087 del 28.01.2008).
La pertinenza urbanistica.
L’ulteriore nozione disaminata dalla
sentenza penale in commento, con il fine di
puntualizzarne i contenuti in senso
antielusivo, è quella di pertinenza
urbanistica, anch’essa sovente invocata
nella prassi quale possibile escamotage, per
l’appunto stigmatizzato dal giudice della
legittimità, per la pretesa giustificazione
di abusi edilizi. Anche per le pertinenze
urbanistiche nonché per le costruzioni di
natura accessoria è previsto un regime di
favore, potendo le stesse essere sottratte
alle disposizioni degli strumenti
urbanistici relative ai fabbricati e alle
norme sulle distanze integrative del codice
civile sulla base e nei limiti delle
espresse previsioni derogatoria che siano in
tal senso eventualmente sancite dagli
strumenti urbanistici (Cass. civ., sez. II,
sent. n. 4208 del 06.05.1987).
La giurisprudenza ha meglio delineato i
tratti distintivi della pertinenza
urbanistica rispetto alla nozione
civilistica.
Quest’ultima è fornita dall’art. 817 c.c.,
che definisce tali “le cose destinate in
modo durevole a servizio od ornamento di
un’altra cosa”; il nesso funzionale
stabile che contrassegna ontologicamente il
rapporto pertinenziale si traduce nella
regola generale, salvo diversa disposizione
legislativa o contrattuale,
dell’assoggettamento della pertinenza al
medesimo regime e destino giuridico del bene
principale (artt. 818, 819 c.c.).
Più articolato è il concetto di pertinenza
urbanistica, che riflette “il
preminente rilievo che nel settore
urbanistico hanno le esigenze di tutela del
territorio”. In tale prospettiva, “mentre
nella pertinenza civilistica rilevano sia
l’elemento obiettivo che quello soggettivo,
nella pertinenza urbanistica acquista
rilevanza solo l’elemento oggettivo”.
Proprio con riferimento all’elemento
oggettivo il Legislatore, “con il Testo
unico dell’edilizia approvato con Dpr n.
380/2001, per superare le incertezze
derivanti dal criterio quantitativo indicato
dalla giurisprudenza per le pertinenze, ha
fissato due criteri per precisare quando
l’intervento perde le caratteristiche della
pertinenza per assumere i caratteri della
nuova costruzione: il primo rinvia alla
determinazione delle norme tecniche degli
strumenti urbanistici, che dovranno tenere
conto della zonizzazione e del pregio
ambientale e paesistico delle aree; il
secondo, alternativo al primo, qualifica
come nuova opera gli interventi che
comportino la realizzazione di un volume
superiore al 20% di quello dell’edificio
principale” (Cass. pen., sez. III, sent.
n. 28504 del 18.07.2007).
A ogni modo, va precisato che “una
trasformazione urbanistica e/o edilizia per
essere assoggettata all’intervento
autorizzatorio in senso ampio dell’autorità
amministrativa non deve essere ‘precaria’:
un’opera oggettivamente finalizzata a
soddisfare esigenze improvvise o transeunti
non è destinata a produrre, infatti, quegli
effetti sul territorio che la normativa
urbanistica è rivolta a regolare.
Restano esclusi, pertanto, dal regime del
permesso di costruire i manufatti di
assoluta ed evidente precarietà, destinati
cioè a soddisfare esigenze di carattere
contingente e a essere presto eliminati”
(Cass. pen., sez. III, sent. n. 24241 del
24.06.2010).
Anche con riferimento al profilo della
precarietà, l’approccio valutativo,
trattandosi di “tutela del territorio”,
deve essere sempre “oggettivo e non
soggettivo”. Segnatamente, detta
caratteristica “non può essere desunta
dalla temporaneità della destinazione
soggettivamente data all’opera dal
costruttore, ma deve ricollegarsi alla
intrinseca destinazione materiale dell’opera
a un uso realmente precario e temporaneo per
fini specifici, contingenti e limitati nel
tempo, con conseguente possibilità di
successiva e sollecita eliminazione”
(Cass., sez. III, sentenze n. 26573 del
26.06.2009; n. 25965 del 22.06.2009; n.
22054 del 25.02.2009; tutte richiamate da
sent. n. 24241 del 24.06.2010).
Inoltre “la natura precaria di una
costruzione non dipende dalla natura dei
materiali adottati e quindi dalla facilità
della rimozione, ma dalle esigenze che il
manufatto è destinato a soddisfare e cioè
dalla stabilità dell’insediamento indicativa
dell’impegno effettivo e durevole del
territorio”. La precarietà va esclusa
“quando trattasi di struttura destinata a
dare un’utilità prolungata nel tempo,
indipendentemente dalla facilità della sua
rimozione, a nulla rilevando la temporaneità
della destinazione data all’opera del
proprietario, in quanto occorre valutare la
stessa alla luce della sua obiettiva e
intrinseca destinazione naturale” (Cons.
Stato, sez. V, sent. n. 3321 del 15.06.2000;
sent. n. 97 del 23.01.1995).
Anche a tale fine, l’approccio valutativo
deve essere globale e non parcellizzato:
invero, “l’opera deve essere considerata
unitariamente e non nelle sue singole
componenti” (Cass., sez. III, sent. del
27.05.2004). “La stabilità non va confusa
con l’irremovibilità della struttura o con
la perpetuità della funzione a essa
assegnata, ma si estrinseca nell’oggettiva
destinazione dell’opera a soddisfare bisogni
non provvisori, ossia nell’attitudine a una
utilizzazione che non sia temporanea e
contingente” (Cass., sez. III, sent. del
07.06.2006).
È stato anche precisato che “la
precarietà non va confusa con la
stagionalità, vale a dire con l’utilizzo
annualmente ricorrente della struttura,
poiché un utilizzo siffatto non esclude la
destinazione del manufatto al
soddisfacimento di esigenze non eccezionali
e contingenti, ma permanenti nel tempo”
(Cass., sez. III, sent. n. 24241 del
24.06.2010).
Proseguendo nel solco tracciato dagli
esposti orientamenti giurisprudenziali, la
pronuncia n. 5618/2012 in commento,
individua la pertinenza urbanistica nella “opera
che abbia comunque una propria individualità
fisica e una propria conformazione
strutturale e non sia parte integrante o
costitutiva di altro fabbricato preordinata
a un’oggettiva esigenza dell’edificio
principale, funzionalmente e oggettivamente
inserita al servizio dello stesso, sfornita
di un autonomo valore di mercato, non
valutabile in termini di cubatura o comunque
dotata di un volume minimo tale da non
consentire, in relazione anche alle
caratteristiche dell’edificio principale,
una sua destinazione autonoma e diversa da
quella a servizio dell’immobile cui accede”
(artt. 22, 100 e 101 del Dpr n. 380/2001;
Cass. pen., sez. III, sent. n. 32939/2010,
sent. n. 4134/1998). Due, in sostanza, i
requisiti, uno di carattere strutturale e
l’altro di carattere funzionale.
Sotto il profilo strutturale, l’opera deve
essere dotata di una individualità sua
propria, che sia distinta, autonoma e
separata dall’edificio principale, così come
da ogni altro fabbricato; in relazione al
detto requisito strutturale, la pronuncia in
commento esclude la qualificabilità in
termini pertinenziali di ogni opera che sia
fisicamente parte integrante o costitutiva
di altro fabbricato nonché dell’“ampliamento
di un edificio che per la relazione di
connessione fisica costituisce parte di esso
quale elemento che attiene all’essenza
dell’immobile e lo completa affinché
soddisfi i bisogni cui è destinato” (in
tal senso anche Cass. pen., sez. III, sent.
n. 36941/2007, e 40843/2005 e Cass. pen.,
sez. III, n. 24241/2010, che ha escluso la
natura pertinenziale della edificazione di
una tettoia-portico, che, per la relazione
di connessione fisica con l’edificio, ne
costituisce parte integrante, attenendo
all’essenza dell’immobile e completandola
affinché lo stesso soddisfi i bisogni cui è
destinato, dovendo pertanto qualificarsi in
termini di ampliamento).
Invero, è incompatibile con la nozione di
pertinenza che la stessa possa essere parte
integrante della cosa principale ovvero
rappresentare un elemento indispensabile per
la sua esistenza. In tal senso, “L’elemento
distintivo tra la parte e la pertinenza non
consiste solo in una relazione di
congiunzione fisica, normalmente presente
nella prima e assente nella seconda, ma
anche e soprattutto in un diverso
atteggiamento del collegamento funzionale
della parte al tutto e della pertinenza alla
cosa principale: tale collegamento si
esprime per la parte come necessità di
questa per completare la cosa affinché essa
soddisfi ai bisogni cui è destinata: la
parte quindi è elemento della cosa. Nella
pertinenza, invece, il collegamento
funzionale consiste in un servizio od
ornamento che viene realizzato in una cosa
già completa e utile di per sé: la funzione
pertinenziale attiene non all’essenza della
cosa ma alla sua gestione economica e alla
sua forma estetica. Inoltre […] la
pertinenza si riferisce a un’opera autonoma
dotata di propria individualità mentre la
parte di un edificio è compresa nella
struttura di esso ed è quindi priva di
autonomia” (Cass. pen., sez. III, sent.
n. 28504/2007).
Per quanto concerne il profilo funzionale,
l’unità pertinenziale, strutturalmente
separata da quella principale, deve essere
caratterizzata da una destinazione servente
alle obiettive esigenze dell’edificio
principale, “allo scopo di renderne più
agevole e funzionale l’uso (carattere di
strumentalità funzionale)”. Tale
destinazione funzionale servente deve essere
ineludibile e trovare rispondenza, da un
lato, nella congruità della struttura della
pertinenza rispetto alle obiettive esigenze
della struttura principale e, dall’altro
lato, nella altrettanto oggettiva
impossibilità di destinare la pertinenza
stessa, proprio in relazione alla sua
conformazione strutturale inevitabilmente
servente, ad alcuna destinazione autonoma o
diversa da quella a servizio dell’immobile
cui accede.
L’esposta configurazione funzionale
ineludibilmente servente della pertinenza
urbanistica si riflette nella sua non
negoziabilità in via autonoma e nella
conseguente assenza di un autonomo valore di
mercato, che sola può giustificare,
unitamente alla modestia dimensionale del
volume rispetto all’edificio principale “in
modo da evitare il cosiddetto carico
urbanistico”, la non valutabilità della
stessa in termini di cubatura e la diversità
di regime abilitativo (Cons. Stato, sez. VI,
sent. n. 1174/2000; sez. V, sent. n.
2325/2001; sez. V, sent. n. 7822/2003). In
assenza invece degli esposti stringenti
requisiti strutturali e funzionali, la
nozione di pertinenza urbanistica, nonché il
corrispondente regime derogatorio di non
computo volumetrico, non sono invocabili e
torna quindi a riespandersi la regola
generale della necessità del permesso di
costruire.
Resta a ogni modo fermo che il regime
agevolato delle pertinenze non può mai
trovare applicazione in caso di contrasto
con gli strumenti urbanistici (Cass. pen.,
sez. III, sent. n. 32939/2010).
Una chiara concretizzazione dei principi
suesposti la si ha, ad esempio, in relazione
alla diversa disciplina che la
giurisprudenza ha individuato con
riferimento al muro di contenimento ovvero
al muro di cinta, che costituisce specifico
oggetto della pronuncia n. 5618/2012 in
commento.
In proposito, costituisce orientamento
consolidato che, “mentre il muro di cinta
può essere ricondotto alla categoria delle
pertinenze, non così il muro di contenimento
che viene assimilato alla categoria delle
costruzioni”.
Infatti “Nel caso in cui lo scopo della
realizzazione sia la delimitazione della
proprietà si ricade nell’ipotesi della
pertinenza, per cui non è necessario il
rilascio della concessione (Tar Emilia
Romagna, Parma, n. 106/2001; Tar Liguria,
sez. I, sent. n. 492/1996; Tar Liguria,
sent. n. 345/1994). Diversa è la situazione,
allorché il muro è destinato non solo a
recingere un fondo, ma contiene o sostiene
esso stesso dei volumi ulteriori (Tar Emilia
Romagna, Parma, sent. n. 246/2001; Tar
Lazio, sez. II, sent. n. 8923/2000); in tal
caso il manufatto ha una funzione autonoma,
dal punto di vista edilizio e da quello
economico” (Tar Piemonte, sent. n.
657/2003)”, “si eleva al di sopra del suolo
ed è destinato a trasformare durevolmente
l’area impegnata, come tale qualificabile
intervento di nuova costruzione”, con
conseguente necessità del permesso di
costruire (Tar Liguria, sez. I, sent. n.
4131/2009; Cass., sez. III, sent. n.
35898/2008) (commento tratto da Diritto e
Pratica Amministrativa n. 4/2012 -
Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 14.02.2012 n. 5618 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Accertamento della natura di
strada pubblica o privata. Autorizzazione
edilizia per l’installazione di una barra di
accesso ad una strada.
L’accertamento giurisdizionale
dell’effettiva esistenza della servitù di
pubblico passaggio compete all’autorità
giudiziaria ordinaria, trattandosi di
materia di diritto soggettivo e non di
interesse legittimo. Il Giudice
amministrativo può invece esercitare, al
riguardo, esclusivamente una cognizione
incidentale sulla questione (ex art. 8,
comma 1, c.p.a.), senza poter fare stato
sulla medesima con la propria decisione, e
al solo fine di pronunciarsi sulla
legittimità di un provvedimento che riguarda
la strada (nella specie è stata ritenuta
sussistente la giurisdizione amministrativa,
atteso che la controversia riguardava il
diniego di autorizzazione per
l’installazione di una sbarra automatizzata
destinata a regolare il traffico di una
strada, rispetto al quale la determinazione
della natura -privata o pubblica- della
strada costituiva accertamento incidentale).
Costituisce una strada pubblica quel tratto
viario che non è cieco, ma assume una
esplicita finalità di collegamento, essendo
destinato al transito di un numero
indifferenziato di persone (1). Il connotato
di interclusione dell'area servita, infatti,
esclude che vi possa sorgere un uso stradale
in favore di una collettività indeterminata,
e fa invece concludere per un'utilità
limitata ai soli proprietari frontisti (2).
Un'area privata può ritenersi assoggettata
ad uso pubblico di passaggio quando l'uso
avvenga ad opera di una collettività
indeterminata di soggetti considerati uti
cives, ossia quali titolari di un
pubblico interesse di carattere generale, e
non uti singuli, ossia quali soggetti
che si trovano in una posizione qualificata
rispetto al bene gravato; oppure quando vi
sia stato, con la cosiddetta dicatio ad
patriam, l'asservimento del bene da
parte del proprietario all'uso pubblico,
analogamente, di una comunità indeterminata
di soggetti considerati sempre uti cives,
di talché il bene stesso viene ad assumere
caratteristiche analoghe a quelle di un bene
demaniale (3).
E’ illegittimo un provvedimento con cui un
dirigente comunale ha negato l’assenso
all’installazione di una sbarra
automatizzata destinata a regolare il
traffico in entrata e in uscita da una
strada privata appartenente a un condominio,
limitandosi ad affermare che si tratta di
una strada pubblica, senza argomentare
ulteriormente dagli indici che la
giurisprudenza ha da tempo individuato per
dedurre la natura pubblica di una via,
atteso peraltro che nella specie il terreno
destinato a via consente l’accesso ed il
recesso da alcuni condomini alla via
pubblica, e non risulta provato che sia
stato destinato all’uso pubblico
indifferenziato da tempo immemore.
---------------
(1) Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 07.12.2010,
n. 8624
(2) Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 18.12.2006, n.
7601
(3) Cfr. Cass. civile, sez. II, 21.05.2001,
n. 6924; v. anche Cass. civ., II,
13.02.2006, n. 3075 secondo cui, ai fini
della dicatio ad patriam, occorre pur sempre
il requisito dell’idoneità intrinseca del
bene a soddisfare un’esigenza comune della
collettività dei consociati uti cives.
V. inoltre Cass. civ., II, 23.05.1995, n.
5637, secondo cui, perché un'area privata
possa ritenersi sottoposta ad una servitù
pubblica di passaggio, è necessario, oltre
all'intrinseca idoneità del bene, che l'uso
avvenga ad opera di una collettività
indeterminata di persone e per soddisfare un
pubblico, generale interesse. Ne consegue
che deve escludersi l'uso pubblico quando il
passaggio venga esercitato unicamente dai
proprietari di determinati fondi in
dipendenza della particolare ubicazione
degli stessi, o da coloro che abbiano
occasione di accedere ad essi per esigenze
connesse alla loro privata utilizzazione,
oppure, infine, rispetto a strade destinate
al servizio di un determinato edificio o
complesso di edifici (Cass. civ., I,
22.06.1985, n. 3761).
In applicazione del principio nella specie è
stato escluso l’uso pubblico della strada,
trattandosi di strada per la quale l’unico
uso possibile era quello funzionale alla
mera utilità dei residenti dei condomini
interessati; tale strada, infatti, non era
mai proseguita oltre tali edifici, nel
collegamento dei quali alla strada pubblica
ha dunque sempre visto esaurita la propria
concreta funzione.
Mancavano quindi i presupposti perché sulla
strada potesse effettivamente svolgersi un
uso generale, facendo difetto, in
particolare, il requisito dell’idoneità
intrinseca del bene a soddisfare un’esigenza
comune della collettività dei consociati.
In senso contrario, secondo la sentenza in
rassegna, non valeva opporre l’inclusione
della previsione della strada nell’ambito
dell’antica lottizzazione, in quanto i
relativi piani possono prevedere anche
strade private non soggette a transito
pubblico, quali sono, appunto, tutte quelle
che abbiano il mero scopo di dare accesso
solo a singoli edifici privati (massima
tratta da www.regione.piemonte.it -
Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 14.02.2012 n. 728 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Direttiva
2001/42/CE – Art. 6 – Designazione, a fini
di consultazione, delle autorità che possono
essere interessate dagli effetti
sull’ambiente dovuti all’applicazione di
piani e programmi – Possibilità per
un’autorità consultiva di concepire piani o
programmi – Obbligo di designazione di
un’autorità distinta – Modalità relative
all’informazione e alla consultazione delle
autorità e del pubblico.
1)
In circostanze come quelle della causa
principale, l’art. 6, n. 3, della direttiva
del Parlamento europeo e del Consiglio
27.06.2001, 2001/42/CE, concernente la
valutazione degli effetti di determinati
piani e programmi sull’ambiente, non impone
che sia creata o designata un’altra autorità
consultiva ai sensi di tale disposizione,
purché, in seno all’autorità normalmente
incaricata di procedere alla consultazione
in materia ambientale e designata a tal
fine, sia organizzata una separazione
funzionale in modo tale che un’entità
amministrativa, interna a tale autorità,
disponga di un’autonomia reale, la quale
implichi, segnatamente, che essa abbia a
disposizione mezzi amministrativi e risorse
umane propri, e sia in tal modo in grado di
svolgere i compiti attribuiti alle autorità
consultive ai sensi di tale art. 6, n. 3, e,
in particolare, di fornire in modo oggettivo
il proprio parere sul piano o programma
previsto dall’autorità dalla quale essa
promana.
2)
L’art. 6, n. 2, della direttiva 2001/42 dev’essere
interpretato nel senso che esso non impone
che siano fissati in modo preciso nella
normativa nazionale di recepimento di tale
direttiva i termini entro i quali le
autorità designate e il pubblico che ne è o
probabilmente ne verrà toccato, ai sensi dei
nn. 3 e 4 di tale articolo, devono poter
esprimere il proprio parere su una
determinata proposta di piano o di programma
nonché sul rapporto ambientale e, di
conseguenza, il citato n. 2 non osta a che
siffatti termini siano stabiliti di volta in
volta dall’autorità che elabora un piano o
un programma.
Tuttavia, in quest’ultimo caso, tale
medesimo n. 2 prescrive che, ai fini della
consultazione di tali autorità e di tale
pubblico su un progetto di piano o di
programma determinato, il termine
effettivamente stabilito sia congruo e
consenta quindi di dare loro un’effettiva
opportunità di esprimere, tempestivamente,
il loro parere su tale proposta di piano o
di programma nonché sul rapporto ambientale
che lo accompagna
(Corte di Giustizia, Sez. IV,
sentenza 20.10.2011 n. C-474/10 - link a
http://curia.europa.eu). |
AGGIORNAMENTO AL 02.05.2012 |
ã |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
A. Barbiero,
Come gestire i limiti alla spesa per la
formazione delle risorse umane nelle
amministrazioni pubbliche (art. 6, comma 13,
della legge n. 122/2010)
(24.04.2012 - tratto da www.albertobarbiero.net). |
APPALTI: L.
Bellagamba,
LA CAUSA DI ESCLUSIONE INERENTE AL «CONCORDATO
PREVENTIVO»
(link a www.linobellagamba.it). |
APPALTI:
P. Leozappa,
I RITARDATI PAGAMENTI DELLA PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE ED I RIMEDI OFFERTI
DALL’ORDINAMENTO GIURIDICO NAZIONALE
(Intervento al Convegno - I ritardati
pagamenti tra allarmismi e realtà: i rimedi
offerti dall'ordinamento - organizzato da IGI in Roma il 17.04.2012)
(link a
www.osservatorioappalti.unitn.it). |
APPALTI:
I. Sala e A. Borroni,
LA PARTECIPAZIONE AGLI APPALTI PUBBLICI:
PROFILI CIVILISTICI E FISCALI DEL CONTRATTO
DI RETE
(link a
www.osservatorioappalti.unitn.it). |
APPALTI:
C. Contaldi La Grotteria,
LA DICHIARAZIONE SUI REQUISITI DI MORALITÀ
PROFESSIONALE PER LA PARTECIPAZIONE ALLE
PROCEDURE DI AFFIDAMENTO DEGLI APPALTI
PUBBLICI (intervento al Seminario -
Requisiti generali di partecipazione e cause
di esclusione: problematiche applicative -
organizzato presso l'Università degli Studi
di Trento, 16.03.2012)
(link a
www.osservatorioappalti.unitn.it). |
ENTI LOCALI:
A. Santuari,
LE AZIENDE SPECIALI: UN MODELLO ANCORA VIVO?
(link a
www.osservatorioappalti.unitn.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Grisanti,
SCIA in edilizia e tutela del terzo (esegesi
dell’art. 19 della legge n. 241/1990 e
ss.mm.ii., con invito alla chiarezza
normativa rivolto al Presidente del
Consiglio dei Ministri) (link a
www.lexambiente.it). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
ENTI LOCALI: G.U.
30.04.2012 n. 100 "Patto di stabilità
interno per il triennio 2012-2014 per le
province e i comuni con popolazione
superiore a 5.000 abitanti, e, a decorrere
dal 2013, per i comuni con popolazione
compresa tra 1.001 e 5.000 abitanti
(articoli 30, 31 e 32 della legge
12.11.2011, n. 183)"
(Ragioneria Generale dello Stato,
circolare 14.02.2012 n. 5). |
APPALTI - ENTI LOCALI - VARI: G.U.
28.04.2012 n. 99, suppl. ord. n. 85/L, "Testo
del decreto-legge 02.03.2012, n. 16
coordinato con la legge di conversione
26.04.2012, n. 44 recante:
«Disposizioni urgenti in materia di
semplificazioni tributarie, di
efficientamento e potenziamento delle
procedure di accertamento»." |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 17 del
27.04.2012, "Linee guida regionali per
l’autorizzazione degli impianti per la
produzione di energia elettrica da fonti
energetiche rinnovabili (FER) mediante
recepimento della normativa nazionale in
materia"
(deliberazione
G.R. 18.04.2012 n. 3298). |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Il conferimento di incarichi dirigenziali a
termine negli Enti Locali (ANCI e UPI,
nota 21.12.2010). |
QUESITI &
PARERI |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Emissioni
nocive.
Domanda.
La semplice inerzia degli amministratori
locali di fronte al superamento delle
concentrazioni massime di inquinanti ammessi
dalla legislazione comunitaria può
configurare un rifiuto di atti d'ufficio di
cui all'articolo 328 del codice penale?
Risposta.
La Corte di cassazione, sezione VI, con la
sentenza del 20.02.1998, numero 5482,
ha affermato: «Se, invero, non c'è dubbio
che la nozione di rifiuto di cui al comma 1,
dell'articolo 328 del codice penale, come
novellato dalla legge numero 86, del 1990,
implica, di per sé, un atteggiamento di
diniego (esplicito od implicito) a fronte di
una qualche sollecitazione “esterna”,
dall'altro il pregnante rilievo dato dalla
norma alla oggettiva impellenza di
determinati interventi induce a ritenere che
la sollecitazione stessa, ove non sia
espressamente prevista la necessità di una
richiesta o di un ordine, possa anche essere
costituita dalla evidente sopravvenienza in
sé dei presupposti oggettivi che richiedono
l'intervento. A fronte di una urgenza
sostanziale impositiva dell'atto, resa
evidente dai fatti oggettivi posti
all'attenzione del soggetto obbligato ad
intervenire, non c'è dubbio che l'inerzia
omissiva del medesimo assuma intrinsecamente
valenza di rifiuto ed integri quindi la
condotta punita dalla norma scaturente dalla
novella».
Il Tribunale di Firenze, sezione II penale,
con la sentenza del 23.11.2010, numero
3217, in tema di emissioni nocive e di
responsabilità degli amministratori locali,
ha affermato che, alla luce della normativa
sulle polveri sottili, che ha per scopo
ultimo la protezione della salute umana, ha
affermato che, alla luce della normativa
sulle polveri sottili, che ha per scopo
ultimo la protezione della salute umana, non
è possibile «stabilire quanta inerzia
segnalino i (_) superamenti, e a quale
conseguente livello di debba fissare la
soglia medesima, se non facendo scelte del
tutto arbitrarie e soggettive, cioè violando
sostanzialmente il principio di legalità»
con la conseguenza di dar luogo ad «una
norma penale a contenuto variabile, da
completarsi secondo la più assoluta
discrezionalità della pubblica accusa».
Il Gup di Palermo, in tema di sindacato
sull'esercizio della discrezionalità
amministrativa, con la pronuncia del
10.03.2009, ha affermato, per un caso
simile, «ovviamente la natura
discrezionale tecnica della maggior parte
dei contenuti dei provvedimenti (ordinanze
d'urgenza, delibere consiliari), espressione
di poteri degli enti territoriali del genere
enunciato, non toglie nulla alla
obbligatorietà del loro esercizio, ed alle
responsabilità civili e penali che ne
possono derivare, proprio in considerazione
della preminenza sociale e dell'essenzialità
costituzionale dei diritti soggettivi
implicati nelle vicende del loro esercizio e
delle finalità strettamente connesse, per i
quali la legge li attribuisce».
Pertanto, per il predetto giudice, «potrà
sempre sindacarsi da parte del giudice,
sotto profili penali civili e
amministrativi, come palesemente inadeguata,
ed equivalente al nulla e lesiva degli
interessi e dei diritti soggettivi
implicati, l'azione amministrativa
assolutamente illogica rispetto ad un
intervento conforme ai dettami delle
elaborazioni del settore ed alle esperienze
di tecnici competenti»
(articolo ItaliaOggi
Sette del 30.04.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Abbandono
di rifiuti.
Domanda.
In caso di abbandono di rifiuti su una area
di proprietà, che rapporto sussiste tra
funzionalità dell'area e soggetto che la
gestisce?
Risposta.
Il Tribunale regionale amministrativo (Tar),
Sicilia, sezione I, con la sentenza del 14.02.2011, numero 262, ha affermato che
l'articolo articolo 192, comma 3, del
decreto legislativo numero 152, del 03.04.2006, presuppone il parametro soggettivo del
dolo o della colpa, ivi compresa la colposa
inosservanza del dovere di vigilanza e
custodia, per l'imputabilità a carico del
proprietario dell'area dell'obbligo di
rimozione dei rifiuti abbandonati da terzi.
Detto parametro, per i giudici siciliani, va
applicato in concreto, distinguendo la
situazione del proprietario che ha adottato
le normali cautele per impedire l'altrui
illecito, da quella di un ente che ha per
oggetto sociale e per dovere istituzionale
la custodia e la cura di una rete viaria.
Pertanto, sempre secondo i predetti giudici,
va ravvisato un dovere di prevenzione attiva
e di vigilanza sull'utilizzazione del bene
quando al mero diritto dominicale si
affianchi una specifica destinazione
funzionale del bene ed un connesso dovere
istituzionale.
Con detta sentenza, il Tribunale regionale
amministrativo (Tar), Sicilia, richiede un
criterio di diligenza legato alla
funzionalità dell'area all'attività del
proprietario stesso. Per i giudici, quando
sussiste, in capo al proprietario, un
obbligo civilistico specifico di custodia o
di vigilanza discendente da un obbligo
contrattuale o da un ruolo istituzionale,
esso viene rispondere per l'abbandono dei
rifiuti da parte dei terzi. L'obbligo non
sussiste se il proprietario dimostri di
avere posto in essere specifiche misure
preventive di vigilanza e di custodia.
È da
puntualizzare che l'obbligo di vigilanza e
di custodia, scaturente da contratto, eleva
il normale livello di diligenza richiesto
dalla normativa vigente al proprietario del
bene. Infatti, assumendo tale obbligo, il
proprietario del bene viene a trovarsi in
una particolare posizione di garanzia,
derivante dalla funzione, che esso ha
assunto, di vigilanza. La fattispecie
afferisce il caso in cui il bene di
proprietà sia in uso anche a terzi (luoghi
aperti al pubblico, rispetto ai quali il
proprietario/gestore ha l'obbligo, per
contratto o istituzionalmente, di esercitare
un ruolo di controllo e manutenzione).
In questi casi, il legislatore richiede,
nella custodia del bene, un maggiore livello
di vigilanza in relazione a possibili
comportamenti nocivi che potrebbero essere
posti in essere da terzi.
Il lettore può consultare, pure, la sentenza
del 04.05.2011, numero 2677, del
consiglio di stato, sezione IV
(articolo ItaliaOggi
Sette del 30.04.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Polveri
sottili.
Domanda.
Agli amministratori locali, quali soggetti
garanti, è da imputare, ai sensi
dell'articolo 40 del codice penale, il
superamento delle concentrazioni massime di
inquinanti ammessi dalla legislazione
comunitaria?
Risposta.
L'articolo 40 del codice penale dispone, in
tema di rapporto di causalità, che: «Nessuno
può essere punito per un fatto preveduto
dalla legge come reato, se l'evento dannoso
o pericoloso, da cui dipende l'esistenza del
reato, non è conseguenza della sua azione od
omissione».
Il Tribunale di Firenze, sezione II penale,
con la sentenza del 23.11.2010, numero 3217,
in tema di emissioni nocive e di
responsabilità degli amministratori locali,
ha affermato che, alla luce della normativa
sulle polveri sottili, che ha per scopo
ultimo la protezione della salute umana, «agli
amministratori imputati non può essere
addebitata la totale omissione di misure
volte a impedire la concentrazione di
inquinanti in atmosfera superiore ai limiti,
perché di misure dirette a tali fini ne sono
state emesse moltissime; peraltro la
eventuale, presunta omissione di ulteriori
misure intese a quello scopo non è
equiparabile in alcun modo, né
concettualmente né praticamente, al mancato
impedimento dell'evento perché, sotto il
primo profilo, la mera omissione di atti e
l'impedimento di un evento criminoso non
sono teoricamente corrispondenti né sono la
inevitabile conseguenza l'uno dell'altra, ed
inoltre perché, sotto il secondo profilo,
non vi è prova alcuna nel processo che
l'adozione di misure ulteriori volte a
limitare le emissioni potenzialmente
inquinanti avrebbe sicuramente impedito
l'evento, cioè il superamento dei limiti
delle concentrazioni».
Aggiungono, poi, i Giudici fiorentini, «in
realtà, per potere configurare il reato
contestato sotto il profilo dell'articolo 40
codice penale, la condotta tenuta o l'evento
verificatosi, entrambi da impedire da parte
di chi avesse avuto il dovere di farlo,
devono necessariamente essere di per sé
condotte o eventi criminosi, e non potrà
essere la contestazione dell'articolo 40 a
produrre “il miracolo” di trasformare in
reato condotte o eventi che tali di per sé
non sono sin dall'origine».
Nella fattispecie è da provare, sempre
secondo il tribunale di Firenze, la
indispensabile correlazione (il nesso di
causa) tra la presunta condotta omissiva
degli amministratori locali e l'evento,
cioè: il superamento dei limiti delle
concentrazioni
(articolo ItaliaOggi
Sette del 30.04.2012). |
NEWS |
ENTI LOCALI - VARI: Pratiche anagrafiche da casa.
Basta una mail al comune. Allegando la carta
d'identità. Circolare del ministero
dell'interno attua il decreto
semplificazioni. Si parte il 9 maggio.
Dal prossimo 9 maggio, i cittadini potranno
presentare le istanze di variazione
anagrafica stando comodamente seduti davanti
al proprio personal computer. Sarà infatti
possibile trasmetterle attraverso il proprio
indirizzo di posta elettronica certificata,
ovvero, in mancanza della Pec, attraverso la
mail personale allegando la fotocopia del
documento di identità. Senza dimenticare che
sarà altresì possibile, a tali fini,
l'utilizzo del fax o della raccomandata.
È quanto mette nero su bianco il
dipartimento dei servizi demografici del
Ministero dell'Interno, nel testo della
circolare 27.04.2012 n. 9
che fornisce i necessari chiarimenti
attuativi delle disposizioni contenute
all'articolo 5 del decreto legge
semplificazioni (il decreto legge del 09.02.2012, numero 5) in materia di
cambio di residenza in tempo reale.
In attesa dell'imminente regolamento
attuativo, pertanto, la circolare del
Viminale ricorda che le disposizioni ivi
contenute acquistano efficacia a decorrere
da 90 giorni dalla data di pubblicazione del
decreto stesso, ovvero dal 9 maggio. Ne
consegue che alle dichiarazioni anagrafiche
presentate da tale data, dovranno applicarsi
le disposizioni semplificative che, nel caso
in esame, eviteranno ai cittadini il
disturbo di presentarsi agli sportelli degli
uffici anagrafe del comune di residenza.
In pratica, tra otto giorni, oltre alla
consueta presentazione diretta allo
sportello, i cittadini avranno la
possibilità di presentare le variazioni
anagrafiche anche per il tramite della
raccomandata, del fax e per via telematica.
Quest'ultima rappresenta una vera e propria
rivoluzione nel rapporto tra utente e
amministrazione comunale, facendo
risparmiare tempo e garantendo al tempo
stesso la veridicità e la certezza dei dati
che si intendono variare.
Infatti, sarà possibile variare i propri
dati anagrafici per via telematica al
realizzarsi di una delle seguenti
condizioni. Ovvero che la dichiarazione sia
sottoscritta dall'utente con firma digitale,
oppure che il sottoscrittore sia
identificato tramite carta d'identità
elettronica, con carta nazionale dei servizi
o con strumenti che consentano
l'individuazione del soggetto che effettua
la dichiarazione. In alternativa, sarà
considerata valida anche la dichiarazione
trasmessa attraverso la casella di posta
elettronica certificata o, in assenza,
attraverso una casella di posta elettronica
semplice. In quest'ultimo caso, è necessario
che la copia della dichiarazione con firma
autografa e la copia della carta d'identità
del soggetto dichiarante siano allegati
all'istanza con l'ausilio di uno scanner.
È quindi ovvio che in questi giorni alle
amministrazioni comunali verrà chiesto uno
sforzo non indifferente in quanto dovranno
implementare le funzioni e i contenuti dei
propri siti internet istituzionali. A tal
fine, la circolare in oggetto ricorda che
gli enti locali dovranno obbligatoriamente
indicare nei propri siti web, tutti gli
indirizzi esatti ai quali inoltrare le
dichiarazioni, con particolare riferimento
all'indirizzo di posta, di posta
elettronica, nonché al numero di fax.
Adempimenti che sono considerati essenziali
per i comuni, in quanto, come previsto dal
dpr in corso di adozione, questi dovranno
registrare le dichiarazioni entro due giorni
lavorativi dal ricevimento delle stesse.
In
particolare, sia a coloro che si presentano
allo sportello che nei confronti di chi
utilizza le altre modalità, l'ufficiale di
anagrafe dovrà rilasciare all'interessato
un'apposita comunicazione di avvio del
procedimento con l'apposita formula «si
comunica che a seguito della variazione
anagrafica, quest'ufficio provvederà ad
accertare la sussistenza dei requisiti
previsti e che, trascorsi 45 giorni dalla
dichiarazione resa in assenza di
comunicazione in merito alla mancanza dei
requisiti, la variazione (ovvero
l'iscrizione o la registrazione) si intende
confermata»
(articolo ItaliaOggi
del'01.05.2012). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale.
Deroga ampia su scuola e polizia.
Dal 2013 i vincoli sui rapporti flessibili
si possono evitare per tutto il settore.
In nessun caso però i Comuni possono
superare la spesa sostenuta per le stesse
finalità nel 2009.
APPLICAZIONE GENERALE/
Anche negli enti «minori» il via libera
offerto dalla Corte dei conti non può
oltrepassare i tetti relativi alle uscite.
Si ampliano le possibilità per gli enti
locali di effettuare assunzioni flessibili,
ma rimangono i limiti di spesa che
determinano una contrazione nel ricorso a
questo istituto: possono essere così
sintetizzati gli effetti del delle novità
contenute nell'articolo 4-ter della legge di
conversione del Dl 16/2012 e nel parere
delle sezioni riunite di controllo della
Corte dei Conti n. 11/2012.
Le nuove regole prevedono che dal 2013 il
tetto del 50% della spesa sostenuta nel 2009
non si applichi alle assunzioni con
contratti flessibili del personale
«strettamente necessario a garantire
l'esercizio delle funzioni di polizia
locale, di istruzione pubblica e del settore
sociale». Si amplia quindi la deroga
prevista dal Milleproroghe per il 2012, che
riguarda solo il personale educativo e
docente, la polizia municipale (non
provinciale) e le stabilizzazioni di Lsu in
corso.
La deroga tocca ora negli enti locali
tutti i dipendenti impegnati nelle funzioni
istruzione (quindi non solo i docenti),
della vigilanza (e non solo la polizia
municipale) e dei servizi sociali.
L'applicazione è rimessa all'autonomia delle
amministrazioni. A fronte dell'ampliamento
delle deroghe, il legislatore ha previsto -a differenza del 2012- il divieto di
superamento della spesa per le assunzioni
flessibili del 2009.
Le deroghe previste dalla Sezioni unite di
controllo della magistratura contabile sono
limitate: si consente agli enti locali di
derogare ai vincoli dettati dall'articolo 9,
comma 28, del Dl 78/2010, ma questo non può
evitare la riduzione del tetto alla spesa.
La deroga riguarda, in particolare, gli
«enti di minore dimensione per salvaguardare
particolari esigenze operative». Essa può
essere prevista per imporre un limite
cumulativo al complesso delle assunzioni
flessibili, senza la suddivisione indicata
dalla norma. Il carattere limitato è dato
dalla precisazione che «resta comunque ferma
l'esigenza che vengano raggiunti gli
obiettivi di fondo della disciplina e che
venga assicurata la riduzione di spesa
nell'esercizio finanziario per le forme di
assunzione temporanea elencate».
Le interpretazioni fornite dalle sezioni
regionali di controllo includono infine nel
tetto le assunzioni di dirigenti e
responsabili ex articolo 110 e del personale
dell'ufficio di staff degli organi politici
ex articolo, 90 sempre del Dlgs 267/2000. In
modo prevalente, viene detto che la spesa
necessaria per garantire l'esercizio
associato tramite convenzioni ex articolo 30
del Tuel non va inclusa nel tetto. Vanno
invece inclusi gli oneri per l'utilizzo di
personale in modo associato tra più enti,
sia che ciò avvenga attraverso l'articolo 14
del contratto del 22.01.2004, sia che
si realizzi attraverso il comma 557 della
Finanziaria 2005 (utilizzazione extra orario
da parte dei piccoli comuni di dipendenti di
altri enti locali).
Rimane da chiarire se
gli oneri derivanti dalla utilizzazione di
personale di altra Pa in comando debba
essere compresa nel tetto alla spesa per le
assunzioni flessibili. E se quelle che sono
interamente finanziate da altri soggetti,
pubblici o privati (ad esempio i vigili
stagionali i cui oneri sono sostenuti
attraverso una quota dei proventi derivanti
dalle sanzioni per le inosservanze al codice
della strada), siano da includere nel tetto
o se si debba applicare in modo estensivo la
esclusione prevista in questi casi dal tetto
alla spesa del personale.
---------------
I passaggi
01 | GLI AMBITI
La normativa particolare riguarda i settori
della Polizia locale, dell'istruzione
e il settore sociale
02 | IL PROBLEMA
In questi settori, soprattutto
nell'istruzione e nei servizi sociali,
l'incidenza dei contratti a termine è molto
alta. Per questa ragione l'estensione ai
contratti a termine dei vincoli del turn
over previsti per le assunzioni stabili
avrebbe determinato grossi problemi di
operatività
03 | IL PRIMO INTERVENTO
Il decreto «Milleproroghe» (articolo 1,
comma 6-bis, del Dl 216/2011) aveva rimandato
al 2013 l'applicazione dei vincoli di turn over al personale educativo, scolastico e di
vigilanza
04 | IL DECRETO FISCALE
Il nuovo intervento amplia le deroghe,
permettendo agli enti locali di superare dal
2013 i tetti in relazione ai contratti
«strettamente necessari a garantire
l'esercizio delle funzioni di polizia
locale, di istruzione pubblica e del settore
sociale». In questo modo, la deroga può
riguardare tutte le tipologie di personale
nei settori indicati
05 | LA SPESA
Mentre amplia i confini della deroga, la
norma introduce però un nuovo limite, in
virtù del quale in nessun caso, gli enti
locali possono però superare la spesa
registrata per le stesse finalità nel 2009 (articolo Il Sole 24
Ore del 30.04.2012). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Niente assunzioni solo con il Patto. Nota Anci sui limiti per gli enti
locali.
I limiti nell'assunzione di personale a
tempo indeterminato, previsti dal decreto
legge 78/2010, non riguardano gli enti non
sottoposti al Patto di stabilità.
È quanto
sostiene la
nota
27.04.2012 dell'Anci, in cui si
spiega che sebbene le sezioni riunite della
Corte dei conti abbiano di recente sostenuto
che i limiti alle assunzioni riguardino
tutti gli enti, «a oggi la normativa vigente
per gli enti non sottoposti al Patto è
quella di cui alla legge 27.12.2006,
n. 296», che stabilisce altre modalità di
contenimento delle spese per il personale.
In particolare, all'articolo 1, comma 562, si
prevede che: «Per gli enti non sottoposti
alle regole del patto di stabilità interno,
le spese di personale, al lordo degli oneri
riflessi a carico delle amministrazioni e
dell'Irap, con esclusione degli oneri
relativi ai rinnovi contrattuali, non devono
superare il corrispondente ammontare
dell'anno 2004. Gli enti di cui al primo
periodo possono procedere all'assunzione di
personale nel limite delle cessazioni di
rapporti di lavoro a tempo indeterminato
complessivamente intervenute nel precedente
anno, ivi compreso il personale di cui al
comma 558».
Insomma, regole ad hoc, che secondo l'Anci
la Corte dei conti non tiene in
considerazione, contraddicendo peraltro, nel
parere n. 11/2012 reso dalle sezioni
riunite, e senza fornire alcuna motivazione,
quanto precedentemente affermato in diverse
pronunce in relazione al rapporto fra il
comma 562 della Finanziaria 2007 ed il comma
7 dell'art. 76 del dl n. 78 del 31.05.2010. Norme che, relativamente alla parti
che dispongono limitazioni alle assunzioni,
non sono state modificate da alcun
intervento successivo.
A tal proposito, l'Anci
cita le delibere n. 3, 4 e 20 del 2011. Per
giungere infine alla conclusione che ad
oggi, non essendo stato modificato il quadro
normativo di riferimento, relativamente alle
assunzioni a tempo indeterminato negli enti
non sottoposti al patto di stabilità trova
appunto applicazione il comma 562
dell'articolo unico alla legge 27.12.2006, 296 (articolo ItaliaOggi
del 28.04.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: Osservatorio
Viminale/ Decadenze nell'unione in
scioglimento.
Quesito.
Nel caso di un'Unione di Comuni che
si scioglierà a decorrere dal 1° gennaio, e
per la quale le attività di liquidazione si
concluderanno oltre il 31 dicembre dell'anno
precedente, gli organi di gestione dell'ente
decadono alla data di cessazione dell'ente
stesso o rimangono in carica fino alla
conclusione delle operazioni di
liquidazione?
Risposta.
L'Unione di comuni, disciplinata
dall'articolo 32 del Testo unico n.
267/2000, si configura come una forma di
associazione volontaria tra comuni, la quale
attraverso l'adozione dell'atto costitutivo
e dello statuto, dà vita ad un ente locale a
tutti gli effetti, distinto dagli enti che
la compongono, che gode di un'ampia potestà
organizzativa e funzionale, posto che il
legislatore ha delineato solo gli elementi
essenziali, inderogabili dell'istituto,
demandando all'autonomia statutaria e
regolamentare la disciplina degli organi e
della propria organizzazione (art. 32
citato, comma 4).
Se lo statuto dell'ente, in merito alle
procedure di scioglimento prevede un termine
entro il quale il consiglio di
amministrazione deve nominare un commissario
liquidatore, da tale data gli organi
dell'Unione non hanno più alcuna competenza
e decadono, trovandosi l'ente in fase di
gestione liquidatoria, affidata al
commissario appositamente nominato.
Si reputa, pertanto, che l'organo che
dovrebbe essere mantenuto in vita è il
consiglio di amministrazione, al quale il
commissario liquidatore presenterà la
proposta di bilancio e il piano di riparto
delle risorse strumentali, patrimoniali e
del personale, indicante la parte spettante
a ciascun comune, per l'approvazione.
Nel caso in cui il termine assegnato
convenzionalmente al liquidatore dalla norma
statutaria per la predisposizione degli atti
consenta che le operazioni si protraggano
oltre la data prevista, e pertanto
proseguano per tutto il tempo necessario
alla loro conclusione, decorso
infruttuosamente detto termine, il Prefetto
valuterà, ove la normativa regionale non
disponga diversamente, la sussistenza dei
presupposti per avviare le procedure di cui
alle disposizioni dell'articolo 141, comma
8, del Testo unico n. 267/2000
(articolo ItaliaOggi
del 27.04.2012). |
APPALTI: Dl
fiscale. Si ampliano i vincoli di
solidarietà per le somme che sono dovute
all'amministrazione finanziaria
Appalti, responsabilità estesa.
Il committente paga Irpef e Iva se non
versano appaltatore e subappaltatori.
IL PUNTO CRITICO/
Difficile dimostrare che l'irregolarità è
avvenuta pur avendo preso tutte le
precauzioni necessarie per evitarla.
La responsabilità solidale nei contratti di
appalto fra appaltatore e subappaltatori ora
si estende anche al committente per quanto
riguarda i versamenti all'Erario delle
ritenute Irpef sul lavoro dipendente e
dell'Iva dovuta sulle prestazioni oggetto
dell'appalto.
Lo prevede l'articolo 2, comma 5-bis, del
decreto fiscale 16/2012 convertito in legge
che sostituisce il comma 28, dell'articolo
35 del Dl 223/2006. In confronto alla norma
preesistente viene estesa la solidarietà a
carico del committente o datore di lavoro
anche in relazione al versamento dell'Iva da
parte del prestatore. La solidarietà permane
anche per l'appaltatore che è committente
per i contratti di subappalto. La
responsabilità del committente opera per
tutta la durata del contratto e ha effetto
fino al secondo anno successivo alla
cessazione dell'appalto.
La nuova norma è fortemente penalizzante per
il committente di opere o di servizi il
quale, di fatto, assume la responsabilità in
ordine al versamento delle ritenute fiscali
e dell'Iva sia da parte dell'appaltatore che
degli eventuali subappaltatori. Però viene
anche disposto che se il committente ha
messo in atto tutte le cautele possibili per
evitare l'inadempimento è liberato dalle
responsabilità.
Il vero problema a carico del committente,
quindi, rimane la dimostrabilità del fatto
che il mancato versamento dell'Iva e delle
ritenute si è verificato pur avendo
adottando gli opportuni accorgimenti: a noi
pare una prova diabolica.
Ci si chiede, infatti, quale sia il mezzo
che dovrà essere adottato dal committente
per non cadere nella responsabilità
solidale, alla luce del dato letterale del
comma 5-bis: «che dimostri di aver messo in
pratica tutte le cautele possibili per
evitare l'inadempimento». In pratica, in un
contratto di appalto, il committente
dovrebbe richiedere ai propri appaltatori e
ai subappaltori un documento equipollente al
Documento unico di regolarità contributiva
previsto per gli obblighi previdenziali.
Diversamente il committente può essere
chiamato al versamento all'Erario dell'Iva,
peraltro già pagata al fornitore e delle
ritenute Irpef sul reddito da lavoro dei
dipendenti altrui.
Relativamente alle ritenute fiscali, la
prova più semplice può essere l'inoltro da
parte degli appaltatori e subappaltatori dei
modelli F24 relativi ai suddetti versamenti.
Invece la prova del versamento dell'Iva è
pressoché impossibile, in quanto il
versamento è il risultato della liquidazione
Iva che comprende molte altre operazioni.
Anche il ricorso al cassetto fiscale
dell'appaltatore e del subappaltatore non è
possibile essendo vietato l'accesso a
soggetti non autorizzati.
Si ricorda che in materia di Iva (e non per
le ritenute) il Dpr 633/1972 prevede già per
alcune fattispecie la solidarietà nel
pagamento dell'imposta. L'articolo 60-bis
stabilisce che il cessionario è solidamente
obbligato al pagamento dell'imposta non
versata dal cedente. Tale regola opera solo
con riferimento alle operazioni di cessione
individuate dal Dm 22/12/2005 ( auto, moto e
rimorchi; prodotti di telefonia e accessori; pc, componenti ed accessori; bovini, ovini e
suini vivi e loro carni fresche) ma solo nel
caso in cui la cessione sia avvenuta a un
prezzo inferiore al valore normale.
La modifica introdotta dal decreto fiscale è
molto più forte e sostituisce il committente
a un obbligo dell'appaltatore o
subappaltatore che potrebbe aver omesso il
versamento anche per gravi difficoltà
finanziarie. La nuova disposizione ricalca
le regole previste per il versamento dei
contributi previdenziali e dei contributi
assicurativi obbligatori per gli infortuni
sul lavoro e le malattie professionali dei
dipendenti a cui sono tenuti in prima linea
l'appaltatore e l'eventuale subappaltatore.
Questi adempimenti sono stati più volte
oggetto di chiarimenti da parte del
ministero del Lavoro e dell'Inps. La
certificazione del corretto adempimento
previdenziale avviene mediante la
presentazione da parte del subappaltatore
all'appaltante del modello Durc.
---------------
Il nuovo regime
01 | LA NORMA
L'articolo 2 del Dl 16/2012 prevede
l'estensione al committente della
responsabilità solidale nei contratti di
appalto fra appaltatore e subappaltatori per
quanto concerne i versamenti all'Erario
delle ritenute Irpef sul lavoro dipendente e
dell'Iva prevista sulle prestazioni oggetto
di appalto
02 | AMBITO DI APPLICAZIONE
La responsabilità si applica ad appalti di
opere e servizi per tutta la durata del
contratto e fino al secondo anno successivo
alla cessazione dell'appalto. L'Iva dovuta
in base alla dichiarazione e le ritenute
fiscali sono accertabili entro il quarto
anno successivo a quello in cui è stata
presentata la dichiarazione dell'appaltatore
e del subappaltatore
03 | ONERE DELLA PROVA
Il committente evita la solidarietà se
dimostra di aver messo in atto tutte le
cautele possibili per evitare
l'inadempimento. Tuttavia tale prova appare
di difficile attuazione, in particolare per
quanto riguarda il versamento dell'Iva
04 | L'ANALOGIA
La nuova norma ricalca gli obblighi in tema
di versamento dei contributi previdenziali e
assicurativi obbligatori per gli infortuni
(articolo Il Sole 24
Ore
del 27.04.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pa,
licenziamenti disciplinari più semplici.
In arrivo la delega sull'articolo 18 per gli
statali: tipizzazione dei casi che fanno
scattare la sanzione
ADDIO AI CO.CO.CO/
Più autonomia per i dirigenti, taglio delle
consulenze, riordino del reclutamento e
cambio di politica sui contratti a termine.
Un disegno di legge con una delega per la
regolazione dei licenziamenti disciplinari
nelle pubbliche amministrazioni, per i quali
dovrà essere razionalizzata la struttura
attuale delle sanzioni e introdotta una
tipizzazione delle ipotesi che possono
giustificare il licenziamento per motivi
soggettivi.
Parte da qui la proposta
operativa che il ministro della Pa e della
Semplificazione, Filippo Patroni Griffi, sta
mettendo a punto per la traduzione in norme
dei «principi e criteri generali» contenuti
nella riforma Fornero. La ri-regolazione del
pubblico impiego si muoverà su un indice
articolato e complesso, che i tecnici di
palazzo Vidoni stanno ancora limando in
vista del prossimo incontro con i sindacati
(la data è da confermare ma dovrebbe essere
il 4 maggio) sapendo che tutto dovrà essere
pronto entro la metà di maggio.
Oltre all'armonizzazione delle norme sul
mercato del lavoro, vale a dire i contratti
flessibili in entrata e le regole sui
licenziamenti, si punta a un nuovo insieme
di misure per rafforzare la responsabilità e
l'autonomia dei dirigenti; un taglio delle
consulenze esterne; una nuova impostazione
delle politiche di reclutamento che passa
anche per il rilancio del vecchio progetto
di riordino delle scuole superiori della Pa;
una rivisitazione del ciclo della
performance, che prevede una condivisione
con i sindacati nella gestione delle scelte
organizzative delle amministrazioni.
Licenziamenti disciplinari.
Se per i licenziamenti discriminatori (o
nulli) non serviranno norme di equiparazione
tra pubblico e privato e se per i
licenziamenti per giustificati motivi
oggettivi (quelli economici) la cornice
regolatoria già esiste ed è l'articolo 33
del Dlgs 165/2001 con la prevista mobilità
del personale in disponibilità (dichiarato
in eccedenza a conclusione della relativa
procedura), un intervento ad hoc servirà per
i disciplinari.
Tenendo conto dei vincoli
costituzionali, della diversa natura della
funzione pubblica che prevede maggiori
doveri e pretende diverse garanzie ai
dipendenti di un'amministrazione pubblica
rispetto a quelli di un'azienda privata, con
la delega si punta a introdurre una serie di
ipotesi di giustificato motivo soggettivo e
a ricalibrare il sistema delle sanzioni
conservative o espulsive che, tra l'altro,
sono differenziate a seconda che si tratti
di funzionari o di dirigenti.
Una delega,
insomma, per rendere più certe le situazioni
che fanno scattare il licenziamento in casi
disciplinari. Con la prospettiva, in caso di
sentenza che boccia il licenziamento, del
reintegro del dipendente piuttosto che del
suo indennizzo; ipotesi peraltro già bollata
da incostituzionalità dal Giudice delle
leggi.
Dirigenza con più autonomia.
Nel quadro della privatizzazione del
contratto dei dirigenti con il Ddl Patroni
Griffi si punterebbe a rafforzare
l'autonomia dei dirigenti dall'indirizzo
politico e la responsabilità nella gestione
dell'organizzazione e delle risorse
dell'amministrazione.
Probabilmente verrà proposto un meccanismo
di conferma automatica a fine incarico
(fatti salvi casi oggettivi di inadempienza)
per mettere a riparo i direttori generali da
logiche non regolate di spoil system. Misure
che verrebbero affiancate da un forte giro
di vite sugli incarichi esterni, da limitare
esclusivamente a casi di assoluta eccellenza
e per posizioni particolari.
Sempre sulla
dirigenza, il ministro vuole proporre una
riforma dell'attuale sistema di reclutamento
che passa anche per un riordino delle cinque
scuole di alta formazione: ai nuovi
dirigenti dello Stato dovrebbe essere
assicurata una formazione comune, come nelle
esperienze di Francia e Regno Unito, in
maniera da poter garantire reali possibilità
di trasferimento da un'amministrazione a
un'altra superando canali impropri come il
reclutamento esterno o il «comando» di
dirigenti fuori dai ruoli.
Contratti a termine.
L'idea è di abbandonare il contratto
coordinato e continuativo con
un'equiparazione stretta con il settore
privato. I contratti a termine, che comunque
non potranno essere trasformati in contratti
a tempo indeterminato perché resta il
vincolo dell'accesso per concorso nella Pa,
verranno molto ricalibrati: per quelli molto
brevi verrà recepita la riforma Fornero
mentre per quelli fino a 36 mesi si
penseranno formule tipo il corso-concorso,
mirate per qualificare il più possibile
questi rapporti temporanei d'impiego.
Ciclo della performance.
Per superare alcune difficoltà applicative
del sistema di valutazione introdotto dalla
riforma Brunetta si punta poi a un
superamento delle analisi delle performance
basate sulla logica dell'adempimento. L'idea
è quella di favorire un maggior
coinvolgimento delle organizzazioni
sindacali nella definizione dei criteri di
valutazione e delle scelte organizzative
delle amministrazioni che, dopo l'ultima
riforma, dovrebbero essere invece
semplicemente comunicate ai sindacati
(articolo Il
Sole 24 Ore
del 26.04.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Per
insegna di esercizio si intende
quella che -con le modalità prescritte
dall’art. 47, comma 1, del d.P.R.
16.12.1992, n. 495- serve esclusivamente a
segnalare il luogo ove si esercita
l’attività di impresa.
Invero, la scritta in oggetto che espone
anche, e chiaramente, l’indirizzo web della
società adempie a una funzione che va oltre
quella di indicare di un luogo, in quanto
intende pure rendere conoscibile al pubblico
il sito aziendale e, come tale, è da
intendersi quale insegna pubblicitaria.
... per la riforma della sentenza breve del
TAR ABRUZZO - SEZ. STACCATA DI PESCARA:
SEZIONE I n. 00472/2011, resa tra le parti,
concernente RIMOZIONE DI UN CARTELLO
PUBBLICITARIO ABUSIVO ...
...
Con sentenza in forma semplificata
22.07.2011, n. 472, il Tribunale
amministrativo regionale per l’Abruzzo –
Pescara, Sezione I, respingeva il ricorso
proposto dalla Dema Service s.r.l. nei
riguardi dell’atto con cui Autostrade per
l’Italia s.p.a. aveva ad essa ingiunto la
rimozione di un manufatto considerato
cartello pubblicitario abusivo, collocato
lungo l’autostrada A/14, nel territorio del
Comune di Silvi Marina.
La Dema Service interponeva appello contro
la sentenza, chiedendone al tempo stesso la
sospensione dell’efficacia.
...
Si controverte sulla natura del manufatto di
cui è causa. Per la Dema Service si
tratterebbe di una insegna di esercizio
debitamente autorizzata dagli enti locali
competenti; per Autostrade sarebbe invece un
cartello pubblicitario. Tale tesi è
sostanzialmente quella fatta propria dalla
sentenza impugnata.
L’esame delle foto contenute del fascicolo
fa ritenere che l’opera non costituisca una
semplice insegna di esercizio, dovendosi
intendere per tale quella che -con le
modalità prescritte dall’art. 47, comma 1,
del decreto del Presidente della Repubblica
16.12.1992, n. 495- serve esclusivamente a
segnalare il luogo ove si esercita
l’attività di impresa. Infatti la scritta in
oggetto espone anche, e chiaramente,
l’indirizzo web della società: con ciò
adempie a una funzione che va oltre quella
di indicare di un luogo, in quanto intende
pure rendere conoscibile al pubblico il sito
aziendale. L’obiettiva destinazione
pubblicitaria non può dunque essere negata.
Questo punto –vale a dire la valutazione
delle caratteristiche intrinseche del
manufatto– non è però dirimente ai fini
della decisione della controversia.
A tale riguardo, occorre prendere in
considerazione l’art. 23 del codice della
strada (decreto legislativo 30.04.1982, n.
285), dedicato alla disciplina della “pubblicità
sulle strade e sui veicoli”. Con
particolare riferimento alla “pubblicità
lungo e in vista degli itinerari
internazionali, delle autostrade e delle
strade extraurbane principali e relativi
accessi”, il comma 7 stabilisce un
divieto di principio, temperato da talune
limitate deroghe. Nell’ambito di queste
consente le insegne di esercizio “purché
autorizzate dall’ente proprietario della
strada”.
Ora, nel caso di specie, la società
appellante aveva sì acquisito le
autorizzazioni degli enti locali (comune e
provincia) a diverso titolo competenti circa
la strada dove lo stabilimento sorge. Non ha
invece mai chiesto autorizzazione ad
Autostrade, come invece avrebbe dovuto,
essendo quest’ultima proprietaria della
A/14, in vista della quale il cartello è
posto. Circostanza, questa, confermata dalla
stessa Dema Service, là dove essa dichiara
che “l’insegna in questione … è soltanto
una delle tante insegne visibili anche
dall’autostrada” e prima ancora, nello
svalutare il significato delle foto prodotte
da controparte, rileva che sono state
scattate “dalla parte più interna della
stazione di servizio adiacente
all’autostrada”.
In conclusione: comunque debba definirsi il
manufatto, questo è stato installato senza
la necessaria, preventiva autorizzazione di
Autostrade, che pertanto legittimamente –ai
sensi dell’art. 23, comma 13-bis, del citato
decreto legislativo n. 285 del 1992– ne ha
imposto la rimozione
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 27.04.2012 n. 2480 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: L'obbligo
giuridico di provvedere -ai sensi dell'art.
2 della legge 07.08.1990, n. 241, come
modificato dall’art. 7 della legge
18.06.2009, n. 69- sussiste in tutte quelle
fattispecie particolari nelle quali ragioni
di giustizia e di equità impongano
l'adozione di un provvedimento e quindi,
tutte quelle volte in cui, in relazione al
dovere di correttezza e di buona
amministrazione della parte pubblica, sorga
per il privato una legittima aspettativa a
conoscere il contenuto e le ragioni delle
determinazioni (qualunque esse siano)
dell'Amministrazione.
In particolare, poi, il proprietario
confinante con l’immobile, nel quale si
assuma essere stato realizzato un abuso
edilizio, ha comunque un interesse alla
definizione dei procedimenti relativi
all’immobile medesimo entro il termine
previsto dalla legge, tenendo conto
dell’interesse sostanziale che, in relazione
alla vicinanza, egli può nutrire in ordine
all’esercizio dei poteri repressivi e
ripristinatori da parte dell’organo
competente.
... per la riforma della sentenza breve del
TAR PIEMONTE - TORINO: SEZIONE I n.
00848/2011, resa tra le parti, concernente
SILENZIO DELL'AMMINISTRAZIONE RELATIVA A
SEGNALAZIONE OCCUPAZIONE STRADA COMUNALE E
IRREGOLARITA' EDILIZIE ...
...
La sentenza impugnata collega l’interesse a
ricorrere contro il silenzio
dell’Amministrazione ad una lesione del
diritto del privato. Nel caso di specie, non
vi sarebbe la prova che l’area su cui si
controverte presenti natura pubblica;
neppure vi sarebbe la prova –e, ancor prima,
nemmeno l’allegazione– dell’uso pubblico; al
più l’area potrebbe essere oggetto di
contestazioni di carattere privatistico
(come in effetti è avvenuto, avendo il
ricorrente proposto giudizio possessorio
innanzi al Giudice civile); mancherebbe
perciò la legittimazione ad agire in questa
sede.
Alla luce della giurisprudenza del Consiglio
di Stato, il Collegio non condivide tale
impostazione restrittiva.
In linea di massima, infatti, l'obbligo
giuridico di provvedere -ai sensi dell'art.
2 della legge 07.08.1990, n. 241, come
modificato dall’art. 7 della legge
18.06.2009, n. 69- sussiste in tutte quelle
fattispecie particolari nelle quali ragioni
di giustizia e di equità impongano
l'adozione di un provvedimento e quindi,
tutte quelle volte in cui, in relazione al
dovere di correttezza e di buona
amministrazione della parte pubblica, sorga
per il privato una legittima aspettativa a
conoscere il contenuto e le ragioni delle
determinazioni (qualunque esse siano)
dell'Amministrazione (cfr. Cons. Stato, Sez.
V, 03.06.2010, n. 3487).
In particolare, poi, il proprietario
confinante con l’immobile, nel quale si
assuma essere stato realizzato un abuso
edilizio, ha comunque un interesse alla
definizione dei procedimenti relativi
all’immobile medesimo entro il termine
previsto dalla legge, tenendo conto
dell’interesse sostanziale che, in relazione
alla vicinanza, egli può nutrire in ordine
all’esercizio dei poteri repressivi e
ripristinatori da parte dell’organo
competente (cfr. Cons. Stato, Sez. VI,
20.07.2006, n. 4609; Id., IV Sez.,
07.07.2008, n. 3384)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 27.04.2012 n. 2468 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La disciplina nazionale in materia di
installazione degli impianti di carburante
e, segnatamente, quella relativa agli
obblighi di distanze minime (d.lgs. n. 32
del 1998 e legislazione regionale attuativa
cui è rimessa, ai sensi dell’art. 1, co. 2,
del medesimo decreto, l’adozione di norme di
indirizzo programmatico attraverso le quali
sono introdotti gli obblighi di rispetto
delle distanze minime), deve essere ritenuta
del tutto superata alla luce di recente
pronuncia della Corte di giustizia UE in
relazione alle norme ed ai principi posti a
tutela della liberà di stabilimento.
Una normativa di diritto interno come quella
italiana, che prevede distanze minime
obbligatorie fra gli impianti stradali di
distribuzione di carburanti, costituisce una
restrizione alla libertà di stabilimento
sancita dal trattato; una disciplina del
genere, infatti, applicandosi unicamente ad
impianti nuovi e non ad impianti già
esistenti prima della sua entrata in vigore,
pone condizioni all’accesso all’attività
della distribuzione di carburanti e,
favorendo gli operatori già presenti sul
territorio italiano, è idonea a scoraggiare,
se non ad impedire, l’accesso al mercato da
parte di imprenditori comunitari.
Deve ritenersi superato quell’orientamento
giurisprudenziale di questa Sezione
antecedente la pronuncia della Corte UE
11.03.2010, n. 384/2008, secondo cui le
autorizzazioni all’apertura degli impianti
di distribuzione di carburanti vanno
rilasciate alla luce dell’intero apparato
distributivo locale esistente, nel quale la
distanza minima tra i distributori
costituisce un parametro da verificare e che
la stessa distanza è un criterio utile per
valutare sia la possibilità di sopravvivenza
sul mercato del singolo esercizio, sia
l’esigenza di assicurare agli utenti
condizioni ottimali per la fruizione del
servizio.
La disciplina nazionale in materia di
installazione degli impianti di carburante
e, segnatamente, quella relativa agli
obblighi di distanze minime (d.lgs. n. 32
del 1998 e legislazione regionale attuativa
cui è rimessa, ai sensi dell’art. 1, co. 2,
del medesimo decreto, l’adozione di norme di
indirizzo programmatico attraverso le quali
sono introdotti gli obblighi di rispetto
delle distanze minime), deve essere ritenuta
del tutto superata alla luce di recente
pronuncia della Corte di giustizia UE in
relazione alle norme ed ai principi posti a
tutela della liberà di stabilimento (cfr.
Corte giustizia Unione europea, 11.03.2010,
n. 384/2008).
L’art. 43 Ce (ora art. 49 TFUE), letto in
combinato disposto con l’art. 48 Ce (ora
art. 54 TFUE), è stato interpretato nel
senso che una normativa di diritto interno
come quella italiana, che prevede distanze
minime obbligatorie fra gli impianti
stradali di distribuzione di carburanti,
costituisce una restrizione alla libertà di
stabilimento sancita dal trattato; una
disciplina del genere, infatti, applicandosi
unicamente ad impianti nuovi e non ad
impianti già esistenti prima della sua
entrata in vigore, pone condizioni
all’accesso all’attività della distribuzione
di carburanti e, favorendo gli operatori già
presenti sul territorio italiano, è idonea a
scoraggiare, se non ad impedire, l’accesso
al mercato da parte di imprenditori
comunitari.
Né sono stati riconosciuti seriamente
applicabili i motivi imperativi di interesse
generale idonei a giustificare restrizioni
alla concorrenza e ciò per diversi ordini di
ragioni.
E’ stato infatti evidenziato che:
a) i limiti rinvenibili nella normativa
italiana a tutela della salute,
dell’ambiente, della sicurezza stradale non
sono adeguati e proporzionati posto che si
applicano solo ai nuovi impianti di
distribuzione e non a quelli preesistenti;
b) i controlli per la tutela dei suindicati
interessi pubblici possono essere
efficacemente demandati al concreto
riscontro dell’autorità competente, senza
inadeguate limitazioni generali basate sul
calcolo delle distanze;
c) la tutela dei consumatori, sub specie di
“razionalizzazione del servizio reso agli
utenti della rete distributiva”,
costituisce un motivo economico e non un
motivo imperativo di interesse generale;
d) in ogni caso tale “razionalizzazione”
si rivela, sul piano pratico, un espediente
per favorire gli operatori già presenti sul
territorio (cfr. per tutto Cons. Stato, V,
23.05.2011 n. 3084).
Quindi, in base ai principi ora esposti,
deve ritenersi superato quell’orientamento
giurisprudenziale di questa Sezione
antecedente la pronuncia della Corte UE,
secondo cui le autorizzazioni all’apertura
degli impianti di distribuzione di
carburanti vanno rilasciate alla luce
dell’intero apparato distributivo locale
esistente, nel quale la distanza minima tra
i distributori costituisce un parametro da
verificare e che la stessa distanza è un
criterio utile per valutare sia la
possibilità di sopravvivenza sul mercato del
singolo esercizio, sia l’esigenza di
assicurare agli utenti condizioni ottimali
per la fruizione del servizio (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 27.04.2012 n. 2456 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Anche
l’attività di spargimento di ghiaia, su di
un’area che ne era precedentemente priva, è
soggetta a concessione edilizia, allorché
appaia preordinata alla modifica della
precedente destinazione d’uso (nel caso in
esame, pacificamente agricola).
Tale indirizzo, peraltro, risulta
corroborato dalla risalente interpretazione
del Giudice penale, secondo cui deve
ritenersi soggetto a concessione lo
spianamento di un terreno agricolo ed il
riporto di sabbia e ghiaia, al fine di
ottenerne un piazzale per deposito e
smistamento di autocarri e containers (Cass.
pen., 09/06/1982; cfr. altresì <<è legittimo
il provvedimento del sindaco che ordini la
riduzione in pristino di un'area destinata,
in base al piano regolatore, a verde
pubblico, che sia stata coperta di ghiaia,
per essere destinata a parcheggio>> Cons.
Stato, sez. II, 15/02/1989, n. 18/1989), e,
per altro verso, che esso “…sembra, oggi,
avere un testuale riscontro nel nuovo Testo
unico in materia edilizia -D.P.R. n.
380/2001- (che non ha certo potenzialità
applicativa e di risoluzione del caso in
esame, ma che può rappresentare un valido
ausilio interpretativo, specie ove
"codifica" un orientamento giurisprudenziale
pregresso): l'art. 3, in materia di
definizione degli interventi edilizi,
assoggetta a permesso di costruire
-ascrivendole al genus delle nuove
costruzioni- <<la realizzazione di
infrastrutture e di impianti, anche per
pubblici servizi, che comporti la
trasformazione in via permanente di suolo
inedificato>> (lett. e. 3) e <<la
realizzazione di depositi di merci o di
materiali, la realizzazione di impianti per
attività produttive all'aperto ove
comportino l'esecuzione di lavori cui
consegua la trasformazione permanente del
suolo inedificato>> (e. 7); si tratta, come
è facile rilevare, di interventi privi di
connotazione strettamente edilizia e,
nondimeno, assoggettati a titolo abilitativo
(oggi permesso di costruire).
Significativa è, poi, la previsione
dell'art. 10, comma 2, secondo cui <<Le
regioni stabiliscono con legge quali
mutamenti, connessi o non connessi a
trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili
o di loro parti, sono subordinati a permesso
di costruire o a denuncia di inizio
attività>>”.
Non vi è infatti motivo per discostarsi dal
condivisibile indirizzo giurisprudenziale
(C.d.S., sez. V, 22.12.2005, n. 7343;
11.11.2004, n. 7324) secondo cui anche
l’attività di spargimento di ghiaia, su di
un’area che ne era precedentemente priva, è
soggetta a concessione edilizia, allorché
appaia preordinata, come nel caso di specie,
alla modifica della precedente destinazione
d’uso (nel caso in esame, pacificamente
agricola).
Nei citati precedenti giurisprudenziali è
stato puntualmente sottolineato, per un
verso, che “Tale indirizzo, peraltro,
risulta corroborato dalla risalente
interpretazione del Giudice penale, secondo
cui deve ritenersi soggetto a concessione lo
spianamento di un terreno agricolo ed il
riporto di sabbia e ghiaia, al fine di
ottenerne un piazzale per deposito e
smistamento di autocarri e containers (Cass.
pen., 09/06/1982; cfr. altresì <<è legittimo
il provvedimento del sindaco che ordini la
riduzione in pristino di un'area destinata,
in base al piano regolatore, a verde
pubblico, che sia stata coperta di ghiaia,
per essere destinata a parcheggio>> Cons.
Stato, sez. II, 15/02/1989, n. 18/1989), e,
per altro verso, che esso “…sembra, oggi,
avere un testuale riscontro nel nuovo Testo
unico in materia edilizia -D.P.R. n.
380/2001- (che non ha certo potenzialità
applicativa e di risoluzione del caso in
esame, ma che può rappresentare un valido
ausilio interpretativo, specie ove
"codifica" un orientamento giurisprudenziale
pregresso): l'art. 3, in materia di
definizione degli interventi edilizi,
assoggetta a permesso di costruire
-ascrivendole al genus delle nuove
costruzioni- <<la realizzazione di
infrastrutture e di impianti, anche per
pubblici servizi, che comporti la
trasformazione in via permanente di suolo
inedificato>> (lett. e. 3) e <<la
realizzazione di depositi di merci o di
materiali, la realizzazione di impianti per
attività produttive all'aperto ove
comportino l'esecuzione di lavori cui
consegua la trasformazione permanente del
suolo inedificato>> (e. 7); si tratta, come
è facile rilevare, di interventi privi di
connotazione strettamente edilizia e,
nondimeno, assoggettati a titolo abilitativo
(oggi permesso di costruire).
Significativa è, poi, la previsione
dell'art. 10, comma 2, secondo cui <<Le
regioni stabiliscono con legge quali
mutamenti, connessi o non connessi a
trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili
o di loro parti, sono subordinati a permesso
di costruire o a denuncia di inizio
attività>>”.
---------------
Correttamente pertanto i primi giudici hanno
ritenuto legittimi i provvedimenti impugnati
in primo grado, non potendo dubitarsi che
attraverso lo spargimento di ghiaione
sull’area in questione il proprietario
intendeva effettivamente modificare la
destinazione agricola dell’area
utilizzandola quale piazzale di sosta e
ricovero dell’auto e delle due roulottes di
sua proprietà, determinando così una
trasformazione urbanistica che necessitava
di concessione edilizia (sulla necessità di
concessione edilizia per ogni intervento che
determini una perdurante modifica dello
stato dei luoghi con materiale posto sul
suolo, pur in assenza di opera in muratura,
anche C.d.S., sez. V, 21.10.2003, n. 6519) (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 27.04.2012 n. 2450 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’ordinanza
di acquisizione gratuita al patrimonio
comunale di un’opera abusiva si configura
quale atto dovuto, privo di discrezionalità,
subordinato al solo accertamento
dell’inottemperanza di ingiunzione di
demolizione ed al decorso del termine di
legge (che ne costituiscono i presupposti),
così che la censura è destituita di
qualsiasi fondamento giuridico, non
essendovi alcuna valutazione discrezionale
da compiere (e di conseguenza da
giustificare).
---------------
E' legittima l’ordinanza di demolizione di
opere edilizie abusive effettuata nei
confronti del responsabile dell’abuso e non
anche del proprietario dell’immobile, in
quanto l’articolo 7, comma 3, della legge
28.02.1985, n. 47, si riferisce
esclusivamente all’uno e non all’altro, per
l’evidente ragione di ancorare l’attività
riparatoria del responsabile, quale autore
dell’illecito, al rapido ripristino dello
stato dei luoghi.
...
Quanto al preteso vizio del provvedimento di
acquisizione al patrimonio comunale
dell’abuso realizzato per la carenza di
motivazione in ordine alla valutazione
dell’interesse pubblico, è sufficiente
osservare che l’ordinanza di acquisizione
gratuita al patrimonio comunale di un’opera
abusiva si configura quale atto dovuto,
privo di discrezionalità, subordinato al
solo accertamento dell’inottemperanza di
ingiunzione di demolizione ed al decorso del
termine di legge (che ne costituiscono i
presupposti) (C.d.S., sez. V, 01.10.2001, n.
5179), così che la censura è destituita di
qualsiasi fondamento giuridico, non
essendovi alcuna valutazione discrezionale
da compiere (e di conseguenza da
giustificare).
---------------
Quanto al primo
aspetto è sufficiente rilevare che è stata
ritenuta legittima l’ordinanza di
demolizione di opere edilizie abusive
effettuata nei confronti del responsabile
dell’abuso e non anche del proprietario
dell’immobile, in quanto l’articolo 7, comma
3, della legge 28.02.1985, n. 47, si
riferisce esclusivamente all’uno e non
all’altro, per l’evidente ragione di
ancorare l’attività riparatoria del
responsabile, quale autore dell’illecito, al
rapido ripristino dello stato dei luoghi
(C.d.S., sez. V, 01.10.1999, n. 1228) (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 27.04.2012 n. 2450 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
precarietà (e mobilità) di un manufatto, che
rende non necessaria la concessione
edilizia, dipende non dal suo sistema di
ancoraggio al terreno, ma dalla sua
inidoneità a determinare una stabile
trasformazione del territorio, con la
conseguente necessità del titolo edilizio
allorquando, come nel caso di specie, la
struttura, ancorché prefabbricata, sia
destinata a dare un’utilità prolungata nel
tempo, circostanza giammai contestata dagli
appellanti, e non meramente occasionale.
...
quanto al secondo profilo, poi, anche a
voler prescindere dalle significative
dimensioni della struttura prefabbricata
realizzata (oltre 80 metri quadrati, per un
volume di 257,78 metri quadrati, il che
esclude in radice la sua stessa amovibilità
(sul cui carattere insistono gli
appellanti), deve ricordarsi che in ogni
caso anche la precarietà (e mobilità) di un
manufatto, che rende non necessaria la
concessione edilizia, dipende non dal suo
sistema di ancoraggio al terreno, ma dalla
sua inidoneità a determinare una stabile
trasformazione del territorio, con la
conseguente necessità del titolo edilizio
allorquando, come nel caso di specie, la
struttura, ancorché prefabbricata, sia
destinata a dare un’utilità prolungata nel
tempo, circostanza giammai contestata dagli
appellanti, e non meramente occasionale
(C.d.S., sez. V, 15.06.2000, n. 3321;
03.04.1990, n. 317) (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 27.04.2012 n. 2450 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Posto
che la concessione in sanatoria rilasciata
per effetto di un condono edilizio produce
l’effetto della regolarizzazione della
costruzione dal punto di vista urbanistico,
attribuendo ad essa un regime giuridico che
in nulla si differenzia da quello proprio di
una normale concessione, presupposto
fattuale indispensabile per l’accoglimento
della domanda di condono (e per il rilascio
della relativa concessione in sanatoria) è
la stessa esistenza del manufatto abusivo,
non solo al momento della domanda di
condono, ma anche al momento del rilascio
della concessione: è stata così ritenuta
legittima l’archiviazione della domanda di
condono (relativa ad un edificio demolito e
non fedelmente ricostruito) per essere
venuto meno la stessa opera cui si riferiva
la richiesta.
---------------
Legittimamente l’amministrazione denega il
condono per la struttura prefabbricato ad
uso abitativo realizzata abusivamente,
essendo la stessa andata distrutta
nell’incendio del 25.07.1995, dopo la
presentazione della domanda di condono, ma
prima dell’eventuale rilascio della
concessione in sanatoria.
Anche il terzo motivo di gravame, con
cui è stato contestato l’erroneo rigetto in
parte del ricorso NRG. 491/1996 (concernente
l’impugnativa del diniego di condono
edilizio) per “Violazione di legge (art.
39 L. n. 724 del 23.12.1994 e successivi
decreti di reiterazione, compreso il D.L.
25.11.1994 n. 649, artt. 31, 33, 35 capo IV
L. 28.02.85, n. 47); eccesso di potere per
difetto di motivazione, per travisamento dei
fatti, per illogicità, per
contraddittorietà, per sviamento, per
difetto di istruttoria” è destituito di
fondamento giuridico.
Occorre premettere che, come esposto in
fatto, i primi giudici hanno ritenuto
legittimo l’impugnato diniego per il fatto
che il manufatto oggetto di condono era
andato distrutto, laddove lo hanno invece
annullato per quanto attiene il pozzo
artesiano (non configurabile come opera
edilizia) e quanto alle restanti opere per
la asserita impossibilità di determinare la
reale volumetria dell’abuso.
Ciò posto, deve rilevarsi che, diversamente
da quanto opinato dagli appellanti, posto
che la concessione in sanatoria rilasciata
per effetto di un condono edilizio produce
l’effetto della regolarizzazione della
costruzione dal punto di vista urbanistico,
attribuendo ad essa un regime giuridico che
in nulla si differenzia da quello proprio di
una normale concessione (C.d.S., sez. IV,
30.11.2009, n. 7491; sez. V, 07.05.2008, n.
2086), presupposto fattuale indispensabile
per l’accoglimento della domanda di condono
(e per il rilascio della relativa
concessione in sanatoria) è la stessa
esistenza del manufatto abusivo, non solo al
momento della domanda di condono, ma anche
al momento del rilascio della concessione
(C.d.S., sez. V, 18.11.2004, n. 7538): è
stata così ritenuta legittima
l’archiviazione della domanda di condono
(relativa ad un edificio demolito e non
fedelmente ricostruito) per essere venuto
meno la stessa opera cui si riferiva la
richiesta (C.d.S., sez. IV, 28.12.2008, n.
6550).
...
Del tutto legittimamente, come ritenuto
anche dai primi giudici, l’amministrazione
ha denegato il condono per la struttura
prefabbricato ad uso abitativo realizzata
abusivamente, essendo la stessa andata
distrutta nell’incendio del 25.07.1995, dopo
la presentazione della domanda di condono,
ma prima dell’eventuale rilascio della
concessione in sanatoria (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 27.04.2012 n. 2450 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In base all’art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000, la non veridicità
della dichiarazione sostitutiva presentata
comporta la decadenza dai benefici
eventualmente conseguiti, non lasciando tale
disposizione alcun margine di
discrezionalità alle Amministrazioni che si
avvedano della non veridicità delle
dichiarazioni.
Inoltre, l’art. 75, comma 1, del d.P.R.
28.12.2000, n. 445 prescinde, per la sua
applicazione, dalla condizione soggettiva
del dichiarante, attestandosi sul dato
oggettivo della non veridicità, rispetto al
quale sono irrilevanti il complesso delle
giustificazioni addotte dal dichiarante.
In altre parole, la disposizione in esame
non richiede alcuna valutazione circa il
dolo o la grave colpa del dichiarante,
poiché, se così fosse, verrebbe meno la
ratio della disciplina che è volta a
semplificare l’azione amministrativa,
facendo leva sul principio di
autoresponsabilità del dichiarante: il
corollario che deve trarsi da tale
constatazione è che la non veridicità di
quanto autodichiarato rileva sotto un
profilo oggettivo e conduce alla decadenza
dei benefici ottenuti con
l’autodichiarazione non veritiera,
indipendentemente da ogni indagine
dell’Amministrazione sull’elemento
soggettivo del dichiarante, perché non vi
sono particolari risvolti sanzionatori in
giuoco, ma solo le necessità di spedita
esecuzione della legge sottese al sistema
della semplificazione.
L’accertamento dell’elemento soggettivo,
peraltro, può essere rilevante sotto altri
profili, ad es. per verificare la
sussistenza di un eventuale reato di truffa
(art. 640 del c.p.), ma non per applicare le
conseguenze decadenziali legate alla non
veridicità obiettiva della dichiarazione.
Pertanto, occorre ribadire che è irrilevante
la disciplina di cui all’art. 48 del Codice
appalti, in quanto la disposta esclusione è
dipesa non dai fatti che all’epoca avevano
dato luogo alla suddetta annotazione o
dall’annotazione in sé, bensì dalla mancata
dichiarazione ditale circostanza da parte
del concorrente in gara.
La giurisprudenza amministrativa ha più
volte rilevato che, in base all’art. 75 del
d.P.R. n. 445 del 2000, la non veridicità
della dichiarazione sostitutiva presentata
comporta la decadenza dai benefici
eventualmente conseguiti, non lasciando tale
disposizione alcun margine di
discrezionalità alle Amministrazioni che si
avvedano della non veridicità delle
dichiarazioni.
Inoltre, l’art. 75, comma 1, del d.P.R.
28.12.2000, n. 445 prescinde, per la sua
applicazione, dalla condizione soggettiva
del dichiarante, attestandosi sul dato
oggettivo della non veridicità, rispetto al
quale sono irrilevanti il complesso delle
giustificazioni addotte dal dichiarante.
In altre parole, la disposizione in esame
non richiede alcuna valutazione circa il
dolo o la grave colpa del dichiarante,
poiché, se così fosse, verrebbe meno la
ratio della disciplina che è volta a
semplificare l’azione amministrativa,
facendo leva sul principio di
autoresponsabilità del dichiarante: il
corollario che deve trarsi da tale
constatazione è che la non veridicità di
quanto autodichiarato rileva sotto un
profilo oggettivo e conduce alla decadenza
dei benefici ottenuti con
l’autodichiarazione non veritiera,
indipendentemente da ogni indagine
dell’Amministrazione sull’elemento
soggettivo del dichiarante, perché non vi
sono particolari risvolti sanzionatori in
giuoco, ma solo le necessità di spedita
esecuzione della legge sottese al sistema
della semplificazione.
L’accertamento dell’elemento soggettivo,
peraltro, può essere rilevante sotto altri
profili, ad es. per verificare la
sussistenza di un eventuale reato di truffa
(art. 640 del c.p.), ma non per applicare le
conseguenze decadenziali legate alla non
veridicità obiettiva della dichiarazione.
Pertanto, occorre ribadire che è irrilevante
la disciplina di cui all’art. 48 del Codice
appalti, in quanto la disposta esclusione è
dipesa non dai fatti che all’epoca avevano
dato luogo alla suddetta annotazione o
dall’annotazione in sé, bensì dalla mancata
dichiarazione ditale circostanza da parte
del concorrente in gara.
Nella specie, è pacifico e risulta
documentalmente dall’annotazione iscritta
presso l’Osservatorio in data 19.11.2009,
che il Consiglio dell’Autorità per la
Vigilanza sui contratti pubblici di lavori,
servizi e forniture, con decisione
dell'08.10.2009, n. 126, ha disposto che
l’operatore economico Politecnica Ingegneria
e Architettura Soc. Coop. è sospeso per un
mese dalla partecipazione alle procedure di
affidamento dalla data di iscrizione della
presente annotazione nel Casellario
informatico.
Pertanto, l’attuale appellante aveva l’onere
e l’obbligo di dichiarare la sanzione
irrogata che decorreva non dalla data di
commissione dell’illecito, bensì da quella
di annotazione nel casellario.
Infatti, la data da cui decorre il periodo
di un anno antecedente la data di
pubblicazione del bando di gara in cui è
necessario che le imprese non abbiano reso
false dichiarazioni in merito ai requisiti e
alle condizioni rilevanti per la
partecipazione alle procedure di gara,
richiamato dall’art. 38 d.lgs. n. 163 del
2006, coincide con quella di iscrizione nel
casellario delle notizie riguardanti le
false dichiarazioni, venendo sorretta la
suddetta esigenza di certezza altresì dalla
lettura della disposizione, che pur in
apparenza facendo riferimento al mero fatto
storico delle dichiarazioni mendaci,
immediatamente precisa che deve trattarsi in
ogni caso di dichiarazioni risultanti dai
dati in possesso dell’Osservatorio
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.04.2012 n. 2447 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Geologi, competenze univoche.
I percorsi professionali di geologi,
ingegneri e architetti non sono totalmente
equiparabili. Così, per assegnare un
incarico dirigenziale in un ambito specifico
di una delle tre professioni non si può non
tenere conto della differente preparazione e
competenza.
Lo ha stabilito il TAR
Lazio-Roma, Sez. III, con la
sentenza
26.04.2012 n. 3757, annullando
la circolare del ministero delle
infrastrutture e dei trasporti (presidenza
del Consiglio superiore dei lavori pubblici
n. 7618/Stc dell'08.09.2010), recante
i «Criteri per il rilascio
dell'autorizzazione ai laboratori per
l'esecuzione e certificazione di prove su
terre e rocce di cui all'art. 59 del dpr n.
380/2001».
In particolare, il Tar ha accolto
parzialmente il ricorso presentato, tra gli
altri, dal Consiglio nazionale dei geologi,
guidato da Gian Vito Graziano, contestando
la circolare nella parte in cui prevedeva,
per il direttore di tali laboratori,
indifferentemente il possesso della laurea
in geologia, ingegneria e architettura.
Questo perché, secondo i giudici, sia la
legge n. 112/1963 (Disposizioni per la tutela
del titolo e della professione di geologo),
sia il dpr n. 328/2001, indicano tali prove
come specifiche dell'attività del geologo.
«Invece», prosegue la sentenza, «tali
attività, non figurano rispetto alla
disciplina degli architetti (art. 16 dpr
328/2001) e solo in parte per gli ingeneri
(art. 46 dpr 328/2001 che fa riferimento alle
opere geotecniche solo per l'ingegneria
civile)».
Lo stesso Tribunale, comunica il Cng in una nota, con la sentenza n.
3761/2012 ha annullato anche la circolare
del ministero delle infrastrutture e dei
trasporti, recante i Criteri per il rilascio
dell'autorizzazione ai laboratori per
l'esecuzione e certificazione di indagini
geognostiche, prelievo di campioni e prove
in sito di cui all'art. 59 del dpr n.
380/2001, «ritenendo che l'art. 59 del dpr
380/2001 e le norme tecniche per le
costruzioni si riferiscono alle indagini e
prove geotecniche, ma non alle indagini geognostiche,
al prelievo di campioni e alle prove in sito» (articolo ItaliaOggi
del 28.04.2012). |
ATTI AMMINISTRATIVI: In presenza di una motivazione
“per relationem” basta che l'interessato sia
posto in condizione di conoscere gli atti
dai quali emergono i presupposti di fatto e
di diritto della determinazione assunta,
mentre non occorre l'allegazione da parte
dell'Amministrazione dei singoli documenti
istruttori sottesi al provvedimento.
In presenza di una motivazione
“per relationem”, come nel caso di specie,
basta che l'interessato sia posto in
condizione di conoscere gli atti dai quali
emergono i presupposti di fatto e di diritto
della determinazione assunta, mentre non
occorre l'allegazione da parte
dell'Amministrazione dei singoli documenti
istruttori sottesi al provvedimento (TAR
Lombardia, Milano, Sez. III, 29.04.2009 n.
3595)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 26.04.2012 n. 1231 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Per
"Documento unico di regolarità contributiva"
(d.u.r.c.) si intende il
certificato che attesta contestualmente la
regolarità di un operatore economico per
quanto concerne i versamenti dovuti a INPS,
INAIL, nonché Cassa Edile per i lavori
dell’edilizia, verificati sulla base della
rispettiva normativa di riferimento.
L’articolo 16-bis, comma 10, decreto legge
n. 185/2008, così come modificato dalla
legge di conversione n. 2/2009, stabilisce
che le Stazioni appaltanti acquisiscono
d’ufficio il DURC, anche attraverso gli
strumenti informatici, dagli istituti o
dagli enti abilitati al rilascio in tutti i
casi in cui è richiesto dalla legge.
Muovendo da tale presupposto, la
giurisprudenza ha chiarito che, ai sensi
dell'art. 16-bis, comma 10, d.l. 29.11.2008 n. 185, conv. nella l. 28.01.2009
n. 2, il procedimento di rilascio del DURC è
stato semplificato attraverso l'introduzione
dell'obbligo in capo alle stazioni
appaltanti pubbliche di acquisirlo
d'ufficio, anche attraverso strumenti
informatici, dagli istituti o dagli enti
abilitati al rilascio in tutti i casi in cui
è richiesto dalla legge, sicché l'obbligo
(illegittimo) fissato dal bando di gara di
produrre il d.u.r.c. va ritenuto assorbito
dalla generica dichiarazione di essere in
regola con le norme in materia di contributi
previdenziali ed assistenziali, ferma
restando la richiamata acquisizione
d'ufficio che la stazione appaltante potrà
disporre.
Ciò detto, i rilievi mossi da parte
ricorrente si appalesano infondati:
- sotto il primo profilo, perché il d.m. 24.10.2007 ha finito per disciplinare il d.u.r.c. in termini generali, quale che sia
lo scopo per cui il d.u.r.c. è richiesto,
compreso il d.u.r.c. necessario per
l'affidamento di appalti pubblici,
indipendentemente dalla circostanza che
l'art. 1 continui a distinguere le varie
ipotesi, stabilendo che "il possesso del
Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC)
è richiesto ai datori di lavoro ai fini
della fruizione dei benefici normativi e
contributivi in materia di lavoro e
legislazione sociale previsti
dall'ordinamento nonché ai fini della
fruizione dei benefici e sovvenzioni
previsti dalla disciplina comunitaria" ed
invece "ai sensi della vigente normativa il
DURC è inoltre richiesto ai datori di lavoro
ed ai lavoratori autonomi nell'ambito delle
procedure di appalto di opere, servizi e
forniture pubblici e nei lavori privati
dell'edilizia".
L’art. 16-bis, comma 10, del D.L. n. 185/2008 (Misure urgenti per il
sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e
impresa e per ridisegnare in funzione
anti-crisi il quadro strategico nazionale),
inserito dalla legge di conversione
n. 2/2009, così recita: “In attuazione dei
principi stabiliti dall'articolo 18, comma
2, della legge 07.08.1990, n. 241 e
successive modificazioni, e dall'articolo
43, comma 5, del testo unico delle
disposizioni legislative e rego-lamentari in
materia di documentazione amministrativa, di
cui al decreto del Presidente della
Repubblica 28.12.2000, n. 445, le
stazioni appaltanti pubbliche acquisiscono
d'ufficio, anche attraverso strumenti
informatici, il documento unico di
regolarità contributiva (DURC) dagli
istituti o dagli enti abilitati al rilascio
in tutti i casi in cui è richiesto dalla
legge”.
La disposizione in questione si applica
anche in Sicilia, in quanto costituisce
applicazione della Legge 241/1990, per come
recepita nella Regione con legge reg.
n. 10/1991 (cfr. Tar Palermo, Ord. n. 1036 del
2009).
Quindi, essendo comunque onere della
Stazione appaltante acquisire d’ufficio il
DURC, i rilievi di inidoneità non assumono
valore nel senso evidenziato da parte
ricorrente.
Sul punto cfr. Tar Catania n. 116 del 2012
che il Collegio condivide e fa propria e che
così recita:
<<Quanto al primo motivo di ricorso (con il
quale si sostiene che il DURC prodotto in
gara dalla aggiudicataria, oltre ad essere
incompleto per la dicitura che l’INPS “non
si è pronunciato”, sarebbe irregolare sotto
il profilo della tipologia per la quale è
stato richiesto, cioè “ per agevolazioni,
finanziamenti, sovvenzioni e agevolazioni”),
il Collegio lo ritiene infondato.
Per "Documento unico di regolarità
contributiva" (d.u.r.c.) si intende il
certificato che attesta contestualmente la
regolarità di un operatore economico per
quanto concerne i versamenti dovuti a INPS,
INAIL, nonché Cassa Edile per i lavori
dell’edilizia, verificati sulla base della
rispettiva normativa di riferimento.
L’articolo 16-bis, comma 10, decreto legge
n. 185/2008, così come modificato dalla
legge di conversione n. 2/2009, stabilisce
che le Stazioni appaltanti acquisiscono
d’ufficio il DURC, anche attraverso gli
strumenti informatici, dagli istituti o
dagli enti abilitati al rilascio in tutti i
casi in cui è richiesto dalla legge.
Muovendo da tale presupposto, la
giurisprudenza ha chiarito che, ai sensi
dell'art. 16-bis, comma 10, d.l. 29.11.2008 n. 185, conv. nella l. 28.01.2009
n. 2, il procedimento di rilascio del DURC è
stato semplificato attraverso l'introduzione
dell'obbligo in capo alle stazioni
appaltanti pubbliche di acquisirlo
d'ufficio, anche attraverso strumenti
informatici, dagli istituti o dagli enti
abilitati al rilascio in tutti i casi in cui
è richiesto dalla legge, sicché l'obbligo
(illegittimo) fissato dal bando di gara di
produrre il d.u.r.c. va ritenuto assorbito
dalla generica dichiarazione di essere in
regola con le norme in materia di contributi
previdenziali ed assistenziali, ferma
restando la richiamata acquisizione
d'ufficio che la stazione appaltante potrà
disporre (TAR Sicilia Palermo, sez. III,
26.10.2010 , n. 13564).
Ciò detto, i rilievi mossi da parte
ricorrente si appalesano infondati:
- sotto il primo profilo, perché il d.m. 24.10.2007 ha finito per disciplinare il d.u.r.c. in termini generali, quale che sia
lo scopo per cui il d.u.r.c. è richiesto,
compreso il d.u.r.c. necessario per
l'affidamento di appalti pubblici,
indipendentemente dalla circostanza che
l'art. 1 continui a distinguere le varie
ipotesi, stabilendo che "il possesso del
Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC)
è richiesto ai datori di lavoro ai fini
della fruizione dei benefici normativi e
contributivi in materia di lavoro e
legislazione sociale previsti
dall'ordinamento nonché ai fini della
fruizione dei benefici e sovvenzioni
previsti dalla disciplina comunitaria" ed
invece "ai sensi della vigente normativa il
DURC è inoltre richiesto ai datori di lavoro
ed ai lavoratori autonomi nell'ambito delle
procedure di appalto di opere, servizi e
forniture pubblici e nei lavori privati
dell'edilizia" (in termini, TAR Calabria
Reggio Calabria, 23.03.2010, n. 291)>>
(TAR Sicilia-Catania, Sez. IV,
sentenza 26.04.2012 n. 1158 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Anche nei rapporti
di lavoro "privatizzati" alle dipendenze di
pubblica amministrazione, il recesso del
datore di lavoro nel corso del periodo di
prova ha natura discrezionale e dispensa
dall'onere di provarne la giustificazione
(altrimenti sarebbe equiparato ad un recesso
assoggettato alla L. n. 604 del 1966), fermo
restando che l'esercizio del potere di
recesso deve essere coerente con la causa
del patto di prova, che consiste nel
consentire alle parti del rapporto di lavoro
di verificarne la reciproca convenienza.
Non
sarebbe, pertanto, configurabile un esito
negativo della prova ed un valido recesso
qualora le modalità dell'esperimento non
risultassero adeguate ad accertare la
capacità lavorativa del prestatore in prova,
ovvero risultasse il perseguimento di
finalità discriminatorie o altrimenti
illecite, ma è sul lavoratore che incombe
l'onere di dimostrare la contraddizione tra
recesso e funzione dell'esperimento.
---------------
In tema di obbligo di motivare il recesso in
periodo di prova, contrattualmente previsto,
con specifico riferimento al lavoro pubblico
la giurisprudenza della Corte di Cassazione
ammette la verificabilità giudiziale della
coerenza delle ragioni del recesso rispetto,
da un lato, alla finalità della prova e,
dall'altro, all'effettivo andamento della
prova stessa, ma senza che resti escluso il
potere di valutazione discrezionale
dell'amministrazione datrice di lavoro, non
potendo omologarsi la giustificazione del
recesso per mancato superamento della prova
a quella della giustificazione del
licenziamento per giusta causa o
giustificato motivo, dovendosi, di
conseguenza, escludere che l'obbligo di
motivazione possa spostare l'onere della
prova sul datore di lavoro.
... il ricorso è infondato e,
pertanto, va rigettato.
Il ricorrente deduce l’illegittimità del
recesso dell’Amministrazione durante il
periodo di prova. In tema di periodo di
prova nel settore del pubblico impiego la
Corte Costituzionale ha precisato che l'art.
2096 c.c., ed i principi elaborati dalla
giurisprudenza sulla base di detta norma,
non sono applicabili allo "speciale" (vedi
Corte Costituzionale, decisioni n. 313/1996;
309/1997, 89/2003, 199/2003) rapporto di
lavoro alle dipendenze di pubbliche
amministrazioni, risultando l'istituto della
prova regolato da diverse, specifiche,
disposizioni, secondo la salvezza formulata
dal D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, art. 2,
comma 2.
In tema di disciplina applicabile ratione temporis al rapporto di lavoro
pubblico in argomento l'art. 17 del D.P.R. 09.05.1994, n. 487, peraltro richiamato dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 70, in tema di
"assunzioni in servizio", prevede che i
candidati dichiarati vincitori sono
invitati, a mezzo assicurata convenzionale,
ad assumere servizio in via provvisoria,
sotto riserva di accertamento del possesso
dei requisiti prescritti per la nomina e
sono assunti in prova nel profilo
professionale di qualifica o categoria per
il quale risultano vincitori. La durata del
periodo di prova è differenziata in ragione
della complessità delle prestazioni
professionali richieste e sarà definita in
sede di contrattazione collettiva. I
provvedimenti di nomina in prova sono
immediatamente esecutivi.
La regola è poi
ripetuta dall'art. 28, comma 1, con riguardo
alle assunzioni degli avviati al lavoro
dagli uffici di collocamento: le
amministrazioni e gli enti interessati
procedono a nominare in prova e ad immettere
in servizio i lavoratori utilmente
selezionati, anche singolarmente o per
scaglioni, nel rispetto dell'ordine di
avviamento e di graduatoria integrata. Come
ha chiarito la giurisprudenza di legittimità
(cfr., Cass., Sez. I, Sentenza n. 21586 del
2008) "il richiamato quadro normativo rende
evidente che tutte le assunzioni alle
dipendenze delle amministrazioni pubbliche
sono assoggettate all'esito positivo di un
periodo di prova, e ciò avviene ex lege e
non per effetto di patto inserito nel
contratto di lavoro dall'autonomia
contrattuale".
L'autonomia contrattuale è
abilitata esclusivamente alla determinazione
della durata del periodo di prova, ma tale
abilitazione è data dalle norme
esclusivamente alla contrattazione
collettiva, restando escluso che il
contratto individuale possa discostarsene (D.Lgs.
n. 165 del 2001, art. 2, comma 3). Ed anche
questa regolamentazione conduce ad escludere
che il contratto individuale possa
validamente stabilire i contenuti del patto
di prova. Coerentemente con tale quadro
normativo l'art. 4 del contratto di lavoro
stipulato tra le parti prevede che "la
stabilità del rapporto di lavoro è
subordinata al positivo superamento del
periodo di prova della durata di sei mesi di
lavoro effettivo dalla data di assunzione.
Il periodo di prova è regolato dalla
disciplina specifica contenuta nei Contratti
Collettivi Nazionali vigenti".
L'art. 14, co.
5, del CCNL prevede che decorso la metà del
periodo di prova ciascuna delle parti può
recedere in qualsiasi momento senza obbligo
di preavviso né di indennità sostitutiva del
preavviso.
Così delineata la cornice
normativa applicabile al caso di specie, va
condivisa l'impostazione ermeneutica seguita
dalla giurisprudenza della Corte di
cassazione, secondo cui "anche nei rapporti
di lavoro "privatizzati" alle dipendenze di
pubblica amministrazione, il recesso del
datore di lavoro nel corso del periodo di
prova ha natura discrezionale e dispensa
dall'onere di provarne la giustificazione
(altrimenti sarebbe equiparato ad un recesso
assoggettato alla L. n. 604 del 1966), fermo
restando che l'esercizio del potere di
recesso deve essere coerente con la causa
del patto di prova, che consiste nel
consentire alle parti del rapporto di lavoro
di verificarne la reciproca convenienza.
Non
sarebbe, pertanto, configurabile un esito
negativo della prova ed un valido recesso
qualora le modalità dell'esperimento non
risultassero adeguate ad accertare la
capacità lavorativa del prestatore in prova,
ovvero risultasse il perseguimento di
finalità discriminatorie o altrimenti
illecite, ma è sul lavoratore che incombe
l'onere di dimostrare la contraddizione tra
recesso e funzione dell'esperimento" (vedi
Cass. 13.09.2006, n. 19558).
In tema, poi, di obbligo di motivare il
recesso in periodo di prova,
contrattualmente previsto (nella specie, dal
contratto collettivo di comparto), con
specifico riferimento al lavoro pubblico la
giurisprudenza della Corte di Cassazione
ammette la verificabilità giudiziale della
coerenza delle ragioni del recesso rispetto,
da un lato, alla finalità della prova e,
dall'altro, all'effettivo andamento della
prova stessa, ma senza che resti escluso il
potere di valutazione discrezionale
dell'amministrazione datrice di lavoro, non
potendo omologarsi la giustificazione del
recesso per mancato superamento della prova
a quella della giustificazione del
licenziamento per giusta causa o
giustificato motivo, dovendosi, di
conseguenza, escludere che l'obbligo di
motivazione possa spostare l'onere della
prova sul datore di lavoro (Cass. 05.11.2007, n. 23061;
08.01.2008, n. 143).
Alla luce di tale impostazione ermeneutica
va esaminata la legittimità del recesso
dell'Amministrazione.
L'Amministrazione in base al CCNL e al
contratto di lavoro stipulato con il
ricorrente poteva recedere decorso la metà
del periodo di prova stabilito e, quindi,
considerato che il periodo di prova era
stato fissato in sei mesi, il recesso era
consentito dal 22.06.1997. L'Amministrazione
ha, invece, esercitato la facoltà di recesso
tredici giorni prima la scadenza del periodo
massimo di prova (il 09.09.1997). Il
ricorrente ha contestato la legittimità del
recesso, deducendo di aver lavorato
proficuamente nell’amministrazione e che, in
ogni caso, era stato adibito ad un settore
diverso da quello per il quale era stato
assunto.
Quanto a quest’ultimo profilo, il ricorrente
è stato assegnato ad un settore diverso in
base a sua richiesta e in linea con l’art. 3
del contratto individuale di lavoro, il
quale prevede che il contratto individuale
di lavoro è assoggettato ai criteri di
massima mobilità e flessibilità. Il citato
motivo di doglianza è, pertanto, infondato,
anche perché il lavoratore è stato,
comunque, assegnato ad un settore
compatibile con il suo profilo
professionale.
Riguardo, invece, alla dedotta illegittimità
e mancata motivazione del recesso, lo stesso
è stato determinato sulla base della
relazione del coordinatore del Settore
Gestione Territorio e Ambiente del 05.08.1997,
che ha evidenziato la “carenza di esperienza
e formazione non pienamente compatibile col
ruolo ricoperto” e “carenza propositiva ed
incapacità di partecipazione attiva alla
gestione delle problematiche ordinarie e
straordinarie”. Inoltre, “nel periodo
trascorso non si è notato nessun
miglioramento significativo nonostante gli
indirizzi e gli stimoli, anche energici”, e
si è riscontrata “un’incapacità di fornire
soluzioni e indirizzi anche a problemi
ordinari”.
Tali argomentazioni dimostrano che il
recesso dell’Amministrazione è stato
ampiamente motivato e, pertanto, lo stesso è
stato legittimamente operato. Non può, del
resto, essere sottaciuto che il periodo di
prova concesso al ricorrente era adeguato
per verificare l’idoneità dello stesso per
le mansioni a lui attribuite; inoltre, è
sintomatica in tal senso anche la diffida
che l’amministrazione ha presentato in data
16.06.1997 nei confronti del lavoratore, da
cui emerge che nonostante una dotazione di
addetti più che sufficiente non corrisponde
da parte del ricorrente un’adeguata risposta
operativa.
Ne deriva che il recesso
dell’Amministrazione è stato legittimamente
effettuato, anche in considerazione
dell’irrinunciabile discrezionalità che
spetta in tale ambito all’Amministrazione e
che non consente a questa A.G. un sindacato
intrinseco sull’attività
dell’Amministrazione. Il ricorso, pertanto,
va rigettato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 24.04.2012 n. 1210 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Le
mansioni già qualificate come dirigenziali
nell’ordinamento precedente non sono
automaticamente equiparabili alle mansioni
che caratterizzano lo status dirigenziale
configurato dal decreto legislativo 29/1993 (e
divenuto operativo con l’applicazione del
contratto collettivo per la separata area
dirigenziale); pertanto, il fatto in sé
della prosecuzione delle attività svolte in
precedenza non comprova automaticamente la
natura dirigenziale delle mansioni stesse,
nel nuovo contesto definito dal decreto
legislativo 29/1993 e dal contratto
collettivo.
Ed invero, lo status
impiegatizio-funzionariale e quello
dirigenziale assumono ora connotati di
sensibile diversificazione (ulteriore
rispetto al precedente discrimine di solo
tipo funzionale), soprattutto con riguardo
al nuovo regime delle responsabilità e della
cessazione del rapporto di lavoro.
Particolare riguardo va dato
all’accertamento del risultato della
gestione dirigenziale di cui all’articolo
20, comma 9, del decreto legislativo 29/1993,
atteso che l’eventuale esito negativo
costituisce giusta causa di recesso, anche
ai sensi dell’art. 27, comma 4, del contratto
collettivo.
Si tratta di un sistema sanzionatorio del
tutto estraneo all’area non dirigenziale dei
funzionari, sottoposti invece alle ordinarie
e consuete regole disciplinari.
Sono sufficienti questi elementi per
comprendere che l’effettività della funzione
dirigenziale non può (ora) prescindere dal
possesso della relativa qualifica, poiché
–diversamente opinando- mancherebbero nello
svolgimento di tale funzione (quantomeno)
gli essenziali connotati di responsabilità.
Il funzionario incaricato verrebbe così a
percepire una retribuzione di risultato,
senza tuttavia rischiare in alcun modo –nei
casi di insufficiente rendimento- la
cessazione del rapporto di lavoro (ma al
più, il solo rientro nella ordinaria
mansione di provenienza).
Pertanto, anche nei casi in cui i dipendenti
avessero mantenuto il mansionario
“superiore” che era stato loro a suo tempo
conferito, non si tratterebbe più di
funzione dirigenziale, ma semmai di parziale
esercizio di mansione superiore, fattispecie
disciplinata dall’art. 55, comma 4, del
decreto legislativo 29/1993, secondo cui
“non costituisce esercizio di mansioni
superiori l’attribuzione di alcuni soltanto
dei compiti propri delle mansioni stesse
disposta ai sensi dell’art. 56, comma 2 (il
quale, a sua volta, prevede che “il
dipendente può essere adibito a svolgere
compiti specifici non prevalenti della
qualifica superiore”).
Con il presente ricorso gli
istanti (unitamente ad altri soggetti i cui
ricorsi sono stati dichiarati perenti con
decreto presidenziale n. 484/2011 del 13.04.2011), funzionari di VIII livello,
assumendo di aver espletato mansioni
dirigenziali, impugnano la deliberazione
indicata in epigrafe, avente ad oggetto la
prima fase applicativa del C.C.N.L. per il
personale dirigente e la conseguente
cessazione degli incarichi di svolgimento
delle mansioni superiori, chiedendo il
conseguente riconoscimento del diritto alla
retribuzione di posizione e la condanna
dell’Amministrazione al suo pagamento,
deducendo la violazione degli artt. 36 della
Costituzione, 2126 c.c., 57 d.lgs. n. 29/1993
e 36 e 40 C.C.N.L. per il personale
dirigenziale del comparto Regioni-Autonomie
locali, oltre all’eccesso di potere per
assoluto difetto di motivazione e disparità
di trattamento.
...
Il collegio ritiene di assorbire l’eccezione
preliminare di irricevibilità del ricorso in
considerazione dell’infondatezza nel merito
del medesimo, come risulta dalla costante
giurisprudenza, anche di questo Tribunale,
alla quale il collegio si riporta.
In particolare, è stato affermato che: “le
mansioni già qualificate come dirigenziali
nell’ordinamento precedente non sono
automaticamente equiparabili alle mansioni
che caratterizzano lo status dirigenziale
configurato dal decreto legislativo 29/1993 (e
divenuto operativo con l’applicazione del
contratto collettivo per la separata area
dirigenziale); pertanto, il fatto in sé
della prosecuzione delle attività svolte in
precedenza non comprova automaticamente la
natura dirigenziale delle mansioni stesse,
nel nuovo contesto definito dal decreto
legislativo 29/1993 e dal contratto
collettivo.
Ed invero, lo status
impiegatizio-funzionariale e quello
dirigenziale assumono ora connotati di
sensibile diversificazione (ulteriore
rispetto al precedente discrimine di solo
tipo funzionale), soprattutto con riguardo
al nuovo regime delle responsabilità e della
cessazione del rapporto di lavoro.
Particolare riguardo va dato
all’accertamento del risultato della
gestione dirigenziale di cui all’articolo
20, comma 9, del decreto legislativo 29/1993,
atteso che l’eventuale esito negativo
costituisce giusta causa di recesso, anche
ai sensi dell’art. 27, comma 4, del contratto
collettivo.
Si tratta di un sistema sanzionatorio del
tutto estraneo all’area non dirigenziale dei
funzionari, sottoposti invece alle ordinarie
e consuete regole disciplinari.
Sono sufficienti questi elementi per
comprendere che l’effettività della funzione
dirigenziale non può (ora) prescindere dal
possesso della relativa qualifica, poiché
–diversamente opinando- mancherebbero nello
svolgimento di tale funzione (quantomeno)
gli essenziali connotati di responsabilità.
Il funzionario incaricato verrebbe così a
percepire una retribuzione di risultato,
senza tuttavia rischiare in alcun modo –nei
casi di insufficiente rendimento- la
cessazione del rapporto di lavoro (ma al
più, il solo rientro nella ordinaria
mansione di provenienza).
Pertanto, anche nei casi in cui i dipendenti
avessero mantenuto il mansionario
“superiore” che era stato loro a suo tempo
conferito, non si tratterebbe più di
funzione dirigenziale, ma semmai di parziale
esercizio di mansione superiore, fattispecie
disciplinata dall’art. 55, comma 4, del
decreto legislativo 29/1993, secondo cui “non
costituisce esercizio di mansioni superiori
l’attribuzione di alcuni soltanto dei
compiti propri delle mansioni stesse
disposta ai sensi dell’art. 56, comma 2 (il
quale, a sua volta, prevede che “il
dipendente può essere adibito a svolgere
compiti specifici non prevalenti della
qualifica superiore”) (TAR Lombardia, sez. II, n. 4326/1999)”
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 24.04.2012 n. 1207 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: L’art. 46, comma 1-bis, del D.Lgs. 163/2006 stabilisce che “la stazione
appaltante esclude i candidati o i
concorrenti in caso di mancato adempimento
alle prescrizioni previste dal presente
codice e dal regolamento e da altre
disposizioni di legge vigenti, nonché nei
casi di incertezza assoluta sul contenuto o
sulla provenienza dell’offerta, per difetto
di sottoscrizione o di altri elementi
essenziali ovvero in caso di non integrità
del plico contenente l'offerta o la domanda
di partecipazione o altre irregolarità
relative alla chiusura dei plichi, tali da
far ritenere, secondo le circostanze
concrete, che sia stato violato il principio
di segretezza delle offerte; i bandi e le
lettere di invito non possono contenere
ulteriori prescrizioni a pena di esclusione.
Dette prescrizioni sono comunque nulle.”
Se ne desume che la stazione appaltante non
può con gli atti di gara costituire nuove
cause di esclusione, rispetto a quelle
previste dalla vigente normativa.
La norma ha, poi, esteso il cosiddetto
potere di soccorso, stabilendo che ogni
vizio della documentazione è sanabile se non
confligge con una norma specifica o con gli
interessi espressamente considerati dalla
norma, tra i quali non rientra la par
condicio formale invocata dalla ricorrente
incidentale.
L’art. 38, comma 1, inoltre, sanziona con
l’esclusione l’effettivo difetto dei
requisiti ivi indicati da parte dei
concorrenti; al contrario il successivo
comma 2, in punto di relative dichiarazioni,
non prevede, in caso di inosservanza, il
medesimo effetto, con la conseguenza che la
mancanza delle dichiarazioni può essere
sanata con la successiva richiesta da parte
della stazione appaltante. Né in contrario
può valere la distinzione tra integrazione e
regolarizzazione delle dichiarazioni alla
quale si ispirava la precedente
giurisprudenza in materia di soccorso
procedimentale, stante l’avvenuto
ampliamento di tale compito
dell’amministrazione ad opera della legge,
sempre meno incline a valutazioni meramente
formalistiche.
Infine, non possono diversamente provvedere
gli atti di gara, escludendo la norma
espressamente che i bandi e le lettere di
invito possano contenere ulteriori
prescrizioni a pena di esclusione, che in
tal caso sono comunque nulle.
Occorre rilevare che
l’Amministrazione si è autovincolata
all’osservanza della normativa recata dal
d.lgs. n. 163 del 2006, in punto di cause di
esclusione, con ciò dovendosi applicare sia
l’art. 38, sia l’art. 46 in materia di
obbligo di soccorso.
L’art. 46, comma 1-bis, del D.Lgs. 163/2006,
applicabile ratione temporis alla
fattispecie, stabilisce che “la stazione
appaltante esclude i candidati o i
concorrenti in caso di mancato adempimento
alle prescrizioni previste dal presente
codice e dal regolamento e da altre
disposizioni di legge vigenti, nonché nei
casi di incertezza assoluta sul contenuto o
sulla provenienza dell’offerta, per difetto
di sottoscrizione o di altri elementi
essenziali ovvero in caso di non integrità
del plico contenente l'offerta o la domanda
di partecipazione o altre irregolarità
relative alla chiusura dei plichi, tali da
far ritenere, secondo le circostanze
concrete, che sia stato violato il principio
di segretezza delle offerte; i bandi e le
lettere di invito non possono contenere
ulteriori prescrizioni a pena di esclusione.
Dette prescrizioni sono comunque nulle.”
Se ne desume che la stazione appaltante non
può con gli atti di gara costituire nuove
cause di esclusione, rispetto a quelle
previste dalla vigente normativa.
La norma ha, poi, esteso il cosiddetto
potere di soccorso, stabilendo che ogni
vizio della documentazione è sanabile se non
confligge con una norma specifica o con gli
interessi espressamente considerati dalla
norma, tra i quali non rientra la par
condicio formale invocata dalla ricorrente
incidentale.
L’art. 38, comma 1, inoltre, sanziona con
l’esclusione l’effettivo difetto dei
requisiti ivi indicati da parte dei
concorrenti; al contrario il successivo
comma 2, in punto di relative dichiarazioni,
non prevede, in caso di inosservanza, il
medesimo effetto, con la conseguenza che la
mancanza delle dichiarazioni può essere
sanata con la successiva richiesta da parte
della stazione appaltante. Né in contrario
può valere la distinzione tra integrazione e
regolarizzazione delle dichiarazioni alla
quale si ispirava la precedente
giurisprudenza in materia di soccorso
procedimentale (es. Cons. Stato, V, 06.03.2006, n. 1068), stante l’avvenuto
ampliamento di tale compito
dell’amministrazione ad opera della legge,
sempre meno incline a valutazioni meramente
formalistiche.
Infine, non possono diversamente provvedere
gli atti di gara, escludendo la norma
espressamente che i bandi e le lettere di
invito possano contenere ulteriori
prescrizioni a pena di esclusione, che in
tal caso sono comunque nulle
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 24.04.2012 n. 1204 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
tema di abuso edilizio vale il principio
dell’ambulatorietà dell’obbligo di
ripristino dello status quo ante, in caso di
riscontro dell’esistenza di opere non
assentite.
Infatti, l’ordine di demolizione e gli altri
provvedimenti repressivi devono essere
rivolti nei confronti di chi abbia la
disponibilità dell’opera, indipendentemente
dal fatto che l’abbia concretamente
realizzata, considerato che l'abuso edilizio
costituisce illecito permanente e che
l'ordinanza stessa ha carattere
ripristinatorio e non prevede l'accertamento
del dolo o della colpa del soggetto cui si
imputa la trasgressione.
- rilevato che l’odierno ricorso nasce
dall’impugnazione di un ordine di
demolizione in seguito alla realizzazione di
opere edilizie realizzate in difformità
rispetto alla DIA n. 29/2005;
- rilevato che i motivi di doglianza
proposti dal ricorrente non mettono in
discussione la presenza degli abusi
riscontrati dall’amministrazione;
- rilevato che tutte le censure mosse al
provvedimento impugnato valorizzano,
esclusivamente, il profilo dell’estraneità
dell’esponente alla realizzazione degli
abusi contestati con l’ordinanza di cui si
discute;
- rilevato, infatti, che l’esponente ha
dedotto di non essere proprietario, né
locatore, né usufruttuario dell’unità
immobiliare per cui è causa, né di averla
detenuta ad alcun titolo al momento della
realizzazione degli abusi in esame;
- rilevato che, l’attività sanzionatoria
demandata in materia edilizia alla p.a. ha
carattere vincolato;
- rilevato inoltre che, in tema di abuso
edilizio, vale il principio dell’ambulatorietà
dell’obbligo di ripristino dello status
quo ante, in caso di riscontro
dell’esistenza di opere non assentite;
- rilevato, infatti, che l’ordine di
demolizione e gli altri provvedimenti
repressivi devono essere rivolti nei
confronti di chi abbia la disponibilità
dell’opera, indipendentemente dal fatto che
l’abbia concretamente realizzata,
considerato che l'abuso edilizio costituisce
illecito permanente e che l'ordinanza stessa
ha carattere ripristinatorio e non prevede
l'accertamento del dolo o della colpa del
soggetto cui si imputa la trasgressione (TAR
Lazio– Roma, Sez. I-quater 26.03.2012 n.
2830);
- rilevato, sulla scorta delle
considerazioni sopra esposte, che appaiono
infondati i motivi su cui è basato il
presente ricorso ...
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 24.04.2012 n. 1196 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’atto di asservimento dei suoli comporta la cessione di cubatura tra
fondi contigui ed è funzionale ad accrescere
la potenzialità edilizia di un’area per
mezzo dell’utilizzo della cubatura
realizzabile in una particella contigua e
del conseguente computo anche della
superficie di quest’ultima, ai fini della
verifica del rispetto dell’indice di
fabbricabilità fondiaria.
Dal punto di vista
urbanistico, i caratteri e gli effetti
dell'asservimento sono stati precisati dalla
giurisprudenza nel senso che i fondi non
debbono necessariamente essere adiacenti,
potendo la computabilità di più particelle
intendersi nel senso dell’effettiva e
significativa vicinanza tra i fondi
asserviti per raggiungere la cubatura
desiderata.
E’ stato,
inoltre, ritenuto ammissibile
l'asservimento, allo scopo di raggiungere
una più consistente volumetria edificabile,
di un'area ad un'altra, ancorché tra i due
fondi si interpongano una strada o un fosso
di scolo delle acque.
---------------
Una questione molto dibattuta è quella della
cd “sterilizzazione” delle potenzialità
edificatorie dei terreni a seguito della
modificazione della pianificazione
urbanistica.
Da una parte si è ritenuto che
l'asservimento di un terreno per realizzare
una costruzione non rende lo stesso
definitivamente inedificabile anche per il
futuro, poiché la destinazione ed
utilizzazione delle aree rappresenta, un
dato dinamico ed evolutivo, potendo mutare
nel tempo l'indice fondiario, nonché la
stessa previsione di lotti minimi, per cui
la potenzialità edificatoria di un terreno
va necessariamente valutata ed esaminata
alla stregua della modificazione della
pianificazione urbanistica e della normativa
sopravvenuta;
dall’altra parte, il Consiglio di Stato ha
recentemente negato (sentenza n. 4134/2011)
la possibilità, per le aree asservite, di
esprimere ulteriore capacità edificatoria in
caso di variante del P.R.G. migliorativa
degli indici di fabbricabilità.
Va comunque evidenziato come il dato comune
che caratterizza l’istituto
dell’asservimento va rinvenuto nella
sostanziale neutralità per il Comune, ai
fini del corretto sviluppo della densità
edilizia per come configurato negli atti
pianificatori, della materiale collocazione
dei fabbricati, giacché per il rispetto
dell'indice di fabbricabilità fondiaria,
assume esclusiva rilevanza il fatto che il
rapporto tra area edificabile e volumetria
realizzabile nella zona di riferimento resti
nei limiti fissati dal piano, risultando del
tutto indifferente, l’effettiva l'ubicazione
degli edifici all'interno del comparto,
fatti salvi, ovviamente, il rispetto delle
distanze e di eventuali prescrizioni sulla
superficie minima dei lotti.
Ora proprio lo stretto e inscindibile legame
tra atti di asservimento e rispetto delle
prescrizioni della normativa urbanistica,
quale espressione del governo e della
pianificazione del territorio comunale
induce a ritenere non ammissibili -ai fini
del rilascio di provvedimenti autorizzativi
in materia edilizia- atti di asservimento
tra terreni ubicati in comuni diversi. Sul
punto il Collegio condivide quanto espresso
dal Dipartimento Regionale urbanistica nel
parere del 15/04/2011 laddove ritiene non
ammissibile l’asservimento tra aree ubicate
in Comuni di versi poiché “il rilascio della
concessione edilizia è consentito per
l’esecuzione di qualsiasi attività
comportante trasformazione edilizia ed
urbanistica del territorio comunale; ciò
anche nel rispetto delle attribuzioni di
responsabilità sulla gestione del territorio
…”.
L’atto di asservimento dei suoli comporta la cessione di cubatura tra
fondi contigui ed è funzionale ad accrescere
la potenzialità edilizia di un’area per
mezzo dell’utilizzo della cubatura
realizzabile in una particella contigua e
del conseguente computo anche della
superficie di quest’ultima, ai fini della
verifica del rispetto dell’indice di
fabbricabilità fondiaria. Dal punto di vista
urbanistico, i caratteri e gli effetti
dell'asservimento sono stati precisati dalla
giurisprudenza nel senso che i fondi non
debbono necessariamente essere adiacenti,
potendo la computabilità di più particelle
intendersi nel senso dell’ effettiva e
significativa vicinanza tra i fondi
asserviti per raggiungere la cubatura
desiderata (Cons. Stato, V, 30.10.2003
n. 6734 e 01.04.1998, n. 400). E’ stato,
inoltre, ritenuto ammissibile
l'asservimento, allo scopo di raggiungere
una più consistente volumetria edificabile,
di un'area ad un'altra, ancorché tra i due
fondi si interpongano una strada o un fosso
di scolo delle acque (Cons. Stato, Sezione
V, 04.01.1993, n. 26).
Una questione molto dibattuta è quella della
cd “sterilizzazione” delle potenzialità
edificatorie dei terreni a seguito della
modificazione della pianificazione
urbanistica. Da una parte si è ritenuto che
l'asservimento di un terreno per realizzare
una costruzione non rende lo stesso
definitivamente inedificabile anche per il
futuro, poiché la destinazione ed
utilizzazione delle aree rappresenta, un
dato dinamico ed evolutivo, potendo mutare
nel tempo l'indice fondiario, nonché la
stessa previsione di lotti minimi, per cui
la potenzialità edificatoria di un terreno
va necessariamente valutata ed esaminata
alla stregua della modificazione della
pianificazione urbanistica e della normativa
sopravvenuta (TAR Lazio, Roma, Sez. II-bis - 10.09.2010, n. 32217);
dall’altra parte, il Consiglio di Stato ha
recentemente negato (sentenza n. 4134/2011)
la possibilità, per le aree asservite, di
esprimere ulteriore capacità edificatoria in
caso di variante del P.R.G. migliorativa
degli indici di fabbricabilità.
Va comunque evidenziato come il dato comune
che caratterizza l’istituto
dell’asservimento va rinvenuto nella
sostanziale neutralità per il Comune, ai
fini del corretto sviluppo della densità
edilizia per come configurato negli atti
pianificatori, della materiale collocazione
dei fabbricati, giacché per il rispetto
dell'indice di fabbricabilità fondiaria,
assume esclusiva rilevanza il fatto che il
rapporto tra area edificabile e volumetria
realizzabile nella zona di riferimento resti
nei limiti fissati dal piano, risultando del
tutto indifferente, l’effettiva l'ubicazione
degli edifici all'interno del comparto,
fatti salvi, ovviamente, il rispetto delle
distanze e di eventuali prescrizioni sulla
superficie minima dei lotti.
Ora proprio lo stretto e inscindibile legame
tra atti di asservimento e rispetto delle
prescrizioni della normativa urbanistica,
quale espressione del governo e della
pianificazione del territorio comunale
induce a ritenere non ammissibili -ai fini
del rilascio di provvedimenti autorizzativi
in materia edilizia- atti di asservimento
tra terreni ubicati in comuni diversi. Sul
punto il Collegio condivide quanto espresso
dal Dipartimento Regionale urbanistica nel
parere del 15/04/2011 (parere che
contrariamente a quanto sostenuto dalla
ricorrente si riferisce espressamente alla
fattispecie in esame), laddove ritiene non
ammissibile l’asservimento tra aree ubicate
in Comuni di versi poiché “il rilascio della
concessione edilizia è consentito per
l’esecuzione di qualsiasi attività
comportante trasformazione edilizia ed
urbanistica del territorio comunale; ciò
anche nel rispetto delle attribuzioni di
responsabilità sulla gestione del territorio
…”
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 24.04.2012 n. 1129 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
prescrizione -o meno- di ogni diritto
dell’amministrazione a richiedere somme
integrative a distanza di oltre vent’anni
dall’inoltro della domanda di sanatoria e
dal pagamento dell’oblazione autoliquidata.
Il Collegio ritiene fondato il ricorso in base all’assorbente
censura con la quale si deduce l’intervenuta
prescrizione di ogni diritto
dell’amministrazione a richiedere somme
integrative a distanza di oltre vent’anni
dall’inoltro della domanda di sanatoria e
dal pagamento dell’oblazione autoliquidata.
In proposito, vanno in questa sede
richiamate sinteticamente le disposizioni di
legge che disciplinano la prescrizione delle
pretese creditorie dei Comuni in tema di
sanatoria edilizia: da un lato, è stato
stabilito dall’art. 35, co. 12, della L.
47/1985 in trentasei mesi il termine di
prescrizione “breve” per richiedere
integrazioni o conguagli dell’oblazione;
mentre, dall’altra parte, soggiace
all’ordinario termine di prescrizione
decennale il diritto dell’ente pubblico a
richiedere eventuali maggiorazioni degli
oneri concessori. Si richiama, sul punto, la
seguente giurisprudenza, anche di questa
Sezione: Tar Catania, I, 1633/2007,
1987/2007, 4363/2010 e 557/2011; Tar Trentino
Alto Adige 234/2010; Tar Latina 1043/2009 e
1249/2008.
Il Collegio non ignora la più recente
giurisprudenza del giudice d’appello
(sentenza C.G.A. n. 320/2011) in base alla
quale il termine di prescrizione breve
(trentasei mesi) del diritto al conguaglio
previsto dall’art. 35, co. 12, per la
sanatoria disciplinata dalla L. 47/1985, non
inizia a decorrere prima che la
documentazione da allegare alla domanda sia
completa.
Tuttavia, non può esser sottaciuto il fatto
che nel caso di specie –a fronte di una
domanda di sanatoria presentata dalla
ricorrente nell’anno 1986– il Comune si sia
attivato per esaminare l’istanza e
richiedere integrazione dei documenti solo
in data 16.12.2009, cioè a distanza di oltre
ventitre anni. Ciò consente di affermare
che, da una parte, ogni diritto ai conguagli
richiesti sia definitivamente estinto per
l’avvenuta decorrenza del termine ordinario
di prescrizione decennale; né dall’altra
parte potrebbe predicarsi una diversa
soluzione, perché sarebbe contrario ad ogni
principio buon andamento, efficienza e
trasparenza dell’azione amministrativa
consentire in ogni tempo –anche a distanza
di molti anni- all’ente pubblico di
formulare una tardiva richiesta di
integrazione documentale, all’evidente fine
di scongiurare il decorso di una
prescrizione di fatto già ampiamente
maturata. Si ritiene, in altri termini, che
la richiesta proveniente dal Comune, avente
ad oggetto l’integrazione della
documentazione necessaria al rilascio della
sanatoria edilizia, utile al fine di
impedire il perfezionarsi della prescrizione
breve del diritto al conguaglio
dell’oblazione, non possa intervenire a
distanza di oltre vent’anni, quando già ogni
pretesa risulta comunque “coperta” dal
decorso della prescrizione ordinaria
decennale.
In conclusione, allora, possono dirsi
pacificamente decorsi sia il termine breve
di trentasei mesi che condiziona il
conguaglio dell’oblazione, sia quello
ordinario decennale che determina
l’impossibilità giuridica di ridefinire gli
oneri concessori. Le pretese del Comune
resistente vanno in conclusione dichiarate
prescritte, non rinvenendosi peraltro negli
scritti difensivi alcuna confutazione in
ordine all’eccepita prescrizione
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 24.04.2012 n. 1118 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
merito al versamento rateizzato degli oo.uu.
e del costo di costruzione, le espressioni “a dodici mesi dal rilascio
della concessione edilizia” ovvero, per la
terza rata, “a diciotto mesi”, contenute nel
titolo edilizio, vanno interpretate, ad
avviso del Collegio, come recanti un termine
iniziale decorrente dalla consegna del
documento al destinatario dello stesso.
Militano in tal senso le seguenti ragioni:
a) la valenza lessicale ed eziologica del
termine “rilascio”, che esprime
dinamicamente una azione di passaggio e di
trasmissione;
b) ovvie esigenze di certezza rinvenibili
nell’elemento oggettivo dell’attestazione,
congiunta, della data di trasmissione del
documento all’obbligato, ben potendo, per le
più svariate ragioni, l’atto de quo essere
portato nella sfera di conoscibilità del
destinatario –obbligato al pagamento- ben
oltre la data della sua adozione–sottoscrizione da parte del Dirigente
competente (cfr., in tema di decadenza della
C.E. per omesso tempestivo inizio dei
lavori, TAR Salerno, II, 05.04.2006 n. 435 e
l’orientamento giurisprudenziale ivi
richiamato, secondo il quale il relativo
termine inizia a decorrere soltanto dal
momento in cui il titolo abilitativo
edilizio viene comunicato al destinatario);
c) in ogni caso, la detta clausola di cui ai
punti 19 e 20 della C.E., ove si potesse
ritenere di dubbio significato, andrebbe,
secondo i principi desumibili dagli artt.
1369, 1370 e 1371 c.c., interpretata nel
senso suindicato, sia perché
discrezionalmente, in tale formulazione
sintetica, predisposta ed inserita
unilateralmente dall’Amministrazione e sia
perché la normativa di settore prevede già,
concretando un contemperamento delle
esigenze delle parti, un notevole ristoro
economico sotto forma di “penale”, in caso
di consistente ritardo nel pagamento dei
contributi afferenti al rilascio della
concessione edilizia.
... per l'accertamento della non debenza
delle sanzioni di € 3.340,30 e di €
22.268,61, menzionate nella nota del
Dirigente dell’UTC –Area IV- Comune di Giarre- del 18.04.2008 prot. 2591 per il
ritardato pagamento, rispettivamente della
seconda e terza rata, afferente agli oneri
di urbanizzazione e al costo di costruzione
relativi alla concessione edilizia n. 2435
del 04.08.2006, cointestata ai ricorrenti, e
per l’annullamento dei relativi
provvedimenti e degli atti presupposti tra
cui la citata nota del 18.04.2008 e quella
del 17.01.2008, prot. 7256 del medesimo
Dirigente dell’UTC - Area IV°;
...
Eccesso di potere per travisamento di fatto in ordine al dies a quo per
il computo del termine di pagamento, con
conseguente insussistenza di ritardo del
pagamento della seconda rata e di un ritardo
di soli giorni venti nel pagamento della
terza, che avrebbe comportato la minore
sanzione del doppio degli interessi legali
di cui alla lett. b) dell’art. 50 L.R.
n. 71/1978.
...
Quarta
censura –subordinatamente proposta-
Le espressioni “a dodici mesi dal rilascio
della concessione edilizia” ovvero, per la
terza rata, “a diciotto mesi”, contenute nel
titolo edilizio, vanno interpretate, ad
avviso del Collegio, come recanti un termine
iniziale decorrente dalla consegna del
documento al destinatario dello stesso.
Militano in tal senso le seguenti ragioni:
a) la valenza lessicale ed eziologica del
termine “rilascio”, che esprime
dinamicamente una azione di passaggio e di
trasmissione;
b) ovvie esigenze di certezza rinvenibili
nell’elemento oggettivo dell’attestazione,
congiunta, della data di trasmissione del
documento all’obbligato, ben potendo, per le
più svariate ragioni, l’atto de quo essere
portato nella sfera di conoscibilità del
destinatario –obbligato al pagamento- ben
oltre la data della sua adozione–sottoscrizione da parte del Dirigente
competente (cfr., in tema di decadenza della
C.E. per omesso tempestivo inizio dei
lavori, TAR Salerno, II, 05.04.2006 n. 435 e
l’orientamento giurisprudenziale ivi
richiamato, secondo il quale il relativo
termine inizia a decorrere soltanto dal
momento in cui il titolo abilitativo
edilizio viene comunicato al destinatario);
c) in ogni caso, la detta clausola di cui ai
punti 19 e 20 della C.E., ove si potesse
ritenere di dubbio significato, andrebbe,
secondo i principi desumibili dagli artt.
1369, 1370 e 1371 c.c., interpretata nel
senso suindicato, sia perché
discrezionalmente, in tale formulazione
sintetica, predisposta ed inserita
unilateralmente dall’Amministrazione e sia
perché la normativa di settore prevede già,
concretando un contemperamento delle
esigenze delle parti, un notevole ristoro
economico sotto forma di “penale”, in caso
di consistente ritardo nel pagamento dei
contributi afferenti al rilascio della
concessione edilizia.
Ne segue che la data di rilascio della
concessione nella fattispecie deve
individuarsi in quella del 24.08.2006,
quando cioè il documento è stato consegnato
al soggetto incaricato dal destinatario
dello stesso. Ciò determina la conseguenza
che il pagamento della seconda rata risulta,
in ogni caso, tempestivo, mentre per la
terza andrebbe applicata la sanzione di cui
alla lettera b) dell’art. 50 L.R. n. 71/1978
e non quella prevista dalla successiva
lettera c) del medesimo articolo 50
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 24.04.2012 n. 1115 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
potere di applicare misure repressive in
materia urbanistica ed edilizia può essere
esercitato in ogni tempo, senza necessità,
per i relativi provvedimenti, di alcuna
specifica motivazione in ordine alla
sussistenza dell'interesse pubblico a
disporre una demolizione.
Il Collegio non ignora l’esistenza di un
orientamento difforme secondo
il quale invece “il lungo lasso di tempo
trascorso dalla commissione dell'abuso”
e “il protrarsi dell'inerzia
dell'amministrazione preposta alla vigilanza”
potrebbero ingenerare un affidamento del
privato, rispetto al quale sussisterebbe un
“onere di congrua motivazione” circa
il “pubblico interesse, evidentemente
diverso da quello al ripristino della
legalità, idoneo a giustificare il
sacrificio del contrapposto interesse
privato”; ritiene però che tale
orientamento non vada condiviso.
In proposito, si impone anzitutto il rilievo
che di affidamento si può
parlare solo ove il privato, il quale abbia
correttamente e in modo compiuto reso nota
la propria posizione alla p.a., venga
indotto da un provvedimento della stessa a
ritenere la legittimità del proprio operato,
non già nel caso che rileva, in cui si
commette un abuso a tutta insaputa della
p.a. medesima.
Inoltre, come osservato dalla Sezione nella
pure citata sentenza 860/2010, l’abuso
edilizio integra un illecito permanente,
rappresentato dalla violazione dell’obbligo,
perdurante nel tempo, di ripristinare in
conformità a diritto lo stato dei luoghi; di
talché ogni provvedimento repressivo
dell’amministrazione non è emanato a
distanza di tempo da un illecito ormai
esaurito, ma interviene su una situazione
antigiuridica che perdura sino a quel
momento.
Costante giurisprudenza della Sezione, fra
le molte si cita TAR Brescia sez. I
22.02.2010 n. 860, afferma infatti che il
potere di applicare misure repressive in
materia urbanistica ed edilizia può essere
esercitato in ogni tempo, senza necessità,
per i relativi provvedimenti, di alcuna
specifica motivazione in ordine alla
sussistenza dell'interesse pubblico a
disporre una demolizione; in senso poi
conforme si sono espresse anche numerose
decisioni del C.d.S., ad esempio sez. IV,
15.09.2009, n. 5509, che si cita per tutte.
Il Collegio non ignora l’esistenza di un
orientamento difforme, espresso ad esempio
da C.d.S. sez. V 04.03.2008 n. 883, secondo
il quale invece “il lungo lasso di tempo
trascorso dalla commissione dell'abuso”
e “il protrarsi dell'inerzia
dell'amministrazione preposta alla vigilanza”
potrebbero ingenerare un affidamento del
privato, rispetto al quale sussisterebbe un
“onere di congrua motivazione” circa
il “pubblico interesse, evidentemente
diverso da quello al ripristino della
legalità, idoneo a giustificare il
sacrificio del contrapposto interesse
privato”; ritiene però che tale
orientamento non vada condiviso.
In proposito, si impone anzitutto il rilievo
fatto proprio dalla citata decisione C.d.S.
5509/2009, ovvero che di affidamento si può
parlare solo ove il privato, il quale abbia
correttamente e in modo compiuto reso nota
la propria posizione alla p.a., venga
indotto da un provvedimento della stessa a
ritenere la legittimità del proprio operato,
non già nel caso che rileva, in cui si
commette un abuso a tutta insaputa della
p.a. medesima.
Inoltre, come osservato dalla Sezione nella
pure citata sentenza 860/2010, l’abuso
edilizio integra un illecito permanente,
rappresentato dalla violazione dell’obbligo,
perdurante nel tempo, di ripristinare in
conformità a diritto lo stato dei luoghi; di
talché ogni provvedimento repressivo
dell’amministrazione non è emanato a
distanza di tempo da un illecito ormai
esaurito, ma interviene su una situazione
antigiuridica che perdura sino a quel
momento
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 24.04.2012 n. 703 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
certificato di destinazione urbanistica, di
cui ai commi 2° e seguenti dell'art. 30 del D.Lgs. 380/2001, Testo
Unico dell'Edilizia, si configura
come una certificazione redatta da un
pubblico ufficiale, avente natura ed effetti
meramente dichiarativi e non costitutivi di
posizioni giuridiche, le quali discendono
invece da altri provvedimenti, che hanno a
loro volta determinato la situazione
giuridica acclarata dal certificato stesso.
Pertanto, il certificato, in quanto privo di
efficacia provvedimentale, non ha alcuna
concreta lesività, il che rende impossibile
la sua autonoma impugnazione. Gli eventuali
errori contenuti in esso potranno essere
corretti dalla stessa Amministrazione, su
istanza del privato, oppure quest'ultimo
potrà impugnare davanti al giudice
amministrativo gli eventuali successivi
provvedimenti concretamente lesivi, adottati
in base all'erroneo certificato di
destinazione urbanistica.
---------------
Circa la domanda di risarcimento del danno
derivante dall’erronea indicazione resa nel
certificato di destinazione urbanistica,
vale ricordare quanto statuito con
l’ordinanza 23.09.2010 n. 20072 dalle SS.UU.
della Cassazione civile.
In detta ordinanza si è rilevato che “Parte
ricorrente si duole della (incontroversa)
erroneità del certificato di destinazione
urbanistica, erroneità che ne aveva indotto
una falsa rappresentazione della realtà (la
legittimità di un intervento edilizio
relativo all'intera area in questione) cui
era conseguita la decisione di acquistare il
terreno - decisione che non sarebbe mai
stata adottata se fossero stata fedelmente e
correttamente riportate, nella
certificazione de qua, le reali condizioni
del terreno quoad inaedificationis.
La controversia esula, dunque, dal campo
(impropriamente evocato dal comune
resistente) riservato alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo, non
controvertendosi, nella specie, in ordine ad
alcuna ipotesi di gestione del territorio,
che del D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 34,
riserva alla competenza esclusiva del G.A.
Diversamente da quanto opinato dal
resistente (secondo il quale il certificato
in parola era un semplice attestato
rilasciato a richiesta del privato, tale,
pertanto, da non esonerare quest'ultimo
dallo svolgimento di ulteriori attività di
verifica e controllo), il rilascio della
certificazione in parola integra gli estremi
non già dello svolgimento di una
qualsivoglia attività provvedimentale della
P.A., bensì del comportamento (sicuramente
colposo) del funzionario, riconducibile
all'ente di appartenenza, astrattamente
idoneo a risolversi in un illecito civile,
con la conseguenza che spetta al giudice
ordinario la cognizione (e l'accertamento in
concreto) della sussistenza e della
tutelabilità, sul piano risarcitorio, delle
posizioni di diritto soggettivo che si
assumono lese nella specie.”
... per l’accertamento del diritto
della ricorrente al risarcimento del danno
causato dall’emissione, da parte
dell’Amministrazione convenuta, di un
certificato di destinazione urbanistica dal
contenuto non corrispondente alla realtà,
che ha indotto la ricorrente ad acquistare
un terreno qualificato erroneamente come
edificabile e per la contestuale condanna
dell’Amministrazione al risarcimento dei
danni subiti a causa dell’illegittimo
comportamento dell’Amministrazione
convenuta, da quantificarsi in corso di
causa.
...
La Sezione ha avuto recentemente modo di
affermare (cfr. Sez. I , 21.12.2011 n. 1779)
che il certificato di destinazione
urbanistica, di cui ai commi 2° e seguenti
dell'art. 30 del D.Lgs. 380/2001, Testo
Unico dell'Edilizia, si configura -secondo
l'indirizzo giurisprudenziale prevalente-
come una certificazione redatta da un
pubblico ufficiale, avente natura ed effetti
meramente dichiarativi e non costitutivi di
posizioni giuridiche, le quali discendono
invece da altri provvedimenti, che hanno a
loro volta determinato la situazione
giuridica acclarata dal certificato stesso.
Pertanto, il certificato, in quanto privo di
efficacia provvedimentale, non ha alcuna
concreta lesività, il che rende impossibile
la sua autonoma impugnazione. Gli eventuali
errori contenuti in esso potranno essere
corretti dalla stessa Amministrazione, su
istanza del privato, oppure quest'ultimo
potrà impugnare davanti al giudice
amministrativo gli eventuali successivi
provvedimenti concretamente lesivi, adottati
in base all'erroneo certificato di
destinazione urbanistica.
Nel caso all’esame, si domanda il
risarcimento del danno derivante
dall’erronea indicazione resa nel
certificato sicché la fattispecie è del
tutto identica a quella sulla quale si sono
pronunciate, con l’ordinanza 23.09.2010 n.
20072, le SS.UU. della Cassazione civile.
In detta ordinanza si è rilevato che “Parte
ricorrente si duole della (incontroversa)
erroneità del certificato di destinazione
urbanistica, erroneità che ne aveva indotto
una falsa rappresentazione della realtà (la
legittimità di un intervento edilizio
relativo all'intera area in questione) cui
era conseguita la decisione di acquistare il
terreno - decisione che non sarebbe mai
stata adottata se fossero stata fedelmente e
correttamente riportate, nella
certificazione de qua, le reali condizioni
del terreno quoad inaedificationis.
La controversia esula, dunque, dal campo
(impropriamente evocato dal comune
resistente) riservato alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo, non
controvertendosi, nella specie, in ordine ad
alcuna ipotesi di gestione del territorio,
che del D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 34,
riserva alla competenza esclusiva del G.A.
Diversamente da quanto opinato dal
resistente (secondo il quale il certificato
in parola era un semplice attestato
rilasciato a richiesta del privato, tale,
pertanto, da non esonerare quest'ultimo
dallo svolgimento di ulteriori attività di
verifica e controllo), il rilascio della
certificazione in parola integra gli estremi
non già dello svolgimento di una
qualsivoglia attività provvedimentale della
P.A., bensì del comportamento (sicuramente
colposo) del funzionario, riconducibile
all'ente di appartenenza, astrattamente
idoneo a risolversi in un illecito civile,
con la conseguenza che spetta al giudice
ordinario la cognizione (e l'accertamento in
concreto) della sussistenza e della
tutelabilità, sul piano risarcitorio, delle
posizioni di diritto soggettivo che si
assumono lese nella specie.”
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 24.04.2012 n. 687 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
35 T.U. 380/2001 consente di irrogare la
sanzione demolitoria “solo in presenza… di
opere abusive che avrebbero richiesto
permesso di costruire -nonché per opere
eseguite in totale difformità o con
variazioni essenziali rispetto a tale
permesso”, non già per opere minori, alle
quali è applicabile la semplice sanzione
pecuniaria.
... per l’annullamento, previa sospensione,
dell’ordinanza 02.03.2006 n. 14, prot. n.
2439, notificata il 02.03.2006, con la quale
il Responsabile del servizio urbanistica e
sportello unico edilizia del Comune di
Roverbella ha ingiunto al ricorrente la
demolizione dei lavori abusivamente
realizzati presso l’immobile sito in
Castiglione Mantovano, via Machiavelli,
identificato catastalmente al foglio 32
mappale ..., asseritamente consistenti nella
realizzazione di porzione di recinzione
realizzata senza titolo su area pubblica di
proprietà comunale;
...
In termini invero non chiarissimi,
l’ordinanza impugnata richiama a proprio
fondamento in motivazione anzitutto l’art.
35 del T.U. 380/2001, che prevede il potere
generale di ordinare la demolizione di
“interventi in assenza di permesso di
costruire, ovvero in totale o parziale
difformità dal medesimo, su suoli del
demanio o del patrimonio dello Stato o di
enti pubblici”, che costituisce all’evidenza
norma speciale rispetto al generale potere
di autotutela amministrativa conferito alle
pubbliche amministrazioni ai sensi dell’art.
823 c.c.. La norma, peraltro, appare
all’evidenza non pertinente alla
fattispecie, in cui si ragiona, come detto,
di opera che insiste su terreno di privati,
il che esclude la possibilità che
l’amministrazione solo perché tale vi
intervenga: in tal senso, con riguardo a
fattispecie regolata dall’art. 823 c.c., TAR
Campania Napoli sez. VII 04.12.2008
n. 20998.
Per completezza, va comunque ricordato
che secondo la giurisprudenza l’art. 35 T.U.
380/2001 consente di irrogare la sanzione demolitoria –nella specie come si è detto
scelta dal Comune- “solo in presenza… di
opere abusive che avrebbero richiesto
permesso di costruire -nonché per opere
eseguite in totale difformità o con
variazioni essenziali rispetto a tale
permesso”, non già per opere minori, alle
quali è applicabile la semplice sanzione
pecuniaria: così in motivazione TAR Lazio-Roma sez. I 05.10.2005 n. 7851, proprio
con riguardo al caso di una cancellata di
recinzione insistente sul suolo pubblico.
Sempre l’ordinanza in motivazione
richiama a proprio sostegno l’art. 27 T.U.
380/2001, ritenendo comunque integrata la
fattispecie prevista dal comma 2 di tale
norma, che consente all’autorità comunale di
far demolire, fra l’altro, opere “eseguite
senza titolo su aree destinate ad opere e
spazi pubblici”, in quanto sarebbe
interessata un’area a standard, in zona
classificata come “zona F – attrezzature di
interesse pubblico”, ancorché non soggetta
ad alcun vincolo specifico (doc. 1
ricorrente, cit., p. 1 terzo capoverso; p. 2
settimo capoverso).
Il Comune, nella più volte citata
relazione 22.05.2006 e nel certificato
ad essa allegato sub-1 ha poi precisato in
che sarebbe consistita tale destinazione ad
uso pubblico, chiarendo che il mappale 453
nella variante generale al PRG approvata il
20.09.1996 era classificato in zona C
di espansione con obbligo di piano
esecutivo; era stato poi riclassificato come
“servizi ad uso pubblico – verde di
quartiere” nella successiva variante
generale approvata il 24.11.2005.
Ciò posto, la citata norma dell’art. 27
T.U. 380/2001 risulta inapplicabile alla
fattispecie concreta. In primo luogo, come
appena spiegato, nel 1998, data non
contestata di realizzazione dell’abuso come
detto in narrativa, il mappale 453 ad esso
interessato non risulta aver rivestito il
carattere di area “destinata ad opere e
spazi pubblici”. In secondo luogo,
quand’anche ciò si volesse per ipotesi
ammettere, la giurisprudenza esclude,
analogamente a quanto detto a proposito
dell’art. 35, che nel caso di opere come
quella per cui è causa la sanzione demolitoria sia comunque applicabile: in tal
senso C.d.S. sez. V 30.04.2009 n. 2768,
in un caso analogo, in cui il privato
proprietario aveva recintato abusivamente
un’area a standard. E’ implicito ovviamente
che il Comune ha comunque la possibilità di
far cessare l’abuso espropriando l’area, o
ottenendone la cessione eventualmente
prevista, e tutelandosi come proprietario.
Solo per completezza, si precisa infine
che l’ordinanza di demolizione per cui è
causa nemmeno potrebbe legittimarsi in base
alle norme generali, art. 31 T.U. 380/2001,
che disciplinano la repressione per tale via
degli abusi edilizi, dato che le stesse non
si applicano ad opere come le recinzioni,
soggette a d.i.a. e, in caso di abuso, alla
sola sanzione pecuniaria di cui all’art. 37
del medesimo T.U., come del resto riconosce
anche il Comune nell’ultima pagina della
relazione 22.05.2006
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 24.04.2012 n. 683 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Opere, il progettista non coordina i lavori.
Il progettista di un'opera non può essere
affidatario dell'incarico di coordinatore
dei lavori.
È quanto affermato dal Consiglio
di Stato che, con la
sentenza
23.04.2012 n. 2402 della IV Sez., si è
pronunciato sulla gara di Autovie venete per
l'affidamento del servizio di coordinatore
per l'esecuzione dei lavori di un tratto
della terza corsia dell'A4, aggiudicata con
il 52% di ribasso, per un totale di circa 2
milioni di euro.
Il raggruppamento aggiudicatario della
commessa contava fra i propri partecipanti
anche alcune società che avevano partecipato
alla redazione di parti del progetto
preliminare e definitivo. Gli articoli 5 e
12 del disciplinare di gara precludevano,
richiamando l'articolo 90, comma 8, del
Codice dei contratti pubblici, la
partecipazione a tutti coloro che avessero
concorso alla redazione del progetto
preliminare e/o definitivo dell'opera,
ancorché non vi fosse una norma specifica
nel Codice (che contempla espressamente
soltanto l'incompatibilità fra progettista e
appaltatore o concessionario).
In primo grado il Tar del Lazio (sentenza n.
3707/2011) aveva accolto il ricorso del
secondo classificato. Il Consiglio di stato
ha confermato la pronuncia affermando che la
disciplina contenuta nell'art. 90, comma 8,
del Codice dei contratti «va reputata quale
espressione di un principio generale in
forza del quale ai concorrenti deve essere
riconosciuta un'omogenea posizione,
implicante la più rigorosa parità di
trattamento». In particolare occorre,
valutare «se lo svolgimento di pregressi
affidamenti presso la stessa stazione
appaltante possa aver creato, per taluno dei
concorrenti stessi, degli speciali vantaggi
incompatibili con i principi, propri non
soltanto dell'ordinamento italiano, ma anche
di quello comunitario, di libera concorrenza
e di parità di trattamento». Per i giudici,
quindi, non rileva l'assenza di una espressa
copertura normativa perché la verifica sulla
posizione di vantaggio è comunque funzionale
al rispetto dei principi comunitari in
materia di libera prestazione di servizi,
non discriminazione e trasparenza.
Nel caso di specie, si legge nella sentenza,
da un lato il progetto, «ancorché
formalmente intestato ad Autovie Venete,
risulta elaborato per una parte consistente
dalle società aggiudicatarie del contratto»
e, dall'altro, «i giudizi dei commissari
di gara dimostrano che la positiva
valutazione delle offerte tecniche poggia
proprio sull'approfondita conoscenza degli
elaborati progettuali». Da ciò la
dimostrazione del vantaggio competitivo e
quindi la conferma della sentenza di primo
grado (articolo ItaliaOggi
del 28.04.2012). |
APPALTI: L’esclusione
dalla gara di una determinata offerta, a
causa della sua stessa gravità, non può
essere disposta se non in presenza di
un’apposita ed univoca clausola, non potendo
invece dipendere genericamente da una
qualsiasi prescrizione della lex specialis.
La circostanza che un concorrente in una
gara di appalto abbia seguito le indicazioni
della stazione appaltante nel predisporre la
modulistica ai fini della partecipazione
alla procedura non può ridondare in suo
danno, dovendo in tal caso la stazione
invitare il concorrente stesso
all'integrazione della documentazione
carente.
A fronte dell'incertezza interpretativa di
una clausola della lex specialis di gara,
giammai la stazione appaltante può sic et
simpliciter disporre l'esclusione per la
mancata o incompleta presentazione della
richiamata documentazione, dovendo piuttosto
esercitare i poteri di richiesta di
integrazione e chiarimenti che non
determinano alcuna violazione del principio
della par condicio dei concorrenti nella sua
effettiva e reale portata sostanziale, dal
momento che operano in relazione a
situazioni di mera e non imputabile
irregolarità a carattere puramente formale,
connesse all'imprecisa formulazione della
lex specialis.
Con specifico riferimento alla omessa
dichiarazione delle situazioni di
collegamento societario ai sensi dell'art.
2359 c.c., da parte di un'impresa
partecipante alla gara per l'affidamento di
un appalto di lavori pubblici, la
Giurisprudenza ha pure ritenuto illegittima,
per violazione dell'art. 28 direttiva 93/37/Cee,
che introduce un vero e proprio obbligo, per
la stazione appaltante, di invitare
l'imprenditore a completare i certificati e
i documenti presentati o a chiarirli,
l'esclusione di un'impresa da una gara per
l'aggiudicazione di lavori, motivata con
riferimento alla omessa dichiarazione di
eventuali situazioni di controllo ex art.
2359 c.c..
---------------
In tema di affidamento di un appalto
pubblico, non va esclusa dalla gara
l'impresa il cui legale rappresentante non
abbia presentato, in uno all'offerta
economica, copia del documento di identità,
qualora il disciplinare di gara abbia
operato una chiara diversificazione tra le
due sottoscrizioni -quella relativa alla
domanda di partecipazione e quella relativa
all'offerta economica-, imponendo la
produzione della copia del documento di
identità del sottoscrittore solo per la
domanda di partecipazione, senza richiederla
anche per l'offerta economica.
Il Collegio ritiene la censura infondata, in quanto l’omessa
dichiarazione di cui all’art. 2359 c.c. non
avrebbe potuto essere sanzionata con
l’esclusione dalla gara in carenza di
espressa previsione contenuta nel bando di
gara, costituente la lex specialis della
gara, alla quale correttamente i concorrenti
si sono attenuti; sicché, legittimamente
l’Amm.ne ha ammesso a regolarizzazione.
Fin di recente la Giurisprudenza ha ribadito
che l’esclusione dalla gara di una
determinata offerta, a causa della sua
stessa gravità, non può essere disposta se
non in presenza di un’apposita ed univoca
clausola, non potendo invece dipendere
genericamente da una qualsiasi prescrizione
della lex specialis (Consiglio di Stato -
Sezione V - Sentenza 28.02.2012 n.
1150).
Inoltre, la Giurisprudenza ha, in materia,
espresso principi che il Collegio condivide,
e, in particolare, ha affermato che:
- la circostanza che un concorrente in una
gara di appalto abbia seguito le indicazioni
della stazione appaltante nel predisporre la
modulistica ai fini della partecipazione
alla procedura non può ridondare in suo
danno, dovendo in tal caso la stazione
invitare il concorrente stesso
all'integrazione della documentazione
carente (TAR Toscana Firenze, sez. I, 21.06.2010 , n. 2006);
- a fronte dell'incertezza interpretativa di
una clausola della lex specialis di gara,
giammai la stazione appaltante può sic et
simpliciter disporre l'esclusione per la
mancata o incompleta presentazione della
richiamata documentazione, dovendo piuttosto
esercitare i poteri di richiesta di
integrazione e chiarimenti che non
determinano alcuna violazione del principio
della par condicio dei concorrenti nella sua
effettiva e reale portata sostanziale, dal
momento che operano in relazione a
situazioni di mera e non imputabile
irregolarità a carattere puramente formale,
connesse all'imprecisa formulazione della lex specialis (TAR Lazio Roma, sez. II,
02.12.2010, n. 35031) ;
- con specifico riferimento alla omessa
dichiarazione delle situazioni di
collegamento societario ai sensi dell'art.
2359 c.c., da parte di un'impresa
partecipante alla gara per l'affidamento di
un appalto di lavori pubblici, la
Giurisprudenza ha pure ritenuto illegittima,
per violazione dell'art. 28 direttiva 93/37/Cee,
che introduce un vero e proprio obbligo, per
la stazione appaltante, di invitare
l'imprenditore a completare i certificati e
i documenti presentati o a chiarirli,
l'esclusione di un'impresa da una gara per
l'aggiudicazione di lavori, motivata con
riferimento alla omessa dichiarazione di
eventuali situazioni di controllo ex art.
2359 c.c. (TAR Veneto Venezia, sez. I, 12.11.2003, n. 5678).
Pertanto, correttamente l’Amm.ne, a fronte
di una carenza nel bando, ha fatto uso del
c.d. soccorso istruttorio, di cui all'art.
146, d.lgs. n. 163 del 2006 e art. 6, l. n.
241 del 1990, il quale consente di
richiedere all'impresa partecipante di
procedere alla regolarizzazione della
documentazione già presentata, in quanto, in
assenza di previsioni univoche della lex
specialis, i concorrenti non potevano essere
tenuti alla presentazione di ulteriori
documenti oltre quelli chiesti nel bando.
Peraltro, l’integrazione in questione non ha
comportato alcuna lesione del principio di
"par condicio", non potendosi alle
concorrenti, nel caso in questione,
contestare l’elusione di prescrizioni
tassative, imposte a tutti i concorrenti a
pena di esclusione.
---------------
La
Giurisprudenza ha avuto occasione di
affermare che in tema di affidamento di un
appalto pubblico, non va esclusa dalla gara
l'impresa il cui legale rappresentante non
abbia presentato, in uno all'offerta
economica, copia del documento di identità,
qualora il disciplinare di gara abbia
operato una chiara diversificazione tra le
due sottoscrizioni -quella relativa alla
domanda di partecipazione e quella relativa
all'offerta economica-, imponendo la
produzione della copia del documento di
identità del sottoscrittore solo per la
domanda di partecipazione, senza richiederla
anche per l'offerta economica (TAR
Sicilia Palermo, sez. III, 10.03.2010, n.
2648) (TAR Sicilia-Catania, Sez. III,
sentenza 23.04.2012 n. 1089 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
RUP deve avvalersi, nello svolgimento dei
propri compiti, del supporto dei dipendenti
delle amministrazioni aggiudicatrici.
In caso di inadeguatezza dell’organico, per
le attività di supporto si può ricorrere,
ai sensi del comma 7 dell’art. 10 del D.lvo
n. 163/2006, a soggetti aventi le specifiche
competenze di carattere tecnico, economico,
finanziario, amministrativo, organizzativo e
legale, che abbiano stipulato adeguata
polizza assicurativa a copertura dei rischi
professionali .
Al riguardo, per “attività di supporto”
devono intendersi un insieme di prestazioni
tecniche ed amministrative relative al
corretto svolgimento delle funzioni del
medesimo R.U.P., quali analiticamente
elencate all’art. 10 del D.Lgs. n. 163/2006
e agli artt. 7 e 8 del regolamento di
esecuzione ed attuazione, e quindi tutte
quelle attività strumentali –mediante
l’esercizio di specifiche competenze
(tecniche, economico-finanziarie,
amministrative, organizzative e legali)- che
costituiscano il presupposto per il corretto
esercizio dei compiti funzionalmente
attribuiti al RUP (quali supervisione,
coordinamento e verifica alla progettazione,
supervisione alla direzione dei lavori,
supervisione alla sicurezza, funzioni
amministrative, validazione progetto).
La legge
109/1994, al comma 1 dell’art. 7, disponeva
che i soggetti di cui all’art. 2, comma 2,
lett. a), della medesima legge, nominassero –ai sensi della legge 241/1990– un
Responsabile Unico del Procedimento (di
seguito RUP o Responsabile del Procedimento)
di attuazione di ogni singolo intervento
previsto dal programma triennale dei lavori
pubblici, per le fasi della progettazione,
dell’affidamento e dell’esecuzione.
La previsione è stata riformulata dal
vigente Codice dei Contratti Pubblici di
Lavori, Servizi e Forniture di cui al D.Lgs.
12.04.2006, n. 163 .
In particolare, l’art. 10 del Codice 163/2006
conferma che, per ogni singolo intervento da
realizzarsi mediante un contratto pubblico,
le Amministrazioni aggiudicatrici devono
nominare, ai sensi della legge 241/1990, un
responsabile del procedimento unico per le
fasi della progettazione, dell’affidamento e
dell’esecuzione.
Ai sensi del comma 1, lett. a), dell’art. 90
del D.Lgs n. 163/2006, il RUP deve avvalersi,
nello svolgimento dei propri compiti, del
supporto dei dipendenti delle
amministrazioni aggiudicatrici.
In caso di inadeguatezza dell’organico, per
le attività di supporto si può ricorrere,
ai sensi del comma 7 dell’art. 10 del D.lvo
n. 163/2006, a soggetti aventi le specifiche
competenze di carattere tecnico, economico,
finanziario, amministrativo, organizzativo e
legale, che abbiano stipulato adeguata
polizza assicurativa a copertura dei rischi
professionali .
Al riguardo, per “attività di supporto”
devono intendersi un insieme di prestazioni
tecniche ed amministrative relative al
corretto svolgimento delle funzioni del
medesimo R.U.P., quali analiticamente
elencate all’art. 10 del D.Lgs. n. 163/2006
e agli artt. 7 e 8 del regolamento di
esecuzione ed attuazione, e quindi tutte
quelle attività strumentali –mediante
l’esercizio di specifiche competenze
(tecniche, economico-finanziarie,
amministrative, organizzative e legali)- che
costituiscano il presupposto per il corretto
esercizio dei compiti funzionalmente
attribuiti al RUP (quali supervisione,
coordinamento e verifica alla progettazione,
supervisione alla direzione dei lavori,
supervisione alla sicurezza, funzioni
amministrative, validazione progetto).
Ciò premesso, ad avviso del Collegio, al
fine di accertare se un incarico conferito
ad un professionista attenga ad un’unica
prestazione (nel caso in esame, relazione
geologica) ovvero ad “attività di supporto”
del Rup, occorre aver riguardo alla
consistenza dell’incarico conferito, ed in
particolare alla presenza, o meno, di una
molteplicità di attività, indicative delle
funzioni di supporto, consistenti in una
prestazione di assistenza e collaborazione
con il Rup.
La legge, come visto, prevede che, nelle
ipotesi dalla stessa contemplate, il
responsabile del procedimento possa
avvalersi di un supporto tecnico per lo
svolgimento delle attività che allo stesso
competono. Poiché si fa ricorso a
professionalità esterne per sopperire a
carenze di organico o per acquisire
specializzazioni particolari di cui
l'amministrazione non è dotata, l'incarico
afferisce all'espletamento di compiti tipici
dell'ufficio in questione, sicché può
ritenersi connaturato all’incarico, tra
l’altro, l’obbligo per il professionista
prescelto di assicurare una certa presenza
in ufficio e quindi di recarsi presso la
sede dell’Ente per lo svolgimento, in tutto
o in parte, delle attività in questione.
Le ragioni del contendere contenute negli
atti difensivi delle parti impongono di
verificare se l'attività di cui si
controverte sia effettivamente una complessa
consulenza di supporto all'operato del Rup o
sia, invece, semplicemente, la Relazione
Geologica.
Nel caso specifico, il Collegio non ritiene
che dall’esame della documentazione prodotta
-in particolare il disciplinare relativo
all’unico incarico che risulta essere stato
conferito al dr. D’Urso- possano ricavarsi
elementi caratteristici di quella
complessità e molteplicità di funzioni
indicative di un’attività di supporto, in
quanto la raccolta di dati, gli
accertamenti, compilazioni, valutazioni e la
sintesi finale delle indagini effettuate
nella Relazione Geologica costituiscono (ed
esauriscono) l'intero contenuto della
prestazione commissionata al geologo.
In primo luogo, il dato testuale, ricavabile
dall’esame sia dell’avviso del 19.10.2006
che del disciplinare dell’incarico conferito
al dr. D’Urso, indica una prestazione
professionale limitata allo studio geologico
tecnico, senza che dal contesto dei vari
articoli del disciplinare si evincano
elementi che inducano a dubitare circa il
complessivo contenuto dell’incarico
affidato; anche l’avviso relativo al
pagamento della fattura n. 3/2008
dell’importo di euro 7.588,80 indica una
somma contenuta nei limiti dell’impegno di
spesa di cui alla determina dirigenziale n.
131/2006, pari ad euro 7.688,00 per il
conferimento dell’incarico per la relazione
geologica (e senza che, al riguardo,
rilevino le fatture prodotte dallo stesso
dr. D’Urso il 29.02.2012, relative
all’incarico conferito a seguito della gara
oggetto di ricorso).
Del resto, anche la determina di incarico fa
riferimento all’unica prestazione in
questione (studio geologico tecnico).
Conseguentemente, in carenza di elementi dai
quali possa desumersi che il dr. D’Urso
avesse in precedenza espletato un incarico
di supporto per il Rup, la censura risulta
infondata
(TAR Sicilia-Catania, Sez. III,
sentenza 23.04.2012 n. 1089 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: In
base ai principi generali, la mancata
notifica al proprietario del decreto di
esproprio non costituisce motivo di carenza
del potere espropriativo che legittimi il
proprietario stesso ad invocare l'illiceità
dell'occupazione del fondo, ma comporta
soltanto che quest'ultimo non sia soggetto
al termine di decadenza per l'opposizione
alla stima (impedendone il decorso).
Infatti, l'effetto traslativo della
proprietà alla mano pubblica si verifica
alla data della pronuncia del decreto
anzidetto, indipendentemente dalla sua
successiva notificazione. Il decreto
medesimo ha natura di atto non recettizio,
per cui la sua comunicazione non è né
elemento integrativo, né requisito di
validità, né condizione di efficacia, avendo
solo la funzione di far appunto decorrere il
termine di opposizione alla stima.
Condivisibile giurisprudenza, dalla quale il Collegio non ravvisa motivo
di discostarsi, ha affermato, in fattispecie
analoga, che «...In base ai principi
generali, la mancata notifica al
proprietario del decreto di esproprio non
costituisce motivo di carenza del potere
espropriativo che legittimi il proprietario
stesso ad invocare l'illiceità
dell'occupazione del fondo, ma comporta
soltanto che quest'ultimo non sia soggetto
al termine di decadenza per l'opposizione
alla stima (impedendone il decorso).
Infatti, l'effetto traslativo della
proprietà alla mano pubblica si verifica
alla data della pronuncia del decreto
anzidetto, indipendentemente dalla sua
successiva notificazione. Il decreto
medesimo ha natura di atto non recettizio,
per cui la sua comunicazione non è né
elemento integrativo, né requisito di
validità, né condizione di efficacia, avendo
solo la funzione di far appunto decorrere il
termine di opposizione alla stima (cfr.
Cassazione civile, sez. I, 15.11.2004,
n. 21622)…» (Cons. Stato, Sez. IV, 14.02.2012, n. 702; analogamente,
ex plurimis, CGARS, 04.11.2005, n.
730)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza
23.04.2012 n.
1076 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: In
merito alla fattispecie secondo cui il
comune si è immesso nel possesso degli
immobili di proprietà dei ricorrenti
trasformandoli in maniera irreversibile
mediante la realizzazione di una strada, e
ciò senza il supporto di legittima procedura
espropriativa.
Fino a non molto tempo fa, la giurisprudenza
riconduceva situazioni analoghe a quella
oggetto del presente giudizio all'istituto
della c.d. occupazione “appropriativa” o
“acquisitiva”, che determinava
l'acquisizione della proprietà del fondo a
favore della Pubblica Amministrazione per
“accessione invertita”, allorché si fosse
verificata l'irreversibile trasformazione
dell'area; come noto, tale istituto, di
origine pretoria, è sorto con la sentenza
della Corte di Cassazione del 26.02.1983, n.
1464.
Tale istituto, pur essendo stato ampiamente
utilizzato per quasi un ventennio, è stato
criticato; in particolare, in seguito alle
pronunce della Corte Europea dei Diritti
dell'Uomo a partire dall'anno 2000, si è
consolidato un orientamento
giurisprudenziale secondo cui, in mancanza
di un atto adottato nelle forme di legge,
non si verifica l'acquisizione dell'area da
parte della pubblica amministrazione; tanto
che oggi si ritiene che l’attuale contesto
ordinamentale «…non prevede più l’istituto
dell’occupazione appropriativa...».
Pertanto, l'irreversibile trasformazione del
fondo, per la giurisprudenza prevalente, non
produce più l'effetto di trasferire la
proprietà.
In particolare, questa Sezione ha, con
alcune pronunce, accolto l’orientamento
secondo cui il privato potesse chiedere il
risarcimento per equivalente, in alternativa
alla restituzione del bene, «…in presenza di
una evidente volontà dell'amministrazione di
acquisire l'area, concretizzatasi in atti
concludenti quali l'avvio alla procedura
espropriativa, l'occupazione del suolo alla
realizzazione dell'opera pubblica, nonché in
presenza di altrettante inequivoca volontà
dei privati di non volere la restituzione
dell'area ma l'equivalente in denaro…».
Tale orientamento è stato recentemente
sottoposto a revisione critica, nel solco di
un orientamento del Consiglio di Stato, che
ha da ultimo condivisibilmente affermato che
«…La realizzazione dell'opera pubblica sul
fondo illegittimamente occupato è in sé un
mero fatto, non in grado di assurgere a
titolo dell'acquisto, come tale inidoneo a
determinare il trasferimento della
proprietà, per cui solo il formale atto di
acquisizione dell'amministrazione può essere
in grado di limitare il diritto alla
restituzione, non potendo rinvenirsi atti
estintivi (rinunziativi o abdicativi, che
dir si voglia) della proprietà in altri
comportamenti, fatti o contegni. Ne discende
che, tranne che l’amministrazione intenda
comunque acquisire il bene seguendo i
sistemi che di seguito saranno evidenziati,
è suo obbligo primario procedere alla
restituzione della proprietà
illegittimamente detenuta (…)
l’amministrazione può legittimamente
apprendere il bene facendo uso unicamente
dei due strumenti tipici, ossia il
contratto, tramite l’acquisizione del
consenso della controparte, o il
provvedimento, e quindi anche in assenza di
consenso ma tramite la riedizione del
procedimento espropriativo con le sue
garanzie…», e che «…Nonostante
l'irreversibile modificazione delle aree
illecitamente occupate, la proprietà delle
stesse rimane, quindi, in capo agli
originari titolari e non può esservi luogo
per risarcimenti connessi alla "perdita"
della proprietà, trattandosi di evento non
realizzatosi e non realizzabile…».
---------------
Nel caso di specie, i ricorrenti hanno
chiesto, «…Attesa la irreversibilità della
ablazione e la destinazione d’uso che è
stata data al suolo in oggetto…», la
corresponsione del valore venale
dell’immobile e di una somma per
l’occupazione del bene, a titolo di
risarcimento dei danni per equivalente.
Al di là della formulazione letterale, è
inequivoca la volontà dei ricorrenti di
trovare tutela del loro diritto di
proprietà, che questo Collegio, condividendo
l’orientamento giurisprudenziale di cui si è
dato conto nella presente motivazione,
ritiene non essere stato trasferito nel
patrimonio giuridico di altri dalla azione
dell’Amministrazione, cui pertanto incombe
l’obbligo di cessare il comportamento contra
legem.
A tali fini, si rende quindi necessaria
un’ulteriore attività della Amministrazione
che dovrà esplicarsi, sussistendone i
presupposti, nell’utilizzo dello strumento
di cui all’art. 42-bis del DPR 08.06.2011,
n. 327, o nella conclusione di un accordo
fra le parti teso al trasferimento della
proprietà, essendo comunque obbligo
dell’Amministrazione porre fine
all'occupazione senza titolo.
Conseguentemente, perché possa essere
soddisfatto l’interesse primario della parte
lesa, volto alla tutela del proprio diritto
di proprietà, sempre salva la possibilità
per le parti di concludere un accordo teso
al trasferimento della proprietà, deve
imporsi all’Amministrazione di rinnovare,
nel termine di giorni novanta dalla
notificazione, a cura di parte, della
presente sentenza (ovvero, se anteriore,
dalla sua comunicazione in via
amministrativa), la valutazione di attualità
e prevalenza dell’interesse pubblico
all’eventuale acquisizione del fondo per cui
è causa, adottando, all’esito, un
provvedimento con cui lo stesso sia,
alternativamente:
A) acquisito non retroattivamente al
patrimonio indisponibile comunale,
liquidando il risarcimento anche in
relazione ai danni per il periodo di
illegittima occupazione del bene;
B) restituito in tutto od in parte ai
legittimi proprietari, previo ripristino
dello stato di fatto, esistente al momento
dell’apprensione,
tanto nel termine di giorni novanta, di cui
sopra.
Nel caso in cui l’Amministrazione ritenga di
dover restituire il terreno, dovrà comunque
emettere un provvedimento per il
risarcimento del danno derivante dalla
illegittima occupazione del fondo.
... risulta provato che il Comune di
Vittoria si è immesso nel possesso degli
immobili di proprietà dei ricorrenti di cui
si tratta trasformandoli in maniera
irreversibile mediante la realizzazione di
una strada, e ciò senza il supporto di
legittima procedura espropriativa, secondo
quanto descritto in fatto.
Fino a non molto tempo fa, la giurisprudenza
riconduceva situazioni analoghe a quella
oggetto del presente giudizio all'istituto
della c.d. occupazione “appropriativa” o
“acquisitiva”, che determinava
l'acquisizione della proprietà del fondo a
favore della Pubblica Amministrazione per
“accessione invertita”, allorché si fosse
verificata l'irreversibile trasformazione
dell'area; come noto, tale istituto, di
origine pretoria, è sorto con la sentenza
della Corte di Cassazione del 26.02.1983, n. 1464.
Tale istituto, pur essendo stato ampiamente
utilizzato per quasi un ventennio, è stato
criticato (si vedano in proposito TAR
Campania–Napoli, Sez. V, 29.04.2009,
n. 2212 e TAR Puglia–Bari, Sez. III, 22.09.2008, n. 2176); in particolare, in
seguito alle pronunce della Corte Europea
dei Diritti dell'Uomo a partire dall'anno
2000, si è consolidato un orientamento
giurisprudenziale secondo cui, in mancanza
di un atto adottato nelle forme di legge,
non si verifica l'acquisizione dell'area da
parte della pubblica amministrazione; tanto
che oggi si ritiene che l’attuale contesto ordinamentale «…non prevede più l’istituto
dell’occupazione appropriativa...» (CGARS,
18.02.2009, nn. 49, 51 e 52).
Pertanto, l'irreversibile trasformazione del
fondo, per la giurisprudenza prevalente, non
produce più l'effetto di trasferire la
proprietà (ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV,
16.03.2012, n. 1514).
In particolare, questa Sezione ha, con
alcune pronunce, accolto l’orientamento
secondo cui il privato potesse chiedere il
risarcimento per equivalente, in alternativa
alla restituzione del bene, «…in presenza di
una evidente volontà dell'amministrazione di
acquisire l'area, concretizzatasi in atti
concludenti quali l'avvio alla procedura
espropriativa, l'occupazione del suolo alla
realizzazione dell'opera pubblica, nonché in
presenza di altrettante inequivoca volontà
dei privati di non volere la restituzione
dell'area ma l'equivalente in denaro…» (ex plurimis,
02.02.2011, n. 231).
Tale orientamento è stato recentemente
sottoposto a revisione critica (TAR Sicilia–Catania, Sez. II, sentenza
07.12.2011, n. 2911), nel solco di un orientamento
del Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. IV,
sentenze 28.01.2011, n. 676, 29.08.2011, n. 4834,
02.09.2011, n. 4970, 16.03.2012, n. 1514), che ha da ultimo condivisibilmente affermato che «…La
realizzazione dell'opera pubblica sul fondo
illegittimamente occupato è in sé un mero
fatto, non in grado di assurgere a titolo
dell'acquisto, come tale inidoneo a
determinare il trasferimento della
proprietà, per cui solo il formale atto di
acquisizione dell'amministrazione può essere
in grado di limitare il diritto alla
restituzione, non potendo rinvenirsi atti
estintivi (rinunziativi o abdicativi, che
dir si voglia) della proprietà in altri
comportamenti, fatti o contegni. Ne discende
che, tranne che l’amministrazione intenda
comunque acquisire il bene seguendo i
sistemi che di seguito saranno evidenziati,
è suo obbligo primario procedere alla
restituzione della proprietà
illegittimamente detenuta (…)
l’amministrazione può legittimamente
apprendere il bene facendo uso unicamente
dei due strumenti tipici, ossia il
contratto, tramite l’acquisizione del
consenso della controparte, o il
provvedimento, e quindi anche in assenza di
consenso ma tramite la riedizione del
procedimento espropriativo con le sue
garanzie…» (sentenza 4970/2011), e che
«…Nonostante l'irreversibile modificazione
delle aree illecitamente occupate, la
proprietà delle stesse rimane, quindi, in
capo agli originari titolari e non può
esservi luogo per risarcimenti connessi alla
"perdita" della proprietà, trattandosi di
evento non realizzatosi e non realizzabile…»
(sentenza 1514/2012).
Nel caso di specie, i ricorrenti hanno
chiesto, «…Attesa la irreversibilità della
ablazione e la destinazione d’uso che è
stata data al suolo in oggetto…» (ricorso,
pag. 3), la corresponsione del valore venale
dell’immobile e di una somma per
l’occupazione del bene, a titolo di
risarcimento dei danni per equivalente.
Al di là della formulazione letterale, è
inequivoca la volontà dei ricorrenti di
trovare tutela del loro diritto di
proprietà, che questo Collegio, condividendo
l’orientamento giurisprudenziale di cui si è
dato conto nella presente motivazione,
ritiene non essere stato trasferito nel
patrimonio giuridico di altri dalla azione
dell’Amministrazione, cui pertanto incombe
l’obbligo di cessare il comportamento contra legem.
A tali fini, si rende quindi necessaria
un’ulteriore attività della Amministrazione
che dovrà esplicarsi, sussistendone i
presupposti, nell’utilizzo dello strumento
di cui all’art. 42-bis del DPR 08.06.2011, n. 327 (TAR Campania–Salerno, Sez. II,
07.11.2011, n. 1763; Cons. Stato,
Sez. IV, 16.03.2012, n. 1514), o nella
conclusione di un accordo fra le parti teso
al trasferimento della proprietà, essendo
comunque obbligo dell’Amministrazione porre
fine all'occupazione senza titolo (TAR
Sicilia–Catania, Sez. III, 10.02.2011, n. 290; TAR Sicilia–Catania, Sez. II,
sentenze 07.12.2011, n. 2911, e 21.03.2012, n. 741).
Conseguentemente, perché possa essere
soddisfatto l’interesse primario della parte
lesa, volto alla tutela del proprio diritto
di proprietà, sempre salva la possibilità
per le parti di concludere un accordo teso
al trasferimento della proprietà, deve
imporsi all’Amministrazione di rinnovare,
nel termine di giorni novanta dalla
notificazione, a cura di parte, della
presente sentenza (ovvero, se anteriore,
dalla sua comunicazione in via
amministrativa), la valutazione di attualità
e prevalenza dell’interesse pubblico
all’eventuale acquisizione del fondo per cui
è causa, adottando, all’esito, un
provvedimento con cui lo stesso sia,
alternativamente:
A) acquisito non retroattivamente al
patrimonio indisponibile comunale,
liquidando il risarcimento anche in
relazione ai danni per il periodo di
illegittima occupazione del bene;
B) restituito in tutto od in parte ai
legittimi proprietari, previo ripristino
dello stato di fatto, esistente al momento
dell’apprensione,
tanto nel termine di giorni novanta, di cui
sopra.
Nel caso in cui l’Amministrazione ritenga di
dover restituire il terreno, dovrà comunque
emettere un provvedimento per il
risarcimento del danno derivante dalla
illegittima occupazione del fondo (sul
punto, Cons. Stato, Sez. IV, 16.03.2012, n.
1514)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza
23.04.2012 n.
1075 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Sistema informatico: è reato
accedervi abusivamente con la password ed il
computer del collega.
Così ha deciso la V Sez. penale della
Suprema Corte di Cassazione, con sentenza
n. 15016/2012, pronunciandosi su di un
ricorso presentato da un impiegata, accusata
di essersi abusivamente introdotta nel
sistema informatico di una scuola
dell’amministrazione penitenziaria, allo
scopo di visionare la cartella personale
dell’ispettore, utilizzando indebitamente la
password rilasciata per l’assistenza tecnica
alla ditta di manutenzione dei software.
A nulla è valsa la difesa della donna, la
quale, pur ammettendo gli accessi al sistema
informatico, ne sottolineava da un lato la
brevità e dall’altro la compatibilità con le
funzioni da lei svolte all’interno della
scuola, ossia quelle di direttore
amministrativo-contabile.
La Suprema Corte, infatti, rigettando il
ricorso proposto, ha ritenuto che ai fini
della configurabilità del reato di cui
all’art. 615-ter del codice penale (accesso
abusivo ad un sistema informatico e
telematico), non rilevano le finalità
specificamente perseguite dal soggetto
agente, essendo viceversa determinante il
profilo oggettivo dell’accesso o del
trattenimento nel sistema informatico di un
soggetto che a ciò non possa ritenersi
sostanzialmente autorizzato o per la
violazione delle prescrizioni impartite dal
titolare del sistema ovvero per il
compimento di operazioni ontologicamente
diverse da quelle per le quali l’accesso è
consentito.
La motivazione della sentenza impugnata,
nell’escludere la prova evidente
dell’insussistenza dell’addebito, si muoveva
coerentemente all’interno di questa
prospettiva giuridica, osservando come
l’imputata avesse effettuato gli accessi da
un computer attribuito in uso esclusivo ad
altri, mediante una password rilasciata
unicamente alla ditta incaricata
dall’assistenza tecnica per funzioni diverse
da quelle amministrative svolte
dall’impiegata. Irrilevanti, infine,
risultano i rilievi dell’imputata sulla
durata degli accessi e sulla mancanza di
prova della duplicazione dei dati contenuti
nelle cartelle visionate, posto che la
visione stessa dei dati è in sé inquadrabile
come fatto penalmente rilevante in presenza
delle descritte connotazioni di abusività
dell'accesso (tratto da www.diritto.it). |
APPALTI: La
condanna riportata dal legale rappresentante
(per il delitto di incendio colposo) appare
certamente riconducibile ad un reato grave
contro lo Stato che incide sulla moralità
professionale dell’eventuale aggiudicatario,
trattandosi di applicazione della pena senza
sospensione condizionale per un reato
(incendio colposo) che, a tutti gli effetti,
deve essere anche considerato strettamente
correlato all’oggetto della gara in
questione (manutenzione straordinaria per la
prevenzione incendi e sicurezza).
---------------
Vanno considerati illegittimi e annullati
gli atti con i quali l’amministrazione ha
richiesto la corresponsione dell’importo
vincolato a cauzione provvisoria e
contestualmente segnalato all’Autorità di
Vigilanza la comunicazione dell’esclusione
ai fini della valutazione di cui all’art. 38
comma 1-ter del codice dei contratti
pubblici.
Invero, da un lato, l’incameramento
della cauzione, in quanto atto di natura
sanzionatoria -come tale soggetto al
principio di tassatività-, non può essere
disposto per carenza dei requisiti di ordine
generale, essendo esclusivamente legato, ai
sensi dell’art. 48, comma 1, del d.lgs. n.
163/2006, alla mancata prova del possesso
dei requisiti di capacità
economico-finanziaria e
tecnico-organizzativa, né appare applicabile
al caso di specie la norma di cui all’art.
75, comma 6, del d.lgs. n. 163 del 2006, in
quanto non si è trattato di “mancata
sottoscrizione del contratto per fatto
dell’affidatario”, bensì di esclusione
dovuta ad una valutazione operata
dall’amministrazione ex post in relazione ai
requisiti generali posseduti
dall’aggiudicatario, cui non risulta
addebitabile alcun specifico profilo di
colpa causalmente connesso alla mancata
stipulazione.
D’altra parte, la segnalazione
all’Autorità di Vigilanza di cui all’art.
38, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163/2006 va
effettuata in caso di falsa dichiarazione o
falsa documentazione, con esclusione,
pertanto, da tali ipotesi, della omissione
di una dichiarazione non tassativamente
richiesta nel bando di gara e legata, come
nel caso di specie, ad una preminente
valutazione di natura soggettiva sui suoi
presupposti (gravità dei reati e incidenza
di essi sulla moralità professionale).
Rilevato:
-
che la ricorrente ha impugnato, chiedendone
la sospensione in via incidentale, il
provvedimento con il quale il comune di
Milano ha disposto la sua esclusione dalla
procedura concorsuale avente ad oggetto
l’affidamento in appalto della progettazione
ed esecuzione di interventi di manutenzione
straordinaria per la prevenzione degli
incendi e la sicurezza;
-
che la ricorrente ha impugnato, altresì, la
richiesta di pagamento dell’importo
garantito a titolo di cauzione provvisoria
formulata dall’amministrazione resistente,
congiuntamente alla nota con cui ha inviato
segnalazione dell’esclusione all’Autorità di
Vigilanza sui contratti pubblici;
-
che, in particolare, Adico S.r.l. ha dedotto
l’illegittimità del provvedimento di
esclusione per erronea applicazione
dell’art. 38, comma 1, lettera c), del d.lgs.
n. 163/2006, oltre che per eccesso di potere
caratterizzato da ingiustizia manifesta e da
violazione del principio di proporzionalità
e ragionevolezza;
-
che, a tale riguardo, la ricorrente, il cui
legale rappresentante era cessato dalla
carica nelle more della gara e, in
particolare, dopo la scadenza del termine di
presentazione dell’offerta, ha contestato
l’interpretazione adottata dalla commissione
giudicatrice in ordine alla riconducibilità
della sentenza di condanna emessa in data 30.09.2010 dal Tribunale di Bassano del
Grappa a carico del predetto legale
rappresentante, per il delitto di incendio
colposo, nel novero di quei “reati gravi in
danno dello Stato o della Comunità che
incidono sulla moralità professionale”, ai
sensi dell’art. 38 del codice dei contratti
pubblici;
-
che, altresì, la ricorrente ha dedotto
l’illegittimità della valutazione operata
dall’amministrazione, laddove ha ritenuto
“falsa” la omessa attestazione
dell’esistenza di tale condanna nei
documenti di gara da parte di Adico S.r.l.,
e l’erronea applicazione dell’art. 48 del
d.lgs. n. 163/2006 con riferimento
all’incameramento della cauzione e alla
segnalazione all’Autorità di Vigilanza;
Ritenuto:
-
che l’esclusione disposta è da considerarsi
legittima in quanto congruamente motivata e
non affetta da illogicità o irragionevolezza
di sorta;
-
che, in effetti, la condanna riportata dal
legale rappresentante della ricorrente –soggetto ancora in carica al momento della
scadenza del termine di presentazione delle
offerte-, appare certamente riconducibile
ad un reato grave contro lo Stato che incide
sulla moralità professionale dell’eventuale
aggiudicatario, trattandosi di applicazione
della pena senza sospensione condizionale
per un reato (incendio colposo) che, a tutti
gli effetti, deve essere anche considerato
strettamente correlato all’oggetto della
gara in questione (manutenzione
straordinaria per la prevenzione incendi e
sicurezza);
-
che, peraltro, nella motivazione addotta
dalla commissione di gara, sono stati
adeguatamente esplicitati i parametri
concreti (modalità ed effetti della condotta
penalmente rilevante, oltre all’ambito di
attività in cui tale condotta si è
manifestata) in base ai quali sono stati
valutati, da un lato, la gravità del reato
oggetto di “patteggiamento”, dall’altro,
l’incidenza di tale reato sulla cosiddetta
“moralità professionale”;
-
che la predetta valutazione., non appare né
illogica né sproporzionata, ma per quanto
suesposto congrua e coerente rispetto alle
assunte premesse;
-
che, ad ogni modo, non è applicabile al caso
di specie la norma di favore sulla
dissociazione dell’impresa dal reato
commesso dal suo rappresentante legale, in
quanto tale soggetto non è cessato dalla
carica nell’anno antecedente la data di
pubblicazione del bando di gara, bensì solo
in data successiva alla scadenza del termine
di presentazione delle offerte;
-
che, peraltro, vanno considerati illegittimi
e annullati gli atti con i quali
l’amministrazione resistente ha richiesto la
corresponsione dell’importo vincolato a
cauzione provvisoria e contestualmente
segnalato all’Autorità di Vigilanza la
comunicazione dell’esclusione ai fini della
valutazione di cui all’art. 38 comma 1-ter
del codice dei contratti pubblici;
-
che, da un lato, l’incameramento della
cauzione, in quanto atto di natura
sanzionatoria -come tale soggetto al
principio di tassatività-, non può essere
disposto per carenza dei requisiti di ordine
generale, essendo esclusivamente legato, ai
sensi dell’art. 48, comma 1, del d.lgs. n.
163/2006, alla mancata prova del possesso
dei requisiti di capacità
economico-finanziaria e
tecnico-organizzativa (cfr. TAR Lombardia,
sede di Milano, sezione III, sent. n.
22/2012), né appare applicabile al caso di
specie la norma di cui all’art. 75, comma 6,
del d.lgs. n. 163 del 2006, in quanto non si
è trattato di “mancata sottoscrizione del
contratto per fatto dell’affidatario”, bensì
di esclusione dovuta ad una valutazione
operata dall’amministrazione ex post in
relazione ai requisiti generali posseduti
dall’aggiudicatario, cui non risulta
addebitabile alcun specifico profilo di
colpa causalmente connesso alla mancata
stipulazione;
- che, d’altra parte, la segnalazione
all’Autorità di Vigilanza di cui all’art.
38, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163/2006 va
effettuata in caso di falsa dichiarazione o
falsa documentazione, con esclusione,
pertanto, da tali ipotesi, della omissione
di una dichiarazione non tassativamente
richiesta nel bando di gara e legata, come
nel caso di specie, ad una preminente
valutazione di natura soggettiva sui suoi
presupposti (gravità dei reati e incidenza
di essi sulla moralità professionale)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 20.04.2012 n. 1179 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini della decorrenza del
termine per l'impugnazione, da parte di
terzi, di provvedimenti di concessione in
sanatoria di manufatti abusivi, deve aversi
esclusivo riguardo alla data di scadenza
della pubblicazione del provvedimento a
sanatoria, essendo già compiutamente nota la
lesione materiale subita.
Nel caso di concessione
edilizia in sanatoria, infatti, si pone la
necessità della individuazione del dies a
quo dell'impugnativa al fine di assicurare
stabilità e certezza agli atti
amministrativi, non potendo gli stessi
rimanere sine die soggetti ad una eventuale
impugnativa contestazione giurisdizionale,
né potendosi consentire che il privato
confinante -attraverso l'utilizzo ad
libitum dello strumento dell'accesso- possa
decidere di impugnare i relativi atti in
qualsiasi momento.
Ai fini della decorrenza del termine
per l'impugnazione, da parte di terzi, di
provvedimenti di concessione in sanatoria di
manufatti abusivi, deve aversi esclusivo
riguardo alla data di scadenza della
pubblicazione del provvedimento a sanatoria,
essendo già compiutamente nota la lesione
materiale subita; nel caso di concessione
edilizia in sanatoria, infatti, si pone la
necessità della individuazione del dies a
quo dell'impugnativa al fine di assicurare
stabilità e certezza agli atti
amministrativi, non potendo gli stessi
rimanere sine die soggetti ad una eventuale
impugnativa contestazione giurisdizionale,
né potendosi consentire che il privato
confinante -attraverso l'utilizzo ad
libitum dello strumento dell'accesso- possa
decidere di impugnare i relativi atti in
qualsiasi momento (TAR Puglia-Lecce, sez. III,
21.05.2009, n. 1200)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. I,
sentenza
20.04.2012 n.
885 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il potere di applicare le
sanzioni di cui all’art. 15 della legge n.
1497/1939, in cui è compresa quella
pecuniaria, permane finché perdura
l’illecito, che ha natura permanente e tale
permanenza cessa soltanto con la rimessione
in pristino o con il pagamento della
sanzione, ipotesi nel caso non verificatesi.
Il potere di esigere l’indennità sussiste
pertanto finché perdura l’illiceità della
condotta: la permanenza dell’illecito
paesaggistico comporta la permanenza di tale
attributo anche oltre il momento di
realizzazione dell’opera, e fintantoché
condotta non siano posti nel nulla gli
effetti di quella attività.
Tale permanenza cessa con il venir meno
della situazione della illiceità,
coincidente con il rilascio delle
autorizzazioni ancorché postume; in
particolare, la sanzione pecuniaria di tipo
ambientale (c.d. indennità risarcitoria), ex
art. 167 d.lgs. n. 42 del 2004, attesa la
natura della medesima, sconta il regime
prescrizionale quinquennale (sia pure con i
temperamenti propri della materia) di cui
all'art. 28 l. n. 689 del 1981.
In materia un recente arresto
del giudice d’appello (C.G.A., decisione n.
554 del 13.09.2011), relativo alla
previgente disciplina dell’indennità in
parola, ha affermato che “il potere di
applicare le sanzioni di cui all’art. 15
della citata legge n. 1497/1939, in cui è
compresa quella pecuniaria, permane finché
perdura l’illecito, che ha natura permanente
e tale permanenza cessa soltanto con la
rimessione in pristino o con il pagamento
della sanzione, ipotesi nel caso non
verificatesi (cfr. decisione C.G.A., sezione
giurisdizionale, 02.03.2006, n. 79)”.
Il potere di esigere l’indennità sussiste
pertanto finché perdura l’illiceità della
condotta: la permanenza dell’illecito
paesaggistico comporta la permanenza di tale
attributo anche oltre il momento di
realizzazione dell’opera, e fintantoché
condotta non siano posti nel nulla gli
effetti di quella attività.
Come però pure precisato in giurisprudenza,
tale permanenza cessa con il venir meno
della situazione della illiceità,
coincidente con il rilascio delle
autorizzazioni ancorché postume; in
particolare, la sanzione pecuniaria di tipo
ambientale (c.d. indennità risarcitoria), ex
art. 167 d.lgs. n. 42 del 2004, attesa la
natura della medesima, sconta il regime
prescrizionale quinquennale (sia pure con i
temperamenti propri della materia) di cui
all'art. 28 l. n. 689 del 1981 (TAR
Toscana, Firenze, sez. III, sentenza
18.12.2009, n. 3851)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. I,
sentenza
20.04.2012 n.
884 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI - COMPETENZE GESTIONALI: E'
legittima la delibera di Giunta Comunale con
la quale è stato deciso di non procedere al
rinnovo di una convenzione.
Invero, stabilisce l’art. 42, comma primo,
del d.lgs. 18.08.2000 n. 267 che “Il
consiglio è l'organo di indirizzo e di
controllo politico-amministrativo”. Aggiunge
il secondo comma della stessa disposizione
che “Il consiglio ha competenza
limitatamente ai seguenti atti fondamentali:
(…) e) organizzazione dei pubblici servizi,
costituzione di istituzioni e aziende
speciali, concessione dei pubblici servizi,
partecipazione dell'ente locale a società di
capitali, affidamento di attività o servizi
mediante convenzione”.
Come si vede, in base alle norme illustrate,
sono attribuite alla competenza del
consiglio comunale le decisioni afferenti la
materia degli affidamenti in convenzione dei
pubblici servizi.
Va tuttavia osservato che, nel caso
concreto, sebbene la questione sulla quale è
intervenuta la Giunta Comunale riguardi
proprio la materia degli affidamenti in
convenzione dei pubblici servizi, non è
possibile affermare l’incompetenza del
predetto organo. Ciò in quanto il
provvedimento impugnato non ha fatto altro
che ribadire una volontà già manifestata
dall’ente che, con la sottoscrizione della
convenzione stipulata con la Fondazione
Asilo Infantile Umberto I, aveva stabilito
che tale convenzione dovesse avere scadenza
in data 31.12.2012.
L’atto della Giunta non ha dunque introdotto
disposizioni innovative riguardanti aspetti
fondamentali delle modalità di erogazione
del servizio (che avrebbero dovuto queste sì
essere introdotte solo con atto adottato dal
consiglio comunale); ma costituisce, a ben
guardare, null’altro che una presa d’atto di
quanto già precedentemente deliberato; per
questo motivo, esso si pone quale atto
meramente esecutivo di decisioni già
assunte, come tale sottratto alla competenza
dell’organo consiliare.
... per l'annullamento della delibera della
Giunta Comunale (GC) n. 193 del 19.12.2011, esposta all'albo comunale fino al
06/01//2012, con cui è stato deciso di non
procedere al rinnovo della convenzione con
la Fondazione Asilo Infantile Umberto I repertoriata al nr. 31/3, alla prossima
scadenza prevista al 31.12.2012,
nonché di tutti gli atti connessi.
...
Il ricorso è infondato.
Stabilisce l’art. 42, comma primo, del
d.lgs. 18.08.2000 n. 267 che “Il
consiglio è l'organo di indirizzo e di
controllo politico-amministrativo”.
Aggiunge il secondo comma della stessa
disposizione che “Il consiglio ha competenza
limitatamente ai seguenti atti fondamentali:
(…) e) organizzazione dei pubblici servizi,
costituzione di istituzioni e aziende
speciali, concessione dei pubblici servizi,
partecipazione dell'ente locale a società di
capitali, affidamento di attività o servizi
mediante convenzione”.
Come si vede, in base alle norme illustrate,
sono attribuite alla competenza del
consiglio comunale le decisioni afferenti la
materia degli affidamenti in convenzione dei
pubblici servizi.
Va tuttavia osservato che, nel caso
concreto, sebbene la questione sulla quale è
intervenuta la Giunta Comunale riguardi
proprio la materia degli affidamenti in
convenzione dei pubblici servizi, non è
possibile affermare l’incompetenza del
predetto organo. Ciò in quanto il
provvedimento impugnato non ha fatto altro
che ribadire una volontà già manifestata
dall’ente che, con la sottoscrizione della
convenzione stipulata con la Fondazione
Asilo Infantile Umberto I, aveva stabilito
che tale convenzione dovesse avere scadenza
in data 31.12.2012.
L’atto della Giunta non ha dunque introdotto
disposizioni innovative riguardanti aspetti
fondamentali delle modalità di erogazione
del servizio (che avrebbero dovuto queste sì
essere introdotte solo con atto adottato dal
consiglio comunale); ma costituisce, a ben
guardare, null’altro che una presa d’atto di
quanto già precedentemente deliberato; per
questo motivo, esso si pone quale atto
meramente esecutivo di decisioni già
assunte, come tale sottratto alla competenza
dell’organo consiliare (TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 19.04.2012 n. 1150 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: La
clausola della convenzione secondo cui v'è
il rinnovo automatico del contratto operante
in caso di mancata disdetta è da ritenersi
nulla ai sensi dell’art. 6, comma 2, della
legge 24.12.1993 n. 537 (oggi abrogata ma
applicabile alla fattispecie di causa
ratione temporis), in base alla quale “è
vietato il rinnovo tacito dei contratti
delle pubbliche amministrazioni per la
fornitura di beni e servizi, ivi compresi
quelli affidati in concessione a soggetti
iscritti in appositi albi.
I contratti stipulati in violazione del
predetto divieto sono nulli”; norma che,
secondo la giurisprudenza, costituisce
espressione di un principio generale
attuativo di un vincolo comunitario
discendente dal Trattato e, come tale,
valevole per tutti gli atti negoziali della
pubblica amministrazione e non solo per
quelli concernenti gli appalti di servizi,
opere e forniture, come sembrerebbe
evincersi dal suo tenore letterale.
In senso contrario non può invocarsi l’art.
1 della predetta convenzione, nella parte in
cui prevede una clausola di rinnovo
automatico del contratto operante in caso di
mancata disdetta.
Tale clausola invero è da ritenersi nulla ai
sensi dell’art. 6, comma 2, della legge 24.12.1993 n. 537 (oggi abrogata ma
applicabile alla fattispecie di causa ratione temporis), in base alla quale “è
vietato il rinnovo tacito dei contratti
delle pubbliche amministrazioni per la
fornitura di beni e servizi, ivi compresi
quelli affidati in concessione a soggetti
iscritti in appositi albi. I contratti
stipulati in violazione del predetto divieto
sono nulli”; norma che, secondo la
giurisprudenza, costituisce espressione di
un principio generale attuativo di un
vincolo comunitario discendente dal Trattato
e, come tale, valevole per tutti gli atti
negoziali della pubblica amministrazione e
non solo per quelli concernenti gli appalti
di servizi, opere e forniture, come
sembrerebbe evincersi dal suo tenore
letterale (cfr. Consiglio di Stato, sez. V,
07.04.2011 n. 2151)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 19.04.2012 n. 1150 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Ai fini della determinazione del
contenuto lesivo di un provvedimento, deve
aversi riguardo alla sua capacità di
determinare un arresto del procedimento, a
prescindere dalla sua natura di atto endoprocedimentale non autonomamente
impugnabile.
In tale caso, infatti, si verifica una
eccezione alla regola della non
impugnabilità degli atti endoprocedimentali,
in particolar modo quando si chiede la
tutela di interessi pretensivi, i quali non
altrimenti potrebbe essere garantiti se non
azionando l'interesse strumentale
all'eliminazione dell'atto o del
comportamento preclusivo del successivo
sviluppo del procedimento amministrativo.
Ciò che conta, infatti, è l'effetto
preclusivo del successivo sviluppo del
procedimento.
Sono atti
autonomamente impugnabili quegli atti
interlocutori idonei a cagionare un arresto
procedimentale capace di frustrare
l'aspirazione dell'istante ad un celere
soddisfacimento dell'interesse pretensivo
prospettato ovvero ancora gli atti
soprassessori, che, rinviando ad un
avvenimento futuro ed incerto nell'an e nel
quando il soddisfacimento del suddetto
interesse pretensivo, determinano un arresto
del procedimento che lo stesso privato ha
attivato con la sua istanza.
Ai fini della determinazione del
contenuto lesivo di un provvedimento, deve
aversi riguardo alla sua capacità di
determinare un arresto del procedimento, a
prescindere dalla sua natura di atto endoprocedimentale non autonomamente
impugnabile.
In tale caso, infatti, si verifica una
eccezione alla regola della non
impugnabilità degli atti endoprocedimentali,
in particolar modo quando si chiede la
tutela di interessi pretensivi, i quali non
altrimenti potrebbe essere garantiti se non
azionando l'interesse strumentale
all'eliminazione dell'atto o del
comportamento preclusivo del successivo
sviluppo del procedimento amministrativo.
Ciò che conta, infatti, è l'effetto
preclusivo del successivo sviluppo del
procedimento (TAR Bari, sez. III, 26.01.2012 n. 246).
Ed infatti la giurisprudenza ha in più
occasioni stabilito che sono atti
autonomamente impugnabili quegli atti
interlocutori idonei a cagionare un arresto
procedimentale capace di frustrare
l'aspirazione dell'istante ad un celere
soddisfacimento dell'interesse pretensivo
prospettato ovvero ancora gli atti
soprassessori, che, rinviando ad un
avvenimento futuro ed incerto nell'an e nel
quando il soddisfacimento del suddetto
interesse pretensivo, determinano un arresto
del procedimento che lo stesso privato ha
attivato con la sua istanza (così TAR
Salerno, sez. II, 12.12.2011 n. 1983;
Cons. St., sez. IV, 16.05.2011 n. 2961;
TAR Campania, sez. VII, 05.05.2011 n. 2460)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza
19.04.2012 n.
821 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In linea generale, a seguito
dell'entrata in vigore del d.lgs. n.
259/2003 (Codice delle Comunicazioni) le
valutazioni urbanistico-edilizie sono
assorbite nel procedimento delineato
dall'art. 87, che prevede un unico
procedimento autorizzatorio per
l'installazione delle infrastrutture di
comunicazione elettronica.
Detto procedimento è finalizzato a
garantire, tramite procedure tempestive e
semplificate, la parità delle condizioni
concorrenziali fra i diversi gestori nella
realizzazione delle proprie reti di
comunicazione sul territorio nazionale,
nonché la osservanza di livelli uniformi di
compatibilità ambientale delle emissioni
radioelettriche, stante che l'intento
perseguito dal legislatore comunitario e da
quello nazionale è quello di consentire la
installazione di “stazioni radio base” in
forza di un unico provvedimento
autorizzatorio, che deve essere rilasciato
sulla base di un procedimento unitario, nel
contesto del quale devono essere fatte
confluire le valutazioni sia di tipo
ambientale che di tipo urbanistico.
L'installazione di stazioni radio base per
la telefonia mobile risulta compiutamente
disciplinata dalla normativa summenzionata,
che prevede che tutte le problematiche
coinvolte vengano valutate nell'ambito di un
unico procedimento attivato
dall'interessato, che assorbe in sé le
valutazioni a carattere edilizio.
Non fa eccezione a tale conclusione neanche
la valutazione dell’impatto della stazione
radio base sui limiti previsti dalla legge
per limitare l’inquinamento
elettromagnetico: da un lato, infatti,
l’art. 87, nel disciplinare unitariamente il
procedimento autorizzatorio, non ammette
eccezioni; dall’altro, fa espresso
riferimento all’A.R.P.A. ai fini della
valutazione della compatibilità del progetto
con i limiti di esposizione, i valori di
attenzione e gli obiettivi di qualità,
stabiliti uniformemente a livello nazionale
dalla legge 36 del 2001.
Pertanto, è illegittimo il provvedimento di
rigetto dell’autorizzazione alla
installazione di un impianto di trasmissione
presentata ai sensi dell'art. 87, d.lgs.
01.08.2003 n. 259, ove esso contrasti con le
valutazioni favorevoli al progetto
rassegnate dell’A.R.P.A., unica autorità
competente a pronunciarsi per gli aspetti
strettamente tecnici in ordine alla
compatibilità dell'impianto, al rispetto dei
limiti di esposizione, dei valori di
attenzione e degli obiettivi di qualità
relativi alle emissioni elettromagnetiche.
---------------
La valutazione di compatibilità
edilizio-urbanistica dell'intervento per
l’installazione di un impianto di telefonia
costituisce un sub-procedimento del Comune
da compiersi nell'ambito dei 90 giorni
complessivi previsti dal comma 9 dell'art.
87 per la formazione del silenzio assenso,
ed è subordinata soltanto all'autorizzazione
prevista dall'art. 87, d.lgs. n. 259 del
2003, che pone una normativa speciale ed
esaustiva che include anche la valutazione
della compatibilità urbanistico-edilizia
dell'intervento.
D’altra parte laddove il nuovo procedimento
fosse destinato non a sostituire, ma ad
abbinarsi a quello edilizio ordinario,
verrebbero di fatto vanificati i principi
ispiratori del Codice delle Comunicazioni
Elettroniche, in particolare quelli della
previsione di procedure tempestive, non
discriminatorie e trasparenti per la
concessione del diritto di installazione e
della riduzione dei termini per la
conclusione dei procedimenti, nonché della
regolazione uniforme dei medesimi.
---------------
Il comma 9 dell’art. 87 del d.lgs. 259 del
2003 stabilisce che “le istanze di
autorizzazione e le denunce di attività di
cui al presente articolo (…) si intendono
accolte qualora, entro novanta giorni dalla
presentazione del progetto e della relativa
domanda, fatta eccezione per il dissenso di
cui al comma 8, non sia stato comunicato un
provvedimento di diniego o un parere
negativo da parte dell'organismo competente
ad effettuare i controlli, di cui
all'articolo 14 della legge 22.02.2001, n.
36”.
Tale termine, ai sensi del comma 5, può
essere interrotto solo per una sola volta,
entro quindici giorni dalla data di
ricezione dell'istanza, per consentire il
rilascio di dichiarazioni e l'integrazione
della documentazione prodotta.
Tale termine, per giurisprudenza pacifica,
decorre, infatti, dalla presentazione della
domanda.
Ne consegue che è illegittimo il
provvedimento impugnato, laddove nega
l’esistenza del titolo abilitativo e impone
la demolizione delle opere realizzate, non
essendo tale ordine preceduto da alcuna
valutazione in ordine all’interesse pubblico
esistente nonché da alcun provvedimento di
annullamento dell’atto tacitamente
formatosi, e non essendo neppure necessario
il rispetto delle disposizioni di cui
all'art. 20, comma 4, della legge n.
241/1990, stante il principio di specialità
vigente nel nostro ordinamento giuridico.
Anche
recentemente questa Sezione (sentenze
09.03.2011, n. 419; 11.01.2011 n. 22;
08.07.2009, n. 1213, confermata dal C.G.A.
con decisione n.1448 del 02.12.2010) ha
affermato che, in linea generale, a seguito
dell'entrata in vigore del d.lgs. n.
259/2003 (Codice delle Comunicazioni),
recepito nella Regione Siciliana con l'art.
103 della l.r. 28.12.2004, n. 17, le
valutazioni urbanistico-edilizie sono
assorbite nel procedimento delineato
dall'art. 87, che prevede un unico
procedimento autorizzatorio per
l'installazione delle infrastrutture di
comunicazione elettronica.
Detto procedimento è finalizzato a
garantire, tramite procedure tempestive e
semplificate, la parità delle condizioni
concorrenziali fra i diversi gestori nella
realizzazione delle proprie reti di
comunicazione sul territorio nazionale,
nonché la osservanza di livelli uniformi di
compatibilità ambientale delle emissioni
radioelettriche, stante che l'intento
perseguito dal legislatore comunitario e da
quello nazionale è quello di consentire la
installazione di “stazioni radio base”
in forza di un unico provvedimento
autorizzatorio, che deve essere rilasciato
sulla base di un procedimento unitario, nel
contesto del quale devono essere fatte
confluire le valutazioni sia di tipo
ambientale che di tipo urbanistico (cfr.
Corte Costituzionale, 28.03.2006, n. 129;
06.07.2006, n. 265).
In particolare, il comma 1 dell’art. 87 del
d.lgs. 259/2003 stabilisce espressamente che
l’installazione di “(…) stazioni radio
base per reti di comunicazioni elettroniche
mobili GSM/UMTS (…) , viene autorizzata
dagli Enti locali, previo accertamento, da
parte dell'Organismo competente ad
effettuare i controlli, di cui all'articolo
14 della legge 22.02.2001, n. 36, della
compatibilità del progetto con i limiti di
esposizione, i valori di attenzione e gli
obiettivi di qualità, stabiliti
uniformemente a livello nazionale in
relazione al disposto della citata legge
22.02.2001, n. 36, e relativi provvedimenti
di attuazione.”
Detto organismo altri non è che l’A.R.P.A.
(Agenzia regionale per la protezione
dell'ambiente), espressamente deputata, per
legge, alla tutela dei cittadini
dall’esposizione ai campi elettromagnetici.
Ai sensi del comma 3 “l'istanza, conforme
al modello di cui al modello A dell'allegato
n. 13, realizzato al fine della sua
acquisizione su supporti informatici e
destinato alla formazione del catasto
nazionale delle sorgenti elettromagnetiche
di origine industriale, deve essere
corredata della documentazione atta a
comprovare il rispetto dei limiti di
esposizione, dei valori di attenzione e
degli obiettivi di qualità, relativi alle
emissioni elettromagnetiche, di cui alla
legge 22.02.2001, n. 36, e relativi
provvedimenti di attuazione, attraverso
l'utilizzo di modelli predittivi conformi
alle prescrizioni della CEI, non appena
emanate. (…) Nel caso di installazione di
impianti, con tecnologia UMTS od altre, con
potenza in singola antenna uguale od
inferiore ai 20 Watt, fermo restando il
rispetto dei limiti di esposizione, dei
valori di attenzione e degli obiettivi di
qualità sopra indicati, è sufficiente la
denuncia di inizio attività”.
Appare dunque evidente che l'installazione
di stazioni radio base per la telefonia
mobile risulta compiutamente disciplinata
dalla normativa summenzionata, che prevede
che tutte le problematiche coinvolte vengano
valutate nell'ambito di un unico
procedimento attivato dall'interessato, che
assorbe in sé le valutazioni a carattere
edilizio (ex multis Cons. St., sez.
VI, 12.01.2011 n. 98; id., 08.06.2010 n.
3412; id., 03.06.2010 n. 3492; C.G.A.,
17.08.2009 n. 678; Tar Campania, sez. VII,
28.10.2011 n. 5030; Tar Palermo, sez. II,
09.03.2011, n. 419; id., 14.02.2011 n. 267;
id., 19.02.2009, n. 374; Tar Lazio, sez. II,
19.07.2006 n. 6056).
Non fa eccezione a tale conclusione neanche
la valutazione dell’impatto della stazione
radio base sui limiti previsti dalla legge
per limitare l’inquinamento
elettromagnetico: da un lato, infatti,
l’art. 87, nel disciplinare unitariamente il
procedimento autorizzatorio, non ammette
eccezioni; dall’altro, fa espresso
riferimento all’A.R.P.A. ai fini della
valutazione della compatibilità del progetto
con i limiti di esposizione, i valori di
attenzione e gli obiettivi di qualità,
stabiliti uniformemente a livello nazionale
dalla legge 36 del 2001.
Pertanto, in fattispecie simili, la
giurisprudenza amministrativa ha ritenuto
che sia illegittimo il provvedimento di
rigetto dell’autorizzazione alla
installazione di un impianto di trasmissione
presentata ai sensi dell'art. 87, d.lgs.
01.08.2003 n. 259, ove esso contrasti con le
valutazioni favorevoli al progetto
rassegnate dell’A.R.P.A., unica autorità
competente a pronunciarsi per gli aspetti
strettamente tecnici in ordine alla
compatibilità dell'impianto, al rispetto dei
limiti di esposizione, dei valori di
attenzione e degli obiettivi di qualità
relativi alle emissioni elettromagnetiche
(TAR Latina, 02.07.2007, n. 468).
È quindi altamente probabile che il Comune
abbia confuso la fase autorizzatoria
dell’impianto con la successiva fase di
controllo e di verifica del rispetto dei
valori di campo elettromagnetico
dell'impianto già attivato, per la quale
occorre rinviare alla fase successiva di
monitoraggio dei valori e controllo,
quest’ultima legittimamente demandata alla
competenza di autorità diverse dall’A.R.P.A.,
i cui pareri si inseriscono nel procedimento
per l'installazione degli impianti di
telefonia ope legis, alla stregua di
pareri tecnici sulla base del riscontro del
progetto e della documentazione presentata
dalla società che intende installare e sono
richiesti soltanto ed esclusivamente per la
concreta attivazione dell'impianto, ciò al
fine anche di stabilire se il volume
complessivo delle emissioni prodotte da
tutti gli impianti insistenti sullo stesso
sito risulti superiore ai limiti fissati dal
d.P.C.M. 08.07.2003 (Tar Napoli, sez. VII,
22.03.2007 n. 2702).
Sul punto, recentemente il Consiglio di
Stato (sez. VI, 24.09.2010 n. 7128) ha
ribadito che la circostanza che il parere
dell'A.R.P.A. sia richiesto solo ed
esclusivamente ai fini della concreta
attivazione dell'impianto, rende
insussistente l’onere per il richiedente di
allegare il parere dell’amministrazione
suddetta in sede di presentazione
dell'istanza (ovvero della d.i.a.), né un
puntuale obbligo di far pervenire il parere
medesimo all'Ente procedente entro il
termine di novanta giorni di cui al comma 9
dell'art. 87, d.lgs. n. 259/2003.
Parimenti, è anche possibile che il Comune
abbia sovrapposto alla disciplina dell’art.
87 del d.lgs. 259/2003, quella del d.P.R.
380/2001 (testo Unico in materia Edilizia),
che all’art. 5, comma 3, lett. a) prevede il
rilascio del parere della ASL ai fini del
rilascio del certificato di agibilità degli
edifici, ossia di quel certificato che, ai
sensi dell’art. 24 del T.U., attesta la
sussistenza delle condizioni di sicurezza,
igiene, salubrità, risparmio energetico
degli edifici e degli impianti negli stessi
installati, valutate secondo quanto dispone
la normativa vigente.
Tuttavia, come ormai pacificamente stabilito
dalla giurisprudenza amministrativa
consolidata, la valutazione di compatibilità
edilizio-urbanistica dell'intervento per
l’installazione di un impianto di telefonia
costituisce un sub procedimento del Comune
da compiersi nell'ambito dei 90 giorni
complessivi previsti dal comma 9 dell'art.
87 per la formazione del silenzio assenso,
ed è subordinata soltanto all'autorizzazione
prevista dall'art. 87, d.lgs. n. 259 del
2003, che pone una normativa speciale ed
esaustiva che include anche la valutazione
della compatibilità urbanistico-edilizia
dell'intervento (Tar Bari, sez. III,
06.10.2011 n. 1488)
D’altra parte laddove il nuovo procedimento
fosse destinato non a sostituire, ma ad
abbinarsi a quello edilizio ordinario,
verrebbero di fatto vanificati i principi
ispiratori del Codice delle Comunicazioni
Elettroniche, in particolare quelli della
previsione di procedure tempestive, non
discriminatorie e trasparenti per la
concessione del diritto di installazione e
della riduzione dei termini per la
conclusione dei procedimenti, nonché della
regolazione uniforme dei medesimi (Cons.
St., 98/2011, cit.).
---------------
Deve essere accolta anche la prima censura
dei motivi aggiunti, con la quale la
Vodafone prospetta la avvenuta formazione
del silenzio assenso.
Infatti, il comma 9 dell’art. 87 del d.lgs.
259 del 2003 stabilisce che “le istanze
di autorizzazione e le denunce di attività
di cui al presente articolo (…) si intendono
accolte qualora, entro novanta giorni dalla
presentazione del progetto e della relativa
domanda, fatta eccezione per il dissenso di
cui al comma 8, non sia stato comunicato un
provvedimento di diniego o un parere
negativo da parte dell'organismo competente
ad effettuare i controlli, di cui
all'articolo 14 della legge 22.02.2001, n.
36”.
Tale termine, ai sensi del comma 5, può
essere interrotto solo per una sola volta,
entro quindici giorni dalla data di
ricezione dell'istanza, per consentire il
rilascio di dichiarazioni e l'integrazione
della documentazione prodotta.
Nel caso concreto, la Vodafone ha presentato
l’istanza in data 10.03.2009, ed ha
integrato la documentazione l’11.12.2009.
Considerando che il provvedimento impugnato
è stato adottato il 28.02.2011, è evidente
che il termine di novanta giorni per la
formazione del silenzio assenso è decorso,
con conseguente formazione dell’atto.
Tale termine, per giurisprudenza pacifica,
decorre, infatti, dalla presentazione della
domanda (tra le più recenti Tar Bari, sez.
III, 25.02.2012 n. 402; id., 06.10.2011 n.
1488; Tar Catania, sez. I, 24.02.2012 n.
485).
Ne consegue che è illegittimo il
provvedimento impugnato, laddove nega
l’esistenza del titolo abilitativo e impone
la demolizione delle opere realizzate, non
essendo tale ordine preceduto da alcuna
valutazione in ordine all’interesse pubblico
esistente nonché da alcun provvedimento di
annullamento dell’atto tacitamente
formatosi, e non essendo neppure necessario
il rispetto delle disposizioni di cui
all'art. 20, comma 4, della legge n.
241/1990, stante il principio di specialità
vigente nel nostro ordinamento giuridico
(Cons. St., sez. III, 30.09.2011 n. 4294)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 19.04.2012 n. 821 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Grava sul danneggiato l'onere di
provare tutti gli elementi costitutivi della
domanda di risarcimento del danno per fatto
illecito (danno, nesso causale e colpa);
sicché il risarcimento del danno non è una
conseguenza automatica e costante
dell'annullamento giurisdizionale,
richiedendo la positiva verifica, oltre che
della lesione della situazione soggettiva di
interesse tutelata dall'ordinamento, della
sussistenza della colpa o del dolo
dell'Amministrazione e del nesso causale tra
l'illecito e il danno subito.
La domanda di
risarcimento dei danni deve invece essere
rigettata in quanto formulata in modo
labiale e generico in violazione del
principio dell'onere della prova di cui
all'art. 2697 c.c. dal quale essa è
regolata, e in base al quale chi vuol far
valere un diritto in giudizio deve provare i
fatti che ne costituiscono il fondamento,
per cui grava sul danneggiato l'onere di
provare, ai sensi del citato articolo, tutti
gli elementi costitutivi della domanda di
risarcimento del danno per fatto illecito
(danno, nesso causale e colpa); sicché il
risarcimento del danno non è una conseguenza
automatica e costante dell'annullamento
giurisdizionale, richiedendo la positiva
verifica, oltre che della lesione della
situazione soggettiva di interesse tutelata
dall'ordinamento, della sussistenza della
colpa o del dolo dell'Amministrazione e del
nesso causale tra l'illecito e il danno
subito (cfr. ex plurimis, Consiglio
Stato, sez. V, 15.09.2010, n. 6797; Tar
Palermo, sez. II, 09.03.2011 n. 427)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 19.04.2012 n. 821 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione dell'istanza di
sanatoria successivamente alla impugnazione
dell'ordinanza di demolizione -o alla
notifica del provvedimento di irrogazione
delle altre sanzioni per gli abusi edilizi-
produce l'effetto di rendere inefficace tale
provvedimento e, quindi, improcedibile
l'impugnazione stessa, per sopravvenuta
carenza di interesse, in quanto il riesame
dell'abusività dell'opera, sia pure al fine
di verificarne la eventuale sanabilità,
provocato da detta istanza, comporta la
necessaria formazione di un nuovo
provvedimento, esplicito od implicito (di
accoglimento o di rigetto), che vale
comunque a superare il provvedimento
sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
Da ciò consegue:
- che il ricorso giurisdizionale avverso un
provvedimento sanzionatorio, proposto
anteriormente all'istanza di concessione in
sanatoria, deve ritenersi improcedibile per
sopravvenuta carenza di interesse,
“spostandosi” l'interesse del responsabile
dell'abuso edilizio dall'annullamento del
provvedimento già adottato, all'eventuale
annullamento del provvedimento (esplicito o
implicito) di rigetto;
- che, applicando siffatti principi alla
controversia in esame, nella quale la
presentazione dell'istanza di sanatoria ex
art. 36 T.U. n. 380/2001, in data
09.10.2008, segue la proposizione del
presente ricorso, notificato in data
10.06.2008, deve dichiararsi
l'improcedibilità di quest’ultimo, stante la
sopravvenuta carenza di interesse, da parte
del ricorrente, al conseguimento di una
qualche decisione avverso l'atto impugnato,
destinato comunque ad essere sostituito
dalle determinazioni esplicite od implicite
adottate sulla proposta istanza dovendo
l’Amministrazione, nell’ipotesi di rigetto
di detta istanza, emanare un nuovo
provvedimento sanzionatorio, eventualmente
di demolizione, con l’assegnazione, in tal
caso, di un nuovo termine per adempiere.
In base alla giurisprudenza
consolidata di questa Sezione la
presentazione dell'istanza di sanatoria
successivamente alla impugnazione
dell'ordinanza di demolizione -o alla
notifica del provvedimento di irrogazione
delle altre sanzioni per gli abusi edilizi-
produce l'effetto di rendere inefficace tale
provvedimento e, quindi, improcedibile
l'impugnazione stessa, per sopravvenuta
carenza di interesse, in quanto il riesame
dell'abusività dell'opera, sia pure al fine
di verificarne la eventuale sanabilità,
provocato da detta istanza, comporta la
necessaria formazione di un nuovo
provvedimento, esplicito od implicito (di
accoglimento o di rigetto), che vale
comunque a superare il provvedimento
sanzionatorio oggetto dell'impugnativa (cfr.
TAR Sicilia, sez. I, 22.12.2004, n.
2921; sez. II, 06.07.2011 n. 1290 e 1292;
id., 01.07.2011 n. 1282; id., 31.03.2011, n. 620; id.,
09.03.2011, n. 432;
id., 26.01.2011 n. 140; Cons. Stato
Sez. IV, Sent., 12.05. n. 2844; id., sez.
V, 21.04.1997, n. 3563; sez. IV, 11.12.1997, n. 1377; sez. V, 14.06.2004, n. 3794; C.G.A. 27.05.1997, n.
187; TAR Liguria, sez. II, 14.12.2000, n. 1310; TAR Toscana, sez. III, 18.12.2001, n. 2024; TAR Puglia, Bari,
sez. II, 11.01.2002, n. 154; TAR
Campania, Sez. IV, 02.02.2004, n. 1239,
18.03.2005, n. 1835, TAR Sez. III, 02.03.2004, n. 257).
Da ciò consegue:
- che il ricorso giurisdizionale avverso un
provvedimento sanzionatorio, proposto
anteriormente all'istanza di concessione in
sanatoria, deve ritenersi improcedibile per
sopravvenuta carenza di interesse,
“spostandosi” l'interesse del responsabile
dell'abuso edilizio dall'annullamento del
provvedimento già adottato, all'eventuale
annullamento del provvedimento (esplicito o
implicito) di rigetto (Cons. Stato, sez. V,
26.06.2007, n. 3659; TAR Sicilia,
Catania, Sez. II, 16.03.1991, n. 67,
Palermo, Sez. II, 16.03.2004, n. 499;
TAR Campania, Sez. IV, 24.09.2002,
n. 5559, 22.02.2003, n. 1310; Tar Lazio, sez. II-ter,
04.11.2005, n.
10412, 09.07.2008, n. 6476);
- che, applicando siffatti principi alla
controversia in esame, nella quale la
presentazione dell'istanza di sanatoria ex
art. 36 T.U. n. 380/2001, in data 09.10.2008, segue la proposizione del presente
ricorso, notificato in data 10.06.2008,
deve dichiararsi l'improcedibilità di
quest’ultimo, stante la sopravvenuta carenza
di interesse, da parte del ricorrente, al
conseguimento di una qualche decisione
avverso l'atto impugnato, destinato comunque
ad essere sostituito dalle determinazioni
esplicite od implicite adottate sulla
proposta istanza dovendo l’Amministrazione,
nell’ipotesi di rigetto di detta istanza,
emanare un nuovo provvedimento
sanzionatorio, eventualmente di demolizione,
con l’assegnazione, in tal caso, di un nuovo
termine per adempiere (Cons. Stato, sez. V,
04.08.2000, n. 4305; TAR Lazio,
Latina, 28.11.2000, n. 826; TAR
Lazio, sez. II, 17.01.2001, n. 230;
TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 12.12.2001, n. 2424; TAR Puglia, Bari, sez. II,
11.01.2002, n. 154; TAR Emilia
Romagna, sez. II, 11.06.2002, n. 857;
TAR Campania, sez. IV, 26.07.2002, n.
4399; TAR Sicilia, Palermo, Sez. II,
17.05.2005, n. 751)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza
19.04.2012 n.
820 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
potere comunale di adottare norme
regolamentari per il corretto insediamento
urbanistico e territoriale degli impianti,
che trova la sua specifica fonte nell’art.
8, comma 6, della legge n. 36 del 2001, non
può tradursi in una sostanziale previsione
di divieto generalizzato di installazione
nell’intero territorio comunale ovvero nella
previsione volta a relegare in limitate zone
dello stesso la relativa installazione.
Al contrario la potestà regolamentare
comunale deve essere esercitata in modo da
farne derivare regole ragionevoli, motivate
e certe, poste a presidio di interessi di
rilievo pubblico e di stampo urbanistico,
tenuto conto che la tutela della popolazione
dalle immissioni radioelettriche è
riservata, dall’art. 4 della legge n. 36 del
2001, allo Stato, attraverso
l’individuazione di limiti di esposizione,
di valori di attenzione e di obiettivi di
qualità.
È noto che le stazioni radio base per la
telefonia mobile, al fine di dar luogo alla
c.d. “rete di telecomunicazione”,
richiedono per definizione una capillare
distribuzione sul territorio, in particolare
laddove, com’è proprio nel caso della
telefonia mobile, alla debolezza del segnale
d’antenna si associa un rapporto di maggiore
contiguità tra le varie s.r.b. (in termini
Cons. Stato, sez. VI, 20.10.2010, n. 7588).
A ciò si correla il fatto che il potere
comunale di adottare norme regolamentari per
il corretto insediamento urbanistico e
territoriale degli impianti, che trova la
sua specifica fonte nell’art. 8, comma 6,
della legge n. 36 del 2001, non può tradursi
in una sostanziale previsione di divieto
generalizzato di installazione nell’intero
territorio comunale ovvero nella previsione
volta a relegare in limitate zone dello
stesso la relativa installazione (TAR
Toscana, sez. II; 17.02.2011, n. 335).
Al contrario la potestà regolamentare
comunale deve essere esercitata in modo da
farne derivare regole ragionevoli, motivate
e certe, poste a presidio di interessi di
rilievo pubblico e di stampo urbanistico,
tenuto conto che la tutela della popolazione
dalle immissioni radioelettriche è
riservata, dall’art. 4 della legge n. 36 del
2001, allo Stato, attraverso
l’individuazione di limiti di esposizione,
di valori di attenzione e di obiettivi di
qualità (in termini anche TAR Toscana, sez.
II, 06.07.2011, n. 1156) (TAR Toscana, Sez.
I,
sentenza 18.04.2012 n.
751 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni Ambientali. Violazioni paesaggistiche
(art. 734 cod. pen. e 181 d.lgs. 42/2004).
La contravvenzione punita dall'articolo 734
C.P. e quella contemplata dall'articolo 181
D.Lv. 42/2004 possono pacificamente
concorrere tra loro in quanto quella
prevista dal Codice dei beni culturali e del
paesaggio sanziona penalmente la violazione
del divieto di intervento in determinate
zone senza la preventiva autorizzazione,
mentre la contravvenzione prevista dal
codice penale presuppone l’effettivo
danneggiamento delle zone protette.
L’articolo 181 D.Lv. 42/2004, il quale si
pone in sostanziale continuità con la
previgente Legge 431/1985 e la normativa
introdotta con il D.Lv. 490/1999 ora abrogato,
contempla un reato formale e di pericolo che
si perfeziona, indipendentemente dal danno
arrecato al paesaggio, con la semplice
esecuzione di interventi non autorizzati
idonei ad incidere negativamente
sull’originario assetto dei luoghi
sottoposti a protezione.
E’ di tutta evidenza, attesa la posizione di
estremo rigore del legislatore in tema di
tutela del paesaggio, che assume rilevo, ai
fini delle configurabilità del reato
contemplato dal menzionato articolo 181,
ogni intervento astrattamente idoneo ad
incidere, modificandolo, sull’originario
assetto del territorio sottoposto a vincolo
paesaggistico ed eseguito in assenza o in
difformità della prescritta autorizzazione
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.04.2012 n.
14746 - massima e file tratti da
www.lexambiente.it). |
APPALTI: Il
risarcimento del danno non è una conseguenza
automatica dell’annullamento giurisdizionale
dell’aggiudicazione, richiedendosi la
positiva verifica di tutti i requisiti
previsti, e cioè la lesione della situazione
soggettiva tutelata, la colpa
dell’Amministrazione, l’esistenza di un
danno patrimoniale e la sussistenza di un
nesso causale tra l’illecito ed il danno
subito.
Vale a dire che in caso di domanda di
risarcimento dei danni proposta nei
confronti di una pubblica Amministrazione,
al fine di stabilire se la fattispecie
concreta integri una ipotesi di
responsabilità extracontrattuale ex art.
2043 c.c., si è sempre affermato che il
giudice deve procedere, in ordine
successivo, a svolgere le seguenti indagini:
a) accertare la sussistenza di un evento
dannoso;
b) stabilire se il danno accertato sia
qualificabile come danno ingiusto, in
relazione alla sua incidenza su un interesse
rilevante per l’ordinamento, tale essendo
l’interesse indifferentemente tutelato nelle
forme del diritto soggettivo, dell’interesse
legittimo e dell’interesse di altro tipo,
pur se non immediato oggetto di tutela in
quanto preso in considerazione
dall’ordinamento a fini diversi da quelli
risarcitori;
c) accertare sotto il profilo causale,
facendo applicazione dei noti criteri
generali, se l’evento dannoso sia riferibile
ad una condotta dell’Amministrazione;
d) stabilire se l’evento dannoso sia
riferibile a dolo o colpa
dell’Amministrazione.
Per quanto riguarda l’elemento soggettivo,
in particolare, in precedenza la
giurisprudenza sosteneva che ai fini della
risarcibilità del danno ingiusto causato
dall’Amministrazione al privato –a seguito
di un atto amministrativo dichiarato
illegittimo– la presenza dell’elemento
soggettivo della colpa, ai fini
dell’imputabilità, fosse di per sé
ravvisabile nell’accertata illegittimità del
provvedimento; e anzi che il risarcimento
del danno conseguente all’illegittimità
dell’atto spettasse a prescindere
dall’indagine sulla colpa
dell’Amministrazione.
Oggi non è più invocabile il principio
secondo il quale la colpa della struttura
pubblica sarebbe in re ipsa nel caso di
esecuzione volontaria di atto amministrativo
illegittimo, poiché tale principio,
enunciato dalla giurisprudenza con
riferimento all’ipotesi di attività
illecita, per lesione di un diritto
soggettivo, secondo la tradizionale
interpretazione dell'art. 2043 c.c., non è
conciliabile con la lettura di tale
disposizione svincolata dalla lesione di un
diritto soggettivo; e l’imputazione non può
quindi avvenire sulla base del mero dato
obiettivo della illegittimità dell’azione
amministrativa, ma il giudice deve svolgere
una più penetrante indagine, non limitata al
solo accertamento dell’illegittimità del
provvedimento in relazione alla normativa ad
esso applicabile, bensì estesa anche alla
valutazione della colpa, non del funzionario
agente (da riferire ai parametri della
negligenza o imperizia), ma della P.A.
intesa come apparato, che sarà configurabile
nel caso in cui l’adozione e l’esecuzione
dell’atto illegittimo (lesivo dell’interesse
del danneggiato) sia avvenuta in violazione
delle regole di imparzialità, di correttezza
e di buona amministrazione alle quali
l'esercizio della funzione amministrativa
deve ispirarsi, e che il giudice può
valutare, in quanto si pongono come limiti
esterni alla discrezionalità.
Una nozione oggettiva, cioè, che tenga conto
dei vizi che inficiano il provvedimento,
nonché, in linea con le indicazioni della
giurisprudenza comunitaria, della gravità
della violazione commessa
dall’Amministrazione, anche alla luce
dell’ampiezza delle valutazioni
discrezionali ad essa rimesse, dei
precedenti giurisprudenziali, delle
condizioni concrete e dell’apporto dato dai
privati nel procedimento.
Pertanto, si è precisato che la
responsabilità vada affermata quando la
violazione risulti grave e commessa in un
contesto di circostanze di fatto e in un
quadro di riferimenti normativi e giuridici
tale da palesare la negligenza e l’imperizia
dell’organo nell’assunzione del
provvedimento viziato, e che viceversa vada
negata quando l’indagine conduca al
riconoscimento di un errore scusabile, per
la sussistenza di contrasti
giurisprudenziali, per l’incertezza del
quadro normativo di riferimento o per la
complessità della situazione di fatto.
---------------
Secondo la Corte di Giustizia
l’accertamento, a fini risarcitori, della
responsabilità di una pubblica
Amministrazione per violazione del diritto
comunitario deve prescindere da qualsiasi
forma di colpevolezza, anche laddove tale
accertamento sia, come era finora, di tipo
oggettivo, in quanto legata alla gravità
della violazione stessa.
Per quanto riguarda il risarcimento del danno, appunto, in giurisprudenza
si specifica tradizionalmente che esso non è
una conseguenza automatica dell’annullamento
giurisdizionale dell’aggiudicazione,
richiedendosi la positiva verifica di tutti
i requisiti previsti, e cioè la lesione
della situazione soggettiva tutelata, la
colpa dell’Amministrazione, l’esistenza di
un danno patrimoniale e la sussistenza di un
nesso causale tra l’illecito ed il danno
subito (cfr., ex multis, Cons. St., sez. V,
28.05.2004 n. 3465).
Vale a dire che in caso di domanda di
risarcimento dei danni proposta nei
confronti di una pubblica Amministrazione,
al fine di stabilire se la fattispecie
concreta integri una ipotesi di
responsabilità extracontrattuale ex art.
2043 c.c., si è sempre affermato che il
giudice deve procedere, in ordine
successivo, a svolgere le seguenti indagini:
a) accertare la sussistenza di un evento
dannoso;
b) stabilire se il danno accertato
sia qualificabile come danno ingiusto, in
relazione alla sua incidenza su un interesse
rilevante per l’ordinamento, tale essendo
l’interesse indifferentemente tutelato nelle
forme del diritto soggettivo, dell’interesse
legittimo e dell’interesse di altro tipo,
pur se non immediato oggetto di tutela in
quanto preso in considerazione
dall’ordinamento a fini diversi da quelli
risarcitori;
c) accertare sotto il profilo
causale, facendo applicazione dei noti
criteri generali, se l’evento dannoso sia
riferibile ad una condotta
dell’Amministrazione;
d) stabilire se
l’evento dannoso sia riferibile a dolo o
colpa dell’Amministrazione.
Per quanto riguarda l’elemento soggettivo,
in particolare, in precedenza la
giurisprudenza sosteneva che ai fini della
risarcibilità del danno ingiusto causato
dall’Amministrazione al privato –a seguito
di un atto amministrativo dichiarato
illegittimo– la presenza dell’elemento
soggettivo della colpa, ai fini
dell’imputabilità, fosse di per sé
ravvisabile nell’accertata illegittimità del
provvedimento (cfr., ex multis, Cass. civ.,
sez. III, 09.06.1995 n. 6542); e anzi che
il risarcimento del danno conseguente
all’illegittimità dell’atto spettasse a
prescindere dall’indagine sulla colpa
dell’Amministrazione (cfr., ex multis, Cass.
civ., sez. un., 22.10.1984 n. 5361).
Cass. Civ., Sez. Un., 22.07.1999 n. 500
ha modificato il precedente tradizionale
orientamento, affermando che non è più
invocabile il principio secondo il quale la
colpa della struttura pubblica sarebbe in re ipsa nel caso di esecuzione volontaria di
atto amministrativo illegittimo (cfr. anche
Cass., sez. I civ., 22.02.2008 n.
4539), poiché tale principio, enunciato
dalla giurisprudenza con riferimento
all’ipotesi di attività illecita, per
lesione di un diritto soggettivo, secondo la
tradizionale interpretazione dell'art. 2043
c.c., non è conciliabile con la lettura di
tale disposizione svincolata dalla lesione
di un diritto soggettivo; e l’imputazione
non può quindi avvenire sulla base del mero
dato obiettivo della illegittimità
dell’azione amministrativa, ma il giudice
deve svolgere una più penetrante indagine,
non limitata al solo accertamento
dell’illegittimità del provvedimento in
relazione alla normativa ad esso
applicabile, bensì estesa anche alla
valutazione della colpa, non del funzionario
agente (da riferire ai parametri della
negligenza o imperizia), ma della P.A.
intesa come apparato, che sarà configurabile
nel caso in cui l’adozione e l’esecuzione
dell’atto illegittimo (lesivo dell’interesse
del danneggiato) sia avvenuta in violazione
delle regole di imparzialità, di correttezza
e di buona amministrazione alle quali
l'esercizio della funzione amministrativa
deve ispirarsi, e che il giudice può
valutare, in quanto si pongono come limiti
esterni alla discrezionalità.
Una nozione oggettiva, cioè, che tenga conto
dei vizi che inficiano il provvedimento,
nonché, in linea con le indicazioni della
giurisprudenza comunitaria, della gravità
della violazione commessa
dall’Amministrazione, anche alla luce
dell’ampiezza delle valutazioni
discrezionali ad essa rimesse, dei
precedenti giurisprudenziali, delle
condizioni concrete e dell’apporto dato dai
privati nel procedimento.
Pertanto, si è precisato che la
responsabilità vada affermata quando la
violazione risulti grave e commessa in un
contesto di circostanze di fatto e in un
quadro di riferimenti normativi e giuridici
tale da palesare la negligenza e l’imperizia
dell’organo nell’assunzione del
provvedimento viziato, e che viceversa vada
negata quando l’indagine conduca al
riconoscimento di un errore scusabile, per
la sussistenza di contrasti
giurisprudenziali, per l’incertezza del
quadro normativo di riferimento o per la
complessità della situazione di fatto (cfr.,
ex multis, Cons. St., sez. V, 13.04.2010
n. 2029).
Tale nozione della colpa di tipo oggettivo,
del resto, derivava dal recepimento di
analogo orientamento della giurisprudenza
comunitaria, secondo cui:
-
gli Stati membri sono responsabili per i
danni derivati ai singoli a causa di
violazioni del diritto comunitario;
-
tale principio trova applicazione anche nel
caso in cui la violazione sia riferibile al
legislatore nazionale;
-
il risarcimento dei danni per la violazione
di diritti riconosciuti ai singoli dalla
normativa comunitaria non può essere
subordinato a comportamenti dolosi o colposi
dell’organo statale, essendo sufficiente che
l’inadempimento sia grave e manifesto e in
connessione diretta con i danni derivati
(cfr., ex multis, Corte giustizia CE,
05.03.1996 n. 46).
In altri termini, secondo il diritto
comunitario perché sussista responsabilità
extracontrattuale dello Stato è necessario
che sia stata compiuta una violazione grave
e manifesta del diritto comunitario, e una
violazione va considerata tale anche quando
lo Stato membro interessato (e, se del caso,
l’ente pubblico sub-statale) dispone di un
margine di discrezionalità considerevolmente
ridotto, se non addirittura inesistente, nel
porre in essere l’atto all’origine del
danno. L’esistenza e l’ampiezza di questo
margine di discrezionalità devono essere
determinate con riferimento esclusivo al
diritto comunitario, e per stabilire se la
violazione del diritto comunitario sia
qualificabile come grave e manifesta il
giudice nazionale deve tener conto di tutti
gli elementi che la caratterizzano, tra cui
figurano il carattere intenzionale o
involontario della violazione e del
conseguente danno, la scusabilità o
inescusabilità di un eventuale errore di
diritto, il fatto che i comportamenti di
un’istituzione comunitaria abbiano concorso
all’adozione o al mantenimento in vigore del
provvedimento contrario al diritto
comunitario (cfr. Corte giustizia CE, 04.07.2000 n. 424).
Tali criteri sono stati in tutti questi anni
utilizzati sia nella materia degli appalti,
nell’ambito della quale vengono più
facilmente in rilievo disposizioni
comunitarie da applicare che riconoscono
diritti ai singoli, e sia in qualsiasi altra
materia in cui fosse da accertare la
responsabilità di una pubblica
Amministrazione a fini risarcitori.
Tale orientamento ha visto modificare i suoi
principi cardine ad opera della pronuncia
della Corte Giustizia CE, sez. III, 30.09.2010 (causa C-314/2009), a seguito
della quale il profilo dell’accertamento
della sussistenza della colpa, sebbene nel
senso oggettivo sopra chiarito, è destinato
a perdere ogni importanza (in applicazione
di tale pronuncia vedi TAR Lombardia–Brescia, sez. II 04.11.2010 n. 4552),
essendosi affermato che “la direttiva del
Consiglio 21.12.1989, 89/665/CEE, che
coordina le disposizioni legislative,
regolamentari e amministrative relative
all’applicazione delle procedure di ricorso
in materia di aggiudicazione degli appalti
pubblici di forniture e di lavori, come
modificata dalla direttiva del Consiglio 18.06.1992, 92/50/CEE, deve essere
interpretata nel senso che essa osta ad una
normativa nazionale, la quale subordini il
diritto ad ottenere un risarcimento, a
motivo di una violazione della disciplina
sugli appalti pubblici da parte di
un’Amministrazione aggiudicatrice, al
carattere colpevole di tale violazione,
anche nel caso in cui l’applicazione della
normativa in questione sia incentrata su una
presunzione di colpevolezza in capo
all’Amministrazione suddetta, nonché
sull’impossibilità per quest’ultima di far
valere la mancanza di proprie capacità
individuali e, dunque, un difetto di
imputabilità soggettiva della violazione
lamentata”.
In sostanza, la Corte ha ritenuto che gli
Stati membri non possono subordinare la
concessione di un risarcimento al
riconoscimento del carattere colpevole della
violazione della normativa sugli appalti
pubblici commessa dall’amministrazione
aggiudicatrice.
In primo luogo la Corte, dopo aver premesso
che la direttiva 89/665 impone agli Stati
membri di adottare le misure necessarie per
garantire l’esistenza di procedure di
ricorso efficaci e, in particolare, quanto
più rapide possibile contro le decisioni
delle amministrazioni aggiudicatrici che
abbiano «violato» il diritto dell’Unione in
materia di appalti pubblici o le norme
nazionali di trasposizione di quest’ultimo,
e che per quanto riguarda, in particolare,
il mezzo di ricorso inteso ad ottenere il
risarcimento dei danni, la direttiva 89/665
stabilisce che gli Stati membri fanno sì che
i provvedimenti presi ai fini dei ricorsi
prevedano i poteri che permettano di
accordare tale risarcimento ai soggetti lesi
da una violazione, ha chiarito che,
tuttavia, la direttiva 89/665 stabilisce
solamente i requisiti minimi che le
procedure di ricorso istituite negli
ordinamenti giuridici nazionali devono
rispettare al fine di garantire l’osservanza
delle prescrizioni del diritto dell’Unione
in materia di appalti pubblici, e che in
mancanza di una disposizione specifica in
merito spetta all’ordinamento giuridico
interno di ogni Stato membro determinare le
misure necessarie per garantire che le
procedure di ricorso consentano
effettivamente di accordare un risarcimento
ai soggetti lesi da una violazione della
normativa sugli appalti pubblici.
Ora, per la Corte “il tenore letterale degli
artt. 1, n. 1, e 2, nn. 1, 5 e 6, nonché del
sesto ‘considerando’ della direttiva 89/665
non indica in alcun modo che la violazione
delle norme sugli appalti pubblici atta a
far sorgere un diritto al risarcimento a
favore del soggetto leso debba presentare
caratteristiche particolari, quale quella di
essere connessa ad una colpa, comprovata o
presunta, dell’amministrazione
aggiudicatrice, oppure quella di non
ricadere sotto alcuna causa di esonero di
responsabilità”. E tale conclusione sarebbe
suffragata, da un lato, dal fatto che gli
Stati membri possono prevedere per questo
tipo di ricorsi termini ragionevoli da
osservarsi a pena di decadenza, e ciò per
evitare che i candidati e gli offerenti
possano in qualsiasi momento allegare
violazioni della normativa suddetta, e
dall’altro dalla circostanza che gli stessi
hanno la facoltà di prevedere che, dopo la
conclusione del contratto successiva
all’aggiudicazione dell’appalto, i poteri
dell’organo responsabile delle procedure di
ricorso siano limitati alla concessione di
un risarcimento.
In tale contesto, ha precisato la Corte, “il
rimedio risarcitorio può costituire
un’alternativa procedurale compatibile con
il principio di effettività, sotteso
all’obiettivo di efficacia dei ricorsi
perseguito dalla citata direttiva […],
soltanto a condizione che la possibilità di
riconoscere un risarcimento in caso di
violazione delle norme sugli appalti
pubblici non sia subordinata –così come non
lo sono gli altri mezzi di ricorso…– alla
constatazione dell’esistenza di un
comportamento colpevole tenuto
dall’amministrazione aggiudicatrice”.
Da questo punto di vista, la Corte ha
rimarcato che, come rilevato dalla
Commissione europea, poco importa al
riguardo che la disciplina di riferimento
“non faccia gravare sul soggetto leso
l’onere della prova dell’esistenza di una
colpa dell’amministrazione aggiudicatrice,
bensì imponga a quest’ultima di vincere la
presunzione di colpevolezza su di essa
gravante, limitando i motivi invocabili a
tal fine”, perché “quest’ultima normativa
genera anch’essa il rischio che l’offerente
pregiudicato da una decisione illegittima di
un’amministrazione aggiudicatrice venga
comunque privato del diritto di ottenere un
risarcimento per il danno causato da tale
decisione, nel caso in cui l’amministrazione
suddetta riesca a vincere la presunzione di
colpevolezza su di essa gravante”.
In definitiva, secondo la Corte di Giustizia
l’accertamento, a fini risarcitori, della
responsabilità di una pubblica
Amministrazione per violazione del diritto
comunitario deve prescindere da qualsiasi
forma di colpevolezza, anche laddove tale
accertamento sia, come era finora, di tipo
oggettivo, in quanto legata alla gravità
della violazione stessa (vedi le
precisazioni di Cons. St., sez. VI,
09.03.2007 n. 1114, secondo cui dalla
sentenza della Corte di Giustizia
[14.10.2004, C-275/03] –che ha sanzionato lo
Stato del Portogallo per aver subordinato la
condanna al risarcimento dei soggetti lesi
in seguito alle violazioni del diritto
comunitario che regola la materia dei
pubblici appalti all’allegazione della
prova, da parte dei danneggiati, che gli
atti illegittimi dello Stato o degli enti di
diritto pubblico siano stati commessi
colposamente o dolosamente– non può trarsi
la conclusione che non sia più richiesto il
requisito della colpa della P.A., dal
momento che la decisione del giudice
comunitario pare riferirsi all’onere della
prova in relazione all’elemento soggettivo
della responsabilità della P.A., e non
all’esigenza di accertare la responsabilità,
prescindendo dalla colpa
dell’Amministrazione, perché
nell’ordinamento italiano la possibilità per
il privato danneggiato di utilizzare
presunzioni pone sostanzialmente a carico
della P.A. l’onere di dimostrare l’esistenza
di un errore scusabile, senza alcuna
lesione, quindi, dei principi comunitari)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. IV,
sentenza
17.04.2012 n.
1028 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Anche
se le procedure specifiche e rigorose
previste dalle direttive comunitarie che
coordinano le procedure di aggiudicazione
degli appalti pubblici si applicano soltanto
ai contratti il cui valore supera la soglia
espressamente prevista, e che pertanto le
disposizioni di tali direttive non si
applicano agli appalti il cui valore non
raggiunge la soglia fissata da queste
ultime, ciò non significa che questi appalti
siano del tutto esclusi dall’ambito di
applicazione del diritto comunitario, in
quanto le amministrazioni aggiudicatrici
sono comunque tenute a rispettare le norme
fondamentali del trattato Ce, con
particolare riferimento al principio di
parità di trattamento e non discriminazione.
Il principio espresso dalla sentenza della
Corte di Giustizia 30.09.2010 –circa
l’irrilevanza, al fine di riconoscere il
risarcimento in caso di mancata
aggiudicazione di un appalto, della
colpevolezza della riscontrata violazione di
legge– non può che essere applicato anche in
relazione agli appalti il cui importo si
collochi al di sotto della c.d. soglia
comunitaria; pena una ingiustificabile
disparità di trattamento tra imprese che
partecipano a gare sopra la soglia, che si
vedrebbero riconoscere il risarcimento in
base a tale nuovo principio, ed imprese che,
partecipando a gare sotto quella soglia, se
lo vedrebbero invece negare a causa di
difficoltà interpretative della normativa, o
della riscontrata esistenza di un
qualsivoglia errore scusabile
dell’Amministrazione.
Il
Collegio osserva che in numerose occasioni
la stessa giurisprudenza comunitaria ha
affermato che anche se le procedure
specifiche e rigorose previste dalle
direttive comunitarie che coordinano le
procedure di aggiudicazione degli appalti
pubblici si applicano soltanto ai contratti
il cui valore supera la soglia espressamente
prevista, e che pertanto le disposizioni di
tali direttive non si applicano agli appalti
il cui valore non raggiunge la soglia
fissata da queste ultime, ciò non significa
che questi appalti siano del tutto esclusi
dall’ambito di applicazione del diritto
comunitario, in quanto le amministrazioni
aggiudicatrici sono comunque tenute a
rispettare le norme fondamentali del
trattato Ce, con particolare riferimento al
principio di parità di trattamento e non
discriminazione (cfr. Tribunale I grado CE,
sez. V, 20.05.2010 n. 258; vedi anche
Corte giustizia CE, sez. I, 14.06.2007
n. 6; Id., sez. IV, 23.12.2009 n.
376).
In base a tali affermazioni, il Collegio
ritiene che il principio espresso dalla
citata sentenza della Corte di Giustizia 30.09.2010 –circa l’irrilevanza, al
fine di riconoscere il risarcimento in caso
di mancata aggiudicazione di un appalto,
della colpevolezza della riscontrata
violazione di legge– non possa che essere
applicato anche in relazione agli appalti il
cui importo si collochi al di sotto della
c.d. soglia comunitaria; pena una
ingiustificabile disparità di trattamento
tra imprese che partecipano a gare sopra la
soglia, che si vedrebbero riconoscere il
risarcimento in base a tale nuovo principio,
ed imprese che, partecipando a gare sotto
quella soglia, se lo vedrebbero invece
negare a causa di difficoltà interpretative
della normativa, o della riscontrata
esistenza di un qualsivoglia errore
scusabile dell’Amministrazione (in termini
vedi già TAR Catania, Sez. IV, 07.12.2010 n.
4624).
D’altra parte, nell’ordinamento giuridico
italiano un fenomeno interpretativo analogo
si è già riscontrato, ad esempio con
riferimento alla risarcibilità del danno da
violazione di interessi legittimi, che, come
è noto, è stata sempre tradizionalmente
negata dalla giurisprudenza, per la quale
non era configurabile un diritto al
risarcimento del danno per lesione di
interessi legittimi, con conseguente
improponibilità della relativa domanda per
difetto assoluto di giurisdizione (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. un., 21.01.1988 n. 436).
La L. 19.02.92 n. 142, recante “disposizioni
per l'adempimento di obblighi derivanti
dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità
europee (legge comunitaria per il 1991)”,
all’art. 13, relativo proprio alle
“violazioni del diritto comunitario in
materia di appalti e forniture”, aveva però
previsto che i soggetti che avessero “subìto
una lesione a causa di atti compiuti in
violazione del diritto comunitario in
materia di appalti pubblici di lavori o di
forniture o delle relative norme interne di
recepimento” potessero “chiedere
all’Amministrazione aggiudicatrice il
risarcimento del danno”, e che la domanda di
risarcimento fosse “proponibile dinanzi al
giudice ordinario”, da chi avesse ottenuto
l’annullamento dell’atto lesivo con sentenza
del giudice amministrativo.
Ma pur dopo tale disposizione, la
giurisprudenza continuava a sostenere che il
principio generale della irrisarcibilità
della lesione dell’interesse legittimo non
potesse ritenersi superato a seguito
dell’entrata in vigore del citato art. 13
della L. n. 142/1992, “trattandosi di
innovazione espressamente limitata al
settore della aggiudicazione degli appalti,
come confermato dalla successiva
legislazione in materia ed in particolare
dall’art. 32, comma 3, della l. 11.02.1994 n. 109 (legge quadro in materia di
appalti pubblici) –che estende
espressamente il principio innovativo alle
lesioni derivanti da atti compiuti in
violazione della nuova legge sui lavori
pubblici e del relativo regolamento– e
dall'art. 11, lett. i), della l. 22.02.1994 n. 146 (legge comunitaria per il 1993),
che testualmente estende la disposizione
anche agli appalti di servizio” (cfr.,
ex multis, Cass. civ., sez. un., 16.12.1994 n. 10800; vedi anche Cons. St., sez. IV,
11.12.1998 n. 1627, secondo cui l’art.
13 L. 142/1992, introducendo nell’ordinamento
la possibilità del risarcimento per la
lesione dell’interesse legittimo in materia
di appalti, avesse natura sostanziale, ed in
quanto tale non potesse trovare applicazione
relativamente a fattispecie realizzatesi
prima della sua entrata in vigore, perché
all’applicazione retroattiva della norma
ostava “la mancanza di una disposizione in
tal senso e la non sussistenza
nell'ordinamento di un principio generale in
ordine alla reintegrazione per equivalente
pecuniario della lesione di interessi
legittimi”).
Per la prima volta, e ben prima del suo
riconoscimento normativo generalizzato,
Cass. Civ., Sez. Un., 22.07.1999 n. 500,
ha però affermato il principio per cui anche
la lesione di un interesse legittimo, al
pari di quella di un diritto soggettivo o di
altro interesse giuridicamente rilevante,
può essere fonte di responsabilità aquiliana,
e quindi dar luogo a risarcimento del danno
ingiusto, a condizione che risulti
danneggiato, per effetto dell’attività
illegittima dell’Amministrazione,
l’interesse al bene della vita al quale il
primo si correla, e che detto interesse
risulti meritevole di tutela alla stregua
del diritto positivo. E questo perché ai
fini della configurabilità della
responsabilità aquiliana non assume rilievo
determinante la qualificazione formale della
posizione giuridica vantata dal soggetto,
visto che la tutela risarcitoria è
assicurata solo in relazione alla
ingiustizia del danno, che costituisce
fattispecie autonoma, contrassegnata dalla
lesione di un interesse giuridicamente
rilevante.
Tale principio, come è noto, è stato
consacrato in via generale dal legislatore,
dapprima con l’art. 7 della L. n. 205/2000,
che, nel sostituire l’art. 35 del D.Lgs. n.
80/1998, ha previsto che “il giudice
amministrativo, nelle controversie devolute
alla sua giurisdizione esclusiva, dispone,
anche attraverso la reintegrazione in forma
specifica, il risarcimento del danno
ingiusto”, e, nel sostituire il primo
periodo del terzo comma dell'art. 7 della L.
n. 1034/1971 ha previsto che “il tribunale
amministrativo regionale, nell'ambito della
sua giurisdizione, conosce anche di tutte le
questioni relative all'eventuale
risarcimento del danno, anche attraverso la
reintegrazione in forma specifica, e agli
altri diritti patrimoniali consequenziali”.
E, da ultimo, con il D.Lgs. n. 104/2010, di
approvazione del codice del processo
amministrativo, che all’art. 7, commi 4 e 5,
dispone che “sono attribuite alla
giurisdizione generale di legittimità del
giudice amministrativo le controversie
relative ad atti, provvedimenti o omissioni
delle pubbliche amministrazioni, comprese
quelle relative al risarcimento del danno
per lesione di interessi legittimi e agli
altri diritti patrimoniali consequenziali,
pure se introdotte in via autonoma. Nelle
materie di giurisdizione esclusiva, indicate
dalla legge e dall’articolo 133, il giudice
amministrativo conosce, pure ai fini
risarcitori, anche delle controversie nelle
quali si faccia questione di diritti
soggettivi”.
E il successivo art. 34, comma 1, lett. c),
prevede che “in caso di accoglimento del
ricorso il giudice, nei limiti della
domanda,…condanna al pagamento di una somma
di denaro, anche a titolo di risarcimento
del danno, all’adozione delle misure idonee
a tutelare la situazione giuridica
soggettiva dedotta in giudizio e dispone
misure di risarcimento in forma specifica ai
sensi dell’articolo 2058 del codice civile”.
Vale a dire che nel tempo la giurisprudenza,
ma anche il legislatore, si sono sempre
orientati nel senso di evitare le disparità
di trattamento che potrebbero derivare dal
differenziare, all’interno di un genere più
ampio quale può essere quello degli appalti,
quelle fattispecie alle quali alcune
normative, come quelle comunitarie, trovano
applicazione solo in ragione di presupposti
quali l’importo dell’appalto;
differenziazione che non può essere ritenuta
giuridicamente ammissibile quando a venire
in rilievo non sono le normative in senso
stretto, ma i principi di cui quelle sono
espressione, o che sono finanche esplicitati
nello stesso Trattato istitutivo della
Comunità Europea.
È proprio sulla base di considerazioni di
questo tipo, ad esempio, che in
giurisprudenza si afferma spesso che,
introdotto il principio della risarcibilità
del danno da lesione di interessi legittimi
nel campo degli appalti pubblici
disciplinati dal diritto comunitario,
risulterebbe in insanabile contrasto con il
principio di uguaglianza il mantenimento di
un orientamento di segno negativo in merito
alla tutelabilità aquiliana delle stesse
posizioni soggettive coinvolte in procedure
di gara regolate dalle norme di diritto
interno, in quanto concernenti lavori o
forniture di livello economico anche
lievemente inferiore rispetto allo standard
che rende operante la disciplina
comunitaria; per cui le procedure di
evidenza pubblica vanno applicate anche se
l’importo è al di sotto della soglia
comunitaria, in rispetto dei principi del
trattato CE a tutela della concorrenza (cfr.
Cons. St., sez. VI, 15.06.2009 n. 3829).
Sembra utile rilevare, in quest’ottica, che
il D.Lgs. 12.04.2006 n. 163 (“Codice dei
contratti pubblici relativi a lavori,
servizi e forniture, in attuazione delle
direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE”),
all’art. 27, relativo ai “principi relativi
ai contratti esclusi”, dispone che (anche)
“l’affidamento dei contratti pubblici aventi
ad oggetto lavori, servizi forniture,
esclusi, in tutto o in parte,
dall’applicazione del presente codice,
avviene nel rispetto dei principi di
economicità, efficacia, imparzialità, parità
di trattamento, trasparenza,
proporzionalità. L’affidamento deve essere
preceduto da invito ad almeno cinque
concorrenti, se compatibile con l’oggetto
del contratto (…)” (TAR Sicilia-Catania, Sez. IV,
sentenza
17.04.2012 n.
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APPALTI: Sul
pregiudizio risarcibile all'impresa che si è
vista lesionata dal non corretto svolgimento
della gara d'appalto.
L’operato
dell’Amministrazione ha violato l’interesse
legittimo della ricorrente ad un corretto
svolgimento della gara, al quale era sotteso
l’interesse pretensivo al c.d. “bene della
vita”, rappresentato, in questo caso,
dall’aggiudicazione della gara stessa.
Il nesso causale sussiste anch’esso, perché
con una corretta applicazione delle
disposizioni regolatrici della procedura, la
ricorrente si sarebbe vista aggiudicare la
gara. E tale violazione ha poi determinato
un sicuro danno patrimoniale alla
ricorrente, perché avrebbe lucrato il c.d
utile d’impresa.
Si tratta allora di liquidare
concretamente il danno, cioè determinare la
misura dell’obbligazione pecuniaria dovuta
in sostituzione del bene della vita perduto.
Appare utile, a tal riguardo, rammentare
che, in generale, il pregiudizio risarcibile
si compone, secondo la definizione dell’art.
1223 cod. civ., del danno emergente e del
lucro cessante, e cioè della diminuzione
reale del patrimonio del privato, per
effetto di esborsi connessi alla (inutile)
partecipazione al procedimento, e della
perdita di un’occasione di guadagno o,
comunque, di un’utilità economica connessa
all’adozione o all’esecuzione del
provvedimento illegittimo.
Se per la prima voce di danno non si pongono
particolari problemi nell’assolvimento
dell'onere della prova, perché è sufficiente
documentare le spese sostenute, che in
questo caso non sono state provate, e che
comunque il Collegio non ritiene risarcibili
(cfr. Cons. St., sez. IV, 07.09.2010 n.
6485), per la seconda si configurano,
viceversa, rilevanti difficoltà.
Per avere accesso al risarcimento, infatti,
il privato deve dimostrare non solo che la
sua sfera giuridica ha subito una
diminuzione per effetto dell’atto
illegittimo, ma che non si è accresciuta
nella misura che avrebbe raggiunto se il
provvedimento viziato non fosse stato
adottato o eseguito.
In precedenza, sia il legislatore che la
giurisprudenza hanno sentito l’esigenza di
ricorrere a criteri presuntivi ed astratti
di determinazione del danno.
Il primo ha individuato un preciso canone
per la determinazione del pregiudizio
connesso alla perdita di un’occasione di
successo in una procedura concorsuale,
definendo, con l’art. 35 del D.Lgs. n. 80/1998
(ora abrogato dal n. 20 del comma 1
dell’art. 4 dell’allegato 4 al D.Lgs. 02.07.2010 n. 104), un peculiare metodo di
liquidazione del danno fondato proprio sulla
definizione giudiziale di parametri
valutativi indeterminati.
La giurisprudenza amministrativa ha invece
individuato in via equitativa, ex art. 1226
c.c., un riferimento positivo, applicato
analogicamente in materia di appalti sia di
servizi che di forniture, prima nell’art.
345 della L. 20.03.1865 n. 2248, allegato
F, poi nell’art. 122 del D.P.R. 21.12.1999 n. 554, nell’art. 37-septies, comma 1,
lett. c, della l. 11.02.1994 n. 109, e
infine nell’art. 134 del D.Lgs. 163/2006;
tutte disposizioni che quantificano nel 10%
“dell’importo delle opere non eseguite”
l’importo da corrispondere all’appaltatore
in caso di recesso facoltativo
dell’Amministrazione, nella determinazione
forfettaria ed automatica del margine di
guadagno presunto nell’esecuzione di appalti
di lavori pubblici (cfr., ex multis, Cons.
St., sez. IV, 06.07.2004 n. 5012; Id.,
sez. V, 30.07.2008 n. 3806).
Tale orientamento, peraltro molto diffuso,
non era però seguito in maniera unanime,
sostenendosi anche che ai fini del
risarcimento dei danni provocati da
illegittimo esercizio del potere
amministrativo il soggetto che avanza la
domanda di risarcimento deve fornire in modo
rigoroso la prova dell'esistenza del danno,
non potendosi invocare il c.d. principio
acquisitivo, perché tale principio attiene
allo svolgimento dell'istruttoria e non
all'allegazione dei fatti. Inoltre, nel
processo amministrativo non sarebbero
ammissibili domande di condanna generica ex
art. 278 c.p.c., e il ricorso alla c.d.
"sentenza sui criteri" –ex art. 35, comma
2, d.lgs. n. 80/1998– di liquidazione del
danno postula che sia stata accertata
l’esistenza del danno stesso e che il
giudice sia in grado di individuare i
criteri generali che saranno di guida per la
formulazione dell'offerta da parte della
P.A. (cfr. Cons. St., sez. V, 13.06.2008
n. 2967).
Alla luce di quanto ora disposto dall’art.
124 del citato D.Lgs. 104/2010, relativo
alla “tutela in forma specifica e per
equivalente”, ai sensi del quale “se il
giudice non dichiara l’inefficacia del
contratto dispone il risarcimento del danno
per equivalente, subìto e provato”, il
Collegio ritiene che tale orientamento più
rigoroso vada condiviso, ma che esso non sia
incompatibile con il precedente indirizzo.
Vale a dire che secondo il Collegio la
ricorrente ha assolto l’onere probatorio
previsto dall’art. 2697 c.c., secondo cui
chi agisce in giudizio deve fornire la prova
dei fatti costitutivi della domanda, poiché
l’esistenza ("an") del danno è stata provata
in modo univoco, dato che con la corretta
applicazione delle regole di gara la
ricorrente sarebbe stata l’aggiudicataria, e
avrebbe quindi lucrato il c.d utile
d’impresa, visto che deve darsi come dato
acquisito quello per cui ogni impresa
esercita la propria attività perché vi
realizza un guadagno.
E gli elementi prodotti in giudizio sono
quindi sufficienti ad emettere una pronuncia
che statuisca sul "quantum" spettante a
titolo di riparazione pecuniaria, tenendo
conto del fatto che, in materia di illeciti
civili in generale, la prova del danno può
essere articolata con ogni mezzo, ivi
comprese le allegazioni e le presunzioni
semplici di cui agli artt. 2727 e 2729 c.c.
(cfr., ex multis, Cass. civ., sez. III, 13.06.2008 n. 15986, con la precisazione
che la relativa dimostrazione deve comunque
risultare idonea a consentire al giudice, in
applicazione della regula iuris di cui
all'art. 116 c.p.c., una valutazione in
concreto –e cioè caso per caso, anche a
prescindere da mere regole statistiche–
dell’assunto attoreo, rappresentato in
termini consequenziali di verificazione
dell’evento di danno/conseguenza
ingiustamente dannosa, secondo la regola di
inferenza probatoria del «più probabile che
non»).
Pertanto, per quanto già precisato, il
Collegio ritiene che sia stata accertata
l’esistenza del danno stesso, e in
particolare di quello derivante dal mancato
guadagno inevitabilmente derivante dalla
mancata esecuzione dei lavori, e anche del
danno legato all’impossibilità di vantare in
futuro quello specifico appalto nel proprio
curriculum d’impresa, cioè la mancata
acquisizione di requisiti di qualificazione
e di valutazione, invocabili in successive
gare.
C’è anche da dire che nel caso in cui le
circostanze di fatto relative ad una
fattispecie sottoposta a sindacato
giurisdizionale siano state analiticamente
ricostruite da una delle parti in causa, e
non siano state espressamente contestate
dall’altra nella loro veridicità, tali
circostanze possono anche essere considerate
argomenti di prova, alla luce del principio
di necessaria valutazione del contegno
globale delle parti e delle loro tesi
difensive, ex art. 116, comma 2, c.p.c.:
infatti, il comportamento processuale della
parte può costituire unica e sufficiente
fonte di prova e di convincimento del
giudice, e non soltanto elemento di
valutazione delle prove già acquisite al
processo (cfr. Cons. St., sez. V, 13.06.2008 n. 2967).
Pertanto, per quanto riguarda il mancato
utile d’impresa in relazione alla parte di
lavori non eseguiti, il Collegio ritiene di
dover riconoscere, ai sensi del citato art.
1226 c.c., un risarcimento del danno nella
misura del 10% dell’importo delle stesse,
come determinato a seguito del ribasso
offerto dalla ricorrente.
C’è poi da dire che l’impresa ingiustamente
privata dell’esecuzione di un appalto può
rivendicare, a titolo di lucro cessante,
anche la perdita della specifica possibilità
concreta di incrementare il proprio
avviamento per la parte relativa al
curriculum professionale, da intendersi
anche come immagine e prestigio
professionale, al di là dell’incremento
degli specifici requisiti di qualificazione
e di partecipazione alle singole gare (cfr.,
ex multis, Cons. St., sez. IV, 27.11.2010 n. 8253).
In particolare, il danno che l’impresa
riceverà in futuro dal mancato inserimento
di questo specifico appalto nel proprio
curriculum d’impresa, cioè il risarcimento
del danno futuro, sia in termini di danno
emergente che di lucro cessante, non può
compiersi in base ai medesimi criteri di
certezza che presiedono alla liquidazione
del danno già completamente verificatosi nel
momento del giudizio, e deve avvenire
secondo un criterio di rilevante
probabilità; a tal fine, il rischio concreto
di pregiudizio è configurabile come danno
futuro ogni volta che l’effettiva
diminuzione patrimoniale appaia come il
naturale sviluppo di fatti concretamente
accertati ed inequivocamente sintomatici di
quella probabilità, secondo un criterio di
normalità fondato sulle circostanze del caso
concreto (cfr., ex multis, Cass. civ., sez.
III, 27.04.2010 n. 10072).
Probabilità che, in fattispecie come quella
in esame, è certamente elevata, essendo
legata alla normale attività d’impresa,
fondata su una necessaria costante
partecipazione alle gare d’appalto.
Motivo per il quale il Collegio ritiene che
la voce di danno in questione possa essere
ragionevolmente quantificata in misura pari
al 3% dell’offerta economica avanzata
(TAR Sicilia-Catania, Sez. IV,
sentenza
17.04.2012 n.
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APPALTI: In
caso di annullamento dell’aggiudicazione, e
di certezza dell’aggiudicazione in favore
del ricorrente, il mancato utile spetta
nella misura integrale solo se il ricorrente
dimostri di non aver potuto altrimenti
utilizzare maestranze e mezzi, tenuti a
disposizione in vista dell’aggiudicazione;
in difetto di tale dimostrazione, è da
ritenere che l’impresa possa aver
ragionevolmente riutilizzato mezzi e
manodopera per altri lavori o servizi, e di
qui la decurtazione del risarcimento. Si
tratta di un’applicazione del principio
dell’aliunde perceptum, in base al quale,
onde evitare che a seguito del risarcimento
il danneggiato possa trovarsi in una
situazione addirittura migliore rispetto a
quella in cui si sarebbe trovato in assenza
dell’illecito, dall’importo dovuto a titolo
risarcitorio va detratto quanto da lui
percepito grazie allo svolgimento di diverse
attività lucrative, nel periodo in cui
avrebbe dovuto eseguire l’appalto in
contestazione.
In sostanza, l’onere di provare (l’assenza
del)l’aliunde perceptum viene fatto gravare
non sull’Amministrazione, ma sull’impresa, e
tale ripartizione muove dalla presunzione, a
sua volta fondata sull’id quod plerumque
accidit, secondo cui l’imprenditore (specie
se in forma societaria), in quanto soggetto
che esercita professionalmente una attività
economica organizzata finalizzata alla
produzione di utili, normalmente non rimane
inerte in caso di mancata aggiudicazione di
un appalto, ma si procura prestazioni
contrattuali alternative, dalla cui
esecuzione trae utili.
Ma come già precisato da questa Sezione, in
base all’art. 2697 c.c., “chi vuol far
valere un diritto in giudizio deve provare i
fatti che ne costituiscono il fondamento”, e
“chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti
ovvero eccepisce che il diritto si è
modificato o estinto deve provare i fatti su
cui l'eccezione si fonda”.
Quindi, non è condivisibile che debba essere
l’impresa a fornire tale dimostrazione,
perché in generale l’attore-danneggiato deve
provare i fatti costitutivi del diritto
dedotto in giudizio, ma non anche dimostrare
che non ricorrono, nel caso, fatti
impeditivi, modificativi o estintivi; e
questo sia perché l’onere di provare i fatti
estintivi e modificativi del credito spetta
alla parte debitrice, cioè nella fattispecie
al Comune, nei cui confronti è stata
indirizzata la domanda di risarcimento, sia
perché la regola di giudizio seguita di
solito dalla giurisprudenza conduce a
manifeste aporie applicative.
Spesso la giurisprudenza afferma che in
caso di annullamento dell’aggiudicazione, e
di certezza dell’aggiudicazione in favore
del ricorrente, il mancato utile spetta
nella misura integrale solo se il ricorrente
dimostri di non aver potuto altrimenti
utilizzare maestranze e mezzi, tenuti a
disposizione in vista dell’aggiudicazione;
in difetto di tale dimostrazione, è da
ritenere che l’impresa possa aver
ragionevolmente riutilizzato mezzi e
manodopera per altri lavori o servizi, e di
qui la decurtazione del risarcimento (cfr.,
ex multis, Cons. St., sez. VI, 21.09.2010 n. 7004). Si tratta di un’applicazione
del principio dell’aliunde perceptum, in
base al quale, onde evitare che a seguito
del risarcimento il danneggiato possa
trovarsi in una situazione addirittura
migliore rispetto a quella in cui si sarebbe
trovato in assenza dell’illecito,
dall’importo dovuto a titolo risarcitorio va
detratto quanto da lui percepito grazie allo
svolgimento di diverse attività lucrative,
nel periodo in cui avrebbe dovuto eseguire
l’appalto in contestazione.
In sostanza, l’onere di provare (l’assenza
del)l’aliunde perceptum viene fatto gravare
non sull’Amministrazione, ma sull’impresa, e
tale ripartizione muove dalla presunzione, a
sua volta fondata sull’id quod plerumque
accidit, secondo cui l’imprenditore (specie
se in forma societaria), in quanto soggetto
che esercita professionalmente una attività
economica organizzata finalizzata alla
produzione di utili, normalmente non rimane
inerte in caso di mancata aggiudicazione di
un appalto, ma si procura prestazioni
contrattuali alternative, dalla cui
esecuzione trae utili (cfr. Cons. St., sez.
VI, 09.06.2008 n. 2751).
Ma come già precisato da questa Sezione
(vedi sentenza 07.12.2010 n. 4624), in base
all’art. 2697 c.c., “chi vuol far valere un
diritto in giudizio deve provare i fatti che
ne costituiscono il fondamento”, e “chi
eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero
eccepisce che il diritto si è modificato o
estinto deve provare i fatti su cui
l'eccezione si fonda”.
Quindi, non è condivisibile che debba essere
l’impresa a fornire tale dimostrazione,
perché in generale l’attore-danneggiato deve
provare i fatti costitutivi del diritto
dedotto in giudizio, ma non anche dimostrare
che non ricorrono, nel caso, fatti
impeditivi, modificativi o estintivi (cfr.
Cass. civ., sez. III, 25.09.1998 n.
9588); e questo sia perché l’onere di
provare i fatti estintivi e modificativi del
credito spetta alla parte debitrice, cioè
nella fattispecie al Comune, nei cui
confronti è stata indirizzata la domanda di
risarcimento, sia perché la regola di
giudizio seguita di solito dalla
giurisprudenza conduce a manifeste aporie
applicative.
Infatti, il principio messo a punto dalla
giurisprudenza, qualora portato alle estreme
conseguenze logiche, finirebbe per
precludere in ogni caso il risarcimento del
danno per mancato utile, e ciò perché, anche
nell’ipotesi in cui l’impresa non avesse
percepito alcunché per attività lucrative
diverse da quelle derivanti dall’esecuzione
del contratto non aggiudicato, la stessa non
potrebbe mai sperare nell’attribuzione
giurisdizionale di un qualunque ristoro in
ragione dell’impossibilità, o quanto meno
della eccessiva difficoltà, di provare un
fatto negativo (consistente, per l’appunto,
nel non aver beneficiato di alcun aliunde
perceptum).
Inoltre, si perverrebbe al riconoscimento di
una legittimazione sostanziale al
risarcimento soltanto in capo a quelle
imprese le quali, durante l’intero
svolgimento della vicenda procedimentale e
del processo, siano rimaste del tutto
inattive, o, peggio, siano fallite, perché
soltanto in questo caso sarebbe, forse,
dimostrabile il mancato guadagno (cfr. in
termini Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., sez
giurisd., 21.09.2010 n. 1226).
E d’altra parte, anche in materia di
determinazione dei danni conseguenti a
licenziamento illegittimo, in cui
frequentemente viene in rilievo il problema
di eventuale guadagno aliunde perceptum, si
afferma che è il datore di lavoro, che
eccepisca l’"aliunde perceptum" in relazione
a redditi del lavoratore maturati dopo la
proposizione della domanda, ad avere l’onere
della allegazione e della relativa prova
(cfr., ex multis, Cass. civ., sez. lav.,
01.09.2000 n. 11487; Id., sez. lav., 19.01.2006 n. 945).
Ciò non toglie che nel valutare il danno il
giudice ha il potere –in base a contrari
elementi acquisiti al giudizio o
eventualmente anche a dati di comune
conoscenza– di negare il risarcimento, o di
ridurlo, nella misura in cui ritenga
dimostrato, rispettivamente, che con l’uso
dell’ordinaria diligenza questa perdita
avrebbe potuto essere in tutto o in parte
evitata, o lo è stata effettivamente (cfr.
Cass. civ., sez. III, 25.09.1998 n. 9588)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. IV,
sentenza
17.04.2012 n.
1028 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
tutela dell'istante, prima limitata alla
visione degli atti, viene oggi estesa
all'onnicomprensivo concetto di "accesso" che –secondo la definizione
contenuta nell'art. 22, comma 1, lettera a),
della L. 241/1990, come sostituito dall'art.
15 della L. 15/2005– include sia la visione
degli atti che l'estrazione di copia.
E a dimostrazione del fatto che non vi è una
sfera considerata di assoluta riservatezza
lo stesso comma 7 aggiunge che l'accesso,
sebbene solo “nei limiti in cui sia
strettamente indispensabile”, è consentito
anche “nel caso di documenti contenenti dati
sensibili e giudiziari”, e finanche “in caso
di dati idonei a rivelare lo stato di salute
e la vita sessuale”, in quest’ultimo caso
“nei termini previsti dall'articolo 60 del
decreto legislativo 30.06.2003, n. 196”, ai
sensi del quale “quando il trattamento
concerne dati idonei a rivelare lo stato di
salute o la vita sessuale, il trattamento è
consentito se la situazione giuridicamente
rilevante che si intende tutelare con la
richiesta di accesso ai documenti
amministrativi è di rango almeno pari ai
diritti dell'interessato, ovvero consiste in
un diritto della personalità o in un altro
diritto o libertà fondamentale e
inviolabile”.
Senza contare poi che l’art. 59 del medesimo
D. Lgs.vo 196/2003, relativo proprio
all’”accesso a documenti amministrativi”,
dispone che “fatto salvo quanto previsto
dall'articolo 60, i presupposti, le
modalità, i limiti per l'esercizio del
diritto di accesso a documenti
amministrativi contenenti dati personali, e
la relativa tutela giurisdizionale, restano
disciplinati dalla legge 07.08.1990, n. 241,
e successive modificazioni e dalle altre
disposizioni di legge in materia, nonché dai
relativi regolamenti di attuazione, anche
per ciò che concerne i tipi di dati
sensibili e giudiziari e le operazioni di
trattamento eseguibili in esecuzione di una
richiesta di accesso. Le attività
finalizzate all'applicazione di tale
disciplina si considerano di rilevante
interesse pubblico”.
L’art. 22 della L. n. 241/1990, ai commi 2 e 3, precisa che “l’accesso ai
documenti amministrativi, attese le sue
rilevanti finalità di pubblico interesse,
costituisce principio generale dell'attività
amministrativa al fine di favorire la
partecipazione e di assicurarne
l'imparzialità e la trasparenza, ed attiene
ai livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali che
devono essere garantiti su tutto il
territorio nazionale…”, e che “tutti i
documenti amministrativi sono accessibili,
ad eccezione di quelli indicati all'articolo
24, commi 1, 2, 3, 5 e 6”.
In precedenza, e cioè prima delle recenti
modifiche normative, l’art. 24 prevedeva in
effetti, al comma 4, l’obbligo per le
singole amministrazioni “di individuare, con
uno o più regolamenti…, le categorie di
documenti da esse formati o comunque
rientranti nella loro disponibilità
sottratti all'accesso per le esigenze di cui
al comma 2”, tra le quali era compresa, alla
lett. d), quella di salvaguardare “la
riservatezza di terzi, persone, gruppi ed
imprese, garantendo peraltro agli
interessati la visione degli atti relativi
ai procedimenti amministrativi, la cui
conoscenza sia necessaria per curare o per
difendere i loro interessi giuridici”.
Ma il nuovo art. 24, come sostituito
dall'art. 16 L. 11.02.2005 n. 15, al
comma 1 esclude il diritto di accesso
(solo):
a) per i documenti coperti da segreto di
Stato, e nei casi di segreto o di divieto di
divulgazione espressamente previsti dalla
legge, dal regolamento governativo di cui al
comma 6 e dalle pubbliche amministrazioni ai
sensi del comma 2;
b) nei procedimenti tributari;
c) nei confronti dell'attività della
pubblica amministrazione diretta
all'emanazione di atti normativi,
amministrativi generali, di pianificazione e
di programmazione;
d) nei procedimenti selettivi, nei confronti
dei documenti amministrativi contenenti
informazioni di carattere psicoattitudinale
relativi a terzi.
Per il comma 2, “le singole pubbliche
amministrazioni individuano le categorie di
documenti da esse formati o comunque
rientranti nella loro disponibilità
sottratti all'accesso ai sensi del comma 1”,
e quindi solo per quei documenti che
rientrino nelle categorie espressamente
previste dal legislatore, fermo restando,
come chiarito dal comma 3, che “non sono
ammissibili istanze di accesso preordinate
ad un controllo generalizzato dell'operato
delle pubbliche amministrazioni”.
Oltretutto, il comma 5 precisa che gli
stessi “documenti contenenti informazioni
connesse agli interessi di cui al comma 1
sono considerati segreti solo nell'ambito e
nei limiti di tale connessione”.
Infine, il comma 6 disciplina i casi in cui
il Governo può, con proprio regolamento,
prevedere casi di sottrazione all'accesso di
documenti amministrativi, e anche per
tutelare la vita privata o la riservatezza
di persone fisiche e giuridiche.
In definitiva, con specifico riferimento ai
rapporti tra accesso e riservatezza, la
nuova disciplina contenuta nell'art. 24
della L. 241/1990, come sostituito dall'art.
16 della L. 15/2005, appresta al primo una
tutela più ampia che in passato, sotto due
distinti profili.
Innanzitutto, l'individuazione dei casi in
cui l'accesso può essere escluso per
ragioni, tra l'altro, di riservatezza, può
aver luogo solo con il regolamento
governativo (comma 6, lett. d), mentre alle
singole amministrazioni viene sottratta ogni
potestà d'intervento in materia. Tale
conclusione si trae inequivocabilmente dalla
scomparsa, nel nuovo testo normativo, della
disposizione in precedenza contenuta nel
comma 4 (obbligo per le singole
amministrazioni "di individuare con uno o
più regolamenti da emanarsi entro i sei mesi
successivi le categorie di documenti da esse
formati o comunque rientranti nella loro
disponibilità sottratti all'accesso per le
esigenze di cui al comma 2"), mentre la
nuova similare disposizione ora introdotta
nel comma 2 ("Le singole pubbliche
amministrazioni individuano le categorie di
documenti da esse formati o comunque
rientranti nella loro disponibilità
sottratti all'accesso ai sensi del comma 1")
è tuttavia riferita alle sole ipotesi di cui
al primo comma, tra le quali non rientra la
tutela della riservatezza (cfr. TAR
Piemonte, sez. II, 25.02.2006 n.
1127).
In secondo luogo, mentre nell'originaria
versione dell'art. 24, secondo quanto
prevedeva il comma 2, lettera d), l'accesso
a documenti riservati era limitato alla sola
“visione” degli atti amministrativi
necessari alla cura dei propri interessi,
nell'attuale versione dell'art. 24, come
sostituito dall'art. 16 della legge 15/2005,
tale previsione è stata sostituita dal nuovo
comma 7, ai sensi del quale "deve comunque
essere garantito ai richiedenti l'accesso ai
documenti amministrativi la cui conoscenza
sia necessaria per curare o per difendere i
propri interessi giuridici".
In sostanza, la tutela dell'istante, prima
limitata alla visione degli atti, viene
quindi estesa all'onnicomprensivo concetto
di "accesso" che –secondo la definizione
contenuta nell'art. 22, comma 1, lettera a),
della L. 241/1990, come sostituito dall'art.
15 della L. 15/2005– include sia la visione
degli atti che l'estrazione di copia.
E a dimostrazione del fatto che non vi è una
sfera considerata di assoluta riservatezza
lo stesso comma 7 aggiunge che l'accesso,
sebbene solo “nei limiti in cui sia
strettamente indispensabile”, è consentito
anche “nel caso di documenti contenenti dati
sensibili e giudiziari”, e finanche “in caso
di dati idonei a rivelare lo stato di salute
e la vita sessuale”, in quest’ultimo caso
“nei termini previsti dall'articolo 60 del
decreto legislativo 30.06.2003, n. 196”,
ai sensi del quale “quando il trattamento
concerne dati idonei a rivelare lo stato di
salute o la vita sessuale, il trattamento è
consentito se la situazione giuridicamente
rilevante che si intende tutelare con la
richiesta di accesso ai documenti
amministrativi è di rango almeno pari ai
diritti dell'interessato, ovvero consiste in
un diritto della personalità o in un altro
diritto o libertà fondamentale e
inviolabile”.
Senza contare poi che l’art. 59 del medesimo
D. Lgs.vo 196/2003, relativo proprio
all’”accesso a documenti amministrativi”,
dispone che “fatto salvo quanto previsto
dall'articolo 60, i presupposti, le
modalità, i limiti per l'esercizio del
diritto di accesso a documenti
amministrativi contenenti dati personali, e
la relativa tutela giurisdizionale, restano
disciplinati dalla legge 07.08.1990, n.
241, e successive modificazioni e dalle
altre disposizioni di legge in materia,
nonché dai relativi regolamenti di
attuazione, anche per ciò che concerne i
tipi di dati sensibili e giudiziari e le
operazioni di trattamento eseguibili in
esecuzione di una richiesta di accesso. Le
attività finalizzate all'applicazione di
tale disciplina si considerano di rilevante
interesse pubblico” (per considerazioni
identiche a quelle finora espresse, cfr.
Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 04.07.2007 n.
558, che ha confermato la sentenza di questa
Sezione n. 1194 del 20.07.2006).
Oltretutto, la ricorrente ha dimostrato di
essere titolare di un interesse diretto,
concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e
collegata ai documenti ai quali è chiesto
l'accesso, in quanto ha la necessità di
conoscere gli atti relativi al procedimento
di realizzazione del Primo bacino in
Riposto, al fine di avere contezza della
reale possibilità che sia data corso alla
sua istanza di concessione del suddetto "Primo
Bacino"
(TAR Sicilia-Catania, Sez. IV,
sentenza
17.04.2012 n.
1025 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' illegittima l'ordinanza di
demolizione la quale dispone l’acquisizione
al patrimonio indisponibile del Comune oltre
che delle opere abusive (sopraelevazione del
piano terra, con una superficie di mq.
60,44), anche dell’“area su cui le medesime
insistono”.
Invero, la predetta acquisizione, disposta
come conseguenza della mancata ottemperanza
all'ingiunzione di demolizione, non comporta
affatto l'ablazione anche dell'area di
sedime del preesistente fabbricato posto al
piano, in quanto l'art. 7 della legge
28.02.1985, n. 47, se rende necessaria anche
l'acquisizione gratuita della
sopraelevazione abusiva di un fabbricato che
per la restante parte risulta legittimamente
realizzato, la estende esclusivamente alla
parte del lastrico solare che rappresenta
l'effettiva area di sedime dell'abuso, senza
incidere sull'area materialmente e
giuridicamente impegnata urbanisticamente
dalle altre parti dell'edificio che possono
essere viceversa conservate.
---------------
L’atto di acquisizione gratuita delle opere
abusive deve considerarsi consequenziale e
connesso all'ordine di demolizione delle
opere e ripristino dello stato primitivo dei
luoghi, per cui la mancata impugnativa nei
termini dell’ingiunzione a demolire
determina l’inammissibilità del ricorso
proposto avverso l’acquisizione al
patrimonio indisponibile comunale.
Il presente ricorso merita
accoglimento limitatamente al secondo motivo
di gravame, con il quale si censura per vizi
propri l’impugnata ordinanza, nella parte in
cui dispone l’acquisizione al patrimonio
indisponibile del Comune, oltre che delle
opere abusive (sopraelevazione del piano
terra, con una superficie di mq. 60,44),
anche dell’“area su cui le medesime
insistono”.
Ed invero, la predetta acquisizione,
disposta come conseguenza della mancata
ottemperanza all'ingiunzione di demolizione,
non comporta affatto l'ablazione anche
dell'area di sedime del preesistente
fabbricato posto al piano, in quanto l'art.
7 della legge 28.02.1985, n. 47, se
rende necessaria anche l'acquisizione
gratuita della sopraelevazione abusiva di un
fabbricato che per la restante parte risulta
legittimamente realizzato, la estende
esclusivamente alla parte del lastrico
solare che rappresenta l'effettiva area di sedime dell'abuso, senza incidere sull'area
materialmente e giuridicamente impegnata
urbanisticamente dalle altre parti
dell'edificio che possono essere viceversa
conservate (in tal senso, TAR Lazio
Latina, 26.03.1997, n. 236; TAR
Campania Napoli, sez. VII, 19.02.2009, n. 970).
---------------
L’atto di
acquisizione gratuita delle opere abusive
deve considerarsi consequenziale e connesso
all'ordine di demolizione delle opere e
ripristino dello stato primitivo dei luoghi,
per cui la mancata impugnativa nei termini
dell’ingiunzione a demolire determina
l’inammissibilità del ricorso proposto
avverso l’acquisizione al patrimonio
indisponibile comunale (cfr., da ultimo,
TAR Sicilia, sez. II, 09.09.2008;
n. 1155, 29.04.2009, n. 806; 10.06.2011, n.
1099) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza
17.04.2012 n.
789 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Aver nascosto le proprie intenzioni al
cedente non configura una violazione dei
doveri di buona fede.
Niente danno per l'area edificabile.
Il venditore non va risarcito se il
compratore trasferisce la volumetria
realizzabile.
Il venditore di un terreno non può chiedere
i danni al compratore che, dopo la stipula,
trasferisce su quell'area l'edificabilità di
un altro suolo di sua proprietà, facendo
così lievitare notevolmente il valore
dell'immobile.
L'incremento derivante dal rilascio della
concessione edilizia, infatti, deriva solo
dalle capacità manageriali dell'acquirente e
non danneggia in alcun modo il venditore che
ha trasferito il bene al prezzo di mercato
in base alla diversa qualificazione
giuridica dell'area. Né, ai fini del
risarcimento del danno, si possono
considerare violate le regole della buona
fede e della lealtà nel corso della
trattativa, dal momento che l'obbligo
informativo non arriva a comprendere
l'esternazione dei motivi in base ai quali
si intende concludere una transazione
immobiliare.
Sono queste le importanti conclusioni
raggiunte dalla Corte di Cassazione con la
sentenza
16.04.2012 n. 5965, che ha respinto il ricorso per
risarcimento del danno in conseguenza della
vendita di un terreno per vizio del
consenso.
I giudizi di merito
Il tribunale ravvisava la violazione
dell'obbligo di buona fede e tutela
dell'affidamento da parte dell'acquirente
per avere taciuto che sul terreno oggetto
della vendita, prima del rogito, era stata
trasferita una potenzialità edificatoria. Il
terreno, in sostanza, era stato ceduto al
prezzo di un'area non edificabile e non a
quello maggiore che sarebbe stato richiesto
se il venditore ne avesse conosciuto la
nuova natura.
I giudici di appello, però, nel riformare la
decisione hanno rilevato che la società
acquirente aveva presentato al Comune un
progetto per la riqualificazione di un
capannone industriale. Il progetto, su
richiesta dell'ente locale, era stato
modificato e la società aveva assunto
l'impegno di trovare una nuova area sulla
quale trasferire l'edificabilità di un altro
terreno, sempre di sua proprietà. Per questo
motivo aveva stipulato il preliminare con il
venditore per l'acquisto dell'area che, in
base al certificato di destinazione
urbanistica, risultava a verde pubblico.
La
stessa classificazione sussisteva anche al
momento della stipula del definitivo, mentre
solo dopo due anni era stata concessa
l'edificabilità. Pertanto, la concessione
edilizia era il frutto di un'attività
nell'ambito di un progetto imprenditoriale
che, pertanto, non valeva nessun
risarcimento al ricorrente.
Il giudizio di legittimità
Anche la Cassazione ha respinto il ricorso
del venditore e stabilito stabilito che non
è ravvisabile né la violazione di un obbligo
di informazione, né la volontà di ottenere
migliori condizioni di prezzo. Infatti, il
programmato utilizzo del bene da parte
dell'acquirente è divenuto possibile solo
grazie al fatto che era proprietario di
altri terreni con un'edificabilità
suscettibile di essere trasferita. In
sostanza, il maggior valore del suolo è
«conseguenza del minor valore di altri
terreni dell'acquirente che hanno
definitivamente perso l'attitudine
edificatoria», con la conseguenza che «non
solo il venditore non può dirsi danneggiato,
ma addirittura l'accoglimento della sua
pretesa si risolverebbe in un suo
ingiustificato arricchimento con danno della
controparte».
Durante la trattativa il contraente non ha
diritto di occultare i fatti la cui
conoscenza è indispensabile alla controparte
per una corretta formazione della volontà,
ma l'obbligo informativo non può essere
esteso fino al punto di dover manifestare
anche i motivi per i quali si stipula il
contratto consentendo all'altra parte di
trarne vantaggio.
---------------
Il caso
01|IL FATTO
Dopo la stipula, l'acquirente di un'area non
edificabile ne aumenta di molto il valore
trasferendovi l'edificabilità di un'altra
area di sua proprietà. Il venditore chiede i
danni per violazione della buona fede
02|LA SENTENZA
La Cassazione nega i danni in quanto non si
configura la violazione dell'obbligo di
informazione (che non si può spingere fino a
dover manifestare i motivi per cui si
intende acquistare) e il maggior valore del
terreno in questione è stato ottenuto
diminuendo il valore di un altro terreno
dell'acquirente di cui è stata trasferita
l'edificabilità
(articolo Il Sole 24
Ore del 30.04.2012). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione della domanda di rilascio di
concessione in sanatoria per abusi edilizi
impone al Comune la sua disamina e
l'adozione dei provvedimenti conseguenti, di
talché gli atti, repressivi dell'abuso, in
precedenza adottati perdono efficacia,
restando ferma la necessità di
riproposizione di motivi aggiunti in caso di
rigetto dell'istanza di sanatoria.
E’ dunque improcedibile il ricorso
introduttivo per sopravvenuta carenza di
interesse, e ciò in quanto il riesame
dell'abusività dell'opera provocato da tale
istanza, sia pure al fine di verificare
l'eventuale sanabilità di quanto costruito,
ha comportato ex se la formazione di un
nuovo provvedimento di rigetto che supera il
provvedimento sanzionatorio oggetto
dell'impugnativa iniziale.
Per giurisprudenza costante la presentazione
della domanda di rilascio di concessione in
sanatoria per abusi edilizi impone al Comune
la sua disamina e l'adozione dei
provvedimenti conseguenti, di talché gli
atti, repressivi dell'abuso, in precedenza
adottati perdono efficacia, restando ferma
la necessità di riproposizione di motivi
aggiunti in caso di rigetto dell'istanza di
sanatoria.
E’ dunque improcedibile il ricorso
introduttivo per sopravvenuta carenza di
interesse, e ciò in quanto il riesame
dell'abusività dell'opera provocato da tale
istanza, sia pure al fine di verificare
l'eventuale sanabilità di quanto costruito,
ha comportato ex se la formazione di
un nuovo provvedimento di rigetto che supera
il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell'impugnativa iniziale (cfr. infra
multa: Consiglio di Stato, Sez. IV
16.09.2011 n. 5228; Consiglio Stato, Sez. VI
26.03.2010 n. 1750) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 16.04.2012 n. 2185 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
norma dell'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122,
consente di realizzare gratuitamente
parcheggi da destinare a pertinenza delle
singole unità immobiliari solo se realizzati
“nel sottosuolo per l’intera altezza”. La
predetta norma, ponendosi in deroga “…agli
strumenti urbanistici ed ai regolamenti
edilizi vigenti…”, è di stretta
interpretazione e di rigorosa applicazione.
In altre parole, la deroga per la
realizzazione di autorimesse e parcheggi
prevista dall'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122,
opera solo ed esclusivamente nel caso in cui
i detti garage (oltre ad essere formalmente
vincolati a pertinenza di singole unità
immobiliari) siano totalmente realizzati al
di sotto dell’originario piano naturale di
campagna, senza alcuna tolleranza di sorta.
La deroga alla disciplina urbanistica
prevista dall'art. 9, L. 24.03.1989 n. 122,
opera solo per i parcheggi da destinare a
pertinenza di singole unità immobiliari che
siano realizzati integralmente nel
sottosuolo degli immobili (ovvero nei locali
siti a piano terra degli stessi) mentre la
realizzazione di autorimesse e parcheggi,
non totalmente al di sotto del piano
naturale di campagna, è soggetta alla
disciplina urbanistica dettata per le
ordinarie nuove costruzioni fuori terra.
---------------
L'art. 9 l. 24.03.1989 n. 122, nel
consentire la costruzione di parcheggi, da
destinare a pertinenza delle singole unità
immobiliari, nel sottosuolo degli immobili o
nei locali siti al piano terreno anche in
deroga alla vigente disciplina urbanistica,
necessariamente fa implicito riferimento ai
soli fabbricati già esistenti e non anche le
concessioni edilizie rilasciate per
realizzare edifici nuovi, per i quali invece
provvede l'art. 2, comma 2, della stessa L.
n. 122 che, nel novellare l'art. 41-sexies,
l. 17.08.1942 n. 1150, stabilisce l'obbligo
di riservare appositi spazi per parcheggi di
misura non inferiore a 1 mq. per ogni 10 mc.
di costruzione.
In tal senso l'art. 9 della cit. L. n. 122,
è norma di carattere straordinario
finalizzata alla diminuzione dell’ingombro
dei veicoli parcheggiati nelle pubbliche vie
ed è diretta a rimediare agli inconvenienti
conseguenti alla conformazione dei nostri
centri storici, risalenti ad epoca
antecedenti l’avvento delle automobili. Tale
finalità, allo stato, non è assolutamente
venuta meno, ed è per questo che la legge è
stata mantenuta in vigore con l’art. 137 del
T.U. n. 380/2001, ma la sua attuale
applicazione resta pur sempre comunque
limitata agli edifici già esistenti.
Come la Sezione
ha avuto modo di recente di ricordare (cfr.
Sez. IV, 13.07.2011 n. 4234), la norma
dell'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122, consente
di realizzare gratuitamente parcheggi da
destinare a pertinenza delle singole unità
immobiliari solo se realizzati “nel
sottosuolo per l’intera altezza”. La
predetta norma, ponendosi in deroga “…agli
strumenti urbanistici ed ai regolamenti
edilizi vigenti…”, è di stretta
interpretazione e di rigorosa applicazione.
In altre parole, la deroga per la
realizzazione di autorimesse e parcheggi
prevista dall'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122,
opera solo ed esclusivamente nel caso in cui
i detti garage (oltre ad essere formalmente
vincolati a pertinenza di singole unità
immobiliari) siano totalmente realizzati al
di sotto dell’originario piano naturale di
campagna, senza alcuna tolleranza di sorta.
La deroga alla disciplina urbanistica
prevista dall'art. 9, L. 24.03.1989 n. 122,
opera solo per i parcheggi da destinare a
pertinenza di singole unità immobiliari che
siano realizzati integralmente nel
sottosuolo degli immobili (ovvero nei locali
siti a piano terra degli stessi) mentre la
realizzazione di autorimesse e parcheggi,
non totalmente al di sotto del piano
naturale di campagna, è soggetta alla
disciplina urbanistica dettata per le
ordinarie nuove costruzioni fuori terra
(cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 27.11.2010,
n. 8260; Consiglio Stato, sez. IV,
23.02.2009, n. 1070).
---------------
L'art. 9 l.
24.03.1989 n. 122, nel consentire la
costruzione di parcheggi, da destinare a
pertinenza delle singole unità immobiliari,
nel sottosuolo degli immobili o nei locali
siti al piano terreno anche in deroga alla
vigente disciplina urbanistica,
necessariamente fa implicito riferimento ai
soli fabbricati già esistenti e non anche le
concessioni edilizie rilasciate per
realizzare edifici nuovi, per i quali invece
provvede l'art. 2, comma 2, della stessa L.
n. 122 che, nel novellare l'art. 41-sexies,
l. 17.08.1942 n. 1150, stabilisce l'obbligo
di riservare appositi spazi per parcheggi di
misura non inferiore a 1 mq. per ogni 10 mc.
di costruzione (cfr. Consiglio di Stato sez.
IV 10.03.2011 n. 1565; Consiglio Stato, sez.
V, 24.10.2000, n. 5676; Cons. giust. amm.
Sicilia, sez. giurisd., 26.06.2000, n. 299;
Consiglio Stato, sez. V, 03.06.1996, n.
621).
In tal senso l'art. 9 della cit. L. n. 122,
è norma di carattere straordinario
finalizzata alla diminuzione dell’ingombro
dei veicoli parcheggiati nelle pubbliche vie
ed è diretta a rimediare agli inconvenienti
conseguenti alla conformazione dei nostri
centri storici, risalenti ad epoca
antecedenti l’avvento delle automobili. Tale
finalità, allo stato, non è assolutamente
venuta meno, ed è per questo che la legge è
stata mantenuta in vigore con l’art. 137 del
T.U. n. 380/2001, ma la sua attuale
applicazione resta pur sempre comunque
limitata agli edifici già esistenti (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 16.04.2012 n. 2185 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione di strutture in muratura,
anche parzialmente fuori terra con
copertura, per il suo carattere di stabilità
e permanenza costituisce una vera e propria
"costruzione" in senso tecnico del termine e
deve essere ricondotto alla categoria degli
"interventi di nuova costruzione", ai sensi
della lett. e) dell'art. 3 t.u. 21.06.2001
n. 380 (ed a maggior ragione quanto è
staccato dall'edificio di cui costituisce
"pertinenza").
Implicando una trasformazione edilizia del
territorio ed un’alterazione del regime
delle acque pluviali, tali edificazioni
restano totalmente soggette alle regole
sulle distanze che tutelano i reciproci
diritti dei confinanti.
E' del tutto
inesatta, in linea di principio,
l’affermazione per cui una edificazione
fuori terra non debba essere considerata
edificio.
Come la Sezione ha avuto modo di
precisare (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV
25.05.2011 n. 3134) la realizzazione di
strutture in muratura, anche parzialmente
fuori terra con copertura, per il suo
carattere di stabilità e permanenza
costituisce una vera e propria "costruzione"
in senso tecnico del termine e deve essere
ricondotto alla categoria degli "interventi
di nuova costruzione", ai sensi della
lett. e) dell'art. 3 t.u. 21.06.2001 n. 380
(ed a maggior ragione quanto è staccato
dall'edificio di cui costituisce "pertinenza").
Implicando una trasformazione edilizia del
territorio ed un’alterazione del regime
delle acque pluviali, tali edificazioni
restano totalmente soggette alle regole
sulle distanze che tutelano i reciproci
diritti dei confinanti (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 16.04.2012 n. 2185 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'ordine
di demolizione, come tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, è atto
vincolato alla constatata abusività, il
quale non richiede né alcuna specifica
valutazione delle ragioni di interesse
pubblico; né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati; e né una
motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione, non essendo configurabile alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di
una situazione di illecito permanente, che
il tempo non può legittimare in via di
fatto.
Per costante
giurisprudenza, l'ordine di demolizione,
come tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato alla
constatata abusività, il quale non richiede
né alcuna specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico; né una
comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati; e
né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione, non essendo configurabile alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di
una situazione di illecito permanente, che
il tempo non può legittimare in via di fatto
(cfr. Consiglio di Stato sez. IV 13.07.2011
n. 4254 Consiglio di Stato sez. V 27.04.2011
n. 2497; Consiglio Stato sez. V 11.01.2011
n. 79) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 16.04.2012 n. 2185 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Il
consigliere comunale, o di altro ente
locale, esercita il potere di autentica
delle sottoscrizioni esclusivamente in
relazione alle operazioni elettorali
dell’ente.
Di conseguenza, il consigliere di un ente
locale non è legittimato ad autenticare le
firme degli elettori e dei candidati di una
competizione elettorale al quale l’ente in
cui sono incardinate le sue funzioni sia
estraneo, come un quelle per il rinnovo del
consiglio di altro comune per il consigliere
comunale o di altra provincia per il
consigliere provinciale
Con l’odierno appello viene censurata la
gravata sentenza del TAR per la Lombardia,
laddove ha ritenuto che l’autenticazione
delle firme dei delegati di lista non possa
essere effettuata da un pubblico ufficiale
che esercita la propria funzione in ambito
territoriale differente (nella specie
Consigliere comunale di Rovato) rispetto a
quello in cui detta consultazione elettorale
si svolge (Comune di Desenzano del Garda).
L’argomento principale a sostegno della tesi
degli appellanti è costituito dalla mancanza
di un’espressa previsione di legge che
escluda la legittimazione dei consiglieri di
enti locali ad autenticare le firme degli
elettori per competizioni diverse da quelle
relative allo svolgimento di elezioni per lo
stesso ente del cui consiglio fanno parte.
Tale limitazione non è infatti contenuta
espressamente nell’art. 14, novellato della
legge 21.03.1990, n. 53, della cui
applicazione ora si discute, che ha
attribuito ai consiglieri comunali e
provinciali il potere di autentica delle
sottoscrizioni relative al procedimento
elettorale, e nemmeno in altre norme.
Al riguardo, osserva il Collegio come la
giurisprudenza della Sezione abbia già avuto
modo di chiarire che la legittimazione ad
autenticare le sottoscrizioni è limitata ad
un determinato territorio di riferimento
(cfr. Sez. V 20.03.2012, n. 1889).
Il principio vale anche per i consiglieri di
comuni e province.
Deve infatti essere sottolineato come, sul
piano normativo-ordinamentale, il territorio
costituisce elemento costitutivo di ogni
ente territoriale, per cui necessariamente i
suoi organi esercitano le proprie funzioni
nei limiti di questo.
Sulla base di tale osservazione afferma il
Collegio che il consigliere comunale, o di
altro ente locale, esercita il potere di
autentica delle sottoscrizioni
esclusivamente in relazione alle operazioni
elettorali dell’ente (cfr. anche C.S. V,
31.05.2007, n. 2817).
Di conseguenza, il consigliere di un ente
locale non è legittimato ad autenticare le
firme degli elettori e dei candidati di una
competizione elettorale al quale l’ente in
cui sono incardinate le sue funzioni sia
estraneo, come un quelle per il rinnovo del
consiglio di altro comune per il consigliere
comunale o di altra provincia per il
consigliere provinciale
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 16.04.2012 n. 2180 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Dalla
previsione della partecipazione di un ente
ad un procedimento amministrativo si deve
evincere la sua legittimazione ad impugnare
il provvedimento conclusivo ritenuto lesivo.
Non invece il contrario.
Posto che è incontestabile che la Provincia
venne invitata ai lavori della conferenza di
servizi convocata, pare al Collegio
indubitabile la legitimatio ad causam della
stessa ed il proprio interesse ad avversarne
le determinazioni.
Parimenti infondata è l’eccezione di inammissibilità del gravame proposto
dalla Provincia per carenza di interesse e
di legittimazione.
Nel rammentare che la Provincia manifestò
comunque il proprio orientamento contrario
alla realizzazione del progetto (e
nell’evidenziare che la problematica della
eventuale –o meno- qualificazione
dell’assenza di questa ai lavori quale forma
di assenso integra al più questione di
merito), rimarca il Collegio il
condivisibile –troncante- orientamento
giurisprudenziale secondo il quale dalla
previsione della partecipazione di un ente
ad un procedimento amministrativo si deve
evincere la sua legittimazione ad impugnare
il provvedimento conclusivo ritenuto lesivo.
Non invece il contrario (Cons. Stato, sez.
V, 02.03.1999, n. 217; sez. IV, 03.12.1992, n. 1001 Consiglio di stato, sez. IV,
06.10.2001, n. 5296).
Posto che è incontestabile che la Provincia
venne invitata ai lavori della conferenza di
servizi convocata, pare al Collegio
indubitabile la legitimatio ad causam
della stessa ed il proprio interesse ad
avversarne le determinazioni
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 16.04.2012 n. 2170 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
proposta di variante dello strumento
urbanistico, formulata ai sensi dell'art. 5,
d.P.R. 20.10.1998 n. 447 dalla conferenza
dei servizi al fine di favorire e
semplificare la realizzazione di una
struttura commerciale in zona tipizzata come
agricola, non è vincolante per il Consiglio
comunale, il quale deve autonomamente
valutare se aderire o meno alla stessa.
---------------
Per risalente quanto condiviso convincimento
della giurisprudenza in punto di potestà
discrezionale che “assiste” l’ente locale
allorché questo si determina all’adozione di
una variante, “i provvedimenti con i quali i
comuni ripartiscono in zone il territorio in
sede di pianificazione urbanistica hanno
natura ampiamente discrezionale e possono
pertanto incidere anche su precedenti
difformi destinazioni delle zone stesse,
sempre che la nuova suddivisione non sia
affetta da errori di fatto o da gravi vizi
di illogicità, irrazionalità o
contraddittorietà. È legittima, pertanto, la
variante dell'originario programma di
fabbricazione con la quale si muta la
classificazione di un'area, da industriale
in agricola, motivata con riferimento
all'appesantimento che la destinazione
industriale avrebbe indotto sulla precaria
viabilità esistente -nella specie il comune,
avendo verificato l'esistenza di gravi
inconvenienti su una strada statale nei
pressi della quale era localizzata l'area in
questione, aveva mutato l'originaria
destinazione industriale tenuto anche conto
che l'area stessa non era stata utilizzata
nel corso di un decennio per ampliamenti
dell'insediamento produttivo-".
Secondo avveduta giurisprudenza il
procedimento disegnato in materia di SUAP
non fa eccezione ai detti principi,
essendosi condivisibilmente rilevato che “il
d.P.R. 20.10.1998 n. 447 esprime un favor
verso la realizzazione, la ristrutturazione
ovvero l'ampliamento degli impianti
industriali ed a tale scopo delinea un
procedimento semplificato -che si risolve in
un procedimento che, attraverso la
conferenza di servizi indetta dal
responsabile del procedimento, porta alla
formazione di una proposta di variante sulla
quale il Consiglio comunale si pronuncia
"definitivamente"- per giungere, con una
variante urbanistica adottata nell'ambito
della conferenza di servizi, alla rapida
realizzazione di tali iniziative, anche
quando esse siano in contrasto con gli
strumenti urbanistici in vigore, purché il
relativo progetto sia conforme alle norme in
materia ambientale, sanitaria e di sicurezza
del lavoro e lo strumento urbanistico non
individui aree destinate all'insediamento di
impianti produttivi ovvero queste siano
insufficienti in relazione al progetto
presentato.”
---------------
A fronte della richiesta del privato di
realizzare ovvero ampliare, ristrutturare o
riconvertire un impianto industriale, l'art.
5, d.P.R. n. 447/1998 non consente di
ipotizzare alcuna abdicazione del Comune
alla sua istituzionale potestà
pianificatoria, sì da rendere l'approvazione
della variante pressoché obbligatoria,
restando al contrario integra per l'organo
consiliare la possibilità di discostarsi
motivatamente dalla determinazione finale
assunta dalla conferenza di servizi. Al
consiglio comunale compete infatti una
valutazione ulteriore, necessaria a
giustificare sul piano urbanistico la
deroga, per il caso singolo, alle regole
poste dallo strumento vigente.
Tutti gli ulteriori argomenti contenuti nel
primo motivo di appello non incidono su tale
considerazione.
Ed invero, non è pertinente il richiamo (già
confutato dalla sentenza impugnata, per il
vero, alle cui argomentazioni l’appellante
non ha opposto alcun decisivo profilo di
critica) al termine di 60 giorni contenuto
nell’art. 5, comma 2, del d.P.R. 20.10.1998 n. 447 (“Qualora il progetto presentato
sia in contrasto con lo strumento
urbanistico, o comunque richieda una sua
variazione, il responsabile del procedimento
rigetta l'istanza. Tuttavia, allorché il
progetto sia conforme alle norme vigenti in
materia ambientale, sanitaria e di sicurezza
del lavoro ma lo strumento urbanistico non
individui aree destinate all'insediamento di
impianti produttivi ovvero queste siano
insufficienti in relazione al progetto
presentato, il responsabile del procedimento
può, motivatamente convocare una conferenza
di servizi, disciplinata dall'articolo 14
della legge 07.08.1990, n. 241, come
modificato dall'articolo 17 della legge 15.05.1997, n. 127, per le conseguenti
decisioni, dandone contestualmente pubblico
avviso. Alla conferenza può intervenire
qualunque soggetto, portatore di interessi
pubblici o privati, individuali o collettivi
nonché i portatori di interessi diffusi
costituiti in associazioni o comitati, cui
possa derivare un pregiudizio dalla
realizzazione del progetto dell'impianto
industriale. Qualora l'esito della
conferenza di servizi comporti la variazione
dello strumento urbanistico, la
determinazione costituisce proposta di
variante sulla quale, tenuto conto delle
osservazioni, proposte e opposizioni
formulate dagli aventi titolo ai sensi della
legge 17.08.1942, n. 1150, si pronuncia
definitivamente entro sessanta giorni il
consiglio comunale. Non è richiesta
l'approvazione della regione, le cui
attribuzioni sono fatte salve dall'articolo
14, comma 3-bis della legge 07.08.1990,
n. 241”).
Posto che la disciplina applicabile ratione
temporis ai fatti di causa fa riferimento
alla conferenza di servizi, infatti, ogni
interrogativo in ordine alla perentorietà –o meno- dei termini previsti nel detto
procedimento di cui al d.P.R. 20.10.1998 n. 447 non assume carattere dirimente,
al più potendosi sostenere che rientrava
nelle valutazioni latamente discrezionali (e
come tali sostanzialmente insindacabili) del
Comune eventualmente tenere conto del detto
parere negativo, sebbene tardivamente
pervenuto (anche in considerazione del fatto
che lo scostamento temporale tra il momento
di chiusura dei lavori della conferenza e
quello in cui pervenne il detto parere era
veramente minimo).
Ma ciò non potrebbe certo connotare di
illegittimità le successive deliberazioni
comunali (delle quali, incidenter tantum, si
rammenta la lata discrezionalità: “la
proposta di variante dello strumento
urbanistico, formulata ai sensi dell'art. 5, d.P.R. 20.10.1998 n. 447 dalla
conferenza dei servizi al fine di favorire e
semplificare la realizzazione di una
struttura commerciale in zona tipizzata come
agricola, non è vincolante per il Consiglio
comunale, il quale deve autonomamente
valutare se aderire o meno alla
stessa.” (Consiglio Stato, sez. IV, 27.06.2007, n. 3772).
Ne discende che la complessiva censura (le
cui ulteriori articolazioni, soffermandosi
sulla natura del procedimento SUAP alla luce
della disciplina vigente nella Regione, non
forniscono elementi per affermare che del
parere della Provincia, seppur tardivamente
espresso, dovesse necessariamente tenersi
conto) deve essere disattesa.
---------------
Neppure persuasive, ad avviso del
Collegio, appaiono le argomentazioni
raggruppate nella terza censura (nel cui
ambito sono stati riproposti gli originari
motivi n. 4 e 5 del ricorso di primo grado),
laddove la Provincia ribadisce la tesi
secondo cui non v’erano le condizioni ed i
presupposti per l’avvio dello speciale
procedimento di cui al d.P.R. 20.10.1998 n. 447 ed in ogni caso
l’amministrazione avrebbe dovuto vagliare
sotto il profilo dell’opportunità la
possibilità di adottare la variante
urbanistica.
La doglianza (come anche, per il vero, i
corrispondenti motivi contenuti nel mezzo di
primo grado) appare formulata in termini
generici e non tiene conto –seppure in
chiave critica- del convincimento del primo
giudice.
Invero si rammenta che per risalente quanto
condiviso convincimento della giurisprudenza
in punto di potestà discrezionale che
“assiste” l’ente locale allorché questo si
determina all’adozione di una variante, “i
provvedimenti con i quali i comuni
ripartiscono in zone il territorio in sede
di pianificazione urbanistica hanno natura
ampiamente discrezionale e possono pertanto
incidere anche su precedenti difformi
destinazioni delle zone stesse, sempre che
la nuova suddivisione non sia affetta da
errori di fatto o da gravi vizi di
illogicità, irrazionalità o
contraddittorietà. È legittima, pertanto, la
variante dell'originario programma di
fabbricazione con la quale si muta la
classificazione di un'area, da industriale
in agricola, motivata con riferimento
all'appesantimento che la destinazione
industriale avrebbe indotto sulla precaria
viabilità esistente -nella specie il
comune, avendo verificato l'esistenza di
gravi inconvenienti su una strada statale
nei pressi della quale era localizzata
l'area in questione, aveva mutato
l'originaria destinazione industriale tenuto
anche conto che l'area stessa non era stata
utilizzata nel corso di un decennio per
ampliamenti dell'insediamento produttivo-.”
(Consiglio Stato, sez. V, 10.06.1989,
n. 375).
Secondo avveduta giurisprudenza il
procedimento disegnato in materia di SUAP
non fa eccezione ai detti principi,
essendosi condivisibilmente rilevato che “il d.P.R. 20.10.1998 n. 447 esprime un
favor verso la realizzazione, la
ristrutturazione ovvero l'ampliamento degli
impianti industriali ed a tale scopo delinea
un procedimento semplificato -che si
risolve in un procedimento che, attraverso
la conferenza di servizi indetta dal
responsabile del procedimento, porta alla
formazione di una proposta di variante sulla
quale il Consiglio comunale si pronuncia
"definitivamente"- per giungere, con una
variante urbanistica adottata nell'ambito
della conferenza di servizi, alla rapida
realizzazione di tali iniziative, anche
quando esse siano in contrasto con gli
strumenti urbanistici in vigore, purché il
relativo progetto sia conforme alle norme in
materia ambientale, sanitaria e di sicurezza
del lavoro e lo strumento urbanistico non
individui aree destinate all'insediamento di
impianti produttivi ovvero queste siano
insufficienti in relazione al progetto
presentato.”
(Consiglio Stato, sez. IV, 11.01.2007, n. 1644).
Nel caso di specie il vaglio circa
l’inesistenza di aree alternative è stato
svolto, e non appare carente sotto il
profilo del vizio del difetto di istruzione;
parimenti la deliberazione sottesa alla
variante non appare connotata da profili di
arbitrarietà ovvero abnormità (fatto salvo
quanto si dirà esaminando il secondo motivo
d’appello): non pare, conclusivamente, che
ci si sia discostati dal procedimento di
deliberazione ordinaria, né che l’adozione
della variante sia stata percepita come
“obbligatoria”, come pare adombrarsi a pag.
22 del ricorso in appello, essendosi invece
il Comune conformato al principio espresso
dalla giurisprudenza di merito, secondo cui
“a fronte della richiesta del privato di
realizzare ovvero ampliare, ristrutturare o
riconvertire un impianto industriale, l'art.
5, d.P.R. n. 447/1998 non consente di
ipotizzare alcuna abdicazione del Comune
alla sua istituzionale potestà
pianificatoria, sì da rendere l'approvazione
della variante pressoché obbligatoria,
restando al contrario integra per l'organo
consiliare la possibilità di discostarsi
motivatamente dalla determinazione finale
assunta dalla conferenza di servizi. Al
consiglio comunale compete infatti una
valutazione ulteriore, necessaria a
giustificare sul piano urbanistico la
deroga, per il caso singolo, alle regole
poste dallo strumento vigente.” (TAR
Lombardia Milano, sez. II, 11.11.2010, n. 7244).
Lo strumento prescelto, quindi, non poteva
essere che quello di cui al sopracitato
d.P.R. n. 447/1998 e non ritiene il Collegio
che, sotto il generico profilo del vizio
deliberativo evidenziato nel motivo di
ricorso in appello le censure siano fondate
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 16.04.2012 n. 2170 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 9, lett. a), della legge n.
10/1977, ai fini del rilascio della
concessione gratuita, presuppone il
concomitante concorso di due requisiti:
a)
sul piano soggettivo, la qualitas di
imprenditore agricolo secondo la definizione
di cui alla art. 12 L. 09.05.1975, n.
153;
b) sul piano oggettivo, il nesso di
preordinazione funzionale delle opere alla
conduzione del fondo.
La sussistenza di tale duplice condizione
deve ricorrere al momento in cui
l'interessato produce la relativa istanza,
che deve essere corredata da una sufficiente
prova documentale circa il possesso di tali
presupposti; ne consegue che la sussistenza
di una soltanto di essi non può ritenersi
requisito sufficiente per la gratuità
nell'intervento edilizio.
L'art. 9, lett. a), della legge n.
10/1977, ai fini del rilascio della
concessione gratuita, presuppone il
concomitante concorso di due requisiti:
a)
sul piano soggettivo, la qualitas di
imprenditore agricolo secondo la definizione
di cui alla art. 12 L. 09.05.1975, n.
153;
b) sul piano oggettivo, il nesso di
preordinazione funzionale delle opere alla
conduzione del fondo.
La sussistenza di tale duplice condizione
deve ricorrere al momento in cui
l'interessato produce la relativa istanza,
che deve essere corredata da una sufficiente
prova documentale circa il possesso di tali
presupposti; ne consegue che la sussistenza
di una soltanto di essi non può ritenersi
requisito sufficiente per la gratuità
nell'intervento edilizio (cfr. TAR Lazio
Latina, 12.07.2002, n. 774)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza
13.04.2012 n.
770 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini della classificazione di
un’opera prefabbricata posta su ruote,
occorre stabilire se il manufatto in
questione possa ritenersi costruzione o
edificazione a fini urbanistici. Al riguardo
si rientra nella fattispecie delle
modificazioni durevoli dello stato dei
luoghi, che, come chiarito dalla
giurisprudenza, sono prodotte anche da
strutture meramente appoggiate sul suolo,
anche con ruote, qualora dette strutture
siano destinate ad uso prolungato nel tempo
e non quindi realmente precario, cioè
temporaneo o occasionale.
In altri termini, a prescindere da un
sistema di ancoraggio al suolo, i
prefabbricati vanno considerati vere e
proprie costruzioni, ove, comunque, siano
destinati a durare nel tempo; tale
considerazione, del resto, discende
dall’alterazione dello stato dei luoghi e
dalla destinazione in genere di tale tipo di
struttura alla soddisfazione di esigenze di
carattere durevole, a prescindere dalla
tecnica e dai materiali impiegati per la
realizzazione della struttura stessa.
Secondo un consolidato orientamento
giurisprudenziale dal quale questo Tribunale
non ravvisa ragioni di discostarsi, ai fini
della classificazione di un’opera
prefabbricata posta su ruote, occorre
stabilire se il manufatto in questione possa
ritenersi costruzione o edificazione a fini
urbanistici. Al riguardo si rientra nella
fattispecie delle modificazioni durevoli
dello stato dei luoghi, che, come chiarito
dalla giurisprudenza, sono prodotte anche da
strutture meramente appoggiate sul suolo,
anche con ruote, qualora dette strutture
siano destinate ad uso prolungato nel tempo
e non quindi realmente precario, cioè
temporaneo o occasionale (cfr. Consiglio di
stato, sez. V, 20.12.1999, n. 2125; Tar
Catania I, 29.11.2007, n. 1921).
In altri termini, a prescindere da un
sistema di ancoraggio al suolo, i
prefabbricati vanno considerati vere e
proprie costruzioni, ove, comunque, siano
destinati a durare nel tempo; tale
considerazione, del resto, discende
dall’alterazione dello stato dei luoghi e
dalla destinazione in genere di tale tipo di
struttura alla soddisfazione di esigenze di
carattere durevole, a prescindere dalla
tecnica e dai materiali impiegati per la
realizzazione della struttura stessa (cfr.
Consiglio Stato, sez. V, 03.04.1990, n.
317).
Nel caso di specie, dall’esame del
verbale redatto dalla Polizia Municipale e
recepito nell’ordinanza impugnata si evince
-contrariamente a quanto affermato dalla
ricorrente e senza che essa abbia fornito un
principio di prova al riguardo- che la
struttura mobile è utilizzata ad “uso
abitativo” tanto che risulta suddivisa
in più vani completamente arredati, nonché
munita di w.c. chimico. Ne consegue, ai fini
urbanistici, che la casa mobile oggetto
dell’ordinanza di demolizione impugnata deve
essere qualificata alla stregua di una
costruzione necessitante di titolo edilizio
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza
13.04.2012 n.
769 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I
provvedimenti che ordinano la demolizione di
manufatti abusivi non abbisognano di congrua
motivazione in ordine all’attualità
dell'interesse pubblico alla rimozione
dell’abuso che è in re ipsa, consistendo nel
ripristino dell’assetto urbanistico violato.
Pertanto,
l'ordinanza di demolizione di opere edilizie
abusive è sufficientemente motivata con
riferimento all'oggettivo riscontro
dell'abusività delle opere ed alla sicura
assoggettabilità di queste al regime concessorio.
Tali provvedimenti, infatti, prescindono da
qualsiasi valutazione discrezionale dei
fatti e sono subordinati al solo verificarsi
dei presupposti stabiliti dalla legge, così
che, una volta accertata la consistenza
dell'abuso, non vi è alcun margine di
ponderazione per l'interesse pubblico
eventualmente collegato.
Il
Collegio, in adesione ad un consolidato
indirizzo giurisprudenziale, rileva che i
provvedimenti che ordinano la demolizione di
manufatti abusivi non abbisognano di congrua
motivazione in ordine all’attualità
dell'interesse pubblico alla rimozione
dell’abuso che è in re ipsa, consistendo nel
ripristino dell’assetto urbanistico violato
(C.G.A. 05.12.2002, n. 651; TAR
Sicilia, sez. III, 26.10.2005, n. 4105;
sez. II, 27.03.2007, n. 979).
Pertanto,
l'ordinanza di demolizione di opere edilizie
abusive è sufficientemente motivata con
riferimento all'oggettivo riscontro
dell'abusività delle opere ed alla sicura
assoggettabilità di queste al regime concessorio. Tali provvedimenti, infatti,
prescindono da qualsiasi valutazione
discrezionale dei fatti e sono subordinati
al solo verificarsi dei presupposti
stabiliti dalla legge, così che, una volta
accertata la consistenza dell'abuso, non vi
è alcun margine di ponderazione per
l'interesse pubblico eventualmente
collegato (Consiglio Stato, sez. IV, 27.04.2004, n. 2529; TAR Sicilia, sez. II,
08.06.2007, n. 1653; sez. III,
n. 504/2008)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza
13.04.2012 n.
769 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Comune non può, mediante il
formale utilizzo degli strumenti di natura
edilizia-urbanistica, adottare misure le
quali nella sostanza costituiscono una
deroga ai limiti di esposizione ai campi
elettromagnetici fissati dallo Stato.
In particolare è stato ribadito che non può
essere consentito al Comune prevedere, esemplificativamente, il divieto
generalizzato di installare stazioni
radio-base per telefonia cellulare in tutte
le zone territoriali omogenee, ovvero
stabilire criteri con i quali introdurre
distanze fisse da osservare rispetto alle
abitazioni e ai luoghi destinati alla
permanenza prolungata delle persone o al
centro cittadino.
Tali disposizioni sono,
infatti, funzionali non al governo del
territorio, ma alla tutela della salute dai
rischi dell'elettromagnetismo e si
trasformano in una misura surrettizia di
tutela della popolazione da immissioni
radioelettriche, che l’art. 4 della legge n.
36/2000 riserva allo Stato attraverso
l’individuazione di puntuali limiti di
esposizione, valori di attenzione ed
obiettivi di qualità, da introdursi con D.P.C.M.,
su proposta del Ministro dell’Ambiente di
concerto con il Ministro della Salute.
Per altro è stato ribadito che le stazioni
radio base, attesa la loro natura di opere
di urbanizzazione, possono essere installate
sull’intero territorio comunale, non
assumendo carattere ostativo le specifiche
destinazioni di zona rispetto ad impianti di
carattere generale che, quali quello di
telefonia mobile, presuppongono la
realizzazione di una rete che dia uniforme
copertura al territorio.
La questione attiene al diniego
di autorizzazione in sanatoria ex art. 13
L. 47/1985 di un impianto di telefonia mobile
istallato dalla OMNITEL su un terreno di
proprietà dell’interveniente ad adiuvandum
(giusto contratto di affitto stipulato tra
le parti) in assenza di titolo idoneo. Il
diniego, nonché gli ulteriori atti connessi
presupposti e conseguenti, sono motivati in
ragione della modifica apportata al
regolamento edilizio comunale ai sensi del
quale non possono essere autorizzati
impianti di tal fatta ad una distanza
inferiore ai mt.1000 dalle abitazioni.
Occorre quindi sindacare preliminarmente
tale aspetto della questione qui dibattuta,
sia in ordine al ricorso R.G.4991/2001 che
al ricorso R.G. 1499/2002.
...
Questa Sezione, in fattispecie analoghe alla
presente (fra le tante, 02.07.2011,
n. 194; 21.07.2006, n. 1743; 12.03.2008, n. 340;
06.04.2009, n. 661, 27.10.2010, n. 13720), ha già infatti
evidenziato come il Comune non possa,
mediante il formale utilizzo degli strumenti
di natura edilizia-urbanistica, adottare
misure le quali nella sostanza costituiscano
una deroga ai limiti di esposizione ai campi
elettromagnetici fissati dallo Stato. In
particolare è stato ribadito che non può
essere consentito al Comune prevedere, esemplificativamente, il divieto
generalizzato di installare stazioni
radio-base per telefonia cellulare in tutte
le zone territoriali omogenee, ovvero
stabilire criteri con i quali introdurre
distanze fisse da osservare rispetto alle
abitazioni e ai luoghi destinati alla
permanenza prolungata delle persone o al
centro cittadino.
Tali disposizioni sono,
infatti, funzionali non al governo del
territorio, ma alla tutela della salute dai
rischi dell'elettromagnetismo e si
trasformano in una misura surrettizia di
tutela della popolazione da immissioni
radioelettriche, che l’art. 4 della legge n.
36/2000 riserva allo Stato attraverso
l’individuazione di puntuali limiti di
esposizione, valori di attenzione ed
obiettivi di qualità, da introdursi con D.P.C.M., su proposta del Ministro
dell’Ambiente di concerto con il Ministro
della Salute (in tal senso, tra le tante,
Consiglio di Stato, sez. VI, 15.06.2006,
n. 3534, C.G.A. 12.11.2009, n. 929;
TAR Sicilia, sez. II, 06.04.2009, n.
661).
Per altro è stato ribadito che le stazioni
radio base, attesa la loro natura di opere
di urbanizzazione, possono essere installate
sull’intero territorio comunale, non
assumendo carattere ostativo le specifiche
destinazioni di zona rispetto ad impianti di
carattere generale che, quali quello di
telefonia mobile, presuppongono la
realizzazione di una rete che dia uniforme
copertura al territorio (C.G.A. 14.04.2010, n. 514).
Alla stregua delle considerazioni che
precedono, le modifiche apportate al
regolamento edilizio comunale, approvato con
provvedimento regionale, non resistono alle
censure articolate nei ricorsi qui riuniti
risultando quindi illegittime. Per l’effetto
detta modifica va annullata in accoglimento
di entrambi i ricorsi. L’annullamento della
suddetta modifica al regolamento edilizio
travolge altresì il diniego opposto dal
Comune di Valederice all’istanza di
accertamento di conformità ex art. 13
l. 47/1985 (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza
13.04.2012 n.
767 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Prefabbricato in legno e
violazioni paesaggistiche.
Il reato ambientale di cui all'art. 181
d.lgs. 22.01.2004, n. 42 è pacificamente un
reato di pericolo, integrato dalla sola
mancata richiesta di autorizzazione alla
autorità competente, senza che occorra anche
il verificarsi di un danno ambientale.
E' evidente che un manufatto prefabbricato
in legno di circa 150 mq., non possa
sicuramente ritenersi anche in astratto
potenzialmente non idoneo ad arrecare danno
al bene protetto (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza
12.04.2012 n. 13978 - massima e file
tratti da www.lexambiente.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Le
categorie della nullità ed annullabilità,
quali vizi che inficiano un atto giuridico
costituente manifestazione di volontà, si presentano
nel diritto amministrativo in relazione
invertita rispetto alle omologhe figure
valevoli per i negozi giuridici di diritto
privato, costituendo la prima l'eccezione
rispetto alla seconda; ciò in ragione delle
note esigenze di certezza dell'azione
amministrativa, che mal si conciliano con la
possibilità che questa possa restare esposta
ad impugnative non assoggettate a termini di
decadenza o prescrizione quale quella di
nullità disciplinata dal codice civile,
tanto è vero che il codice del processo
amministrativo assoggetta la medesima azione
ad un preciso termine decadenziale, sebbene
più ampio di quello valevole per l'azione di
annullamento.
Sulla base di queste premesse, oltre alla
nullità testuale ed a quella derivante da
difetto di attribuzione, l'art. 21-septies
L. n. 241 del 1990 ha previsto la nullità
dell'atto amministrativo nel caso in cui
questo sia carente di un elemento essenziale: si tratta, sulla falsariga di quanto
previsto dall'art. 1418 c.c. per il
contratto, in combinato con l'art. 1325
c.c., della c.d. nullità strutturale,
ravvisabile nel caso in cui l'atto
amministrativo sia privo di uno degli
elementi necessari perché lo stesso possa
essere giuridicamente qualificato come tale.
L'essenza della nullità, infatti, risiede
proprio nell'inconfigurabilità della
fattispecie concreta rispetto a quella
astratta, accertabile con pronuncia
giudiziale meramente dichiarativa, donde i
noti corollari della radicale inefficacia
(da intendersi in senso ampio, quale
inidoneità dell'atto a produrre gli effetti
da esso tipicamente discendenti), della
generale legittimazione all'impugnativa e
della insuscettibilità di sanatoria
attraverso convalida.
Trattandosi di patologia più grave rispetto
all'annullabilità, appare evidente come la
stessa richieda una sua agevole
riconoscibilità in concreto, attraverso un
mero riscontro estrinseco del deficit
dell'atto rispetto al suo paradigma legale
(ad es.: mancata indicazione dell'autorità
emanante, assenza del dispositivo o della
motivazione; mancanza assoluta, in senso
strutturale, dell'oggetto), ragione per cui la
nullità strutturale di cui all'art. 21-septies
per mancanza di elementi essenziali è
tutt'ora nel diritto amministrativo una
forma speciale di invalidità, potendosi configurare solo nei
limitatissimi casi in cui il difetto
strutturale dell’atto sia immediatamente
percepibile ed accertabile all’esterno.
Per contro, laddove il vizio attenga al
concreto svolgimento della funzione
amministrativa sfociata nella determinazione
provvedimentale, si configura un'ipotesi di
cattivo esercizio del potere, contro il
quale è data la tradizionale azione di
annullamento: il vizio in questione è
evidentemente meno riconoscibile rispetto al
difetto strutturale dell'atto, atteso che il
suo accertamento non si riduce ad un mero
riscontro esterno nei termini sopra
accennati, ma si indirizza alle concrete
modalità con le quali la funzione
amministrativa si è manifestata e, dunque,
al contenuto intrinseco dell'atto in cui
essa si compendia.
Deve sottolinearsi, in linea generale, che le categorie della
nullità ed annullabilità, quali vizi che
inficiano un atto giuridico costituente
manifestazione di volontà, si presentano
nel diritto amministrativo in relazione
invertita rispetto alle omologhe figure
valevoli per i negozi giuridici di diritto
privato, costituendo la prima l'eccezione
rispetto alla seconda; ciò in ragione delle
note esigenze di certezza dell'azione
amministrativa, che mal si conciliano con la
possibilità che questa possa restare esposta
ad impugnative non assoggettate a termini di
decadenza o prescrizione quale quella di
nullità disciplinata dal codice civile,
tanto è vero che il codice del processo
amministrativo assoggetta la medesima azione
ad un preciso termine decadenziale, sebbene
più ampio di quello valevole per l'azione di
annullamento.
Sulla base di queste premesse, oltre alla
nullità testuale ed a quella derivante da
difetto di attribuzione, l'art. 21-septies
L. n. 241 del 1990 ha previsto la nullità
dell'atto amministrativo nel caso in cui
questo sia carente di un elemento essenziale: si tratta, sulla falsariga di quanto
previsto dall'art. 1418 c.c. per il
contratto, in combinato con l'art. 1325
c.c., della c.d. nullità strutturale,
ravvisabile nel caso in cui l'atto
amministrativo sia privo di uno degli
elementi necessari perché lo stesso possa
essere giuridicamente qualificato come tale.
L'essenza della nullità, infatti, risiede
proprio nell'inconfigurabilità della
fattispecie concreta rispetto a quella
astratta, accertabile con pronuncia
giudiziale meramente dichiarativa, donde i
noti corollari della radicale inefficacia
(da intendersi in senso ampio, quale
inidoneità dell'atto a produrre gli effetti
da esso tipicamente discendenti), della
generale legittimazione all'impugnativa e
della insuscettibilità di sanatoria
attraverso convalida.
Trattandosi di patologia più grave rispetto
all'annullabilità, appare evidente come la
stessa richieda una sua agevole
riconoscibilità in concreto, attraverso un
mero riscontro estrinseco del deficit
dell'atto rispetto al suo paradigma legale
(ad es.: mancata indicazione dell'autorità
emanante, assenza del dispositivo o della
motivazione; mancanza assoluta, in senso
strutturale, dell'oggetto) (Cons. Stato Sez.
V, 16-02-2012, n. 792), ragione per cui la
nullità strutturale di cui all'art. 21-septies
per mancanza di elementi essenziali è
tutt'ora nel diritto amministrativo una
forma speciale di invalidità (Consiglio di
Stato, sez VI, 13.06.2007 n. 3173, TAR
Campania Napoli sez III, 01.03.2011,
n. 1248), potendosi configurare solo nei
limitatissimi casi in cui il difetto
strutturale dell’atto sia immediatamente
percepibile ed accertabile all’esterno.
Per contro, laddove il vizio attenga al
concreto svolgimento della funzione
amministrativa sfociata nella determinazione
provvedimentale, si configura un'ipotesi di
cattivo esercizio del potere, contro il
quale è data la tradizionale azione di
annullamento: il vizio in questione è
evidentemente meno riconoscibile rispetto al
difetto strutturale dell'atto, atteso che il
suo accertamento non si riduce ad un mero
riscontro esterno nei termini sopra
accennati, ma si indirizza alle concrete
modalità con le quali la funzione
amministrativa si è manifestata e, dunque,
al contenuto intrinseco dell'atto in cui
essa si compendia
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza
12.04.2012 n.
1006 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L’annullamento di un provvedimento amministrativo per vizi formali o,
comunque, per difetto d'istruttoria o di
motivazione che non escludono, ma, anzi,
prevedono il riesercizio del potere,
comporta che la domanda di risarcimento del
danno non può essere valutata che all'esito
della nuova manifestazione di detto potere,
poiché la facoltà di rideterminazione che
residua in capo al soggetto pubblico esclude
il carattere di definitività del rapporto,
quale necessario presupposto dell'azione
risarcitoria.
L’annullamento di un provvedimento amministrativo per vizi formali o,
comunque, per difetto d'istruttoria o di
motivazione che non escludono, ma, anzi,
prevedono il riesercizio del potere,
comporta che la domanda di risarcimento del
danno non può essere valutata che all'esito
della nuova manifestazione di detto potere,
poiché la facoltà di rideterminazione che
residua in capo al soggetto pubblico esclude
il carattere di definitività del rapporto,
quale necessario presupposto dell'azione
risarcitoria (cfr. sentenza n. 36/2010
citata; TAR Bologna, II, 27.04.2005, n.
668) (TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza
12.04.2012 n.
1005 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’obbligo
gravante sui Comuni di procedere alla
revisione periodica dei contributi
urbanistici va coniugato col rispetto del
divieto di applicazione retroattiva nei
confronti delle concessioni edilizie già in
precedenza rilasciate.
Ma il principio di
irretroattività riguarda le concessioni già
rilasciate, per le quali il regime degli
oneri economici è già definito in base alla
regolamentazione vigente al momento della
loro emissione, e fa sì che non si possano
applicare retroattivamente criteri di
determinazione dei contributi introdotti in
epoca successiva al rilascio del titolo.
Va premesso che l’istituto dell’adeguamento periodico dei contributi
urbanistici (per opere di urbanizzazione e
per costo di costruzione) della cui
applicazione si discute oggi ha subìto
diversi rimaneggiamenti nel corso degli anni
ad opera del legislatore regionale (l’art.
34 della L.R. 37/1985 è stato infatti
modificato prima dall’art. 14 della L.R.
19/1994, poi dall’art. 24 della L.R.
25/1997, ed infine dall’art. 17, co. 12,
della L.R. 4/2003); il testo attualmente
vigente così recita: “L'adeguamento degli
oneri di urbanizzazione di cui all'articolo
5 della legge 28.01.1977, n. 10 e del
costo di costruzione di cui all'articolo 6
della medesima legge sostituito
dall'articolo 7 della legge 24.12.1993, n. 537, è determinato dai comuni entro
il 30 ottobre di ogni anno.
I comuni sono tenuti ad applicare gli oneri
di concessione aggiornati dal 1° gennaio
dell'anno successivo. Nelle more della
determinazione dell'adeguamento degli oneri
di cui al presente articolo, le concessioni
edilizie sono rilasciate con salvezza del
conguaglio degli oneri stessi”.
In relazione a tale norma, la giurisprudenza
ha costantemente affermato che l’obbligo
gravante sui Comuni di procedere alla
revisione periodica dei contributi
urbanistici va coniugato col rispetto del
divieto di applicazione retroattiva nei
confronti delle concessioni edilizie già in
precedenza rilasciate (in tal senso, CGA
parere a sezioni riunite 392/1995; CGA
sentenza 67/2007; CGA sentenza 364/2007; Tar
Palermo 559/2008; Tar Catania 305/1993 e
787/1996).
Ma, come attentamente evidenzia la difesa
del Comune resistente, il principio di
irretroattività riguarda le concessioni già
rilasciate, per le quali il regime degli
oneri economici è già definito in base alla
regolamentazione vigente al momento della
loro emissione, e fa sì che non si possano
applicare retroattivamente criteri di
determinazione dei contributi introdotti in
epoca successiva al rilascio del titolo.
Nella fattispecie in esame –è importante
sottolinearlo- la questione invece è
diversa, in quanto la concessione non era
stata ancora rilasciata quando è stata
approvata ed è entrata in vigore la
recentissima deliberazione consiliare
86/2010 che ha aggiornato l’entità dei
contributi.
La peculiare vicenda, allora, potrebbe
trovare soluzione con l’ausilio dei principi
interpretativi contenuti nella citata
sentenza del CGA n. 462/2008. Va premesso
che la sentenza in questione ha definito un
contenzioso sorto perché il Comune aveva, in
origine, determinato gli oneri dovuti dal
concessionario sulla base dei criteri
vigenti alla data di deposito della domanda
e di svolgimento dell’attività istruttoria,
ed aveva poi in un secondo momento richiesto
al concessionario una integrazione, facendo
applicazione delle tariffe aggiornate
vigenti nell’anno in cui la concessione era
stata effettivamente rilasciata.
In tale contesto il giudice d’appello ha
precisato che il principio tempus regit
actum applicato alle questioni del tipo oggi
in esame implica l’applicazione del regime
tariffario vigente al momento del rilascio
della concessione ed il conseguente divieto
di applicazione retroattiva di disposizioni
sopravvenute (anche se di poco) rispetto a
tale evento. Tale divieto discenderebbe dal
principio generale di irretroattività degli
atti amministrativi sancito nell’art. 15
delle “preleggi”, e sarebbe stato confermato
con specifico riguardo alla materia in esame
dall’art. 14 della L.R. 19/1994 che ha
modificato il testo dell’art. 34 della L.R.
37/1985.
Più in particolare, posto che la legge
regionale pospone l’efficacia delle delibere
di adeguamento degli oneri urbanistici al
primo gennaio dell’anno successivo a quello
di deliberazione, secondo la sentenza in
esame le tariffe aggiornate possono essere
applicate solo alle concessioni rilasciate a
far data dal primo gennaio, e non a quelle
rilasciate in precedenza.
Riguardo al momento di determinazione degli
oneri urbanistici, la decisione in esame
precisa che la individuazione del quantum
dovuto debba essere fatta
dall’amministrazione prima (ed in funzione)
del rilascio del titolo (cfr. art. 11 della
L. 10/1977).
Con riguardo poi alla possibilità per i
Comuni di rilasciare le concessioni con la
clausola di “riserva di conguaglio” prevista
dall’ultimo periodo della norma in esame
(nel testo risultante dalla L.R. 4/2003), la
sentenza ha ulteriormente precisato che si
tratta di un conguaglio da applicare nelle
sole ipotesi in cui la rideterminazione
degli oneri sia effettuata dal Consiglio
comunale al di là del termine del 30 ottobre
(o, in ipotesi, anche ad anno solare già
iniziato), trattandosi di termine non
perentorio ma ordinatorio. La funzione del
conguaglio sarebbe, quindi, solo quella di
rendere applicabili all’anno di competenza
le tariffe aggiornate; non già quella di
renderle applicabili in via retroattiva.
Schematizzando e riassumendo i principi
appena esposti, emerge il seguente sistema:
a) le tariffe aggiornate in un determinato
anno, riguardanti gli oneri urbanistici, non
possono essere applicate alle concessioni
precedentemente rilasciate;
b) le stesse deliberazioni consiliari di
aggiornamento hanno efficacia ex lege
dal primo gennaio dell’anno successivo a
quello di deliberazione, e si applicano
quindi alle concessioni rilasciate
successivamente alla suddetta data;
c) le deliberazioni di aggiornamento possono
essere eventualmente approvate anche dopo il
termine (che ha carattere ordinatorio) del
30 ottobre di ogni anno stabilito dalla
legge, ed anche il tal caso avranno
efficacia dal successivo primo gennaio;
d) nella ipotesi sub c, se la delibera
interviene dopo il 30 ottobre e ad anno
successivo già iniziato, il Comune rilascia
la concessione in base alle tariffe
previgenti, ma gode del diritto a richiedere
il conguaglio per applicare gli oneri
tardivamente aggiornati; in tal caso si
deroga (in via eccezionale) al principio di
irretroattività
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza
12.04.2012 n.
989 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
ENTI LOCALI: Sindaci inerti alla Corte dei conti.
Rischia l'amministratore che non dà
esecuzione a sentenze. Dal Tar Sicilia prima
applicazione del decreto semplificazioni, in
vigore dal 7 aprile scorso.
Gli amministratori, i dirigenti e i
funzionari del Comune rischiano di finire
davanti alla Corte dei conti se l'ente non
dà esecuzione alle sentenze dei giudici.
È
la novità introdotta dal dl semplificazioni
convertito dalla legge 35/2012, entrata in
vigore il 7 aprile scorso, che subito trova
applicazione nella
sentenza
12.04.2012 n. 983 del TAR Sicilia-Catania,
Sez. I.
L'amministrazione di un
paese dell'Isola latita: è divenuto
esecutivo, perché non opposto, il decreto
ingiuntivo emesso a carico del Comune dalla
sezione lavoro del Tribunale etneo. Ma dalle
casse del municipio continua a non uscire un
euro. Allora chi ha conseguito il
provvedimento monitorio si rivolge al Tar
per ottenere che la controparte adempia una
volta per tutte alla sentenza del giudice
attraverso il giudizio di ottemperanza.
Il
Tar ordina al Comune di eseguire il
giudicato entro 60 giorni e indica un
commissario ad acta che dovrà provvedere,
entro altri 60 giorni, nell'ipotesi di
persistente inerzia dell'amministrazione
condannata: il dirigente pubblico tenuto a
provvedere è individuato nel segretario
generale di un Comune più grande, limitrofo
a quello «incriminato». Alla fine del suo
lavoro, il commissario invierà una relazione
dettagliata alla procura regionale della
Corte dei conti, per l'accertamento di
eventuali responsabilità a carico di
amministratori e funzionari, derivanti
dall'inottemperanza al giudicato.
Dipendenti
e politici locali, dunque, cominciano a fare
i conti con le nuove responsabilità del dl
«Semplifica Italia» che ha riscritto i commi
8 e 9 dell'articolo 2 della 241/1990: le
sentenze passate contro il
silenzio-inadempimento dell'amministrazione
sono trasmesse alla Corte dei conti. La
mancata o tardiva emanazione del
provvedimento è elemento di responsabilità
disciplinare e amministrativo-contabile del
dirigente e del funzionario inadempiente
(articolo ItaliaOggi
del 27.04.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
repressione dell’abuso edilizio si qualifica
quale atto vincolato, che non necessita di
alcun preavviso ai sensi dell’art. 7 della
L. 241/1990. Tuttavia,
parte della giurisprudenza ha evidenziato
come la suddetta comunicazione sia
necessaria tutte le volte in cui il
confronto procedimentale col destinatario
del provvedimento possa rivelarsi utile o
necessario ai fini della esatta
determinazione della consistenza dell’abuso
di cui viene intimata la demolizione.
L’interesse pubblico alla repressione degli
abusi edilizi ed al ripristino della
legalità è in re ipsa, non sussistendo alcun
affidamento del privato meritevole di
tutela, e non potendosi certamente
consentire l’utilizzo libero ed
indiscriminato delle facoltà edificatorie
sul territorio, sol perché le autorità
preposte al controllo siano intervenute a
reprimerle con ritardo.
E' illegittima l'ordinanza di demolizione
che sia priva di un'adeguata motivazione,
non specificando né rendendo in alcun modo
comprensibile, sotto quale profilo o per
quali caratteri l'opera si sia discostata
dagli atti progettuali.
Si premette che l’impugnata ordinanza/ingiunzione di demolizione n. 1 del
02.04.2009 –come rilevano le ricorrenti– si
limita ad indicare le misure del fabbricato
in concreto realizzato evidenziando, in
maniera invero un po’ criptica, le
differenze con quelle indicate nel progetto
assentito con la concessione edilizia n.
26/1984, ed ordinando quindi in modo
altrettanto poco determinato la “demolizione
dell’opera abusiva sopradescritta”. In
particolare, non risulta chiaro se
l’ampliamento misurato riguardi tutti e tre
i piani; se l’abusivismo si riscontri, in
tutto od in parte, anche nella realizzazione
del secondo piano; se l’ampliamento verso il
lato sud riguardi o meno l’intero
fabbricato.
A fronte di un provvedimento repressivo così
poco esplicativo in ordine alla consistenza
materiale dell’abuso edilizio, risultano
fondate le censure proposte dalle ricorrenti
che di seguito si analizzano:
1.- In relazione al mancato invio della
comunicazione di avvio del procedimento.
Il Collegio conosce e condivide la
giurisprudenza che qualifica la repressione
dell’abuso edilizio quale atto vincolato,
che non necessita di alcun preavviso ai
sensi dell’art. 7 della L. 241/1990. Tuttavia,
parte della giurisprudenza ha evidenziato
come la suddetta comunicazione sia
necessaria tutte le volte in cui il
confronto procedimentale col destinatario
del provvedimento possa rivelarsi utile o
necessario ai fini della esatta
determinazione della consistenza dell’abuso
di cui viene intimata la demolizione.
E’
l’esigenza che connota il caso oggi in
esame, nel quale una preventiva
comunicazione di avvio del procedimento
avrebbe consentito alle parti di
confrontarsi sulla determinazione delle
parti realmente illegittime della
costruzione, ed avrebbe quindi contribuito
alla redazione di una ordinanza di
demolizione analitica e definita nei suoi
esatti contenuti.
2.- In relazione al denunciato travisamento
dei fatti concernente l’esistenza dei
presunti lavori in corso.
Anche il secondo motivo di ricorso appare
fondato laddove mette in evidenza il fatto
che l’impugnata ordinanza, da una parte,
muove dal presupposto che siano stati
realizzati lavori edilizi, definiti come
fatto ormai compiuto, ma dall’altra parte e
contraddittoriamente, dispone la sospensione
dei lavori, come se questi fossero ancora in
itinere.
Il provvedimento impugnato è, quindi,
illegittimo nella parte in cui ordina la
sospensione di una attività edificatoria che
non risulta essere attuale.
3.- In ordine alla denunciata carenza di
motivazione del provvedimento.
Risulta infondata la censura che postula la
necessaria indicazione dell’interesse
pubblico perseguito col provvedimento
repressivo nei casi in cui la demolizione
dell’abuso sia stata ordinata a distanza di
molti anni dalla realizzazione del
manufatto.
Pacifica giurisprudenza evidenzia che
l’interesse pubblico alla repressione degli
abusi edilizi ed al ripristino della
legalità è in re ipsa, non sussistendo alcun
affidamento del privato meritevole di
tutela, e non potendosi certamente
consentire l’utilizzo libero ed
indiscriminato delle facoltà edificatorie
sul territorio, sol perché le autorità
preposte al controllo siano intervenute a
reprimerle con ritardo (tra le più recenti
si veda Tar Lecce 240/2011; Tar Brescia
69/2011; Tar Napoli 26797/2010; Tar Bari
3902/2010; Tar Bologna 7898/2010).
4.- In relazione alla dedotta violazione
degli artt. 12 L. 47/1985 e 7 L.R. 37/1985,
a causa della mancata irrogazione della
sanzione alternativa di carattere pecuniario
in vece di quella ripristinatoria.
La censura risulta infondata per difetto di
prova.
Infatti, l’art. 12, co. 2, della L. 47/1985
stabilisce che –nei casi di parziale
difformità dal titolo edilizio– se la
demolizione non può avvenire senza
pregiudizio della parte eseguita in
conformità, il Sindaco applica una sanzione
pari al doppio del costo di produzione.
Tuttavia, parte ricorrente omette di fornire
la prova che le componenti abusive
dell’immobile non possano essere soppresse e
scorporate senza pregiudizio per l’intero
fabbricato. Ne consegue l’infondatezza del
rilievo, in relazione al quale -eventualmente- l’amministrazione potrà
svolgere specifica istruttoria nella
successiva attività provvedimentale che
eserciterà sulla vicenda.
5.- con riguardo alla censura di genericità
del provvedimento impugnato, che non
consentirebbe di distinguere le parti
legittime del fabbricato rispetto ai lavori
abusivi.
Si è già detto in premessa che l’impugnata
ordinanza appare illegittima sotto il
profilo considerato. Senza la analitica ed
esatta determinazione del rilevato abuso
edilizio (nelle sue componenti orizzontali e
verticali) la parte obbligata non è posta in
condizione di procedere alla demolizione; ma
analoga difficoltà incontrerebbe
successivamente lo stesso ente pubblico che
intervenisse ai sensi dell’art. 7 della L.
47/1985 per acquisire al proprio patrimonio
la res abusiva e per disporne in proprio la
demolizione a spese del responsabile.
In
proposito si richiama la giurisprudenza che
ha ritenuto “(…) illegittima l'ordinanza di
demolizione che sia priva di un'adeguata
motivazione, non specificando né rendendo in
alcun modo comprensibile, sotto quale
profilo o per quali caratteri l'opera si sia
discostata dagli atti progettuali.” (Tar
Catanzaro, 2835/2010).
6.- In ordine al censurato perseguimento di
un interesse privato, in luogo di quello
pubblico.
La censura è infondata. Si fa rinvio a
quanto chiarito al precedente punto 3 dove
si è evidenziata l’insussistenza di un
obbligo di specifica individuazione
dell’interesse pubblico perseguito con
l’ordinanza di demolizione. Per quanto
concerne le asserite motivazioni
collaterali, od “occulte”, che avrebbero
spinto i funzionari comunali ad emettere
l’ordinanza, si rileva che si tratta appunto
di ragioni non esternate nell’atto, né
percepibili in modo diretto ed
inequivocabile. Pertanto, non si rileva
sotto tale profilo un vizio sindacabile in
sede di processo amministrativo.
Sulla base di quanto esposto, l’ingiunzione
di demolizione appare illegittima per i vizi
sopra enumerati. Anche il successivo
provvedimento di immissione in possesso,
censurato coi motivi aggiunti, risulta
affetto da invalidità derivata, trattandosi
di atto consequenziale a quello annullato.
Ne consegue che il ricorso ed i motivi
aggiunti possono essere accolti nella parte
in cui postulano l‘annullamento degli atti
impugnati; fermo restando naturalmente il
potere/dovere degli organi comunali di
adottare ulteriori e nuovi provvedimenti,
rispettosi delle norme di cui si è censurata
la violazione.
Non può essere invece accolta la domanda
risarcitoria avanzata dalle ricorrenti: sia
perché, la vicenda non è ancora conclusa,
sussistendo i presupposti per l’adozione di
nuovi provvedimenti repressivi; sia perché
il pregiudizio potenzialmente generato è
stato eliminato immediatamente ed in radice,
attraverso l’intervento cautelare di questo
giudice.
Inammissibile risulta, infine, la
subordinata domanda di condanna alla
corresponsione dell’indennizzo previsto
dall’art. 21-quinquies della L. 241/1990:
come è noto, la citata norma prevede
l’obbligo di corrispondere un indennizzo ai
soggetti che hanno subito pregiudizio per
effetto della revoca in autotutela di un
provvedimento amministrativo, determinata da
sopravvenuti motivi di pubblico interesse.
Nel caso oggi in esame, difettano tutti i
presupposti predetti dato che non si è in
presenza di alcun procedimento di secondo
grado avviato in funzione di autotutela
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza
12.04.2012 n.
982 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
L’approvazione del piano di lottizzazione costituisce espressa prerogativa
dell’organo assembleare al quale, comunque,
il responsabile del procedimento (ovvero il
competente organo dirigenziale) è tenuto ad
inoltrare la proposta di deliberazione, sia
essa di accoglimento dell’istanza o di
rigetto. Solo a seguito di approvazione del
piano è possibile rilasciare, in conformità,
la concessione edilizia da parte del
competente dirigente ex art. 107 d.lgs. n.
267 del 2000.
Il Collegio non ignora
l’orientamento giurisprudenziale (cfr., tra
le diverse, C.d.S. Sez. VI Sent. n. 2862 del
17.05.2006; C.d.S. Sez. V Sent. n. 888 del
05.06.1991; TAR Piemonte Sez. I Sent. n. 2253
del 04.09.2009; TAR Bolzano Sent. n. 200 del
25.07.2000; TAR Basilicata Sent. n. 695 del
05.12.2007), che al contrario ritiene l'atto
di comunicazione del parere negativo della
commissione edilizia equivalga
all'emanazione del provvedimento conclusivo
del procedimento, poiché -secondo tale tesi- deve ritenersi che da tale atto di
comunicazione si evincerebbe che l'organo
titolare del potere di emanazione del
provvedimento conclusivo del procedimento
condivida pienamente il parere negativo
dell'organo consultivo. Da ciò deriverebbe
che l’atto di comunicazione conterrebbe, per
implicito, il provvedimento di rigetto
dell'istanza e perciò costituirebbe, in
tesi, un provvedimento immediatamente
lesivo, che deve essere impugnato entro il
termine decadenziale di impugnazione.
Sul punto questa Sezione ha, recentemente,
preso una diversa posizione che ritiene di
dover confermare:
«9. L'ordinamento degli enti locali della
Regione Siciliana, con una disposizione
inserita nell'ambito della disciplina
urbanistica (art. 14, l.r. 27.12.1978,
n. 71), ha previsto tra le competenze del
consiglio comunale, notoriamente limitate
all'adozione dei cd. atti fondamentali (art.
1 l.r. 11.12.1991, n. 48), quella
relativa al provvedimento approvativo del
piano di lottizzazione.
In tutte le materie di sua competenza il
consiglio comunale delibera -di regola-
sulla base delle proposte formulate dai
competenti responsabili dei procedimenti una
volta esaurita la fase dell'istruttoria ed
una volta acquisiti i pareri di regolarità
tecnica e di regolarità contabile ove
previsti. Le proposte vengono quindi
inoltrate all'organo consiliare per
l'iscrizione all'ordine del giorno della
competente commissione consiliare permanente
ovvero del plenum del medesimo consiglio
comunale, secondo le prescrizioni dettate
dallo specifico regolamento di funzionamento
dell'organo assembleare, di cui peraltro
ogni comune deve essere dotato (l.r. n.
30/2000).
La fase di trasmissione della proposta è
financo regolata dalla legge regionale sul
procedimento amministrativo, la quale
stabilisce che "Qualora l'adozione del
provvedimento finale rientri nella
competenza del responsabile del
procedimento, questi è tenuto ad adottare il
provvedimento stesso subito dopo la
definizione del procedimento. Se l'adozione
medesima rientra, invece, nella competenza
di altro organo, il responsabile del
procedimento, entro tre giorni lavorativi
dalla definizione dell'istruttoria,
trasmette la proposta, corredata degli atti
necessari, [...] al funzionario con
qualifica apicale, il quale, ove lo stesso
rientri nella propria competenza, adotta il
provvedimento entro dieci giorni, oppure lo
sottopone immediatamente all'organo
competente per l'adozione, che provvede
anch'esso entro il termine di dieci giorni"
(art. 6, comma 2, l.r. 30.04.1991, n.
10, come modificato dall'art. 9, comma 7,
della l.r. 05.04.2011, n. 5). Ciò
precisato, è indubbio che il parere della
commissione edilizia comunale non coincida
con il provvedimento conclusivo del
procedimento di approvazione del piano di
lottizzazione (cfr. Tar Sicilia, Palermo,
31.05.2010, n. 7051), la cui adozione
era in ogni caso riservata alla competenza
(esclusiva) del consiglio comunale.
Il dirigente tecnico sarebbe stato, infatti,
tenuto a trasmettere una proposta di
deliberazione, congiuntamente al parere
della commissione edilizia , al Consiglio
comunale per le successive valutazioni di
competenza, le quali avrebbero dovuto
concretizzarsi in una specifica
deliberazione (di accoglimento o di
reiezione, stante la non vincolatività del
parere di che trattasi), di guisa che nessun
effetto lesivo esterno può essere imputato
all'atto impugnato.
È ben noto al Collegio che la regola
dell'inammissibilità dell'impugnativa di
atti endoprocedimentali incontra
un'eccezione nell'ipotesi in cui gli stessi
siano suscettibili di incidere
immediatamente sulla posizione giuridica
dell'interessato, come nel caso di atti di
natura vincolata, idonei come tali ad
imprimere un indirizzo ineluttabile alla
determinazione conclusiva, di atti
interlocutori, idonei a determinare un
arresto procedimentale capace di frustrare
l'aspirazione dell'istante ad un celere
soddisfacimento dell'interesse pretensivo
prospettato. Nel caso di specie proprio
l'assenza di vincolatività del parere della
Commissione edilizia imponeva la
prosecuzione del procedimento con una tutela
rispetto all'inerzia del Consiglio comunale
[...]» (TAR Sicilia, Palermo, III, 27.10.2011, n. 1876).
L’approvazione del piano di lottizzazione,
come visto, costituisce espressa prerogativa
dell’organo assembleare al quale, comunque,
il responsabile del procedimento (ovvero il
competente organo dirigenziale) è tenuto ad
inoltrare la proposta di deliberazione, sia
essa di accoglimento dell’istanza o di
rigetto. Solo a seguito di approvazione del
piano è possibile rilasciare, in conformità,
la concessione edilizia da parte del
competente dirigente ex art. 107 d.lgs. n.
267 del 2000 (art. 6, comma 2, l. n. 127 del
1997, nel testo richiamato dall’art. 2,
comma 3, l.r. n. 23 del 1998).
Va detto per completezza che tale competenza
consiliare è venuta meno, per espressa
scelta legislativa (art. 22, c. 12, della
legge regionale 22.12.2005 n. 19), per
poi essere reintrodotta per volere dello
stesso legislatore regionale (cfr. art. 12,
comma 20, L.R. 30.01.2006, n. 1).
La separazione di competenze tra l’organo
preposto all’istruttoria e di quello
chiamato a svolgere una funzione consultiva
-quale la commissione edilizia comunale,
peraltro ormai soppressa dall’ordinamento
regionale- e tra questi e l’organo
consiliare, non può dar luogo
all’attribuzione di significati impliciti
alle determinazioni del primo, di guisa che
le stesse decisioni rimangono relegate al
rango di atti infraprocedimentali non
suscettivi di autonoma lesività
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza
12.04.2012 n.
751 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Corte
costituzionale. Meccanismo impossibile nelle
strutture più piccole.
Progressioni, riserva del 50% da assicurare
in ogni profilo.
Il 50% dei posti riservati all'esterno nella
copertura dei posti vacanti deve essere
garantito a livello di singolo profilo
professionale e non di programmazione
complessiva.
È quanto afferma la Corte
Costituzionale, con la
sentenza
12.04.2012 n. 90.
La questione viene sollevata dalla
presidenza del Consiglio dei ministri, che
ha sottoposto al giudizio di legittimità
costituzionale una legge della Regione
Trentino Alto Adige. In questa legge era
previsto che il rispetto della quota dei
posti vacanti da destinare all'accesso
all'esterno, in sede di copertura degli
stessi, poteva avvenire per compensazione
fra i vari profili professionali.
In
pratica, alcuni concorsi erano riservati
totalmente al personale interno, ovvero alla
progressione di carriera in quanto attinenti
a professionalità che si sviluppavano su più
livelli giuridico-economici. Altre procedure
selettive erano, invece, aperte solo ai
soggetti non già appartenenti
all'amministrazione. La compensazione fra i
concorsi pubblici e le progressioni di
carriera non eccedeva il limite del 50%
previsto dalla giurisprudenza consolidata
prima e dall'articolo 24 del Dlgs 150/2009
poi. La Corte interviene su questo impianto
e abbraccia la tesi proposta da Palazzo
Chigi.
Riconosce così l'illegittimità
costituzionale della disposizione in
questione in quanto contraria ai principi di
uguaglianza e di buon andamento della
Pubblica amministrazione: la norma poteva
essere utilizzata per aggirare il principio
del pubblico concorso, previsto dagli
articoli 3 e 97 della Costituzione. Mentre
rigetta la tesi della Regione, la quale
aveva sottolineato come la stessa Corte
Costituzionale avesse ammesso, con la
sentenza 213/2000, che per «peculiari
situazioni giustificatrici» si potesse
derogare dal concorso pubblico. Quindi,
concorsi con riserva massima del 50% agli
interni, ma calcolata per singolo profilo
professionale.
Aggiunge la Corte che il
rispetto del 50% dei posti da destinare
all'esterno per compensazione porterebbe ad
avvantaggiare il personale interno nelle
categorie superiori e riservare agli esterni
solo i posti che richiedono mansioni
inferiori. Inoltre, evidenzia come il
calcolo della riserva non possa prendere in
considerazione i posti coperti con concorsi
in anni passati, ma deve far riferimento al
momento «genetico».
Si può affermare, quindi, che le
progressioni di carriera, negli enti
medio-piccoli, sono praticamente morte.
Considerati i vincoli in materia di
assunzioni, oggi per poter procedere ad una
progressione di carriera si devono
verificare cinque cessazioni per assumere
dall'esterno ed un'altra per la
differenza di stipendio tabellare per la
progressione; tutte del medesimo profilo
professionale. Situazione del tutto
irrealizzabile, viste anche le strette in
materia di pensioni, se non in enti dove il
numero di dipendenti arriva alle quattro
cifre. Anche qualora venga approvata
definitivamente la proposta di elevare dal
20 al 40% il limite delle assunzioni
rispetto alla spesa dei cessati dell'anno
precedente, modifica in discussione in
Parlamento, il quadro migliora, ma resta
sempre molto critico
(articolo Il Sole 24
Ore del 30.04.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' soggetta a concessione
edilizia l'edificazione del muro di
contenimento.
Nel caso in
cui la funzione del muro sia quella di
sostenere, il muro stesso deve essere
autorizzato mediante il rilascio di una
concessione edilizia.
I muri di contenimento, invero, hanno una
consistenza diversa dalle recinzioni, dalle
quali si differenziano per funzione (che non
è quella di delimitare, proteggere ed
eventualmente abbellire la proprietà, ma,
essenzialmente, di sostenere il terreno al
fine di evitare movimenti franosi dello
stesso) e struttura (che deve, appunto,
essere idonea per consistenza e modalità
costruttive ad assolvere alla funzione di
contenimento).
Ne consegue che mentre il muro di cinta può
essere ricondotto alla categoria delle
pertinenze, il muro di contenimento,
destinato a contenere o sostenere esso
stesso dei volumi ulteriori, invece, viene
assimilato alla categoria delle costruzioni:
in tal caso, infatti, il manufatto ha una
funzione autonoma, dal punto di vista
edilizio e da quello economico.
Contrariamente a quanto
dedotto da parte ricorrente, la
giurisprudenza è, da tempo, attestata nel
ritenere soggetta a concessione edilizia
l'edificazione del muro di contenimento.
In proposito è sufficiente richiamare, ex multis, la sentenza del C.G.A.
05.05.1993, n. 165, secondo la quale, nel caso in
cui la funzione del muro sia quella di
sostenere, il muro stesso deve essere
autorizzato mediante il rilascio di una
concessione edilizia.
I muri di contenimento, invero, hanno una
consistenza diversa dalle recinzioni, dalle
quali si differenziano per funzione (che non
è quella di delimitare, proteggere ed
eventualmente abbellire la proprietà, ma,
essenzialmente, di sostenere il terreno al
fine di evitare movimenti franosi dello
stesso) e struttura (che deve, appunto,
essere idonea per consistenza e modalità
costruttive ad assolvere alla funzione di
contenimento).
Ne consegue che mentre il muro di cinta può
essere ricondotto alla categoria delle
pertinenze, il muro di contenimento,
destinato a contenere o sostenere esso
stesso dei volumi ulteriori, invece, viene
assimilato alla categoria delle costruzioni:
in tal caso, infatti, il manufatto ha una
funzione autonoma, dal punto di vista
edilizio e da quello economico (cfr. TAR
Emilia Romagna, Parma, 12.03.2001, n. 106;
27.04.2001, n. 246; TAR Piemonte 07.05.2003,
n. 657; TAR Liguria, sez. I, 14.11.1996, n.
492; 19.10.1994, n. 345)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 06.04.2012 n.
742 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Acque. Disciplina delle acque
pubbliche.
La disciplina delle acque pubbliche, quale
risulta prima dalla L. 05.01.1994 n. 36 e
nel DPR 238/2999 (regolamento recante norme
per l'attuazione di alcune disposizioni
della predetta legge 36/1994) e poi dal
D.Lgs. 152/2006, è indubbiamente innovativa
poiché le "definizioni" riportate,
indiscutibilmente, non fanno più riferimento
alle "caratteristiche" delle acque
pubbliche di cui all'art. 1 R.D. 1775/1933,
non richiedendosi più che esse, per la loro
portata o per l'ampiezza del loro bacino
imbrifero, abbiano od acquistino attitudine
ad usi di pubblico generale interesse.
Bisogna, però, considerare che la nuova
normativa prevede anche che le acque
costituiscono una risorsa che va tutelata ed
utilizzata secondo criteri di solidarietà:
qualsiasi loro uso è effettuato
salvaguardando le aspettative ed i diritti
delle generazioni future a fruire di un
integro patrimonio ambientale (art. 144,
comma 2, D.L.vo 152/2006 e, negli stessi
termini, art. 1 commi 1 e 2 L. 36/1994).
E proprio sotto il profilo di tale tutela
ambientale gli artt. 76 e 77 del medesimo
D.L.vo 152/2006 introducono dei limiti in
relazione alla capacità dei corpi idrici e
quindi alla significatività degli stessi
(vale a dire l'attitudine ad usi di pubblico
generale interesse) (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 05.04.2012 n.
12998 - massima e file tratti da
www.lexambiente.it).
---------------
La Cassazione penale e la nozione di
"acque pubbliche", ai sensi dell'art. 144
del Codice dell'ambiente (D.Lgs 152/2006).
La Cassazione è stata adita dal PM presso il
Tribunale di Firenze, al fine di ottenere
l’annullamento dell’ordinanza con cui il
medesimo Tribunale aveva accolto la
richiesta di riesame proposta dagli imputati
(tra cui il Dirigente del servizio impianti
sportivi del Comune di Firenze) avverso il
provvedimento di sequestro disposto dal
G.I.P.
Il Giudice penale è stato chiamato a
valutare se sussistesse nel caso concreto la
fattispecie di reato di cui all’art. 96 del
R.D. 25/07/1904, n. 523 (“Testo unico
delle disposizioni di legge intorno alle
opere idrauliche delle diverse categorie”),
che punisce la violazione del divieto di
inedificabilità assoluta all’interno della
fascia di rispetto di 10 metri dal piede
dell’argine dei corsi di’acqua pubblici.
Il Tribunale di Firenze aveva ritenuto
inesistente il fumus del reato, in
considerazione della circostanza che il
corso d’acqua in questione risulta
completamente intubato ed interrato per più
di 2 kilometri e, quindi, avrebbe perso le
caratteristiche di corso d’acqua pubblico.
Il P.M. ricorrente sosteneva che, a seguito
dell’entrata in vigore della legge
05.01.1994, n. 36 e del relativo regolamento
di attuazione (D.P.R. 238/1999), tutte le
acque sotterranee e le acque superficiali,
anche raccolte in invasi o cisterne, sono
acque pubbliche soggette all’art. 96 citato,
comprese, dunque, anche il corso d’acqua in
questione (ancorché tombinato). Ciò
troverebbe conferma nell’art. 144 del D.Lgs.
n. 152/2006 (Codice dell’Ambiente) che
contiene analoga definizione di acque
pubbliche.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso, ma
sulla scorta delle seguenti argomentazioni,
che sono diverse da quelle del P.M.
ricorrente:
- L’art. 1 del R.D. 11/12/1933 n. 1775
definiva pubbliche tutte le acque che,
considerate sia isolatamente o per la
portata o per l’ampiezza del rispettivo
bacino imbrifero, sia in relazione al
sistema idrografico al quale appartengono,
abbiano od acquistino attitudine ad usi di
pubblico generale interesse (Cassazione
civile, I, 15/03/1975, n. 1014; Cassazione
penale, III, 15/02/1974, n. 1508);
- con l’entrata in vigore del D.P.R. n.
238/1999 e del D.Lgs. n. 152/2006, è
cambiata la definizione di acqua pubblica:
non si fa più riferimento alle
caratteristiche del corso d’acqua (ad
esempio l’ampiezza);
- tuttavia, dalla lettera dell’art. 1 della
L. 346/1994 da quella dell’art. 144 del
D.Lgs. 152/2006 non può ricavarsi un
generalizzato assoggettamento al regime
pubblicistico demaniale di ogni superficie
su cui cadono o defluiscono acque meteoriche
(Cassazione S.U. 27/07/1999, n. 507);
infatti, le nuove norme sulle acque
pubbliche hanno comunque mantenuto fermo il
requisito dell’interesse pubblico, come è
fatto palese dal concetto di “utilizzazione
secondo criteri si solidarietà” di cui
all’art. 144, comma 2, del D.Lgs. 152/2006,
che presuppone comunque l’idoneità delle
acque a soddisfare usi di pubblico generale
interesse.
Ritorna, dunque, la nozione di cui all’art.
1 del R.D. 1775/1933. Viene citata, in
proposito, la sentenza della Corte
Costituzionale n. 259/1996, che ha precisato
come la dichiarazione di pubblicità di tutte
le acque non debba indurre in equivoco,
poiché l’interesse generale è alla base
della qualificazione di pubblicità di
un’acqua, intesa come risorsa suscettibile
di uso previsto e consentito. Viene anche
citata la sentenza della Cassazione Penale,
sez. I, 26/2011 n. 9331, secondo cui una
considerazione letterale degli artt. 1 e 34
L. 36/1994 potrebbe indurre ad una
conclusione drastica (secondo cui tutte le
acque hanno natura pubblica), mentre la
lettura dell’intero testo normativo consente
di rilevare come non sia stato modificato il
dettato del R.D. 11.12.1933 n. 1775, art. 1,
mantenendo in realtà fermo il concetto
secondo cui l’attitudine ad usi di pubblico
generale interesse è elemento indefettibile
a conferire la natura di acque pubbliche ad
ogni specie di acqua.
Conclude la Corte che, poiché il corso
d’acqua del caso di specie presenta
attitudine a soddisfare interessi pubblici,
esso costituisce acqua pubblica, a cui va
applicato l’art. 96 del R.D. 523/1904
(commento tratto da e link a http://venetoius.myblog.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Presupposto per l'adozione
dell'ordine di demolizione di opere abusive
è soltanto la constatata esecuzione di un
intervento edilizio in assenza del
prescritto titolo abilitativo. Ne consegue
che, essendo tale ordine un atto dovuto,
esso è sufficientemente motivato con
l'accertamento dell'abuso, e non necessita
di una particolare motivazione in ordine
all'interesse pubblico alla rimozione
dell'abuso stesso, che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell'assetto
urbanistico violato.
Ai sensi dell’art. 7 l.r. n. 47/1985
l’ingiunzione di demolizione va notificata
al “responsabile dell’abuso”; d’altra parte,
spetta solo al comproprietario eventualmente pretermesso
far valere con autonoma impugnativa le
proprie doglianze entro il termine
decorrente dalla piena conoscenza del
provvedimento di demolizione.
L'ordine di demolizione può essere
adottato senza la previa acquisizione del
parere della Commissione Edilizia nel caso
in cui non debba procedersi a valutazioni tecniche del
progetto per acclarare la conformità
dell'opera alle prescrizioni normative, ma
devono farsi esclusivamente valutazioni di
natura giuridica.
Invero:
- presupposto per l'adozione dell'ordine di
demolizione di opere abusive è soltanto la
constatata esecuzione di un intervento
edilizio in assenza del prescritto titolo
abilitativo. Ne consegue che, essendo tale
ordine un atto dovuto, esso è
sufficientemente motivato con l'accertamento
dell'abuso, e non necessita di una
particolare motivazione in ordine
all'interesse pubblico alla rimozione
dell'abuso stesso, che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell'assetto
urbanistico violato (cfr., ex multis, Tar
Campania-Napoli, sez. VII, 08.04.2011, n.
1999; Tar Campania-Napoli, sez. VIII, 06.04.2011, n. 1941).
- ai sensi dell’art. 7 l.r. n. 47/1985, per
come recepita in Sicilia con l.r. n. 37/1985,
l’ingiunzione di demolizione va notificata
al “responsabile dell’abuso”; d’altra parte,
spetta solo al comproprietario eventualmente pretermesso far valere con autonoma
impugnativa le proprie doglianze entro il
termine decorrente dalla piena conoscenza
del provvedimento di demolizione (cfr., ex multis, TAR Liguria-Genova, sez. I, 22.01.2011, n. 150; Tar Puglia-Bari,
sez. II, 15.12.2010, n. 4196);
- l’ordine di demolizione può essere
adottato senza la previa acquisizione del
parere della Commissione Edilizia nel caso
in cui non debba procedersi, come nel caso
di specie, a valutazioni tecniche del
progetto per acclarare la conformità
dell'opera alle prescrizioni normative, ma
devono farsi esclusivamente valutazioni di
natura giuridica (nel caso di specie, la
totale assenza della concessione edilizia)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 04.04.2012 n. 735 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non può essere condivisa la tesi secondo cui il diniego di
sanatoria sarebbe illegittimo in quanto
intervenuto dopo la scadenza del termine di
24 mesi fissato dall’art. 35 della legge n.
47/1985 per la pronuncia dell’autorità
amministrativa.
Invero, è costante e
consolidata ormai la giurisprudenza, secondo
la quale non solo tale termine non può
essere considerato perentorio (con
conseguente “consumazione” del potere della
pubblica amministrazione), bensì acceleratorio e quindi ordinatorio, ma
soprattutto il prodursi del
silenzio-accoglimento, in ipotesi di
richiesta di sanatoria non evasa entro detto
termine, è escluso in radice nei casi in cui
non sussistano i presupposti che dovrebbero
invece ricorrere per legittimare l’adozione
del provvedimento positivo.
Ciò in quanto
“L’eventuale inerzia dell'amministrazione
nel provvedere sulle domande di condono
edilizio, non può far guadagnare agli
interessati un risultato che gli stessi non
potrebbero mai conseguire in virtù di
provvedimento espresso”.
Non può essere condivisa,
infine, la tesi secondo cui il diniego di
sanatoria sarebbe illegittimo in quanto
intervenuto dopo la scadenza del termine di
24 mesi fissato dall’art. 35 della legge n.
47/1985 (art. 26, comma 15, della L.r. 10.08.1985, n. 37) per la pronuncia
dell’autorità amministrativa.
Come ha avuto occasione di osservare questa
Sezione Sezione in fattispecie analoghe alla
presente (fra le tante, 31.01.2006, n.
280; 06.06.2066, n. 1406), è costante e
consolidata ormai la giurisprudenza, secondo
la quale non solo tale termine non può
essere considerato perentorio (con
conseguente “consumazione” del potere della
pubblica amministrazione), bensì acceleratorio e quindi ordinatorio, ma
soprattutto il prodursi del
silenzio-accoglimento, in ipotesi di
richiesta di sanatoria non evasa entro detto
termine, è escluso in radice nei casi in cui
non sussistano i presupposti che dovrebbero
invece ricorrere per legittimare l’adozione
del provvedimento positivo.
Ciò in quanto
“L’eventuale inerzia dell'amministrazione
nel provvedere sulle domande di condono
edilizio, non può far guadagnare agli
interessati un risultato che gli stessi non
potrebbero mai conseguire in virtù di
provvedimento espresso” (cfr. altresì, Cons.
Stato, sez. VI, 26.01.2001, n. 249,
TAR Sicilia Catania, sez. I, 29.06.2004, n. 1750; TAR Campania Napoli, sez. IV,
19.06.2003, n. 7596)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 04.04.2012 n. 730 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell’art. 7, comma 3,
della legge 28.02.1985, n. 47,
l’acquisizione gratuita al patrimonio
comunale dell’immobile abusivo, del sedime e
della relativa area di pertinenza
costituisce effetto automatico della mancata
ottemperanza all’ordinanza di ingiunzione
della demolizione, ha natura meramente
dichiarativa e non implica scelte di tipo
discrezionale.
--------------
Il provvedimento di acquisizione al
patrimonio del comune di un'opera
abusivamente realizzata ha come unico
presupposto l'accertata inottemperanza ad un
ordine di demolizione del manufatto abusivo,
di cui è meramente dichiarativo, con la
conseguenza che, essendo atto dovuto, è
sufficientemente motivato con l'affermazione
dell'accertata inottemperanza, essendo "in
re ipsa" l'interesse pubblico alla sua
adozione.
Inoltre, non richiede alcuna preliminare
determinazione inerente l'esercizio di una
scelta da parte del Comune
sull'applicabilità della stessa più grave
misura acquisitiva, rispetto alla semplice
demolizione del manufatto abusivo.
...
- ai sensi dell’art. 7, comma 3,
della legge 28.02.1985, n. 47,
l’acquisizione gratuita al patrimonio
comunale dell’immobile abusivo, del sedime e
della relativa area di pertinenza
costituisce effetto automatico della mancata
ottemperanza all’ordinanza di ingiunzione
della demolizione, ha natura meramente
dichiarativa e non implica scelte di tipo
discrezionale. Peraltro, nell’impugnato
provvedimento di acquisizione (10.03.1998) si prende atto della circostanza che
“l’ulteriore area di mq. 490,08” è
“inferiore a dieci volte la superficie utile
complessiva dell’opera;
- secondo costante orientamento
giurisprudenziale (seguito anche da questo
Tribunale) il provvedimento di acquisizione
al patrimonio del comune di un'opera
abusivamente realizzata ha come unico
presupposto l'accertata inottemperanza ad un
ordine di demolizione del manufatto abusivo,
di cui è meramente dichiarativo, con la
conseguenza che, essendo atto dovuto, è
sufficientemente motivato con l'affermazione
dell'accertata inottemperanza, essendo "in
re ipsa" l'interesse pubblico alla sua
adozione.
Inoltre, non richiede alcuna
preliminare determinazione inerente
l'esercizio di una scelta da parte del
Comune sull'applicabilità della stessa più
grave misura acquisitiva, rispetto alla
semplice demolizione del manufatto abusivo
(cfr., TAR Lazio, sez. II, 12.04.2002, n. 3160; TAR Sicilia, sez. III,
06.03.2009, n. 480; sez. II, 11.01.2011, 26.07.2011, n. 1485).
Nella
specie, l’ordinanza di acquisizione appare
perfetta, in quanto contiene il riferimento
all’ordine di demolizione e alla notifica
dell’accertamente della relativa
inottemperanza, a seguito del verbale
redatto dalla Polizia Municipale in data
18.11.1996, ed è, quindi, corredato di tutti
i presupposti necessari
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 04.04.2012 n. 729 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Le norme in materia di
partecipazione al procedimento
amministrativo non debbono essere applicate
meccanicamente e a fini meramente
strumentali, ma solo quando la comunicazione
di avvio sia suscettibile di apportare una
qualche utilità all'azione amministrativa,
coerentemente con la funzione di
arricchimento sul piano del merito e della
legittimità che possa derivare dalla
partecipazione del destinatario del
provvedimento.
Pertanto, l’omissione della comunicazione
comporta l'illegittimità del provvedimento
finale solo se il soggetto non avvisato
possa provare che, ove avesse avuto la
possibilità di partecipare, avrebbe potuto
presentare osservazioni ed opposizioni anche
solo eventualmente idonee ad incidere, in
termini a lui favorevoli, sul provvedimento
finale.
Le norme in materia di
partecipazione al procedimento
amministrativo non debbono essere applicate
meccanicamente e a fini meramente
strumentali, ma solo quando la comunicazione
di avvio sia suscettibile di apportare una
qualche utilità all'azione amministrativa,
coerentemente con la funzione di
arricchimento sul piano del merito e della
legittimità che possa derivare dalla
partecipazione del destinatario del
provvedimento; pertanto, l’omissione della
comunicazione comporta l'illegittimità del
provvedimento finale solo se il soggetto non
avvisato possa provare che, ove avesse avuto
la possibilità di partecipare, avrebbe
potuto presentare osservazioni ed
opposizioni anche solo eventualmente idonee
ad incidere, in termini a lui favorevoli,
sul provvedimento finale (cfr. TAR
Sicilia, sez. II, 23.10.2006, n. 2347;
sez. III, 06.08.2010, n. 9216)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 04.04.2012 n. 727 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Presupposto per l'adozione
dell'ordine di demolizione di opere abusive
è soltanto la constatata esecuzione di un
intervento edilizio in assenza del
prescritto titolo abilitativo, con la
conseguenza che, essendo tale ordine un atto
dovuto, esso è sufficientemente motivato con
l'accertamento dell'abuso, e non necessita
di una particolare motivazione in ordine
all'interesse pubblico alla rimozione
dell'abuso stesso, che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell'assetto
urbanistico violato.
...
- che l’unico profilo di censura
che residua e che investe l’impugnata
ordinanza di demolizione, consistente nel
difetto di motivazione, deve ritenersi
infondato, stante che (e a tacer d’altro),
per costante giurisprudenza, presupposto per
l'adozione dell'ordine di demolizione di
opere abusive è soltanto la constatata
esecuzione di un intervento edilizio in
assenza del prescritto titolo abilitativo,
con la conseguenza che, essendo tale ordine
un atto dovuto, esso è sufficientemente
motivato con l'accertamento dell'abuso, e
non necessita di una particolare motivazione
in ordine all'interesse pubblico alla
rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino
dell'assetto urbanistico violato (tra le
tante, C.S., Sez. IV, 12.04.2011 n.
2266; TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
08.04.2011 n. 1999)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 03.04.2012 n.
679 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini della legittimità
dell’ordine di demolizione è sufficiente
l’accertamento dell’abuso edilizio.
-------------
La descrizione del prefabbricato contenuta
nell’ordinanza di demolizione consente
un’adeguata individuazione dell’opera
abusiva, mentre una più puntuale
specificazione (per mezzo dei dati catastali
riferiti alle particelle dei terreni sui
quali insiste l’opera abusiva) è elemento
essenziale soltanto del successivo
provvedimento di accertamento della mancata
ottemperanza alla demolizione: requisito
dell'ingiunzione di demolizione è, infatti,
l'esistenza della condizione che la rende
vincolata, cioè l'accertata esecuzione di
opere abusive e non anche la specificazione
puntuale della portata delle successive
sanzioni, recate con successivo, eventuale
provvedimento.
Secondo un consolidato indirizzo
giurisprudenziale, dal quale non si ravvisa
motivo di discostarsi, ai fini della
legittimità dell’ordine di demolizione è
sufficiente l’accertamento dell’abuso
edilizio e, a tal riguardo, l’opera
abusivamente realizzata dai ricorrenti è
sufficientemente identificata nell’ordinanza
impugnata nella quale si precisa che: “Più
specificatamente, subito dopo l’ingresso su
un ampio spiazzo, parzialmente cementato,
erano posizionati un prefabbricato etc...”.
In definitiva, la descrizione del
prefabbricato contenuta nell’ordinanza di
demolizione consente un’adeguata
individuazione dell’opera abusiva, mentre
una più puntuale specificazione (per mezzo
dei dati catastali riferiti alle particelle
dei terreni sui quali insiste l’opera
abusiva) è elemento essenziale soltanto del
successivo provvedimento di accertamento
della mancata ottemperanza alla demolizione:
requisito dell'ingiunzione di demolizione è,
infatti, l'esistenza della condizione che la
rende vincolata, cioè l'accertata esecuzione
di opere abusive e non anche la
specificazione puntuale della portata delle
successive sanzioni, recate con successivo,
eventuale provvedimento (cfr., ex multis,
Cons. St., sez. V, 26.01.2000, n. 341;
TAR Campania, Napoli, sez. IV, 26.06.2009, n.
3530)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 03.04.2012 n. 676 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’accertata
realizzazione del prefabbricato in assenza
di titolo edilizio costituisce attività
sanzionabile ai sensi degli artt. 4 ss.,
della legge 28.02.1985, n. 47; sicché è
senz’altro legittimo l’ordine di demolizione
del prefabbricato.
Invero, ove si tratti di struttura
realizzata per soddisfare esigenze aziendali
di carattere permanente (come nel caso in
esame) prescindendo da qualsiasi valutazione
in ordine alla facile amovibilità o meno di
tale struttura alla stessa non potrà
attribuirsi carattere di opera precaria, con
conseguente infondatezza del ricorso
giurisdizionale proposto avverso il connesso
provvedimento sanzionatorio-ripristinatorio
che necessariamente colpisce –trattandosi di
zona soggetta a vincoli sismico e
paesaggistico- oltre al manufatto edilizio,
anche i materiali depositati a cielo aperto,
ordinandone lo sgombero.
---------------
Il deposito a cielo aperto di mezzi d’opera
e materiali per l’edilizia, al pari del
prefabbricato costituiscono interventi –come
si evince da quanto dichiarato nel ricorso
dagli stessi ricorrenti– da lungo tempo
destinati a far fronte ad esigenze
continuative connesse all’attività d’impresa
e come tali, complessivamente considerati,
determinano una trasformazione permanente
dell'assetto edilizio del territorio in zona
soggetta a vincoli sismico e paesaggistico.
Ne consegue che la realizzazione del
prefabbricato in assenza di valido titolo
edilizio, peraltro in area soggetta ai
predetti vincoli, rende necessitato
l’intervento del Comune e legittimo il
provvedimento sanzionatorio-ripristinatorio
adottato dall’Amministrazione sia con
riferimento all’ordine di demolizione, sia
con riferimento allo sgombero dei materiali.
Infatti la generale funzione di vigilanza
sull'attività urbanistico-edilizia,
disciplinata negli articoli 4 e seguenti
della legge 28.02.1985, n. 47 ed ora
riordinata nel titolo IV del testo unico
delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia approvato
con D.P.R. 06.06.2001, n. 380, spetta
esclusivamente al Comune, che ha il
potere/dovere di vigilanza ed eventuale
repressione sull'attività
urbanistico-edilizia svolta all'interno del
territorio comunale.
Superata la questione della nullità parziale
dell’ordinanza, l’accertata realizzazione
del prefabbricato in assenza di titolo
edilizio costituisce attività sanzionabile
ai sensi degli artt. 4 ss., della legge 28.02.1985, n. 47; sicché è senz’altro
legittimo l’ordine di demolizione del
prefabbricato, in ordine al quale
l'orientamento pressoché univoco della
giurisprudenza è nel senso che ove si tratti
di struttura realizzata per soddisfare
esigenze aziendali di carattere permanente
(come nel caso in esame) prescindendo da
qualsiasi valutazione in ordine alla facile
amovibilità o meno di tale struttura –che i
ricorrenti non hanno peraltro nemmeno
dedotto- alla stessa non potrà attribuirsi
carattere di opera precaria, con conseguente
infondatezza del ricorso giurisdizionale
proposto avverso il connesso provvedimento sanzionatorio-ripristinatorio che
necessariamente colpisce –trattandosi di
zona soggetta a vincoli sismico e
paesaggistico- oltre al manufatto edilizio,
anche i materiali depositati a cielo aperto, ordinandone lo sgombero.
Risulta dirimente la considerazione che il
deposito a cielo aperto di mezzi d’opera e
materiali per l’edilizia, al pari del
prefabbricato (e delle ulteriori opere
abusive non oggetto del presente gravame)
costituiscono interventi –come si evince da
quanto dichiarato nel ricorso dagli stessi
ricorrenti– da lungo tempo destinati a far
fronte ad esigenze continuative connesse
all’attività d’impresa e come tali,
complessivamente considerati, determinano
una trasformazione permanente dell'assetto
edilizio del territorio in zona soggetta a
vincoli sismico e paesaggistico: infatti, il
prefabbricato abusivo ed i materiali a cielo
aperto insistono su particelle catastali che
nell’impugnato provvedimento il comune
dichiara ricadere “nel P.R.G. vigente in
zona F3-Parco Urbano e Territoriale
interessate, ad eccezione delle p.lle 264-
261-356 e 357 in parte, dalla fascia di
rispetto dell’asta fluviale, con l’intero
territorio comunale soggetto ai vincoli
sismico e paesaggistico”. Sul punto i
ricorrenti non hanno fornito alcun principio
di prova in ordine alla contestata
individuazione delle particelle
effettivamente utilizzate come deposito a
cielo aperto ma si sono limitati soltanto a
genericamente dichiarare, nel ricorso, che i
beni erano per la gran parte accatastati –al momento del sopralluogo eseguito dalla
Polizia Municipale– nelle particelle di
terreno non incluse nella zona Parco.
Ne consegue che la realizzazione del
prefabbricato in assenza di valido titolo
edilizio, peraltro in area soggetta ai
predetti vincoli, rende necessitato
l’intervento del Comune e legittimo il
provvedimento sanzionatorio-ripristinatorio
adottato dall’Amministrazione sia con
riferimento all’ordine di demolizione, sia
con riferimento allo sgombero dei materiali.
Infatti la generale funzione di vigilanza
sull'attività urbanistico-edilizia,
disciplinata negli articoli 4 e seguenti
della legge 28.02.1985, n. 47 ed ora
riordinata nel titolo IV del testo unico
delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia approvato
con D.P.R. 06.06.2001, n. 380, spetta
esclusivamente al Comune, che ha il
potere/dovere di vigilanza ed eventuale
repressione sull'attività urbanistico-edilizia
svolta all'interno del territorio comunale (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 03.04.2012 n. 676 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Attesa la configurabilità di
interventi edilizi anche nel caso di
deposito a cielo aperto nelle ipotesi in cui
per la complessiva entità degli interventi
realizzati vi è una modificazione permanente
del territorio soggetto a vincoli sismico e
paesaggistico, ne consegue che il Comune,
oltre al ripristino dello stato dei luoghi,
legittimamente irroga anche la sanzione
pecuniaria nella misura di 516 euro ex art.
37, comma 1, D.P.R. 380/2001 (che ha
sostituito l’art. 10 L. 47/1985), senza che
tale conclusione possa ritenersi preclusa
dalla mancanza attivazione del sub
procedimento per la determinazione del
valore venale dell’immobile, atteso che la
sanzione pecuniaria è irrogata nella misura
minima edittale e, dunque, nessuna
modificazione migliorativa i ricorrenti
avrebbero potuto sortire.
Infatti, alla stregua delle raggiunte
conclusioni ed in applicazione dell'art.
21-octies della legge n. 241 del 1990,
siffatta circostanza non è assolutamente
idonea a paralizzare l'efficacia di un
provvedimento repressivo che non può avere
alcun altro diverso contenuto da quello
reso, inderogabilmente necessitato dalle
previsioni normative riportate, costituenti
presupposto dell'ordine di demolizione e di
sgombero impartito dal Comune e da cui
prende le mosse la vicenda processuale qui
in via di definizione.
Con
il secondo motivo di ricorso, i ricorrenti
sostengono l’inapplicabilità della sanzione
pecuniaria irrogata nella misura di 516 euro
ex art. 37, comma 1, D.P.R. 380/2001 che ha
sostituito l’art. 10 L. 47/1985, per la mancata
richiesta di preventiva autorizzazione
sull’assunto, errato, della insussistenza
del presupposto dell’esecuzione di
“interventi edilizi” con riferimento al
deposito di materiali a cielo aperto.
Il motivo di ricorso è infondato.
Attesa la configurabilità di interventi
edilizi anche nel caso di deposito a cielo
aperto nelle ipotesi, quale quella in esame,
in cui per la complessiva entità degli
interventi realizzati vi è una modificazione
permanente del territorio soggetto a vincoli
sismico e paesaggistico, ne consegue che il
Comune, oltre al ripristino dello stato dei
luoghi, ha legittimamente irrogato anche la
sanzione pecuniaria nella misura di 516 euro
ex art. 37, comma 1, D.P.R. 380/2001 (che ha
sostituito l’art. 10 L. 47/1985), senza che tale
conclusione possa ritenersi preclusa dalla
mancanza attivazione del sub procedimento
per la determinazione del valore venale
dell’immobile, atteso che la sanzione
pecuniaria è stata irrogata nella misura
minima edittale e, dunque, nessuna
modificazione migliorativa i ricorrenti
avrebbero potuto sortire.
Infatti, alla stregua delle raggiunte
conclusioni ed in applicazione dell'art. 21-octies della legge n.
241 del 1990, siffatta circostanza non è
assolutamente idonea a paralizzare
l'efficacia di un provvedimento repressivo
che non può avere alcun altro diverso
contenuto da quello reso, inderogabilmente
necessitato dalle previsioni normative
riportate, costituenti presupposto
dell'ordine di demolizione e di sgombero
impartito dal Comune e da cui prende le
mosse la vicenda processuale qui in via di
definizione
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 03.04.2012 n. 676 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Demolizione abusiva di un bene
artistico della parrocchia – Dichiarazione
di interesse culturale – Preesistenza – Non
è necessaria – Artt. 10 e 169, c. 1, lett.
a), d.lgs. n. 42/2004.
In tema di protezione delle bellezze
naturali, ai fini della configurabilità del
reato di cui all’art. 169, comma 1, lett.
a), del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, che
punisce l’abusiva demolizione, rimozione,
modifica, restauro od esecuzione di opere di
qualunque genere su beni culturali, non è
necessaria per i beni artistici appartenenti
alle parrocchie la preesistenza della
dichiarazione di interesse culturale del
bene, giacché si presumono per legge beni
culturali, se questi posseggono valore
artistico, storico, archeologico, ecc….
Sicché, l’affermazione secondo la quale i
beni delle chiese aperte al pubblico sono
stati sempre considerati beni culturali, se
aventi valore artistico, è conforme alle
disposizioni normative che si sono succedute
nel tempo in materia di tutela di beni
artistici.
Beni artistici e
culturali appartenenti ad Istituti
ecclesiastici – Alienazione – Impossibilità.
Le cose che presentano un interesse
artistico, storico, archeologico o
etnografico, appartenenti ad Enti o Istituti
legalmente riconosciuti -fra i quali vanno
annoverati anche gli Istituti ecclesiastici
cui fanno capo le Chiese aperte al culto-
non possono essere alienate se non previa
autorizzazione del Ministero competente.
Beni appartenenti ad
Istituti ecclesiastici – Decreto impositivo
del vincolo culturale – Notifica – Necessità
– Esclusione – Alienazione – Assenza di
autorizzazione – Costituisce reato – Art. 3
L. n. 1089/1939 e s.m..
Ai sensi dell’art. 3 l. 1.06.1939, n. 1089,
il decreto impositivo del vincolo culturale
deve essere notificato solo se relativo a
cose appartenenti a privati, mentre per
quelle appartenenti ad Istituto legalmente
riconosciuto, il vincolo é efficace a
prescindere da qualsiasi notifica del
provvedimento ed anche se le cose non sono
state comprese negli elenchi che i
rappresentanti degli Enti sono obbligati a
presentare; pertanto, commette il reato di
cui all’art. 62 l. n. 1089 cit. (che è di
dolo generico e richiede soltanto la
coscienza e volontà della alienazione) il
titolare di una Parrocchia che alieni senza
autorizzazione una cosa di interesse
artistico appartenente ad una Chiesa aperta
al pubblico.
Reati contro i beni
artistici e culturali – Art. 59 l. n.
1089/1939 – Ratio.
In tema di reati contro il patrimonio
archeologico, storico ed artistico, l’art.
59 L. 01.06.1939 n. 1089, ha come
destinatari non solo i proprietari del bene
vincolato, ed i soggetti a questi
equiparati, ma anche tutti gli altri
soggetti che, pur non essendo titolari di
poteri o facoltà sul bene medesimo, possono
di fatto, con il loro comportamento
(demolizione, rimozione, modifica, restauro
non autorizzato), modificare la condizione
materiale o giuridica della “res” nel
senso vietato dalla norma, che, infatti,
tutela direttamente i beni, come si desume
dall’inciso “i beni non possono” e
solo indirettamente si riferisce ai titolari
sui quali ricadono gli effetti giuridici;
pertanto, la tesi che circoscrive la
responsabilità solo ai soggetti che possono
chiedere l’autorizzazione sposta la ratio
della tutela dal bene al potere di controllo
riservato alla P.A. che deve rilasciare
l’autorizzazione che “ha valore per la
sua funzionalità alla tutela del bene” e
non di per sé, in quanto oggetto diretto
della tutela è il bene, che può essere
aggredito da chiunque, e non il potere di
controllo riservato alla P.A. (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.03.2012 n. 11412 - link a
www.ambientediritto.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La
Cassazione blocca le assunzioni.
I contratti ripetuti danno diritto solo
all'indennizzo.
LE RAGIONI/
L'interpretazione confermata dalla Suprema
corte serve a tutelare il principio
dell'accesso unicamente per concorso.
In caso di utilizzo di contratti a termine
senza soluzione di continuità, un Comune
deve pagare i danni, ma non è obbligato
all'assunzione. Deve infatti ritenersi
conforme ai principi Ue e alla Costituzione
il divieto di conversione in rapporti a
tempo indeterminato dei contratti a tempo
determinato sottoscritti dalla Pa in modo
illecito.
Questo il principio ribadito dalla
Corte di Cassazione nella
sentenza
20.03.2012 n. 4417, con cui
ha respinto il ricorso presentato da alcuni
soggetti che avevano avuto rapporti
continuativi a tempo determinato con un
Comune.
Nel caso, un ente aveva assunto alcuni
lavoratori, quali assistenti bagnini, con
contratto a tempo determinato per una
stagione estiva e alla scadenza li aveva
riassunti immediatamente, con lo stesso
contratto e per le stesse mansioni. I
dipendenti hanno impugnato gli atti
dell'ente, sostenendo che il rapporto doveva
considerarsi a tempo indeterminato sin dalla
stipula del primo contratto e richiedendo il
pagamento della differenza retributiva.
Il giudice di primo grado ha respinto il
ricorso, chiarendo che si trattava di due
contratti a termine, e non di proroga di un
unico contratto, e che la violazione di
disposizioni imperative sulle assunzioni da
parte della Pa non può comportare la
costituzione di rapporti di lavoro a tempo
indeterminato, ma solo il risarcimento del
danno, condannando il Comune a un indennizzo
pari a tredici mensilità della retribuzione
netta prevista nel contratto di lavoro,
oltre alle differenze retributive spettanti
per la durata dei contratti a termine. Anche
la Corte di appello ha confermato
l'interpretazione.
La Cassazione ha ribadito il principio che,
in materia di pubblico impiego, un rapporto
di lavoro a tempo determinato non è
suscettibile di conversione in uno a tempo
indeterminato, stante il divieto posto
dall'articolo 36 del Dlgs 165/2001, il cui
disposto è stato ritenuto legittimo dalla
Corte costituzionale (sentenza 98/2003).
I giudici hanno precisato che, diversamente,
non troverebbero ragione i processi di
stabilizzazione previsti dall'articolo 1,
commi 519, 557 e 558 della Finanziaria 2007,
volti a eliminare il precariato creatosi per
assunzioni in violazione dell'articolo 36.
Il principio dell'assunzione dei pubblici
dipendenti mediante concorso, posto a tutela
delle esigenze di imparzialità e buon
andamento dell'amministrazione, è
compatibile con la direttiva n. 70/99/CEE,
in quanto dispone, in caso di violazione, il
diritto del lavoratore al risarcimento del
danno, strumento ritenuto adeguato a
prevenire e sanzionare l'utilizzo abusivo da
parte della p.a. di una successione di
rapporti di lavoro a tempo determinato.
La Corte ha così respinto il ricorso e ha
confermato la condanna del comune al
pagamento di un risarcimento economico ai
lavoratori interessati
(articolo Il Sole 24
Ore del 30.04.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Silenzio–rifiuto. L’obbligo di
provvedere per la Pubblica Amministrazione
può discendere anche da prescrizioni di
carattere generale e/o dai principi generali
regolatori dell'azione amministrativa.
Obbligo di provvedere del Comune in merito
ad una istanza del proprietario di un
immobile con la quale si chiede al Comune
l’attribuzione del numero civico e della
denominazione della strada.
Scopo del ricorso contro il silenzio-rifiuto
è ottenere un provvedimento esplicito
dell'Amministrazione, che elimini lo stato
di inerzia ed assicuri al privato una
decisione che investe la fondatezza o meno
della sua pretesa (1). La fonte dell'obbligo
giuridico di provvedere consiste, di solito,
in una norma di legge, di regolamento od in
un atto amministrativo, ma non
necessariamente deve derivare da una
disposizione puntuale e specifica,
potendosi, talora, desumere anche da
prescrizioni di carattere generale e/o dai
principi generali regolatori dell'azione
amministrativa (2).
Deve ritenersi che, a prescindere
dall'esistenza di una specifica disposizione
normativa impositiva, l'obbligo della P.A.
di provvedere sussista in tutte quelle
ipotesi in cui, in relazione al dovere di
correttezza e di buona amministrazione della
parte pubblica, sorga per il privato una
legittima aspettativa a conoscere il
contenuto e le ragioni delle determinazioni
(qualunque esse siano) di quest'ultima (3).
A seguito della presentazione da parte del
proprietario di un immobile di una istanza
con la quale si chiede al Comune
l’attribuzione del numero civico e della
denominazione della strada in cui è ubicato
l’immobile stesso, sussiste il dovere per il
Comune di pronunciarsi sull’istanza stessa.
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(1) Cfr. ex multis Cons. Stato, Sez. VI
10.06.2003 n. 3279; Sez. V, 12.10.2004 n.
6528; Sez. V, 26.04.2005, n. 1913; Sez. V
05.02.2007, n. 457.
(2) Cfr. T.A.R. Calabria - Catanzaro, n.
939/2009.
(3) Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 22.11.1991 n.
1331 (massima tratta da
www.regione.piemonte.it - TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 08.03.2012 n.
543 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Annullamento in autotutela
adottato a distanza di lungo tempo dal
rilascio del permesso di costruire.
E’ illegittimo il provvedimento con il quale
è stato annullato in autotutela un permesso
di costruire, motivato con riferimento alla
accertata violazione -tramite apposita
verificazione- della distanza minima tra
fabbricati confinanti, sancita dall’art. 25
del regolamento edilizio comunale, nel caso
in cui il provvedimento in autotutela, da
una parte, sia stato adottato a distanza di
lunghissimo tempo (nella specie, si
trattava, rispettivamente, di dieci e sei
anni) dal rilascio delle due concessioni
edilizie con esso annullate e, dall’altra,
sia privo di puntuale e/o adeguata
motivazione in ordine all'interesse pubblico
specifico, concreto e attuale, al divisato
annullamento d’ufficio; in tal caso,
infatti, in ragione del lungo tempo decorso
dal rilascio dei titoli edilizi,
l’annullamento avrebbe dovuto essere
puntualmente motivato con riferimento agli
eventuali contrasti dei titoli abilitativi
con gli interessi urbanistici della zona,
nonché in rapporto all’affidamento privato
nella conservazione dei medesimi titoli
abilitativi, consolidatosi nell’arco
temporale trascorso tra il loro rilascio e
la loro rimozione (1).
---------------
(1) Ha osservato la sentenza in rassegna
che, nella specie, nessuna ponderazione tra
interesse pubblico e privato risultava, in
sostanza, effettuata ed esplicitata
dall'amministrazione resistente, la quale si
era limitata a rilevare la violazione della
distanza minima tra fabbricati confinanti,
sancita dall’art. 25 del regolamento
edilizio comunale, e ad evocare
genericamente ed ellitticamente "esigenze
generali, tra cui bisogni di salute
pubblica, sicurezza, vie di comunicazione e
buona gestione del territorio".
Viceversa, a fronte del considerevole lasso
di tempo decorso dal rilascio dei titoli
abilitativi edilizi annullati d’ufficio
(circa 10-6 anni), il canone di
ragionevolezza del termine massimo per
l’esercizio del potere di autotutela (cfr.
art. 21-nonies, comma 1, della l. n.
241/1990) avrebbe dovuto suggerire una
scelta più attenta e rispettosa verso la
consolidata posizione di affidamento
ingenerato nel privato ricorrente circa la
legittimità degli atti di concessione
rilasciatigli (cfr. Cons. Stato, sez. VI,
02.10.2007, n. 5074) (massima tratta da
www.regione.piemonte.it - TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 07.03.2012 n.
1130 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di costruire.
Accertamenti del Comune circa la titolarità
dell’area.
Il Comune, nel verificare l'esistenza in
capo al richiedente il permesso edilizio di
un idoneo titolo di godimento sull'immobile,
non si assume il compito di risolvere
eventuali conflitti di interesse tra le
parti private in ordine all'assetto
proprietario, ma accerta soltanto il
requisito della legittimazione soggettiva di
colui che richiede il permesso.
In sede di esame di una domanda di rilascio
di un permesso di costruire, la funzione
autorizzatoria dell'Amministrazione richiede
un livello minimo di istruttoria che
comprende l'acquisizione di tutti gli
elementi sufficienti a dimostrare la
sussistenza di un qualificato collegamento
soggettivo tra chi propone l'istanza e il
bene giuridico oggetto dell'autorizzazione,
senza che l'esame del titolo di godimento
operato dalla p.a. costituisca
un'illegittima intrusione in ambito
privatistico, ma soltanto per assicurare un
ordinato svolgimento delle attività
sottoposte al controllo autorizzatorio al
fine di non alimentare il contenzioso tra le
parti, e ciò anche nell'ambito del
procedimento di rilascio del permesso di
costruire (2).
In sede di esame di una domanda di rilascio
di un permesso di costruire, il Comune non è
tenuto a complessi e laboriosi accertamenti
anche per non aggravare il procedimento, e
non ha l'onere di appurare l'eventuale
esistenza di servitù o di altri vincoli
reali che limitano l'ampiezza del titolo di
proprietà. Qualora però tali limiti siano
accertati il Comune non può ignorarli, pena
un'insufficiente istruttoria.
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(1) Cfr. Consiglio Stato, sez. V,
17.09.2001, n. 4847.
(2) Cfr. Cons. di Stato, n. 3525/2000,
secondo cui "l'esecuzione di opere di
trasformazione edilizia...è sottoposta a una
disciplina complessa, che riguarda,
rispettivamente, la definizione degli
assetti della proprietà immobiliare e il
controllo pubblicistico sulla conformità
alle regole e ai piani di derivazione
pubblicistica. Gli ambiti delle due
discipline, finalizzate alla tutela di
interessi di consistenza disomogenea, non
sono pienamente sovrapponibili. È quindi
possibile che un intervento edilizio,
astrattamente conforme alla prescrizioni
urbanistiche, si ponga in contrasto con la
normativa di derivazione civilistica,
costituendo la violazione di diritti reali
di godimento o di altre facoltà dei soggetti
interessati. Tuttavia, la necessaria
distinzione tra gli aspetti civilistici e
quelli pubblicistici dell'attività
edificatoria non impedisce di rilevare la
presenza di significativi punti di contatto
tra i due diversi profili. Da una parte, la
normativa edilizia di carattere
regolamentare è idonea a fondare pretese
sostanziali nei rapporti interprivati, che
assumono la consistenza e il grado di
protezione del diritto soggettivo.
Dall'altra parte, alcuni elementi di origine
civilistica assumono una rilevanza
qualificata nel procedimento di rilascio
della concessione edilizia" (massima
tratta da www.regione.piemonte.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.03.2012 n.
1270 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI:
Scioglimento del Consiglio
comunale per infiltrazioni mafiose. Natura e
presupposti del relativo provvedimento.
Il provvedimento di scioglimento del
Consiglio comunale per infiltrazioni
mafiose, di cui agli artt. 143 e ss. del
d.lgs. 18.08.2000 n. 267, è un provvedimento
di carattere straordinario che non ha natura
sanzionatoria, ma preventiva (1); ciò
comporta che, quale presupposto, si richiede
solo la presenza di "elementi" su "collegamenti"
o "forme di condizionamento" che
consentano di individuare la sussistenza di
un rapporto fra gli amministratori e la
criminalità organizzata, ma che non devono
necessariamente concretarsi in situazioni di
accertata volontà degli amministratori di
assecondare gli interessi della criminalità
organizzata, né in forme di responsabilità
personali, anche penali, degli
amministratori.
Ai fini dello scioglimento del Consiglio
comunale per infiltrazioni mafiose non
occorre né la prova della commissione di
reati da parte degli amministratori, né che
i collegamenti tra l'amministrazione e le
organizzazioni criminali risultino da prove
inconfutabili; sono sufficienti, invece,
semplici "elementi" (e quindi
circostanze di fatto anche non assurgenti al
rango di prova piena) di un collegamento e/o
influenza tra l'amministrazione e i sodalizi
criminali (2), ovvero è sufficiente che gli
elementi raccolti e valutati siano "indicativi"
di un condizionamento dell’attività degli
organi amministrativi e che tale
condizionamento sia riconducibile
all’influenza ed all’ascendente esercitati
da gruppi di criminalità organizzata. È da
affermarsi, dunque, l’autonomia del
provvedimento di scioglimento rispetto
all’esito di procedimenti penali aventi ad
oggetto fatti e comportamenti degli
amministratori (3).
Il provvedimento di scioglimento del
Consiglio comunale per infiltrazioni
mafiose, di cui agli art. 143 e ss. d.lgs.
18.08.2000 n. 267, costituisce un atto di
alta amministrazione, connotato anche da una
significativa valenza politica, così come la
relazione ministeriale che viene presa a
fondamento per l'esercizio del potere di
scioglimento; in tal caso, il sindacato del
giudice amministrativo non può essere che
estrinseco, secondo le regole proprie del
giudizio di legittimità, senza possibilità
di apprezzamenti che ne riguardino il merito
(4).
Nel caso di provvedimenti di scioglimento
del Consiglio comunale per infiltrazioni
mafiose, il sindacato di legittimità e la
valutazione delle acquisizioni probatorie in
ordine a collusioni e condizionamenti sono
il risultato di un giudizio complessivo, su
più fatti ed episodi sintomatici, che
isolatamente considerati potrebbero anche
non essere particolarmente significativi o
determinanti, ma che rilevanza acquistano in
una considerazione di insieme, giacché solo
dal loro esame complessivo può ricavarsi la
ragionevolezza dell'addebito mosso al
consiglio comunale in un determinato
contesto e a prescindere da responsabilità
dei singoli (5).
L'applicazione dell'istituto dello
scioglimento del Consiglio comunale per
infiltrazioni mafiose di cui all'art. 143
del d.lgs. 18.08.2000 n. 267 ricorre nelle
ipotesi in cui l'andamento generale della
vita amministrativa di un ente locale
subisca influenze da un ipotizzato
condizionamento mafioso, potendo di
conseguenza l'indagine riguardare, oltre che
scelte strettamente di governo -soprattutto
quelle in materia di programmazione e
pianificazione- anche specifiche attività di
gestione, le quali sostanzialmente finiscono
per essere quelle di maggior interesse per
le consorterie criminali, in considerazione
della maggiore e più repentina disponibilità
che viene offerta di risorse pubbliche.
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(1) Cfr. TAR Sicilia-Palermo, sez. I,
10.03.2008, n. 321.
(2) Cfr. TAR Campania-Napoli, sez. I,
06.02.2006, n. 1622.
(3) Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 26.11.2007,
n. 6040
(4) Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 04.08.2006,
n. 4765.
(5) Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 24.04.2009,
n. 2615; 06.04.2005, n. 1573 (massima
tratta da www.regione.piemonte.it -
Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 06.03.2012 n.
1266 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
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