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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di APRILE 2012

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aggiornamento al 26.04.2012

aggiornamento al 20.04.2012

aggiornamento al 16.04.2012

aggiornamento al 10.04.2012

aggiornamento al 02.04.2012

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 26.04.2012

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SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOComunità Montane: l'intervento confuso della Regione Lombardia (CGIL-FP di Bergamo, nota 23.04.2012).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

ATTI AMMINISTRATIVI: Oggetto: ambito di applicazione delle novelle introdotte dall'art. 15, l. 183 del 2011 in materia di certificazione (circolare 17.04.2012 n. 3/2012).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: G.U.U.E. 19.04.2012 n. C 115 "Orientamenti che accompagnano il regolamento delegato (UE) n. 244/2012, del 16.01.2012, della Commissione che integra la direttiva 2010/31/UE del Parlamento europeo e del Consiglio sulla prestazione energetica nell'edilizia istituendo un quadro metodologico comparativo per calcolare livelli ottimali in funzione dei costi per i requisiti minimi di prestazione energetica degli edifici e degli elementi edilizi" (Informazione della Commissione Europea 2012/C 115/01 - link a http://eur-lex.europa.eu).

URBANISTICA: "Presa d'atto della comunicazione dell'Assessore Belotti avente ad oggetto: "PIANI DI GOVERNO DEL TERRITORIO - AGGIORNAMENTO E INDICAZIONI" (deliberazione G.R. 29.03.2012 n. 3211).

DOTTRINA  E CONTRIBUTI

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: G. Fontana, Il TAR condanna il Comune a pagare 20.000,00 € per il ritardo nella conclusione di un procedimento (link a http://venetoius.myblog.it).

ENTI LOCALI: A. Barbiero, Note critiche sulle società holding degli enti locali (e sulla possibilità di costituire tali società) (18.04.2012 - tratto da www.albertobarbiero.net).

ATTI AMMINISTRATIVI: P. M. Zerman, La tutela del tempo del cittadino contro i ritardi della p.a. (link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: M. A. Sandulli, La semplificazione nel processo amministrativo (link a www.giustizia-amministrativa.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIncarichi dirigenziali ex art. 110 TUEL.
Anche la Corte dei Conti Sez. Reg.le Lombardia, con il parere 29.03.2012 n. 92, si conforma all'orientamento secondo il quale anche il conferimento degli incarichi dirigenziali a tempo determinato (ex art. 110 TUEL) al personale interno agli enti (di categoria D) deve rientrare nei limiti previsti dalla normativa, ovvero 8% per le fattispecie di cui al comma 1 e 5% per quelle del comma 2.
Precisa, inoltre, la sezione lombarda: ".... è opportuno ricordare che il conferimento di incarichi dirigenziali a funzionari di categoria D determina, di fatto, una progressione verticale in diversa categoria al di fuori di una prova selettiva, in grave contrasto con il principio costituzionale della concorsualità (art. 97, comma 3, Cost.), e con il divieto di attribuzione fiduciaria di incarichi dirigenziali" (tratto da www.publika.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: NOTE DI LETTURA L.R. 13.03.2012, N. 4 - Norme per la Valorizzazione del patrimonio edilizio esistente e altre disposizioni in materia urbanistico-edilizia (circolare 23.04.2012 n. 52/2012).

LAVORI PUBBLICI: Oggetto: Responsabilità solidale - limite dei due anni. Art. 29, comma 2, D.Lgs. n. 276/2003 (ANCE di Bergamo, circolare 20.04.2012 n. 118).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: La gestione dei materiali da riporto (ANCE di Bergamo, circolare 20.04.2012 n. 115).

QUESITI & PARERI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Reati ambientali.
Domanda.
Quali sono le prescrizioni riguardanti i reati ambientali?
Risposta.
Dal 16.08.2011 con l'entrata in vigore del dlgs 121/2011, anche i reati ambientali sono entrati a far parte delle responsabilità delle persone giuridiche, regolamentate dal dlgs 231/2001. L'inserimento dei reati ambientali, amplia le pene in termini di quote o sanzioni interdittive per molte violazioni già previste dal Testo unico ambientale. Ovviamente se, in sede di istruttoria, si dovesse evincere che le stesse siano state commesse a vantaggio dell'impresa.
Sono introdotti due nuovi reati nel Codice penale che riguardano l'uccisione, la distruzione, il prelievo o il possesso di esemplari di specie animali e vegetali selvatiche protette (art. 727-bis) nonché la distruzione o il deterioramento di habitat all'interno di un sito protetto (art. 733-bis). Il nuovo decreto riprende tutti i reati previsti dal Codice dell'ambiente e sanzionati dal dlgs 121/2011.
Tali reati riguardano nella fattispecie gli scarichi idrici; i rifiuti e le discariche; l'inquinamento di siti; le emissioni in atmosfera; le sostanze lesive dell'ozono e l'inquinamento da navi. Per adeguarsi, per prima cosa, le aziende dovranno eseguire un check-up complessivo dal punto di vista ambientale in particolare per quel che riguarda le tematiche legate alle nuove sanzioni previste all'interno del decreto per ogni fattispecie di reato. Successivamente occorrerà aggiornare i propri modelli organizzativi già redatti per gli altri reati (finanziari o legati alla sicurezza), inserendo quanto previsto per la tutela dell'ambiente.
Per quanto riguarda il sistema sanzionatorio, sono previste tre classi di gravità relativamente alle possibili condotte, sulle quali sono calibrate le sanzioni pecuniarie, che sono state suddivise nel seguente modo: sanzione pecuniaria fino a 250 quote per i reati sanzionati con l'ammenda o con la pena dell'arresto fino a un anno ovvero dell'arresto fino a due anni alternativa alla pena pecuniaria; sanzione pecuniaria da 150 a 250 quote per i reati sanzionati con la reclusione fino a due anni o con la pena dell'arresto fino a due anni; sanzione pecuniaria da 200 a 300 quote per i reati sanzionati con la reclusione fino a tre anni o con l'arresto fino a tre anni. Per traffico illecito di rifiuti si può arrivare alle 500 quote. Ogni quota vale circa 100 euro (articolo ItaliaOggi Sette del 23.04.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rottami ferrosi.
Domanda.
Quando i rottami ferrosi non devono più essere considerati rifiuti?
Risposta.
Il 09.10.2011 è entrato in vigore il regolamento Ue n. 333/2011, le cui disposizioni si applicano alle imprese che effettuano operazioni di recupero di rottami ferrosi ed indirettamente alle imprese che li producono. Il regolamento contiene i criteri che determinano quando alcuni tipi di rottami metallici (rottami di ferro, acciaio e alluminio, inclusi i rottami di leghe di alluminio) cessano di essere considerati rifiuti. Gli effetti della norma favoriscono il reimpiego delle così dette «materie prime secondarie» destinate alle acciaierie, fonderie e raffinerie di alluminio per la produzione di nuovi metalli.
In estrema sintesi, i rottami, al momento in cui sono ceduti dal produttore ad un altro detentore, cessano di essere considerati rifiuti quando il produttore soddisfa contemporaneamente le seguenti condizioni: siano effettuati i previsti monitoraggi interni (allegati I e II del regolamento); il produttore applica un sistema di gestione della qualità, la cui conformità viene accertata ogni tre anni da organismi riconosciuti (dal regolamento Emas); se i rottami sono trattati da un detentore precedente, il produttore assicura che il fornitore applichi un sistema di qualità conforme.
Il produttore o l'importatore deve redigere una dichiarazione di conformità per ciascuna partita di rottami metallici, trasmetterla al detentore successivo e conservarne copia per almeno un anno (articolo ItaliaOggi Sette del 23.04.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Impianti mobili: L’autorizzazione ex art. 208, comma 15, del D.Lgs n. 152/2006 deve essere richiesta per ogni singolo impianto o vale come “omologa”? (23.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: La nuova direttiva RAEE è in arrivo? (23.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Il superamento della TIA: Quando entrerà in vigore la RES (Tributo comunale sui rifiuti e sui servizi)? Chi dovrà pagare? Cosa si pagherà? (23.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Sarà modificata la definizione di imballaggio della direttiva 94/62/CE? (23.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Come va compilato il FIR, secondo l’accordo Anci – CdC RAEE? A quali condizioni si conseguono premi? (23.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Come si effettua la dichiarazione ambientale? E la dichiarazione SISTRI? (23.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Esiste la possibilità di recuperare i rifiuti destinati a smaltimento? (23.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: È in previsione un nuovo decreto sull’ utilizzo dei combustibili solidi secondari nei processi industriali? (23.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Sono possibili deroghe nazionali alla disciplina europea del trasporto di merci pericolose? (23.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

NEWS

LAVORI PUBBLICIAppalti, responsabilità solidale dalla fine dei lavori.
Il termine di due anni di durata della responsabilità solidale tra appaltatore e subappaltatore decorre dalla cessazione dei lavori del subappaltatore, non dalla cessazione dell'appalto (del contratto cioè tra committente e appaltatore).
Lo precisa il ministero del lavoro nella nota 13.04.2012 n. 7140 di prot., rispondendo a un quesito dell'associazione nazionale dei costruttori edili (Ance).
Responsabilità solidale. L'Ance, in particolare, ha chiesto chiarimenti sulla corretta applicazione del cosiddetto regime di responsabilità sociale disciplinato dall'articolo 29, comma 2, del dlg n. 276/2003 e modificato dal recente decreto semplificazioni (articolo 21 del dl n. 5/2012 convertito dalla legge n. 32/2012).
Tale regime, in sostanza, prevede che in caso di appalto di opere o servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori, entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto (tfr), nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, restando escluso qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile dell'inadempimento (quest'ultima esclusione è una delle novità introdotte dal dl n. 5/2012).
L'Ance ha chiesto se «il limite dei due anni dalla cessazione dell'appalto debba intendersi con riferimento all'appalto in generale o con riferimento, nei casi di responsabilità solidale nei confronti dei subappaltatori, anche al termine del singolo lavoro oggetto di subappalto».
I chiarimenti. Il ministero ritiene che il limite dei due anni «indica l'appalto tra committente e appaltatore, il che, trasposto nell'ambito dei rapporti tra appaltatore e subappaltatore, non può che riferirsi al contratto di appalto tra questi due soggetti». Più precisamente, aggiunge il ministero, «i due anni, nel caso di subappalto, non possono che decorrere dalla cessazione dei lavori del subappaltatore (in forza del relativo contratto di subappalto)».
Una diversa interpretazione, prosegue il ministero, porterebbe a sostenere che per gli appalti che durano molti anni, in cui si susseguono diversi subappaltatori, l'appaltatore principale rimanga legato con tutte le imprese subappaltatrici per l'intero periodo. La norma, invece, vuole porre un termine giuridico certo nei rapporti di solidarietà intercorrenti anche tra appaltatore e subappaltatore termine che non può che decorrere dalla fine dei lavori del subappaltatore.
Del resto, spiega infine il ministero, anche ai fini di una concreta operatività dell'istituto, i lavoratori del subappaltatore mentre conoscono il termine dei lavori svolti dalla propria impresa (e quindi la decorrenza dei due anni per agire in solidarietà) non conoscono il termine finale dell'intero appalto, né sono tenuti giuridicamente ad averne conoscenza (articolo ItaliaOggi del 24.04.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - VARI: Tra calcoli di aliquote e rate all'Imu va il record di complessità.  Le istruzioni per il versamento dell'imposta contenute nel decreto di semplificazione tributaria.
L'Imu si candida a vincere il record di complessità e, ironia della sorte, a farla atterrare sul nostro ordinamento tributario è la legge di conversione del dl 16/2012 dedicato alle semplificazioni fiscali. Ecco l'Imu, che consente il pagamento di quanto dovuto per l'abitazione principale in tre rate (giugno, settembre e dicembre). Ma se il contribuente possiede, per esempio, anche un secondo garage e, semmai, un piccolo orticello, per questi due immobili dovrà versare il tributo in due tranche (giugno e dicembre).
Poi, nel nuovo modello F24 il malcapitato contribuente dovrà indicare cinque distinti codici tributo, perché per ciascuna tipologia immobiliare occorre distinguere la quota dell'Imu riservata allo stato rispetto a quella residuale destinata al comune. La prima rata dovrà essere calcolata applicando le aliquote fissate dalle legge. Dopo di che, per il conguaglio, si navigherà a vista. Non è, infatti, possibile quantificare con esattezza l'importo complessivamente dovuto per il 2012, perché i comuni potrebbero modificare fino al 30 settembre le delibere già adottate, muovendo l'asticella delle aliquote e delle detrazioni rispetto ai limiti fissati dalla legge nazionale. Che, paradossalmente, un provvedimento del governo potrebbe modificare fino al 10 dicembre.
A ciò si aggiunga che ove i municipi dovessero stabilire trattamenti di favore per talune fattispecie immobiliari, il contribuente che effettuasse il pagamento della prima rata sulla base di tali decisioni potrebbe poi trovarsi esposto a contestazioni qualora le agevolazioni dovessero essere, entro il 30 settembre, soppresse o ridotte, con effetto retroattivo, dal comune stesso.
Esaminiamo, in sintesi, quello che dovrebbe essere l'assetto definitivo su pagamenti e dichiarazioni dopo che senato e camera, in sede di approvazione della legge di conversione del dl 16/2012, sono intervenuti sulla nuova imposta comunale.
Le rate. Dopo le modifiche apportate dalla camera, che con ogni probabilità verranno recepite senza ulteriori modifiche dal senato in seconda lettura, emerge che l'imposta si pagherà in due rate (18/6 e 17/12) che, a scelta del contribuente, possono diventare tre (18/6, 30/9 e 17/12), esclusivamente per l'imposta dovuta per il 2012 e solo sull'abitazione principale e annesse pertinenze (massimo una per ciascuna delle categorie C/2, C/6 e C/7).
Le aliquote da applicare per la prima rata sono tre: 0,2% per i fabbricati strumentali rurali, 0,4% per le abitazioni principali e relative pertinenze, 0,76% per tutti gli altri immobili. Per l'abitazione principale l'aliquota dello 0,4% si utilizzerà anche per il calcolo della seconda rata del 30 settembre riservata solo all'abitazione principale.
La detrazione di 200 euro, maggiorata di altri 50 euro per ogni figlio «under 26» che dimora e risiede in quella casa, verrà fruita proporzionalmente ai soggetti che ne hanno diritto e al periodo di riferimento. Occorrerà poi attendere la data del 30 settembre per conoscere le aliquote (e le detrazioni) che i comuni fisseranno definitivamente e, sulla base di queste ultime, si calcolerà l'imposta complessivamente dovuta per tutto l'anno, che verrà versata, entro il 17 dicembre, al netto di quanto già corrisposto con le precedenti rate.
Le modalità di pagamento. Fino a novembre l'Imu non potrà che essere pagata solo con l'F24 di recente istituzione al quale, a breve, si aggiungerà un modello semplificato, composto da un solo foglio contenente una copia per la banca e l'altra per il contribuente. A dicembre dovrebbe poi resuscitare il soppresso bollettino di c/c/p.
Comunque, a prescindere dal tipo di modello di versamento, la vera complicazione per il contribuente sarà quella di individuare i casi in cui l'imposta è in parte riservata allo stato (complessivamente pari allo 0,38% della base imponibile dell'immobile). Al riguardo, infatti, il parlamento è intervenuto più volte sulla questione creando un puzzle di non facile composizione, anche per gli addetti ai lavori (si veda la tabella).
La dichiarazione. Sull'obbligo dichiarativo la commissione finanze della camera ha rimediato, almeno in parte, alle complicazioni che sarebbero scaturite dalla versione del testo uscito dal senato.
Dopo aver ribadito l'ultrattività delle denunce Ici, in quanto compatibili (con implicito riconoscimento, che sarà formalizzato con decreto del Mef, dell'esonero in tutti i casi in cui gli eventi che danno luogo a una diversa imposta sono noti al comune) viene specificato che se l'obbligo è sorto nel primo semestre del 2012 la dichiarazione dovrà essere presentata entro il 30/09/2012.
Purtroppo, a regime il contribuente avrà 90 giorni di tempo, dal momento in cui si è verificata la variazione, per assolvere l'obbligo dichiarativo. Il che comporterà un numero rilevante di omissioni, atteso che la maggior parte di coloro che si rivolgono a professionisti e caf verranno a sapere di tale inadempimento quando ormai sarà troppo tardi anche per un ravvedimento operoso.
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La residenza anagrafica è condizione fondamentale.
Per alcune particolari tipologie immobiliari la configurazione definitiva dell'Imu porterà a rilevanti novità rispetto alla soppressa Ici. Eccole in sintesi:
Abitazione principale. Con l'intento di porre freno a tentativi di elusione (recte: evasione) viene precisato che l'abitazione principale non può che essere l'unica unità immobiliare nella quale il contribuente e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente. Con l'ulteriore specificazione che, nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni si applicano per un solo immobile.
Al riguardo va osservato come la commissione finanza della camera, anziché riproporre la formulazione contenuta nell'art. 8 del dlgs 504/1992 (abitazione nella quale il contribuente «e i familiari» dimorano abitualmente), che era stata letta dalla Cassazione (sent. n. 14389/2010) nel senso che al fabbricato del familiare che dimora in luogo diverso da quello della casa coniugale non può essere riconosciuta l'agevolazione in questione, ha preferito fare ricorso a un concetto, quello del «nucleo familiare», che non trovando un'univoca definizione nell'ordinamento giuridico, aprirà, con ogni probabilità, ulteriori contrasti interpretativi tra contribuenti e comuni.
Soggetti costretti a vivere fuori casa. Il trattamento di favore nei confronti delle case degli anziani e dei disabili lungodegenti, oltre che quello riguardante gli alloggi dei cittadini italiani residenti all'estero, è rimesso ai comuni che possono assimilarle alle abitazioni principali purché non siano locate. In tal caso viene meno la quota riservata allo stato. Per converso, in assenza quindi di una delibera del consiglio comunale l'imposta sarà dovuta nella misura ordinaria del 7,6 per mille e allo stato spetterà la metà.
Ex casa coniugale. Inversione di rotta rispetto all'Ici. Sarà infatti solo il coniuge assegnatario della casa coniugale disposta dal giudice della separazione a dover pagare l'Imu. E ciò a prescindere dall'eventuale quota di proprietà che quest'ultimo vanta sul fabbricato. Naturalmente troveranno applicazione aliquota e detrazione previste per l'abitazione principale oltre alla maggiorazione per i figli «under 26» (articolo ItaliaOggi Sette del 23.04.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPiù flessibilità in entrata per i dirigenti.
IL RECLUTAMENTO/ Necessario riformare l'accesso: selezioni più trasparenti, ma vanno evitate le carriere a vita
.

Gli osservatori riconoscono alle amministrazioni locali una capacità di innovazione sconosciuta ad altri livelli di governo. La gran parte di questi risultati sono stati ottenuti grazie alla maggiore autonomia di cui hanno goduto i Comuni, a partire dalla seconda metà degli anni novanta, e alla possibilità concreta di realizzare un forte ricambio della dirigenza in servizio.
Grazie a questa maggiore autonomia, è stato infatti possibile inserire nei Comuni dirigenti con rapporti di lavoro a tempo determinato, soggetti a valutazione, riconferma e senza più la garanzia di un posto fisso a vita.
Queste figure, cooptate a volte dall'esterno o in altri casi dall'interno dell'amministrazione, hanno assicurato tassi elevati di turn-over della dirigenza locale e una maggiore dinamicità all'azione dei Comuni.
Il rapporto a tempo determinato e l'assenza della garanzia a vita dello status di dirigente hanno inoltre rappresentato un incentivo concreto, per i dirigenti a termine, a investire per mantenere elevata la propria professionalità, pena la sostituzione alla scadenza naturale del contratto.
Il rovescio della medaglia di questo meccanismo può essere individuato nel potenziale rischio di una maggiore dipendenza della dirigenza dalla politica, chiamata a nominare o rinnovare gli incarichi dirigenziali. In alcuni casi questo rischio si è anche oggettivamente tradotto in concrete pratiche negative. A fronte di questa situazione è stata ora imboccata la strada della “ministerializzazione” della dirigenza locale: si sono ristretti in modo drastico la possibilità di accesso a tempo determinato e, nonostante alcuni spazi introdotti nel decreto fiscale in corso di approvazione, si ritorna di fatto alla tradizionale dirigenza a tempo indeterminato.
Questo comporterà una incredibile rigidità della dirigenza locale: assisteremo ad una nuova infornata di dirigenti che, una volta assunti, godranno della totale inamovibilità a prescindere dalle prestazioni effettivamente fornite, dai fabbisogni quali quantitativi futuri delle amministrazioni e dall'aggiornamento delle proprie competenze, bloccando così, per una intera generazione, le possibilità di ricambio ai vertici delle strutture dei Comuni. Questo meccanismo inoltre produrrà probabili costi aggiuntivi: molti dirigenti attualmente a contratto sono infatti già funzionari a tempo indeterminato con una differenza retributiva minima per quanto riguarda l'incarico dirigenziale. Anziché risolvere un problema si è scardinato malamente un sistema.
E' invece necessario coniugare le due esigenze: occorre da un lato garantire l'accesso alla dirigenza tramite procedure selettive e trasparenti, ma dall'altro non perdere i benefici del tempo determinato ed evitare i danni della strutturazione a vita dei posti e dei costi per la dirigenza nelle amministrazioni locali. E' necessario e possibile coniugare queste due esigenze. E per farlo occorre ripensare il sistema di accesso alla dirigenza locale in modo più sistemico e non con interventi frammentari e senza disegno.
Ad esempio si potrebbero ipotizzare forme di reclutamento su base nazionale o regionale volte a selezionare e certificare le competenze dei candidati sulla base delle esperienze maturate concretamente e di quelle riscontrate nei percorsi selettivi, lasciando poi alle amministrazioni la facoltà di scegliere, solo tra gli idonei, i soggetti ai quali conferire il rapporto a tempo determinato per la durata della legislatura.
Si potrebbe ipotizzare la necessità per i soggetti di sottoporsi ogni cinque anni a una sorta di riaccreditamento della propria idoneità e all'obbligo di maturare crediti formativi. Si potrebbe ipotizzare che solo alcune università accreditate sono titolate a svolgere i percorsi selettivi e di certificazione della idoneità e dei crediti. Insomma si può rafforzare moltissimo e rendere fortemente selettivo il meccanismo di accesso e permanenza dei soggetti agli incarichi dirigenziali, ma al contempo rendere molto più flessibile il rapporto di lavoro, i meccanismi di entrata e uscita dalle amministrazioni e la possibilità per le amministrazioni di scegliere davvero i candidati ritenuti migliori (articolo Il Sole 24 Ore del 23.04.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALIEdilizia convenzionata. La chance. Il Comune rimuove i vincoli e incassa.
La legge 106/2011, di conversione del Dl 70/2011, ha introdotto nell'articolo 31 della legge 448/1998 i commi 49-bis e 49-ter, al fine di «agevolare il trasferimento dei diritti immobiliari», per consentire la rimozione dei vincoli relativi al prezzo massimo di cessione e/o del canone massimo di locazione delle singole unità abitative di edilizia residenziale pubblica o convenzionata.
La rimozione dei vincoli, alla luce della legge 106/2011, era subordinata al decorso di almeno cinque anni dalla data del primo trasferimento, alla richiesta del singolo proprietario e alla determinazione della percentuale del corrispettivo, calcolato a norma dell'articolo 31, comma 48, della legge 448/1998, da effettuare con decreto del ministro dell'Economia e delle finanze, previa intesa in sede di Conferenza unificata. Quindi, la mancata determinazione con Dm rendeva inapplicabile la norma.
Su quest'ultimo punto una novità significativa è stata inserita dal decreto milleproroghe convertito con la legge 14 del 24.02.2012: l'articolo 29, comma 16-undecies, infatti, ha previsto che, a decorrere dall'01.01.2012, la percentuale per calcolare il corrispettivo dovuto per la rimozione dei vincoli sia stabilita dai Comuni. Gli enti dovranno tenere conto della differenza tra il costo convenzionale e il costo di mercato dell'alloggio o del canone di affitto, e della residua durata dei vincoli imposti. Si segnala in proposito il parere della Corte dei conti, sezioni riunite in sede di controllo, numero 22/CONTR/11.
Rileva, comunque, il momento del trasferimento della proprietà (piena o superficiaria), e non la data di assegnazione in godimento da parte della cooperativa edilizia, o la data di registrazione o trascrizione dell'atto. Sembrerebbe, inoltre, che il proprietario che ne faccia richiesta abbia un vero e proprio diritto soggettivo alla stipula della convenzione, il cui contenuto è, del resto, predeterminato dalla legge anche ai fini della determinazione del corrispettivo; diritto soggettivo a cui fa riscontro l'obbligo dell'ente locale di prestarsi alla stipulazione della convenzione.
La normativa, si diceva, s'incentra sulla finalità di eliminare i maggiori intralci alla circolazione giuridica dei beni immobili oggetto delle convenzioni, consentendo la rimozione dei vincoli citati, che sono spesso oggetto di elusione e di mancato controllo.
Le risorse che i Comuni possono incamerare sono significative e possono dare respiro alle loro magre finanze. Il Comune di Milano, per esempio, ha circa 9mila alloggi convenzionati: ipotizzando una media di corrispettivo di circa 7mila euro a unità abitativa, e che il 50 per cento dei proprietari faccia richiesta, l'entrata prevista sarebbe di circa 30 milioni. Gli enti potrebbero investire in interventi di manutenzione o di costruzione di nuovi alloggi, per fornire una risposta a un bisogno sempre crescente di case a giovani precari e a anziani.
Inoltre, trattandosi di oneri reali, il plusvalore realizzato può essere destinato al finanziamento di spese a carattere non permanente di cui all'articolo 187 del Tuel, e anche per il rimborso delle quote capitali delle rate di ammortamento dei mutui (articolo Il Sole 24 Ore del 23.04.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPubblico impiego. Dopo l'emendamento che alza la soglia delle assunzioni dal 20 al 40% delle «uscite» dell'anno prima.
Turn-over, ampliamento a metà. Ma la nuova norma si scontra con le disposizioni di contenimento della spesa.

Allentamento a metà per i vincoli al turn-over negli enti locali. Infatti l'ampliamento delle possibilità di assumere personale a tempo indeterminato (si passa dal 20% al 40% delle cessazioni dal servizio avvenute nell'anno precedente) si scontra con l'obbligo, per gli enti soggetti al patto di stabilità, di garantire la riduzione della spesa per il personale di anno in anno. Il risultato? I nuovi limiti più soft rischiano di essere vanificati se i dipendenti cessano dal servizio a inizio anno.
Soglia a rischio
La Camera, durante l'esame per la conversione in legge del decreto sulle semplificazioni fiscali 16/2012, ora in attesa del «sì» definitivo del Senato, ha approvato un emendamento che modifica l'articolo 76, comma 7, del decreto legge 112/2008: in base alla nuova disposizione, gli enti virtuosi, ovvero quelli con la spesa di personale al di sotto del 50% di quella corrente, potranno assumere personale a tempo indeterminato nel limite del 40% delle cessazioni dell'anno precedente, anziché del 20 per cento.
Ma il raddoppio del turn-over è insidiato da un'altra norma di contenimento della spesa: la Finanziaria 2007 (articolo unico, comma 557, legge 296/2006) impone agli enti soggetti al patto di stabilità di ridurre la spesa di personale da un anno all'altro. Così, nel 2012, gli enti locali non potranno spendere di più rispetto al 2011. Inoltre, il personale cessato nel 2011 non può essere sostituito nell'anno in corso, ma solo l'anno successivo. Il nodo è qui: se il dipendente è cessato dal servizio all'inizio del 2011 e non è stato sostituito per vincolo normativo, la spesa totale per il personale si riduce e questa riduzione rischia di vanificare l'aumento dal 20 al 40% del turn-over.
A conti fatti, con il tetto del 20%, perché la riduzione della spesa totale non compromettesse le possibilità di assunzione, era sufficiente che i dipendenti cessati avessero lavorato in media 2,4 mesi nel 2011 (il 20% di 12 mesi). Con il limite al 40%, invece, occorre che i dipendenti cessati rimangano in servizio almeno 4,8 mesi. È quindi probabile che gli enti si adatteranno a creare strategie alternative per compensare queste riduzioni della spesa.
Incarichi dirigenziali
L'emendamento, inoltre, introduce una deroga ai limiti agli incarichi dirigenziali conferiti (secondo l'articolo 110, comma 1, del Tuel) con contratti a termine: in base al nuovo testo del decreto legislativo 165/2001, non possono superare il 10% dei dirigenti a tempo indeterminato in organico (il 20% per i comuni fino a 100mila abitanti e il 13% fino a 250mila abitanti).
Con la nuova disposizione, gli incarichi in corso alla data di entrata in vigore della norma e che eccedono questi limiti potranno essere prorogati una sola volta se scadono entro fine anno. Ma il costo graverà sulle «ordinarie facoltà assunzionali a tempo indeterminato», ovvero sul 40 per cento. Quindi, gli incarichi dirigenziali a tempo determinato potranno sopravvivere solo a scapito del turn-over dei dipendenti.
Ma che cosa succederà del budget assunzionale assorbito dai dirigenti alla scadenza dell'incarico? Una interpretazione restrittiva potrebbe portare alla perdita definitiva di tali risorse. Altrimenti, le cessazioni potrebbero tornare in circolo alla stregua delle cessazioni a tempo indeterminato, ma in questo caso l'originaria cessazione, che ha finanziato il rinnovo del dirigente a termine, verrebbe sostituita solo nel limite del 16%, per la doppia applicazione del 40 per cento.
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L'ESEMPIO
I vincoli al turn-over alla prova
01 | «VECCHIO» DIPENDENTE
Un dipendente costa a un ente locale 30mila euro l'anno e cessa dal servizio il 31.01.2011. Per quel dipendente, quindi, l'ente nel 2011 ha speso 2.500 euro (un dodicesimo di 30mila)
02 | IL VINCOLO
La nuova soglia del turn-over al 40% delle cessazioni dell'anno precedente permetterebbe all'ente di spendere 12mila euro per nuove assunzioni nel 2012 (il 40% di 30mila). Ma l'apertura è annullata dall'obbligo di spendere meno per il personale dell'anno precedente (quindi meno di 2.500 euro) (articolo Il Sole 24 Ore del 23.04.2012 - tratto da www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGODECRETO FISCALE/ Enti, largo ai dirigenti a contratto. E spunta la sanatoria per i manager esterni già in servizio. Gli emendamenti approvati alla camera sconfessano la Consulta.
Dirigenza a contratto degli enti locali, le percentuali di assunzioni aumentano dall'8% ad almeno il 10%, con estesissime possibilità di deroga.
Gli emendamenti presentati al decreto fiscale ampliano per comuni e province la possibilità di assumere dirigenti a tempo determinato e, soprattutto, con una disposizione «transitoria» discutibile, di confermare anche in deroga a qualsiasi limite i dirigenti esterni già in servizio.
L'esempio della sanatoria dei dirigenti a contratto presso le Agenzie delle entrate, del territorio e delle dogane, come era prevedibile, ha fatto breccia anche negli enti locali, per altro da sempre contrari alle limitazioni quantitative alle assunzioni dei dirigenti a termine, imposte prima dal dlgs 150/2009 e poi in parte ampliate dall'articolo 6 del dlgs 141/2011.
Nonostante la crisi e le difficoltà occupazionali di tutti i settori del paese, sembra che sia indispensabile per le amministrazioni pubbliche assicurarsi le prestazioni lavorative dei dirigenti fiduciari, nonostante le sentenze della Corte costituzionale, a partire dalla 103/2007, le abbiano considerato incompatibili col sistema ordinamentale.
Dunque, l'emendamento modifica il testo dell'articolo 19, comma 6-quater, del dlgs 165/2001, e «arrotonda» dall'8 al 10% della dotazione organica dirigenziale la quota di dirigenti a tempo determinato che gli enti locali possono assumere. Tuttavia, i comuni con popolazione fino a 100 mila abitanti sono beneficiati di una percentuale doppia: il 20%. I comuni con popolazione superiore a 100 mila abitanti e inferiore ai 250 mila invece, facoltativamente possono incrementare la percentuale dal 10 al 13%. L'incremento pare destinato a erodere le possibilità di assunzione a tempo indeterminato. Infatti, l'ulteriore 3% andrà «a valere sulle ordinarie facoltà per le assunzioni a tempo indeterminato». Insomma, non solo assumere dirigenti a contratto consumerà risorse per il tetto assoluto alla spesa e quello specificamente destinato alle assunzioni a tempo determinato, ma la spesa andrà considerata come se erogata per assunzioni a tempo indeterminato e, dunque, incidere sul limite del 40% della spesa delle cessazioni dell'anno precedente.
La percentuale-base del 10%, a ben vedere, varrà solo per province e comuni con popolazione superiore ai 250 mila abitanti.
L'emendamento, però, porta con sé l'aggiramento dell'intento della riforma Brunetta di contenere l'abuso oggettivo dell'utilizzo di dirigenti a contratto negli enti locali, che spesso hanno assunto dirigenti a termine per quote ben superiori al 10%, molte volte vicine al 100%, in totale contrasto con le indicazioni della Consulta. Dunque, si consente di rinnovare «per una sola volta» tutti i contratti dirigenziali a termine in scadenza entro il 31/12/2012, a condizione di adottare un provvedimento che con specifica motivazione dimostri l'indispensabilità del rinnovo per assicurare il corretto svolgimento delle funzioni essenziali.
Ancora una volta, torna il concetto di «funzioni essenziali», senza che esse però vengano definite. La deroga ai limiti percentuali consiste, nella sostanza, in una gentile concessione a tutte le amministrazioni comunali e provinciali in scadenza, nelle quali i dirigenti a contratto avrebbero dovuto lasciare gli incarichi definitivamente, se si fosse applicato rigorosamente (come richiederebbe la Consulta) il limite percentuale disposto dalla legge.
Grazie all'emendamento, tutti i comuni potranno motivare, più o meno sommariamente, l'indispensabilità di incarichi dirigenziali a contratto, che, paradossalmente, dovrebbero essere invece in ogni caso ridotti, visto che l'articolo 1, comma 557, della legge 296/2006 impone di contenere non solo il personale a tempo determinato (che ai sensi dell'articolo 9, comma 28, della legge 122/2010 comunque non possono superare, per spesa, il 50% del 2009), ma di diminuire l'incidenza percentuale dei dirigenti rispetto al rimanente personale.
Anche questi rinnovi consumeranno le risorse per assumere personale a tempo indeterminato, come unico scotto a questa sorta di sanatoria della dirigenza fiduciaria, molto ai limiti della legittimità costituzionale.
L'emendamento conclude indicando ai comuni che effettueranno i rinnovi dei dirigenti a contratto in deroga a qualsiasi limitazione percentuale di adottare atti di programmazione per assicurare a regime quello che, in realtà, da sempre la Consulta imporrebbe: il rispetto dei limiti percentuali previsti dalla legge. Poiché non è dato capire cosa si intenda per assicurazione «a regime» del rispetto dei limiti percentuali, sostanzialmente agli enti locali e ai dirigenti vicini alla politica è assicurato un altro quinquennio di incarichi. Per l'attuazione delle norme nel rispetto della Costituzione, ci sarà tempo (articolo ItaliaOggi del 20.04.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAssunzioni più facili per comuni e province. Limiti meno rigorosi per polizia locale, istruzione e servizi sociali.
Limiti meno rigorosi per le assunzioni degli enti locali. Gli emendamenti al «decreto fiscale» tornano a estendere in parte le possibilità di assunzione per comuni e province, riformulando l'articolo 76, comma 7, del dl 112/2008, convertito in legge 133/2008, l'articolo 1, comma 562, della legge 296/2006 e l'articolo 9, comma 28, del dl 78/2010, convertito in legge 122/2009.
Limiti finanziari alle assunzioni.
Il contenimento delle assunzioni di personale a tempo indeterminato rispetto al costo del personale cessato l'anno precedente passerà dal 20 al 40%.
Polizia, istruzione e servizi sociali. Per il personale addetto alle funzioni di polizia locale, di istruzione pubblica (sia personale ausiliario, sia insegnanti) e dei servizi sociali l'onere della spesa relativa alle loro assunzioni inciderà per il 50%. Tale previsione deve intendersi, probabilmente, riferita al calcolo delle possibilità di assumere funzionale al tetto di spesa assoluto e al rapporto tra spesa di personale e totale delle spese correnti.
Invece, il costo del personale assegnato ai servizi elencati prima si continuerà a computare per intero, ai fini della determinazione del limite del 40% del costo del personale cessato l'anno precedente.
Qualora i comuni, avendo un'incidenza della spesa di personale sul totale delle spese correnti inferiore al 35%, si siano avvalsi della possibilità di coprire l'intero turnover dei dipendenti addetti alla polizia municipale, l'estensione delle assunzioni vista prima si applica solo ai dipendenti addetti ai servizi di istruzione e sociali.
Comuni non soggetti al Patto. Viene modificato l'articolo 1, comma 562, della legge 296/2006, dedicato agli enti non obbligati al rispetto del patto di stabilità.
Per loro il limite di spesa alle assunzioni viene finalmente aggiornato e spostato dal 2004 al 2008. Un beneficio, tuttavia, destinato a durare poco. Nel 2013 la gran parte degli enti, quelli con popolazione superiore a 1.000 abitanti, verrà assoggettata ai vincoli del patto di stabilità.
Assunzioni a tempo determinato. Il legislatore continua a fare confusione in merito all'articolo 9, comma 28, della legge 122/2010, ai sensi del quale si applica come «principio» agli enti locali il limite di spesa alle assunzioni flessibili pari al 50% di quella sostenuta nel 2009.
Contraddicendo se stesso e l'autonomia costituzionalmente garantita degli enti locali, il legislatore pare intendere il limite del 50% non come regola di principio e, dunque, non puntuale, bensì come disposizione cogente.
In quest'ottica, l'emendamento permette agli enti locali, a partire dal 2013, di superare il limite del 50% qualora intendano effettuare assunzioni «strettamente necessarie» a garantire le funzioni sempre nell'ambito della polizia locale, dell'istruzione pubblica e dei servizi sociali.
La possibilità di sforare il limite di spesa del 50% rispetto al 2009 non è, tuttavia, piena. Comuni e province in ogni caso non potranno spendere complessivamente per le assunzioni flessibili riguardanti polizia locale, istruzione e servizi sociali, più dei costi sostenuti per i medesimi settori nel 2009 (articolo ItaliaOggi del 20.04.2012).

ENTI LOCALIAziende speciali al posto degli attuali consorzi socio-assistenziali. È una possibilità che si fa sempre più concreta e che lo stesso legislatore sembra in qualche modo suggerire.
Il problema nasce con l'art. 2, comma 186, lett. e), della legge 191/2009, che ha disposto la soppressione di tutti i consorzi di funzioni tra gli enti locali, con la sola eccezione (prevista dall'art. 1, comma 1-quater, della legge 42/2010) dei bacini imbriferi montani. Come chiarito da varie pronunce della Corte dei conti, a dover essere sorpresi sono i consorzi costituiti, ai sensi dell'art. 31 del Tuel, per l'esercizio associato di funzioni (non importa se esclusivamente o unitamente a servizi), ivi compresi quelli socio-assistenziali, sebbene questi ultimi siano espressamente identificati da numerose leggi regionali come obbligatori.
Tale disciplina si è intrecciata con quella che impone ai piccoli comuni l'obbligo di gestione associata delle funzioni (artt. 14 del dl 78/2010 e 16 del dl 138/2011), con modalità e tempistiche differenziate a seconda della fascia demografica di appartenenza (meno di 1000 abitanti e 1.000-5.000 abitanti). Il socio-assistenziale, infatti, rientra tra le funzioni (fondamentali) di competenza comunale. Qualunque sia la modalità operativa che i comuni sceglieranno per reinternalizzare le «funzioni» relative a questo ambito (ed il personale che le svolge) –convenzione, unione di comuni «tradizionale» (ex art. 32 del Tuel) o «speciale» (ex art. del 16 dl 138/2011), gestione singola (per i municipi maggiori)– rimarrà aperta la questione relativa alla riorganizzazione dei «servizi» finora svolti dai consorzi da sopprimere e la ricollocazione del personale ad essi addetto. Al riguardo, la soluzione preferibile pare essere rappresentata dalla costituzione di un consorzio di servizi «puro» sotto forma di azienda speciale consortile ex art. 114 del Tuel.
In un certo senso è lo stesso legislatore ad indicare questa strada. Il recente decreto «Cresci Italia» (dl 1/2012, convertito dalla l. 27/2012), nel disporre l'estensione alle aziende speciali (oltre che alle istituzioni ed alle società in house) degli stessi vincoli imposti agli enti locali (soggezione al Patto di stabilità interno, limitazioni alle assunzioni di personale, obbligo di applicare il codice dei contratti pubblici e le norme di contenimento degli oneri contrattuali e delle altre voci di natura retributiva o indennitaria e per consulenze, limiti alle partecipazioni societarie) ha previsto una deroga a favore di quelle «che gestiscono servizi socio-assistenziali ed educativi».
Giova ricordare che nell'ambito dei servizi pubblici privi di rilevanza economica (tipologia alla quale appartengono molte, anche se non tutte, le prestazioni socio-assistenziali) le regioni e gli enti locali hanno ampi margini di manovra, come riconosciuto dalla sentenza n. 272/2004 della Corte costituzionale, potendo optare sia per moduli più «pubblicistici» (aziende speciali, istituzioni, associazioni, fondazioni ecc.), che per moduli più «imprenditoriali» (società di capitali).
Il modulo dell'azienda speciale consortile ha il pregio di coniugare il controllo pubblico con una gestione improntata a criteri di efficacia, efficienza, ed economicità. Esso permetterebbe di conservare le dimensioni degli attuali consorzi, salvaguardando le economie di scala (articolo ItaliaOggi del 20.04.2012).

ENTI LOCALICarta autonomie, un caos. Agenzie e società locali da liquidare. E il personale? Riprende l'iter al senato. Con molte incognite legate al riparto di funzioni.
Un guazzabuglio il nuovo assetto delle competenze degli enti locali, che va delineandosi nella Carta delle autonomie. La necessità di riorganizzare l'assetto delle funzioni degli enti locali, derivata dall'articolo 23 della legge 214/2011 che ha messo in discussione le funzioni storiche delle province, ha rilanciato i lavori parlamentari per l'approvazione del disegno di legge di riforma del dlgs 267/2000 (si veda ItaliaOggi di ieri). Il risultato che ne deriva, tuttavia, non farebbe altro che accrescere la confusione già creata dal cosiddetto decreto «salva Italia», preso dall'esigenza di far vedere che si aggrediscono i costi della politica, intervenendo sulle province.
In effetti, la Carta delle autonomie finisce per correggere le storture della legge 214/2011, riassegnando alle province, oltre alla troppo fumosa funzione di indirizzo e coordinamento, anche le funzioni di programmazione, manutenzione delle strade e programmazione dei trasporti, nonché in tema di ambiente.
Tuttavia, il disegno ordinamentale risulta tutt'altro che chiaro, anche perché il disegno di legge non può entrare nel merito delle funzioni da assegnare alle regioni, che d'altra parte le regioni stesse potrebbero a loro volta attribuire sia a comuni, sia a province ai sensi dell'articolo 118 della Costituzione.
Nei fatti, l'attribuzione delle competenze a comuni e province, che la Carta delle autonomie vorrebbe tassative e inderogabili, resta, invece, estremamente fluida e indeterminata. Per i comuni, ad esempio, si prevedono funzioni come le «attività, in ambito comunale, di pianificazione di protezione civile e di coordinamento dei primi soccorsi», oppure la «gestione dei beni e dei servizi culturali di cui il comune abbia la titolarità». In apparenza tali formule assegnano competenze chiare. Ma, in realtà, poiché esse genericamente si riferiscono all'«ambito comunale» o alla titolarità comunale delle competenze, risulta evidente che la linea di confine dell'esercizio di simili funzioni, rispetto ad altri enti che concorrano ad esercitarle (in particolare regioni e Stato) restano totalmente indefiniti.
L'emendamento indica che le funzioni fondamentali ed amministrative conferite a comuni, province e città metropolitane non possano essere ed esercitate da enti, società o agenzie statali, regionali e di enti locali. Si impedisce, così, la creazione di enti di servizio che svolgano in modalità privata funzioni amministrative. Il che comporterebbe la necessità di liquidare e sciogliere le molteplici società di servizio nate nel frattempo, con non indifferenti problemi occupazionali, senza una regola chiara sul personale da esse dipendente. Non essendo ammissibili clausole di rientro per il personale a suo tempo trasferito dall'ente locale alle società, né possibile assorbire personale non assunto dalle società stesse senza concorsi, si determinerebbero anche rischi di insufficienti dotazioni di risorse umane derivanti dalle reinternalizzazioni.
Il tentativo, poi, di razionalizzare i «costi della politica» induce ad una forte spinta verso l'obbligatorietà delle forme associative. Tutti i comuni con popolazione fino a 5 mila abitanti oppure fino a 3 mila se appartenenti a comunità montane dovranno necessariamente associarsi per gestire le funzioni fondamentali. Stessi obblighi per le province con meno di 300 mila abitanti (articolo ItaliaOggi del 20.04.2012 - tratto da www.corteconti.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Diritto d'accesso agli atti 2.0. Sì alle nuove tecnologie ma senza discriminazioni.  I documenti possono essere messi a disposizione in formato digitale.
Un ente locale può soddisfare il diritto di accesso agli atti dei consiglieri comunali, previsto dall'art. 43, comma 2, del dlgs n. 267/2000, attraverso la messa a disposizione della documentazione in formato digitale, o attraverso l'invio diretto alle caselle di posta elettronica dei richiedenti o attraverso la consegna di cd o altro analogo supporto, contenente la riproduzione della predetta documentazione?
Il diritto di accesso dei consiglieri comunali agli atti amministrativi dell'ente locale è stato definito dal Consiglio di stato (sent. n. 4471/2005) «diritto soggettivo pubblico funzionalizzato», come tale strumentale al controllo politico-amministrativo sull'ente, nell'interesse della collettività. In considerazione di ciò, ai consiglieri comunali spetta un'ampia prerogativa di ottenere, dai competenti uffici comunali, tutte le informazioni utili all'espletamento del mandato senza che possano essere opposti profili di riservatezza, in quanto essi sono tenuti al segreto d'ufficio.
Gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali possono rinvenirsi, da un lato, nel fatto che esso deve avvenire in modo da comportare il minore aggravio possibile per gli uffici comunali, dall'altro, nel fatto che esso non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche o meramente emulative, fermo restando che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso (Consiglio di stato, sez. V, n. 6963/2010).
La stessa commissione per l'accesso ai documenti amministrativi ha richiamato il consolidato principio giurisprudenziale (ex multis Consiglio di stato, sez. V, n. 929/2007) secondo cui il diritto del consigliere di accesso agli atti «non può subire compressioni per pretese esigenze di natura burocratica dell'ente con l'unico limite di poter esaudire la richiesta, qualora sia di una certa gravosità, secondo i tempi necessari per non determinare interruzione delle attività di tipo corrente». Pertanto, il consigliere deve contemperare il diritto di accesso con l'esigenza di non intralciare lo svolgimento dell'attività amministrativa e il regolare funzionamento degli uffici comunali, comportando per essi il minor aggravio possibile, sia dal punto di vista organizzativo che economico (Corte dei conti, sez. Liguria n. 1/2004).
In ordine all'ammissibilità dell'accesso ad atti istituzionali del comune mediante l'uso di tecnologie informatiche, nonché all'acquisizione delle deliberazioni consiliari e di giunta e dei relativi atti preparatori in formato digitale (a mezzo Pec), la commissione ha ritenuto che, in base al quadro normativo vigente e alla ormai generalizzata diffusione degli strumenti informatici presso i soggetti pubblici e privati, «l'accesso telematico “deve” essere sempre consentito, soprattutto ove richiesto, non solo nei reciproci rapporti posti in essere tra le pubbliche amministrazioni medesime e in quelli da esse intrattenuti con l'utenza privata, ma anche nei rapporti tra le stesse amministrazioni locali e i componenti eletti nei loro organi consiliari. Il diritto di accesso telematico va garantito anche alla luce del generale dovere della pubblica amministrazione di ispirare la propria attività al principio di buon andamento e conseguente economicità e proficuità dell'azione (ex art. 97 Cost.) nonché del principio di leale cooperazione istituzionale tra soggetti pubblici (art. 120 Cost.)» (parere dell'11.01.2011).
Tuttavia, la Commissione ha ribadito che «l'amministrazione comunale deve garantire a tutti indistintamente i consiglieri parità di condizioni di accesso e di informazione, attesa la parità delle funzioni da ciascuno di essi esercitate. Eventuali disparità di trattamento devono, quindi, ritenersi contra legem» (parere del 10.05.2011).
Pertanto, «il mancato rilascio della chiesta copia cartacea potrebbe costituire una discriminazione dei soggetti privi di adeguata cultura informatica, con conseguente lesione sia del principio generale di uguaglianza sia dello specifico diritto di accesso, che pure attiene a quelle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti a tutti i cittadini e su tutto il territorio nazionale» (parere del 23 giugno/07.07.2011).
La scelta dell'amministrazione comunale di rilasciare la documentazione richiesta in formato digitale, sulla base del principio di economicità, deve ritenersi in linea con gli indirizzi suindicati, garantendo comunque l'accesso a tutti gli atti richiesti dai consiglieri (articolo ItaliaOggi del 20.04.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOStatali, dall'estate libertà di licenziare. L'annuncio del ministro della Funzione Pubblica Patroni Griffi.
"STATALI, SI LICENZIA"/ Il ministro Griffi: riforma del pubblico entro l'estate. Fuori dal lavoro dopo.

È di quasi tre milioni di persone l'esercito dei "senza speranza", i disoccupati che non cercano più lavoro. Il triplo della media Ue.
Nei tavoli di confronto con il sindacato, l'eventualità era finora passata solo per allusioni ma ieri, con un'intervista sul quotidiano Avvenire, il ministro della Pubblica amministrazione, Filippo Patroni Griffi, è stato netto: il governo licenzierà anche gli statali. Arrivando fino a dove non era arrivato Brunetta. Le forme saranno mediate, ovviamente, ma la sostanza resta e tutto quanto dovrà avvenire già entro l'estate.
Il ministro vuole varare la sua riforma entro metà maggio e del resto, la riforma del Lavoro, che è già all'esame del Parlamento, è stata fatta in modo da recepire, all'articolo 2, una legge delega. A quanto pare la riforma è già avanti nel suo punto più cruciale, quello del licenziamento del pubblico impiego. "Spero che capiscano tutti, anche i sindacati" dice il ministro al quotidiano cattolico.
"Devono accettare il meccanismo di mobilità obbligatoria per due anni che già esiste ma che ancora non è stato attuato. Devo farlo perché le amministrazioni pubbliche vanno riorganizzate anche per attuare la spending review sulla spesa pubblica". La procedura, in effetti, è già prevista nella norma attuale che prevede la messa in mobilità, per 24 mesi e all'85 per cento dello stipendio, del personale dichiarato in esubero. "Prima proveremo a vedere se quel personale, riqualificato, potrà essere utilizzato meglio in altri settori" spiega Patroni Griffi, "poi, solo se alla fine non si troveranno alternative, l'unica strada rimarrà quella del licenziamento".
NESSUNO crede, però ... (articolo Il Fatto Quotidiano del 20.04.2012 - tratto da www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: La revisione dei prezzi tutela da un lato l’esigenza dell’amministrazione di evitare che il corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo –tali da sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è avvenuta la stipulazione del contratto– e dall’altro l’interesse dell’impresa a non subire l’alterazione dell’equilibrio contrattuale conseguente alle modifiche dei costi che si verifichino durante l’arco del rapporto, e che potrebbero indurla ad una surrettizia riduzione degli standard qualitativi delle prestazioni. Il meccanismo –applicato (su base periodica) agli appalti di durata– conduce in buona sostanza alla definizione di un “nuovo” corrispettivo per le prestazioni oggetto del contratto, riferito alla dinamica dei prezzi registrata in un dato arco temporale di riferimento (con beneficio di entrambi i contraenti): l’appaltatore vede ridotta, anche se non eliminata, l’alea propria dei contratti di durata, mentre la stazione appaltante vede diminuito il pericolo di un peggioramento della prestazione divenuta onerosa.
Il legislatore –come aveva già previsto all’art. 6, comma 4, della L. 537/1993 nel testo novellato dall’art. 44 della L. 724/1994– conferma all’art. 115 del D.Lgs. 163/2006 che “Tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativa a servizi o forniture debbono recare una clausola di revisione periodica del prezzo”. Si impone quindi alle parti di contemplare nel contratto una revisione del corrispettivo con cadenza periodica, per prevenire l’alterazione dell’equilibrio del sinallagma contrattuale. La citata previsione dimostra che la legge non ha inteso munire i contratti di forniture e servizi di una clausola parametrica che indicizzi la controprestazione pecuniaria dell’amministrazione alle oscillazioni del mercato –seppur rilevate ex post– ma di un meccanismo che, a cadenze intervallate e predeterminate, comporti la determinazione di un “nuovo” corrispettivo per le prestazioni ancora da eseguire, rapportandolo all’andamento dei prezzi rilevato in un dato intervallo di tempo. L’adeguamento del compenso quindi non deve collegarsi all’incremento dei costi secondo criteri di stretta e rigorosa equivalenza.
Altra giurisprudenza ha osservato che la clausola di revisione periodica dei contratti di durata ha lo scopo di tenere indenni gli appaltatori dell’amministrazione da quegli aumenti dei prezzi dei fattori della produzione che –incidendo sulla percentuale di utile stimata al momento della formulazione dell'offerta– potrebbero indurre l’aggiudicatario a svolgere il servizio o ad eseguire la fornitura a condizioni deteriori rispetto a quanto pattuito o, addirittura, a rifiutarsi di proseguire nel rapporto, con inevitabile compromissione degli interessi dell’amministrazione. Solo in via mediata l'istituto tutela l'interesse dell'impresa a non subire l'alterazione dell'equilibrio contrattuale conseguente alle modifiche dei costi che si verifichino durante l’arco del rapporto, e che potrebbero indurla ad una surrettizia riduzione degli standard qualitativi delle prestazioni.

Recentemente è stato sottolineato (cfr. Consiglio di Stato, sez. III – 19/07/2011 n. 4362; TAR Sicilia Palermo, sez. III – 07/06/2010 n. 7234) che la revisione dei prezzi tutela da un lato l’esigenza dell’amministrazione di evitare che il corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo –tali da sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è avvenuta la stipulazione del contratto– e dall’altro l’interesse dell’impresa a non subire l’alterazione dell’equilibrio contrattuale conseguente alle modifiche dei costi che si verifichino durante l’arco del rapporto, e che potrebbero indurla ad una surrettizia riduzione degli standard qualitativi delle prestazioni. Il meccanismo –applicato (su base periodica) agli appalti di durata– conduce in buona sostanza alla definizione di un “nuovo” corrispettivo per le prestazioni oggetto del contratto, riferito alla dinamica dei prezzi registrata in un dato arco temporale di riferimento (con beneficio di entrambi i contraenti): l’appaltatore vede ridotta, anche se non eliminata, l’alea propria dei contratti di durata, mentre la stazione appaltante vede diminuito il pericolo di un peggioramento della prestazione divenuta onerosa.
Il legislatore –come aveva già previsto all’art. 6, comma 4, della L. 537/1993 nel testo novellato dall’art. 44 della L. 724/1994– conferma all’art. 115 del D.Lgs. 163/2006 che “Tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativa a servizi o forniture debbono recare una clausola di revisione periodica del prezzo”. Si impone quindi alle parti di contemplare nel contratto una revisione del corrispettivo con cadenza periodica, per prevenire l’alterazione dell’equilibrio del sinallagma contrattuale. La citata previsione dimostra che la legge non ha inteso munire i contratti di forniture e servizi di una clausola parametrica che indicizzi la controprestazione pecuniaria dell’amministrazione alle oscillazioni del mercato –seppur rilevate ex post– ma di un meccanismo che, a cadenze intervallate e predeterminate, comporti la determinazione di un “nuovo” corrispettivo per le prestazioni ancora da eseguire, rapportandolo all’andamento dei prezzi rilevato in un dato intervallo di tempo (TAR Campania Napoli, sez. I – 29/07/2010 n. 17174; si veda anche TAR Puglia Lecce, sez. III – 07/04/2010 n. 898). L’adeguamento del compenso quindi non deve collegarsi all’incremento dei costi secondo criteri di stretta e rigorosa equivalenza.
Altra giurisprudenza (cfr. TAR Puglia Lecce, sez. III – 13/12/2010 n. 2826) ha osservato che la clausola di revisione periodica dei contratti di durata ha lo scopo di tenere indenni gli appaltatori dell’amministrazione da quegli aumenti dei prezzi dei fattori della produzione che –incidendo sulla percentuale di utile stimata al momento della formulazione dell'offerta– potrebbero indurre l’aggiudicatario a svolgere il servizio o ad eseguire la fornitura a condizioni deteriori rispetto a quanto pattuito o, addirittura, a rifiutarsi di proseguire nel rapporto, con inevitabile compromissione degli interessi dell’amministrazione. Solo in via mediata l'istituto tutela l'interesse dell'impresa a non subire l'alterazione dell'equilibrio contrattuale conseguente alle modifiche dei costi che si verifichino durante l’arco del rapporto, e che potrebbero indurla ad una surrettizia riduzione degli standard qualitativi delle prestazioni (TAR Lombardia-Brescia, Sez, II, sentenza 20.04.2012 n. 674 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il calcolo della volumetria che può essere realizzata su un lotto edificabile deve essere effettuato tenendo conto della situazione determinata anche dalla eventuale parziale utilizzazione, ad opera dell’originario proprietario, della volumetria globalmente disponibile e, quindi, detraendo dalla cubatura richiesta quella già realizzata per il precedente edificio, a nulla rilevando che questo possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa ed autonoma.
D’altro canto, in subiecta materia, il vincolo d’asservimento si costituisce solo per effetto del rilascio del permesso di costruire, per cui, proprio perché recepito in un provvedimento amministrativo, è opponibile anche ai terzi acquirenti, fatti salvi i rimedi giurisdizionali e amministrativi azionabili nei confronti degli atti che si ritengano illegittimi.
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La sopravvenienza della disciplina urbanistica su una determinata area può operare sia in melius, ampliando i pregressi indici di fabbricabilità, sia in peius, riducendoli.
Per cui, data una certa destinazione del piano all’edificazione futura, nel primo caso andranno considerate le sole aree libere, nel senso che eventuali variazioni degli indici di fabbricazione in melius (cioè più favorevoli ai privati proprietari) non possono riguardare aree già utilizzate a fini edificatori; mentre al contrario, eventuali variazioni in senso restrittivo dei predetti indici si impongono ad aree che, pur disponendo in precedenza di indici più favorevoli, non siano state ancora utilizzate a fini edificatori.

Quello che si contesta è: in primis, l’applicazione della disciplina urbanistica vigente al momento della richiesta del titolo per la realizzazione di un intervento di nuova costruzione, insistendo l’area in zona già interessata dal rilascio di precedenti licenze edilizie; in subordine, la riconducibilità della stessa ad un comparto unico di cui fanno parte altre particelle già utilizzate per la realizzazione di altri edifici attualmente ancora esistenti.
Sul primo punto, è sufficiente fare rinvio ad un diffuso orientamento giurisprudenziale, (cfr. TAR Campania-Napoli – Sez. II - 22.12.2010 n. 28013; TAR Campania, Napoli, Sez. II, 30.04.2009 n. 2262; TAR Campania, Napoli, Sez. II, 08.06.2006, n. 6816; Consiglio di Stato, V Sezione, 12.07.2005, n. 3777, e 23.08.2005, n. 4385), secondo cui il calcolo della volumetria che può essere realizzata su un lotto edificabile deve essere effettuato tenendo conto della situazione determinata anche dalla eventuale parziale utilizzazione, ad opera dell’originario proprietario, della volumetria globalmente disponibile e, quindi, detraendo dalla cubatura richiesta quella già realizzata per il precedente edificio, a nulla rilevando che questo possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa ed autonoma.
D’altro canto, in subiecta materia, il vincolo d’asservimento si costituisce solo per effetto del rilascio del permesso di costruire (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 28.06.2000, n. 3637; Cass. Civ., Sez. II, 12.09.1998, n. 9081), per cui, proprio perché recepito in un provvedimento amministrativo, è opponibile anche ai terzi acquirenti, fatti salvi i rimedi giurisdizionali e amministrativi azionabili nei confronti degli atti che si ritengano illegittimi.
Le considerazioni suesposte hanno, come sarà chiarito, un’immediata ricaduta sulle censure articolate dalla parte ricorrente.
E ciò in quanto è la stessa parte ricorrente che pone in evidenza l’appartenenza dell’area divenuta di sua proprietà ad un più ampio comparto edificato nel corso degli anni ’60 in forza delle licenze n. 2816 del 1965 e n. 203 del 1967 (pag. 9 del ricorso).
Il successivo frazionamento di tale area, dunque, non consente di calcolare la volumetria residua prescindendo da quella già utilizzata per la realizzazione di edifici ancora esistenti.
A ciò va aggiunto il rilievo secondo cui, ai sensi dell’art. 7 della l. 17.08.942 n. 1150, il Comune disciplina, con il Piano regolatore generale, l’assetto urbanistico dell’intero territorio comunale, in particolare prevedendo “la divisione in zone del territorio comunale con la precisazione delle zone destinate all'espansione dell'aggregato urbano e la determinazione dei vincoli e dei caratteri da osservare in ciascuna zona”.
Funzione precipua di tale strumento urbanistico è quella di “conformare l’edificazione futura” (Cons. Stato, sez. IV, 18.06.2009 n. 4009), ciò che si attua attraverso prescrizioni tendenzialmente a tempo indeterminato, in quanto conformative delle destinazioni dei suoli (Cons. Stato, sez. II, 18.06.2008 n. 982).
Si consideri che, essendo la regola che governa l’azione amministrativa quella del tempus regit actum, la legittimità di ogni provvedimento va verificata alla stregua delle norme applicabili al momento della sua adozione.
E’ del tutto evidente, pertanto, che la normativa di riferimento per chi intenda realizzare un intervento di nuova edificazione –come nel caso di specie– è e non può essere altri che quella vigente al momento della presentazione della relativa domanda, essendo del tutto irragionevole sottrarre alla regolamentazione in vigore interventi necessitanti di un titolo abilitativo, sol perché in passato, sulla stessa area sono stati rilasciati altri titoli edilizi.
E’ noto, infatti, che la sopravvenienza della disciplina urbanistica su una determinata area può operare sia in melius, ampliando i pregressi indici di fabbricabilità, sia in peius, riducendoli.
Per cui, data una certa destinazione del piano all’edificazione futura, nel primo caso andranno considerate le sole aree libere, nel senso che eventuali variazioni degli indici di fabbricazione in melius (cioè più favorevoli ai privati proprietari) non possono riguardare aree già utilizzate a fini edificatori; mentre al contrario, eventuali variazioni in senso restrittivo dei predetti indici si impongono ad aree che, pur disponendo in precedenza di indici più favorevoli, non siano state ancora utilizzate a fini edificatori (C.D.S., Sez. IV, 09.07.2011 n. 4134).
In sintesi, il primo motivo di ricorso va rigettato in quanto correttamente il provvedimento impugnato ha utilizzato come parametro di giudizio ai fini del calcolo della volumetria residua, il piano regolatore vigente al momento della domanda e gli indici di fabbricabilità di nuovo conio, applicati con riguardo all’intero comparto oggetto delle originarie licenze adottate negli anni ’60 (TAR Lombardia-Milano, Sez, II, sentenza 19.04.2012 n. 1155 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl silenzio-rifiuto sulla domanda di permesso di costruire non equivale a diniego: l'Amministrazione deve comunque determinarsi con un provvedimento espresso.
L'art. 20 T.U. 06.06.2001 n. 380, prevede che le domande di permesso di costruire debbano essere esaminate e definite entro termini ben definiti, trascorsi i quali, in base al disposto del comma 9, sulla domanda si forma il silenzio-rifiuto.
Trascorso il predetto termine legale, non si è peraltro di fronte ad un silenzio reso significativo dalla legge in termini di diniego implicito della pretesa avanzata, ma ad un silenzio-inadempimento che esprime l'inerzia dell'Amministrazione in violazione del suo obbligo generale di concludere, entro termini certi, il procedimento con un provvedimento espresso.
Pertanto l'Amministrazione competente, deve in ogni caso determinarsi espressamente sulla domanda di permesso di costruire entri il termine legalmente assegnatole per la conclusione del procedimento di cui al citato art. 20.
Nella fattispecie in esame pertanto, erroneamente il TAR ha affermato l’assenza dei presupposti di azionabilità della domanda ex articoli 31 e 117 del codice del processo amministrativo, perché qui deve comunque riscontrarsi la ricorrenza di un inadempimento imputabile all’amministrazione in violazione dell’art. 2 della L. n. 241/1990 e s.m.i. .
Infatti a fronte dell’eventuale mancato adempimento alle richieste di frazionamento, il Comune avrebbe dovuto regolarsi di conseguenza per la definizione anche in senso negativo della relativa domanda, ma comunque doveva far luogo ad provvedimento espresso dell’amministrazione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.04.2012 n. 2302 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sono condizioni dell’azione volta all’impugnazione di un atto amministrativo la legittimazione a ricorrere, che dipende dalla titolarità di un interesse legittimo proprio e attuale del ricorrente e l’interesse a ricorrere che sussiste nel caso in cui il provvedimento abbia cagionato una lesione immediata, concreta ed attuale e dall’accoglimento del ricorso derivi al ricorrente un vantaggio materiale o morale, concreto o potenziale (detto anche strumentale).
In particolare la giurisprudenza esclude l’esistenza di un interesse a ricorrere nel caso di mera diffida, cioè in presenza di un ordine diretto a terzi affinché provveda all’eliminazione di una situazione abusiva quando tale situazione non venga in alcun modo qualificata e non siano previsti effetti punitivi immediati in conseguenza dell’omessa ottemperanza.
In questi casi infatti l’inottemperanza all’obbligo previsto nell’ordinanza non comporta effetti sanzionatori immediati o automatici, come nel caso dell’ordinanza di demolizione, ma occorre che l’amministrazione adotti ulteriori atti per aprire un procedimento sanzionatorio.

Secondo le regole generali del processo amministrativo sono condizioni dell’azione volta all’impugnazione di un atto amministrativo la legittimazione a ricorrere, che dipende dalla titolarità di un interesse legittimo proprio e attuale del ricorrente e l’interesse a ricorrere che sussiste nel caso in cui il provvedimento abbia cagionato una lesione immediata, concreta ed attuale e dall’accoglimento del ricorso derivi al ricorrente un vantaggio materiale o morale, concreto o potenziale (detto anche strumentale).
In particolare la giurisprudenza (Consiglio di Stato, sez. V, 18.12.2002, n. 7030) esclude l’esistenza di un interesse a ricorrere nel caso di mera diffida, cioè in presenza di un ordine diretto a terzi affinché provveda all’eliminazione di una situazione abusiva quando tale situazione non venga in alcun modo qualificata e non siano previsti effetti punitivi immediati in conseguenza dell’omessa ottemperanza.
In questi casi infatti l’inottemperanza all’obbligo previsto nell’ordinanza non comporta effetti sanzionatori immediati o automatici, come nel caso dell’ordinanza di demolizione, ma occorre che l’amministrazione adotti ulteriori atti per aprire un procedimento sanzionatorio (TAR Lombardia-Milano, Sez, IV, sentenza 17.04.2012 n. 1136 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’articolo 38 del codice dei contratti pubblici (il quale, nel disciplinare i requisiti di ordine generale –in dottrina definiti anche di idoneità "morale"– stabilisce, tra l’altro, l’esclusione per le circostanze indicate alle lettere b) e c) anche se la sentenza o il decreto sono stati emessi nei confronti degli amministratori muniti di poteri di rappresentanza o del direttore tecnico o del socio unico persona fisica, ovvero del socio di maggioranza in caso di società con meno di quattro soci, se si tratta di società a responsabilità limitata o di capitali) ha la chiara finalità di attuare un controllo effettivo sull’idoneità morale degli operatori economici con riferimento a tutti i soggetti in grado di impegnare all’esterno l’impresa, tanto da richiedere le dichiarazioni non solo in capo agli amministratori muniti di legale (e formale) potere di rappresentanza, ma anche ai direttori tecnici e, in determinate ipotesi, anche al socio di maggioranza.
La disposizione normativa va, dunque, interpretata nel senso che coloro i quali rivestono cariche societarie, alle quali è per legge istituzionalmente connesso il possesso di poteri rappresentativi, sono in ogni caso tenuti a rendere la dichiarazione prevista dalla norma in questione.

Il collegio, pur non disconoscendo l’esistenza di un’opinione contraria espressa da alcune pronunce della sezione V del Consiglio di Stato, si riporta al più recente orientamento espresso dalla sezione III del Supremo consesso, secondo il quale l’articolo 38 del codice dei contratti pubblici (il quale, nel disciplinare i requisiti di ordine generale –in dottrina definiti anche di idoneità "morale"– stabilisce, tra l’altro, l’esclusione per le circostanze indicate alle lettere b) e c) anche se la sentenza o il decreto sono stati emessi nei confronti degli amministratori muniti di poteri di rappresentanza o del direttore tecnico o del socio unico persona fisica, ovvero del socio di maggioranza in caso di società con meno di quattro soci, se si tratta di società a responsabilità limitata o di capitali) ha la chiara finalità di attuare un controllo effettivo sull’idoneità morale degli operatori economici con riferimento a tutti i soggetti in grado di impegnare all’esterno l’impresa, tanto da richiedere le dichiarazioni non solo in capo agli amministratori muniti di legale (e formale) potere di rappresentanza, ma anche ai direttori tecnici e, in determinate ipotesi, anche al socio di maggioranza.
La disposizione normativa va, dunque, interpretata nel senso che coloro i quali rivestono cariche societarie, alle quali è per legge istituzionalmente connesso il possesso di poteri rappresentativi, sono in ogni caso tenuti a rendere la dichiarazione prevista dalla norma in questione.
La teoria penalistica del falso innocuo non può, infatti, trovare applicazione nella specifica materia degli appalti pubblici, non potendosi ritenere che dovrebbe essere impedita la partecipazione alle gare solo quando in capo all’operatore economico difettino effettivamente le condizioni previste per la partecipazione e non anche quando la dichiarazione pur non veritiera, o incompleta, non sia idonea a modificare gli esiti della gara.
Tale teoria, elaborata nel diverso contesto del diritto penale ai sensi degli articoli 13 e 27 Cost. nonché dell’articolo 49 c.p. per accertare in concreto l’esistenza dell'offesa al bene giuridico tutelato dalla norma penale, non può, infatti, trovare ingresso nelle procedure di evidenza pubblica, atteso che in queste ultime la completezza delle dichiarazioni è già di per sé un valore da perseguire perché consente –anche in ossequio al principio di buon andamento dell’amministrazione e di proporzionalità– la celere decisione in ordine all’ammissione dell’operatore economico alla gara. Ne consegue che una dichiarazione inaffidabile (perché falsa o incompleta) è già di per sé stessa lesiva degli interessi considerati dalla norma, a prescindere dal fatto che l’impresa meriti “sostanzialmente” di partecipare alla gara.
Nel diritto degli appalti, occorre, infatti, poter fare affidamento su una dichiarazione idonea a far assumere tempestivamente alla stazione appaltante le necessarie determinazioni in ordine all’ammissione dell’operatore economico alla gara o alla sua esclusione (Cons. Stato, sez. III, 16.03.2012, n. 1471; cfr. anche sez. IV, 16.11.2011, n. 6053) (TAR Lombardia-Milano, Sez, IV, sentenza 17.04.2012 n. 1134 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: L'essere abilitato a partecipare al procedimento di adozione degli strumenti urbanistici mediante lo strumento delle osservazioni non legittima anche alla proposizione del ricorso giurisdizionale avverso l'atto che lo conclude, atteso che la partecipazione procedimentale ed il processo amministrativo, che è giudizio impugnatorio di atti, si fondano su presupposti e condizioni differenti, persistendo la necessità per adire il giudice, ancorché si sia partecipato al procedimento di adozione dello strumento urbanistico, della titolarità di una posizione giuridica soggettiva (interesse legittimo), della legittimazione e dell'interesse ad agire, condizioni dell'azione che certamente non discendono dall'effettuata partecipazione.
In tema poi di legittimazione processuale delle associazioni, prevale l’orientamento per cui -fatto salvo il criterio legale di legittimazione degli enti a carattere nazionale iscritti nell'apposito elenco tenuto dal Ministero dell'Ambiente, ai sensi dell'art. 13 della legge 08.07.1986 n. 349- è possibile che tale riconoscimento della titolarità dell'azione sia attribuito ad associazioni locali le quali perseguano statutariamente, in modo non occasionale, obiettivi di tutela di determinati interessi della collettività ed abbiano un adeguato grado di rappresentatività e stabilità in un'area di afferenza ricollegabile alla zona in cui è situato il bene a fruizione pubblica che si assume leso.
Anche in materia di interessi diffusi, non è ammessa quindi nel vigente sistema l'azione popolare, vale a dire la possibilità per il quisque de populo di intraprendere un'iniziativa giurisdizionale in assenza della titolarità, sul piano sostanziale, di un interesse diretto, concreto e personale che lo ponga su un piano differenziato rispetto alla generalità dei consociati.
Di conseguenza, ai fini della legittimazione ad agire di un'associazione o di un comitato, non è sufficiente il mero scopo associativo o la finalità statutaria per differenziare l'interesse diffuso, specie quando tale scopo si risolva nella finalità di proporre un'azione giurisdizionale o di svolgere un controllo generalizzato sulla legittimità di qualsiasi azione amministrativa nel contesto territoriale di riferimento.
Il riconoscimento della legittimazione ad agire in giudizio a favore delle associazioni non riconosciute (...) richiede che delle stesse sia accertato: 1) il carattere non occasionale o strumentale alla proposizione di una determinata impugnativa; 2) lo stabile collegamento col territorio, consolidatosi nel tempo, che deve presuntivamente escludersi in caso di associazioni costituite pochi giorni prima della proposizione del ricorso; 3) la rappresentatività della collettività locale di riferimento, requisito quest'ultimo che non può prescindere dalla considerazione, quanto meno indiziaria, del numero delle persone fisiche costituenti l'associazione.

In materia di impugnazione dei piani urbanistici generali, quale è in Regione Lombardia il Piano di Governo del Territorio, che ha sostituito il tradizionale Piano Regolatore Generale (si veda la legge regionale n. 12/2005), la giurisprudenza amministrativa è ormai concorde nel ritenere che: <<l'essere abilitato a partecipare al procedimento di adozione degli strumenti urbanistici mediante lo strumento delle osservazioni non legittima anche alla proposizione del ricorso giurisdizionale avverso l'atto che lo conclude, atteso che la partecipazione procedimentale ed il processo amministrativo, che è giudizio impugnatorio di atti, si fondano su presupposti e condizioni differenti, persistendo la necessità per adire il giudice, ancorché si sia partecipato al procedimento di adozione dello strumento urbanistico, della titolarità di una posizione giuridica soggettiva (interesse legittimo), della legittimazione e dell'interesse ad agire, condizioni dell'azione che certamente non discendono dall'effettuata partecipazione>> (Consiglio di Stato, sez. IV, 03.08.2011, n. 4644; si veda anche, della medesima Sezione del Consiglio di Stato, la sentenza 13.07.2010, n. 4545 e, sulla necessità dell’individuazione rigorosa sia della legittimazione ad agire sia dell’interesse ad agire in capo ad ogni ricorrente: Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, n. 4 del 07.04.2011).
In tema poi di legittimazione processuale delle associazioni, prevale l’orientamento per cui -fatto salvo il criterio legale di legittimazione degli enti a carattere nazionale iscritti nell'apposito elenco tenuto dal Ministero dell'Ambiente, ai sensi dell'art. 13 della legge 08.07.1986 n. 349- è possibile che tale riconoscimento della titolarità dell'azione sia attribuito ad associazioni locali le quali perseguano statutariamente, in modo non occasionale, obiettivi di tutela di determinati interessi della collettività ed abbiano un adeguato grado di rappresentatività e stabilità in un'area di afferenza ricollegabile alla zona in cui è situato il bene a fruizione pubblica che si assume leso (cfr. sul punto TAR Toscana, sez. III, 28.02.2012, n. 397, con la giurisprudenza ivi richiamata).
Anche in materia di interessi diffusi, non è ammessa quindi nel vigente sistema l'azione popolare, vale a dire la possibilità per il quisque de populo di intraprendere un'iniziativa giurisdizionale in assenza della titolarità, sul piano sostanziale, di un interesse diretto, concreto e personale che lo ponga su un piano differenziato rispetto alla generalità dei consociati (cfr. ancora TAR Toscana, sez. II, 18.11.2011, n. 1765).
Di conseguenza, ai fini della legittimazione ad agire di un'associazione o di un comitato, non è sufficiente il mero scopo associativo o la finalità statutaria per differenziare l'interesse diffuso, specie quando tale scopo si risolva nella finalità di proporre un'azione giurisdizionale o di svolgere un controllo generalizzato sulla legittimità di qualsiasi azione amministrativa nel contesto territoriale di riferimento.
Ancora, si è affermato che: <<Il riconoscimento della legittimazione ad agire in giudizio a favore delle associazioni non riconosciute (...) richiede che delle stesse sia accertato: 1) il carattere non occasionale o strumentale alla proposizione di una determinata impugnativa; 2) lo stabile collegamento col territorio, consolidatosi nel tempo, che deve presuntivamente escludersi in caso di associazioni costituite pochi giorni prima della proposizione del ricorso; 3) la rappresentatività della collettività locale di riferimento, requisito quest'ultimo che non può prescindere dalla considerazione, quanto meno indiziaria, del numero delle persone fisiche costituenti l'associazione>> (cfr. TAR Piemonte, sez. I, 21.12.2011, n. 1340) (TAR Lombardia-Milano, Sez, II, sentenza 17.04.2012 n. 1124 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: I provvedimenti con i quali i comuni ripartiscono in zone il territorio in sede di pianificazione urbanistica hanno natura ampiamente discrezionale e possono pertanto incidere anche su precedenti difformi destinazioni delle zone stesse, sempre che la nuova suddivisione non sia affetta da errori di fatto o da gravi vizi di illogicità, irrazionalità o contraddittorietà.
In occasione della formazione degli strumenti giuridici generali, inoltre, le scelte discrezionali delle amministrazioni locali riguardo alla destinazione di singole aree necessitano di apposite motivazioni -oltre quelle che si possono evincere dai criteri generali- seguiti nella impostazione del piano -solo quando incidono in posizioni giuridiche consolidate- come la presenza di precedente lottizzazione o di atti amministrativi che abbiano riconosciuto la peculiarità di determinate situazioni.
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Non possono ricevere un indice edificatorio, neppure virtuale, aree che non sono assoggettabili a trasformazione urbanistica per natura o per regime giuridico.
La destinazione dei terreni dev’essere decisa con riferimento principale alle caratteristiche intrinseche del bene in questione, le quali decidono della natura conformativa od espropriativa della destinazione di zona, e, nel caso di vincoli espropriativi, della quantificazione del relativo indennizzo.
Sul punto la dottrina e la giurisprudenza affermano che un’area, per divenire edificabile deve avere una “vocazione edificatoria”, nel senso che, per le sue oggettive caratteristiche intrinseche, deve apparire economicamente suscettibile di immediata trasformazione.
Tale concetto dev’essere convertito in quello più ampio di idoneità alla trasformazione urbanistica laddove, come nel caso in questione, la volumetria debba atterrare su altre aree.
La possibilità di assegnare un indice virtuale solo ad aree che partecipano della trasformazione urbanistica trova la sua ragione nel fatto che sarebbe del tutto illogico assegnare una rendita urbana, qual è quella dei fondi che producono tale volumetria (c.d. fondi sorgente), ad aree che non possono, per caratteri propri, partecipare al mercato edilizio.
In caso contrario, inoltre, si trasformerebbe il piano regolatore in un atto di discrezionalità pura in contrasto con quanto da sempre affermato dalla giurisprudenza amministrativa e costituzionale la quale ha da tempo chiarito in merito alla discrezionalità di chi effettua le scelte di piano, che «non si tratta di discrezionalità indiscriminata ed incontrollabile bensì di discrezionalità tecnica. La quale ... essendo condizionata da elementi di valutazione di carattere tecnico, importa che l'attività normativa devoluta dall'amministrazione (nella specie ai Comuni) si deve svolgere entro determinati confini di carattere obiettivo, e che, per ciò stesso, rimane, sotto questo aspetto, delimitata nella libertà di apprezzamento».
A ciò si aggiunge che anche la finalità perequativa può realizzarsi solo nel caso in cui l’attribuzione di un diritto edificatorio indipendentemente dalla destinazione d’uso sia effettuata nel rispetto della naturale vocazione edificatoria dell’area. Solo nel caso in cui sia i fondi da cui sorge l’edificabilità che quelli sui quali tale edificabilità deve atterrare siano idonei alla trasformazione urbanistica per natura e per destinazione urbanistica (anche se in misura diversa), infatti, si elimina od almeno si riduce l’effetto discriminatorio del piano, realizzando un eguale trattamento di situazioni di fatto uguali od analoghe.
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La determinazione degli indici di zona, che è carattere precipuo della zonizzazione è frutto di ampia discrezionalità.
Anche in un sistema perequativo l'indice edificatorio è collegato ad una scelta discrezionale dell'amministrazione in merito alla collocazione della volumetria realizzabile ed il suo valore è connesso anche all'area sulla quale tale volumetria deve ricadere.
Solo coloro che possono vantare una posizione consolidata attribuitagli dall’amministrazione con un atto definitivo ed efficace come la stipula di una convenzione di lottizzazione o dal giudice con una sentenza favorevole secondo l’opinione giurisprudenziale hanno una situazione di affidamento tutelato nel mantenimento della situazione.
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Gli standard urbanistici di zona debbono essere proporzionati e, di conseguenza, quelli superiori a quelli minimi di legge debbono essere motivati.
Tuttavia tale regola non può essere invocata nel caso in cui sia previsto un indice unico di edificabilità, in quanto l’effetto che esso produce è l’indifferenza del regime dei fondi alla destinazione d’uso dei medesimi. Ogni fondo è infatti parificato agli altri nel regime giuridico di edificabilità, con la conseguenza che diventa indifferente che esso sia destinato ad uso pubblico o privato.
Resta invece in vigore il limite funzionale, cioè la necessità che le aree dei fondi sorgente, della cui edificabilità il proprietario del fondo di atterraggio si deve fare carico, siano destinate a soddisfare “gli insediamenti residenziali, produttivi, direzionali e commerciali”, come dice la legge, da realizzare nell’area di piano.

I provvedimenti con i quali i comuni ripartiscono in zone il territorio in sede di pianificazione urbanistica hanno natura ampiamente discrezionale e possono pertanto incidere anche su precedenti difformi destinazioni delle zone stesse, sempre che la nuova suddivisione non sia affetta da errori di fatto o da gravi vizi di illogicità, irrazionalità o contraddittorietà.
In occasione della formazione degli strumenti giuridici generali, inoltre, le scelte discrezionali delle amministrazioni locali riguardo alla destinazione di singole aree necessitano di apposite motivazioni -oltre quelle che si possono evincere dai criteri generali- seguiti nella impostazione del piano -solo quando incidono in posizioni giuridiche consolidate- come la presenza di precedente lottizzazione o di atti amministrativi che abbiano riconosciuto la peculiarità di determinate situazioni (Consiglio Stato, sez. IV, 12.12.1990, n. 1002).
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Non possono ricevere un indice edificatorio, neppure virtuale, aree che non sono assoggettabili a trasformazione urbanistica per natura o per regime giuridico.
La giurisprudenza della Corte costituzionale in primis e poi del giudice amministrativo sono chiare, infatti, nel riconoscere che la destinazione dei terreni dev’essere decisa con riferimento principale alle caratteristiche intrinseche del bene in questione, le quali decidono della natura conformativa od espropriativa della destinazione di zona (da ultimo Consiglio Stato, sez. IV, 22.06.2011, n. 3797), e, nel caso di vincoli espropriativi, della quantificazione del relativo indennizzo (Corte costituzionale sentenza n. 5 del 1980; idem 30.07.1984 n. 231; da ultimo Corte costituzionale, 10.06.2011, n. 181).
Sul punto la dottrina e la giurisprudenza affermano che un’area, per divenire edificabile deve avere una “vocazione edificatoria”, nel senso che, per le sue oggettive caratteristiche intrinseche, deve apparire economicamente suscettibile di immediata trasformazione.
Tale concetto dev’essere convertito in quello più ampio di idoneità alla trasformazione urbanistica laddove, come nel caso in questione, la volumetria debba atterrare su altre aree.
La possibilità di assegnare un indice virtuale solo ad aree che partecipano della trasformazione urbanistica trova la sua ragione nel fatto che sarebbe del tutto illogico assegnare una rendita urbana, qual è quella dei fondi che producono tale volumetria (c.d. fondi sorgente), ad aree che non possono, per caratteri propri, partecipare al mercato edilizio.
In caso contrario, inoltre, si trasformerebbe il piano regolatore in un atto di discrezionalità pura in contrasto con quanto da sempre affermato dalla giurisprudenza amministrativa e costituzionale (Corte cost. 14.05.1966, n. 38) la quale ha da tempo chiarito in merito alla discrezionalità di chi effettua le scelte di piano, che «non si tratta di discrezionalità indiscriminata ed incontrollabile bensì di discrezionalità tecnica. La quale ... essendo condizionata da elementi di valutazione di carattere tecnico, importa che l'attività normativa devoluta dall'amministrazione (nella specie ai Comuni) si deve svolgere entro determinati confini di carattere obiettivo, e che, per ciò stesso, rimane, sotto questo aspetto, delimitata nella libertà di apprezzamento».
A ciò si aggiunge che anche la finalità perequativa può realizzarsi solo nel caso in cui l’attribuzione di un diritto edificatorio indipendentemente dalla destinazione d’uso sia effettuata nel rispetto della naturale vocazione edificatoria dell’area. Solo nel caso in cui sia i fondi da cui sorge l’edificabilità che quelli sui quali tale edificabilità deve atterrare siano idonei alla trasformazione urbanistica per natura e per destinazione urbanistica (anche se in misura diversa), infatti, si elimina od almeno si riduce l’effetto discriminatorio del piano, realizzando un eguale trattamento di situazioni di fatto uguali od analoghe.
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Sempre con riferimento all’indice edificatorio il ricorrente lamenta che il suo ius aedificandi sia stato sostanzialmente svuotato a causa dal basso indice attribuito ai suoi terreni per l’edificazione autonoma, ben più basso di quello precedente.
In merito la difesa comunale ha replicato che in realtà l’edificabilità dell’area di proprietà del ricorrente con l’acquisizione della volumetria dell’area standard è addirittura superiore a quella attribuita dal precedente piano.
Il profilo di ricorso non è fondato in quanto la giurisprudenza da sempre afferma che la determinazione degli indici di zona, che è carattere precipuo della zonizzazione è frutto di ampia discrezionalità (ex plurimis TAR Veneto sez. I, 02/09/2008 n. 2645).
Anche in un sistema perequativo l'indice edificatorio è collegato ad una scelta discrezionale dell'amministrazione in merito alla collocazione della volumetria realizzabile ed il suo valore è connesso anche all'area sulla quale tale volumetria deve ricadere (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 17.09.2009 n. 4671).
Solo coloro che possono vantare una posizione consolidata attribuitagli dall’amministrazione con un atto definitivo ed efficace come la stipula di una convenzione di lottizzazione o dal giudice con una sentenza favorevole secondo l’opinione giurisprudenziale hanno una situazione di affidamento tutelato nel mantenimento della situazione pregressa (Cons. Stato, sez. IV, 13.07.1993, n. 711; Cons. Stato, sez. IV, 19.01.1988, n. 9; Cons. Stato Ad. Plen., 24.05.2007, n. 7).
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L’art. 22 della L.R. 15/04/1975 n. 51 prevede che negli strumenti urbanistici generali e nei piani attuativi deve essere assicurata una dotazione globale di aree per attrezzature pubbliche e di uso pubblico, commisurata all’entità degli insediamenti residenziali, produttivi, direzionali e commerciali, sulla base dei parametri e dei criteri stabiliti nel presente articolo.
La norma in sostanza stabilisce la regola che gli standard debbono essere commisurati agli insediamenti previsti, sia dal punto di vista quantitativo che funzionale.
Per quanto riguarda l’aspetto quantitativo occorre rilevare che la giurisprudenza (ex plurimis Tar Lombardia, Milano, sez. II, 21.03.2006 n. 634) da tempo afferma che gli standard urbanistici di zona debbono essere proporzionati e, di conseguenza, quelli superiori a quelli minimi di legge debbono essere motivati.
Tuttavia tale regola non può essere invocata nel caso in cui sia previsto un indice unico di edificabilità, in quanto l’effetto che esso produce è l’indifferenza del regime dei fondi alla destinazione d’uso dei medesimi. Ogni fondo è infatti parificato agli altri nel regime giuridico di edificabilità, con la conseguenza che diventa indifferente che esso sia destinato ad uso pubblico o privato.
Resta invece in vigore il limite funzionale, cioè la necessità che le aree dei fondi sorgente, della cui edificabilità il proprietario del fondo di atterraggio si deve fare carico, siano destinate a soddisfare “gli insediamenti residenziali, produttivi, direzionali e commerciali”, come dice la legge, da realizzare nell’area di piano
(TAR Lombardia-Milano, Sez, IV, sentenza 16.04.2012 n. 1123 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Alle nuove edificazioni e agli altri interventi comunque soggetti a titolo abilitativo corrisponde il pagamento di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione, che presenta carattere generale e prescinde dall’esistenza o meno delle singole opere di urbanizzazione.
Esso, in sostanza, assume la natura di prestazione patrimoniale imposta e viene determinato senza tener conto né dell’utilità specifica che riceve il beneficiario del titolo edilizio e, neppure, delle spese effettivamente necessarie per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione relative al titolo assentito.
La concreta determinazione degli oneri dovuti per il conseguimento del titolo edilizio costituisce, dunque, il risultato di un calcolo materiale, la cui misura è direttamente collegata all’applicazione dei parametri prestabiliti, per cui deve escludersi, stante la natura vincolata dell’attività espletata, che l’atto di specificazione del quantum debeatur debba essere motivato.

Come più volte affermato dalla giurisprudenza (cfr. ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI - 25/08/2009 n. 5059; C.G.A., Sez. Giur. - 19.12.2008, n. 1131; Cons. Stato, Sez. V - 21.04.2006 n. 2258; nonché Cons. Stato, Sez. V, 06.05.1997, n. 462), sia nella precedente che nell'attuale normativa (articoli 3, 5, 6 della L.n. 10/1977, 16 del d.P.R. n. 380/2001) alle nuove edificazioni e agli altri interventi comunque soggetti a titolo abilitativo, corrisponde il pagamento di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione, che presenta carattere generale e prescinde dall’esistenza o meno delle singole opere di urbanizzazione.
Esso, in sostanza, assume la natura di prestazione patrimoniale imposta e viene determinato senza tener conto né dell’utilità specifica che riceve il beneficiario del titolo edilizio e, neppure, delle spese effettivamente necessarie per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione relative al titolo assentito (cfr. da ultimo TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 02.03.2012, n. 355; TAR Puglia, Bari, sez. III, 10.02.2011, n. 243; TAR Abruzzo, Pescara, 18.10.2010, n. 1142; TAR Lazio, Roma, sez. II, 14.11.2007, n. 11213).
La concreta determinazione degli oneri dovuti per il conseguimento del titolo edilizio costituisce, dunque, il risultato di un calcolo materiale, la cui misura è direttamente collegata all’applicazione dei parametri prestabiliti, per cui deve escludersi, stante la natura vincolata dell’attività espletata, che l’atto di specificazione del quantum debeatur debba essere motivato
(TAR Lombardia-Milano, Sez, II, sentenza 13.04.2012 n. 1101 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sconta il pagamento degli oo.uu. la costruzione di una rampa di carico, realizzata in c.a., che consente agli automezzi di salire all’altezza delle tramogge, raggiungendo un’altezza di mt. 7,20.
La difesa comunale, al riguardo, ritiene legittima l’interpretazione fornita dall’amministrazione delle surrichiamate disposizioni, dovendosi conteggiare tutte le opere stabilmente infisse al suolo, fra cui la cit. rampa di carico, realizzata in c.a., che consente agli automezzi di salire all’altezza delle tramogge, raggiungendo un’altezza di mt. 7,20. Si tratta, qui, per il Comune, di un manufatto che integra una definitiva e stabile trasformazione del suolo, sì da generare s.l.p. valevole come legittimo parametro di riferimento per il calcolo del contributo.
Il motivo è infondato.
L’art. 44, commi 6 e 7, della legge reg. 12/2005, così dispone: <<6. Per le costruzioni e gli impianti destinati alle attività industriali o artigianali nonché alle attività turistiche, commerciali e direzionali, gli oneri sono calcolati al metro quadrato di superficie lorda complessiva di pavimento, compresi i piani seminterrati e interrati la cui destinazione d'uso comporti una permanenza anche temporanea di persone.
7. Per le costruzioni o gli impianti destinati ad attività industriali o artigianali si computa anche la superficie utilizzabile per gli impianti, con esclusione delle opere necessarie al trattamento e allo smaltimento dei rifiuti liquidi, solidi e gassosi al servizio dell'attività produttiva
>>.
Ebbene, ritiene il Collegio che l’interpretazione del comma 7 proposta da parte ricorrente non meriti condivisione, in quanto conduce a privare la disposizione stessa di ogni ragion d’essere, potendosi ritenere che già da una piana lettura del comma 6 si evince che la superficie occupata dagli impianti è computata nell’ambito della s.l.p. se ricompresa all’interno del profilo esterno delle pareti perimetrali.
L’unico modo per attribuire al comma 7 una ragion d’essere è di ritenere, in conformità della tesi della resistente amministrazione, che esso delinei un ulteriore fattore da computare nel calcolo del contributo, che si applica soltanto alle costruzioni e agli impianti destinati ad attività industriali o artigianali: si tratta della “superficie utilizzabile per gli impianti”.
Depone in tal senso, in primis, l’argomento letterale, poiché la previsione di siffatta superficie preceduta dall’avverbio “anche” non può che significare che si tratti di fattispecie che va ad aggiungersi a quella prevista al comma precedente.
Si tratta, a questo punto, di stabilire se la “rampa di carico” possa essere sussunta nella previsione del cit. comma 7.
Il Collegio ritiene che la risposta non possa che essere positiva, poiché –dalla documentazione versata in atti– risulta evidente come la rampa di carico di cui si tratta integri una struttura stabile (che supera i 7 mt. di altezza e occupa una superficie di circa 1.400,00 mq), destinata allo svolgimento dell’attività economica imputabile all’istante (la stessa ricorrente, nella d.i.a. del 23.07.2009, qualifica l’intervento come di “trasformazione permanente del suolo in edificato mediante: impianti per attività produttive all’aperto”).
Siffatta “rampa di carico” costituisce, quindi, una struttura riconducibile alla nozione di impianto, di cui alla citata disposizione.
Proprio in ragione di tale riconducibilità, si comprende come non possa condividersi la considerazione dell’esponente, volta ad accomunare la ridetta rampa di carico a una semplice rampa di accesso, che, evidentemente, resta fuori dalla definizione di impianto.
Ancora correttamente, poi, sempre ai sensi del comma 7 cit., l’amministrazione risulta avere escluso dal computo la superficie occupata dalle vasche di riciclo
(TAR Lombardia-Milano, Sez, II, sentenza 13.04.2012 n. 1101 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Costituisce concessione di servizio pubblico ex art. 30 dlgs n. 163/2006 e non appalto di servizio l'installazione di distributori automatici di generi di ristoro/conforto in ambito scolastico.
L'assegnazione del servizio costituito dalla installazione e gestione di distributori automatici di generi alimentari all'interno di strutture scolastiche deve essere qualificata in termini di concessione di servizio pubblico, come tale sottoposta -ai sensi dell'art. 30 d.lgs. n. 163 del 2006- alla medesima disciplina del contenzioso dettata per i contratti e, quanto alla scelta del concessionario, al rispetto dei principi desumibili dal Trattato e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 12.04.2012 n. 716 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sulla finalità della verifica dell'anomalia dell'offerta.
Sul grado di motivazione richiesto nel caso in cui la verifica di anomalia si concluda positivamente.

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Secondo l'Autorità di Vigilanza la finalità della verifica dell'anomalia dell'offerta è quella di evitare che offerte troppo basse espongano l'amministrazione al rischio di esecuzione della prestazione in modo irregolare e qualitativamente inferiore a quella richiesta e con modalità esecutive in violazione di norme con la conseguenza di far sorgere contestazioni e ricorsi.
L'amministrazione deve infatti aggiudicare l'appalto a soggetti che abbiano presentato offerte che, avuto riguardo alle caratteristiche specifiche della prestazione richiesta, risultino complessivamente proporzionate sotto il profilo economico all'insieme dei costi, rischi ed oneri che l'esecuzione della prestazione comporta a carico dell'appaltatore con l'aggiunta del normale utile d'impresa affinché la stessa possa rimanere sul mercato.
Occorre quindi contemperare l'interesse del concorrente a conseguire l'aggiudicazione formulando un'offerta competitiva con quello della stazione appaltante ad aggiudicare al minor costo senza rinunciare a standard adeguati ed al rispetto dei tempi e dei costi contrattuali.
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Con riferimento al grado di motivazione richiesto nel caso in cui la verifica di anomalia si concluda positivamente, si distinguono due orientamenti.
Secondo un primo orientamento, prevalente in giurisprudenza, nelle ipotesi in cui la verifica abbia esito positivo (pervenendosi, come è avvenuto nel caso di specie, ad un giudizio di non anomalia dell'offerta), la motivazione può essere meno accurata di quella richiesta in caso di verifica negativa, con la precisazione peraltro che ciò non equivale ad ammettere l'integrale omissione della motivazione, occorrendo pur sempre fare richiamo alle giustificazioni fornite dal concorrente, a condizione però che queste siano state complete ed esaustive.
Secondo una diversa tesi, invece, l'obbligo di (una adeguata) motivazione si impone non solo nel caso di giudizio finale negativo, ma anche nel caso di giudizio finale positivo e ciò sia in ossequio all'obbligo generale di motivazione dei provvedimenti amministrativi, sia a tutela, negli appalti, della par condicio dei concorrenti.
In questa materia, tuttavia, può risultare fuorviante una disamina degli orientamenti interpretativi condotta esclusivamente in termini generali e di massima, infatti, il problema della sufficienza o insufficienza della motivazione dell'atto con cui si accettano le giustificazioni si pone in termini notevolmente diversi a seconda del grado e del tipo di anomalia che abbia dato motivo alla verifica dell'offerta (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 11.04.02012 n. 2073 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: Inquinamento acustico: la competenza è del Sindaco.
Con il primo motivo la ricorrente ha lamentato l’incompetenza del Dirigente del Settore Tutela Ambiente del Comune di Casale Monferrato ad adottare un provvedimento come quello impugnato, avente la natura di ordinanza contingibile ed urgente in materia di inquinamento acustico e, come tale, riservato al Sindaco.
Tale censura è fondata e meritevole di accoglimento: come già riconosciuto dal Collegio nella pronuncia cautelare di accoglimento della sospensiva, anche alla luce dei documenti depositati dal Comune in ottemperanza all’ordinanza istruttoria (cfr. doc. n. 1 dell’Amministrazione) nei quali l’ARPA richiede espressamente “l’emissione di ordinanza comunale ex art. 9 della l. 26.10.1995 n. 447”, il provvedimento impugnato avrebbe dovuto essere adottato ex art. d.lgs. n. 267/2000 dal Sindaco del Comune di Casale Monferrato e non dal Dirigente.
L'art. 9 della legge 447/1995 attribuisce, infatti, espressamente al Sindaco il potere di adottare ordinanze per il contenimento o l'abbattimento delle emissioni sonore, inclusa l'inibitoria parziale o totale di determinate attività e si tratta di un potere sostanzialmente analogo a quello attribuito al Sindaco dal D.Lgs. 267/2000 (Testo Unico degli Enti Locali), agli articoli 50 e 54 e che, pertanto deve essere esercitato dal Sindaco stesso, con esclusione della competenza dei dirigenti, cui spetta invece l'adozione di tutti gli atti di gestione del Comune, ai sensi dell'art. 107 del medesimo D.Lgs. 267/2000 (cfr. TAR Lombardia, Milano, 23.01.2012 n. 256) (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 11.04.2012 n. 432 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sull'applicabilità del termine di "stand still" alle concessioni di servizi.
Il termine di "stand still" o termine dilatorio, si applica anche alle concessioni di servizi (nel caso di specie, una concessione del servizio di distribuzione del gas naturale), in quanto l'art. 11, c. 10, del D.Lgs. 163/2006 trova ingresso per tutte le procedure di affidamento dei contratti pubblici, tenuto conto di quanto dispone l'art. 3, c. 36, ai sensi del quale "Le "procedure di affidamento" e l'"affidamento" comprendono sia l'affidamento di lavori, servizi, o forniture, o incarichi di progettazione, mediante appalto, sia l'affidamento di lavori o servizi mediante concessione, sia l'affidamento di concorsi di progettazione e di concorsi di idee".
L'uniforme operatività di prescrizioni che garantiscono adeguata tutela ai concorrenti di una selezione ad evidenza pubblica è, infatti, coerente con i principi enucleati all'art. 2, c. 1, del Codice dei contratti, per cui "L'affidamento … di opere e lavori pubblici, servizi e forniture, ai sensi del presente codice, deve … svolgersi nel rispetto dei principi di …. libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione …".
Inoltre, la scelta del concessionario di un servizio deve in ogni caso avvenire "nel rispetto dei principi desumibili dal Trattato e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, ..." (cfr. art. 30 del D.Lgs. 163/2006) e l'art. 11 del Codice è collocato nel titolo I recante principi e disposizioni comuni a tutti i contratti pubblici (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 10.04.2012 n. 618 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

URBANISTICA: Il piano di lottizzazione ha una durata decennale per cui, decorso il relativo termine, esso perde di efficacia e non può più costituire valido presupposto per il rilascio di qualsivoglia titolo abilitativo alla edificazione di manufatti.
La giurisprudenza di questa Sezione ha da tempo affermato (cfr. n. 1412 del 03.11.1998), proprio in relazione all’obiezione che il termine decennale di efficacia dei piani particolareggiati non potrebbe essere applicato in via di analogia alle lottizzazioni, in quanto sarebbe stabilito per i primi (piani particolareggiati) sol perché impongono vincoli espropriativi ai proprietari dei suoli, quanto segue:
- la legge urbanistica stabilisce espressamente la durata degli altri strumenti urbanistici che disciplina: di quelli generali (il piano territoriale di coordinamento ed il piano regolatore generale, in vigore a tempo indeterminato ex artt. 6 e 11 della LUN) e del piano particolareggiato, avente la durata di dieci anni per espressa previsione dell’art. 17 della stessa LUN;
- la durata massima dei piani di lottizzazione, se ad essi non fosse applicabile il termine decennale di efficacia dei piani particolareggiati, sarebbe quella, indeterminata, degli strumenti urbanistici generali, invece di quella decennale dello strumento urbanistico attuativo: il che costituirebbe di per sé motivo di incoerenza;
- non giova, inoltre, rilevare che l’art. 28 della LUN, come modificato dall’art. 8 della L. 06.08.1967 n. 765, preveda un termine decennale soltanto per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione e non per l’edificazione dei singoli lotti, tenuto conto che la fissazione di un termine risponde ad un preminente interesse pubblico, non soltanto per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione, ma anche per l’edificazione dei lotti;
- il disegno di fissazione di un termine di decadenza per le licenze prima, poi per le concessioni edilizie e poi, ancora, per i permessi di costruire, diretto ad assicurare l’effettività e l’attualità delle nuove previsioni urbanistiche, sarebbe incompleto alla fonte se, prima del rilascio del titolo abilitativo, le lottizzazioni convenzionate avessero l’efficacia di condizionare a tempo indeterminato, con l’affidamento dei suoi titolari, la pianificazione urbanistica futura.
Né può farsi questione che detto affidamento (del lottizzante) comporti l’intangibilità della destinazione urbanistica impressa con il PdL convenzionato poiché, coma ha ancora chiarito la citata giurisprudenza:
- l’ultrattività di detto affidamento, oltre il termine di scadenza del PdL stesso, sarebbe incoerente con la finalità di fissazione di un termine di efficacia degli strumenti urbanistici attuativi, il quale (termine) attiene all’effettività delle nuove previsioni urbanistiche;
- ogni altra questione circa gli eventuali problemi patrimoniali insorgenti per effetto della realizzazione di tutte le opere di urbanizzazione, ma non anche dell’edificazione dei lotti, devono trovare soluzione secondo gli ordinari strumenti civilistici diretti ad evitare, se sussistenti, eventuali arricchimenti ingiustificati, ma non anche sotto il profilo urbanistico-edilizio.
Così pure, per contrastare tale avviso espresso dal Collegio non può ipotizzarsi una proroga tacita del termine di efficacia di una convenzione di lottizzazione, in conseguenza del rilascio di concessione edilizia da parte del Comune, ovvero in difetto di una espressa revoca della stessa convenzione o della modifica o della introduzione di un nuovo strumento urbanistico, poiché costituisce avviso pacifico in giurisprudenza che, in materia urbanistico-edilizia, l’amministrazione può correttamente manifestare la sua volontà soltanto mediante atti aventi la forma scritta e cioè, avuto presente il caso in esame, o con una nuova convenzione sempre che coerente con le previsioni urbanistiche del territorio comunale e con l’eventuale specifica qualità dei suoli, o con un riesame di quella scaduta, nell’esercizio, ovviamente, dei propri poteri discrezionali volti ad una nuova valutazione di tutti gli interessi in gioco.
Orbene, poiché il Collegio non ha motivo di discostarsi da tale avviso, non può non essere affermato che il PdL ha una durata decennale per cui, decorso il relativo termine, esso perde di efficacia e non può più costituire valido presupposto per il rilascio di qualsivoglia titolo abilitativo alla edificazione di manufatti (cfr. C.d.S., sez. VI, n. 200 del 20.01.2003) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.04.2012 n. 2045 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Sull'identificazione giuridica di un servizio pubblico.
Per identificare giuridicamente un servizio pubblico, non è indispensabile a livello soggettivo la natura pubblica del gestore, mentre è necessaria la vigenza di una norma legislativa che, alternativamente, ne preveda l'obbligatoria istituzione e la relativa disciplina oppure che ne rimetta l'istituzione e l'organizzazione all'Amministrazione.
Oltre alla natura pubblica delle regole che presiedono allo svolgimento delle attività di servizio pubblico e alla doverosità del loro svolgimento, è ancora necessario, nella prospettiva di una definizione oggettiva della nozione, che le suddette attività presentino un carattere economico e produttivo (e solo eventualmente costituiscano anche esercizio di funzioni amministrative), e che le utilità da esse derivanti siano dirette a vantaggio di una collettività, più o meno ampia, di utenti (in caso di servizi divisibili) o comunque di terzi beneficiari (in caso di servizi indivisibili) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.04.2012 n. 2021 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATAIl fondamento del contributo di urbanizzazione non consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di redistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime –secondo modalità eque per la comunità–, con la conseguenza che anche nel caso di modificazione della destinazione d’uso cui si correli un maggiore carico urbanistico è integrato il presupposto che giustifica l’imposizione del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa; il mutamento, pertanto, è rilevante allorquando sussiste un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici, sicché la circostanza che le modifiche di destinazione d’uso non siano eventualmente soggette al previo titolo abilitativo non comporta ipso iure l’esenzione dagli oneri di urbanizzazione e quindi la gratuità dell’operazione.
Quanto, poi, alla possibilità che, nell’esercizio della loro potestà di pianificazione del territorio, le Amministrazioni comunali individuino categorie di destinazione d’uso ulteriori e diverse rispetto a quelle previste dalla legislazione statale e regionale, la giurisprudenza si è espressa in modo affermativo, sia con riferimento ai casi in cui il legislatore regionale abbia lasciato agli enti locali un rilevante ambito di autodeterminazione in merito, sia con riferimento all’attuale regime delle autonomie locali in tema di attività di pianificazione urbanistica, che ben può implicare anche la suddivisione in più sottocategorie o sottofunzioni, laddove ciò sia giustificato da significative diversità del carico urbanistico e implichi di conseguenza differenti modulazioni di calcolo del contributo concessorio.

Per costante giurisprudenza (v. TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 10.06.2010 n. 1787; TAR Lombardia, Brescia, 07.11.2005 n. 1115), il fondamento del contributo di urbanizzazione non consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di redistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime –secondo modalità eque per la comunità–, con la conseguenza che anche nel caso di modificazione della destinazione d’uso cui si correli un maggiore carico urbanistico è integrato il presupposto che giustifica l’imposizione del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa; il mutamento, pertanto, è rilevante allorquando sussiste un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici, sicché la circostanza che le modifiche di destinazione d’uso non siano eventualmente soggette al previo titolo abilitativo non comporta ipso iure l’esenzione dagli oneri di urbanizzazione e quindi la gratuità dell’operazione.
Quanto, poi, alla possibilità che, nell’esercizio della loro potestà di pianificazione del territorio, le Amministrazioni comunali individuino categorie di destinazione d’uso ulteriori e diverse rispetto a quelle previste dalla legislazione statale e regionale, la giurisprudenza si è espressa in modo affermativo, sia con riferimento ai casi in cui il legislatore regionale abbia lasciato agli enti locali un rilevante ambito di autodeterminazione in merito, sia con riferimento all’attuale regime delle autonomie locali in tema di attività di pianificazione urbanistica, che ben può implicare anche la suddivisione in più sottocategorie o sottofunzioni, laddove ciò sia giustificato da significative diversità del carico urbanistico e implichi di conseguenza differenti modulazioni di calcolo del contributo concessorio (v. Cons. Stato, Sez. IV, 13.07.2010 n. 4546) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 05.04.2012 n. 239 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sull'incompatibilità ex art. 4, c. 22, del DL n. 138/2011 del presidente della commissione giudicatrice nella procedura per l'affidamento del servizio pubblico di gestione dell'impianto sportivo, per aver svolto funzione di controllo ed altri incarichi.
L'art. 4, c. 22, del DL n. 138/2011, convertito nella L. n. 148/2011, secondo cui: "I componenti della commissione di gara per l'affidamento della gestione di servizi pubblici locali non devono aver svolto né svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente alla gestione del servizio di cui si tratta", costituisce una disposizione speciale rispetto all'art. 84, c. 4, del D.Lgs. n. 163/2006, che invece prevede tale incompatibilità solo per i commissari diversi dal presidente.
Del resto se il Legislatore avesse voluto fare riferimento alla disciplina generale contenuta nel Codice dei contratti pubblici, si sarebbe limitato ad un semplice richiamo normativo, anziché introdurre nell'ordinamento una norma specifica che avrebbe potuto anche generare difficoltà interpretative e orientamenti giurisprudenziali contrari all'effettiva intenzione del Legislatore. Peraltro il citato art. 4, c. 22, facendo riferimento ai "componenti della commissione", non può che applicarsi a tutti i componenti della stessa compreso, pertanto, anche il presidente.
Pertanto, nel caso di specie, sussiste l'incompatibilità del presidente della commissione giudicatrice nella procedura aperta per l'affidamento in concessione del servizio di gestione dell'impianto sportivo, poiché svolgeva funzioni di controllo dell'impianto, di redazione del bando, di nomina della commissione e di affidamento della precedente gestione alla controinteressata (TAR Marche, sentenza 05.04.2012 n. 237 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI SERVIZI E FORNITURE: Negli appalti di servizi e forniture il requisito dell'esperienza pregressa costituisce il principale requisito di qualificazione, che corrisponde all'attestazione SOA negli appalti di lavori.
Il requisito dell'esperienza pregressa rappresenta, nell'ambito degli appalti di servizi e delle forniture, quello che l'attestazione SOA è per gli appalti di lavori, vale a dire il principale elemento di qualificazione dell'impresa, pertanto, ai sensi dell'art. 88 del DPR 05.10.2010, n. 207, per la qualificazione in gara il contratto di avvalimento di cui all'art. 49, c. 2, lettera f), del d.lgs. 163/2006 deve riportare in modo compiuto, esplicito ed esauriente le risorse e i mezzi prestati, in modo determinato e specifico, e che, atteso il predetto parallelismo, lo stesso principio non può che valere anche per la dimostrazione del possesso, mediante avvalimento, dei requisiti di capacità tecnica e professionale negli appalti di servizi, quale nel caso di specie una pregressa esperienza specifica nel settore dell'appalto per cui è causa (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 04.04.2012 n. 1589 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

PUBBLICO IMPIEGOPer giudicare basta dare il voto. Sufficiente la valutazione numerica a motivare il giudizio. Il Consiglio di stato respinge il ricorso di un candidato al concorso a dirigente del 2004.
Il voto conseguito all'orale del concorso a posti di dirigente scolastico è valido anche se espresso in forma numerica ed è privo di motivazione discorsiva.
Per il Consiglio di stato, Sez.   , che sull'argomento si è appena espresso con la sentenza 02.04.2012 n. 1939, «il voto numerico esprime e sintetizza il giudizio tecnico-discrezionale» della commissione di concorso.
Esso contiene già in sé la motivazione senza bisogno di ulteriori spiegazioni e chiarimenti, salvo il caso in cui, mancando l'unanimità dei commissari, uno di questi richieda specifiche determinazioni. Il voto numerico risponde al principio di economicità e proporzionalità dell'azione amministrativa, assicura la necessaria spiegazione delle valutazioni di merito compiute dalla commissione e consente il sindacato di legittimità del giudice sul potere così esercitato.
All'esame del Consiglio di stato era pervenuto l'appello di una concorrente del precedente concorso a posti di dirigente scolastico, anche quello molto tormentato, indetto con decreto del dirigente generale del 22 novembre 2004. La concorrente, ammessa all'orale, non l'aveva superato, avendo ottenuto diciotto punti su trenta, mentre ne occorrevano ventuno.
Presa visione degli atti, aveva accertato che il suo voto aveva subito una riscrittura e di quest'operazione mancava la motivazione mentre gli argomenti oggetto della prova erano stati scelti alcuni giorni prima, diversamente da quel che prevede il regolamento sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni, decreto del Presidente della repubblica n. 487 del 1994. Ai sensi dell'articolo 11 del regolamento, infatti, «immediatamente prima dell'inizio di ciascuna prova orale» la commissione esaminatrice determina i quesiti da porre ai singoli candidati.
In primo grado, il Tar del Lazio, sezione di Latina, aveva respinto il ricorso con motivazioni confermate dal giudice di secondo grado, al quale la concorrente si è rivolta presentando appello. Sotto il profilo più importante, quello relativo alla motivazione del voto numerico, sia il bando di concorso del 2004 sia il regolamento del 1994 non la prevedono né la prescrivono e il fatto che il voto sia stato riscritto, rimanendo sempre insufficiente, è del tutto inconferente.
Il principio dell'autosufficienza del voto numerico vale anche per la riscrittura, che nel caso specifico era stata confermata attraverso la sottoscrizione di tutti i commissari. Dall'esame delle operazioni svolte dalla commissione si è accertato che la commissione aveva fatto esattamente quel che doveva fare, elaborare criteri da seguire per accertare la competenza dei candidati in fatto di processi formativi, di gestione, di innovazione e di relazioni. Il voto numerico non doveva fare altro che misurare il complessivo grado di possesso di tali competenze.
Quanto al fatto che i quesiti sarebbero stati preparati molto tempo prima dell'orale, i giudici hanno convenuto che sarebbe stato impossibile fare altrimenti. L'orale del concorso del 2004, infatti, prevedeva due fasi: un colloquio per gruppi di candidati e un colloquio individuale su quesiti, in tutto tre, predisposti in numero maggiore dalla commissione e sorteggiati dai concorrenti. La mole di lavoro richiesta per la predisposizione dei quesiti non si poteva esaurire nei pochi momenti immediatamente precedenti l'inizio degli orali.
Anche sotto questo profilo, quindi, l'operato della commissione è stato corretto. Se qualcuno, infine, volesse impugnare gli esiti degli orali dell'attuale concorso, orali appena agli inizi, c'è già un orientamento della più alta magistratura amministrativa pronto a scoraggiarlo (articolo ItaliaOggi del 24.04.2012).

EDILIZIA PRIVATAL’attuale disciplina in tema di installazione di strutture operanti quali cc.dd. “stazioni radio–base” per telefonia mobile, risultante dal combinato disposto delle norme contenute nella L. n. 36 del 2001 (legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici) e nel D.Lgs. n. 259 del 2003 (c.d. “codice delle comunicazioni”), introduce i principi secondo cui:
- le funzioni (legislative ed amministrative) relative alla determinazione dei limiti di esposizione alle onde elettromagnetiche (nonché, per quanto qui interessa, alle tecniche di misurazione e di rilevamento dell’inquinamento elettromagnetico e di elaborazione dei criteri per l’adozione di misure preventive e di piani di risanamento), sono attribuite allo Stato; e che sono di competenza delle Regioni le funzioni relative alla localizzazione dei siti di trasmissione ed alla regolamentazione delle modalità procedimentali per il rilascio delle autorizzazioni; dal che deriva che le fondamentali competenza in materia in materia risultano suddivise fra lo Stato e le Regioni;
- che pertanto ai Comuni è riservata, in subjecta materia, una potestà del tutto sussidiaria, potendo essi adottare regolamenti finalizzati esclusivamente ad assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti, nonché a minimizzare, sempreché in conformità ed in attuazione alle direttive ed ai criteri introdotti dallo Stato e dalle Regioni, l’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici (restando esclusa, cioè, ogni potestà normativa in capo agli Enti Locali in ordine alla determinazione di criteri, maggiormente limitativi o rigidi, di valutazione della soglia di inquinamento elettromagnetico o alla introduzione di divieti generali e/o di misure generali interdittive a contenuto igienico-sanitario);
- che gli impianti di telefonia mobile vanno qualificati come opere di pubblica utilità assimilabili alla categoria delle opere di urbanizzazione primaria;
- che l'installazione di una “stazione radio-base” va considerata quale infrastruttura astrattamente compatibile, di regola, con qualsiasi destinazione di zona.
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Tale assetto normativo ha condotto, la giurisprudenza amministrativa ad affermare:
- che “non può ammettersi che, nell'esercizio della potestà volta ad emanare norme regolamentari con valenza urbanistico-edilizia, possa surrettiziamente introdursi una disciplina di natura radioprotezionistica; in tal caso, si configurerebbe, invero, un'interferenza con la competenza riservata allo Stato, cui spetta di fissare i limiti di esposizione ai campi elettromagnetici, nel presupposto indefettibile che la tutela della salute è un'esigenza indeclinabile, ma di carattere essenzialmente unitario sul territorio nazionale”; e che pertanto “Il divieto generalizzato di installare le stazioni radio base per la telefonia cellulare in ampie zone del territorio comunale … (omissis) …appare perseguire palesemente il fine di sovrapporre una determinazione di stretta matrice cautelativa, ispirata al principio di precauzione, alla normativa statale che ha fissato a tal fine puntuali limiti di radiofrequenza, di fatto eludendo tale normativa”;
- che “in materia di installazione di stazione radio base per la telefonia cellulare, anche il formale utilizzo degli strumenti urbanistico-edilizi e il dichiarato intento di esercitare competenze in materia di governo del territorio non possono giustificare l'imposizione da parte di un Comune di misure che, attraverso divieti generalizzati di installazione delle stazioni radio base, di fatto vengono a costituire indiretta deroga ai limiti di esposizione alle onde elettromagnetiche indicati dalla normativa statale, con la precisazione che l'autorizzazione rilasciata ex art. 87 d.lgs. 01.08.2003, n. 259, non costituisce titolo abilitativo aggiuntivo rispetto a quello richiesto dalla disciplina urbanistico-edilizia, ma assorbe in sé e sintetizza ogni relativa valutazione”;
- che “in materia di emissioni elettromagnetiche, le norme di riferimento sono la legge quadro n. 36 del 2001 ed il d.lgs. 01.08.2003 n. 259 … (…) …”; e che “… il Comune non è legittimato a sovrapporre le proprie valutazioni in ordine alla fissazione dei limiti di esposizione ai campi elettromagnetici, una volta che sia stato rilasciato il parere del PMP competente per zona e prodotto in atti”;
- che “l'installazione di una stazione radio base di telefonia cellulare è subordinata soltanto all'autorizzazione prevista dall'art. 87, t.u. 01.08.2003 n. 259 (codice delle comunicazioni elettroniche), non occorrendo all'uopo il permesso di costruire di cui all'art. 3, lett. e), t.u. 06.06.2001 n. 380";
- che “l'installazione di un impianto radio base é sottratto alla normativa edilizia ed ai provvedimenti a tutela della salute pubblica”; e che “per la realizzazione degli impianti di stazione radio base si devono applicare i criteri stabiliti dal d.lgs. n. 259 del 2003 in base ai quali gli impianti di telefonia mobile vanno qualificati come opere di pubblica utilità assimilabili alla categoria delle opere di urbanizzazione primaria compatibili in astratto con ogni tipo di zonizzazione e, come tali, non si prevede per essi il titolo edilizio, né è possibile un interevento del Sindaco a tutela della salute pubblica, ove non si deduca il rispetto dei limiti di emissione di legge”;
- che “è illegittimo il regolamento comunale che prevede l'esclusione da tutto il territorio comunale urbanizzato di qualsiasi impianto di telefonia mobile, radioelettrico e per radiodiffusione, dato che l'installazione di una stazione radio base va considerata quale infrastruttura, compatibile con qualsiasi destinazione di zona”;
- che “è illegittimo, poiché opera una non consentita applicazione analogica di una normativa dettata per gli edifici alle stazioni radio, il provvedimento comunale di diniego di una concessione edilizia in sanatoria per una stazione radio base (Srb) per la telefonia mobile, fondato sul contrasto tra l'impianto ed il limite di altezza degli edifici prescritto per il centro abitato, non potendosi equiparare costruzioni (che sviluppano volumetria o cubatura, ingombri visibili ecc.) ed impianti tecnologici”;
- che “è illegittimo il diniego di concessione edilizia per la costruzione di una stazione radio per telefonia mobile, che sia motivato esclusivamente in riferimento al contrasto col regolamento, comunale per l'installazione di impianti radiomobili, in quanto che a detto regolamento non può riconoscersi valenza di strumento urbanistico”;
- che “il titolo abilitativo alla realizzazione di una stazione radio base può essere negato esclusivamente con riguardo ad una specifica disciplina conformativa relativa alle reti infrastrutturali tecnologiche necessarie per il funzionamento del servizio pubblico di telefonia”; e che “pertanto, è illegittimo il diniego di concessione edilizia per superamento dei limiti di altezza dettati con riferimento a strutture e manufatti di rilievo urbanistico ed edilizio”;
- che “ai sensi dell'art. 231, comma 4, T.U. 29.03.1973 n. 156, l'installazione di una stazione radio base del servizio di telefonia mobile deve essere qualificata come opera di urbanizzazione primaria, attesa la funzione di pubblica utilità dell'opera e, in quanto tale, ubicabile in qualsiasi parte del territorio comunale”;
- che “ai sensi dell'art. 4, comma 7, L. reg. Lombardia 11.05.2001 n. 11, gli impianti radio-base di telefonia mobile di potenza totale non superiore a 300 Watt non richiedono specifica regolamentazione urbanistica, con conseguente illegittimità delle disposizioni pianificatorie comunali che introducano in termini assoluti divieti di installazione per tali impianti, anche solo su porzioni del territorio comunale”;
- che “in tema di installazione di impianti di telefonia mobile, nella Regione Friuli Venezia Giulia la L. reg. 06.12.2004 n. 28 consente, a regime, l'installazione di tali impianti nelle zone residenziali, mentre l'art. 15 della stessa legge fissa in via transitoria i parametri ai quali soltanto si devono attenere i Comuni in attesa dei piani di settore”; e che “pertanto, l'Amministrazione non può erigere contro la domanda di concessione edilizia per la realizzazione di una stazione radio base per la telefonia mobile la barriera di un divieto nascente da una norma tecnica di attuazione del piano regolatore comunale, che per tali categorie di impianti impone una determinata distanza minima (nella specie, 200 metri) dagli edifici residenziali esistenti, trattandosi di disposizione desueta e incompatibile con la legge sopravvenuta e, in ogni caso, illegittima ove integri un divieto generalizzato di installazione di impianti di telefonia mobile in ingenti porzioni del territorio comunale”.
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E' illegittima la norma regolamentare che impone la distanza minima tra l’impianto di telefonia cellulare e gli edifici pubblici.
Invero, delle due l’una:
- o la disposizione ha come fine la tutela della salute pubblica, ed allora la sua inutilità ed ingiustizia è palese, posto che la stessa finirebbe con il salvaguardare esclusivamente i fruitori degli uffici pubblici ed i diretti vicini;
- o la disposizione è stata considerata (dal Comune) alla stregua di una norma di natura urbanistica; ed allora ne sfuggono il senso e la ratio, posto che con essa non si tutela alcuno degli interessi (decoro urbano, rispetto del carico urbanistico, rispetto degli indici di edificabilità; rispetto delle destinazioni d’uso, rispetto delle zonizzazioni etc.) alla cui cura si dirige l’urbanistica.

L’attuale disciplina in tema di installazione di strutture operanti quali cc.dd. “stazioni radio–base” per telefonia mobile, risultante dal combinato disposto delle norme contenute nella L. n. 36 del 2001 (legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici) e nel D.Lgs. n. 259 del 2003 (c.d. “codice delle comunicazioni”), introduce i principi secondo cui:
- le funzioni (legislative ed amministrative) relative alla determinazione dei limiti di esposizione alle onde elettromagnetiche (nonché, per quanto qui interessa, alle tecniche di misurazione e di rilevamento dell’inquinamento elettromagnetico e di elaborazione dei criteri per l’adozione di misure preventive e di piani di risanamento), sono attribuite allo Stato; e che sono di competenza delle Regioni le funzioni relative alla localizzazione dei siti di trasmissione ed alla regolamentazione delle modalità procedimentali per il rilascio delle autorizzazioni; dal che deriva che le fondamentali competenza in materia in materia risultano suddivise fra lo Stato e le Regioni;
- che pertanto ai Comuni è riservata, in subjecta materia, una potestà del tutto sussidiaria, potendo essi adottare regolamenti finalizzati esclusivamente ad assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti, nonché a minimizzare, sempreché in conformità ed in attuazione alle direttive ed ai criteri introdotti dallo Stato e dalle Regioni, l’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici (restando esclusa, cioè, ogni potestà normativa in capo agli Enti Locali in ordine alla determinazione di criteri, maggiormente limitativi o rigidi, di valutazione della soglia di inquinamento elettromagnetico o alla introduzione di divieti generali e/o di misure generali interdittive a contenuto igienico-sanitario);
- che gli impianti di telefonia mobile vanno qualificati come opere di pubblica utilità assimilabili alla categoria delle opere di urbanizzazione primaria;
- che l'installazione di una “stazione radio-base” va considerata quale infrastruttura astrattamente compatibile, di regola, con qualsiasi destinazione di zona.
Tale assetto normativo ha condotto, la giurisprudenza amministrativa ad affermare:
- che “non può ammettersi che, nell'esercizio della potestà volta ad emanare norme regolamentari con valenza urbanistico-edilizia, possa surrettiziamente introdursi una disciplina di natura radioprotezionistica; in tal caso, si configurerebbe, invero, un'interferenza con la competenza riservata allo Stato, cui spetta di fissare i limiti di esposizione ai campi elettromagnetici, nel presupposto indefettibile che la tutela della salute è un'esigenza indeclinabile, ma di carattere essenzialmente unitario sul territorio nazionale”; e che pertanto “Il divieto generalizzato di installare le stazioni radio base per la telefonia cellulare in ampie zone del territorio comunale … (omissis) …appare perseguire palesemente il fine di sovrapporre una determinazione di stretta matrice cautelativa, ispirata al principio di precauzione, alla normativa statale che ha fissato a tal fine puntuali limiti di radiofrequenza, di fatto eludendo tale normativa” (TAR Trentino Alto Adige Trento, I, 11.06.2010, n. 160);
- che “in materia di installazione di stazione radio base per la telefonia cellulare, anche il formale utilizzo degli strumenti urbanistico-edilizi e il dichiarato intento di esercitare competenze in materia di governo del territorio non possono giustificare l'imposizione da parte di un Comune di misure che, attraverso divieti generalizzati di installazione delle stazioni radio base, di fatto vengono a costituire indiretta deroga ai limiti di esposizione alle onde elettromagnetiche indicati dalla normativa statale, con la precisazione che l'autorizzazione rilasciata ex art. 87 d.lgs. 01.08.2003, n. 259, non costituisce titolo abilitativo aggiuntivo rispetto a quello richiesto dalla disciplina urbanistico-edilizia, ma assorbe in sé e sintetizza ogni relativa valutazione” (C.S., VI, 03.06.2010 n. 3492);
- che “in materia di emissioni elettromagnetiche, le norme di riferimento sono la legge quadro n. 36 del 2001 ed il d.lgs. 01.08.2003 n. 259 … (…) …”; e che “… il Comune non è legittimato a sovrapporre le proprie valutazioni in ordine alla fissazione dei limiti di esposizione ai campi elettromagnetici, una volta che sia stato rilasciato il parere del PMP competente per zona e prodotto in atti” (TAR Calabria Catanzaro, II, 06.03.2008, n. 269);
- che “l'installazione di una stazione radio base di telefonia cellulare è subordinata soltanto all'autorizzazione prevista dall'art. 87, t.u. 01.08.2003 n. 259 (codice delle comunicazioni elettroniche), non occorrendo all'uopo il permesso di costruire di cui all'art. 3, lett. e), t.u. 06.06.2001 n. 380” (TAR Lombardia, Milano, II, 07.09.2007, n. 5772);
- che “l'installazione di un impianto radio base é sottratto alla normativa edilizia ed ai provvedimenti a tutela della salute pubblica”; e che “per la realizzazione degli impianti di stazione radio base si devono applicare i criteri stabiliti dal d.lgs. n. 259 del 2003 in base ai quali gli impianti di telefonia mobile vanno qualificati come opere di pubblica utilità assimilabili alla categoria delle opere di urbanizzazione primaria compatibili in astratto con ogni tipo di zonizzazione e, come tali, non si prevede per essi il titolo edilizio, né è possibile un interevento del Sindaco a tutela della salute pubblica, ove non si deduca il rispetto dei limiti di emissione di legge” (TAR Sicilia Catania, II, 01.08.2007, n. 1337);
- che “è illegittimo il regolamento comunale che prevede l'esclusione da tutto il territorio comunale urbanizzato di qualsiasi impianto di telefonia mobile, radioelettrico e per radiodiffusione, dato che l'installazione di una stazione radio base va considerata quale infrastruttura, compatibile con qualsiasi destinazione di zona” (TAR Calabria Catanzaro, II, 17.04.2007, n. 330);
- che “è illegittimo, poiché opera una non consentita applicazione analogica di una normativa dettata per gli edifici alle stazioni radio, il provvedimento comunale di diniego di una concessione edilizia in sanatoria per una stazione radio base (Srb) per la telefonia mobile, fondato sul contrasto tra l'impianto ed il limite di altezza degli edifici prescritto per il centro abitato, non potendosi equiparare costruzioni (che sviluppano volumetria o cubatura, ingombri visibili ecc.) ed impianti tecnologici” (CS, VI, 07.06.2006, n. 3425);
- che “è illegittimo il diniego di concessione edilizia per la costruzione di una stazione radio per telefonia mobile, che sia motivato esclusivamente in riferimento al contrasto col regolamento, comunale per l'installazione di impianti radiomobili, in quanto che a detto regolamento non può riconoscersi valenza di strumento urbanistico” (TAR Piemonte, I, 18.05.2500 n. 1700; Cfr. conformi, tra le tante, TAR Milano, I, 02.10.2002 n. 1997; C.S., VI 02.10.2001 n. 5442);
- che “il titolo abilitativo alla realizzazione di una stazione radio base può essere negato esclusivamente con riguardo ad una specifica disciplina conformativa relativa alle reti infrastrutturali tecnologiche necessarie per il funzionamento del servizio pubblico di telefonia”; e che “pertanto, è illegittimo il diniego di concessione edilizia per superamento dei limiti di altezza dettati con riferimento a strutture e manufatti di rilievo urbanistico ed edilizio” (TAR Milano, 18.01.2005 n. 71);
- che “ai sensi dell'art. 231, comma 4, T.U. 29.03.1973 n. 156, l'installazione di una stazione radio base del servizio di telefonia mobile deve essere qualificata come opera di urbanizzazione primaria, attesa la funzione di pubblica utilità dell'opera e, in quanto tale, ubicabile in qualsiasi parte del territorio comunale” (TAR Salerno, Sez. Unica, 16.09.2003 n. 885);
- che “ai sensi dell'art. 4, comma 7, L. reg. Lombardia 11.05.2001 n. 11, gli impianti radio-base di telefonia mobile di potenza totale non superiore a 300 Watt non richiedono specifica regolamentazione urbanistica, con conseguente illegittimità delle disposizioni pianificatorie comunali che introducano in termini assoluti divieti di installazione per tali impianti, anche solo su porzioni del territorio comunale” (TAR Milano, IV, 11.06.2008 n. 1971);
- che “in tema di installazione di impianti di telefonia mobile, nella Regione Friuli Venezia Giulia la L. reg. 06.12.2004 n. 28 consente, a regime, l'installazione di tali impianti nelle zone residenziali, mentre l'art. 15 della stessa legge fissa in via transitoria i parametri ai quali soltanto si devono attenere i Comuni in attesa dei piani di settore”; e che “pertanto, l'Amministrazione non può erigere contro la domanda di concessione edilizia per la realizzazione di una stazione radio base per la telefonia mobile la barriera di un divieto nascente da una norma tecnica di attuazione del piano regolatore comunale, che per tali categorie di impianti impone una determinata distanza minima (nella specie, 200 metri) dagli edifici residenziali esistenti, trattandosi di disposizione desueta e incompatibile con la legge sopravvenuta e, in ogni caso, illegittima ove integri un divieto generalizzato di installazione di impianti di telefonia mobile in ingenti porzioni del territorio comunale” (TAR Friuli Venezia Giulia, 08.03.2007 n. 173).
Orbene, nella fattispecie dedotta in giudizio con il Regolamento di polizia urbana -impugnato in parte qua- il Comune resistente ha introdotto un divieto generalizzato all’installazione di “stazioni radio-base”, sulla base di un criterio (a contenuto limitativo) ben più rigido di quelli stabiliti dalle competenti Autorità statali e regionali, e senza alcuna palesata (o comunque apprezzabile) ragione di carattere urbanistico.
E così operando ha agito con evidente “straripamento di potere”: sia dal potere regolamentare ad Esso spettante in forza del TU sull’edilizia (DPR 06.06.2001 n. 380); sia dal potere regolamentare ad Esso devoluto dall’art. 8 della L. n. 36 del 2001 (c.d. “legge quadro in materia di protezione dalle esposizione ai campi elettromagnetici”).
E’ infatti evidente che nell’esercizio di entrambi i succitati poteri regolamentari, il Comune deve conformarsi alla disciplina di settore imposta dalle fonti normative di rango superiore.
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Meritevole di accoglimento, si appalesa anche il terzo motivo di gravame, con cui la ricorrente società lamenta eccesso di potere per sviamento dall’interesse pubblico, deducendo che “la norma regolamentare che impone la distanza minima tra l’impianto di telefonia cellulare e gli edifici pubblici, non trova alcuna giustificazione non comprendendosi quale sia il bene meritevole della tutela e nemmeno la tutela che si vuole realizzare”.
La doglianza merita di essere condivisa.
Ed invero, delle due l’una:
- o la disposizione ha come fine la tutela della salute pubblica, ed allora la sua inutilità ed ingiustizia è palese, posto che la stessa finirebbe con il salvaguardare esclusivamente i fruitori degli uffici pubblici ed i diretti vicini;
- o la disposizione è stata considerata (dal Comune) alla stregua di una norma di natura urbanistica; ed allora ne sfuggono il senso e la ratio, posto che con essa non si tutela alcuno degli interessi (decoro urbano, rispetto del carico urbanistico, rispetto degli indici di edificabilità; rispetto delle destinazioni d’uso, rispetto delle zonizzazioni etc.) alla cui cura si dirige l’urbanistica
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 27.03.2012 n. 622 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAEssendo stato adottato in pendenza del procedimento di sanatoria, l’ordine di demolizione risulta in contrasto con l’art. 38 l. n. 47 del 1985, che impone all’Amministrazione di astenersi, sino alla definizione del procedimento stesso, da ogni iniziativa repressiva, ed era, pertanto, illegittimamente emesso.
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In merito alla concreta eseguibilità della demolizione della parte abusiva, invocando l’applicazione dell’art. 34, comma 2, d.p.r. n. 380 del 2001 (<<Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell’ufficio applica una sanzione […]>>), sul punto si osserva che:
- l’art. 34, comma 2, d.p.r. n. 380 citato si riferisce soltanto agli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire e non è quindi applicabile a quelli realizzati, come quello in esame, senza il permesso di costruire;
- la regola generale per interventi e opere in parziale difformità dal permesso di costruire è in ogni caso la demolizione dell’opera, consentendo l’art. 34 l’applicazione della sanzione pecuniaria soltanto nel caso in cui il ripristino dello status quo ante si riveli impossibile, circostanza che impone una tale valutazione tecnica rimessa in via esclusiva all’autorità amministrativa.
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L’indicazione dell’area di sedime, così come di quella necessaria per opere analoghe a quelle abusive, da acquisire al patrimonio comunale, non deve considerarsi requisito dell’ordinanza di demolizione -e dunque la mancanza non ne inficia la legittimità- giacché siffatta specificazione è elemento essenziale del distinto provvedimento con cui l’Amministrazione accerta la mancata ottemperanza alla demolizione da parte dell’ingiunto.

Essendo stato adottato in pendenza del procedimento di sanatoria, l’ordine di demolizione risulta in contrasto con l’art. 38 l. n. 47 del 1985, che impone all’Amministrazione di astenersi, sino alla definizione del procedimento stesso, da ogni iniziativa repressiva, ed era, pertanto, illegittimamente emesso (fra le molte, Tar Campania Napoli, III, 07.12.2010, n. 27066; Consiglio Stato, IV, 11.11.2010, n. 8026; Tar Lazio Roma, I, 08.11.2010, n. 33235).
Quanto, invece, alla restante parte del fabbricato, i ricorrenti pongono, anzitutto, il tema della concreta eseguibilità della demolizione, invocando l’applicazione dell’art. 34, comma 2, d.p.r. n. 380 del 2001 (<<Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell’ufficio applica una sanzione […]>>).
Sul punto, peraltro, il Collegio osserva che:
- l’art. 34, comma 2, d.p.r. n. 380 citato si riferisce soltanto agli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire e non è quindi applicabile a quelli realizzati, come quello in esame, senza il permesso di costruire (fra le molte, Tar Campania Salerno, II, 13.04.2011, n. 702; Tar Calabria Catanzaro, II, 11.02.2011, n. 207);
- la regola generale per interventi e opere in parziale difformità dal permesso di costruire è in ogni caso la demolizione dell’opera, consentendo l’art. 34 l’applicazione della sanzione pecuniaria soltanto nel caso in cui il ripristino dello status quo ante si riveli impossibile, circostanza che impone una tale valutazione tecnica rimessa in via esclusiva all’autorità amministrativa: nel caso in esame, appunto, il Comune ha evidenziato come non ricorrano “particolari condizioni per le quali lo smantellamento delle altre strutture abusive possa comportare pregiudizio per la stabilità del locale 3 […], in quanto trattasi di vani su di un unico livello caratterizzati da copertura leggere. In particolare mentre i vani 1, 2 e 5 sono costituiti da coperture in eternit o lamiera metallica poggianti su pareti portanti in muratura, realizzate principalmente da elementi di cemento, il vano 4 risulta essere composto da una copertura in parte in lamiera metallica e in parte in coibentato, poggiante su di una struttura verticale realizzata con elementi di acciaio” (cfr. Relaz. istruttoria cit. pag. 5).
A fronte di questi puntuali e ragionevoli rilievi, quindi, il consulente dei ricorrenti deduceva che l’eventuale demolizione delle coperture e delle strutture portanti dei locali posti a nord e sud di quello oggetto dell’istanza di condono ne comporterebbe un pregiudizio statico “a causa dei collegamenti esistenti tra le strutture portanti dello stesso locale e quelle dei locali adiacenti”: a ben vedere, però, poiché lo stesso c.t.p. evidenziava che sono le murature del locale n. 3 a ospitare la trave portante e alcune parti strutturali bullonate dei locali da demolire, il Collegio ritiene di condividere le valutazioni del Comune, nel senso che, al più, sarebbe il vano n. 3 a “condizionare” la statica degli altri (aspetto questo che non rileva, essendo quest’ultimi destinati alla demolizione) e non, invece, il contrario.
Con riguardo, infine, alla dedotta violazione dell’art. 31, commi 2,  e seguenti, d.p.r. n. 380 citato, va sottolineato come secondo il prevalente indirizzo della giurisprudenza amministrativa (da ultimo Tar Campania Napoli, VII, 13.01.2012, n. 143;) “l’indicazione dell’area di sedime, così come di quella necessaria per opere analoghe a quelle abusive, da acquisire al patrimonio comunale, non deve considerarsi requisito dell’ordinanza di demolizione -e dunque la mancanza non ne inficia la legittimità- giacché siffatta specificazione è elemento essenziale del distinto provvedimento con cui l’Amministrazione accerta la mancata ottemperanza alla demolizione da parte dell’ingiunto” (Tar Puglia Lecce, III, 15.12.2011, n. 2172; Tar Puglia Lecce, III, 28.07.2011, n. 1461).
Né in questo caso mancava la prescritta analitica indicazione delle opere abusivamente realizzate, poiché tale era il riferimento al “fabbricato della superficie coperta di mq. 230 circa utilizzato come deposito di pitture acriliche e materiale edile”: lo stesso, difatti, era interamente abusivo e la circostanza che per una sua porzione, esattamente identificata, pendeva una domanda di condono, vale a rendere in parte qua illegittima, quale esito di questo giudizio, l’ordinanza di demolizione, ma non incide sulla originaria puntualità del provvedimento nella descrizione delle opere abusive (anche perché tale era pure il vano n. 3), e, comunque, non determina alcuna incertezza sulle opere da demolire (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 27.03.2012 n. 558 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Reati contro la PA. Denaro pubblico, quando l'abuso diventa peculato.
L'appropriazione indebita del denaro pubblico non equivale alla mera distrazione. Secondo la Cassazione nel comportamento del pubblico funzionario, il quale disponga il pagamento di fatture emesse nei confronti della società pubblica da imprenditori compiacenti per opere e servizi mai effettuati ovvero gonfiando il costo delle opere realizzate, deve ravvisarsi il peculato (articolo 314 c.p.), giacché in tal modo l'agente, avendo la disponibilità del denaro, lo sottrae all'ente pubblico così appropriandosene.
Da queste premesse, la Corte, non ha condiviso la tesi difensiva che accreditava la configurabilità del reato di abuso di ufficio (articolo 323 c.p., affermando che tale meno grave reato sarebbe ravvisabile, dopo la soppressione del peculato per distrazione [avvenuta come è noto con la legge 26.04.1990 n. 86], solo qualora il pagamento avvenga per finalità diverse da quelle specificamente previste, ma sia pur sempre “riconosciuto” dalle norme organizzative dell’ente come rientrante nelle specifiche attribuzioni del ruolo istituzionale svolto, perché in tal caso permane la connessione funzionale e quindi la legittimità del possesso.
E’ situazione, quest’ultima, che la Cassazione ha escluso in una vicenda in cui l’imputato, pagando per lavori inesistenti, con fatture e documentazioni false, aveva realizzato una vera e propria “interversione del possesso” ed interrompendo in tal modo la relazione funzionale tra il denaro ed il suo legittimo proprietario [la società pubblica di appartenenza].
L’affermazione è senz’altro convincente, ove si consideri che solo allorquando non via sia appropriazione della cosa, con conseguente incameramento della stessa da parte dell’agente [ipotesi integrante il peculato] potrebbe discutersi di abuso d’ufficio, che può ravvisarsi solo allorquando si sia in presenza di una distrazione a profitto proprio, che si concretizzi semplicemente in un indebito uso del bene che non comporti la perdita dello stesso e la conseguente lesione patrimoniale a danno dell'avente diritto (cfr. Sezione II, 11.02.2010, Ponticorvo) (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione penale, sentenza 26.03.2012 n. 11636).

PUBBLICO IMPIEGOPalazzo Spada fa cadere un altro motivo di facile impugnativa nelle selezioni pubbliche. E le cancellature non sono segni di riconoscimento.
Le cancellature non sono un segno di riconoscimento ma la manifestazione di un'incertezza usuale nei partecipanti a un concorso e rilevabile nella maggior parte degli elaborati. I candidati non ammessi alla prova orale del concorso in atto a posti di dirigente scolastico sono avvertiti: se esclusi dagli scritti, si accertino, attraverso l'accesso agli atti, che a determinare l'esclusione non siano state una svista, la materiale correzione di un errore o la riconsiderazione di una frase, scambiate per segni di riconoscimento. E non è nemmeno necessario che il segno di cancellatura lasci intravedere le parole sottostanti, come si è soliti pretendere nel caso di testi ufficiali.
Ad affermarlo è il Consiglio di Stato, Sez. V, con sentenza 26.03.2012 n. 1740, che distingue tra particolarità grafiche che non ci si aspetterebbe di trovare in un elaborato d'esame e le ordinarie modalità di scrittura con le quali un pensiero è trasformato in testo attraverso diverse elaborazioni non tutte confinate nella cosiddetta brutta copia.
Mentre i primi sono in astratto idonei a identificare l'autore di un testo scritto, i secondi attengono al modo con cui i concorrenti sono soliti esporre per via di successive approssimazioni le loro argomentazioni e che richiedono, quindi, ritocchi, rimaneggiamenti, ripensamenti. Quest'ultimo è un dato di esperienza con il quale si confrontano quotidianamente esaminatori e insegnanti, soprattutto quelli di lettere alle prese con elaborati dai quali è spesso possibile estrarre e apprezzare contenuti significativi ma immersi in un guazzabuglio di segni, cancellazioni e riscritture, quasi un campo di battaglia se non un cimitero di guerra. L'occasione per affermare il principio è stata fornita ai giudici di Palazzo Spada dall'esame di un appello contro l'annullamento di una graduatoria di concorso decisa dal Tar della Campania. Si trattava della graduatoria del concorso a un posto di assistente sociale nel comune di San Gennaro Vesuviano, annullata su ricorso di una candidata che aveva contestato il fatto che uno degli elaborati della prima in graduatoria, della vincitrice quindi, contenesse cancellature sotto le quali ne sarebbero stati visibili le generalità.
Il testo incriminato era lo schema di una relazione che un'ipotetica assistente sociale avrebbe dovuto presentare al termine di un'indagine su fatti rientranti nella sua sfera di competenza. Secondo la ricorrente la relazione sarebbe stata addirittura sottoscritta e successivamente cancellata dalla candidata risultata prima in graduatoria, la quale, presentando appello, ha invece affermato di avere utilizzato, a mo' di conclusione della relazione, un nome di pura fantasia e di averlo poi cancellato in modo tale che non fosse nemmeno leggibile.
I giudici, che hanno esaminato in sede istruttoria l'originale della relazione, hanno rilevato la presenza di numerose cancellature a penna tali da rendere invisibili le parole sottostanti, compreso il nome di fantasia, e hanno accolto l'appello della vincitrice.
Più in generale i giudici hanno escluso che le correzioni possano costituire un segno di riconoscimento. Ciò che è importante, infatti, non è tanto l'identificabilità dell'autore dell'elaborato attraverso un segno a lui personalmente riferibile, come potrebbe essere una correzione preventivamente portata a conoscenza di uno o più esaminatori, “quanto piuttosto l'astratta idoneità del segno a fungere da elemento di identificazione”, che si verifica quando la particolarità del segno assume un carattere oggettivamente e incontestabilmente anomalo (articolo ItaliaOggi del 24.04.2012).

EDILIZIA PRIVATAIl provvedimento con cui un immobile viene dichiarato di particolare interesse storico–artistico (ai sensi della l. n. 1089 del 1939) è soggetto al rispetto delle disposizioni garantistiche introdotte dalla l. 241 del 1990 e pertanto deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, pena la sua illegittimità”.
Le disposizioni della l. 07.08.1990 n. 241, concernenti la comunicazione di avvio del procedimento, sono applicabili al procedimento di imposizione di vincolo storico artistico ai sensi della l. 01.06.1939 n. 1089, dovendosi tale comunicazione inviare agli stessi soggetti cui deve essere comunicato il provvedimento di imposizione, destinato ad incidere nella sfera giuridica dei destinatari, quali il proprietario, i possessori o i detentori; ciò al fine di consentire al privato una partecipazione che gli permetta di far constatare circostanze ed elementi idonei ad un’esatta valutazione sulla rilevanza del bene da sottoporre a vincolo ed eventualmente, ricorrendone i presupposti, a far recedere l’amministrazione da una sua erronea decisione.

Il ricorso è fondato.
Carattere decisivo, con assorbimento d’ogni altra doglianza, riveste la considerazione della censura, impingente nell’omessa comunicazione, alla ricorrente, dell’avvio del procedimento, impositivo del vincolo.
Sulla necessità di tale adempimento procedurale, nella specie –come risulta dalla lettura dello stesso provvedimento, che non fa alcun cenno del medesimo– completamente pretermesso, si leggano le seguenti massime: “Il provvedimento con cui un immobile viene dichiarato di particolare interesse storico–artistico (ai sensi della l. n. 1089 del 1939) è soggetto al rispetto delle disposizioni garantistiche introdotte dalla l. 241 del 1990 e pertanto deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, pena la sua illegittimità” (TAR Toscana Firenze, sez. I, 27.11.2006, n. 6030); “Le disposizioni della l. 07.08.1990 n. 241, concernenti la comunicazione di avvio del procedimento, sono applicabili al procedimento di imposizione di vincolo storico artistico ai sensi della l. 01.06.1939 n. 1089, dovendosi tale comunicazione inviare agli stessi soggetti cui deve essere comunicato il provvedimento di imposizione, destinato ad incidere nella sfera giuridica dei destinatari, quali il proprietario, i possessori o i detentori; ciò al fine di consentire al privato una partecipazione che gli permetta di far constatare circostanze ed elementi idonei ad un’esatta valutazione sulla rilevanza del bene da sottoporre a vincolo ed eventualmente, ricorrendone i presupposti, a far recedere l’amministrazione da una sua erronea decisione” (Consiglio Stato, sez. VI, 04.04.2003, n. 1751) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 26.03.2012 n. 562 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 33 comma 4, d.p.r. n. 380/2001 deve essere interpretato nel senso che per gli immobili in zona A è la Soprintendenza, in quanto organo competente ex lege, a valutare se il particolare pregio del manufatto giustifichi l’applicazione della sola sanzione pecuniaria; qualora ciò non avvenga il Comune può evitare di irrogare la demolizione solo nell’ipotesi generale prevista dal comma 2 dell’art. 33 ovvero nel caso di impossibilità tecnica di ripristino da intendersi riferita al pericolo di pregiudizio per la parte conforme dell’immobile, da ritenersi insussistente nella fattispecie in ragione della natura delle opere abusive contestate e della mancanza di specifica deduzione di parte ricorrente.
L’art. 33, comma 4, d.p.r. n. 380/2001 prevede che “qualora le opere siano state eseguite su immobili, anche se non vincolati, compresi nelle zone omogenee A, di cui al decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, il dirigente o il responsabile dell'ufficio richiede all'amministrazione competente alla tutela dei beni culturali ed ambientali apposito parere vincolante circa la restituzione in pristino o la irrogazione della sanzione pecuniaria di cui al precedente comma. Qualora il parere non venga reso entro novanta giorni dalla richiesta il dirigente o il responsabile provvede autonomamente”.
Nella fattispecie l’iter procedimentale previsto dalla norma in esame risulta rispettato avendo Roma Capitale con la nota del 15/06/2010 richiesto alla Soprintendenza il parere di competenza che non è stato dalla stessa reso nel termine previsto.
La mancata espressione del parere ha legittimato l’adozione della sanzione demolitoria da parte del Comune né in tale ipotesi l’ente ha l’obbligo di esternare, attraverso uno specifico onere motivazionale, la scelta tra sanzione pecuniaria e demolitoria la quale ultima costituisce la misura ordinariamente applicabile in ipotesi, quali quella in esame, di ristrutturazione edilizia senza titolo.
In altri termini, l’art. 33 comma 4, d.p.r. n. 380/2001 deve essere interpretato nel senso che per gli immobili in zona A è la Soprintendenza, in quanto organo competente ex lege, a valutare se il particolare pregio del manufatto giustifichi l’applicazione della sola sanzione pecuniaria; qualora ciò non avvenga il Comune può evitare di irrogare la demolizione solo nell’ipotesi generale prevista dal comma 2 dell’art. 33 ovvero nel caso di impossibilità tecnica di ripristino da intendersi riferita al pericolo di pregiudizio per la parte conforme dell’immobile, da ritenersi insussistente nella fattispecie in ragione della natura delle opere abusive contestate e della mancanza di specifica deduzione di parte ricorrente (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 15.03.2012 n. 2526 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl verbale redatto e sottoscritto da agenti della Polizia comunale a seguito di sopralluogo, attestante l'esistenza di manufatti abusivi, costituisce atto pubblico, fidefaciente fino a querela di falso ai sensi dell'art. 2700 c.c. della veridicità dei fatti in esso attestati.
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In caso di ordine di demolizione delle opere abusive non è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7, l. n. 241 del 1990, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario. Per lo stesso motivo, non si richiede una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico o della comparazione di quest'ultimo la realizzazione dell'opera abusiva e il provvedimento sanzionatorio, non potendosi ravvisare alcun affidamento alla conservazione dell’opera abusiva.

In via preliminare, deve rilevarsi che nella motivazione del provvedimento impugnato le opere oggetto dell’ordinanza di demolizione in epigrafe, emanata in prosecuzione a precedente ordinanza di demolizione n. 533 dell'01.07.1998, vengono indicate come:
a) completamento del manufatto già sottoposto a sequestro in data 16.05.1998 e 24.06.1998, reso in uso a civile abitazione;
b) realizzazione, al lato sud, di un solaio a sbalzo di circa mq. 30, coperto da una tettoia con struttura portante in legno e copertura in tegole.
Infatti, il verbale n. 317/06/ED, redatto e sottoscritto da agenti della Polizia comunale a seguito di sopralluogo, attestante l'esistenza dei manufatti di cui sopra, costituisce atto pubblico, fidefaciente fino a querela di falso ai sensi dell'art. 2700 c.c. della veridicità dei fatti in esso attestati (TAR Piemonte Torino, sez. I, 02.03.2009, n. 618) e, quindi, della consistenza degli abusi accertati. Pertanto, deve ritenersi del tutto infondata, anche in via di fatto, la censura con cui l’intervento di cui trattasi è qualificato come “mera manutenzione ordinaria e straordinaria”, consistente nella sostituzione della “precaria e fatiscente tettoia di protezione del terrazzo pertinenziale con materiali più idonei”.
In diritto, tali interventi costituiscono senza dubbio alcuno “nuova costruzione”, tale da necessitare non soltanto di previo rilascio di titolo abilitativo ma, altresì, di autorizzazione paesaggistica, trattandosi di costruzione realizzata in zona vincolata (TAR Campania Napoli, sez. III, 23.01.2009, n. 316).
Quanto alla censura relativa alla violazione degli artt. 3 e 7 della legge n. 241/1990, deve osservarsi che in caso di ordine di demolizione delle opere abusive non è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7, l. n. 241 del 1990, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario (TAR Campania Napoli, sez. III, 01.03.2011, n. 1259). Per lo stesso motivo, non si richiede una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico o della comparazione di quest'ultimo la realizzazione dell'opera abusiva e il provvedimento sanzionatorio, non potendosi ravvisare alcun affidamento alla conservazione dell’opera abusiva (ex multis: TAR Campania Napoli, sez. VIII, 06.04.2011, n. 1945) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 12.03.2012 n. 1246 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione di un solaio a sbalzo di circa mq. 30, coperto da una tettoia con struttura portante in legno e copertura in tegole, costituisce senza dubbio alcuno “nuova costruzione”, tale da necessitare non soltanto di previo rilascio di titolo abilitativo ma, altresì, di autorizzazione paesaggistica, trattandosi di costruzione realizzata in zona vincolata.
In via preliminare, deve rilevarsi che nella motivazione del provvedimento impugnato le opere oggetto dell’ordinanza di demolizione in epigrafe, emanata in prosecuzione a precedente ordinanza di demolizione n. 533 dell'01.07.1998, vengono indicate come:
a) completamento del manufatto già sottoposto a sequestro in data 16.05.1998 e 24.06.1998, reso in uso a civile abitazione;
b) realizzazione, al lato sud, di un solaio a sbalzo di circa mq. 30, coperto da una tettoia con struttura portante in legno e copertura in tegole.
Infatti, il verbale n. 317/06/ED, redatto e sottoscritto da agenti della Polizia comunale a seguito di sopralluogo, attestante l'esistenza dei manufatti di cui sopra, costituisce atto pubblico, fidefaciente fino a querela di falso ai sensi dell'art. 2700 c.c. della veridicità dei fatti in esso attestati (TAR Piemonte Torino, sez. I, 02.03.2009, n. 618) e, quindi, della consistenza degli abusi accertati. Pertanto, deve ritenersi del tutto infondata, anche in via di fatto, la censura con cui l’intervento di cui trattasi è qualificato come “mera manutenzione ordinaria e straordinaria”, consistente nella sostituzione della “precaria e fatiscente tettoia di protezione del terrazzo pertinenziale con materiali più idonei”.
In diritto, tali interventi costituiscono senza dubbio alcuno “nuova costruzione”, tale da necessitare non soltanto di previo rilascio di titolo abilitativo ma, altresì, di autorizzazione paesaggistica, trattandosi di costruzione realizzata in zona vincolata (TAR Campania Napoli, sez. III, 23.01.2009, n. 316) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 12.03.2012 n. 1246 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di prescrizione degli oneri di urbanizzazione e dei contributi commisurati al costo di costruzione, in assenza di diversa disposizione normativa, il termine prescrizionale è quello ordinario decennale.
In materia di prescrizione degli oneri di urbanizzazione e dei contributi commisurati al costo di costruzione, in assenza di diversa disposizione normativa, il termine prescrizionale è quello ordinario decennale (tra le tante, TAR Campania Napoli, sez. VIII, 14.01.2011, n. 152). E’ evidente che se fosse condivisibile la tesi comunale, sarebbe praticamente impossibile l’operatività del suddetto meccanismo prescrizionale, atteso che il debitore sarebbe costituito in mora automaticamente allo spirare del termine ultimo di pagamento, senza la necessità di alcuna attivazione da parte dell’amministrazione creditrice.
Deve inoltre rilevarsi che il modo di costituzione in mora del debitore (ex persona, art. 1219, primo comma, c.c., o ex re, art. 1219, secondo comma, n. 3), stesso codice), rileva ai soli fini del risarcimento del danno e del regolamento del rischio per il perimento della cosa oggetto della prestazione e dell’impossibilità sopravvenuta (art. 1221 c.c.), ma non incide sul decorso della prescrizione. Se è vero che la messa in mora del debitore, ex art. 1219, primo comma, interrompe senz’altro la prescrizione (art. 2943, ultimo comma, c.c.), non è vera l’implicazione secondo cui quando non occorre la messa in mora (mora ex re) non occorra interrompere la prescrizione. Il decorso della prescrizione opera indifferentemente per entrambe le tipologie di obbligazioni dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere (art. 2935 c.c.).
Il fatto che le obbligazioni nei confronti delle pubbliche amministrazioni siano di regola eseguibili al domicilio del creditore (portabili) non ha nessuna incidenza, dunque, sul decorso e sul regime interruttivo della prescrizione (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 12.03.2012 n. 1237 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAL'intervento di installazione di una caldaia sul muro esterno deve essere qualificato come di manutenzione straordinaria, in quanto riconducibile alla tipologia di lavori di cui all’art. 3, comma 1, lett. b, del d.p.r. n. 380 del 2001 finalizzati a “realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici”.
Pertanto, in assenza di atto abilitativo a monte, è illegittimo l'ordine comunale di rimozione, cui consegue un regime sanzionatorio differenziato rispetto alla demolizione e remissione in pristino.
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Ai sensi dell’art. 1102 c.c., ogni condomino è legittimato a servirsi della cosa comune ed apportarvi le necessarie modifiche per il godimento migliore, a patto che la destinazione non ne venga alterata e che non si impedisca agli altri condomini di farne pari uso.
Il parametro valutativo dell’attività amministrativa, nella materia, va ricercato nella disciplina pubblicistica che regola la realizzazione delle opere edilizie nel territorio, senza che il mancato accertamento dell’assenso di terzi, o della lesione intersoggettiva che l’attività edificatoria potrebbe eventualmente arrecare, possa incidere sulla legittimità del provvedimento, che viene adottato sulla base del titolo formale di disponibilità del bene immobile direttamente inciso dall’intervento e, in ogni caso, con salvezza dei diritti dei terzi.
In altri termini, il mancato assenso del Condominio cui la porzione immobiliare inerisce (e l’eventuale, mancato rispetto della disciplina condominale) è questione che concerne le relazioni privatistiche, cui resta estranea l’Amministrazione.

A diverse conclusioni deve pervenirsi con riferimento alla intimata rimozione della caldaia esterna installata dal ricorrente per l’attivazione di un impianto di riscaldamento nella sua abitazione. Detto intervento, come correttamente indicato in ricorso, deve essere qualificato come di manutenzione straordinaria, in quanto riconducibile alla tipologia di lavori di cui all’art. 3, comma 1, lett. b, del d.p.r. n. 380 del 2001 finalizzati a “realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici”.
Al riguardo il Comune ha quindi errato nel non svolgere alcuna istruttoria circa la qualificazione dell’intervento in oggetto cui consegue un regime sanzionatorio differenziato rispetto alla demolizione e remissione in pristino.
Analogamente fondato si appalesa il ricorso avverso il diniego di sanatoria per la apposizione della caldaia murale in oggetto motivato dal Comune sul presupposto della necessità del previo assenso condominiale poiché installata su area condominiale. Il Comune ha omesso di considerare, come peraltro ribadito dal giudice adito in sede civile, che ai sensi dell’art. 1102 c.c., ogni condomino è legittimato a servirsi della cosa comune ed apportarvi le necessarie modifiche per il godimento migliore, a patto che la destinazione non ne venga alterata e che non si impedisca agli altri condomini di farne pari uso (cfr. Cass. civ. sez. II 05.12.1997 n. 12344; Tar Catanzaro n. 930 del 27.06.2011).
Ha osservato al riguardo la giurisprudenza amministrativa che: “il parametro valutativo dell’attività amministrativa, nella materia, va ricercato nella disciplina pubblicistica che regola la realizzazione delle opere edilizie nel territorio, senza che il mancato accertamento dell’assenso di terzi, o della lesione intersoggettiva che l’attività edificatoria potrebbe eventualmente arrecare, possa incidere sulla legittimità del provvedimento, che viene adottato sulla base del titolo formale di disponibilità del bene immobile direttamente inciso dall’intervento e, in ogni caso, con salvezza dei diritti dei terzi. In altri termini, il mancato assenso del Condominio cui la porzione immobiliare inerisce (e l’eventuale, mancato rispetto della disciplina condominale) è questione che concerne le relazioni privatistiche, cui resta estranea l’Amministrazione.” (in tal senso C.d.S. sez. V n. 6297 del 27.09.2004; Cons. Stato Sez. V, n. 905 del 19.02.2003) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 08.03.2012 n. 1192 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIn tema di impugnazione dei piani regolatori generali, e relative varianti, nel sistema di pubblicità-notizia disciplinato dalla legislazione urbanistica nazionale e regionale nonché ai sensi dell'art. 124 del decreto legislativo 18.08.2000, nr. 267, il termine per l'impugnazione decorre dalla data di pubblicazione del decreto di approvazione o, comunque, al più tardi dall'ultimo giorno della pubblicazione all'albo pretorio.
Costituisce infatti orientamento consolidato quello in base al quale, ai fini dell’autonoma impugnazione, debba necessariamente distinguersi tra le prescrizioni che in via immediata stabiliscono le potenzialità edificatorie della porzione di territorio interessata (nel cui ambito rientrano le norme di c.d. zonizzazione, la localizzazione di opere pubbliche o di interesse collettivo ecc.) dalle altre regole che più in dettaglio disciplinano l'esercizio dell'attività edificatoria (es. disposizioni sul calcolo delle distanze e delle altezze, sull'osservanza di canoni estetici).
In altri termini, si impone -in relazione all'immediato effetto conformativo dello jus aedificandi dei proprietari dei suoli interessati- un onere di immediata impugnativa, in osservanza del termine decadenziale a partire dalla pubblicazione dello strumento pianificatorio; in difetto di tale gravame le regole di zonizzazione e di localizzazione divengono inoppugnabili ed esplicano efficacia cogente per ogni avente causa.

Proprio questo Tar (TAR Veneto Sez. II, Sent., 28-11-2011, n. 1779) ha precisato che “…..Invero, anzitutto, secondo la giurisprudenza in tema di impugnazione dei piani regolatori generali, e relative varianti, "nel sistema di pubblicità-notizia disciplinato dalla legislazione urbanistica nazionale e regionale nonché ai sensi dell'art. 124 del decreto legislativo 18.08.2000, nr. 267, il termine per l'impugnazione decorre dalla data di pubblicazione del decreto di approvazione o, comunque, al più tardi dall'ultimo giorno della pubblicazione all'albo pretorio”.
Costituisce infatti orientamento consolidato (Cons. Stato VI Sez. n. 5258 del 2009; 1567 del 2007) quello in base al quale, ai fini dell’autonoma impugnazione, debba necessariamente distinguersi tra le prescrizioni che in via immediata stabiliscono le potenzialità edificatorie della porzione di territorio interessata (nel cui ambito rientrano le norme di c.d. zonizzazione, la localizzazione di opere pubbliche o di interesse collettivo ecc.) dalle altre regole che più in dettaglio disciplinano l'esercizio dell'attività edificatoria (es. disposizioni sul calcolo delle distanze e delle altezze, sull'osservanza di canoni estetici).
In altri termini "si impone -in relazione all'immediato effetto conformativo dello jus aedificandi dei proprietari dei suoli interessati- un onere di immediata impugnativa, in osservanza del termine decadenziale a partire dalla pubblicazione dello strumento pianificatorio; in difetto di tale gravame le regole di zonizzazione e di localizzazione divengono inoppugnabili ed esplicano efficacia cogente per ogni avente causa" (così C.d.S., VI, 08.09.2009, n. 5258, il quale conferma TAR Veneto, II, 3278/2004; conf. C.d.S., VI, 06.04.2007, n. 1567)" (così, da ultimo, TAR Veneto, II, 12.08.2011, n. 1357) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 05.03.2012 n. 300 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI gazebo che non abbiano carattere di assoluta precarietà ma che siano funzionali a soddisfare esigenze di carattere permanente devono essere apprezzati quale manufatti che determinano una trasformazione del territorio ed un’alterazione dello stato dei luoghi, dando luogo, peraltro, ad un incremento del carico urbanistico.
Come affermato dalla consolidata giurisprudenza anche del giudice d’appello, i gazebo che non abbiano carattere di assoluta precarietà ma che siano funzionali a soddisfare esigenze di carattere permanente devono essere apprezzati quale manufatti che determinano una trasformazione del territorio ed un’alterazione dello stato dei luoghi, dando luogo, peraltro, ad un incremento del carico urbanistico (cfr. ex multis, Cons. St., sez. V, 01.12.2003, n. 7822; TAR Trentino Alto Adige, Bolzano, 06.05.2005, n. 172).
Nella fattispecie oggetto di giudizio, l’intervento si è sostanziato nella sostituzione dell’intera struttura portante con travi in legno fisse e di grandi dimensioni e tale sostituzione, unitamente alle altre circostanze emerse nel corso dell’istruttoria (pavimentazione, dotazione di impianto elettrico, di climatizzazione e sonoro), è stata correttamente valutata dall’amministrazione che, considerando l’opera nel sul complesso, ha legittimamente adottato il provvedimento gravato.
L’intervento de quo è stato infatti realizzato, come sopra esposto, in area sottoposta a vincolo paesaggistico; come evidenziato dalla consolidata giurisprudenza per le opere comportanti un aumento di volumetria o cubatura l'autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata ex post, non rientrando tale ipotesi tra le fattispecie marginali -i c.d. abusi minori- che eccezionalmente ammettono la sanatoria ambientale in deroga al divieto generale di nulla-osta postumo.
Né è possibile ritenere, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa del ricorrente con il secondo motivo di ricorso, che l’intervento in esame sia da qualificare in termini di manutenzione ordinaria o straordinaria.
Dalle considerazione sopra svolte in ordine alla valutazione ed alla qualificazione dell’opera, emerge, infatti, che l’intervento ha determinato una sostanziale e radicale modificazione strutturale del manufatto, rilevante sotto il profilo volumetrico ed incidente sul contesto circostante tutelato (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 29.02.2012 n. 264 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Costituisce jus receptum che il risarcimento del danno da ritardo ai sensi dell'art. 2-bis, comma 1, della legge n. 241/1990, introdotto dalla legge n. 69/2009, postula che il fattore tempo è esso stesso un bene della vita per il cittadino.
La giurisprudenza ha riconosciuto che il ritardo nella conclusione di un qualunque procedimento è sempre un costo, dal momento che il fattore tempo costituisce una variabile essenziale nella predisposizione e nell'attuazione di piani finanziari relativi a qualsiasi intervento, condizionandone la relativa convenienza economica.

La ricorrente ha fondato la sua domanda sulla illegittimità della condotta del Comune che, senza svolgere adeguata e puntuale istruttoria avrebbe inibito la realizzazione di opere ritenute abusive, peraltro quando esse erano già realizzate.
Il danno risiederebbe da una parte nel colpevole ritardo con cui il Comune, avvedutosi dell’errore commesso, ha annullato in autotutela i precedenti atti inibitori e, dall’altra, nelle conseguenze a cascata provocate dall’ordine di demolizione e dall’annullamento dell’attestazione di agibilità che avrebbero impedito il trasferimento in proprietà dei beni in quanto avrebbero ingenerato nei promessi acquirenti il timore di vedersi sottrarre il bene promesso in vendita spingendoli ad avviare azioni giudiziarie nei confronti dell’impresa promittente venditrice.
Vi sarebbe, infine, un ulteriore profilo di danno derivante dall’illegittima corresponsione al Comune di somme, asseritamente non dovute, a titolo di sanzione pecuniaria.
La domanda è fondata nei termini e nei limiti di seguito esplicitati.
Quanto al primo profilo il Collegio osserva che la vicenda per cui è causa si snoda attraverso un arco temporale di quasi 7 anni durante i quali il Comune, per mano dei diversi Settori di volta in volta interessati, in particolare il Settore Mobilità e Ambiente e il Settore Controlli, quest’ultimo in persona del Dirigente del Servizio Controllo Abusi nel Territorio e del Direttore di Settore, ha tenuto un comportamento ondivago e contraddittorio, caratterizzato da istruttorie carenti e provvedimenti non ponderati, sia di contenuto favorevole (si veda: l’atto di validazione della Strada Beneceto rilasciato dal Dirigente del Settore Mobilità in data 20.04.2005, in cui si indica l’area oggetto di intervento come area soggetta a fascia di rispetto mt. 0; l’atto di Attestazione del Certificato di conformità edilizia e di agibilità n. 332/2006 rilasciato per decorrenza dei termini in data 21.11.2006 dal Direttore del Settore Interventi Urbanistici), sia di segno contrario (fra questi devono annoverarsi, oltre gli atti impugnati, anche l’ordinanza n. 83750 che inibisce la realizzazione delle opere –garage– di cui alla DIA n. 1725/2006 per violazione della fascia di rispetto stradale di mt. 20; il provvedimento in data 18.09.2008 di annullamento integrale della rilasciata attestazione del Certificato di conformità edilizia e di agibilità n. 332/2006, dunque anche della parte relativa alle opere –diverse dai garage– non ancora qualificate come abusive; i successivi atti del 10.02.2009 e del 10.03.2009 nei quali compaiono per la prima volta ulteriori opere  modifiche interne e basamento in cemento – mai contestate prima).
Costituisce jus receptum che il risarcimento del danno da ritardo ai sensi dell'art. 2-bis, comma 1, della legge n. 241/1990, introdotto dalla legge n. 69/2009, postula che il fattore tempo è esso stesso un bene della vita per il cittadino.
La giurisprudenza ha riconosciuto che il ritardo nella conclusione di un qualunque procedimento è sempre un costo, dal momento che il fattore tempo costituisce una variabile essenziale nella predisposizione e nell'attuazione di piani finanziari relativi a qualsiasi intervento, condizionandone la relativa convenienza economica (cfr. TAR Catania Sicilia sez. IV, 07.11.2011, n. 2636).
Detto principio, espresso in termini generali, deve vieppiù trovare applicazione nella vicenda in esame in cui la qualità imprenditoriale della parte ricorrente ha fatto si che la stessa abbia risentito in modo più incisivo del ritardo nell’ottenimento di atti che sono risultati dovuti, in quanto afferenti ad attività edilizie solo successivamente riconosciute legittime.
D’altra parte, nel caso di specie la responsabilità per danno da ritardo in capo all'Amministrazione è riconoscibile anche per l’ulteriore e più stringente considerazione che, come più volte affermato da condivisibile giurisprudenza del Consiglio di Stato in fattispecie alle quali non è applicabile, ratione temporis, la norma di cui all’art. 2-bis della L. 241/1990 (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 15.12.2011, n. 6609), il c.d. risarcimento da ritardo si fonda anche sull'accertata spettanza, in capo all’impresa richiedente, del c.d. bene della vita per l'ottenimento del quale era stato avviato il procedimento amministrativo.
Invero, a distanza di oltre tre anni dall’ordinanza inibitoria del 23.05.2006 e di oltre un anno dal provvedimento di annullamento (18.09.2008) del certificato di conformità edilizia dell’intero manufatto, ivi comprese tutte le parti regolarmente assentite, il Comune, dopo ripetute e copiose sollecitazioni ed istanze in tal senso, ha disposto l’annullamento in autotutela dei predetti atti riconoscendo espressamente la legittimità sia dell’intera opera di ristrutturazione dell’edificio, sia del basamento in cemento, sia della parte dei garage non ricadenti nella pur contestata fascia di rispetto stradale.
Né, a circoscrivere la responsabilità dell’Amministrazione, può soccorrere la tesi della difesa comunale secondo cui la responsabilità sarebbe ascrivibile esclusivamente al progettista dell’impresa che ha, di volta in volta, asseverato i lavori atteso che è indubitabile, oltre che non contestato, che la richiesta di validazione della strada Beneceto sia stata tempestivamente e correttamente inoltrata al competente Settore Mobilità comunale la cui nota del Dirigente in data 20.04.2005, in cui si indica l’area oggetto di intervento come area soggetta a fascia di rispetto mt. 0, pur consigliandosi l’arretramento a mt. 10, ha di fatto indotto in errore il progettista ingenerando, peraltro, il legittimo affidamento dell’impresa costruttrice sulla assentibilità delle opere da realizzare.
Né, infine, appare dirimente l’eccezione per cui il certificato di conformità edilizia sarebbe stato ulteriormente denegato in data 04.05.2010, per la mancanza delle canne fumarie e per la asserita presenza di umidità in due alloggi, atteso che, trattandosi di irregolarità che l’Amministrazione ben avrebbe potuto e dovuto rilevare in sede di primo diniego di agibilità, il relativo provvedimento conferma la tratteggiata condotta comunale caratterizzata da provvedimenti tra loro contraddittori adottati senza i dovuti approfondimenti istruttori.
Viceversa la condotta di parte ricorrente, consistente nella preferenza accordata in prima battuta alle vie brevi per tentare di risolvere la querelle con il Comune, anziché affidarsi da subito al ricorso giurisdizionale, e il non aver desistito dal continuare a praticare la via stragiudiziale, anche in pendenza di giudizio, si è rivelata vincente anche in termini di contrazione della tempistica e, conseguentemente, di contenimento del danno da ritardo la cui responsabilità avrebbe avuto ancor più pesanti ricadute sull’Amministrazione.
In conclusione dall’esame puntuale della vicenda per cui è causa balza ictu oculi la colpa dell’amministrazione sub specie di negligenza nell’approfondire l’istruttoria e di imprudenza nell’adottare atti tra loro configgenti e contraddittori.
Va rammentato che la fattispecie di responsabilità emersa dalla riforma del 2009, in tema di danno da ritardo, ha natura extracontrattuale, come si evince dalla testuale previsione della necessaria presenza dell'elemento soggettivo, doloso o colposo, per la sua configurazione (cfr. TAR Abruzzo, L'Aquila, sez. I, 21.11.2011, n. 548).
Dagli atti di causa risultano provate sia la sussistenza del danno -ravvisabile in re ipsa nel ritardo- sia l'imputabilità dello stesso alla P.A., quanto meno a titolo di colpa.
Invero appare marcata la violazione delle regole proprie dell'azione amministrativa, dei principi di celerità, efficienza, efficacia e trasparenza, dei principi costituzionali di imparzialità e di buon andamento e di quelli generali di ragionevolezza, proporzionalità ed adeguatezza.
In ordine al quantum debeatur il Collegio ritiene, anche in forza delle considerazioni da ultimo espresse, che la pretesa possa essere liquidata in via equitativa in € 20.000,00 (ventimila) che il Comune dovrà rifondere alla ricorrente, oltre interessi al tasso legale dal dì della comunicazione o, se anteriore, della notificazione della presente sentenza, fino al soddisfo (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 22.02.2012 n. 103 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa nozione edilizia di pertinenzialità ha connotati significativamente diversi da quelli civilistici, assumendo in essa rilievo decisivo non tanto il dato del legame materiale tra pertinenza ed immobile principale, quanto il dato giuridico, e cioè che la prima risulti priva di autonoma destinazione e di autonomo valore di mercato e che esaurisca la propria destinazione d'uso nel rapporto funzionale con l'edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico.
Sul piano urbanistico le pertinenze sono una categoria di interventi individuata non attraverso la nozione civilistica di cui all'art. 817 c.c. ma in ragione della modesta rilevanza economica e del limitato peso per il territorio.
Una pertinenza, per poter essere definita tale, deve avere una propria individualità fisica ed una propria conformazione strutturale e non essere parte integrante o costitutiva di altro fabbricato. Deve, inoltre, essere preordinata ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale, funzionalmente ed oggettivamente inserita al servizio dello stesso, sfornita di un autonomo valore di mercato, non valutabile in termini di cubatura o comunque dotata di un volume minimo tale da non consentire, in relazione anche alle caratteristiche dell'edificio principale, una sua destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell'immobile cui accede. Ciò che più rileva è il rapporto con la costruzione preesistente che deve essere, quindi, non di integrazione ma asservimento, per cui deve renderne più agevole e funzionale l'uso, ma non divenire parte essenziale dello stesso.

Occorre verificare, in particolare, se possa condividersi la tesi attorea secondo cui le opere suindicate -una tettoia chiusa adibita a wc e lavanderia- integri la nozione di "intervento pertinenziale" ex art. 3, comma 1, lett. e.6) d.P.R. n. 380/2001.
A tal fine, devono richiamarsi i criteri definitori della suddetta nozione così come elaborati dalla giurisprudenza:
- la nozione edilizia di pertinenzialità ha connotati significativamente diversi da quelli civilistici, assumendo in essa rilievo decisivo non tanto il dato del legame materiale tra pertinenza ed immobile principale, quanto il dato giuridico, e cioè che la prima risulti priva di autonoma destinazione e di autonomo valore di mercato e che esaurisca la propria destinazione d'uso nel rapporto funzionale con l'edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico (Consiglio di Stato, sez. IV, 18.10.2010, n. 7549);
- sul piano urbanistico le pertinenze sono una categoria di interventi individuata non attraverso la nozione civilistica di cui all'art. 817 c.c. ma in ragione della modesta rilevanza economica e del limitato peso per il territorio (v. Consiglio di Stato, sez. IV 13.01.2010, n. 41; TAR Brescia, sez. I 13.10.2008, n. 1259; TAR Brescia, sez. I, 22.09.2010, n. 3555);
- una pertinenza, per poter essere definita tale, deve avere una propria individualità fisica ed una propria conformazione strutturale e non essere parte integrante o costitutiva di altro fabbricato. Deve, inoltre, essere preordinata ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale, funzionalmente ed oggettivamente inserita al servizio dello stesso, sfornita di un autonomo valore di mercato, non valutabile in termini di cubatura o comunque dotata di un volume minimo tale da non consentire, in relazione anche alle caratteristiche dell'edificio principale, una sua destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell'immobile cui accede. Ciò che più rileva è il rapporto con la costruzione preesistente che deve essere, quindi, non di integrazione ma asservimento, per cui deve renderne più agevole e funzionale l'uso, ma non divenire parte essenziale dello stesso (TAR Marche Ancona, sez. I, 20.04.2010, n. 182).
Ebbene, ritiene il Tribunale che l'immobile oggetto di controversia risponda alla definizione di pertinenza, urbanisticamente rilevante, offerta dalle massime citate.
In primo luogo, infatti, lo stesso è caratterizzato da una modesta rilevanza economica e dimensionale: dall'ordinanza di demolizione del 05.01.2010 si evince infatti che il manufatto de quo occupa una superficie di soli mq. 13,40 ed ha un ingombro volumetrico di appena mc. 38,20.
Inoltre, non può negarsi che l'immobile in questione sia funzionalmente asservito all'abitazione cui accede: basti osservare che la sua destinazione a wc e lavanderia e la sua contiguità spaziale all'immobile principale non consentono di ipotizzare un uso autonomo rispetto a quest'ultimo, essendo destinato ad assolvere ad integrare le utilità che esso è in grado di offrire ai suoi utilizzatori.
Infine, deve escludersi che il manufatto de quo costituisca parte integrante dell'immobile principale, essendo sufficiente, a denotarne l'autonomia rispetto ad esso, la presenza di un ingresso autonomo (cfr. pag. 6 dell'atto di intervento ad opponendum).
La natura pertinenziale delle opere di cui si discute, non presa in considerazione dall'amministrazione intimata sebbene evidenziata dalla parte ricorrente con l'istanza di accertamento di conformità urbanistica e paesaggistica oggetto di diniego, è sufficiente a determinare l'illegittimità, per difetto di motivazione, dei provvedimenti impugnati.
E' evidente, infatti, che il suo positivo riconoscimento avrebbe quantomeno inciso sul regime sanzionatorio applicabile, non potendo questo identificarsi -ove non sia configurabile una "nuova costruzione"- in quello ripristinatorio (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 16.02.2012 n. 250 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASia ai sensi del previgente art. 11, comma 2, L. n. 10/1977, sia ai sensi del vigente art. 16, comma 3, DPR n. 380/2001 “la quota del contributo relativa al costo di costruzione, determinata all’atto di rilascio, è corrisposta in corso d’opera, con le modalità e garanzie stabilite dal Comune non oltre 60 giorni dall’ultimazione della costruzione”.
Pertanto, merita adesione l’orientamento giurisprudenziale secondo cui per il credito a titolo di costo di costruzione il dies a quo del termine ordinario prescrizionale non decorre dalla data stabilita in concessione per l’ultimazione dei lavori, ma da quella in cui l’opera è stata effettivamente ultimata, tenuto conto che di questo elemento di fatto deve essere data contezza all'Amministrazione da parte del privato. Sicché, in difetto di tale elemento, il termine prescrizionale non decorre nei confronti dell’Amministrazione creditrice in quanto il contributo relativo al costo di costruzione non può essere esigibile prima della scadenza del sessantesimo giorno dall'ultimazione delle opere, ai sensi dell'art. 11, comma 2, L. n. 10/1977 (ora sostituito dall’art. 16, comma 3, DPR n. 380/2001), per cui solo la scadenza di detto termine può determinare il dies a quo di decorrenza della prescrizione decennale del diritto, tenuto pure conto dell’art. 2935 C.C., secondo cui, in generale, la prescrizione non può decorrere se non dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere.

Sia ai sensi del previgente art. 11, comma 2, L. n. 10/1977, sia ai sensi del vigente art. 16, comma 3, DPR n. 380/2001 “la quota del contributo relativa al costo di costruzione, determinata all’atto di rilascio, è corrisposta in corso d’opera, con le modalità e garanzie stabilite dal Comune non oltre 60 giorni dall’ultimazione della costruzione”.
Pertanto, merita adesione l’orientamento giurisprudenziale (TAR Catanzaro I,. n. 522 del 14.04.2011; TAR Napoli, II, n. 3147 dell’08.06.2009; TAR Sardegna, II, n. 9 del 14.01.2008; TAR Umbria, n. 512 del 23.06.2003), secondo cui per il credito a titolo di costo di costruzione il dies a quo del termine ordinario prescrizionale non decorre dalla data stabilita in concessione per l’ultimazione dei lavori, ma da quella in cui l’opera è stata effettivamente ultimata, tenuto conto che di questo elemento di fatto deve essere data contezza all'Amministrazione da parte del privato. Sicché, in difetto di tale elemento, il termine prescrizionale non decorre nei confronti dell’Amministrazione creditrice in quanto il contributo relativo al costo di costruzione non può essere esigibile prima della scadenza del sessantesimo giorno dall'ultimazione delle opere, ai sensi dell'art. 11 comma 2, L. n. 10/1977 (ora sostituito dall’art. 16, comma 3, DPR n. 380/2001), per cui solo la scadenza di detto termine può determinare il dies a quo di decorrenza della prescrizione decennale del diritto, tenuto pure conto dell’art. 2935 C.C., secondo cui, in generale, la prescrizione non può decorrere se non dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere.
Pertanto, poiché il ricorrente oltre a non aver comunicata l’ultimazione dei lavori (circostanza esplicitamente dedotta dal Responsabile del Servizio Urbanistica del Comune di Pomarico nella nota prot. n. 6740 del 07.12.2011 e non smentita dal ricorrente, per cui, nella specie, va applicato il principio di non contestazione di cui al vigente art. 115, comma 1, C.P.C., previsto anche dall’art. 64, comma 2, Cod. Proc. Amm.), non ha provato la conoscenza da parte del Comune resistente dell’ultimazione delle opere assentite o anche l’ultimazione dei lavori 10 anni prima della ricezione della nota Responsabile Servizio Urbanistica Comune di Pomarico prot. n. 2586 del 5.5.2011, deve ritenersi non prescritto il diritto al pagamento del costo di costruzione, la cui quantificazione di 2.891,49 € non è stata contestata dal ricorrente (TAR Basilicata, sentenza 15.02.2012 n. 71 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl ricorso giurisdizionale avverso un provvedimento contingibile ed urgente, emesso dal Sindaco quale ufficiale di governo, va notificato al Comune (presso la sede municipale) e non nei confronti della struttura statale cui sono riferibili gli interessi coinvolti e, quindi, presso l’Avvocatura dello Stato, poiché:
- l’art. 1 del r.d. 30.10.1933, n. 1611 (modificato dall’art. 1 della legge 25.03.1958, n. 260, e reso espressamente applicabile ai giudizi amministrativi dall’art. 10, terzo comma, della l. 03.04.1979, n. 103) attribuisce all’Avvocatura dello Stato la rappresentanza, il patrocinio e l’assistenza in giudizio delle “Amministrazioni dello Stato, anche se organizzate ad ordinamento autonomo”, e si riferisce alle Amministrazioni dello Stato nel senso proprio dell’espressione, ossia agli uffici o complessi di uffici facenti parte della struttura organica delle Amministrazioni statali;
- quando il Sindaco, nell’adempimento delle sue funzioni, agisce quale ufficiale di governo, l’ordinamento disciplina un fenomeno di imputazione giuridica allo Stato degli effetti dell’atto dell’organo del Comune, nel senso che il Sindaco non diventa un “organo” di un’Amministrazione dello Stato, ma resta incardinato nel complesso organizzativo dell’ente locale, senza che il suo status sia modificato;
- l’esigenza che la notifica del ricorso giurisdizionale abbia luogo nei confronti del Sindaco presso la sede comunale è coerente con le caratteristiche del procedimento amministrativo che si conclude con l’atto sindacale, che è istruito, redatto ed emesso dagli uffici dell’Amministrazione comunale, alla quale compete anche di valutare, secondo le normali regole, il comportamento da tenere nel caso di impugnazione dell’atto in sede giurisdizionale.

La giurisprudenza (cfr. Cons. St., VI, 12.11.2003, n. 7266), in proposito, ha evidenziato che il ricorso giurisdizionale avverso un provvedimento contingibile ed urgente, emesso dal Sindaco quale ufficiale di governo, va notificato al Comune (presso la sede municipale) e non nei confronti della struttura statale cui sono riferibili gli interessi coinvolti e, quindi, presso l’Avvocatura dello Stato, poiché:
- l’art. 1 del r.d. 30.10.1933, n. 1611 (modificato dall’art. 1 della legge 25.03.1958, n. 260, e reso espressamente applicabile ai giudizi amministrativi dall’art. 10, terzo comma, della l. 03.04.1979, n. 103) attribuisce all’Avvocatura dello Stato la rappresentanza, il patrocinio e l’assistenza in giudizio delle “Amministrazioni dello Stato, anche se organizzate ad ordinamento autonomo”, e si riferisce alle Amministrazioni dello Stato nel senso proprio dell’espressione, ossia agli uffici o complessi di uffici facenti parte della struttura organica delle Amministrazioni statali;
- quando il Sindaco, nell’adempimento delle sue funzioni, agisce quale ufficiale di governo, l’ordinamento disciplina un fenomeno di imputazione giuridica allo Stato degli effetti dell’atto dell’organo del Comune, nel senso che il Sindaco non diventa un “organo” di un’Amministrazione dello Stato, ma resta incardinato nel complesso organizzativo dell’ente locale, senza che il suo status sia modificato (Cons. St., IV, 28.03.1994, n. 291; Cons. St.,V, 27.11.1987, n. 736; Cons. St., V, 27.10.1986, n. 568; cfr. Trib. Sup. acque pubbliche, 19.05.2000, n. 56);
- l’esigenza che la notifica del ricorso giurisdizionale abbia luogo nei confronti del Sindaco presso la sede comunale è coerente con le caratteristiche del procedimento amministrativo che si conclude con l’atto sindacale, che è istruito, redatto ed emesso dagli uffici dell’Amministrazione comunale, alla quale compete anche di valutare, secondo le normali regole, il comportamento da tenere nel caso di impugnazione dell’atto in sede giurisdizionale (Cons. St., IV, 28.03.1994, n. 291; Cons. ST., V, 27.10.1986, n. 568) (TAR Lazio-Roma, Sez. I, sentenza 13.02.2012 n. 1432 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa mera presentazione dell'istanza di condono non autorizza la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento delle opere oggetto della richiesta di sanatoria, le quali, fino al momento dell'eventuale accoglimento della domanda di condono, devono ritenersi comunque abusive.
Pertanto, l'ingiunzione di demolizione è del tutto legittima atteso che, in presenza di manufatti abusivi non condonati né sanati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o del risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale, alla quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del Comune di ordinarne la demolizione.

La giurisprudenza ha chiarito che “La mera presentazione dell'istanza di condono non autorizza la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento delle opere oggetto della richiesta di sanatoria, le quali, fino al momento dell'eventuale accoglimento della domanda di condono, devono ritenersi comunque abusive. Pertanto, l'ingiunzione di demolizione è del tutto legittima atteso che, in presenza di manufatti abusivi non condonati né sanati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o del risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale, alla quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del Comune di ordinarne la demolizione” (TAR Campania Napoli, sez. VII, 10.06.2011, n. 3076) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 13.02.2012 n. 759 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’ordinanza di demolizione non richiede, in linea generale, una specifica motivazione; l’abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente per l’adozione della misura repressiva in argomento. Ne consegue che, in presenza di un’opera abusiva, l’autorità amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna discrezionalità dell’amministrazione in relazione al provvedere.
L’ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore rispetto all’indicazione dei presupposti di fatto e all’individuazione e qualificazione degli abusi edilizi.
Presupposto per l'emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione di queste ultime in assenza o in totale difformità del titolo concessorio, con la conseguenza che, essendo l’ordinanza atto dovuto, essa è sufficientemente motivata con l’accertamento dell’abuso, essendo “in re ipsa” l’interesse pubblico alla sua rimozione e sussistendo l’eventuale obbligo di motivazione al riguardo solo se l’ordinanza stessa intervenga a distanza di tempo dall’ultimazione dell’opera avendo l’inerzia dell’amministrazione creato un qualche affidamento nel privato.
L’ordine di demolizione di opere abusive, costituendo un atto dovuto in presenza dei presupposti stabiliti dalla legge, non necessita della preventiva acquisizione del parere di alcuna Autorità.
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I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento, perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime. Seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2 della legge n. 241 del 1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento...qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il contenuto dispositivo della impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata data al ricorrente l’opportunità di interloquire con l’amministrazione.
La costante giurisprudenza ha affermato sul punto che “l’ordinanza di demolizione non richiede, in linea generale, una specifica motivazione; l’abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente per l’adozione della misura repressiva in argomento. Ne consegue che, in presenza di un’opera abusiva, l’autorità amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna discrezionalità dell’amministrazione in relazione al provvedere” (TAR Lazio Roma, sez. I, 19.07.2006, n. 6021); infatti “l’ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore rispetto all’indicazione dei presupposti di fatto e all’individuazione e qualificazione degli abusi edilizi” (TAR Marche Ancona, sez. I, 12.10.2006, n. 824) ed, ancora, “presupposto per l'emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione di queste ultime in assenza o in totale difformità del titolo concessorio, con la conseguenza che, essendo l’ordinanza atto dovuto, essa è sufficientemente motivata con l’accertamento dell’abuso, essendo “in re ipsa” l’interesse pubblico alla sua rimozione e sussistendo l’eventuale obbligo di motivazione al riguardo solo se l’ordinanza stessa intervenga a distanza di tempo dall’ultimazione dell’opera avendo l’inerzia dell’amministrazione creato un qualche affidamento nel privato” (Consiglio di Stato, sez. V, 29.05.2006 n. 3270).
Non può essere accolto neppure il rilievo circa il limitato impatto ambientale dei lavori eseguiti. Invero nella fattispecie si tratta della realizzazione in assenza di alcun titolo abilitativo in zona paesaggisticamente vincolata, di nuovi volumi per uso residenziale, di rilevanti opere di pavimentazione (circa 87 mq.), di altre opere in muratura (scala di accesso al piano seminterrato, recinzione del fondo con muri di altezza variabile da 1,50 a 3,00 metri e platee in calcestruzzo cementizio per circa 300 mq. con l’inserimento di piastre bullonate) che richiedevano per il loro impatto urbanistico–edilizio e paesaggistico, la previa acquisizione del permesso di costruire e dell’autorizzazione ambientale. Da tali circostanze discende la legittimità della sanzione ripristinatoria adottata.
Quanto alla dedotta illegittimità del provvedimento per non essere stata coinvolta la Soprintendenza rileva il Collegio che l’ordine di demolizione di opere abusive, costituendo un atto dovuto in presenza dei presupposti stabiliti dalla legge, non necessita della preventiva acquisizione del parere di alcuna Autorità (ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. II, 30.10.2006, n. 9243; sez. IV, 16.07.2003, n. 8434).
Destituita di ogni fondamento risulta la censura incentrata sulla violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990 (sesto motivo) in quanto i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento (ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. IV 12.04.2005, n. 3780; 13.01.2006, n. 651), perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime. Seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2 della legge n. 241 del 1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento..qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il contenuto dispositivo della impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata data al ricorrente l’opportunità di interloquire con l’amministrazione.
In ultimo, la dedotta mancata comunicazione del termine di conclusione del procedimento costituisce al più una mera irregolarità e non inficia la legittimità del provvedimento impugnato
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 13.02.2012 n. 759 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI provvedimenti di demolizione di opere edilizie abusive sono atti dovuti, sufficientemente motivati con l'affermazione dell'accertata realizzazione di interventi edilizi in carenza del titolo abilitativo richiesto dalla legge. Quindi, in relazione a provvedimenti di tale genere, l'obbligo di motivazione è da intendere nella sua essenzialità ovvero è da intendere assolto con l'indicazione dei meri presupposti di fatto (constatazione dell'esecuzione di opere edilizie in difformità del permesso di costruire o in assenza del medesimo), che poi determinano l'applicazione dovuta delle misure ripristinatorie previste.
In altri termini, “l'ingiunzione di demolizione non richiede una particolare motivazione volta ad evidenziare le specifiche ragioni di pubblico interesse o a comparare tale interesse con il sacrificio imposto al privato. Ciò perché la repressione degli abusi edilizi costituisce un preciso obbligo dell'Amministrazione, la quale non gode di alcuna discrezionalità al riguardo, mentre l'interesse pubblico all'adozione della misura repressiva è in re ipsa e non abbisogna di puntuale esplicitazione. L'ordine di demolizione, in particolare, deve ritenersi sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera”.
In giurisprudenza non è affatto pacifica la configurabilità di un legittimo affidamento per protrazione temporale dell’illecito in materia di occupazioni abusive ed abusi edilizi, registrandosi numerosi ed autorevoli arresti secondo cui tali atti risultano dovuti in ogni caso ed a prescindere da qualsivoglia specifica motivazione delle ragioni di interesse pubblico e di prevalenza delle stesse sugli interessi del privato.
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Ai sensi dell’art. 31, comma 3, del D.P.R. 281/2001, “se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune”; ai sensi del comma 4, poi, “l'accertamento dell'inottemperanza alla ingiunzione a demolire, nel termine di cui al comma 3, previa notifica all'interessato, costituisce titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente”.
L’acquisizione al patrimonio comunale, dunque, si verifica ope legis ed automaticamente, spirato il termine assegnato per la demolizione dell’opera abusiva, con la conseguenza che nessun margine di discrezionalità può al riguardo ravvisarsi in capo all’Amministrazione.

E’ noto che “i provvedimenti di demolizione di opere edilizie abusive sono atti dovuti, sufficientemente motivati con l'affermazione dell'accertata realizzazione di interventi edilizi in carenza del titolo abilitativo richiesto dalla legge. Quindi, in relazione a provvedimenti di tale genere, l'obbligo di motivazione è da intendere nella sua essenzialità ovvero è da intendere assolto con l'indicazione dei meri presupposti di fatto (constatazione dell'esecuzione di opere edilizie in difformità del permesso di costruire o in assenza del medesimo), che poi determinano l'applicazione dovuta delle misure ripristinatorie previste” (TAR Campania Napoli, Sez. VIII, 22.08.2011, n. 4235; cfr. anche TAR Campania Napoli, Sez. VI, 31.08.2011, n. 4253; TAR Liguria Genova, Sez. I, 04.08.2011, n. 1220; TAR Campania Napoli, Sez. VIII, 13.07.2011, n. 3782 TAR Campania Napoli, Sez. III, 19.01.2010 n. 195).
In altri termini, “l'ingiunzione di demolizione non richiede una particolare motivazione volta ad evidenziare le specifiche ragioni di pubblico interesse o a comparare tale interesse con il sacrificio imposto al privato. Ciò perché la repressione degli abusi edilizi costituisce un preciso obbligo dell'Amministrazione, la quale non gode di alcuna discrezionalità al riguardo, mentre l'interesse pubblico all'adozione della misura repressiva è in re ipsa e non abbisogna di puntuale esplicitazione. L'ordine di demolizione, in particolare, deve ritenersi sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera” (TAR Campania Napoli, Sez. III, 12.07.2011, n. 3720).
Nel caso di specie, il provvedimento impugnato espressamente riferisce che l’abuso riguarda un immobile di ben 160 metri quadrati realizzati in totale assenza di concessione edilizia, il che, alla stregua delle coordinate sopra ricordate, è più che sufficiente ad integrare una piena motivazione dell’ordine di demolizione.
Né alcuna valenza può essere data all’invocato lasso temporale, appena un anno e mezzo, trascorso tra la realizzazione dell’abuso e l’emanazione dell’ingiunzione impugnata.
Osserva il Collegio, in primo luogo, che in giurisprudenza non è affatto pacifica la configurabilità di un legittimo affidamento per protrazione temporale dell’illecito in materia di occupazioni abusive ed abusi edilizi, registrandosi numerosi ed autorevoli arresti secondo cui tali atti risultano dovuti in ogni caso ed a prescindere da qualsivoglia specifica motivazione delle ragioni di interesse pubblico e di prevalenza delle stesse sugli interessi del privato (C.d.S., Sez. V, 27.04.2011 n. 2497; .Cd.S., Sez. IV, 01.10.2007, n. 5049; C.d.S,. 10.12.2007, n. 6344; C.d.S., 31.08.2010, n. 3955; C.d.S., Sez. V, 07.09.2009, n. 5229).
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Ai sensi dell’art. 31, comma 3, del D.P.R. 281/2001, “se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune”; ai sensi del comma 4, poi, “l'accertamento dell'inottemperanza alla ingiunzione a demolire, nel termine di cui al comma 3, previa notifica all'interessato, costituisce titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente”.
L’acquisizione al patrimonio comunale, dunque, si verifica ope legis ed automaticamente, spirato il termine assegnato per la demolizione dell’opera abusiva (cfr TAR Campania Napoli, Sez. VII, 08.04.2011, n. 1999; TAR Lazio Roma, Sez. I, 07.03.2011, n. 2031; TAR Campania Napoli, Sez. VII, 03.11.2010, n. 22291; Cassazione penale, Sez. III, 17.11.2009, n. 2912; Consiglio di Stato, Sez. V, 18.12.2002 n. 7030; 02.01.2000 n. 341; 23.01.1991 n. 66), con la conseguenza che nessun margine di discrezionalità può al riguardo ravvisarsi in capo all’Amministrazione
(TAR Siclia-Palermo, Sez. III, sentenza 08.02.2012 n. 304 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe convenzioni urbanistiche hanno lo scopo di garantire che all’edificazione del territorio corrisponda, non solo l’approvvigionamento delle dotazioni minime di infrastrutture pubbliche, ma anche il suo equilibrato inserimento in rapporto al contesto di zona che, nell’insieme, garantiscano la normale qualità del vivere in un aggregato urbano discrezionalmente, e razionalmente, individuato dall’Autorità preposta alla gestione del territorio.
Ne consegue che una convenzione urbanistica ben può decidere la realizzazione di opere di rilievo urbanistico, anche non funzionali esclusivamente all’intervento permesso ai privati, ovvero può concordare il trasferimento della proprietà di beni: e ciò sia in sostituzione parziale o totale degli oneri d’urbanizzazione, sia quale strumento perequativo.
Il fatto poi che tali opere gravino economicamente sul privato, il quale abbia stipulato la stessa convenzione, non significa che ciò implichi la violazione delle norme che regolano la scelta dell’esecutore delle opere medesime.

Va ricordato che “Le convenzioni urbanistiche hanno lo scopo di garantire che all’edificazione del territorio corrisponda, non solo l’approvvigionamento delle dotazioni minime di infrastrutture pubbliche, ma anche il suo equilibrato inserimento in rapporto al contesto di zona che, nell’insieme, garantiscano la normale qualità del vivere in un aggregato urbano discrezionalmente, e razionalmente, individuato dall’Autorità preposta alla gestione del territorio" (C.d.S., sez. IV, 06.11.2009, n. 6947).
Ne consegue che una convenzione urbanistica ben può decidere la realizzazione di opere di rilievo urbanistico, anche non funzionali esclusivamente all’intervento permesso ai privati, ovvero può concordare il trasferimento della proprietà di beni: e ciò sia in sostituzione parziale o totale degli oneri d’urbanizzazione, sia quale strumento perequativo.
Il fatto poi che tali opere gravino economicamente sul privato, il quale abbia stipulato la stessa convenzione, non significa che ciò implichi la violazione delle norme che regolano la scelta dell’esecutore delle opere medesime (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 25.01.2012 n. 33 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl proprietario è, in via ordinaria, legittimato passivo dei provvedimenti e delle misure repressive per abusi edilizi verificatisi su immobili che ricadono nella sua sfera di signoria.
Ciò anche in considerazione del fatto che, secondo l'id quod plerumque accidit, si deve presumere che il proprietario sia anche il trasgressore quale primo interessato (acquisendone la proprietà per accessione) alle costruzioni erette sul proprio fondo che, ancorché concesso a terzi, resta pur sempre soggetto alla sua vigilanza ed al suo controllo. In ragione di ciò, il legislatore ha opportunamente previsto che l'ingiunzione a demolire un'opera abusiva –misura posta a presidio della preminente esigenze del ripristino dello status quo ante, da assicurare con tempestività ed effettività- debba essere adottata, anzitutto, nei confronti del proprietario dell'immobile (indipendentemente dal fatto che sia anche l’autore materiale del'abuso) anche perché lo stesso è in grado di ottemperare a tale ingiunzione.
Avuto riguardo alla descritta cornice giuridica di riferimento, deve rilevarsi la legittimità di un ordine di demolizione indirizzato nei soli confronti del proprietario, ove non siano immediatamente rinvenuti altri elementi utili alla identificazione (anche) del (diverso) responsabile dell'abuso, nel qual caso l'ingiunzione andrà indirizzata ad entrambi, come da lettera dell'art. 31, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001.
D’altro canto, avuto riguardo al caso di specie, l’affermata estraneità del ricorrente all’abuso in contestazione non può derivare, con la pretesa automaticità, dalla (sola) qualifica di nudo (com)proprietario del bene, dovendo siffatta conclusione, circa "…. la completa estraneità del proprietario al compimento dell'opera abusiva o che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento...", trovare conferma nel complesso delle circostanze di riferimento.
Perfino in ambito penale, la Corte di Cassazione ha in più occasioni precisato che l'accertamento della proprietà o della comproprietà da parte dell'imputato del suolo su cui sorge un manufatto abusivo costituisce un elemento di prova idoneo su cui il giudice di merito può fondare il proprio convincimento della partecipazione dell'imputato stesso all'attività edificatoria, in assenza di elementi negativi di prova dai quali possa desumersi che il proprietario (o il comproprietario) sia rimasto estraneo all'attività edilizia o in assenza di elementi di prova (ad esempio l'intestazione di fatture o bolle di accompagnamento) dai quali possa desumersi che detta attività sia ascrivibile in via esclusiva ad altri.
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La posizione del proprietario può ritenersi neutra rispetto alle sanzioni per abusi edilizi e, segnatamente, rispetto all'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene quando risulti "in modo inequivocabile la completa estraneità del proprietario al compimento dell'opera abusiva o che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento".
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L'ordinanza di demolizione, in quanto atto dovuto e rigorosamente vincolato, può dirsi sorretto da adeguata e autosufficiente motivazione, già solo rinvenibile nella compiuta descrizione delle opere abusive, nella constatazione della loro esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo edilizio e nell'individuazione della norma applicata, ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento.
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L'indicazione delle conseguenze dell'inottemperanza alla disposta ingiunzione a demolire, dacché concernente effetti automatici ex lege (ossia ex art. 31, comma 3, del d.p.r. 06.06.2001, n. 380), come tali presuntivamente conosciuti dai destinatari, non risulta riconducibile all'illustrato contenuto minimo necessario dell'ordinanza di demolizione e, pertanto, la sua omissione non è da considerarsi, di per sé, suscettibile di infirmare quest'ultima.
La giurisprudenza ha, infatti, condivisibilmente evidenziato che l'esatta determinazione delle aree cd. pertinenziali dovrà effettuarsi dopo l'accertamento dell'inottemperanza effettuato dal Comune.

Com’è noto, avuto riguardo al chiaro contenuto precettivo del comma II del d.p.r. 380/2001, il proprietario è, in via ordinaria, legittimato passivo dei provvedimenti e delle misure repressive per abusi edilizi verificatisi su immobili che ricadono nella sua sfera di signoria.
Ciò anche in considerazione del fatto che, secondo l'id quod plerumque accidit, si deve presumere che il proprietario sia anche il trasgressore quale primo interessato (acquisendone la proprietà per accessione) alle costruzioni erette sul proprio fondo che, ancorché concesso a terzi, resta pur sempre soggetto alla sua vigilanza ed al suo controllo. In ragione di ciò, il legislatore ha opportunamente previsto che l'ingiunzione a demolire un'opera abusiva –misura posta a presidio della preminente esigenze del ripristino dello status quo ante, da assicurare con tempestività ed effettività- debba essere adottata, anzitutto, nei confronti del proprietario dell'immobile (indipendentemente dal fatto che sia anche l’autore materiale del'abuso) anche perché lo stesso è in grado di ottemperare a tale ingiunzione.
Avuto riguardo alla descritta cornice giuridica di riferimento, deve rilevarsi la legittimità di un ordine di demolizione indirizzato nei soli confronti del proprietario, ove non siano immediatamente rinvenuti altri elementi utili alla identificazione (anche) del (diverso) responsabile dell'abuso, nel qual caso l'ingiunzione andrà indirizzata ad entrambi, come da lettera dell'art. 31, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001.
D’altro canto, avuto riguardo al caso di specie, l’affermata estraneità del ricorrente all’abuso in contestazione non può derivare, con la pretesa automaticità, dalla (sola) qualifica di nudo (com)proprietario del bene, dovendo siffatta conclusione, circa "…. la completa estraneità del proprietario al compimento dell'opera abusiva o che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento..." (Corte Costituzionale, 15.07.1991, n. 345), trovare conferma nel complesso delle circostanze di riferimento.
Perfino in ambito penale, la Corte di Cassazione ha in più occasioni precisato che l'accertamento della proprietà o della comproprietà da parte dell'imputato del suolo su cui sorge un manufatto abusivo costituisce un elemento di prova idoneo su cui il giudice di merito può fondare il proprio convincimento della partecipazione dell'imputato stesso all'attività edificatoria, in assenza di elementi negativi di prova dai quali possa desumersi che il proprietario (o il comproprietario) sia rimasto estraneo all'attività edilizia o in assenza di elementi di prova (ad esempio l'intestazione di fatture o bolle di accompagnamento) dai quali possa desumersi che detta attività sia ascrivibile in via esclusiva ad altri (cfr. sul punto Cass. Sent, 9168 23.05-24.08.2000 ric. Chiazza e altro).
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Secondo un indirizzo inaugurato dal Giudice delle leggi (cfr. Corte Costituzionale, 15.07.1991, n. 345), la posizione del proprietario può ritenersi neutra rispetto alle sanzioni per abusi edilizi e, segnatamente, rispetto all'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene quando risulti "in modo inequivocabile la completa estraneità del proprietario al compimento dell'opera abusiva o che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento..." (Corte Costituzionale, 15.07.1991, n. 345).
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Giova rammentare che l'ordinanza di demolizione, in quanto atto dovuto e rigorosamente vincolato, può dirsi sorretto da adeguata e autosufficiente motivazione, già solo rinvenibile nella compiuta descrizione delle opere abusive, nella constatazione della loro esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo edilizio e nell'individuazione della norma applicata, ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 30.05.2006, n. 3283; sez. VI, 25.08.2006, n. 4996; sez. IV, 14.05.2007, n. 2441; sez. IV, 06.06.2008, n. 2705; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 24.01.2008, n. 367; sez. VI, 09.01.2008, n. 49; sez. IV, 24.01.2008, n. 57; sez. VIII, 15.05.2008, n. 4556; sez. III, 05.06.2008, n. 5255; sez. IV, 08.07.2008, n. 7798; sez. VI, 14.07.2008, n. 8761; sez. IV, 04.08.2008, n. 9720; sez. II, 07.10.2008, n. 13456; sez. IV, 29.09.2008, n. 11820 sez. VI, 27.10.2008, n. 18243; sez. III, 04.11.2008, n. 19257; sez. IV, 28.11.2008, n. 20564; 02.12.2008, n. 20794; sez. VI, 17.12.2008, n. 21346; 23.02.2009, n. 1032; 25.02.2009, n. 1100; sez. IV, 06.03.2009, n. 1304; 24.03.2009, n. 1597; 18.06.2009, n. 3368; 26.06.2009, n. 3530; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 18.01.2008, n. 57; 19.02.2009, n. 1318; 09.03.2009, n. 1768; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 13.03.2008, n. 475; TAR Lazio, Roma, sez. II, 05.09.2008, n. 8117; 06.03.2009, n. 2358; TAR Liguria, Genova, sez. I, 21.04.2009, n. 781).
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... si rivela inconferente la doglianza con cui parte ricorrente si duole della mancata indicazione nel corpo del provvedimento impugnato delle aree pertinenziali da acquisire.
A tal riguardo, giova rimarcare che l'indicazione delle conseguenze dell'inottemperanza alla disposta ingiunzione, dacché concernente effetti automatici ex lege (ossia ex art. 31, comma 3, del d.p.r. 06.06.2001, n. 380), come tali presuntivamente conosciuti dai destinatari, non risulta riconducibile all'illustrato contenuto minimo necessario dell'ordinanza di demolizione e, pertanto, la sua omissione non è da considerarsi, di per sé, suscettibile di infirmare quest'ultima.
La giurisprudenza ha, infatti, condivisibilmente evidenziato che l'esatta determinazione delle aree cd. pertinenziali dovrà effettuarsi dopo l'accertamento dell'inottemperanza effettuato dal Comune (cfr. ex multis TAR Campania Napoli, sez. II, 14.02.2011, n. 922)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 23.01.2012 n. 315 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 40, l. 28.02.1985 n. 47 deve ritenersi dolosamente infedele l’istanza di condono di opere edilizie abusive che non contenga l’indicazione della data in cui l’abuso fu commesso, perché non consente la corretta applicazione della normativa in materia.
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La falsa attestazione dell’essere l’opera ultimata nel termine fissato dal legislatore integra una inesatta rappresentazione della realtà e, di conseguenza, configura un’ipotesi di domanda dolosamente infedele ai sensi dell’art. 40, l. 28.02.1985 n. 47.
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Con riguardo al condono edilizio, la data di acquisto dei materiali edili, comprovata dalle fatture, non può costituire elemento decisivo per dimostrare che l’opera sia stata ultimata entro una certa data (poiché non consente di escludere che essi siano stati utilizzati per completare le opere in data successiva).
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La dichiarazione sostitutiva di notorietà dell’intervenuta ultimazione delle opere entro la data di scadenza non ha alcuna valenza privilegiata. Ai fini della condonabilità delle opere abusive la stessa rappresenta solo un principio di prova potenzialmente idoneo e sufficiente a dimostrare la data di ultimazione delle opere.
Detta dichiarazione sostitutiva non preclude all’Amministrazione, in sede di esame della stessa, la possibilità di raccogliere nel corso del procedimento elementi a contrario e pervenire a risultanze diverse, senza che ciò faccia ricadere su quest’ultima l’onere di fornire la prova dell’ultimazione dei lavori in data successiva a quella dichiarata dall’interessato.
La prova sulla realizzazione delle opere abusive entro la data fissata grava sul richiedente la sanatoria, che può avvalersi -se non vi è contestazione- della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, ma a fronte di elementi di prova a disposizione dell’Amministrazione che attestino il contrario, il responsabile dell’abuso è gravato dall’onere di provare, attraverso elementi certi, quali fotografie aeree, fatture, sopralluoghi e così via, l’effettiva realizzazione dei lavori entro il termine previsto dalla legge per poter usufruire del beneficio, non potendo limitarsi a contestare i dati in possesso dell’Amministrazione senza fornire alcun elemento di prova a corredo della propria tesi, in quanto l’Amministrazione, in assenza di elementi di prova contrari, non può che respingere la domanda di sanatoria.

[ì] “Ai sensi dell’art. 40, l. 28.02.1985 n. 47 deve ritenersi dolosamente infedele l’istanza di condono di opere edilizie abusive che non contenga l’indicazione della data in cui l’abuso fu commesso, perché non consente la corretta applicazione della normativa in materia.” (Consiglio Stato, sez. IV, 18.06.2009, n. 4011);
[ìì] “La falsa attestazione dell’essere l’opera ultimata nel termine fissato dal legislatore integra una inesatta rappresentazione della realtà e, di conseguenza, configura un’ipotesi di domanda dolosamente infedele ai sensi dell’art. 40, l. 28.02.1985 n. 47.” (TAR Campania Napoli, sez. VI, 10.04.2009, n. 1944);
[ììì] “Con riguardo al condono edilizio, la data di acquisto dei materiali edili, comprovata dalle fatture, non può costituire elemento decisivo per dimostrare che l’opera sia stata ultimata entro una certa data (poiché non consente di escludere che essi siano stati utilizzati per completare le opere in data successiva).” (TAR Toscana, sez. III, 21.11.2005, n. 7020);
[ìv] “La dichiarazione sostitutiva di notorietà dell’intervenuta ultimazione delle opere entro la data di scadenza non ha alcuna valenza privilegiata. Ai fini della condonabilità delle opere abusive la stessa rappresenta solo un principio di prova potenzialmente idoneo e sufficiente a dimostrare la data di ultimazione delle opere.
Detta dichiarazione sostitutiva non preclude all’Amministrazione, in sede di esame della stessa, la possibilità di raccogliere nel corso del procedimento elementi a contrario e pervenire a risultanze diverse, senza che ciò faccia ricadere su quest’ultima l’onere di fornire la prova dell’ultimazione dei lavori in data successiva a quella dichiarata dall’interessato.
La prova sulla realizzazione delle opere abusive entro la data fissata grava sul richiedente la sanatoria, che può avvalersi -se non vi è contestazione- della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, ma a fronte di elementi di prova a disposizione dell’Amministrazione che attestino il contrario, il responsabile dell’abuso è gravato dall’onere di provare, attraverso elementi certi, quali fotografie aeree, fatture, sopralluoghi e così via, l’effettiva realizzazione dei lavori entro il termine previsto dalla legge per poter usufruire del beneficio, non potendo limitarsi a contestare i dati in possesso dell’Amministrazione senza fornire alcun elemento di prova a corredo della propria tesi, in quanto l’Amministrazione, in assenza di elementi di prova contrari, non può che respingere la domanda di sanatoria
.” (TAR Lazio Roma sez. II, 06.12.2010, n. 35404) (TAR Lazio-Latina, sentenza 23.01.2012 n. 42 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPoiché l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale è una sanzione prevista per l'ipotesi di inottemperanza all'ingiunzione di demolizione, essa si riferisce esclusivamente al responsabile dell'abuso e non può quindi operare nella sfera giuridica di altri soggetti e, in particolare, nei confronti del proprietario dell'area quando risulti, in modo inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento dell'opera abusiva o che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offerti dall'ordinamento.
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L’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive è atto dovuto, senza alcun contenuto discrezionale, avente natura meramente dichiarativa, subordinato unicamente all’accertamento dell’inottemperanza e del decorso del termine di legge fissato per la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi, che opera automaticamente con riguardo non solo all’opera abusiva ed all’area di sedime, ma anche alle pertinenze.
Ne consegue che esso è sufficientemente motivato con l’affermazione dell’abusività delle opere connessa alla loro realizzazione senza previo titolo autorizzatorio e dell’accertata inottemperanza, per cui non assume alcun rilievo il richiamo alla asserita edificabilità dell’area come anche il generico riferimento al fatto che analoghe opere abusive in aree limitrofe non sarebbero state sanzionate.

Secondo la giurisprudenza amministrativa anche di questa Sezione, “poiché l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale è una sanzione prevista per l'ipotesi di inottemperanza all'ingiunzione di demolizione, essa si riferisce esclusivamente al responsabile dell'abuso e non può quindi operare nella sfera giuridica di altri soggetti e, in particolare, nei confronti del proprietario dell'area quando risulti, in modo inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento dell'opera abusiva o che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offerti dall'ordinamento” ( TAR Campania Napoli, sez. II, 26.05.2004, n. 8998).
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Al riguardo giova osservare, peraltro, che l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive è atto dovuto, senza alcun contenuto discrezionale, avente natura meramente dichiarativa, subordinato unicamente all’accertamento dell’inottemperanza e del decorso del termine di legge fissato per la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi, che opera automaticamente con riguardo non solo all’opera abusiva ed all’area di sedime, ma anche alle pertinenze.
Ne consegue che esso è sufficientemente motivato con l’affermazione dell’abusività delle opere connessa alla loro realizzazione senza previo titolo autorizzatorio e dell’accertata inottemperanza, per cui non assume alcun rilievo il richiamo alla asserita edificabilità dell’area come anche il generico riferimento al fatto che analoghe opere abusive in aree limitrofe non sarebbero state sanzionate
(TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 20.01.2012 n. 308 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICILa dichiarazione di pubblica utilità discende dall’intervenuta efficacia della deliberazione di approvazione del progetto definitivo, senza peraltro che ciò consenta l’inizio delle opere, dal momento che lo stesso rimane comunque, sempre, subordinato all’intervenuta approvazione del progetto esecutivo. Né la sopravvenienza del progetto esecutivo può certamente qualificarsi come condizione di efficacia del progetto definitivo, del tutto autonomo, ancorché prodromico rispetto a quello esecutivo.
Al contrario, proprio la ratio della previsione della possibilità di collegare la dichiarazione di pubblica utilità all’approvazione del progetto definitivo può essere utile a stabilire il momento in cui essa diviene efficace. Essa è stata introdotta dal legislatore proprio per consentire all’ente espropriante -nelle more della definizione dei particolari tecnici delle opere da eseguire mediante la redazione del progetto esecutivo e a condizione che il progetto definitivo sia corredato di tutti i necessari pareri– di dare corso al procedimento per l’acquisizione delle aree, in modo tale da addivenire, una volta approvato il progetto esecutivo ed esperita la procedura di aggiudicazione dei lavori, alla pronta immissione nel possesso delle aree.
Del resto tra gli elaborati che debbono necessariamente comporre il progetto definitivo vi è anche il piano particellare d’esproprio e cioè quell’elaborato grafico e descrittivo che individua le aree interessate dalla localizzazione dell’opera e dalle conseguenti procedure di espropriazione e di occupazione. Appare quindi condivisibile l’affermazione secondo cui lo schema voluto dalla fondamentale legge n. 109/1994 sarebbe tale per cui è il progetto definitivo che determina la configurazione dell’opera.
Con l’esclusione del solo caso in cui le prescrizioni incidono sull’individuazione dell’area da espropriare, pertanto, appare del tutto improprio subordinare l’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità al rispetto delle prescrizioni imposte all’Amministrazione in sede di redazione del progetto esecutivo e tanto di più di quelle da rispettarsi in fase esecutiva dei lavori e di gestione dell’opera.

È lo stesso DPR 327/2001 (così come la previgente normativa) a prevedere che la dichiarazione di pubblica utilità discenda dall’intervenuta efficacia della deliberazione di approvazione del progetto definitivo, senza peraltro che ciò consenta l’inizio delle opere, dal momento che lo stesso rimane comunque, sempre, subordinato all’intervenuta approvazione del progetto esecutivo. Né la sopravvenienza del progetto esecutivo può certamente qualificarsi come condizione di efficacia del progetto definitivo, del tutto autonomo, ancorché prodromico rispetto a quello esecutivo.
Al contrario, proprio la ratio della previsione della possibilità di collegare la dichiarazione di pubblica utilità all’approvazione del progetto definitivo può essere utile a stabilire il momento in cui essa diviene efficace. Essa è stata introdotta dal legislatore proprio per consentire all’ente espropriante -nelle more della definizione dei particolari tecnici delle opere da eseguire mediante la redazione del progetto esecutivo e a condizione che il progetto definitivo sia corredato di tutti i necessari pareri– di dare corso al procedimento per l’acquisizione delle aree, in modo tale da addivenire, una volta approvato il progetto esecutivo ed esperita la procedura di aggiudicazione dei lavori, alla pronta immissione nel possesso delle aree.
Del resto tra gli elaborati che debbono necessariamente comporre il progetto definitivo vi è anche il piano particellare d’esproprio e cioè quell’elaborato grafico e descrittivo che individua le aree interessate dalla localizzazione dell’opera e dalle conseguenti procedure di espropriazione e di occupazione. Appare quindi condivisibile l’affermazione secondo cui lo schema voluto dalla fondamentale legge n. 109/1994 sarebbe tale per cui è il progetto definitivo che determina la configurazione dell’opera (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 01.05.2004 n. 2930; idem 29.05.2009 n. 3364).
Con l’esclusione del solo caso in cui le prescrizioni incidono sull’individuazione dell’area da espropriare, pertanto, appare del tutto improprio subordinare l’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità al rispetto delle prescrizioni imposte all’Amministrazione in sede di redazione del progetto esecutivo e tanto di più di quelle da rispettarsi in fase esecutiva dei lavori e di gestione dell’opera (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 16.01.2012 n. 109 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: E’ perseguibile penalmente chi installa condizionatori che disturbano la quiete condominiale?
Il rumore generato dal condizionatore ubicato in un condomino non può costituire reato.

Così si esprime la Corte di Cassazione in merito ad un procedimento penale a carico di un gioielliere che era stato condannato in base all’art. 659 del C. P. per disturbo della quiete pubblica.
In particolare, il negoziante aveva installato nel proprio negozio, ricadente all’interno di un condominio, un impianto di condizionamento.
I motori esterni molestavano i vicini che intraprendevano azione penale nei confronti del negoziante, in quanto il rumore generato avrebbe costituito fonte di disturbo e mancata tranquillità, superando i limiti previsti dalla norma.
Inizialmente condannato, il gioielliere viene poi assolto con formula piena dalla Corte di Cassazione, Sez. I penale, con sentenza 11.01.2012 n. 270, in quanto il fatto non costituisce reato.
Secondo la Cassazione il rumore prodotto dal condizionatore non è causa di disturbo della tranquillità pubblica, ma solo di un numero limitato di persone, appunto di alcuni condomini, ed è pertanto perseguibile solo civilmente e non penalmente (commento e sentenza tratti da www.acca.it).

COMPETENZE PROGETTUALINon rientra nelle competenze progettuali dei geometri l'incarico professionale per l’esecuzione dei rilievi topografici, delle indagini geognostiche, della progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva nonché del piano della sicurezza e di coordinamento relativamente ai lavori di riqualificazione di una strada provinciale.
... Il Collegio dei Geometri della Provincia di Cremona propone ricorso contro il bando di gara di conferimento dell’incarico professionale per l’esecuzione dei rilievi topografici, delle indagini geognostiche, della progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva nonché del piano della sicurezza e di coordinamento relativamente ai lavori di riqualificazione della S.P. n. 27 “Postumia”, mediante allargamento dalla progr. Km 12+885 (confine comunale tra Pieve S. Giacomo e Derovere) alla progr. Km 17+720, pubblicato dalla medesima Amministrazione provinciale.
Il gravame è limitato alla parte del bando in cui riserva la selezione ai soli laureati in ingegneria o architettura escludendo, di conseguenza, i geometri.
...
Per comprendere se l’opera possa rientrare o meno nelle competenze istituzionali dei geometri occorre esaminare la stessa nel suo complesso e non secondo la visione atomistica che analizza solo le sue singole componenti. Sotto quest’ultimo profilo potrebbe anche condividersi la conclusione secondo cui, ad esempio, i singoli manufatti in cemento armato (c.d. 9 ponti) costituirebbero opere di modesta rilevanza che, se collocati nel contesto delle strade vicinali (la cui progettazione, direzione, sorveglianza e liquidazione è espressamente contemplata dall’art. 16, comma 1, lett. l), del R.d. n. 274/1929), riterrebbero a pieno titolo nella competenza del geometra.
Nel caso in esame si tratta, tuttavia, di una porzione di strada provinciale che, da quanto emerge dalle relazioni tecniche in atti, sarà sottoposta ad un vero e proprio intervento di ristrutturazione da cui deriverà una strada sostanzialmente diversa (per dimensioni e caratteristiche) da quella esistente in vista dell’aumento di traffico cui è destinata: traffico che chiaramente non è circoscritto solo alla movimentazione dei mezzi agricoli o locali e saltuari spostamenti comportanti un limitato rischio per la pubblica incolumità.
Non può quindi essere condivisa la posizione espressa dal Collegio dei Geometri secondo cui il progetto si limiterebbe al semplice (e modesto) ampliamento (allargamento) senza che possa assumere significativa rilevanza l’intervento sulla parte esistente per raccordarla funzionalmente, strutturalmente e tecnicamente alla nuova costruzione (già comunque di per sé rilevante sviluppandosi per una lunghezza di circa 5 Km con opere d’arte ed accessorie).
Come ricordato in precedenza, l’art. 16, comma 1, lett. l), del R.d. n. 274/1929 attribuisce alla competenza piena del geometra solo le “strade vicinali” purché non contemplino “rilevanti opere d’arte”.
Le strade provinciali possono invece rientrare nell’ampio concetto di “strade ordinarie” che compare nella precedente lett. b) del citato art. 16.
In questo caso, tuttavia, le competenze del geometra sono limitate alle c.d. “operazioni di tracciamento” che non possono farsi coincidere con la completa redazione del progetto comprensiva della risoluzione di tutte le problematiche che possano sorgere al riguardo.
Dalla letteratura tecnica riguardante la teoria e la pratica delle costruzioni stradali emerge che le operazioni di “tracciamento” stradale riguardano essenzialmente la fase esecutiva dei lavori e costituiscono le operazioni preliminari cui seguono i movimenti di terra (scavi, trasporti e formazione rilevati), l’esecuzione delle pavimentazioni, la realizzazione delle opere d’arte (ponti, muri di sostegno, tombini, ecc.) e le opere di rifinitura.
In particolare il “tracciamento” consiste nella determinazione, sul terreno, del corpo stradale attraverso l’apposizione di tutti quei segnali concorrenti alla materiale esecuzione dell’opera (picchettatura planimetrica e altimetrica del tracciato e dei suoi tratti o parti caratteristiche come rettifili, curve, pendenze, scarpate, ecc.).
La progettazione integrale dell’opera in esame, data la sua dimensione e complessità, va quindi esclusa dalla competenza dei geometri così come disciplinata dal relativo ordinamento professionale di cui al R.d. n. 274/1929.
Ad analoga a conclusione deve giungersi anche con riferimento alle disposizioni contenute nell’art. 57 della Legge 02.03.1949 n. 144 recante approvazione della relativa tariffa.
Al riguardo deve escludersi la natura complessivamente innovativa della stessa per quanto concerne la determinazione delle competenze (cfr., ad esempio per le opere in c.a., Cassazione civile, Sez. II, 22.10.1997, n. 10365; TAR Valle d'Aosta, 23.08.1993, n. 96).
La circostanza che al richiamato art. 57 –voci E) ed F) della Categoria II– siano citate genericamente le “costruzioni stradali” non significa che la tariffa professionale abbia voluto eliminare i limiti già contenuti nell’art. 16 del R.d. n. 274/1929: limiti chiaramente introdotti con riferimento alla tipologia di strada in esame (più contenuti per strade, come le vicinali che non abbiano rilevanti opere d’arte, dove il pericolo per la pubblica incolumità è inferiore e limiti più rilevanti dove tale pericolo è obiettivamente maggiore come per le strade ordinarie) (TAR Lombardia-Brescia, sentenza 23.07.2007 n. 630 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEAi fini dell’identificazione del soggetto passivo del rapporto espropriativo hanno rilievo decisivo e pressoché assorbente le risultanze catastali, ancorché divergenti rispetto all’effettiva situazione proprietaria del bene, ciò perché vi è la necessità di ancorare il procedimento di esproprio ad un dato certo e documentale, esonerando l’amministrazione e l'espropriante da incerti e complessi accertamenti circa l'effettiva appartenenza del bene e svincolando la procedura da successive vicende di variazione della proprietà dei beni.
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L’obbligo della comunicazione dell'avvio del procedimento è, invero, preordinato non solo ad un ruolo difensivo, ma anche alla formazione di una più completa, meditata e razionale volontà dell'Amministrazione; mediante tale comunicazione si mira, quindi, ad attuare una democratizzazione ed una trasparenza nell'esercizio dell'attività pubblica al fine di consentire, per il tramite del principio del contraddittorio, una efficace tutela delle ragioni del cittadino e contestualmente di apprestare a vantaggio dell'Amministrazione elementi di conoscenza utili nell'esercizio dei poteri discrezionali.
In altri termini, la facoltà dei privati interessati di proporre osservazioni e controdeduzioni ed il conseguente obbligo dell'Amministrazione di pronunziarsi motivatamente sulle medesime a conclusione di una vera e propria fase del procedimento svolta in contraddittorio sono intesi ad offrire elementi di valutazione non marginali ai fini del buon andamento e funzionalità dell'azione amministrativa; siffatte finalità sono certamente frustate ove, come nella specie, gli interessati vengono portati a conoscenza dell'opera pubblica quando il relativo progetto è stato già definito in tutte le sue componenti, per cui viene precluso ai medesimi di apportare alcun contributo.

Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente lamenta di non avere ricevuto il previo avviso di avvio del procedimento nonostante fosse proprietaria dell’area intersecata dal progetto approvato e destinata all’espropriazione.
La censura, come già rilevato in sede cautelare, è fondata, atteso che la Sig.ra Chiumiento, pur risultando intestataria catastale della particella (foglio 11, 867) interessata dal procedimento ablatorio, non ha ricevuto la previa comunicazione di avviso di avvio del procedimento, che, a norma dell’art. 16, comma 4, del d.P.R n. 327/2001 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), deve precedere l’approvazione del progetto valevole quale dichiarazione di pubblica utilità ed urgenza.
Va peraltro precisato che ai fini dell’identificazione del soggetto passivo del rapporto espropriativo hanno rilievo decisivo e pressoché assorbente le risultanze catastali, ancorché divergenti rispetto all’effettiva situazione proprietaria del bene, ciò perché vi è la necessità di ancorare il procedimento di esproprio ad un dato certo e documentale, esonerando l’amministrazione e l'espropriante da incerti e complessi accertamenti circa l'effettiva appartenenza del bene e svincolando la procedura da successive vicende di variazione della proprietà dei beni (Consiglio di stato, sez. VI, 02.05.2006, n. 2423).
Dagli atti di causa emerge che in data 19.07.1991 veniva stipulato atto di donazione tra il proprietario esclusivo dell’area Sig. Chiumiento Antonio e la di lui figlia Sig.ra Chiumiento Maria Giuseppa, con riserva di usufrutto a favore del primo. Orbene la ricorrente figura nella certificazione catastale in atti con effetti a decorrere dalla ridetta data del 19.07.1991, epoca cui risale l’atto di donazione stipulato in suo favore e regolarmente corredato di nota di trascrizione. In contrasto con le predette risultanze, è stato il solo Sig. Chiumiento a ricevere comunicazione dell’avviso procedimentale di cui alla nota prot. n. 40991 del 03.11.2005, a seguito della quale rivolgeva peraltro articolate osservazioni all’Amministrazione (che le respingeva con la nota prot. n. 45518 del 05.12.2005).
Il difetto del previo contraddittorio procedimentale non può non avere patologica ricaduta sulla legittimità degli atti afferenti al procedimento ablatorio attivato nei riguardi della ricorrente. Difatti la giurisprudenza ha costantemente rimarcato l’importanza della partecipazione procedimentale nella specifica materia, osservando che "l’obbligo della comunicazione dell'avvio del procedimento è, invero, preordinato non solo ad un ruolo difensivo, ma anche alla formazione di una più completa, meditata e razionale volontà dell'Amministrazione; mediante tale comunicazione si mira, quindi, ad attuare una democratizzazione ed una trasparenza nell'esercizio dell'attività pubblica al fine di consentire, per il tramite del principio del contraddittorio, una efficace tutela delle ragioni del cittadino e contestualmente di apprestare a vantaggio dell'Amministrazione elementi di conoscenza utili nell'esercizio dei poteri discrezionali.
In altri termini, la facoltà dei privati interessati di proporre osservazioni e controdeduzioni ed il conseguente obbligo dell'Amministrazione di pronunziarsi motivatamente sulle medesime a conclusione di una vera e propria fase del procedimento svolta in contraddittorio sono intesi ad offrire elementi di valutazione non marginali ai fini del buon andamento e funzionalità dell'azione amministrativa; siffatte finalità sono certamente frustate ove, come nella specie, gli interessati vengono portati a conoscenza dell'opera pubblica quando il relativo progetto è stato già definito in tutte le sue componenti, per cui viene precluso ai medesimi di apportare alcun contributo
" (cfr. Consiglio di stato, Sez. IV, 13.12.2001, n. 6238, riportata da TAR Puglia Bari, sez. II, 17.02.2005, n. 594)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 26.04.2007 n. 457 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALILa progettazione delle opere viarie, idrauliche ed igieniche, che non siano strettamente connesse con i singoli fabbricati, è di pertinenza degli ingegneri.
Ed è ugualmente irrilevante il fatto che il progetto sia stato firmato da un architetto che ricopre la qualifica di responsabile dell'ufficio tecnico poiché lo stesso TUEL, all’art. 109 d.lgs. 18.08.2000 n. 267, prevede che “gli incarichi dirigenziali sono conferiti … secondo criteri di competenza professionale”.

Con il secondo motivo, si denuncia l’incompetenza del tecnico firmatario del progetto, stante il divieto normativo imposto agli architetti di elaborare progettazioni di opere viarie non connesse con opere di edilizia civile.
Anche tale censura è fondata.
Invero, è da ritenere tuttora persistente la ripartizione di competenze professionali tra ingegneri ed architetti sancita dagli art. 51 e 52, r.d. 23.10.1925 n. 2537, come confermato dall’art. 1, comma 2, d.lgs. 27.01.1992 n. 129 di attuazione, tra l’altro, della direttiva 85/384/Cee (TAR Lombardia Brescia, 24.08.2004, n. 925).
Tali norme, emanate in sede di approvazione del regolamento per le professioni d’ingegnere e di architetto, in particolare riservano alla competenza comune di architetti ed ingegneri le sole opere di edilizia civile, mentre attribuiscono alla competenza generale degli ingegneri, quelle concernenti: le costruzioni stradali, le opere igienico sanitarie (depuratori, acquedotti, fognatura e simili), gli impianti elettrici, le opere idrauliche, le operazioni di estimo, l’estrazione di materiali, le opere industriali; ferma rimanendo per i soli architetti, la competenza in ordine alla progettazione delle opere civili che presentino rilevanti caratteri artistici e monumentali (art. 52, 2° comma, cit., che conserva però alla concorrente competenza degli ingegneri, secondo la regola generale, la parte tecnica degli interventi costruttivi de quibus).
Da ciò discende la regola, frutto dell’interpretazione sistematica e teleologica degli artt. 51, 52 e 54 del r.d. 23.10.1925, n. 2537 e pacificamente accolta nella giurisprudenza di seconde cure, secondo cui la progettazione delle opere viarie, idrauliche ed igieniche, che non siano strettamente connesse con i singoli fabbricati, sia di pertinenza degli ingegneri (cfr. sez. V, 06.04.1998, n. 416; sez. IV, 19.02.1990, n. 92; sez. III, 11.12.1984, n. 1538).
Calando la regola nel caso concreto se ne ravvisa la violazione, atteso che l’intervento progettato dalla resistente Amministrazione consiste proprio in un’opera esclusivamente stradale, che difatti prevede la realizzazione di “circa 1.000 mq. di superfici viarie, e 500 mq di pertinenze stradali” (cfr. B.1. del progetto definitivo–esecutivo), da collocare peraltro all’esterno del centro urbano di Capaccio (oltre che di Laura) e pertanto da ritenere non connessa con l’edilizia civile. Ne consegue che l’intervento ricade nella esclusiva competenza professionale propria degli ingegneri, quando invece il progettista (dott. Arch. Rodolfo Sabelli) risulta avere, come denunciato, il titolo di architetto.
A nulla rileva, ad onta di quanto argomentato dalla Difesa tecnica dell’Amministrazione in sede di memoria di costituzione, che il predetto ha svolto la sua attività progettuale nella veste di Responsabile del Settore IV competente per materia (“Lavori Pubblici – Espropri – Manutenzione – Vigilanza – Servizi Tecnologici – Cimitero – Informatica”), in quanto la censura in esame involge la verifica della competenza professionale di chi ha elaborato il progetto invece che la legittimazione a rappresentare la volontà dell’Ente all’esterno attraverso l’adozione di atti o provvedimenti, tant’è che lo stesso TUEL, all’art. 109 d.lgs. 18.08.2000 n. 267, prevede che “gli incarichi dirigenziali sono conferiti … secondo criteri di competenza professionale”.
Per altro verso, nemmeno risulta dagli atti di causa che l’elaborato progettuale abbia superato il vaglio di altri Uffici tecnicamente qualificati, eventualmente di appartenenza statale come la Soprintendenza, legittimati ad esaminare anche la professionalità del progettista
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 26.04.2007 n. 457 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 20.04.2012

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GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 16 del 20.04.2012, "Misure per la crescita, lo sviluppo e l’occupazione" (L.R. 18.04.2012 n. 7).
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Di particolare interesse risultano i seguenti articoli:
● Art. 16 - Modifiche all’articolo 10 della l.r. 21/2008. Sale cinematografiche;
● Art. 17 - Disciplina dei titoli edilizi di cui all’articolo 27, comma 1, lettera d), della l.r. 12/2005 a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 309/2011;
● Art. 18 – Modifica all’art. 51 della l.r. 12/2005;
● Art. 19 - Disposizioni in materia di semplificazione urbanistico-edilizia;
● Art. 20 - Interventi in materia di patrimonio pubblico. Modifiche alla l.r. 36/1994;
● Art. 21 - Inserimento dell’articolo 95-bis nella l.r. 12/2005. Disposizioni per agevolare la valorizzazione di immobili comunali;
● Art. 28 - Modifiche al Titolo III della l.r. 26/2003 - Infrastrutture per la distribuzione di energia elettrica;
● TITOLO V - Interventi per il governo del sottosuolo e per la diffusione sul territorio regionale della banda ultra-larga (artt. 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 46.

SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: LA CONTRATTAZIONE INTEGRATIVA NEL PUBBLICO IMPIEGO:
● la disciplina della contrattazione integrativa nel d.lgs. 165 del 2001;
● misurazione, valutazione e trasparenza della performance  e merito e premi nel d.lgs. 150 del 2009;
● le modifiche ed integrazioni al d.lgs. 150 del 2009 introdotte dal d.lgs. 141 del 2011
(CGIL-FP di Bergamo, nota aprile 2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Passaggio di dipendenti per effetto di trasferimento di attività - Art. 31 D.Lgs. 165/2001 (CGIL-FP di Bergamo, nota 17.04.2012).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

URBANISTICA: L. Spallino, Approvazione dei PGT in Lombardia: nessuna proroga (link a http://studiospallino.blogspot.it).

APPALTI: I. Filippetti, Irregolarità del DURC e intervento sostitutivo della stazione appaltante (link a www.diritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: S. Quinzone Garofalo, Dal codice di comportamento dei dipendenti pubblici al codice disciplinare dei ccnl: competenze e responsabilità dei dirigenti scolastici (link a www.diritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L. Beccarini, LA PRESCRIZIONE DELLA RESPONSABILITÀ PER IL DANNO ERARIALE INDIRETTO: L'ULTIMO ORIENTAMENTO DELLA CORTE DEI CONTI - Il dies a quo della prescrizione dell'azione di responsabilità per il risarcimento del danno c.d. indiretto va individuato nella data di emissione del titolo di pagamento al terzo danneggiato (Gazzetta Amministrativa n. 1/2012 - link a www.gazzettaamministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: A. Cordasco, ACCESSO AI DOCUMENTI DA PARTE DI UN CONSIGLIERE COMUNALE/PROVINCIALE - Ipotesi di danno erariale (Gazzetta Amministrativa n. 1/2012 - link a www.gazzettaamministrativa.it).

ENTI LOCALI: E. Lori, LA DISCIPLINA DELLA TRACCIABILITÀ DEI FLUSSI FINANZIARI - Gli obblighi di tracciabilità dei flussi di pagamento derivanti dagli appalti pubblici introdotti dalla l. 13.08.2010, n. 136 (così come modificata dalla l. 17.12.2010, n. 217, di conversione del d.l. 12.11.2010, n. 187) alla luce delle determinazioni interpretative ed esplicative dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (Gazzetta Amministrativa n. 2/2011 - link a www.gazzettaamministrativa.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMobilità.
La Corte dei Conti Sez. Reg.le Lombardia, con il parere 04.04.2012 n. 116, risponde ad un ente che chiede di poter assumere con mobilità superando così il range disponibile per garantire il rispetto del tetto alla spesa del personale dell'ultimo anno precedente e precisa di non aver rispettato il patto di stabilità negli anni 2009 e 2010. La Sezione:
- riguardo al primo aspetto, ribadisce gli orientamenti consolidati secondo i quali il trasferimento per mobilità non deve essere utilizzato per consentire l'instaurazione di nuovi rapporti di lavoro oltre i limiti numerici e di spesa previsti dalla disciplina vigente (Lombardia/904/2010 PAR del 29.09.2010; Sezione delle Autonomie n. 21/2009 del 27.11.2009 e parere n. 4 della Presidenza del Consiglio dei Ministri in data 19.03.2010)
- sulla seconda questione (riferimento all'esercizio precedente in ordine al rispetto del patto di stabilità), precisa "...., in mancanza di riferimenti puntuali circa le misure adottate nel 2011 per sanare le sanzioni derivanti dal mancato rispetto del patto di stabilità negli anni 2009 e 2010 ed anche per rimanere rigorosamente nell'ambito delle competenze di questa Sezione, ......, non rimane che affermare un principio di carattere generale, secondo il quale il riferimento all'esercizio precedente non può essere considerato isolato rispetto al comportamento complessivo dell'ente locale, la cui azione deve tendere, secondo le intenzioni del legislatore, a mantenere o a riportare le spese entro i parametri stabiliti.
Il riferimento all'anno precedente, pertanto, appare legittimo solo se in tale anno sono state scontate le sanzioni derivanti dalle violazioni del patto di stabilità effettuate negli anni precedenti. E' poi opportuno ricordare che, in ogni caso, persiste il limite del 20% relativo al tetto di spesa rispetto alle cessazioni avvenute nell'anno precedente
" (tratto da www.publika.it).

SEGRETARI COMUNALI: Corte dei conti. Compensi dei segretari. Irap a carico dell'ente nei diritti di rogito.
Nei diritti di rogito da corrispondere ai segretari comunali e provinciali non si devono calcolare né l'Irap né gli oneri previdenziali: questi costi devono essere sostenuti dalle amministrazioni e sono finanziati dalla quota dei diritti che queste incamerano.

Sono le chiare indicazioni fornite dalla sezione regionale di controllo della Corte dei Conti della Sardegna, parere 29.03.2012 n. 27, in risposta alla richiesta del comune di Capoterra.
Il parere rigetta completamente le tesi sostenute dalla Ragioneria generale dello Stato, che sostiene invece l'inclusione degli oneri Irap e di quelli previdenziali in questi compensi, determinando così una riduzione assai significativa del netto da corrispondere ai segretari.
Ovviamente, non si può dire che nessuna delle due tesi prevalga sull'altra, ma sicuramente la richiesta di restituzione avanzata dagli ispettori è fortemente ridimensionata e non si può in ogni caso parlare di condotta ispirata a colpa grave nel caso di maturazione di responsabilità amministrativa, perché c'è -quanto meno- una incertezza interpretativa, elemento che per la giurisprudenza consolidata della Corte dei Conti determina il maturare di una esimente alla maturazione di questo requisito psicologico.
Alla base del parere dei giudici contabili isolani, c'è la considerazione che gli oneri previdenziali, ovviamente parliamo della quota sostenuta dall'ente perché è pacifico che la quota a carico del dipendente debba essere defalcata, possono essere sostenuti dai dipendenti solamente in presenza di una esplicita previsione legislativa, come per esempio è dettata per i dipendenti degli uffici tecnici e per gli avvocati. Il principio di carattere generale pone questi oneri a carico del datore di lavoro ed è dettato dalla legge 335/1995. Da qui la conclusione che «non è possibile applicare analogicamente ai segretari comunali la disciplina che è stata prevista dal legislatore solo per gli onorari professionali dei legali pubblici e per gli incentivi del personale tecnico dipendente delle pubbliche amministrazioni».
Le stesse argomentazioni si ritrovano anche per l'Irap: «in assenza di specifica normativa di segno contrario, non si ravvisano ulteriori ragioni per le quali si debba o si possa porre a carico dei segretari comunali il pagamento dell'Irap sui diritti di rogito, valendo anche per essi l'essenziale considerazione che tale onere grava sul titolare dell'attività produttiva che è, appunto, l'amministrazione presso la quale prestano servizio» (articolo Il Sole 24 Ore del 16.04.2012 - tratto da www.corteconti.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Compensi avvocatura e incentivi progettazione.
La Corte dei Conti Sez. Reg.le Umbria, con il parere 17.01.2012 n. 3, risponde ai seguenti due quesiti del Comune di Gualdo Tadino:
- "...se i compensi in favore dell'avvocato comunale/provinciale, non derivanti da condanna alle spese della controparte, possano ritenersi esclusi dal tetto di cui all'art. 9, comma 2-bis, del citato D.L. 31.05.2010, n. 78 ......"
- ".....se gli incentivi per la progettazione possono essere corrisposti al responsabile del procedimento anche qualora la progettazione, il piano della sicurezza, la direzione lavori ed il collaudo siano stati effettuati da professionisti esterni".
La Sezione richiama gli indirizzi espressi dalle Sezioni Riunite con la deliberazione n. 51/2011 nonché la normativa recata dal Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 163/2006) all'art. 92, comma 5; ricorda altresì i pareri espressi dall'AVCP e, conclusivamente, esprime i seguenti avvisi:
- "Il Collegio ritiene, ....., che i compensi in favore dell'avvocato comunale/provinciale, non derivanti da condanna alle spese della controparte, debbano essere assoggettati al vincolo imposto dall'art. 9, comma 2-bis, del D.L. 78/2010, poiché si tratta di compensi che non trovano altra fonte di finanziamento (come avviene in caso di condanna alle spese di lite in favore del comune) diversa dal fondo per la contrattazione integrativa, incidendo pertanto sugli equilibri di bilancio dell'ente."
- "... tranne che nelle ipotesi (eccezionali) in cui anche la funzione di responsabile del procedimento venga attribuita ad un soggetto esterno, al responsabile del procedimento -appartenente (di norma) all'apparato organico dell'ente affidatario, e sempre che siano state effettivamente esercitate le funzioni attribuite dall'ordinamento- deve essere riconosciuto il diritto ad una quota parte dell'incentivo di progettazione anche in caso di affidamento a professionisti terzi della progettazione, della redazione del piano della sicurezza, della direzione dei lavori o del collaudo".
Infine, ricorda che in materia di lavori pubblici sussiste una competenza consultiva generale in capo all'Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici di lavori, servizi e forniture, che si è più volte occupata anche di questioni inerenti la corresponsione dell'incentivo per la progettazione ed alla quale vanno rivolte le richieste di parere in detta materia, al fine di evitare possibili interferenze con la funzione consultiva della Corte che, invece, si esplica nelle specifiche materie di contabilità pubblica (link a www.publika.it).

QUESITI & PARERI

LAVORI PUBBLICI: Appalto di manodopera e servizi. Contratto di nolo a caldo: è applicabile la responsabilità solidale dell'appalto?
Domanda.
E' possibile applicare il regime solidaristico previsto in materia di appalto anche alla fattispecie del "nolo a caldo"?
Risposta
Prima di rispondere al presente quesito è necessario inquadrare la fattispecie in oggetto. Si tratta, infatti, di una figura contrattale atipica, diffusa nella prassi commerciale, avente ad oggetto il noleggio ovvero la concessione in uso di un macchinario.
In assenza di una definizione legale, la fattispecie de qua viene inquadrata, dalla giurisprudenza, nell'ambito della disciplina civilistica del contratto di locazione e viene distinta tra le due tipologie del "nolo a caldo", caratterizzato dalla messa a disposizione di un bene, da parte del noleggiante, con il relativo personale, addetto alla manovra ed al funzionamento del mezzo e del "nolo a freddo" col quale si intende la mera locazione del macchinario.
Dalla definizione di cui sopra, appare evidente che nel nolo il locatore mette a disposizione solo il macchinario ed eventualmente, l'addetto al suo utilizzo, senza alcuna ingerenza nella attività produttiva e nell'organizzazione aziendale del noleggiatore.
Fatta tale premessa, si evince che il nolo a caldo è cosa ben diversa dall'appalto o subappalto dove, invece, i soggetti si obbligano nei confronti del committente al compimento di un'opera o di un servizio, organizzando i mezzi di produzione e l'attività lavorativa per il raggiungimento di un risultato autonomo produttivo.
Pertanto, stante la definizione di cui sopra, pare potersi affermare che la disciplina in materia di responsabilità solidale è evidentemente legata alla figura dell'appalto e non a quella del nolo a caldo (ferma restando la responsabilità connessa con l'utilizzo non corretto di tale strumento contrattuale): ciò è stato recentemente ribadito sia dal Ministero del lavoro, con la Risp. Interp. del 27.01.2012 n. 2, sia dalla giurisprudenza, con la sentenza della Cass. Pen. 09.01.2012 n. 109, la quale, in linea con l'orientamento espresso anche dal Ministero del lavoro ha affermato che la posizione giuridica del titolare dell'impresa che noleggia il macchinario non è assimilabile né a quella di un appaltatore né a quella di un subappaltatore non avendo alcun coinvolgimento diretto nelle attività.
Di conseguenza, in risposta al presente quesito, viste le differenze tra le due fattispecie contrattuali, pare potersi affermare che non è possibile estendere il regime solidaristico previsto per la fattispecie dell'appalto anche a quella del nolo a caldo.
Tuttavia, è opportuno sottolineare come esista un importante indirizzo giurisprudenziale volto ad estendere quanto più possibile il regime solidaristico in ragione di una maggior tutela per i lavoratori interessati. In merito, si segnala, infatti:
- Cass. n. 6208/2008, la quale non ha escluso la possibilità di applicare la solidarietà nei rapporti tra un consorzio e imprese consorziate assegnatarie dei lavori sia pur in assenza di un vero e proprio contratto di subappalto;
- Trib. Bologna, 22.11.2009, secondo cui la fattispecie del nolo a caldo e dell'appalto dei servizi possono essere assimilate, sussistendo la stessa ratio di tutela del lavoratore dipendente dell'impresa effettivamente operante (16.04.2012 - tratto da www.ipsoa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Quali saranno le nuove condizioni di stoccaggio del mercurio metallico? (16.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Come avviene la gestione integrata dei rifiuti urbani all’indomani della liberalizzazione? (16.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Un intermediario che organizza una spedizione transfrontaliera di rifiuti può astenersi dal divulgare l’identità del produttore? (16.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Il deposito temporaneo in agricoltura è semplificato? (16.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Il trasporto transfrontaliero dei rifiuti: semplificazione o complicazione? (16.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Quale è il termine di prescrizione dell’illecito amministrativo? Quale è il termine entro il quale l’amministrazione deve contestare l’illecito? (16.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Le imprese sono esenti dal pagamento del contributo SISTRI per il 2012? (16.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: In quali casi la mancata notifica del verbale di accertamento produce l’estinzione dell’obbligazione di pagare la sanzione pecuniaria ex art. 14 L. n. 689/1981? (16.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Nel caso in cui manchi una delega di funzioni formale, la responsabilità degli atti compiuti sarà trasferita in capo al preposto? (16.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Chi è obbligato a tenere il registro di carico/scarico? (16.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rimozione rifiuti abbandonati.
DOMANDA.
Il sindaco del mio comune ha emesso a mio carico, proprietario di un terreno, un'ordinanza per la rimozione di rifiuti abbandonati su detto terreno a mia insaputa. L'accertamento comunale è avvenuto in assenza di contraddittorio. È legittima una tale ordinanza?
RISPOSTA.
La Corte di cassazione, sezioni unite civili, con la sentenza del 25.02.2009, numero 4472, ha affermato che «in tema di abbandono di rifiuti la responsabilità solidale del proprietario o del titolare di diritti personali o reali di godimento sull'area ove sono stati abusivamente abbandonati o depositati i rifiuti solo in quanto la violazione sia agli stessi imputabile a titolo di dolo o colpa, va inteso, per le esigenze di tutela ambientale, in senso lato comprendendo, quindi, qualunque soggetto che si trovi con l'area interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli –e per ciò stesso imporgli– di esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che l'area medesima possa essere adibita a discarica abusiva». «Il requisito della colpa, aggiungono i Supremi giudici, postulato da tale norma può ben consistere nell'omissione delle cautele e degli accorgimenti che l'ordinaria diligenza suggerisce ai fini di un'efficace custodia». I suddetti principi sono stati confermati dal Consiglio di stato, sezione VI, con la sentenza numero 84, del 13.01.2010.
L'articolo 192 del decreto legislativo numero 152, del 03.04.2006, dispone che l'obbligo di procedere alla rimozione dei rifiuti può gravare, in solido con il responsabile, anche a carico del proprietario del sito e del titolare di diritti reali o personali di godimento relativi ad esso, solo se tale violazione sia anche a loro imputabile a titolo di dolo o di colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai preposti al controllo.
Il Tribunale regionale amministrativo (Tar), Sicilia, sezione I, con la sentenza del 26.01.2011, numero 127, ha affermato che «è illegittima, per violazione dell' articolo 192, comma 3, del decreto legislativo numero 152, del 03.04.2006, l'ordinanza sindacale di rimozione e smaltimento di rifiuti abbandonati emessa nei confronti della proprietà delle aree senza che ne sia stata preventivamente accertata la responsabilità, anche a titolo di colpa, in contraddittorio con la stessa». Difatti il contraddittorio con il proprietario dell'area interessata per i rifiuti abbandonati, o con il titolare di diritti reali o di godimento sulle aree stesse, consente alla parte di apportare elementi idonei a sua discolpa ed al comune di entrare in possesso degli elementi atti ad attribuire la responsabilità, nel caso, a titolo di colpa o di dolo.
Con l'articolo 192, citato, il legislatore, ha previsto un tipo di accertamento dal contenuto peculiare perché disciplina un compartecipazione al procedimento amministrativo, avente ad oggetto anche la verifica dell'eventuale colpa o dolo della parte privata, e non si limita a consentire e tutelare la mera partecipazione al procedimento amministrativo. Per cui, per i giudici siciliani, non può essere applicato, nella fattispecie, l'articolo 21-octies della legge numero 241, del 1990, che salva tutti i provvedimenti emanati dalla pubblica amministrazione nonostante il mancato invio dell'avviso di apertura del relativo procedimento, in tutti i casi in cui il provvedimento medesimo non potrebbe essere di diverso contenuto (articolo ItaliaOggi Sette del 16.04.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Responsabilità dell'inquinatore.
DOMANDA.
In che rapporto sono la responsabilità dell'inquinatore e la responsabilità del proprietario del fondo inquinato?
RISPOSTA.
Il Tribunale regionale amministrativo (Tar), Piemonte, sezione II, con la sentenza dell'11.02.2011, numero 136, affrontando il tema della responsabilità dell'inquinatore e quella del proprietario del fondo inquinato, ha affermato che le due responsabilità si basano su due presupposti giuridici diversi e che le stesse hanno una differente natura. Infatti, per i giudici amministrativi piemontesi, la responsabilità dell'autore dell'inquinamento costituisce, ai sensi dell'articolo 17, comma 2, del decreto legislativo 05.02.1997, numero 22, (ora, articolo 242 del decreto legislativo 03.04.2006, numero 152), una vera e propria responsabilità oggettiva per gli obblighi di bonifica, messa in sicurezza e ripristino ambientale.
La responsabilità del proprietario del fondo, invece, sempre per il Tribunale regionale amministrativo (Tar), Piemonte, è connessa all'onere reale e si qualifica come responsabilità da «posizione» svincolata dai profili soggettivi del dolo e della colpa. Inoltre, essa, per i suddetti giudici, non richiede nemmeno l'apporto causale del proprietario responsabile del superamento o pericolo di superamento dei valori limite di contaminazione.
Il Tribunale regionale amministrativo (Tar), Roma, Lazio, sezione I, con la sentenza del 14.03.2011, numero 2263, ha sentenziato che il proprietario dell'immobile, anche se incolpevole, non è immune da ogni coinvolgimento nella procedura relativa ai siti contaminati e dalle conseguenze della constata contaminazione. Infatti, per il predetto tribunale, il proprietario del bene contaminato, pur senza una sua responsabilità, viene coinvolto, in definitiva, in obbligazioni risarcitorie conseguenti l'inquinamento, per il solo fatto di essere proprietario di detto bene. Pertanto, esso, sempre per i giudici amministrativi romani, può essere reso destinatario di un obbligo di attuare i necessari interventi, che la pubblica amministrazione ha l'obbligo di individuare, fatta salva la successiva rivalsa nei confronti del responsabile.
È da dire, però, che l'articolo 245, del decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, statuisce che: «Fatti salvi gli obblighi del responsabile della potenziale contaminazione di cui all'articolo 242, il proprietario o il gestore dell'area che rilevi il superamento o il pericolo concreto e attuale di superamento della “concentrazione soglia di contaminazione (Csc)” deve darne comunicazione alla regione, alla provincia, ed al comune territorialmente competenti e attuare le misure di prevenzione secondo la procedura di cui all'articolo 242. La provincia, una volta ricevute le comunicazioni di cui sopra, si attiva, sentito il comune, per l'identificazione del soggetto responsabile al fine di dar corso agli interventi di bonifica. È comunque riconosciuta al proprietario o ad altro soggetto interessato la facoltà di intervenire in qualunque momento volontariamente per la realizzazione degli interventi necessari nell'ambito del sito in proprietà o disponibilità».
Peraltro, per il disposto dell'articolo 253, del decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, il proprietario, privo di colpa, è tenuto a rimborsare i costi sostenuti dalla pubblica amministrazione soltanto nel limite del valore di mercato dell'area, dopo che la stessa è stata bonificata. Ne consegue che, ove il valore dell'area dovesse risultare inferiore ai costi sostenuti, il proprietario è tenuto a rimborsare soltanto la quota di tali costi. La parte residuale sarà a carico della pubblica amministrazione (articolo ItaliaOggi Sette del 16.04.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Polveri sottili.
DOMANDA.
Gli amministratori locali sono responsabili per l'omesso contenimento delle emissioni di polveri sottili?
RISPOSTA.
Il Tribunale di Firenze, sezione II penale, con la sentenza del 23.11.2010, numero 3217, in tema di emissioni nocive e di responsabilità degli amministratori locali, ha affermato che, alla luce della normativa sulle polveri sottili, che ha per scopo ultimo la protezione della salute umana, occorre prendere in considerazione, nel valutare se sussista o meno il superamento dei limiti massimi di emissioni nocive, i soli dati forniti dalle centraline di «fondo urbano», oggettivamente rappresentative dell'esposizione media agli inquinanti della popolazione urbana generale, non essendo integrati i reati di cui agli articoli 328 e 674 del codice penale quando le stesse non indichino il superamento di tali limiti.
Il Tribunale fiorentino ha precisato, pure, che, per i comuni prossimi ad autostrade o superstrade, le relative centraline «di fondo urbano» vanno intese quali centraline di «traffico», con correlativa impossibilità di limitare le emissioni da parte degli amministratori locali. Ha aggiunto, poi, che in ogni caso, se i superamenti della quantità di emissioni consentite, calcolati sui dati delle centraline «di fondo urbano» rientrano nei margini di tolleranza previsti dall'articolo 22. commi 1 e 2, della direttiva 50/08/Ce, i fatti di reato di cui agli articoli 328 e 674 codice penale non possono ritenersi sussistenti.
Infatti, per il citato Tribunale, ai fini della configurabilità del delitto di cui all'articolo 328 del codice penale (rifiuto di atti d'ufficio, omissione) non è sufficiente il generico rimprovero al pubblico ufficiale di avere omesso o rifiutato atti ulteriori rispetto a quelli in precedenza adottati, non potendo il giudice penale entrare nel merito dell'esercizio della discrezionalità amministrativa ed essendo, in ogni caso, onere dell'accusa la precisa individuazione dell'atto ulteriore omesso.
In un caso simile, il Gup di Palermo, con la pronuncia del 10.03.2009, ha manifestato un diverso avviso. Per il detto giudice, il sindaco e gli assessori comunali aventi delega in materia ambientale sono responsabili di omissione di atti d'ufficio e di emissione di sostanze pericolose e nocive per non avere adottato le misure necessarie a contenere il fenomeno dell'inquinamento nella città, gravando sull'Amministrazione territoriale i poteri d'imposizione in materie direttamente ed indirettamente influenti sulla qualità dell'ambiente, di coercizione e sanzionatori dei comportamenti che violino le regole di legge ed incidano sulla salubrità dell'ambiente, nonché l'attuazione di efficaci piani di traffico veicolare, di piani urbanistici, e la cura, la realizzazione e l'incremento di giardini ed aree verdi in ogni settore della città (articolo ItaliaOggi Sette del 16.04.2012).

NEWS

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALIToh, chi si rivede: il terzo mandato. Deroga per i mini-enti. Il difensore civico torna in provincia. Riprende al senato l'esame della Carta delle autonomie. Depositati gli emendamenti dei relatori.
Torna il terzo mandato per i sindaci dei piccoli comuni. Il tormentone, oggetto di battaglie più che decennali da parte dei primi cittadini dei municipi sotto i 5 mila abitanti, sembrava caduto nel dimenticatoio, sopravanzato da altri temi più urgenti nell'agenda dei mini-enti: dal taglio ai trasferimenti, all'obbligo di associazionismo, dai paletti alle assunzioni alla perequazione in ottica federalismo fiscale. Ma è stato rispolverato dai due relatori alla Carta delle autonomie, Andrea Pastore (Pdl) e Enzo Bianco (Pd) nel pacchetto di emendamenti al disegno di legge, ormai fermo al senato da quasi due anni.
Il testo, approvato dalla camera (anche con una certa celerità) il 30.06.2010 sembrava abbandonato al proprio destino ma Pastore e Bianco hanno deciso di resuscitarlo depositando in commissione affari costituzionali di Palazzo Madama un corposo fascicolo di emendamenti volti soprattutto ad adeguare la ripartizione di funzioni tra comuni, province, regioni e città metropolitane al restyling delle province voluto dal governo Monti (non senza qualche incongruenza, si veda altro pezzo in pagina).
Nel lungo elenco di proposte di modifica della governance locale, Pastore e Bianco hanno infilato qua e là diverse sorprese. A cominciare proprio dalla deroga al limite del doppio mandato sancito nell'art. 51 del Tuel. Dove dovrebbe trovare posto un'eccezione proprio per i sindaci dei piccoli comuni che potranno restare in carica una legislatura in più: per loro infatti il divieto di ricandidarsi si applicherà «allo scadere del terzo mandato consecutivo».
Rispolverato anche il difensore civico, seppur in versione riveduta e corretta. La figura dell'ombudsman comunale è stata eliminata nel 2010 da uno dei primi provvedimenti taglia-poltrone di Roberto Calderoli (dl n. 2/2010 convertito nella legge n. 42/2010). Ma ora ritorna dalla finestra proprio nelle province. I nuovi enti di secondo livello dovranno infatti prevedere per statuto l'istituzione di un difensore civico provinciale «con compiti di garanzia, imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione». A lui il compito di segnalare «anche di propria iniziativa, abusi, disfunzioni, carenze e ritardi dell'amministrazione nei confronti dei cittadini».
Cinque sezioni per l'albo dei segretari. Non poteva mancare un cenno all'albo dei segretari comunali orfano dell'Agenzia, soppressa da Giulio Tremonti nel 2010. L'albo attualmente è articolato in sezioni regionali, mentre i relatori alla Carta delle autonomie propongono venga suddiviso in cinque macro-sezioni: Nordest, Nordovest, Centro, Sud e Isole.
L'elenco dei segretari sarà amministrato da un cda, nominato con dpcm e composto da due sindaci indicati dall'Anci, un presidente di provincia designato dall'Upi, tre segretari comunali e provinciali eletti tra gli iscritti e tre esperti designati dalla Conferenza stato-città (articolo ItaliaOggi del 19.04.2012 - tratto da www.ecostampa.it).
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Per saperne di più: Carta delle autonomie: il senato ha ripreso l’esame della riforma (link a www.leggioggi.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Finanza pubblica. Aperture sulle assunzioni. Turn-over doppio negli enti locali.
SOLIDARIETÀ FRA SINDACI/ Incentivo da 500 milioni per i Comuni che cedono spazi finanziari ad altri e li aiutano a rispettare il Patto di stabilità.

Una drastica apertura sulla possibilità di assumere, e l'estensione a livello nazionale della «solidarietà» fra Comuni per rispettare il Patto. Sono le due novità chiave spuntate ieri per gli enti locali negli emendamenti al Dl fiscale approvati in commissione Finanze alla Camera.
I correttivi riscrivono le regole per le assunzioni, raddoppiando dal 20% al 40% le possibilità di turn-over negli enti che dedicano al personale meno della metà delle spese correnti. Non solo: nel calcolo del turnover, le spese per assunzioni relative a polizia locale, istruzione e servizi sociali si calcolano dimezzate (ma continuano a valere per intero nel calcolo del rapporto fra spese di personale e uscite correnti).
Si allentano molto i tetti per gli incarichi dirigenziali a tempo: il limite generale è 10% dell'organico dirigenziale, ma può arrivare al 20% nei Comuni fino a 100mila abitanti e al 13% in quelli fino a 250mila: una sanatoria, poi, evita la decadenza dei contratti stipulati senza rispettare i vecchi limiti. Aggiornati anche i tetti di spesa per i Comuni fino a 5mila abitanti, che da quest'anno non dovranno superare le uscite per il personale registrate nel 2009 (il tetto precedente era relativo al 2004).
Sul versante dei bilanci, i correttivi estendono a livello nazionale il Patto di stabilità «orizzontale», con cui i sindaci che hanno un surplus possono cedere spazi finanziari ai colleghi in difficoltà nel rispetto degli obiettivi. La novità, tra le proteste delle Province, vale solo per i Comuni.
A livello regionale finora questa modalità, nata per accelerare i pagamenti alle imprese, non ha dato grandi soddisfazioni (nel 2010, per esempio, ha liberato 122 milioni, di cui 118 nel Lazio, contro i 400 milioni liberati dal Patto "verticale", cioè finanziato dalle Regioni), ma l'emendamento prova a spingere il meccanismo mettendo sul piatto un incentivo da 500 milioni di euro. In pratica, chi cede spazi finanziari riceverà un doppio premio: l'incentivo diretto, neutro per il calcolo del Patto e da destinare obbligatoriamente alla riduzione del debito, e uno sconto (pari alla metà degli spazi ceduti) sui vincoli dei due anni successivi.
Per pareggiare i conti, chi riceve spazi finanziari da altri Comuni si vedrà peggiorare il saldo obiettivo nel biennio seguente. Per partecipare a questa compravendita, ogni Comune dovrà trasmettere alla Ragioneria entro il 30 giugno gli spazi finanziari che può cedere o di cui ha bisogno (articolo Il Sole 24 Ore del 17.04.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI: Appalti, per il falso paga pure la società. Cassazione. Si sconta l'omesso controllo.
Il rappresentante della società che attesta falsamente di avere regolarmente versato i contributi previdenziali e le imposte per partecipare a una gara di appalto risponde anche di truffa e conseguentemente all'impresa si può irrogare la sanzione per l'illecito amministrativo in tema di responsabilità dell'ente in base al decreto legislativo 231/2001, per non avere adottato idonei modelli organizzativi atti a prevenire la violazione penale.
A precisarlo è la Corte di Cassazione, Sez. V penale, con la sentenza 16.04.2012 n. 14359.
Il rappresentante legale di una Sas attestava in una dichiarazione sostitutiva di atto notorio di essere in regola con gli obblighi relativi alla contribuzione sociale e con gli adempimenti fiscali. L'atto era destinato ad un ente pubblico per la partecipazione ad una gara di appalto, che veniva aggiudicata proprio dalla società in questione.
Successivamente veniva scoperta la falsità di detta attestazione e il rappresentante legale veniva condannato per i reati di cui agli articoli 483 (falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico) e 640 del codice penale (truffa) per aver attestato falsamente la regolarità contributiva e fiscale della società e posto in essere atti idonei diretti in modo non equivoco ad indurre in errore i funzionari dell'ente preposti alla gara, ottenendo indebitamente l'aggiudicazione dell'appalto in pregiudizio dell'ente e delle altre ditte partecipanti Nei confronti della società, invece, veniva affermata la responsabilità per il correlato illecito amministrativo (ex Dlgs 231/2001).
Il rappresentante legale e la società ricorrevano in Cassazione evidenziando, tra l'altro, che una precedente decisione delle Sezioni Unite aveva escluso la truffa in presenza del delitto di indebita percezione di elargizioni a carico dello Stato e ritenuto assorbente le condotte di falso.
La Suprema corte ha rigettato il ricorso rilevando, in estrema sintesi, che nella vicenda in esame, non si trattava di un'indebita elargizione, ma di un'illegittima aggiudicazione di appalto. Da qui la conferma della condanna anche ai fini del Dlgs 231/2001 nei confronti alla società, per aver omesso, evidentemente, la predisposizione di idonei modelli organizzativi preventivi (articolo Il Sole 24 Ore del 17.04.2012).

ENTI LOCALI: Partecipate. Il Dl sulle liberalizzazioni obbliga le società ad adottare i criteri validi per gli enti locali.
In house, stretta sugli ingressi. Vietate nuove assunzioni se mancano i regolamenti sul reclutamento.

Le società partecipate dagli enti locali devono contenere la spesa per il personale e non possono procedere a nuove assunzioni se non hanno definito regole specifiche, né se la spesa complessiva sommata a quella dell'ente locale socio supera il 50% della spesa corrente.
Le disposizioni legislative sulla disciplina dei macroprocessi di gestione delle risorse umane nelle società con capitale a partecipazione pubblica sono state rafforzate dalle previsioni del nuovo articolo 3-bis della legge 148/2011, introdotte dalla legge 27/2012.
Il sistema, tuttavia, è articolato e complesso, con norme che sono già ora applicabili e con altre che devono essere attuate tramite decreti.
I criteri
Fra le disposizioni immediatamente operative, le più importanti sono quelle contenute nell'articolo 4, comma 17 della legge 148/2011, che rafforzano quanto già statuito dall'articolo 18, comma 1 della legge 133/2008, obbligando le società affidatarie di servizi pubblici locali in house (quindi a partecipazione interamente pubblica) ad adottare criteri e modalità per reclutare il personale nel rispetto dei principi (trasparenza, imparzialità, e così via) individuati dal comma 3 dell'articolo 35 del Dlgs 165/2001 (Testo unico del pubblico impiego).
Il dato normativo richiede peraltro una specifica regolamentazione da parte delle società, anche per affidare gli incarichi professionali, assumendo come riferimento gli indirizzi prodotti dagli enti locali soci o i regolamenti sulle collaborazioni autonome da questi prodotti in base all'articolo 3, commi 54-55 della legge 244/2007 (come evidenziato da varie sezioni regionali della Corte dei conti).
L'articolo 4, comma 17, della legge 148/2001 evidenzia peraltro le conseguenze della mancata definizione della disciplina, sancendo espressamente nell'ultimo periodo che fino all'adozione dei provvedimenti regolativi, le società in house non possono procedere al reclutamento di personale o al conferimento di incarichi.
L'articolo 18, peraltro, estende l'obbligo di regolamentazione dei criteri di assunzione anche alle società miste sotto controllo pubblico, ammettendo tuttavia in questi casi la definizione di una disciplina più flessibile.
La rilevanza di questo passaggio è stata già sancita dalla giurisprudenza (Tar Basilicata, sentenza 218 del 20.04.2011) e da numerose pronunzie interpretative (ad esempio Corte dei conti, sezione regionale controllo Lombardia, parere 350 del 13.06.2011), che esplicitano anche la necessità della vigilanza da parte degli enti locali soci.
Gli altri paletti
Il reclutamento di risorse umane da parte delle società affidatarie in house dagli enti locali è assoggettato anche al regime vincolistico stabilito dal patto di stabilità per gli enti locali soci, come chiaramente evidenziato dal comma 6 dell'articolo 3-bis della legge 148/2011 (introdotto dalla legge 27/2012).
La disposizione, infatti, oltre a ribadire la necessità di regole per il reclutamento, prevede esplicitamente che queste società rispettino le disposizioni che stabiliscono a carico degli enti locali (soci di riferimento) divieti o limitazioni alle assunzioni di personale, nonché il contenimento degli oneri contrattuali e delle altre voci di natura retributiva o indennitarie, con riferimento sia alle consulenze sia agli amministratori.
In questo senso rileva il recente intervento della Corte dei conti, sezione regionale di controllo Emilia Romagna, con il parere 11 dell'08.03.2012: è precisata la necessità di un'applicazione rigorosa delle norme sui compensi degli amministratori delle società partecipate previste dalla legge 296/2006 (articolo Il Sole 24 Ore del 16.04.2012 - tratto da www.corteconti.it).
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Vincoli certi. Va rispettato il rapporto fra spesa corrente e costi per il personale.
Patto di stabilità: vale il limite del 50%.
Il rispetto del patto di stabilità da parte delle società affidatarie in house presenta molte problematiche interpretative e applicative, che potranno essere risolte solo con un intervento normativo.
La sottoposizione al regime vincolistico definito dal comma 557 dell'articolo 1 della legge 296/2006 e dalle disposizioni correlate (particolarmente l'articolo 76 della legge 133/2008, come modificato dalla legge 122/2010) è prevista da varie disposizioni, che configurano un sistema regolativo a portata estesa.
La combinazione delle previsioni contenute nell'articolo 18 della legge 133/2008, nell'articolo 3-bis (commi 5 e 6) e nell'articolo 4 (comma 17) della legge 148/2011 assoggettano al patto tutte le società in house, affidatarie di servizi pubblici locali con e senza rilevanza economica (comprese quelle affidatarie di servizi idrici e farmacie), ma anche di servizi strumentali.
L'applicazione delle regole del patto, tuttavia, è rimessa a un decreto ministeriale attuativo, ritenuto necessario da alcune interpretazioni (Corte dei conti sezione regionale di controllo Lombardia con il parere n. 7 del 19.01.2012) e valutato invece come solo complementare alla previsione di principio, stabilita dalle disposizioni legislative, da altre analisi interpretative (Corte dei conti Emilia Romagna, parere n. 17/2010, Corte dei conti Campania parere n. 98/2011).
In attesa che il decreto risolva il contrasto interpretativo, alcune previsioni limitative discendenti dal patto di stabilità sembrano invece risultare immediatamente applicabili anche alle società partecipate. Per esse, infatti, è stato rilevato come valga il divieto ad assumere quando, nel calcolo del rapporto tra spesa corrente e spesa del personale del sistema allargato (ente locale e società da esse partecipate), si abbia il superamento del limite del 50% (come evidenziato dalla Corte dei conti sezioni riunite Sicilia, con il parere n. 3 del 16.01.2012).
Da questo quadro emerge una linea di indirizzo operativo che gli enti locali possono sin da ora formalizzare nei confronti delle proprie società partecipate, invitandole a contenere, in via prudenziale, la spesa per il personale e per l'affidamento di incarichi professionali, anche in forza delle previsioni specifiche dettate per le società comprese nell'elenco Istat del conto consolidato, sancite nell'articolo 6, comma 11, e nell'articolo 9, comma 29, della legge 122/2010.
Questo approccio comporta anche la limitazione della spesa per assunzioni con contratti flessibili al limite di valore del 50% della spesa sostenuta nel 2009.
Altrettanto importante può risultare la formalizzazione, sempre da parte degli enti locali soci, di linee di indirizzo rivolte alle società partecipate per ridurre l'indebitamento in termini coerenti con le percentuali e le tempistiche previste per comuni e province dall'articolo 8, comma 3, della legge 183/2011.
Gli enti locali, infatti, devono vigilare anche su questo aspetto, essendo consapevoli che rientra nel quadro del consolidamento del bilancio allargato e che, in caso di liquidazione delle società partecipate, devono far fronte ai debiti della propria società in house che non sono stati soddisfatti in seguito alla liquidazione a causa dell'incapienza del capitale sociale (come evidenziato dalla Corte dei conti, sezione regionale di controllo Piemonte, parere n. 3 del 19.01.2012) (articolo Il Sole 24 Ore del 16.04.2012 - tratto da www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATA: Edilizia con Durc «d'ufficio». La Pa deve procurarsi da sé il documento per i lavori pubblici e privati.
Semplificazioni. La legge di conversione del Dl 5/2012 ha chiarito che l'azienda non può produrre l'autocertificazione.

Il decreto sulle semplificazioni (Dl 5/2012, convertito dalla legge 35/2012 in vigore dal 7 aprile scorso), ha apportato alcune novità in materia di lavoro: si tratta più che altro di "aggiustamenti" di norme esistenti o del recepimento di orientamenti derivati da prassi consolidate.
C'è innanzitutto un importante chiarimento sulla disciplina del documento unico di regolarità contributiva (Durc): la legge di conversione del Dl ha precisato che nei lavori pubblici e privati dell'edilizia le amministrazioni pubbliche devono acquisire d'ufficio il documento.
Il capitolo Durc
Il comma 6-bis dell'articolo 14 del Dl 5/2012 ha ribadito il principio della non autocertificabilità del documento unico di regolarità contributiva, nel solco delle indicazioni fornite recentemente dalle note del ministero del Lavoro e da quelle degli istituti previdenziali (si veda il grafico a lato). A partire dalla sua introduzione -con il Dl 210 del 2002- il Durc ha acquisito sempre maggiore rilevanza e si è arricchito di diverse funzioni nel campo degli appalti. La «decertificazione» introdotta con la legge di stabilità 2012, con modifiche al Dpr 445/2000 (il Testo unico sulla documentazione amministrativa), lasciava intendere che anche il Durc potesse essere sostituito da un'autocertificazione.
Il decreto sulle semplificazioni ha dissipato l'incertezza che si era creata, sancendo l'obbligo, per le amministrazioni pubbliche, di acquisire il Durc d'ufficio nell'ambito dei lavori pubblici e privati dell'edilizia. Oltre a rafforzare la non autocertificabilità, la norma elimina l'eventualità che il Durc possa essere acquisito dal soggetto interessato, estendendo anche alle ipotesi dei lavori privati in edilizia l'onere di richiesta del certificato da parte dell'amministrazione: si dovrebbe così superare la regola prevista dal comma 9 dell'articolo 90 del Dlgs 81/2008, in base alla quale il Durc deve essere trasmesso «all'amministrazione concedente, prima dell'inizio dei lavori oggetto del permesso di costruire o della denuncia di attività».
I controlli sulle imprese
L'articolo 14 del Dl 5/2012 si occupa del restyling dei controlli sulle imprese. La nuova disciplina dovrà essere delineata da regolamenti attuativi, seguendo criteri di proporzionalità e razionalizzazione, di coordinamento e programmazione dell'azione ispettiva, con l'obiettivo di ridurre o eliminare le verifiche nei confronti delle imprese in possesso di certificazione di qualità Iso. Unico neo della disposizione, l'aver escluso dal perimetro della semplificazione i controlli in materia fiscale, finanziaria e di sicurezza sui luoghi di lavoro.
Assunzioni
Per le assunzioni, sono state snellite le comunicazioni riguardanti i rapporti di lavoro con gli extracomunitari (articolo 17), soprattutto per le ipotesi di svolgimento di periodi di lavoro stagionale successivi al primo (si veda anche «Il Sole 24 Ore del Lunedì» del 5 marzo).
Modificate anche le procedure delle comunicazioni obbligatorie di assunzione, nei settori dei pubblici esercizi e in quello agricolo: per il primo è stata estesa la possibilità, prima riservata alle attività del turismo, di effettuare la comunicazione preventiva con modalità semplificate nel caso in cui il datore di lavoro non sia in possesso di tutti i dati necessari, integrandoli entro il terzo giorno successivo.
In ambito agricolo è stata invece prevista una nuova fattispecie che consente di effettuare un'unica comunicazione nel caso di assunzione contestuale di due o più operai agricoli a tempo determinato, da parte dello stesso datore di lavoro.
Collocamento obbligatorio
Alleggerimento per il collocamento obbligatorio, in materia di sospensione degli obblighi occupazionali delle categorie protette: nell'ipotesi di Cigs, Cds o di procedure di mobilità, i datori di lavoro che hanno unità produttive in più province possono presentare l'istanza di sospensione al servizio provinciale per il collocamento mirato competente sul territorio dove si trova la sede legale dell'impresa.
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I chiarimenti
Gli ultimi interventi sul documento unico di regolarità contributiva
LE PA DEVONO PROCURARSI IL DURC
Il Durc nei lavori pubblici e privati dell'edilizia (Articolo 14, comma 6-bis del decreto legge 5/2012). L'onere di acquisire il Durc spetta alle amministrazioni pubbliche che devono provvedere d'ufficio. Le imprese interessate possono verificare la richiesta di Durc da parte della Pubblica amministrazione attraverso una funzione di consultazione ad hoc disponibile sul portale www.sportellounicoprevidenziale.it
IL DURC NON È AUTOCERTIFICABILE
Il chiarimento riguarda l'intervento della legge di stabilità 2012 (legge 183/2011) sul Testo unico delle norme sulla documentazione amministrativa (Nota del ministero del Lavoro del 16.01.2012 n. 619 e nota Inps/Inail del 26.01.2012)
Il Durc non è autocertificabile (si veda anche la circolare Inps 47/2012): la norma è interpretata come possibilità, da parte della Pa, di acquisire un Durc da parte del soggetto interessato. Questa previsione vale nei soli casi espressamente previsti dal legislatore: vi rientra, ad esempio, la trasmissione all'amministrazione concedente prima dell'inizio dei lavori oggetto della denuncia di attività
Questa interpretazione dovrebbe essere superata dal Dl semplificazioni, nell'ambito dei lavori pubblici e privati nell'edilizia
Resta intatta la possibilità da parte dell'impresa di presentare una dichiarazione al posto del Durc nei casi previsti espressamente, come per i contratti di forniture e servizi fino a 20mila euro stipulati con la Pa e con le società in house. Negli altri casi, sono le stazioni appaltanti pubbliche a richiedere il Durc
LA STAZIONE APPALTANTE GARANTISCE
L'intervento sostitutivo della stazione appaltante a garanzia dei contributi dei lavoratori (Circolare del ministero del Lavoro 3/2012 - messaggio Inps 3808/2012 e circolare Inps 54 del 13 aprile - nota Inail del 21/03/2012)
Nell'ipotesi di emissione di Durc con inadempienze contributive (Inps-Inail-Cassa Edile) relative a uno o più soggetti impiegati nell'appalto pubblico, la stazione appaltante trattiene dal pagamento l'importo corrispondente all'inadempienza e procede a saldare i debiti contributivi (sia che il debito sia in fase amministrativa che iscritto a ruolo)
In ogni caso, il Durc deve evidenziare l'importo dell'inadempienza debitoria riscontrata (messaggio Inps 2860 del 17.02.2012) (articolo Il Sole 24 Ore del 16.04.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Materiali di riporto: in edilizia non sono trattati come rifiuti. Dl ambiente. Chiarimento in conversione.
Il tema dei materiali di riporto ha destato non pochi dubbi interpretativi e creato moltissimi problemi applicativi nell'ultimo anno. Con il Dlgs 205/2010, infatti, era stata riscritta gran parte della disciplina sui rifiuti di cui alla Parte III del Dlgs 152/2006 al fine di recepire la direttiva CE/98/2008.
Una parte delle questioni aperte vengono ora risolte con la conversione del decreto ambiente (Dl 2/2012), con il quale il Governo Monti aveva adottato misure straordinarie e urgenti in materia ambientale. In sede di conversione, le Camere hanno proposto ulteriori revisioni correttive, alcune delle quali manifestavano anche non pochi dubbi di costituzionalità in quanto idonee a eccedere i contenuti originari del decreto. Dopo alcuni passaggi tra Camera e Senato, in prossimità della scadenza dei 60 giorni, con legge 28 del 24.03.2012.
Il chiarimento
L'articolo 185 del Dlgs 152/2006 aveva espressamente previsto i casi di esclusione dall'ambito di applicazione della disciplina sui rifiuti (terreno contaminato non escavato, edifici collegati al terreno, altri materiali allo stato naturale), ma non aveva considerato i materiali di riporto impiegati in passato per terrapieni o riempimenti. Alcuni enti locali, quindi, volendo aderire a un'interpretazione particolarmente restrittiva, avevano considerato tali materiali come rifiuti, con conseguente obbligo di rimozione e smaltimento degli stessi.
Le ricadute sui cantieri e sugli interventi edilizi erano state così gravi da spingere il Governo a prendere una formale posizione. Con il Dl 2/2012 e la sua successiva conversione in legge 28/2012, il legislatore ha provveduto a fornire un'interpretazione autentica della normativa. L'articolo 3 del Dl ambiente, dunque, chiarisce che il riferimento al concetto di suolo di cui all'articolo 185 (terreno in situ, suolo contaminato non scavato, edifici collegati permanentemente al terreno, suolo non contaminato e altro materiale naturale escavato) deve considerarsi esteso anche alle matrici materiali di riporto, ossia quei materiali eterogenei utilizzati per la realizzazione di riempimenti e rilevati, contenenti anche materiali estranei.
I materiali di riporto utilizzati a fini edilizi, quindi, beneficiano in linea teorica dello stesso trattamento giuridico riservato al suolo (ossia esclusione dalla disciplina sui rifiuti). Al ministero dell'Ambiente, tuttavia, è affidato il compito di adottare uno specifico regolamento che definisca esattamente le matrici materiali di riporto. In attesa del regolamento ministeriale, i materiali di riporto presenti nel suolo possono comunque considerarsi sottoprodotti nel caso in cui soddisfino i requisiti previsti dall'articolo 184-bis del Dlgs 152/2006.
I nodi aperti
Sul punto, ci si domanda se tale equiparazione ai sottoprodotti rilevi solo nel caso in cui i materiali di riporto siano oggetto di scavo oppure se ricomprendano anche i riporti non scavati. Questi ultimi, invero, dovrebbero essere paragonati al suolo e, quindi, esclusi -come detto sopra- dalla disciplina dei rifiuti e, quindi, anche da quella dei sottoprodotti.
Se il Dl ambiente, dunque, chiarisce alcuni aspetti, permangono comunque diversi dubbi interpretativi. Si auspica, quindi, che il regolamento ministeriale sia in grado di fare definitiva chiarezza sul punto, così da fornire agli enti e agli operatori certezze sulla gestione di tali materiali (articolo Il Sole 24 Ore del 09.04.2012).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAGrava sulla Soprintendenza l'onere di provare che il Comune abbia inviato anche agli interessati la comunicazione alla Soprintendenza delle autorizzazione rilasciate.
L’art. 159 d.lgs. n. 42 del 2004, prevede che l’autorità competente al rilascio dell’autorizzazione, nella comunicazione alla Soprintendenza, deve attestare di aver eseguito il contestuale invio ai privati interessati, per i quali tale comunicazione costituisce avviso di inizio del procedimento ai sensi e per gli effetti della legge 07.08.1990, n. 241.
In particolare, l’art. 159, comma 2, stabilisce oggi (dopo l'art. 26 d.lgs. 24.03.2006, n. 157, l’art. 2, comma 1, lett. hh), d.lgs. 26.03.2008, n. 63 e l’art. 4-quinquies d.l. 03.06.2008, n. 97, aggiunto dalla legge di conversione 02.08.2008, n. 129) che, fino all’approvazione del piano paesistico, la comunicazione alla Soprintendenza delle autorizzazione rilasciate “è inviata contestualmente agli interessati, per il quali costituisce avviso di inizio di procedimento, ai sensi ed agli effetti della legge 07.08.1990, n. 241”.
Nel caso di specie il Collegio ha rilevato come non vi è la prova che tale comunicazione sia stata inviata all’originaria ricorrente. Ed invero, sebbene l’interessata sia formalmente indicata tra i destinatari della nota con la quale l’autorizzazione paesaggistica viene comunicata alla Soprintendenza per il relativo controllo, manca, tuttavia, la prova che tale comunicazione sia stata poi realmente effettuata nei confronti della medesima, non essendovi traccia né di consegna a mano, né di avviso di ricevimento a mezzo raccomandata.
Come questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di rilevare, l’onere della prova circa l’avvenuto invio della comunicazione prevista dall’art. 159 d.lgs. n. 42 del 2004 grava certamente sulla Soprintendenza, la quale ha eventualmente l’onere di attivarsi presso il Comune sul quale grava in prima battuta l’adempimento procedimentale in questione per ottenere la prova dell’avvenuta comunicazione.
E infatti, la prova di un fatto negativo (il mancato invio dell’avviso di avvio del procedimento) non incombe sulla parte che lo allega, incombendo piuttosto sull’Amministrazione la prova del fatto positivo che esclude la circostanza negativa (cfr. Cons. Stato, VI, n. 5685 del 2007). La mancata comunicazione di avvio del procedimento determina, quindi, l’illegittimità del provvedimento impugnato (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 16.04.2012 n. 2142
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORecupero delle somme stipendiali nei confronti dei dipendenti pubblici: il Consiglio di Stato muta orientamento individuando ipotesi di concreta giustizia che impediscono al Comune il recupero delle somme indebitamente corrisposte.
Il Collegio rileva come nella materia del recupero di somme stipendiali nei confronti dei pubblici dipendenti si sia formata negli ultimi anni una giurisprudenza costante che ritiene non ostative le situazioni di affidamento o di buona fede del percipiente all’effettuazione del recupero medesimo: esse semmai possono condurre ad un’equa rateizzazione del recupero, ma questo ultimo è sempre giustificato dal fatto che le amministrazioni sono portatrici dell’interesse a rimediare ad un’indebita spendita di pubblico denaro.
Il Collegio, pur condividendo in linea generale i principi ora espressi, ritiene però che una soluzione di concreta giustizia debba essere rapportata alle singole fattispecie dedotte in giudizio (Cons. Stato, V, 15.10.2003 n. 6291); per cui non si possono sottacere una serie di elementi come, ad esempio, ove risieda l’errore che ha portato alla corresponsione delle somme in controversia e cioè se di esso si possa fare carico alla sola Amministrazione, il lungo lasso di tempo tra la data di corresponsione e quella di emanazione del provvedimento di recupero, l’eventuale tenuità delle somme corrisposte anche in riferimento ai servizi resi, la complessità della macchina burocratica dalla quale è scaturito l’errore di conteggio.
Nel caso di specie il Collegio rileva come la vicenda appare del tutto paradigmatica di cattiva amministrazione, tanto da apparire al di là del credibile: il Sindaco ha continuativamente riscontrato il sistema di retribuzione delle ore di reperibilità pur partecipando alla riunioni di Giunta con le quali veniva deliberato un metodo retributivo affatto diverso e ciò è accaduto per anni, anche a fronte del controllo del segretario comunale.
Se poi si rileva che trattasi di un comune al di sotto dei 15.000 abitanti e dunque dotato di una macchina amministrativa del tutto priva di complessità, appare logico che l’affidamento maturato nel dipendente non può essere portato alla stregua di quanto può accadere in un capoluogo di Regione o ancor più in strutture di complessità macroscopica, come ad esempio il Ministero dell’Istruzione o della Difesa, oppure ancora l’Inps o quant’altro di simile, soprattutto in dipendenza del fatto che le somme in questione riguardavano solo due dipendenti (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.04.2012 n. 2118
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AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti: l'inerzia della Regione nell'istituzione degli a.t.o. non determina la paralisi dell’esercizio dei poteri ma continuatività delle competenze previste dalla legislazione anteriore.
Nel giudizio in esame la Provincia assume che la Regione non avrebbe potuto rilasciare aggiornamento/ampliamento di autorizzazione integrata ambientale, in quanto detta competenza era di spettanza degli a.t.o., la cui costituzione era stata disattesa dalla Regione con sostanziale illegittima avocazione a sé delle competenze a questi rimesse dall’art. 200 D. Lgs. 152/2006.
Il Collegio ha rigettato l'appello confermando la statuizione del giudice di prime cure affermando che gli a.t.o. –ora soppressi con l’art. 2, co. 186-bis, della L. 23.11.2009 n. 191- andavano istituiti da parte delle Regioni, sentiti le province ed i comuni interessati, entro il termine di sei mesi dalla data di entrata in vigore del D. Lgs. 152/2006 –art. 200, co. 2– ma tale istituzione non era obbligatoria, tanto è che le stesse Regioni potevano adottare modelli alternativi, ove fossero stati compatibili con un adeguato piano regionale dei rifiuti, nel rispetto degli obiettivi strategici fissati dalla normativa statale – art. 200, co. 7.
Il tenore della norma, la larga autonomia riservata alle Regioni rappresentata dalla non stringente obbligatorietà della formazione degli a.t.o. e l’assenza di misure sostitutive straordinarie in caso di inerzia, dimostrano che il termine di sei mesi aveva carattere ordinatorio e che dunque l’istituzione degli a.t.o. rispondeva a ragioni di buona amministrazione e non ad un termine vincolato.
Perciò dalla mancata istituzione di tali figure organizzatorie non poteva che derivare la continuatività delle competenze previste dalla legislazione anteriore, non essendo ipotizzabile la paralisi dell’esercizio dei poteri, tra l’altro in una materia sensibile come quella dei rifiuti (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.04.2012 n. 2117
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COMPETENZE GESTIONALI - CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPolitici commissari ai concorsi. Per l'esclusione va dimostrato che la carica pesa sul giudizio. Consiglio di Stato. Dopo i no dei Tar la sentenza 2104/2012 riapre le porte anche ai sindacalisti.
Il Consiglio di Stato riabilita politici e sindacalisti nelle commissioni di concorso.
Dopo un lungo periodo di astinenza, nel quale coloro che ricoprivano cariche politiche o sindacali erano banditi dalla partecipazione a procedure selettive, il massimo organo della giustizia amministrativa, con la sentenza 13.04.2012 n. 2104, inverte la rotta e riconosce legittima la nomina di un consigliere comunale di altra amministrazione in una commissione di concorso.
La questione prende origine dalla previsione dell'articolo 35, comma 3, lettera e), del decreto legislativo 165/2001, in base al quale non possono far parte della commissione di concorso i componenti gli organi di direzione politica dell'amministrazione, coloro che ricoprano cariche politiche o sindacali o vengano designati da confederazioni ed organizzazioni sindacali o dalle associazioni professionali. Fino ad oggi, tale divieto era stato interpretato in modo assoluto e, secondo la giurisprudenza abbastanza unanime dei Tar, bastava essere stato eletto nel consiglio comunale di un ente locale per far scattare l'incompatibilità in tutto il territorio nazionale.
Il Consiglio di Stato non è così categorico e apre le porte alla partecipazione di politici e sindacalisti nelle commissioni in questione. Afferma, infatti, che non basta essere assessore o consigliere comunale per perdere quella indipendenza di giudizio necessaria per valutare l'idoneità dei candidati all'impiego pubblico. È necessario dimostrare, di volta in volta, che la carica ricoperta in un'amministrazione diversa da quella che ha bandito il concorso influenzi, in qualche maniera, l'attività dell'ente che sta procedendo all'assunzione.
Riconoscendo l'assenza di criteri giuridici che possano soccorrere nell'individuare tale influenza, il Consiglio di Stato richiede, per riconoscere l'incompatibilità, che, in astratto, l'attività di consigliere comunale sia idonea «a far riverberare i suoi effetti anche sull'ente che indice la selezione».
Dal punto di vista pratico è immediatamente rilevabile come le condizioni richieste debbano essere valutate caso per caso. È evidente come, ad esempio, per ragioni connesse alla lontananza fisica delle amministrazioni interessate, l'influenza possa escludersi a priori; ma, in altri casi, quali per amministrazioni limitrofe o appartenenti alla stessa provincia o regione, è altrettanto evidente che la presenza o l'assenza di tale influenza risulti difficile da dimostrare. E, quindi, il contenzioso in materia è assicurato.
Ma se questa è la nuova filosofia che avanza, possiamo individuare una serie di incompatibilità previste per coloro che ricoprono cariche politiche o sindacali, che vengono notevolmente ridimensionate. La mente corre immediatamente all'articolo 14, comma 8, del decreto legislativo 150/2009, riforma Brunetta, che prevede analogo divieto di nomina per i componenti degli organismi indipendenti di valutazione. Se verrà confermato l'indirizzo, potremo trovare sindaci, assessori, sindacalisti componenti gli organismi indipendenti di valutazione (Oiv), che rischiano di perdere la loro indipendenza (articolo Il Sole 24 Ore del 17.04.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOComposizione delle commissioni di concorso: individuazione delle ipotesi in cui la funzione di Presidente può essere assunta da un soggetto che ricopre la carica di consigliere comunale in un Comune diverso da quello che ha indetto la procedura.
L'art. 35, comma 4, lettera e), del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, stabilisce che “le commissioni di concorso devono essere composte esclusivamente da esperti di comprovata competenza scelti tra funzionari delle amministrazioni, docenti ed estranei alle medesime, che non siano componenti dell'organo di direzione politica dell'amministrazione, che non ricoprano cariche politiche e che non siano rappresentanti sindacali o designati dalle confederazioni ed organizzazioni sindacali o dalle associazioni professionali.".
Ad avviso del Consiglio di Stato sulla possibilità che la funzione di Presidente della Commissione venga assunta da un soggetto che ricopre la carica di consigliere comunale in un Comune diverso da quello che ha indetto la procedura, soccorre l'orientamento interpretativo secondo cui la causa di incompatibilità in esame può essere estesa anche ai soggetti che ricoprano cariche politiche presso amministrazioni diverse da quella procedente solo nel caso in cui vi sia un qualche elemento di possibile incidenza tra l'attività esercitabile da colui che ricopre la carica e l'attività dell'ente che indice il concorso (Cons. Stato, sez. V, decisioni nn. 5526/2003 e 4056/2002).
Questo Consiglio ha reputato, infatti, che una diversa interpretazione verrebbe a generalizzare in modo eccessivo e senza adeguata giustificazione il sospetto d’imparzialità anche nei confronti di soggetti che non gestiscano alcun potere rilevante e, perciò, non siano comunque idonei, sia pure da un punto di vista astratto, a condizionare la vita dell'ente che indice la selezione. Si è, in particolare, rimarcato che “detto elemento di collegamento, in mancanza di criteri legali, può essere rinvenuto nella sfera di influenza dell'attività svolta dal soggetto ricoprente cariche politiche, sindacali o professionali, per cui se questa in astratto è idonea a riverberare i suoi effetti anche sull'ente che indice la selezione, l'incompatibilità deve ritenersi sussistente, altrimenti deve escludersi, salva la deducibilità delle ipotesi di cui all'art. 51 c.p.c. o del vizio di eccesso di potere sotto i diversi profili consentiti”.
Applicando dette coordinate al caso di specie il Collegio ha reputato insussistente il profilo di illegittimità dedotto in primo grado in quanto non risulta comprovata l’idoneità sostanziale dell’attività espletata dal Presidente della Commissione, nella qualità di consigliere comunale presso altro Comune ad incidere sulla sfera sull’ente che ha indetto la selezione in parola.
Infine ha altresì reputato che non abbia valenza invalidante neanche l’assunzione, da parte di un soggetto che ricopriva la carica di rappresentante sindacale, della veste di segretario della Commissione, posto che la normativa di cui sopra, avente carattere eccezionale e, quindi, non passibile di applicazione analogica, si riferisce ai componenti in senso stretto della commissione, ossia ai soli soggetti aventi funzione decisionale, con conseguente esclusione dei segretari che assumono un ruolo di assistenza e supporto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.04.2012 n. 2104
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Concorsi pubblici: l’amministrazione gode di un ampio potere discrezionale nell’individuazione dei titoli di studio ritenuti indispensabili per l’ammissione ad un concorso pubblico.
Il Consiglio di Stato nella sentenza in esame ha affermato che sussiste in capo all’amministrazione un ampio potere discrezionale nell’individuazione dei titoli di studio ritenuti indispensabili per l’ammissione ad un concorso pubblico, potere sindacabile sotto il profilo della legittimità solo nell’ipotesi di manifesta inadeguatezza, irragionevolezza, illogicità o arbitrarietà di tale scelta rispetto alle funzioni inerenti al posto messo a concorso, fattispecie che non si rinviene nel caso di specie.
Inoltre quando un bando "richieda il possesso di un determinato titolo di studio per l'ammissione ad un pubblico concorso, senza prevedere il rilievo del titolo equipollente, non è consentita la valutazione di un titolo diverso, salvo che l'equipollenza non sia stabilita da una norma di legge.
Il principio poggia sul dovuto riconoscimento in capo all'Amministrazione che indice la procedura selettiva di un potere discrezionale nella individuazione della tipologia del titolo stesso, da esercitare tenendo conto della professionalità e della preparazione culturale richieste per il posto da ricoprire
" (Cons. di Stato, VI, 03.05.2010, n. 2494; 19.08.2009, n. 4994) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.04.2012 n. 2098
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EDILIZIA PRIVATASolo una sanzione pecuniaria e non la demolizione se la recinzione viene realizzata in difformità all’autorizzazione comunale.
Nella vicenda attenzionata dal TAR si controverte della legittimità di un’ordinanza di demolizione di un capannone abusivo, nonché di un muro di cinta e di un cancello in ferro, realizzati in difformità dell’autorizzazione.
Il Collegio facendo leva sulla natura vincolata dell’ordinanza di demolizione ha affermato che non è necessaria la previa adozione di un atto di sospensione dei lavori, dal momento che risponde meramente ad un’esigenza esclusiva dell’amministrazione. (Cons. st. V 05.06.1997 n. 603).
Viene, inoltre, precisato che per quanto concerne la realizzazione di recinzioni e del cancello, in difformità all’autorizzazione all'uopo rilasciata, la misura della demolizione risulta eccessiva in quanto è sufficiente l’adozione di una sanzione pecuniaria ai sensi dell’art.10 della legge n. 47/1985 (e successive modifiche) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 12.04.2012 n. 693
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ENTI LOCALI - URBANISTICAIn merito al piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari.
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Le determinazioni assunte dall’amministrazione comunale (ai sensi dell'art. 58 del D.L. 112/2008, convertito con L. 133/2008, e s.m.i.) circa la diversa destinazione da assegnare al complesso immobiliare de quo -il quale transita nell’ambito del beni appartenenti al patrimonio disponibile al fine di una sua più proficua utilizzazione da parte dell’amministrazione proprietaria dello stesso- rientrano nell’ambito delle valutazioni discrezionali e, quindi, non sono suscettibile di alcuna censura di merito, né di alcun sindacato giurisdizionale, se non entro i limiti dell’illogicità ed irrazionalità della scelta operata, circostanza non ravvisabile nella specie, tenuto conto della particolare congiuntura economica attuale.
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Bisogna dare corretta applicazione al dettato di cui al secondo comma dell’art. 58 del D.L. n. 112/2008, il quale prevede che l’inserimento degli immobili nel piano delle alienazioni e valorizzazioni, comportante la classificazione quale patrimonio disponibile, debba essere operato nel rispetto della tutela (per quanto qui di interesse) del vincolo di natura paesaggistico-ambientale esistente.
Atteso infatti che l’area nella quale è inserito il complesso de quo è soggetta a vincolo paesaggistico-ambientale, ai sensi dell’art. 142, lettera f), del D.lgs. n. 42/2004 e che in base all’art. 58 testé richiamato, è prescritto che “Il piano è trasmesso agli Enti competenti, i quali si esprimono entro trenta giorni, decorsi i quali, in caso di mancata espressione da parte dei medesimi Enti, la predetta classificazione è resa definitiva”, proprio per l’ampia formulazione della previsione normativa -la quale fa riferimento in termini generali agli Enti competenti, in questo caso specifico quelli competenti in materia di tutela paesaggistico-ambientale- risulta necessario notiziare detti Enti, onde consentire loro di valutare l’incidenza sul vincolo derivante dalla diversa classificazione assegnata al bene tutelato, proprio nella prospettiva di una diversa destinazione o addirittura alienazione dello stesso da parte del Comune, all’evidente fine di consentire la compatibilità della decisione con la tutela del vincolo.

... per l'annullamento della delibera della Giunta comunale 22.12.2011 n. 204 avente ad oggetto: "Individuazione dei beni immobili non strumentali all'esercizio delle proprie funzioni istituzionali, suscettibili di valorizzazione ovvero di dismissione, ai sensi dell'art. 58 del D.L. 112/2008, convertito con L. 133/2008, e s.m.i.", della delibera del Consiglio comunale 29.12.2011 n. 51 avente ad oggetto: "Approvazione del piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari ai sensi dell'art. 58 del D.L. 112/2008, convertito con L. 133/2008, e s.m.i., nonché contestuale adozione della variante urbanistica al P.R.G. vigente ex art. 34 L.R. 11/2010" ....
...
- Ritenuto che le determinazioni assunte dall’amministrazione comunale circa la diversa destinazione da assegnare al complesso immobiliare de quo -il quale transita nell’ambito del beni appartenenti al patrimonio disponibile al fine di una sua più proficua utilizzazione da parte dell’amministrazione proprietaria dello stesso- rientrino nell’ambito delle valutazioni discrezionali e che quindi non sia suscettibile di alcuna censura di merito, né di alcun sindacato giurisdizionale, se non entro i limiti dell’illogicità ed irrazionalità della scelta operata, circostanza non ravvisabile nella specie, tenuto conto della particolare congiuntura economica attuale;
- ciò premesso -tenuto conto anche delle precedenti determinazioni assunte nei medesimi termini dalle passate amministrazioni e ritenuto che l’atto di recesso si pone quale atto meramente consequenziale alle determinazioni di carattere economico/politico assunte dall’amministrazione- il Collegio non può tuttavia non rilevare come nella fattispecie non sia stata data corretta applicazione al dettato di cui al secondo comma dell’art. 58 del D.L. n. 112/2008, il quale prevede che l’inserimento degli immobili nel piano delle alienazioni e valorizzazioni, comportante la classificazione quale patrimonio disponibile, debba essere operato nel rispetto della tutela (per quanto qui di interesse) del vincolo di natura paesaggistico-ambientale esistente;
- atteso infatti che l’area nella quale è inserito il complesso de quo è soggetta a vincolo paesaggistico-ambientale, ai sensi dell’art. 142, lettera f), del D.lgs. n. 42/2004 e che in base all’art. 58 testé richiamato, è prescritto che “Il piano è trasmesso agli Enti competenti, i quali si esprimono entro trenta giorni, decorsi i quali, in caso di mancata espressione da parte dei medesimi Enti, la predetta classificazione è resa definitiva”;
- ritenuto che proprio per l’ampia formulazione della previsione normativa -la quale fa riferimento in termini generali agli Enti competenti, in questo caso specifico quelli competenti in materia di tutela paesaggistico-ambientale- sia necessario notiziare detti Enti, onde consentire loro di valutare l’incidenza sul vincolo derivante dalla diversa classificazione assegnata al bene tutelato, proprio nella prospettiva di una diversa destinazione o addirittura alienazione dello stesso da parte del Comune, all’evidente fine di consentire la compatibilità della decisione con la tutela del vincolo;
- considerato che nella specie le deliberazioni impugnate non sono state trasmesse alla Provincia di Treviso, quale ente competente ai sensi dell’art. 45-sexies della Lr. n. 11/2004 e dell’art. 142 D.lgs. n. 42/2004;
- ne deriva che, in accoglimento della specifica censura dedotta riguardo alle delibere comunali, la cui illegittimità si ripercuote, quali atti presupposti, sulla comunicazione di recesso dalla convenzione, il ricorso può trovare accoglimento, con conseguente annullamento degli atti impugnati (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 12.04.2012 n. 520 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer le opere di adeguamento e' necessaria apposita motivazione in ordine al profilo della "doppia conformità" per la sanatoria ordinaria ex art. 36 del T.U..
Nel giudizio in esame il ricorrente impugna un provvedimento di diniego di permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 adottato dal Comune e -con i successivi motivi aggiunti- la conseguente ordinanza di demolizione. In particolare detti provvedimenti hanno ad oggetto una struttura aderente ad un appartamento di uso residenziale (originariamente individuata come una veranda da adibire a cucina).
Il Collegio ha accolto il ricorso ritenendo fondata la censura di difetto di motivazione del diniego di sanatoria, in quanto:
- in linea di principio il carattere vincolato degli atti impugnati non esclude quantomeno la necessarietà dell'esplicazione dei presupposti del provvedimento (TAR Lazio Roma, sez. III, 10.08.2010, n. 30576), soprattutto in presenza di vicende non connotate da immediata e lineare comprensibilità sotto il profilo della situazione di fatto;
- nel caso di specie non risulta chiaro il profilo della sussistenza della “doppia conformità” prevista dalla legge per la sanatoria ordinaria ex art. 36 del T.U. Edilizia;
- le ulteriori questioni in ordine alla possibilità di questo tipo di sanatoria in presenza di opere di adeguamento richiedono apposita motivazione in relazione agli esiti provvedimentali ipotizzabili, non apparendo sufficienti le deduzioni prospettate dall’Amministrazione in questa sede a titolo di integrazione della motivazione (TAR Lazio, Sez. II-bis, sentenza 11.04.2012 n. 3296
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EDILIZIA PRIVATASe la tettoia è ingombrante non ha carattere pertinenziale ed è quindi necessario il permesso di costruire.
Il Giudice capitolino nella sentenza in esame ha ritenuto infondata la censura formulata dal ricorrente secondo la quale le tettoie in contestazione avrebbero carattere pertinenziale: tale natura va infatti negata alle opere che, pur accedendo ad un edificio principale, abbiano un ingombro non indifferente.
Le fotografie in atti, unitamente alla descrizione delle opere recata nell’atto impugnato con l’indicazione delle dimensioni delle stesse, consentono di escludere che le tettoie abbiano una funzione di mera protezione dell’immobile dalle intemperie: esse realizzano infatti una modifica non indifferente al prospetto dell’edificio, che avrebbe richiesto di essere preceduto da permesso di costruire (TAR Lazio, Sez. I-quater, sentenza 11.04.2012 n. 3258
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LAVORI PUBBLICI: Cattiva manutenzione strade, per i danni risponde solo la ditta appaltatrice.  L'assicuratore non è tenuto al risarcimento.
L'impresa che ha in appalto la manutenzione della rete stradale comunale è responsabile per i danni verso terzi nei confronti del Comune. Inoltre l'assicurazione non è tenuta a coprire l'appaltatore dei lavori di manutenzione per i danni che l'automobilista ha subito per la cattiva manutenzione della strada.
La Corte di Cassazione civile con la recente sentenza 10.04.2012 n. 5641 ha ribadito un concetto già espresso in precedenti orientamenti: l’impresa che ha in appalto la manutenzione della rete stradale comunale è responsabile per i danni verso terzi nei confronti del Comune.
Inoltre l’assicurazione non è tenuta a coprire l’appaltatore dei lavori di manutenzione per i danni che l’automobilista ha subito per la cattiva manutenzione della strada.
La vicenda trae origina dal ricorso in Cassazione di una società per azioni nei confronti dell’assicurazione e del Comune; con sentenza del 2004 il Tribunale ordinario aveva accolto la domanda risarcitoria di un ciclomotorista che era caduto a causa del rigonfiamento dell’asfalto provocato dalle radici di un albero in una strada urbana del Comune; contestualmente ha accolto la proposta del Comune di “manleva nei confronti della società appaltatrice della manutenzione della strada”.
Il Tribunale ordinario ha, in sostanza, condannato la compagnia assicurativa a manlevare l’ente locale da ogni responsabilità.
I giudici di secondo grado hanno, inoltre, escluso che la garanzia prestata dalla società assicuratrice coprisse anche i danni derivati dalla omessa manutenzione, ordinando alla società assicurata di restituire quanto percepito dalla società assicuratrice in esecuzione della sentenza di primo grado.
Un precedente orientamento
Per il caso in commento si ritiene utile un cenno ad un recente orientamento giurisprudenziale che presenta alcune analogie con la sentenza in commento.
Con la sentenza n .19132 del 20.09.2011 la Corte di Cassazione ha stabilito che un Comune committente di un appalto pubblico non è da ritenere corresponsabile degli incidenti stradali provocati dalla cattiva manutenzione della strada, a seguito dei lavori in corso di manutenzione, da parte della ditta aggiudicatrice.
La vicenda trae origine da una sentenza del febbraio 2009 della Corte di Appello che accoglieva il ricorso di un cittadino che aveva impugnato la sentenza del Tribunale ordinario, e condannava tra gli altri, il Comune e il titolare di una impresa individuale perché, per la cattiva manutenzione della strada, un contribuente cadeva dal ciclomotore procurandosi un danno.
Il Comune avverso la sentenza della Corte di Appello ricorreva in Cassazione.
Nel caso in esame la Cassazione ha ritenuto il ricorso fondato.
La Corte di Cassazione, infatti, evidenziava, che poiché di regola nell’esecuzione dei lavori appaltati opera in autonomia, con propria organizzazione ed apprestando i relativi mezzi, l’appaltatore è esclusivo responsabile dei danni cagionati a terzi nell’esecuzione dell’opera, salva l’esclusiva responsabilità del committente laddove questi si sia ingerito nei lavori con direttive vincolanti, che abbiano ridotto l’appaltatore al rango di “nudus minister”; ovvero la corresponsabilità del committente può essere evidenziata qualora si sia ingerito con direttive che abbiano solamente ridotto l’autonomia dell’appaltatore.
Per la Corte di Cassazione non sussiste responsabilità del committente (in questo caso l’ente locale) se non rimane accertato che questi, avendo in forza del contratto di appalto la possibilità di impartire prescrizioni nell’esecuzione dei lavori o di intervenire per chiedere il rispetto della normativa di sicurezza, se ne sia avvalso per imporre particolari modalità di esecuzione dei lavori o particolari accorgimenti antinfortunistici che siano stati causa del sinistro.
Per i giudici di legittimità la Corte di Appello nella sentenza impugnata ha disatteso i principi suesposti , pervenendo a ravvisare la sussistenza della corresponsabilità dell’ente committente in ordine al sinistro de quo erroneamente argomentando della relativa mancata ingerenza nell’appalto, con esplicazione di attività di controllo e di direttive vincolanti al punto di eliminare del tutto l’autonomia dell’appaltatore.
Per la Corte di Cassazione la sentenza dei giudici di merito è da cassare e decidendo nel merito esclude dalla responsabilità gli enti interessati tra cui anche il Comune.
Le conclusioni
Con riferimento alla sentenza oggetto del presente commento la Corte di Cassazione ritiene il ricorso non fondato.
La Corte di Appello, evidenziano i giudici di Piazza Cavour, ha ben rilevato le motivazioni per le quali l’assicurazione non è tenuta al pagamento del danno; dal contratto di assicurazione si evince , infatti, che sono esclusi i danni conseguenti ad omessa esecuzione dei lavori di manutenzione, riparazione, etc..
Sono pertanto da escludersi i danni subito dal ciclomotorista, nel caso in esame, in quanto derivati da una cattiva manutenzione della strada della società appaltatrice.
E’ la società appaltatrice che deve interamente risarcire il ciclomotorista.
Con riferimento all’ente locale , inoltre, la Cassazione evidenzia che non vi era neppure il motivo per difendersi in quanto è “ininfluente qualsiasi possibile decisione sulla sua posizione” (tratto da www.ipsoa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Spese legali, rimborso della PA sono per ''questioni'' funzionali.
Condizione indispensabile affinché possa essere disposto il rimborso delle spese legali previsto in favore dei dipendenti pubblici, è che il dipendente sia stato ingiustamente accusato per fatti inerenti a compiti e responsabilità dell'ufficio e da tale accusa sia stato pienamente assolto, ovvero sia stata comunque accertata l'assenza di responsabilità.
Il ricorrente, militare della Guardia di Finanza in servizio, ha impugnato il provvedimento con cui il Comando di appartenenza aveva respinto l’istanza tendente a ottenere il rimborso delle spese legali sostenute per un procedimento penale conclusosi con la propria assoluzione.
Ha esposto che, dopo essere stato sottoposto a procedimento penale per i reati di cui agli artt. 490, 56, 61 e 640 c.p. ed essere stato assolto da tutti i capi di imputazione con la formula "perché il fatto non sussiste", aveva presentato, ai sensi dell’art. 18, L. n. 135/1997, apposita istanza di rimborso delle spese legali sostenute.
Rigettata siffatta richiesta, il deducente ha impugnato il provvedimento, contestando la violazione e falsa applicazione dell’art.18 cit. sulla scorta della considerazione per cui la medesima disposizione avrebbe dovuto trovare applicazione nella specie in quanto la condotta dal medesimo posta in essere sarebbe stata strettamente collegata allo svolgimento dei propri obblighi istituzionali. Il ricorso è stato respinto.
Il TAR di Palermo ha premesso come il comma 1 del menzionato art. 18 statuisca che: "Le spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti e atti connessi con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall'avvocatura dello Stato.
Le amministrazioni interessate, sentita l'avvocatura dello Stato, possono concedere anticipazioni del rimborso, salva la ripetizione nel caso di sentenza definitiva che accerti la responsabilità
".
Di talché, il giudicante, al fine di delimitare l’ambito di applicazione della norma -e così il diritto del pubblico dipendente al rimborso delle spese di patrocinio legale sostenute– ha ritenuto necessario individuare l’esatta portata interpretativa della prevista connessione degli atti e fatti, in relazione ai quali il dipendente è sottoposto a giudizio, con "l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali".
Sicché, sulla scorta di un consolidato indirizzo per cui “la norma in esame appare caratterizzata dalla finalità di evitare che i dipendenti statali debbano essere esposti all'onere delle spese legali, per i giudizi promossi nei loro confronti per fatti connessi all'espletamento del servizio” (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. I, 26.04.2010, n. 8478; Cass. Civ., Sez. I, 03.01.2008, n. 2), l’adito G.A. ha precisato come, in linea di principio, la connessione dei fatti con lo svolgimento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali, debba intendersi nel senso che tali atti e fatti siano effettivamente riconducibili all'attività funzionale del dipendente stesso in un rapporto di stretta dipendenza con l'adempimento dei propri obblighi (nello stesso senso, Cons. Giust. Amm., Sez. Cons., 04.04.2006, n. 358).
Conseguentemente, con riferimento al caso di specie, ha ritenuto non meritevole di condivisione la prospettazione del ricorrente, secondo cui i fatti al medesimo contestati rientrassero nell’alveo dei cd. "reati propri", ovvero di quei reati richiedenti espressamente la qualità soggettiva di pubblico ufficiale.
Invero, ha osservato come i comportamenti contestati al deducente, avendo integrato il reato di tentata truffa e di concorso morale, con altro imputato, nell’occultamento di verbali, avessero riguardato atti che in nessun modo potevano rientrare tra i compiti istituzionali cui lo stesso era preposto.
Invero, ha precisato che la qualità di pubblico ufficiale aveva rappresentato unicamente una mera occasione per l’adozione di un contegno che, però, appariva del tutto sganciato dall’assolvimento degli obblighi istituzionali.
Per siffatta ragione, il Collegio ha rilevato l’inapplicabilità del menzionato art. 18, atteso che i fatti per i quali il ricorrente era stato rinviato a giudizio, e poi assolto, erano ricollegabili alla propria vita di relazione e comunque al proprio status (di appartenente alla Guardia di Finanza) e non al diretto svolgimento delle rispettive funzioni istituzionali.
Senza, del resto, tralasciare la circostanza per cui il Tribunale amministrativo ha ribadito l’inapplicabilità del predetto art. 18 anche sulla scorta della considerazione per cui l’assoluzione penale del ricorrente per i fatti in esame era avvenuta, ai sensi dell’art. 530 c.p.p., "perché il fatto non sussiste", vale a dire solo per insufficienza di prove, con ciò non escludendosi del tutto la sua responsabilità.
Alla stregua di siffatte argomentazioni, il TAR di Palermo ha rigettato il gravame, con conseguente conferma della legittimità dell’impugnato provvedimento di diniego di rimborso delle spese giudiziali sostenute dal ricorrente (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 04.04.2012 n. 695 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 16.04.2012

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NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

LAVORI PUBBLICI: Oggetto: ”Patto di Stabilità” e ritardati pagamenti di lavori pubblici. Aggiornamento della situazione normativa (ANCE Bergamo, circolare 13.04.2012 n. 110).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Compendio di normativa ambientale. Edizione num. 2 – anno 2012 (ANCE Bergamo, circolare 13.04.2012 n. 107).

AMBIENTE-ECOLOGIA - VARI: Oggetto: Compendio di normativa sull’autotrasporto. Edizione num. 1 – anno 2012 (ANCE Bergamo, circolare 13.04.2012 n. 106).

SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nota ARAN 15131/2012 del 10.04.2012 - I chiarimenti poco chiari sulla revoca dell’ammissione del CSA al CCNQ (CSA di Roma, comunicato 13.04.2012: file 1 - file 2).

PUBBLICO IMPIEGO: EE.LL. - Quando la corte dei Conti non "c'azzecca" per niente (... in merito alla soppressione di posizioni organizzative) (CGIL-FP di Bergamo, nota 10.04.2012).

SEGRETARI COMUNALI: EE.LL. - Trattamento economico dei segretari comunali (CGIL-FP di Bergamo, nota 10.04.2012).

UTILITA'

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - AMBIENTE-ECOLOGIA - VARI: Il decreto semplifica Italia (Funzione Pubblica, aprile 2012).

SICUREZZA LAVOROLa responsabilità in materia di sicurezza del lavoro - I ruoli individuati dal decreto legislativo 09.04.2008 n. 81 e la delega di funzioni (ANCE, febbraio 2012).

SICUREZZA LAVORO: “Io non ci casco”: ecco la guida illustrata sui lavori in quota, con esempi pratici di POS e Fascicolo Tecnico.
La caduta dall’alto rappresenta il rischio più frequente e grave a cui sono esposti gli operai durante i lavori in quota.
L’USLL di Padova ha pubblicato il manuale “Io non ci casco”, che affronta passo passo i rischi a cui sono esposti i lavoratori in quota e propone la giusta soluzione per ogni caso, sottolineando la necessità di far seguire ad un’adeguata progettazione delle misure di sicurezza un’adeguata formazione dei lavoratori stessi.
Il documento è un valido strumento per committenti, progettisti, lavoratori e ha l’obiettivo di ridurre l’incidenza di cadute dall’alto. Riporta regole, comportamenti e pratiche di lavoro che migliorano la sicurezza dei lavoratori, adottando opportune misure di protezione collettiva e adeguati dispositivi di protezione individuali (DPI).
L’ultima parte del manuale contiene esempi illustrati di:
● P.O.S. (Piano Operativo di Sicurezza)
● Fascicolo Tecnico dell’opera (12.04.2012 - link a www.acca.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: V. Lioniello, Le distanze tra gli edifici: il contrasto tra la normativa nazionale e quella regolamentare adottata dai Comuni - Nota a Cass. Civ., Sez. II, 14.03.2012 n. 4076 (link a www.diritto.it).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: L. Bellagamba, Autocertificabilità della regolarità contributiva: la legge di conversione del terzo decreto “Monti” … e il problema che rimane (settimo aggiornamento) (07.04.2012 - link a www.linobellagamba.it).

ENTI LOCALI: S. Marchegiani e N. Mancini, Reinternalizzazione dei servizi e limiti alle assunzioni di personale negli enti locali (link a www.ipsoa.it).

CORTE DEI CONTI

CONSIGLIERI COMUNALI: Riduzione dell'indennità di funzione.
La Corte dei Conti per il Piemonte, con parere 22.03.2012 n. 28, ha risposto ad una richiesta di chiarimenti posta dal Comune di Moransengo in merito all'applicazione della riduzione del 50% dell'indennità di carica da corrispondere ad un amministratore comunale che svolge attività professionale di lavoratore autonomo contestualmente a quella di lavoratore dipendente presso un'azienda di servizi ex municipalizzata.
La Corte chiarisce che "nell'ipotesi di lavoratore dipendente che non abbia chiesto il collocamento in aspettativa e svolga contemporaneamente attività professionale di lavoratore autonomo, opera la riduzione del 50% dell'indennità di funzione, prevista dall'ultimo inciso del primo comma dell'art 82 del TUEL".

ENTI LOCALIConduttore unico, fuori i rinnovi taciti.
Le disposizioni previste dall'articolo 12 del decreto legge n. 98/2011, in materia di conduttore unico degli immobili della p.a. in locazione passiva da privati, sono applicabili ai nuovi contratti stipulati dalla data di entrata in vigore del citato decreto, ai rinnovi contrattuali, ma non ai rinnovi taciti come quelli previsti dall'articolo 28 della legge sull'equo canone.
In questi ultimi, infatti, si verifica una proroga della scadenza precedentemente prevista, restando inalterate le altre condizioni stabilite originariamente.
Inoltre, il contratto è altresì valido, ancorché non sia stato ridotto del 10%, in violazione delle disposizioni previste dalla legge finanziaria 2006, se la p.a. dimostra che la ricerca di altre soluzioni meno onerose abbia avuto esito negativo.

È quanto emerge dalla lettura della deliberazione 23.03.2012 n. 7, con cui la Corte dei conti, Sez. centrale di legittimità sugli atti del governo e delle p.a., ha ammesso al visto e alla conseguente registrazione, sette provvedimenti concernenti il rinnovo tacito di contratti di locazione passiva per immobili adibiti a sede di comandi della Guardia di finanza.
Il collegio ha risolto alcune questioni interessanti sotto il profilo della legittimità degli atti.
Ha infatti rilevato che tutti i contratti erano stati stipulati sotto la vigenza della legge n. 392/1978 (meglio nota come legge sull'equo canone) e che il tacito rinnovo altro non è che una «forma di semplificazione amministrativa che legittima la prosecuzione di un contratto in virtù di tale clausola negoziale».
Quanto alle doglianze in materia di «incompatibilità» dei provvedimenti di tacito rinnovo con le disposizioni in materia di conduttore unico ex dl n. 98/2011, la Corte ha rilevato che le citate disposizioni sono applicabili ai nuovi contratti, ivi compresi i rinnovi degli stessi, ma non certo ai rinnovi taciti attuati ai sensi dell'articolo 28 della legge sull'equo canone.
Infatti, in questi ultimi casi, più che di un vero e proprio rinnovo, si è nel campo di una proroga dei contratti originari, per i quali si verifica solo uno «spostamento in avanti» della scadenza precedentemente prevista, restando inalterate le altre condizioni originariamente stabilite.
Una considerazione, questa, che la stessa Corte riallaccia alle indicazioni fornite dalla Ragioneria generale dello stato nella circolare n. 24 del 05.08.2011, ove si precisa che le disposizioni in materia di conduttore unico investono la stipula di nuovi contratti di locazione passiva, ma non si estendono a tutti gli altri rapporti correlati all'utilizzazione da parte di una p.a. di un immobile appartenente ad un privato.
Inoltre, il collegio della Corte ha ritenuto superato anche un ulteriore motivo di censura, vale a dire la mancata riduzione del canone annuo nella misura del 10%, prevista dal comma 478 della legge finanziaria 2006. Si è osservato, infatti, che se la mancata riduzione dipende dal rifiuto opposto dal privato possessore dell'immobile di accettare tale riduzione e le amministrazioni non hanno reperito soluzioni alternative meno onerose, non vi è l'obbligo di rinunciare all'immobile locato (articolo ItaliaOggi del 13.04.2012 - tratto da www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGORogiti à gogò per i vicesegretari. Se dirigenti percepiscono diritti di segreteria senza limiti. La Corte conti della Sicilia smentisce le indicazioni dell'Aran e della Ragioneria dello stato.
I vicesegretari comunali che sono dirigenti possono percepire i diritti di segreteria, il cd rogito, anche oltre il tetto di 1/3 dello stipendio annuale dei segretari comunali.
È questo il principio fissato dalla sentenza 08.03.2012 n. 786 della Sez. giurisdizionale della Corte dei Conti della Sicilia.
La sentenza smentisce le indicazioni dettate dall'Aran, dalla Ragioneria generale dello stato e da numerose sezioni regionali di controllo della stessa magistratura contabile.
Il primo elemento da sottolineare è che vi è una significativa differenza tra i contratti dei dirigenti del 25/02/2006, che si limita a prevedere la possibilità di erogare questo compenso ai vicesegretari, e del personale del 09/05/2006, il quale prevede questa possibilità per i dipendenti cui è attribuito tale incarico, ma entro il tetto massimo –sommando i compensi che spettano al segretario e quelli che sono attribuiti al vicesegretario- di 1/3 del trattamento economico annuale del segretario.
La colpa grave deve essere esclusa per la indubbia incertezza interpretativa esistente nella lettura delle due disposizioni contrattuali.
Si deve escludere la possibilità della interpretazione analogica: «essendo il contratto un atto negoziale, frutto della concorde volontà di due o più soggetti, esso vincola, tranne i casi espressamente previsti dalla legge, ai sensi dell'art. 1372 c.c., solamente le parti stipulanti e nel caso dei contratti collettivi le categorie datoriali e dei lavoratori in essi espressamente rappresentate e previste». Ovviamente l'interpretazione di un contratto non si può estendere alle disposizioni dettate nella intesa per un'altra categoria o per un altro comparto.
Viene messa in discussione la legittimità della norma dettata dal contratto collettivo del personale, in quanto produce effetti su altri dipendenti non compresi nel comparto, cioè i segretari: «tale norma contrattuale, incidendo sullo stato giuridico ed economico dei segretari comunali ha oltrepassato i limiti di efficacia della specifica contrattazione collettiva prevista esclusivamente per il personale non dirigente degli enti locali, visto che, i segretari comunali costituiscono un separato e autonomo comparto contrattuale. Pertanto, tale clausola deve considerarsi inefficace per l'assenza delle rappresentanze sindacali dei segretari comunali, in quanto incide comunque sul loro stato giuridico ed economico relativo ai diritti di rogito».
La sentenza afferma la rilevabilità d'ufficio di questa illegittimità: essa «trova il proprio rafforzamento e fondamento nell'art. 45 dlgs n. 165/2001, il quale imponendo l'applicazione di un trattamento non inferiore a quello previsto dal rispettivo contratto collettivo (quello dei segretari comunali, che non prevede un tetto ai diritti di rogito al lordo e comprensivo di quelli spettanti ai vicesegretari) e nell'art. 1325 n. 1 c.c., che prevede quale elemento essenziale del contratto l'accordo tra le parti, che in questo caso è mancante, ciò trasforma l'inefficacia per difetto di rappresentanza in una invalidità assoluta, ovvero nullità, della clausola contrattuale, rilevabile d'ufficio ai fini della valutazione da parte di questo collegio della responsabilità del convenuto, qualora avesse (come ritiene parte attrice) superato il suddetto limite quantitativo, ferma restando comunque, come già accennato, la violazione dell'art.1372 c.c., non potendo tale contratto vincolare i segretari comunali».
Viene infine messa in discussione dalla sentenza la legittimità della norma contrattuale che prevede il calcolo del tetto di 1/3 sulla base del periodo di effettiva sostituzione e non allo stipendio annuale teorico: «nel caso di impedimento, il segretario non può considerarsi assente, ma allo stesso tempo il vice segretario può rogare il contratto, pertanto, in pratica diventa impossibile individuare un periodo di sostituzione che in fatto è istantaneo».
Per cui si deve parlare di illegittimità «per impossibilità dell'oggetto» (articolo ItaliaOggi del 13.04.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni in deroga nella Polizia Locale.
Torna sull'argomento la Corte dei Conti Sez. Reg.le Puglia che, con il parere 16.01.2012 n. 7, risponde a tre quesiti posti dal Comune di Giovinazzo.
Questi, in sintesi, gli avvisi della sezione pugliese:
- "... se per effettuare assunzioni nel settore della polizia locale, ai fini della determinazione dell'ammontare della spesa del personale cessato, debba tenersi conto di tutte le cessazioni dal servizio ovvero delle sole cessazioni riferibili alla suddetta Area. Sul punto il Collegio ritiene di non doversi discostare da quanto già affermato da questa Sezione regionale di Controllo con deliberazione n. 125/PAR/2011 del 21.12.2011 che ha riconosciuto la necessità della corrispondenza tra le mansioni già svolte dal personale cessato e le mansioni a cui dovrà essere adibito il personale da assumere.
Tale principio si basa sulla stretta interpretazione -in quanto norma di carattere eccezionale- dell'espressione utilizzata dal legislatore ("assunzioni per turn-over che consentano l'esercizio delle funzioni fondamentali") che rende palese la volontà di collegare le nuove assunzioni alla necessità di continuare ad esercitare funzioni amministrative ritenute di particolare rilevanza (funzioni polizia locale) che potrebbero essere compromesse dalla riduzione del personale dipendente adibito al loro svolgimento
";
- "... se le assunzioni per turn-over possano essere effettuate sia per il servizio di polizia municipale che per quello di polizia amministrativa. ..... Ai sensi del comma 2 del medesimo art. 21 (L. 42/2009) le predette funzioni sono individuate e quantificate dalle corrispondenti voci di spesa sulla base dell'articolazione in funzioni e servizi .... la funzione '04. Funzioni di polizia locale' ..... è .....articolata nei seguenti Servizi: 04.01 - Polizia municipale; 04.02 - Polizia commerciale; 04.03 - Polizia amministrativa. Il servizio di polizia amministrativa risulta dunque ricompreso nella più generale 'Funzione di Polizia Locale'.";
- ".... se la possibilità ..... riguardi anche il personale amministrativo (dal quesito: che presta servizio presso la polizia locale). ....La ratio di tale deroga risiede nel favor del legislatore verso lo svolgimento delle funzioni di polizia. Considerato che ai sensi della L. 65/1986 le funzioni di polizia locale sono esercitate dai Comuni per mezzo del Servizio (o del Corpo) di Polizia Municipale, appare chiara la volontà del legislatore di limitare la deroga in esame ai soli addetti al predetto Servizio." (tratto da www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Rimborsi spese amministratori locali: non rileva la residenza anagrafica ma la dimora effettiva.
L’art. 84 del T.U.E.L. 18.08.2000, n.267, prevede che agli amministratori di enti locali fuori sede spetta il rimborso delle spese di viaggio “per le sole spese di viaggio effettivamente sostenute per la partecipazione alle sedute dei rispettivi organi assembleari ed esecutivi, nonché per la presenza necessaria presso la sede degli uffici per lo svolgimento delle funzioni proprie o delegate”.
L'articolo citato non fa riferimento alla residenza anagrafica e va pertanto riferito all’effettiva residenza, posto che l’intento del legislatore è stato di rendere indenni gli amministratori medesimi delle spese da essi concretamente sostenute per recarsi dalla propria abitazione alla sede dell’ente ove espletano il loro incarico.
Pertanto, la Corte dei Conti, Sez. giurisdizionale per la regione Lombardia, con sentenza 10.01.2012 n. 4, chiarisce che sono illegittimi e costituiscono danno erariale i rimborsi spese relativi al tragitto dal comune di residenza anagrafica dell’amministratore, qualora sia stato provato che l’interessato in quel periodo dimorasse invece nel comune sede dell’ente amministrato (link a www.corteconti.it).

QUESITI & PARERI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Gestione delle risorse destinate al trattamento accessorio del personale.
Domanda
Liquidando la produttività dell'anno 2011 di un Ente ai propri dipendenti, le economie rilevate possono far parte dell'avanzo vincolato al Fondo risorse decentrate anno 2012 o saranno parte indistinta del risultato di amministrazione?
Risposta
L'art. 17 del C.C.N.L. 1999 stabilisce, al comma 5, che "Le somme non utilizzate o non attribuite con riferimento alle finalità del corrispondente esercizio finanziario sono portate in aumento delle risorse dell'anno successivo".
L'art. 9, comma 2-bis, del D.L. 31-05-2010, n. 78 prevede che "a decorrere dall'01.01.2011 e sino al 31.12.2013 l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, non può superare il corrispondente importo dell'anno 2010 ed è, comunque, automaticamente ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio". Si riportano i Pareri contrastanti delle Corte dei Conti delle varie sezioni regionali:
- Sezione regionale della Corte Conti - Veneto - si è espressa con la Delibera n. 285/2011 ritenendo il limite dell'anno X del Fondo risorse decentrate, rispetto al Fondo dell'anno X-1, si applichi anche sulle economie degli anni precedenti;
- Sezione regionale della Corte dei Conti - Puglia - si è espressa con la Delibera n. 58/2011 sostenendo la tesi opposta;
- Sezione Regionale della Corte dei Conti - Lombardia - si è espressa con la Delibera n. 609 dell'11.11.2011 individuando e ponendo fine a tutti dubbi in merito alla problematica in questione stabilendo che: "Sempre nell'ottica dei congelamenti retributivi comminati dal D.L. 31-05-2010, n. 78, infatti, si ribadisce che la ratio della norma deve essere individuata nella cristallizzazione della dinamica retributiva del pubblico impiego (incluse le risorse per il trattamento accessorio) al fine di contenere la spesa pubblica per esigenze di stabilità economico-finanziaria del Paese. Rispetto a tali esigenze, la misura di contenimento deve reputarsi applicabile, quindi, sinanco laddove l'ente disponga di risorse aggiuntive, derivanti ad esempio da incrementi di entrata ovvero da riporto di erogazioni di risorse non effettuate negli anni precedenti. Resta inteso, peraltro, che sia pure non idonee a consentire una deroga alla limitazione operata dal legislatore, il "trasporto" previsto dalla contrattazione collettiva al successivo esercizio finanziario di somme in concreto non erogate opera in bonam partem sia pure nel più limitato senso di rendere irrilevante, al fine della determinazione del plafond cui ancorare il tetto di spesa, la mancata attribuzione delle predette risorse".
Ad avviso dello scrivente, le economie del Fondo risorse decentrate dell'anno precedente non possono formare integrazione del Fondo dell'anno successivo, al fine del rispetto del disposto dell'art. 9, comma 2-bis, del D.L. 31-05-2010, n. 78. Il confronto fra il Fondo dell'anno X e dell'anno X+1 viene effettuato sulle risorse individuate al momento della costituzione dei due Fondi; il confronto è attuato fra i due ammontari complessivi delle risorse destinati annualmente al trattamento accessorio del personale (costituzione del fondo) e non sull'utilizzo del medesimo. Se nell'anno x è stato costituito il Fondo risorse decentrate (senza economie anno x-1) per 100.000 euro e ne è stato utilizzato nell'anno x soltanto 90.000, nell'anno x+1 la costituzione del Fondo ha come limite la somma di 100.000 euro (costituzione) e non quella di 90.000 euro (utilizzo) (06.04.2012 - tratto da www.ipsoa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Gli sfalci e le potature, derivanti da manutenzione del verde pubblico e privato, sono rifiuti? (05.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Per il trasporto transfrontaliero di rifiuti il Paese di destino deve dichiarare il rispetto di norme ambientali equivalenti alle europee? (05.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Si deve pagare il contributo SISTRI in scadenza il 30 aprile? (05.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Chi è obbligato al Mud? Chi è obbligato al “mudino”? Quali sono le scadenze? (05.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Per l’iscrizione all’Albo Gestori Ambientali è sufficiente una garanzia finanziaria pari a 9.000 euro per il primo veicolo? (05.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Chi sono i produttori di pile e accumulatori e a cosa sono tenuti? (05.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Il trattamento tramite compostaggio dei rifiuti urbani biodegradabili necessita dell’autorizzazione unica? (05.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Come si configura il divieto di commercializzazione di sacchi per asporto merci non biodegradabili? (05.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: I materiali da riporto sono sottoprodotti? (05.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Esiste ancora la previsione che gli imprenditori agricoli, che trasportano propri rifiuti in modo occasionale e saltuario, non sono tenuti all’iscrizione all’albo? (05.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Gli imprenditori agricoli che trasportano i propri rifiuti sono esclusi dal SISTRI? (05.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Quale è la disciplina delle terre e rocce da scavo? (05.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Come devono essere effettuati i dragaggi? (05.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Quale può essere l’alternativa al Conai nella gestione dei rifiuti di imballaggio? (05.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: In che modo si liberalizza la gestione dei rifiuti urbani? (04.04.2012 - link a www.ambientelegale.it).

NEWS

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCorruzione p.a., prefetti in campo. Gli Utg vigileranno sui comuni. Più poteri ai segretari. Le proposte della commissione Patroni Griffi. Per gli enti locali un passo indietro di 15 anni.
Prefetti e segretari in campo per la lotta alla corruzione negli enti locali. Prefigura un passo indietro di almeno 15 anni l'integrazione al rapporto sulle misure anticorruzione elaborata dalla «Commissione di studio su trasparenza e corruzione nella p.a.», sotto il coordinamento del ministro Filippo Patroni Griffi.
Il documento contiene una serie di proposte che la commissione coordinata dal consigliere di stato Roberto Garofoli chiederà vengano recepite nel ddl anticorruzione su cui sta lavorando il ministro della giustizia Paola Severino (si veda ItaliaOggi del 31/3/2012).
Si tratta di una sonora bocciatura delle riforme-Bassanini che nel 1997, in un'impostazione pseudo-federalista dell'autonomia locale, modificarono radicalmente la figura del segretario comunale, sottraendogli la competenza a esprimere il parere di legittimità sugli atti degli enti locali e lasciando la sua nomina nelle mani dei sindaci e dei presidenti delle province, in applicazione di uno spoil system molto spinto.
La Commissione, a seguito di un'audizione col Viminale dello scorso 22 marzo, prefigura un sostanziale ritorno indietro su tutta la linea, travolgendo anche ogni residua velleità di «federalismo» o «policentrismo istituzionale».
Poteri del prefetto. L'idea di fondo del piano anticorruzione è costituire un'ennesima Authority. La Commissione, tuttavia, si rende conto che tale organismo avrebbe difficoltà a relazionarsi con le amministrazioni locali. Il compito, allora, di vigilare sulle misure anticorruzione da adottare da parte degli enti locali si ipotizza possa essere assegnato ai prefetti, anche nel quadro di un potenziamento degli uffici del governo.
Il peso del Viminale tornerebbe, così, a gravare fortemente su comuni e province. Le prefetture dovrebbero supportare gli enti locali per l'elaborazione dei «piani di prevenzione della corruzione», obbligatori per tutte le p.a., assicurando che siano formulati nel rispetto delle linee-guida dell'Authority, della quale sarebbero le referenti.
Poteri sostitutivi. Il rapporto suggerisce anche di attribuire ai prefetti il potere di sostituirsi alle amministrazioni locali inadempienti, che non adottino, aggiornino o attuino i piani di prevenzione della corruzione.
Ma, in alternativa o in aggiunta, lo studio della Commissione prende in considerazione anche l'ipotesi di configurare la mancata adozione del piano alla stregua della mancata approvazione del bilancio di previsione. La conseguenza, dunque, sarebbe il commissariamento e lo scioglimento dell'ente locale.
Ruolo del segretario comunale. Il piano anticorruzione prevede l'individuazione di un «dirigente responsabile della prevenzione della corruzione», che secondo la Commissione andrebbe individuato nel segretario comunale, in particolare nei comuni privi di dirigenza, nelle forme associative e nei comuni con meno di 5.000 abitanti, ove la gestione sia assegnata ai componenti della giunta, ai sensi dell'articolo 53, comma 23, della legge 388/2000. Il segretario comunale, dunque, avrebbe il compito materiale di redigere il piano e sottoporlo all'approvazione dell'organo di governo, che secondo la Commissione dovrebbe essere la giunta.
Inoltre, il segretario dovrebbe addossarsi le funzioni proprie del dirigente responsabile, procedendo, dunque, ad attuare concretamente le misure contro la corruzione. La Commissione ritiene che l'attribuzione di questo ruolo al segretario comunale risulti coerente con le sue funzioni di coordinamento dell'azione dei dirigenti e le storiche competenze in tema di regolarità amministrativa, visto che il segretario è sempre stato strumento di garanzia di legalità e imparzialità dell'azione amministrativa.
Dunque, in qualità di dirigente responsabile dell'anticorruzione, al segretario andrebbero rassegnati poteri e funzioni addirittura più ampi di quelli, come il mero parere di legittimità, che resero la figura talmente invisa alle amministrazioni locali da suscitare la proposta di un referendum abrogativo, scongiurato proprio dalle riforme-Bassanini, dalle quali derivò il depotenziamento del ruolo dei segretari.
Nomina e revoca dei segretari. Altro punto dolentissimo della riforma-Bassanini è da sempre il sistema di nomina e revoca dei segretari. La legge 127/1997 e, attualmente, il testo unico degli enti locali connota come ampiamente fiduciario l'incarico che sindaci e presidenti delle province assegnano ai segretari comunali, così da comprometterne l'autonomia e indipendenza operativa.
La Commissione, dunque, ritiene opportuno modificare radicalmente il sistema di nomina, ipotizzando che il Viminale sottoponga ai vertici monocratici degli enti locali una rosa di segretari preselezionata in base a specifici requisiti di professionalità e sulla base di autocandidature, nell'ambito della quale sindaco e presidente della provincia possano poi nominare il segretario da incaricare (articolo ItaliaOggi del 14.04.201).

APPALTIDurc sanabili per i subappaltatori. L'intervento sostitutivo del committente su tutti i partecipanti. I chiarimenti in merito alla procedura di regolarizzazione introdotta dal dpr 207 del 2010.
L'intervento sostitutivo della stazione appaltante in caso di Durc irregolare può riguardare anche gli eventuali subappaltatori impiegati nel contratto, nei limiti del valore del debito che l'appaltatore ha nei loro confronti. Inoltre, prima di procedere all'intervento sostitutivo, la stazione appaltante deve darne comunicazione all'Inps ed effettuare il pagamento nei successivi 30 giorni.
Lo precisa l'Inps, tra l'altro, nella circolare 13.04.2012 n. 54.
Intervento sostitutivo. Il dpr n. 207/2010 ha introdotto un particolare meccanismo attraverso cui, in presenza di Durc che evidenzi delle irregolarità nei versamenti dovuti agli istituti previdenziali (Inps e Inail) e/o alle casse edili (nel caso di imprese edili), le stazioni appaltanti hanno il potere di sostituirsi al debitore (cioè alle imprese titolari del Durc irregolare e che detengono i lavori in appalto) versando, in tutto o in parte, direttamente ai predetti istituti e casse edili le somme dovute in forza del contratto di appalto.
Subappalti. L'Inps precisa che l'intervento sostitutivo opera limitatamente ai contratti pubblici, ossia nei casi di contratti di appalto o di concessioni aventi per oggetto l'acquisizione di servizi o forniture, ovvero l'esecuzione di opere o lavori. E che può riguardare pure le eventuali irregolarità contributive dei subappaltatori impiegati nel contratto. In tal caso, la stazione appaltante potrà eseguire il pagamento a favore degli enti interessati nei limiti del valore del debito che l'appaltatore ha nei confronti del subappaltatore.
Comunicazione preventiva. In merito alla procedura dell'intervento sostitutivo l'Inps spiega che, ricevuto un Durc attestante l'irregolarità dell'esecutore o di un subappaltatore, la stazione appaltate è tenuta a comunicare, per posta elettronica certificata, alla sede Inps che ha accertato l'inadempienza, la volontà di attivare l'intervento sostitutivo.
A tal fine l'Inps ha predisposto apposito modello per facilitare la trattazione degli interventi sostitutivi, in cui la stazione appaltante indicherà tra l'altro l'importo che intende e che dovrà versare, salvo l'Inps non comunichi un minor valore in presenza di modifiche dello status debitorio del soggetto sostituito (appaltatore e/o subappaltatore), nelle more del perfezionamento del procedimento dell'intervento sostitutivo.
Il pagamento. La stazione appaltante, spiega inoltre l'Inps, effettuerà il pagamento non in proprio ma sostituendosi all'adempimento del contribuente.
Di conseguenza, il pagamento della somma oggetto d'intervento sostitutivo dovrà avvenire utilizzando le medesime modalità e le medesime specifiche previste per l'adempimento contributivo da parte dell'obbligato principale (il sostituito: l'appaltatore oppure il subappaltatore). A tal fine, nella lettera di riscontro alla comunicazione preventiva, l'Inps fornirà indicazioni alla stazione appaltante sui dati da indicare nella «sezione Inps» del modello F24 con cui eseguire il pagamento.
Per consentire il corretto svolgimento del procedimento, l'Inps precisa infine che è opportuno che il pagamento sia effettuato non oltre il termine di 30 giorni dal ricevimento della lettera di riscontro alla comunicazione preventiva e che la notizia dell'avvenuto pagamento sia inviata, sempre per Pec o per e-mail, dalla stazione appaltante, alla sede Inps di riferimento (articolo ItaliaOggi del 14.04.2012).

LAVORI PUBBLICIParcheggi fuorigioco. Il concessionario va scelto con gara. L'Antitrust boccia il sistema di affido diretto delle opere.
Nella realizzazione dei programmi urbani per i parcheggi il concessionario deve essere scelto in gara e non può essere affidatario diretto, così come avviene oggi.
E' quanto chiede l'Autorità garante della concorrenza e del mercato con la segnalazione 29.03.2012 (AS 295) indirizzata al presidente dell'Anci e al Sindaco di Roma in merito ai Programmi urbani parcheggi (Pup) di cui alla cosiddetta «Legge Tonioli» n. 122/1989.
Il problema che pone l'Autorità presieduta da Giovanni Pitruzzella attiene alle modalità con le quali il Comune di Roma ha proceduto all'affidamento delle concessioni (di progettazione, costruzione e gestione dei parcheggi) dal momento che, in base agli esposti ricevuti, vi sarebbero stati veri e propri affidamenti diretti a società a capitale privato, «in presunta violazione di quanto previsto dalle direttive europee in materia di contratti pubblici e dal Codice dei contratti pubblici, oltre che, in generale, in violazione dei principi e dalle regole sulla concorrenza e sul mercato».
La particolarità degli interventi oggetto di segnalazione è che si tratta di parcheggi privati da realizzare su suolo pubblico, in cui, quindi, i fondi per realizzare l'opera sono privati, ma lo spazio ed il suolo ove si realizzano i parcheggi sono di proprietà pubblica (il comune istituisce un diritto di superficie a favore del soggetto privato, concessionario).
A tutt'oggi accade che la società proponente ottiene, senza gara, la concessione del diritto di superficie per il solo fatto di essere stata la prima a fare domanda di concessione in relazione ad una determinata area pubblica.
Il ragionamento che fa l'authority è di una semplicità estrema: dal momento che per realizzare il parcheggio «la disponibilità di spazi, terreno e suolo è un input produttivo essenziale ed imprescindibile», il ruolo che svolge il privato nella promozione dell'intervento (più o meno alla stessa stregua del promotore di un project finance così come disciplinato dal Codice dei contratti pubblici) incide soltanto su di «una prima fase di un fisiologico processo decisionale pubblico, ossia quella relativa alla valutazione dell'esistenza di significative potenzialità di mercato, mediante l'osservazione e il recepimento delle esigenze segnalate dalla domanda».
La legge, laconicamente, prevede infatti che le iniziative siano attivate «su richiesta dei privati interessati o di imprese di costruzione o di società anche cooperative». Senza il conferimento del diritto di superficie tutta l'operazione non sarebbe possibile; pertanto se il suolo (e il sottosuolo) rappresentano quello che la segnalazione qualifica come «fattore produttivo essenziale», diventa difficile sostenere la legittimità di un conferimento in via diretta, con modalità discrezionali, di una risorsa scarsa come il suolo, nei confronti di alcuni soggetti e non di altri.
Secondo l'Antitrust, invece, sarebbe bene che l'Amministrazione, «una volta valutata la convenienza, anche sociale, della realizzazione dell'opera privata su suolo pubblico, massimizzi l'interesse pubblico -anche in termini economici- ricorrendo all'applicazione dei principi concorrenziali, nella forma del ricorso a procedure di gara per l'individuazione dell'impresa concessionaria». In altre parole si tratta di una concessione come tante altre che dovrebbe essere messa in concorrenza fra tutti gli operatori del mercato sia per ottenere proposte progettuali alternative, sia per massimizzare il profitto derivante dalla cessione del diritto di superficie.
In concorrenza potrebbero quindi andare gli oneri concessori, le caratteristiche, gli elementi progettuali, la tempistica dell'opera, i successivi servizi di manutenzione ed altri elementi, così come accade nelle ordinarie concessioni di costruzione e gestione. Adesso spetterà ai Comuni (quello di Roma in primis) tenere conto delle osservazioni dell'Antitrust, anche alla luce di possibili rilievi sotto il profilo della responsabilità per danno erariale che potrebbero in futuro arrivare dalla magistratura contabile (articolo ItaliaOggi del 13.04.2012).

APPALTIDurc, l'Inps chiarisce meglio il raggio d'azione.
Il documento unico di regolarità contributiva (noto come Durc) è richiesto da tutti i committenti di appalti o subappalti alle ditte appaltatrici.
Ciò al fine di poter procedere al pagamento di quanto pattuito senza il rischio di rispondere a titolo di solidarietà per i debiti dell'appaltatore.
Andrà detto che, nonostante il Durc, restano fuori da detta certificazione alcuni debiti e in particolare quelli eventuali nei confronti dei lavoratori dipendenti a titolo di retribuzioni dirette e indirette.

L'ultima novità in tema di Durc è stata fornita dal messaggio 17.02.2012 n. 2860 dell'Inps.
Nel testo si precisa che per rendere omogenee le informazioni riportate nel Durc in caso di irregolarità anche l'Istituto dovrà rendere noto l'importo del debito contributivo accertato alla data indicata nel documento stesso.
A questo proposito viene ricordato l'obbligo derivante dall'applicazione dell'art. 7, comma 3, del dm 24.10.2007, il quale prima dell'emissione del Durc o dell'annullamento del documento già rilasciato con il meccanismo del «preavviso di accertamento negativo», impone agli enti di invitare il contribuente, la cui posizione costituisce oggetto di verifica a regolarizzare la situazione debitoria entro 15 giorni.
L'importo del debito contributivo richiesto in base alla norma citata e non regolarizzato, dovrà essere riportato nell'apposito campo del documento della sezione «Istruttoria Inps».
Detta somma costituirà il valore che le stazioni appaltanti dovranno considerare ai fini dell'applicazione dell'intervento sostitutivo disciplinato dall'art. 4 del dpr n. 207 del 05.10.2010 il quale prevede che il pagamento di quanto dovuto per le inadempienze accertate mediante il Durc è disposto dalle stazioni appaltanti direttamente agli enti previdenziali.
Se vi è iscrizione Inail la richiesta del certificato di regolarità dovrà essere effettuata tramite lo sportello unico previdenziale.
Per quanto concerne il settore agricolo dove opera il Durc Agr Cau la regolarità per ottenere agevolazioni, finanziamenti, sovvenzioni e autorizzazioni dovrà essere richiesta direttamente dalle stazioni appaltanti (articolo ItaliaOggi del 13.04.2012).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Solo incompatibilità doc. Il presidente dell'Unione può lavorare per i comuni. Non è ammissibile l'analogia per le norme che limitano i diritti di status.
Sussiste l'ipotesi dell'incompatibilità, ai sensi dell'art. 63 del Tuel, nel caso del presidente di un'Unione di comuni che svolge anche incarichi tecnici nei comuni facenti parte della stessa Unione?
Secondo il Consiglio di stato «le ipotesi di incompatibilità si applicano solo nei casi ivi testualmente menzionati (art. 63 del decreto legislativo n. 267/2000), in quanto il ricorso all'analogia non è consentito dal principio interpretativo generale per cui le norme che restringono eccezionalmente diritti di status sono di stretta interpretazione». (Consiglio di stato parere n. 5862/2008 del 13-01-2008).
Trattandosi, quindi, di «principio interpretativo generale», va esclusa la sussistenza di incompatibilità nell'ipotesi in questione (articolo ItaliaOggi del 13.04.2012).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Ineleggibilità e incompatibilità.
Sussistono le condizioni di ineleggibilità e/o incompatibilità, ai sensi degli artt. 60 e 63 del Tuel, nei confronti di un consigliere comunale in carica che risulta componente e capo della squadra antincendi boschivi della protezione civile comunale formata esclusivamente da volontari?

Nella fattispecie, non sussistono le condizioni di ineleggibilità e/o incompatibilità previste negli artt. 60 e 63 del decreto legislativo n. 267/2000, considerato che non è ammesso estendere l'ambito applicativo delle disposizioni in questione, in quanto le norme che restringono eccezionalmente diritti di status- come, nel caso di specie, il diritto di elettorato passivo riconosciuto dall'art. 51 della Costituzione- sono norme di stretta interpretazione, le cui disposizioni non possono essere estese in via analogica al di fuori dei casi ivi espressamente indicati (si veda ex multis, la sentenza del Consiglio di stato, I sezione, 22.10.2008, n. 3376) (articolo ItaliaOggi del 13.04.2012).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Rimborso spese legali.
È possibile ottenere il rimborso delle spese legali, sostenute dagli amministratori locali, per la difesa in procedimenti civili o penali conclusisi con sentenza di assoluzione?

Non è dato rinvenire nell'ordinamento vigente norme che prevedono la possibilità di rimborsare agli amministratori locali le spese legali sostenute per giudizi instaurati in relazione a fatti asseritamente posti in essere nell'esercizio delle proprie funzioni.
Benché in passato parte della giurisprudenza abbia ritenuto di poter estendere in via analogica agli amministratori locali la normativa che consente, a determinate condizioni, tale rimborso per i dipendenti degli enti locali, secondo orientamenti ermeneutici più recenti la possibilità di tale ricorso all'analogia nella materia in questione è stata decisamente negata.
In base ai suddetti orientamenti è stato, infatti, ritenuto non pertinente il richiamo all'analogia, che risulta correttamente evocabile quando emerga un vuoto normativo nell'orientamento, vuoto che nella specie non è configurabile, atteso che il legislatore si è limitato a dettare una diversa disciplina per due situazioni non identiche fra loro, e tale diversità non appare priva di razionalità, atteso che gli amministratori pubblici non sono dipendenti dell'ente ma sono eletti dai cittadini, ai quali rispondono (e quindi non all'ente) del loro operato (cfr. sentenza Cassazione civile sez. I n. 12645 del 25.05.2010) (articolo ItaliaOggi del 13.04.2012).

APPALTI: Appalti semplificati, cosa cambia. Da istituire la banca nazionale dei contratti pubblici.  Le novità che entreranno in vigore da gennaio 2013 per effetto della legge Semplifica Italia.
Dall'01.01.2013 gare di appalto semplificate con i controlli effettuati tramite la Banca dati nazionale dei contratti pubblici. Le stazioni appaltanti dovranno verificare i requisiti dei partecipanti alle gare soltanto tramite la banca dati e non potranno più chiedere documenti. Inoltre, ci sarà maggiore trasparenza e certezza nei certificati relativi ai lavori svolti all'estero e una nuova disciplina sulla scelta degli sponsor per la realizzazioni di interventi di restauro oltre che la responsabilità solidale negli appalti fra committente- datore di lavoro e appaltatore per i contributi dei lavoratori.
Sono questi alcuni dei contenuti della legge cosiddetta «Semplifica Italia» (legge 04.04.2012, n. 35, di conversione del decreto legge 09.02.2012, n. 5, recante disposizioni urgenti in materia di semplificazione e sviluppo, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 06.04.2012) che contiene diverse modifiche al Codice dei contratti pubblici.
Banca dati nazionale dei contratti pubblici
Una delle maggiori novità è rappresentata dall'istituzione, presso l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici presieduta da Sergio Santoro, della Banca dati nazionale dei contratti pubblici (Bdncp) che, dall'01.01.2013, diventerà il contenitore di tutta la documentazione relativa alla prova dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico organizzativa dei partecipanti alle gare di appalto e concessioni. All'obbligo di acquisizione della documentazione da parte della Bdncp è correlato l'obbligo per i committenti di verifica dei requisiti di capacità dei concorrenti esclusivamente attraverso la banca dati, senza quindi più chiedere documenti ai partecipanti alle gare.
L'Autorità avrà il potere-dovere di mettere a punto, con propria deliberazione, i termini e le regole tecniche per l'acquisizione, l'aggiornamento e la consultazione dei dati contenuti nella predetta Banca dati. A quest'ultima entro l'inizio del prossimo anno, dovranno quindi affluire, da parte delle stazioni appaltanti e da parte dei soggetti privati, i dati e i documenti rilevanti ai fini della prova dei requisiti di partecipazione; si avrà quindi un sistema dinamico e costantemente aggiornato sulla situazione di ogni impresa e professionista.
Fino all'01.01.2013 si continuerà, però, con il sistema attuale in cui scatta sempre la necessità di produrre documenti in caso di aggiudicazione del contratto o di verifica a campione (sul 10% dei partecipanti). Successivamente all'attivazione della banca dati saranno i singoli operatori economici ad aggiornare la propria posizione trasmettendo, ad esempio, i certificati delle forniture o dei servizi svolti ottenuti dai committenti pubblici e privati. Per altri dati invece saranno le stazioni appaltanti a collegarsi con le altre banche dati pubbliche per acquisire i documenti o per verificarli.
Certificazione dei lavori all'estero
All'articolo 20, sostituendo l'articolo 84 del regolamento del Codice, si è previsto che i certificati, da produrre alla Soa, debbano essere redatti da «tecnico di fiducia del consolato o del Mae», con spese a carico dell'impresa, e debbano corrispondere a modelli predisposti dall'Autorità. La norma, fra le altre cose, precisa anche che, in caso di subappalto, il subappaltatore dell'impresa italiana possa utilizzare il certificato rilasciato all'appaltatore italiano o richiederlo al posto dell'appaltatore se quest'ultimo non lo ha fatto. Si prevede inoltre che se l'interessato non ha più una sede all'estero o vi siano difficoltà ad operare all'estero, si possa fare riferimento alle strutture del Mae nel paese interessato (consolati, ambasciate).
Disciplina delle sponsorizzazioni
La legge prevede una articolata disciplina sulle sponsorizzazioni (si prevede anche l'obbligo di indicare in programmazione triennale quali interventi saranno oggetto di sponsorizzazioni), con ricerca dello sponsor mediante bando pubblicato sul sito istituzionale dell'amministrazione procedente per almeno trenta giorni e richiesta di offerte in aumento sull'importo del finanziamento minimo indicato. L'amministrazione procederà, quindi, alla stipula del contratto di sponsorizzazione con il soggetto che avrà offerto il finanziamento maggiore, in caso di sponsorizzazione pura, o che avrà proposto l'offerta realizzativa giudicata migliore, in caso di sponsorizzazione tecnica.
Responsabilità in solido per appalti di opere o di servizi
La legge 35 prevede la responsabilità in solido del committente imprenditore o datore di lavoro con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, per il pagamento di trattamenti retributivi, compreso il tfr, e i contributi previdenziali dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto (articolo ItaliaOggi dell'11.04.2012 - tratto da www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGOImpugnabili le sanzioni disciplinari. In un interpello i chiarimenti sulle procedure applicabili. Arbitrato nella p.a..
Le sanzioni disciplinari irrogate ai pubblici dipendenti sono impugnabili sia mediante il tentativo di conciliazione, sia con procedure arbitrali.
Lo chiarisce il ministero del lavoro con l'interpello 10.04.2012 n. 11/2012, in risposta a un quesito del Nursind, sindacato delle professioni infermieristiche. L'interpello scioglie il dubbio interpretativo derivante dalla apparente inconciliabilità tra quanto dispone l'articolo 55, comma 3, del dlgs 165/2001 e le disposizioni del codice di procedura civile in tema di processo del lavoro, riformate dalla legge 183/2010 (il cosiddetto collegato lavoro). Ai sensi della regola speciale contenuta nel dlgs 165/2001 «la contrattazione collettiva non può istituire procedure di impugnazione dei provvedimenti disciplinari. Resta salva la facoltà di disciplinare mediante i contratti collettivi procedure di conciliazione non obbligatoria, fuori dei casi per i quali è prevista la sanzione disciplinare del licenziamento (_)».
Detta previsione, inserita nel dlgs 165/2001 dal dlgs 150/2009, cioè la riforma-Brunetta, ha introdotto nell'ambito del lavoro pubblico il divieto di ricorrere avverso i provvedimenti disciplinari emessi dai dirigenti o gli uffici delle p.a., avvalendosi di forme arbitrali fissate dai contratti collettivi o, come precisa l'interpello del ministero, ricorrendo al collegio di conciliazione operante presso le direzioni provinciale del lavoro, in applicazione dell'articolo 7, commi 6 e 7, della legge 300/1970.
Il ministero del lavoro nota, però, che successivamente alla riforma Brunetta, la legge 183/2010 ha modificato proprio la regolamentazione di conciliazione e arbitrato nell'ambito della disciplina delle controversie del lavoro, per altro al preciso scopo di ottenere un effetto deflattivo del contenzioso avanti ai giudici. L'articolo 31, comma 9, della legge 183/2010 ha stabilito espressamente che le nuove regole sull'arbitrato contenute negli articoli 410, 411, 412, 412-ter e 412-quater del codice di procedura civile sono applicabili direttamente alle controversie del lavoro riguardanti i dipendenti pubblici, abolendo le regole speciali sul tentativo obbligatorio di conciliazione e il collegio di conciliazione, contenute negli articoli 65 e 66 del dlgs 165/2001.
Di conseguenza, poiché le vertenze relative alle sanzioni disciplinari riguardano i rapporti di lavoro, secondo l'interpello è possibile per i dipendenti pubblici opporsi all'eventuale irrogazione di sanzioni disciplinari esperendo le procedure di conciliazione e arbitrato previste dagli articoli 410 e 412 c.p.c. Del resto, il tentativo di conciliazione, divenuto facoltativo, trova la sua fonte direttamente nella legge e non nella contrattazione collettiva; sicché non risulta applicabile il divieto posto dall'articolo 55, comma 3, del dlgs 165/2001, che non permette di avvalersi di conciliazione e arbitrati regolati da contratti collettivi.
Resta invece preclusa la possibilità del cosiddetto arbitrato irrituale previsto dall'articolo 412-ter del codice di procedura civile, in quanto tale forma di gravame è rimessa alla disciplina della contrattazione collettiva (articolo ItaliaOggi dell'11.04.2012).

COMPETENZE PROGETTUALIGeometri, competenze limitate. Professioni. Un lodo arbitrale ribadisce il divieto di incarico per opere in cemento armato. Il contratto «esorbitante» è nullo e la parcella diventa inesigibile.
IL FASCICOLO/ Al tecnico era stata commissionata la realizzazione di un chiosco nel parco municipale.

Il progetto redatto da un geometra in un campo esorbitante dalle sue prerogative professionali «è e rimane illegittimo, anche se controfirmato o vistato da un ingegnere e anche se un ingegnere esegua calcoli del cemento armato e diriga le relative opere».
Con questa motivazione, contenuta nel lodo arbitrale 14.03.2012, il Comune di Mezzegra, paese sulle sponde occidentali del Lago di Como, si è visto confermare la nullità dell'incarico di un professionista con il conseguente azzeramento di tutte le pendenze collegate.
Il geometra dal canto suo rivendicava il pagamento del compenso –circa 31 mila euro più interessi– per il progetto preliminare e poi definitivo di un chiosco ad uso commerciale all'interno del parco pubblico del paese, realizzati sulla base di due delibere conformi di Giunta risalenti al 2008. Il contenzioso era sorto dopo che il Comune aveva sospeso la progettazione esecutiva, rifiutandosi di pagare qualsiasi compenso al geometra.
La questione, come al solito, verteva sull'interpretazione dell'articolo 16 del regolamento professionale (Rd 274/1929) che limita la competenza del geometra alla progettazione, direzione e vigilanza di «modeste costruzioni civili» con esclusione di quelle che comportino l'adozione anche parziale di strutture in cemento armato; unica eccezione, la realizzazione di piccole costruzioni accessorie nell'ambito degli edifici rurali o destinati alle industrie agricole che, per la loro destinazione, non comportino pericolo per le persone.
Secondo il collegio arbitrale (presidente Claudio Bocchietti, Daniela Corengia, Sergio Sartori) il divieto di utilizzo del cemento armato per i geometri nelle costruzioni civili è confermato nel Dpr 26/08/1959 che, in accoglimento del ricorso straordinario al Capo dello Stato proposto dall'Ordine degli ingegneri di Venezia, aveva annullato una circolare del ministro dei Lavori pubblici che apriva qualche spiraglio per l'attività dei geometri in questo ambito.
Il collegio ha respinto come infondata anche la comanda del professionista di salvare (il diritto al pagamento per) la progettazione di massima e quella definitiva, dovendosi ritenere illegittima la sola progettazione esecutiva dell'opera in cemento armato: il lodo taccia di nullità l'intero contratto negando «qualunque competenza progettuale» in materia di cementi.
In ultimo, la decisione del collegio respinge anche la domanda residuale di un'azione di arricchimento senza causa (del Comune) poiché il diritto al compenso nascerebbe comunque da una prestazione professionale abusiva.
La decisione del collegio arbitrale lariano si inserisce nel filone giurisprudenziale anche più recente sul punto.
La II Sez. civile della Cassazione, il 2 settembre scorso (sentenza 18038/2011), aveva statuito che il professionista non ha diritto a ottenere il compenso per prestazioni per le quali non è abilitato, anche se queste siano state inserite, non contestate, nella fattura. Stessa decisione nella sentenza 6402 del marzo 2011, che esclude il diritto al compenso se la prestazione non si attiene alla competenza stretta dei geometri, definita dal regolamento professionale.
Secondo il presidente della categoria, Fausto Savoldi, «spesso i giudici non tengono conto che il nostro ordinamento professionale è del 1929, quando il cemento armato era agli albori. I tempi sono cambiati. È diversa la progettazione e sono differenti anche i sistemi di calcolo: ora c'è il computer. Un regolamento di ottant'anni fa non può rispecchiare l'attuale professione. Dobbiamo aggiornare quelle regole. Del resto la legge di stabilità dice che tutte le attività che non sono vietate devono ritenersi libere» (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.04.2012).
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Sull'argomento, si legga anche:
la nota 16.04.2012 dell'Avv. Roberto Rossi, resa nei confronti dell'Ordine degli Architetti di Vercelli
l'articolo 18.04.2012 del giornale LA PROVINCIA

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATALa presentazione di una DIA o di una SCIA, non dà luogo ad alcun procedimento amministrativo, per cui il decorso del termine di legge di 60 o 30 giorni per l’adozione di provvedimenti inibitori o repressivi da parte della Pubblica Amministrazione non configura alcuna conclusione di procedimento amministrativo né alcuna adozione di un provvedimento tacito o implicito.
L’art. 19, comma 6-ter, L. 241/1990, consente al terzo che si reputa leso dalla presentazione della DIA/SCIA una sola modalità di tutela (il comma 6-ter, secondo periodo, contiene a tale proposito la parola <<esclusivamente>>, introdotta in sede di conversione del decreto legge), vale a dire la sollecitazione all’esercizio delle verifiche spettanti all’Amministrazione e, in caso di inerzia di quest’ultima, la proposizione dell’azione prevista dall’art. 31 del D.Lgs. 104/2010, cioè l’azione contro il silenzio della Pubblica Amministrazione.
Si tratta di un’azione contro il silenzio della P.A. tutto sommato sui generis, visto che l’esperimento della stessa è consentito anche se la presentazione della DIA/SCIA non ha dato avvio ad alcun procedimento amministrativo.
Il silenzio della P.A., che consente l’azione ex art. 31 del codice del processo, presuppone, ai sensi del comma 6-ter, la “sollecitazione” del terzo all’Amministrazione, affinché quest’ultima eserciti i propri poteri di verifica.
Orbene, ritiene il Collegio che tale sollecitazione, pur non dovendo contenere formule sacramentali, debba però possedere una serie di minimi requisiti per così dire di “serietà”, che la rendano idonea a porre in capo alla P.A. l’obbligo di esercitare i propri poteri di verifica e correlativamente a configurare, in caso di inerzia della P.A. stessa, un silenzio inadempimento, giuridicamente rilevante, censurabile davanti al giudice amministrativo con l’azione di cui all’art. 31 del D.Lgs. 104/2010.
Fra questi requisiti deve senza dubbio annoverarsi la forma scritta, con l’indicazione –seppure di massima– della lamentata illegittimità dell’intervento edilizio e con la richiesta di esercizio del potere/dovere di verifica e di eventuale repressione.
In altri termini, la sollecitazione all’esercizio del potere di cui è causa non può confondersi con la generica denuncia di eventuali abusi edilizi, che può ovviamente essere effettuata da qualsivoglia cittadino anche in forma orale, ma che non appare però idonea a fondare il silenzio dell’Amministrazione di cui all’art. 31 del D.Lgs. 104/2010.
A diversa conclusione non induce la circostanza che, nel vigente ordinamento processuale amministrativo, a differenza del pregresso sistema, l’azione contro il silenzio della P.A. può essere promossa anche senza previa diffida all’Amministrazione (cfr. art. 31, comma 1°, del D.Lgs. 104/2010).
Infatti, la soluzione legislativa di cui sopra è giustificata dal fatto che la scadenza infruttuosa del termine di conclusione del procedimento amministrativo (ex art. 2, comma 1°, della legge 241/1990), equivale comunque alla formazione del silenzio inadempimento della P.A., mentre nel caso di presentazione di DIA o di SCIA, come già sopra ricordato, non viene avviato alcun procedimento amministrativo, sicché soltanto attraverso l’idonea sollecitazione di cui all’art. 19 comma 6-ter citato è possibile la formazione del silenzio inadempimento dell’Amministrazione.

Come noto, il regime della tutela giurisdizionale del terzo a fronte della presentazione di una denuncia/dichiarazione di inizio attività (DIA) o di una segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), reputate dal terzo contra legem, è oggi contenuto nell’art. 19 della legge 241/1990, come modificato dal decreto legge 138/2011, convertito con legge 148/2011.
Il comma 6-ter dell’art. 19 citato, esclude in primo luogo che la DIA e la SCIA costituiscano provvedimenti amministrativi taciti direttamente impugnabili: si tratta di una scelta legislativa conforme alla conclusione alla quale era giunta –seppure dopo un serrato dibattito– la stessa giurisprudenza amministrativa, con la sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 15/2011, di poco anteriore alla riforma legislativa del decreto legge 138/2011.
Di conseguenza, nello schema normativo del citato comma 6-ter, la presentazione di una DIA o di una SCIA, non dà luogo ad alcun procedimento amministrativo, per cui il decorso del termine di legge di 60 o 30 giorni per l’adozione di provvedimenti inibitori o repressivi da parte della Pubblica Amministrazione non configura alcuna conclusione di procedimento amministrativo né alcuna adozione di un provvedimento tacito o implicito.
L’art. 19, comma 6-ter, consente al terzo che si reputa leso dalla presentazione della DIA/SCIA una sola modalità di tutela (il comma 6-ter, secondo periodo, contiene a tale proposito la parola <<esclusivamente>>, introdotta in sede di conversione del decreto legge), vale a dire la sollecitazione all’esercizio delle verifiche spettanti all’Amministrazione e, in caso di inerzia di quest’ultima, la proposizione dell’azione prevista dall’art. 31 del D.Lgs. 104/2010, cioè l’azione contro il silenzio della Pubblica Amministrazione.
Si tratta di un’azione contro il silenzio della P.A. tutto sommato sui generis, visto che l’esperimento della stessa è consentito anche se la presentazione della DIA/SCIA non ha dato avvio ad alcun procedimento amministrativo (a tale proposito, si comprende perché il D.Lgs. 195/2011, costituente il primo decreto correttivo al codice del processo amministrativo, abbia modificato il primo comma dell’art. 31 del codice stesso, permettendo l’azione contro il silenzio non solo dal momento della conclusione del procedimento, ma anche <<negli altri casi previsti dalla legge>>, fra cui spicca senza dubbio quello dell’art. 19, comma 6-ter, succitato).
Il silenzio della P.A., che consente l’azione ex art. 31 del codice del processo, presuppone, ai sensi del comma 6-ter, la “sollecitazione” del terzo all’Amministrazione, affinché quest’ultima eserciti i propri poteri di verifica.
Orbene, ritiene il Collegio che tale sollecitazione, pur non dovendo contenere formule sacramentali, debba però possedere una serie di minimi requisiti per così dire di “serietà”, che la rendano idonea a porre in capo alla P.A. l’obbligo di esercitare i propri poteri di verifica e correlativamente a configurare, in caso di inerzia della P.A. stessa, un silenzio inadempimento, giuridicamente rilevante, censurabile davanti al giudice amministrativo con l’azione di cui all’art. 31 del D.Lgs. 104/2010.
Fra questi requisiti deve senza dubbio annoverarsi la forma scritta, con l’indicazione –seppure di massima– della lamentata illegittimità dell’intervento edilizio e con la richiesta di esercizio del potere/dovere di verifica e di eventuale repressione.
In altri termini, la sollecitazione all’esercizio del potere di cui è causa non può confondersi con la generica denuncia di eventuali abusi edilizi, che può ovviamente essere effettuata da qualsivoglia cittadino anche in forma orale, ma che non appare però idonea a fondare il silenzio dell’Amministrazione di cui all’art. 31 del D.Lgs. 104/2010.
A diversa conclusione non induce la circostanza che, nel vigente ordinamento processuale amministrativo, a differenza del pregresso sistema, l’azione contro il silenzio della P.A. può essere promossa anche senza previa diffida all’Amministrazione (cfr. art. 31, comma 1°, del D.Lgs. 104/2010).
Infatti, la soluzione legislativa di cui sopra è giustificata dal fatto che la scadenza infruttuosa del termine di conclusione del procedimento amministrativo (ex art. 2, comma 1°, della legge 241/1990), equivale comunque alla formazione del silenzio inadempimento della P.A., mentre nel caso di presentazione di DIA o di SCIA, come già sopra ricordato, non viene avviato alcun procedimento amministrativo, sicché soltanto attraverso l’idonea sollecitazione di cui all’art. 19 comma 6-ter citato è possibile la formazione del silenzio inadempimento dell’Amministrazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 12.04.2012 n. 1075 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIl ricorrente deve fornire la prova di resistenza se vuole impugnare gli esiti della procedura di gara.
Nel giudizio in esame il Consiglio di Stato ha confermato la sentenza resa dal TAR che aveva respinto la domanda di annullamento dell’aggiudicazione, all’esito della procedura aperta per la fornitura e il servizio quadriennale di ossigenoterapia domiciliare, nonché le domande di inefficacia del contratto e di risarcimento del danno ritenendo infondate le censure dedotte dall’odierna appellante, classificatasi al quarto posto nella graduatoria finale, tutte preordinate alla caducazione dell’intera gara in quanto relative alla composizione della Commissione giudicatrice, che sarebbe stata illegittima sotto vari profili, e alle modalità con le quali la stessa avrebbe verificato i requisiti di partecipazione e valutate le offerte tecniche ed economiche dei concorrenti, senza rispettare il principio della collegialità.
Il Consiglio di Stato ha rigettato l'appello in quanto l’appellante non ha soddisfatto la prova di resistenza, non dimostrando, neppure per approssimazione, se ed in quali termini una diversa modalità procedimentale avrebbe determinato un diverso esito della procedura, in ipotesi più vantaggioso (v. Cons. St., VI, n. 7300/2010; V, n. 6406/2009), non contestando, ad esempio, l’ammissione dei concorrenti che la precedono in graduatoria, né la regolarità e la congruità delle loro offerte.
Tale mancata dimostrazione è di per sé sola ostativa all’accoglimento delle censure, senza considerare la loro infondatezza nel merito, in ragione dell’indirizzo giurisprudenziale per il quale la regola funzionale del plenum non opera nei casi in cui la Commissione sia chiamata a svolgere compiti di carattere non valutativo, che si sostanziano in un'attività puramente preparatoria (quale è la verifica della documentazione prescritta per la partecipazione alla gara), ovvero del tutto vincolata (quale è l'attribuzione del punteggio per l'offerta economica e la conseguente redazione della graduatoria) (in termini, v. Cons. St., IV, n. 2188/2008 e Tar Umbria, n. 26/2010) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 11.04.2012 n. 2078 -
massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL’interpretazione degli atti amministrativi deve essere effettuata avvalendosi delle regole sull’interpretazione del contratto, contenute negli articoli dal 1362 al 1371 del codice civile.
Nell’ambito delle norme di ermeneutica sopra indicate, assumono particolare rilievo quelle che escludono un’interpretazione meramente letterale, a vantaggio invece di una di carattere globale e sistematico (artt. 1362-1364 del codice civile, oltre a quelle che impongono sia l’interpretazione secondo buona fede (art. 1366 del codice civile), a tutela dell’affidamento delle parti; sia la conservazione del contratto, in modo che questo possa in ogni caso produrre validi effetti giuridici (art. 1367 del codice civile).
Con riferimento agli atti amministrativi, il principio di conservazione impone, fra varie interpretazioni, di preferire quella secondo la quale l’atto avrebbe un qualche effetto rispetto a quella secondo cui non ne avrebbe alcuno, oltre a quella che consente di ritenere l’atto conforme a legge.

Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalente, l’interpretazione degli atti amministrativi deve essere effettuata avvalendosi delle regole sull’interpretazione del contratto, contenute negli articoli dal 1362 al 1371 del codice civile (sull’applicazione delle norme del codice civile all’interpretazione degli atti amministrativi, si vedano, fra le più risalenti, Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, 10.04.1995, n. 33 e più recentemente, Cassazione Civile, sez. III, 10.03.2011, n. 5700; con particolare riguardo alle convenzioni urbanistiche, si veda anche TAR Lombardia, Brescia, 16.07.2009, n. 1504; si ricordi poi che l’art. 11 della legge 241/1990 dichiara espressamente applicabili agli accordi integrativi e sostitutivi di provvedimenti i principi codicistici sui contratti e sulle obbligazioni).
Nell’ambito delle norme di ermeneutica sopra indicate, assumono particolare rilievo quelle che escludono un’interpretazione meramente letterale, a vantaggio invece di una di carattere globale e sistematico (artt. 1362-1364 del codice civile, cfr. sul punto Consiglio di Stato, sez. V, 10.03.1997, n. 229 e 24.03.2011, n. 1783), oltre a quelle che impongono sia l’interpretazione secondo buona fede (art. 1366 del codice civile), a tutela dell’affidamento delle parti; sia la conservazione del contratto, in modo che questo possa in ogni caso produrre validi effetti giuridici (art. 1367 del codice civile).
Con riferimento agli atti amministrativi, il principio di conservazione impone, fra varie interpretazioni, di preferire quella secondo la quale l’atto avrebbe un qualche effetto rispetto a quella secondo cui non ne avrebbe alcuno, oltre a quella che consente di ritenere l’atto conforme a legge (cfr. la già citata sentenza del Consiglio di Stato, n. 229/1997 ed anche Consiglio di Stato, sez. VI, 23.04.2009, n. 2515) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.04.2012 n. 1055 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALIIl diniego di concessione edilizia in sanatoria, ai sensi dell'art. 51, comma 3, l. 08.06.1990 n. 142, nel testo novellato dall'art. 6, comma 2, l. 15.05.1997 n. 127 (nonché dell'art. 2 l. 16.06.1998 n. 191 e dell'art. 107, comma 3, lett. g), d.lgs. 18.08.2000 n. 267) rientra nella competenza del dirigente comunale, ovvero, nei comuni sprovvisti di detta qualifica, dei responsabili degli uffici e dei servizi e non del sindaco, trattandosi di tipico potere gestionale.
Oltre alla decisione di questa sezione (I, 25.01.2010 n. 191) e altre conformi (Tar Campania Na, 09.04.2010 n. 1884) è stato affermato il principio secondo il quale “Il diniego di concessione edilizia in sanatoria, ai sensi dell'art. 51, comma 3, l. 08.06.1990 n. 142, nel testo novellato dall'art. 6, comma 2, l. 15.05.1997 n. 127 (nonché dell'art. 2 l. 16.06.1998 n. 191 e dell'art. 107, comma 3, lett. g), d.lgs. 18.08.2000 n. 267) rientra nella competenza del dirigente comunale, ovvero, nei comuni sprovvisti di detta qualifica, dei responsabili degli uffici e dei servizi e non del sindaco, trattandosi di tipico potere gestionale” (TAR Campania Napoli, sez. VII, 15.12.2010, n. 27393).
Né può seguirsi la difesa del comune che, nel tentativo di salvare l’incompetenza dell’organo, afferma la scusabilità dell’errore, anche per la natura di mera comunicazione del’atto impugnato.
Tali difese collidono, sia con la giurisprudenza (Tar Liguria I, 25.01.2010 n. 191) che ha ritenuto avente natura di diniego la comunicazione negativa della C.E., sia perché la sequenza temporale del procedimento, sottoposto alla decisione del tribunale, conferma che l’atto impugnato (adottato il 09.09.1998), intervenne dopo l’entrata in vigore della novella normativa (art. 2, comma dodicesimo L. 16.06.1998 n. 191) che ribadiva la distinzione tra atti politici e di gestione già contenuta nella legge n. 142/1990, eliminando così in radice la supposta scusabilità dell’errore compiuto.
Va poi posto l’accento sulla circostanza che, dal 1998, sono passati altri quattordici anni nei quali l’amministrazione ben sarebbe potuta intervenire in autotutela anziché portare a decisione il ricorso.
Va, infatti, ricordato che ogni dubbio interpretativo fu sciolto dall'art. 107, commi 2 e 3, d.lgs. 18.08.2000 n. 267, che attribuisce ai dirigenti tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'Amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale.
Tra questi com’è noto, sono attribuiti alla competenza del dirigente o, nei comuni sprovvisti di detta qualifica, dei responsabili degli uffici e dei servizi, e non del sindaco, il rilascio sia di provvedimenti concessori in materia edilizia, ivi comprese le concessioni edilizie in sanatoria, sia di provvedimenti di diniego, trattandosi di atti che ineriscono all'attività di gestione del Comune (TAR Puglia Lecce, sez. III, 20.12.2007, n. 4296)
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 11.04.2012 n. 530 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - EDILIZIA PRIVATALaddove una o più opere edilizie siano state realizzate su area demaniale (nel caso, demanio marittimo), il conseguente ordine di demolizione è adottato dal Comune anche in applicazione degli art. 54 e 1161 c. nav. e, quindi per la tutela degli interessi demaniali, cosicché, sotto questo profilo, non ha nemmeno rilevanza la minore o maggiore consistenza dell'abuso".
Ed ancora a riprova della non sufficienza dell’autorizzazione rilasciata da parte dell’autorità Portuale ai soli fini demaniali marittimi al mantenimento della tettoia contestata si è affermato che “L'esecuzione di opere edilizie non del tutto precarie su suolo del demanio marittimo richiede il rilascio della preventiva concessione edilizia da parte del Sindaco, essendo irrilevante il possesso della concessione della Capitaneria di porto, necessaria solo per l'utilizzazione dell'area demaniale".
Va poi contestato che la tettoia in questione di dimensioni ragguardevoli (m. 23,50 per 18,15, h. m. 5,80) e tuttora esistente ed utilizzata da diciotto anni possa essere considerata indifferente ai fini edilizi.
Ha, infatti, affermato il giudice amministrativo che “Ove si tratti di struttura realizzata per soddisfare esigenze aziendali di carattere permanente, prescindendo dal rilievo concernente un'asserita «facile amovibilità» di tale struttura (nella specie, sia per i materiali impiegati che per le considerevoli dimensioni), alla stessa non potrà attribuirsi carattere di opera precaria, con conseguente necessità del previo rilascio della concessione edilizia per la sua realizzazione (e correlativa infondatezza di un eventuale ricorso giurisdizionale proposto avverso il connesso provvedimento sanzionatorio-ripristinatorio), dato che la presenza di una tettoia non è meramente strumentale alla migliore funzionalità di uno o più degli impianti contenuti in un capannone industriale, ma tende piuttosto a creare un prolungamento dello stesso, al fine di consentirvi lo svolgimento della normale attività imprenditoriale su una più vasta superficie coperta"
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È stato, infatti, affermato che “laddove una o più opere edilizie siano state realizzate su area demaniale (nel caso, demanio marittimo), il conseguente ordine di demolizione è adottato dal Comune anche in applicazione degli art. 54 e 1161 c. nav. e, quindi per la tutela degli interessi demaniali, cosicché, sotto questo profilo, non ha nemmeno rilevanza la minore o maggiore consistenza dell'abuso" (TAR Emilia Romagna Bologna, sez. II, 03.06.2008, n. 2144; TAR Lazio Roma, sez. II, 30.08.2010, n. 31953).
Ed ancora a riprova della non sufficienza dell’autorizzazione rilasciata da parte dell’autorità Portuale ai soli fini demaniali marittimi al mantenimento della tettoia contestata si è affermato che “L'esecuzione di opere edilizie non del tutto precarie su suolo del demanio marittimo richiede il rilascio della preventiva concessione edilizia da parte del Sindaco, essendo irrilevante il possesso della concessione della Capitaneria di porto, necessaria solo per l'utilizzazione dell'area demaniale" (TAR Toscana Firenze, sez. III, 04.07.2006, n. 3006).
Va poi contestato che la tettoia in questione di dimensioni ragguardevoli (m. 23,50 per 18,15, h. m. 5,80) e tuttora esistente ed utilizzata da diciotto anni possa essere considerata indifferente ai fini edilizi.
Ha, infatti, affermato il giudice amministrativo che “Ove si tratti di struttura realizzata per soddisfare esigenze aziendali di carattere permanente, prescindendo dal rilievo concernente un'asserita «facile amovibilità» di tale struttura (nella specie, sia per i materiali impiegati che per le considerevoli dimensioni), alla stessa non potrà attribuirsi carattere di opera precaria, con conseguente necessità del previo rilascio della concessione edilizia per la sua realizzazione (e correlativa infondatezza di un eventuale ricorso giurisdizionale proposto avverso il connesso provvedimento sanzionatorio-ripristinatorio), dato che la presenza di una tettoia non è meramente strumentale alla migliore funzionalità di uno o più degli impianti contenuti in un capannone industriale, ma tende piuttosto a creare un prolungamento dello stesso, al fine di consentirvi lo svolgimento della normale attività imprenditoriale su una più vasta superficie coperta" (TAR Emilia Romagna Parma, sez. I, 25.09.2007, n. 469)
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 11.04.2012 n. 530 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'omessa notifica dell'ordinanza di demolizione di opere abusive al comproprietario del terreno su cui gli abusi sono stati realizzati non vizia l’atto, ma ne consente piuttosto l’impugnativa a partire da quando ne sia venuto a conoscenza.
La ricorrente nel giudizio in esame deduce la violazione dell’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001, posto che i provvedimenti di demolizione di opere abusive adottati dal Comune non le sono stati notificati, benché ella fosse comproprietaria dei terreni su cui le opere abusive sono state realizzate: si sostiene che tale omissione “determina l’illegittimità dell’intero procedimento”.
Tale conclusione ad avviso del Collegio è erronea: è certamente vero che il proprietario del fondo su cui è stato realizzato l’abuso è destinatario dell’ordine di demolizione, e che per tale via è in grado di impugnarlo; ma, ove la notifica non sia eseguita, ciò non vizia l’atto, ma ne consente piuttosto l’impugnativa da parte del proprietario a partire da quando ne sia venuto a conoscenza (in termini, Tar Napoli, n. 5293 del 2011) (TAR Lazio, Sez. I-quater, sentenza 10.04.2012 n. 3266 -
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EDILIZIA PRIVATADemolizione di opere abusive ai sensi dell'art. 27 o dell'art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001?
Nel giudizio in esame il ricorrente si duole che il Comune, pur dopo avere premesso che le opere in contestazione necessitavano di DIA, anziché di permesso di costruire, ne ha poi ugualmente ordinato la demolizione a cura del ricorrente entro 90 giorni, a pena di acquisizione del sedime al patrimonio pubblico. L’amministrazione ad avviso del Collegio ha in tal modo applicato l’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001, benché avesse ritenuto sufficiente, sul piano edilizio, la denuncia di inizio attività, esercitando il potere in senso difforme dal paradigma normativo conseguente allo stato di fatto che si era ritenuto sussistere.
Va aggiunto che dall’atto impugnato emerge che alcune opere sono state eseguite su area vincolata, con l’effetto che esse, quand’anche soggette a DIA, andrebbero demolite d’ufficio ex art. 27 d.P.R. n. 380 del 2001, in assenza di autorizzazione dell’Autorità preposta al vincolo. Il TAR ha, quindi, annullato le ordinanze di demolizione affermando altresì comunque che resta fermo il potere del Comune di ordinare tale demolizione, in forza del predetto art. 27, ove ne ricorrano i presupposti (TAR Lazio, Sez. I-quater, sentenza 10.04.2012 n. 3260 -
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URBANISTICA: Rapporto tra la disciplina del commercio e la disciplina urbanistica: il piano urbanistico prevale su quello commerciale.
Le prescrizioni contenute nei piani urbanistici, rispondendo all’esigenza di assicurare un ordinato assetto del territorio, possono porre limiti agli insediamenti degli esercizi commerciali e dunque alla libertà di iniziativa economica. La diversità degli interessi pubblici tutelati impedisce di attribuire in astratto prevalenza al piano commerciale rispetto al piano urbanistico.
La giurisprudenza amministrativa, sia pur con riguardo a fattispecie diverse da quella in esame, ha più volte affermato questo principio (Cons. Stato, sez. V, 28.05.2009, n. 3262; Id., sez. IV, 05.08.2005, n. 419) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.04.2012 n. 2060 -
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APPALTI: Nelle commissioni di gara solo "veri" esperti nello specifico settore cui si riferisce l'oggetto del contratto.
La procedura in contestazione all'esame del Consiglio di Stato ha ad oggetto l’affidamento del servizio di manutenzione degli ascensori di una ASL che deve essere aggiudicata con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa. La Commissione giudicatrice nominata risulta formata da tre componenti, due dei sono architetti, ed il terzo è un medico chirurgo. Ad avviso del Consiglio di Stato tale composizione viola l’art. 84, co. 2, del Codice dei contratti, sul rilievo che la Commissione giudicatrice non è formata da “esperti nello specifico settore cui si riferisce l'oggetto del contratto”.
Premesso infatti che la regola di cui all’art. 84, co. 2, è il portato dei principi di rango costituzionale dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione amministrativa, appare evidente che se è già di per sé discutibile l’assoluta mancanza di ingegneri all’interno di una Commissione cui è demandato il fondamentale compito di valutare motivatamente la qualità delle offerte tecniche relative ad impianti ascensori, è ancora più vistosa, in un simile contesto e nel caso di specie, l’incompetenza del medico chirurgo a svolgere un’attività di valutazione che, con ogni ragionevole probabilità, esula dalle sue competenze ed esperienze.
Né peraltro può bastare la sola circostanza che il medico in questione sia responsabile dei servizi di qualità dell’Azienda sanitaria, non avendo l’Asl documentato il possesso, in ragione di tale incarico, di alcuna comprovata esperienza che vada al di là (del controllo qualitativo) delle (sole) prestazioni sanitarie.
La violazione dell’art. 84, co. 2, sulla composizione della commissione, non ha una valenza meramente procedimentale, tenuto conto che l’impresa ricorrente in primo grado assume che una commissione composta di “veri” esperti in materia di ascensori avrebbe potuto valutare diversamente le offerte tecniche dei concorrenti, così determinando, in ipotesi, un diverso esito della procedura, per lei più vantaggioso (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 10.04.2012 n. 2054 -
massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl parere della Soprintendenza costituisce effettivamente atto impugnabile, anche in via autonoma, in deroga alla regola ben nota per cui i pareri sono atti endoprocedimentali, non forniti di autonoma potenzialità lesiva. Il parere della Soprintendenza relativo alla autorizzazione paesaggistica, infatti, ha natura particolare: essendo obbligatorio e vincolante determina in tutto il contenuto del successivo diniego di autorizzazione, e quindi assume di per sé capacità di ledere la sfera giuridica del destinatario.
Il potere della Soprintendenza, col parere di cui sopra, non può eccedere nella tutela, trasformando “il contenuto conservativo del vincolo in un divieto generalizzato di nuova edificazione”. In altre parole, il Soprintendente il quale si esprima su una pratica edilizia deve dare come accettato che il terreno interessato sia edificabile, così come è pacificamente nel caso di specie, dato che la relativa questione è già stata risolta in altra sede, là dove si è trattato di stabilire il regime del terreno stesso. Secondo logica, pertanto, potrà esprimersi nel senso di suggerire modifiche alle soluzioni proposte, od anche soluzioni alternative ragionevolmente fattibili; non potrà invece, né in termini espressi né per implicito, imporre la cd. opzione zero, ovvero la non realizzazione dell’intervento e quindi il sostanziale azzeramento della potenzialità edificatoria del lotto.

In primo luogo va chiarito che il parere della Soprintendenza per il quale è causa costituisce effettivamente atto impugnabile, anche in via autonoma, in deroga alla regola ben nota per cui i pareri sono atti endoprocedimentali, non forniti di autonoma potenzialità lesiva. Il parere della Soprintendenza relativo alla autorizzazione paesaggistica, infatti, ha natura particolare: essendo obbligatorio e vincolante determina in tutto il contenuto del successivo diniego di autorizzazione, e quindi assume di per sé capacità di ledere la sfera giuridica del destinatario: così in termini la recente TAR Puglia, Lecce, sez. I, 03.12.2010 n. 2784.
Sempre per chiarezza, è utile poi precisare che il parere in questione si inserisce nel complesso procedimento di cui al citato art. 146 del d.lgs. 42/2004, che esordisce al comma 1 con un divieto di principio, per cui “I proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili ed aree di interesse paesaggistico… non possono distruggerli, né introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione”. Lo stesso articolo prosegue poi al comma 2 e stabilisce che per gli interventi ammessi gli interessati non possono procedere senza la necessaria autorizzazione paesaggistica, la quale, a termini del successivo comma 4, “costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio”.
Sempre l’art. 146 in esame disegna appunto il procedimento per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, che ai sensi del comma 5 è di competenza regionale, salva delega da parte di essa agli enti locali minori –com’è noto in Lombardia esercitata a favore dei Comuni- e si rende “dopo avere acquisito il parere vincolante del soprintendente in relazione agli interventi da eseguirsi su immobili ed aree sottoposti a tutela dalla legge o in base alla legge”.
In ordine a tale parere, dispone poi lo stesso art. 146 al comma 8, stabilendo che “Il soprintendente rende il parere di cui al comma 5, limitatamente alla compatibilità paesaggistica del progettato intervento nel suo complesso ed alla conformità dello stesso alle disposizioni contenute nel piano paesaggistico ovvero alla specifica disciplina di cui all'articolo 140, comma 2”, che è quella di cui alla dichiarazione di interesse pubblico del bene interessato, ove essa esista.
La giurisprudenza della Sezione, in particolare nella sentenza 08.03.2010 n. 1146 correttamente citata dal ricorrente, ha poi avuto modo di precisare i limiti del potere che così si esercita, ed ha stabilito che esso non può eccedere nella tutela, trasformando “il contenuto conservativo del vincolo in un divieto generalizzato di nuova edificazione”. In altre parole, il Soprintendente il quale si esprima su una pratica edilizia deve dare come accettato che il terreno interessato sia edificabile, così come è pacificamente nel caso di specie, dato che la relativa questione è già stata risolta in altra sede, là dove si è trattato di stabilire il regime del terreno stesso. Secondo logica, pertanto, potrà esprimersi nel senso di suggerire modifiche alle soluzioni proposte, od anche soluzioni alternative ragionevolmente fattibili; non potrà invece, né in termini espressi né per implicito, imporre la cd. opzione zero, ovvero la non realizzazione dell’intervento e quindi il sostanziale azzeramento della potenzialità edificatoria del lotto (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 10.04.2012 n. 598 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAIn tema di impugnazione di titoli edilizi rilasciati per la costruzione di un nuovo edificio, sussiste la legittimazione del soggetto, terzo, che si trovi in una situazione di stabile collegamento con la zona interessata dalla costruzione, la quale viene quindi a radicare una posizione di interesse differenziata rispetto a quella posseduta dal quisque de populo. Pertanto, in applicazione del criterio della c.d. vicinitas sono legittimati coloro che possono lamentare una pregiudizievole alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio per effetto della realizzazione dell'intervento controverso.
Con la conseguenza che, riconosciuta la legittimazione ad agire, la valutazione sull'utilità o meno dei provvedimenti impugnati al fine di chiederne o meno l'annullamento, non può che essere rimessa alle determinazioni insindacabili del titolare del diritto all'azione, non potendosi certamente ritenere insussistente l'interesse alla pronuncia caducatoria sulla base dei contrapposti apprezzamenti discrezionali delle parti resistenti.
In altri termini, la qualifica giuridica di proprietario di un bene immobile confinante deve di per sé ritenersi idonea a creare la legittimazione e l'interesse al ricorso, non occorrendo anche la verifica della concreta lesione di un qualsiasi altro interesse di rilevanza giuridica, riferibile a norme di diritto privato o di diritto pubblico.

La giurisprudenza amministrativa risulta consolidata nell’affermare che -in tema di impugnazione di titoli edilizi rilasciati per la costruzione di un nuovo edificio – sussiste la legittimazione del soggetto, terzo, che si trovi in una situazione di stabile collegamento con la zona interessata dalla costruzione, la quale viene quindi a radicare una posizione di interesse differenziata rispetto a quella posseduta dal quisque de populo. Pertanto, in applicazione del criterio della c.d. vicinitas sono legittimati coloro che possono lamentare una pregiudizievole alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio per effetto della realizzazione dell'intervento controverso.
Con la conseguenza che, riconosciuta la legittimazione ad agire, la valutazione sull'utilità o meno dei provvedimenti impugnati al fine di chiederne o meno l'annullamento, non può che essere rimessa alle determinazioni insindacabili del titolare del diritto all'azione, non potendosi certamente ritenere insussistente l'interesse alla pronuncia caducatoria sulla base dei contrapposti apprezzamenti discrezionali delle parti resistenti.
In altri termini, la qualifica giuridica di proprietario di un bene immobile confinante deve di per sé ritenersi idonea a creare la legittimazione e l'interesse al ricorso, non occorrendo anche la verifica della concreta lesione di un qualsiasi altro interesse di rilevanza giuridica, riferibile a norme di diritto privato o di diritto pubblico (cfr. Cons. St., Sez. IV, 31.05.2007 n. 2849) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 10.04.2012 n. 597 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI volumi che sporgono al di sopra della linea naturale del terreno modificano in modo permanente la conformazione del suolo e dell’ambiente, così incidendo sugli specifici valori urbanistico-edilizi che le prescrizioni dettate dagli strumenti urbanistici in tema di altezza e di volumetria degli edifici sono dirette a tutelare in una visione organica e globale della zona.
Il piano di campagna da assumere come riferimento -al fine di delineare la posizione altimetrica del fabbricato edificando, con i riflessi che ne derivano sul piano della relativa valutazione urbanistica- è quello non alterato da modifiche indotte dall’attività umana, avente scopo edificatorio o colturale.
In particolare, è stato rilevato che la quota naturale del terreno o piano di campagna, quale nozione tradizionalmente contemplata dagli strumenti urbanistici, si identifica con il livello dei suoli vergini, residuo finale delle azioni di modellamento naturale, prima di qualsiasi intervento umano ivi compreso l’impianto di coltura.
Sussiste un principio generale in base al quale, salvo che non vi siano esplicite disposizioni in contrario, in tanto i volumi costruiti al di sotto dell’originario piano di campagna non incidono sulla volumetria consentita in quanto il piano di campagna non venga definitivamente alterato dalla costruzione, pervenendo all’espressa conclusione che l’interramento deve intendersi riferito all’originario piano di campagna e non certamente a quello artificiale conseguente a consistenti reinterri.
Al fine di stabilire se si siano osservati i limiti di altezza fissati dai regolamenti edilizi, il calcolo relativo va effettuato facendo riferimento al piano di posa dell'edificio, che -eccettuati i casi di una diversa disposizione dello strumento urbanistico locale e della correlazione dell'altezza dei fabbricati alla larghezza delle strade su cui prospettano- coincide con il piano naturale di campagna.

I volumi che sporgono al di sopra della linea naturale del terreno modificano in modo permanente la conformazione del suolo e dell’ambiente, così incidendo sugli specifici valori urbanistico-edilizi che le prescrizioni dettate dagli strumenti urbanistici in tema di altezza e di volumetria degli edifici sono dirette a tutelare in una visione organica e globale della zona (cfr. TAR Basilicata 09.08.2000 n. 480, Cons. St. Sez. V 29.09.1997 n. 1065).
Per costante giurisprudenza, il piano di campagna da assumere come riferimento -al fine di delineare la posizione altimetrica del fabbricato edificando, con i riflessi che ne derivano sul piano della relativa valutazione urbanistica- è quello non alterato da modifiche indotte dall’attività umana, avente scopo edificatorio o colturale (cfr. TAR Catanzaro 08.10.2005 n. 1855).
In particolare, è stato rilevato che la quota naturale del terreno o piano di campagna, quale nozione tradizionalmente contemplata dagli strumenti urbanistici, si identifica con il livello dei suoli vergini, residuo finale delle azioni di modellamento naturale, prima di qualsiasi intervento umano ivi compreso l’impianto di coltura (cfr. TAR Lombardia, Brescia, 08.09.1994 n. 498, TRGA Trento 28.12.2005 n. 403).
Il Supremo Consesso Amministrativo ha affermato (cfr. Cons. St. Sez. V 01.07.2002 n. 3589, 21.10.1991 n. 1231, 15.06.2001 n. 3176, 04.08.1986 n. 390, 01.10.1986 n. 481) che sussiste un principio generale in base al quale, salvo che non vi siano esplicite disposizioni in contrario, in tanto i volumi costruiti al di sotto dell’originario piano di campagna non incidono sulla volumetria consentita in quanto il piano di campagna non venga definitivamente alterato dalla costruzione, pervenendo all’espressa conclusione che l’interramento deve intendersi riferito all’originario piano di campagna e non certamente a quello artificiale conseguente a consistenti reinterri (cfr. Cons. St. Sez. V 01.07.2002 n. 3589).
Ciò corrisponde a un consolidato orientamento della Cassazione (cfr. ex multis, Cassazione civile, sez. II, 11.03.1981, n. 1386), la quale ha affermato che, al fine di stabilire se si siano osservati i limiti di altezza fissati dai regolamenti edilizi, il calcolo relativo va effettuato facendo riferimento al piano di posa dell'edificio, che -eccettuati i casi di una diversa disposizione dello strumento urbanistico locale e della correlazione dell'altezza dei fabbricati alla larghezza delle strade su cui prospettano- coincide con il piano naturale di campagna
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 10.04.2012 n. 597 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl provvedimento di accertamento dell'inottemperanza ad un ordine di demolizione -al quale consegue l’acquisizione gratuita dell’area di sedime dell’abuso- e che consente l'immissione in possesso e la trascrizione nei registri immobiliari, può essere adottato senza la specifica indicazione delle aree oggetto di acquisizione, potendosi a tale individuazione procedere… anche con successivo, separato atto.
Come ritenuto da precedente giurisprudenza, per tutte TAR Toscana sez. III 20.01.2009 n. 24, infatti, il provvedimento di accertamento dell'inottemperanza ad un ordine di demolizione -al quale consegue l’acquisizione gratuita dell’area di sedime dell’abuso- e che consente l'immissione in possesso e la trascrizione nei registri immobiliari, “può essere adottato senza la specifica indicazione delle aree oggetto di acquisizione, potendosi a tale individuazione procedere… anche con successivo, separato atto” (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 10.04.2012 n. 594 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: I proprietari confinanti o comunque i vicini hanno sempre interesse a censurare il mutamento della disciplina urbanistica impresso all’area contermine o comunque vicina. E ciò senza che assuma rilievo l’entità o il contenuto del mutamento di disciplina in questione. In altre parole si vuole dire che l’interesse ad impugnare sorge per effetto del mutamento di disciplina quale che esso sia e non già, come prospetta la difesa della controinteressata, solo nel caso in cui tale mutamento sia particolarmente eclatante.
La giustificazione di questa opzione interpretativa sta nell’impossibilità di stabilire con sufficiente grado di attendibilità quando un mutamento nella disciplina urbanistica sia rilevante ai fini dell’interesse a ricorrere del proprietario confinante. Pertanto, il rispetto delle esigenze di tutela del confinante, impone che si accerti il verificarsi di un mutamento di disciplina urbanistica senza ulteriori approfondimenti sul punto.

Con riferimento ad un caso –per molti versi analogo a quello che ci occupa- di impugnazione della nuova disciplina urbanistica imposta dal P.U.C. di Genova ad un’area contermine a quella dei soggetti ricorrenti, proprietari di unità immobiliari situate nei pressi, con passaggio da una destinazione a servizi pubblici al regime degli ambiti BBU (che consente la ricostruzione ad uso abitativo della superficie agibile di tutti gli edifici compatibili o incompatibili), la Sezione ha affermato che “i proprietari confinanti o comunque i vicini hanno sempre interesse a censurare il mutamento della disciplina urbanistica impresso all’area contermine o comunque vicina. E ciò senza che assuma rilievo l’entità o il contenuto del mutamento di disciplina in questione. In altre parole si vuole dire che l’interesse ad impugnare sorge per effetto del mutamento di disciplina quale che esso sia e non già, come prospetta la difesa della controinteressata, solo nel caso in cui tale mutamento sia particolarmente eclatante.
La giustificazione di questa opzione interpretativa sta nell’impossibilità di stabilire con sufficiente grado di attendibilità quando un mutamento nella disciplina urbanistica sia rilevante ai fini dell’interesse a ricorrere del proprietario confinante. Pertanto, il rispetto delle esigenze di tutela del confinante, impone che si accerti il verificarsi di un mutamento di disciplina urbanistica senza ulteriori approfondimenti sul punto
” (TAR Liguria, I, 21.06.2010, n. 5007)
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 06.04.2012 n. 516 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - LAVORI PUBBLICI: Solo con il progetto definitivo l’opera pubblica assume una stabile connotazione che consente di valutare appieno i profili di interferenza, e quindi di lesività, con le posizioni giuridiche dei confinanti o vicini, mentre al livello di progettazione preliminare la stessa è ancora ad uno stadio iniziale, abbozzato, e, come tale, suscettibile di modifiche per radicare un interesse concreto all’impugnazione.
La giurisprudenza –anche della Sezione– ha chiarito che solo con il progetto definitivo l’opera pubblica assume una stabile connotazione che consente di valutare appieno i profili di interferenza, e quindi di lesività, con le posizioni giuridiche dei confinanti o vicini, mentre al livello di progettazione preliminare la stessa è ancora ad uno stadio iniziale, abbozzato, e, come tale, suscettibile di modifiche per radicare un interesse concreto all’impugnazione (cfr. Cons di St., IV, 06.06.2001 n. 3033; TAR Liguria, I, 16.12.2010, n. 10872) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 06.04.2012 n. 516 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In caso di contrasto dell'intervento oggetto della domanda di permesso di costruire con le previsioni di strumenti urbanistici adottati, l'articolo 12 del T.U. n. 380/2001 prevede la sospensione di ogni determinazione in ordine alla domanda; l'applicazione della cd. misura di salvaguardia in termini di sospensione della determinazione si giustifica in considerazione, da un lato, della circostanza che, pur non essendovi contrasto con una disposizione vigente ed efficace, un eventuale accoglimento potrebbe pregiudicare la concreta operatività del piano in itinere e, dall'altro, con il rilievo che un diniego non troverebbe giustificazione per la mera non conformità con una disposizione che potrebbe anche, nel corso ulteriore del procedimento, non essere approvata dall'autorità regionale e, dunque, non entrare mai in vigore.
Per costante giurisprudenza, “in caso di contrasto dell'intervento oggetto della domanda di permesso di costruire con le previsioni di strumenti urbanistici adottati, l'articolo 12 del T.U. n. 380/2001 prevede la sospensione di ogni determinazione in ordine alla domanda; l'applicazione della cd. misura di salvaguardia in termini di sospensione della determinazione si giustifica in considerazione, da un lato, della circostanza che, pur non essendovi contrasto con una disposizione vigente ed efficace, un eventuale accoglimento potrebbe pregiudicare la concreta operatività del piano in itinere e, dall'altro, con il rilievo che un diniego non troverebbe giustificazione per la mera non conformità con una disposizione che potrebbe anche, nel corso ulteriore del procedimento, non essere approvata dall'autorità regionale e, dunque, non entrare mai in vigore” (TAR Campania-Salerno, II, 22.01.2010, n. 862; nello stesso senso cfr. Cons. di St., IV, 28.02.2005, n. 764)
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 06.04.2012 n. 515 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Gli strumenti urbanistici sono impugnabili sin dal momento della loro adozione, e che l’annullamento della deliberazione di adozione esplica effetti automaticamente caducanti sul successivo provvedimento di approvazione.
Sennonché, tali effetti caducanti si esplicano nella sola parte in cui il provvedimento di approvazione si limita a confermare le previsioni già contenute nel piano adottato e fatto oggetto di impugnativa.

E' noto che, per principio generale, gli strumenti urbanistici sono impugnabili sin dal momento della loro adozione, e che l’annullamento della deliberazione di adozione esplica effetti automaticamente caducanti sul successivo provvedimento di approvazione.
Sennonché, tali effetti caducanti si esplicano nella sola parte in cui il provvedimento di approvazione si limita a confermare le previsioni già contenute nel piano adottato e fatto oggetto di impugnativa (così Cons. di St., IV, 13.04.2005, n. 1743; TAR Marche-Ancona, I, 28.02.2011, n. 129)
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 06.04.2012 n. 515 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACondono edilizio: esclusa la formazione del silenzio assenso se l'immobile abusivo è stato realizzato in aree sottoposte a vincolo paesaggistico in mancanza del parere dell'Autorità competente.
Nella specie il ricorrente ipotizza che la propria domanda di condono edilizio debba ritenersi accolta e ciò in considerazione del decorso del termine di 24 mesi, di cui all’art. 35, comma 19, della legge n. 47 del 1985, con formazione del silenzio assenso, e, non essendovi all’epoca della iniziale costruzione alcun vincolo e dovendosi comunque ritenere acquisito il parere favorevole dell’Autorità preposta al vincolo per la mancata risposta entro 180 giorni.
Sull’asserita formazione del silenzio assenso, anche in relazione al richiamato decorso dei 180 giorni per l’emissione del parere dell’Autorità competente (oggetto, comunque, di possibile impugnazione per silenzio – rifiuto, ai sensi del comma 1 dell’art. 32 della legge n. 45 del 1987, nella specie non proposta), il Collegio ritiene che tale formazione è esclusa quando si tratti di aree sottoposte a vincolo paesaggistico se manchi il parere favorevole dell’Autorità competente, come peraltro indicato dalla giurisprudenza in materia, per cui in tale caso la formazione del silenzio assenso “postula indefettibilmente la previa acquisizione del parere favorevole dell’autorità preposta alla tutela del vincolo (in questo caso: necessariamente esplicito) sulla compatibilità ambientale della costruzione realizzata senza titolo (cfr. ex multis Cons. St., sez. VI, 26.01.2001, n. 249), deve rilevarsi che, nella fattispecie controversa, manca la predetta, indispensabile condizione” (Cons. Stato, 30.06.2005, n. 3542; vedi anche Cons. Stato, 31.03.2009, n. 2024).
Ciò in base alla normativa di cui alla legge n. 47 del 1085, per cui non sono suscettibili di sanatoria tacita gli immobili siti in aree sottoposte a tutela paesaggistico-ambientale per effetto di vincolo antecedente l’esecuzione delle opere che, in quanto tale, chiede per ogni intervento il parere espresso dell’Autorità competente (articoli 32, comma 1, 33 e 35, comma 17), risultando ciò applicabile al caso di specie in cui il vincolo è stato apposto con d.m. del 1954, il parere non era stato reso ed è poi intervenuto in senso sfavorevole (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.04.2012 n. 2038 -
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EDILIZIA PRIVATAOpere abusive realizzate su area vincolata: ai fini del parere dell'Amministrazione preposta alla tutela del vincolo rileva la data di valutazione della domanda di sanatoria e non quella di costruzione dell’immobile.
L’art. 32 legge n. 47 del 1985, nell’introdurre la possibilità di condonare opere abusive realizzate prima dell'01.10.1983 su aree sottoposte al vincolo, subordina il rilascio della concessione edilizia al parere dell’Amministrazione preposta alla tutela del vincolo stesso, che ha natura giuridica di condizione ostativa e di presupposto indefettibile per la concessione edilizia in sanatoria e comporta la verifica della compatibilità dell’intervento con gli interessi paesaggistici e ambientali dell’area sottoposta a tutela.
Quanto al rapporto tra istanza di sanatoria e data di apposizione del vincolo, secondo giurisprudenza consolidata, a prescindere dal momento di introduzione del vincolo stesso, ai fini del parere di cui all’art. 32 della legge 47 del 1985 rileva comunque la data di valutazione della domanda di sanatoria, e non quella di costruzione dell’immobile (per tutte, Cons. Stato, Ad. plen., 07.06.1999, n. 20, C.G.A.R.S., 04.11.2010, n. 1353, Sez. VI, 11.12.2001, n. 6210) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.04.2012 n. 2038 -
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EDILIZIA PRIVATA: Non è condonabile l'intervento edificatorio sine titulo realizzato su area demaniale.
Il Collegio nella fattispecie in esame ha rilevato come l'intervento edificatorio sine titulo avvenuto su area demaniale in nessun caso può formare oggetto di trasformazione da parte del privato e non è perciò condonabile (Sez. VI, 26.11.2008, n. 5839).
Inoltre “gli interventi di modifica del territorio che interessano aree appartenenti al demanio dello Stato non si sottraggono al controllo comunale di conformità ai vigenti strumenti di pianificazione ed, in particolare, all’esercizio della potestà repressiva del comune medesimo in presenza di accertati abusi” (Sez. VI, 31.08.2004, n. 5723), spettando al Comune la vigilanza sul rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia nel proprio territorio (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.04.2012 n. 2038 -
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EDILIZIA PRIVATA: E' precluso il condono edilizio se i vincoli assoluti di inedificabilità sono stati apposti prima dell'esecuzione delle opere.
In base ai principi di cui alla l. 28.02.1985, n. 47, cui fa rinvio l’art. 39 l. n. 724 del 1994, i vincoli assoluti di inedificabilità risultano preclusivi del condono, se apposti prima dell’esecuzione delle opere, fermo restando che –dovendo la funzione amministrativa essere esercitata secondo la normativa vigente alla data del relativo esercizio– detti vincoli sarebbero comunque rilevanti, ma come vincoli a carattere relativo, richiedenti apposita e concreta valutazione, da parte dell’Autorità preposta, circa la compatibilità dell’opera realizzata con i valori tutelati (cfr. artt. 32 e 33 l. n. 47 del 1985 e, per il principio, Cons. Stato, VI, 09.03.2011, n. 1476; VI, 07.01.2008, n. 22; 05.12.2007, n. 6177, 02.11.2007, n. 5669; V, 04.11.1997, n. 1228) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.04.2012 n. 2018 -
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PUBBLICO IMPIEGO: Svolgimento di mansioni superiori e diritto alle differenze retributive: il Consiglio di Stato ribadisce i principi giurisprudenziali consolidati in materia.
Sulla rivendicazione del diritto del dipendente pubblico alle differenze retributive per lo svolgimento di mansioni superiori la giurisprudenza costante del Consiglio di Stato ha affermato, in sintesi, che:
a) prima dell’entrata in vigore (il 22.11.1998) dell’art. 15 del d.lgs. n. 29.10.1998, n. 387, di modifica dell’art. 56 del d.lgs. n. 29 del 1993, lo svolgimento di mansioni superiori a quelle di inquadramento, pur se conferite con atto formale, non dava luogo al diritto alle differenze retributive (Sez. VI, 24.01.2011, n. 467);
b) con il detto articolo 15 tale diritto è stato riconosciuto, alle condizioni previste dal citato art. 56 del d.lgs. n. 29 del 1993 (poi art. 52 del d.lgs. 30.03.2001, n. 165);
c) l’art. 15 del d.lgs. n. 387 del 1998, non essendo norma di interpretazione autentica, non ha efficacia retroattiva ed è perciò inapplicabile alle situazioni anteriori alla sua entrata in vigore (tra tante: Sez. V, 08.03.2010, n. 332; 12.04.2007, n. 1722).
In particolare è stato affermato quanto segue (Cons. Stato, Sez. VI, 03.02.2011, n. 758): “- la retribuzione corrispondente all'esercizio delle mansioni superiori può aver luogo non in virtù del mero richiamo all'art. 36 della Costituzione, ma solo ove una norma speciale consenta tale assegnazione e la maggiorazione retributiva (Cons. Stato, ad. Plen,. n. 22 del 1999);
- l'art. 57 del d.lgs. 29 del 1993, recante una nuova disciplina dell'attribuzione temporanea di mansioni superiori, è stato abrogato dall'art. 43 d.lgs. 31.03.1998, n. 80 senza avere mai avuto applicazione, essendo stata la sua operatività più volte differita dalla legge prima dell'abrogazione e da ultimo fino al 31.12.1998;
- la materia è restata disciplinata dall'art. 56 d.lgs. n. 29 del 1993, poi sostituito dall'art. 25 d.lgs. n. 80 del 1998 che, nel recepire l'indirizzo della giurisprudenza, ha previsto la retribuzione dello svolgimento delle mansioni superiori, rinviandone tuttavia l'attuazione alla nuova disciplina degli ordinamenti professionali prevista dai contratti collettivi e con la decorrenza ivi stabilita, disponendo altresì che "fino a tale data, in nessun caso lo svolgimento di mansioni superiori rispetto alla qualifica di appartenenza può comportare il diritto a differenze retributive o ad avanzamenti automatici nell'inquadramento professionale del lavoratore" (art. 56, comma 6);
- le parole "a differenze retributive" sono state poi abrogate dall'art. 15 d.lgs. 29.10.1998, n. 387, ma "con effetto dalla sua entrata in vigore" (Cons. Stato, ad. plen., n. 22 del 1999), con la conseguenza che l'innovazione legislativa spiega effetto a partire dall'entrata in vigore del medesimo decreto legislativo n. 387 e cioè dal 22.11.1998;
- il diritto al trattamento economico per l'esercizio di mansioni superiori ha, quindi, la sua disciplina in una disposizione (art. 15 d.lgs. n. 387 del 1998) a carattere innovativo, e non meramente interpretativo della disciplina previgente, per cui il riconoscimento legislativo "non riverbera in alcun modo la propria efficacia su situazioni pregresse" (Cons. Stato, ad. plen., n. 11 del 2000 e n. 3 del 2006)
” (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.04.2012 n. 2017 -
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APPALTI: Nessun obbligo per la stazione appaltante di comunicare all'aggiudicatario provvisorio il ritiro in autotutela della gara d'appalto.
Il Consiglio di Stato nella sentenza in esame ha rigettato la censura con la quale veniva contestata la violazione dell’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento ex art. 7 della legge 07.08.1990, n. 241 rilevando come alla stregua di un consolidato indirizzo giurisprudenziale (vedi, da ultimo, sez. V, 23.06.2010, n. 3966; 12.02.2010 , n. 743), la stazione appaltante che si determini al ritiro, in sede di autotutela, di una gara d'appalto, non è tenuta a darne previa comunicazione, ex art. 7, l. 07.08.1990 n. 241, al destinatario dell’aggiudicazione provvisoria, trattandosi di atto endoprocedimentale interno alla procedura di scelta del contraente, per sua natura inidoneo, al contrario dell’aggiudicazione definitiva, ad attribuire in modo stabile il bene della vita ed ad ingenerare il connesso legittimo affidamento che impone l’instaurazione del contraddittorio procedimentale (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.04.2012 n. 2007 -
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URBANISTICASussiste l’ampia discrezionalità assegnata alle Amministrazioni locali in sede di pianificazione territoriale: invero, la destinazione agricola di una determinata porzione di territorio ben può giustificarsi per necessità di salvaguardia ambientale, prescindendo dall’effettivo svolgimento dell’attività di impresa agricola.
L’esistenza di divieti di edificazione in zona agricola non si pone di per sé neppure in contrasto con le particolari previsioni della legge regionale 12/2005, articoli da 59 a 62, visto che la giurisprudenza di questo Tribunale ha più volte affermato che gli articoli richiamati non garantiscono sempre l’attività edificatoria e di conseguenza non impediscono ai Comune di porre i divieti di cui sopra.
Se il divieto di edificazione al di sopra del piano di campagna appare al Collegio rispettoso sia delle norme di legge sopra indicate sia dei canoni di logicità e ragionevolezza che devono presiedere all’esercizio dell’azione amministrativa, tale non appare invece la scelta comunale di vietare in ogni modo la realizzazione di vivai, in asserita applicazione dei citati articoli 148 e 156 del Piano delle Regole, che contengono in effetti una esplicita previsione in tal senso (<<non impiantare colture arboree o vivai>>).
L’impianto di un vivaio o di una coltura arborea non appare, infatti, di per sé lesivo dei valori paesaggistici ed ambientali tutelati dal PGT: occorre semmai fare riferimento alle concrete caratteristiche della piantagione, per accertare l’effettivo contrasto di quest’ultima con i suindicati valori.
Il divieto assoluto ed apodittico di realizzare un vivaio o altre colture finirebbe, infatti, per pregiudicare irrimediabilmente l’attività dell’impresa agricola, sostanzialmente paralizzando l’attività stessa, in violazione di un diritto di rilevanza costituzionale, quale quello di libertà di iniziativa economica privata (cfr. art. 41 della Costituzione).
Certamente quest’ultimo diritto deve trovare un giusto contemperamento con altri diritti posti a protezione di beni di rilevanza costituzionale (quale è ad esempio il paesaggio, ai sensi dell’art. 9 della Costituzione), tuttavia la preclusione all’esercizio di qualsivoglia attività d’impresa agricola (ai sensi dell’art. 2135 del codice civile), derivante dal divieto di realizzare in ogni caso vivai o altre colture, non appare rispettosa del principio di proporzionalità e ragionevolezza dell’azione amministrativa.
Lo stesso legislatore, del resto, ha in più occasioni introdotto una disciplina edilizia in qualche modo “di favore”, nei confronti dell’attività agricola, qualora la stessi si sostanzi non in una vera e propria attività edificatoria ma in una serie di opere di minore impatto, funzionali alla conduzione del fondo (cfr. art. 6, comma 1, lettera d e lettera e, del DPR 380/2001, sull’attività edilizia libera).
E anche questo Tribunale ha -in talune occasioni- censurato per illogicità previsioni urbanistiche comunali eccessivamente ed irrazionalmente penalizzati dell’impresa agricola.

... Non può che ricordarsi la consolidata giurisprudenza che richiama non solo l’ampia discrezionalità assegnata alle Amministrazioni locali in sede di pianificazione territoriale, ma che afferma altresì che la destinazione agricola di una determinata porzione di territorio ben può giustificarsi per necessità di salvaguardia ambientale, prescindendo dall’effettivo svolgimento dell’attività di impresa agricola (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 18.01.2011, n. 352; TRGA del Trentino Alto-Adige, Trento, 06.04.2011, n. 105 e TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 17.09.2009, n. 4977).
L’esistenza di divieti di edificazione in zona agricola non si pone di per sé neppure in contrasto con le particolari previsioni della legge regionale 12/2005, articoli da 59 a 62, visto che la giurisprudenza di questo Tribunale ha più volte affermato che gli articoli richiamati non garantiscono sempre l’attività edificatoria e di conseguenza non impediscono ai Comune di porre i divieti di cui sopra (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 08.06.2011, n. 1468 e sez. IV, 13.12.2010, n. 7519).
Se il divieto di edificazione al di sopra del piano di campagna appare al Collegio rispettoso sia delle norme di legge sopra indicate sia dei canoni di logicità e ragionevolezza che devono presiedere all’esercizio dell’azione amministrativa, tale non appare invece la scelta comunale, esplicitata nella motivazione del diniego di titolo edilizio, di vietare in ogni modo la realizzazione di vivai, in asserita applicazione dei citati articoli 148 e 156 del Piano delle Regole, che contengono in effetti una esplicita previsione in tal senso (<<non impiantare colture arboree o vivai>>, cfr. doc. 5 del resistente).
L’impianto di un vivaio o di una coltura arborea non appare, infatti, di per sé lesivo dei valori paesaggistici ed ambientali tutelati dal PGT: occorre semmai fare riferimento alle concrete caratteristiche della piantagione, per accertare l’effettivo contrasto di quest’ultima con i suindicati valori.
Il divieto assoluto ed apodittico di realizzare un vivaio o altre colture finirebbe, infatti, per pregiudicare irrimediabilmente l’attività dell’impresa agricola, sostanzialmente paralizzando l’attività stessa, in violazione di un diritto di rilevanza costituzionale, quale quello di libertà di iniziativa economica privata (cfr. art. 41 della Costituzione).
Certamente quest’ultimo diritto deve trovare un giusto contemperamento con altri diritti posti a protezione di beni di rilevanza costituzionale (quale è ad esempio il paesaggio, ai sensi dell’art. 9 della Costituzione), tuttavia la preclusione all’esercizio di qualsivoglia attività d’impresa agricola (ai sensi dell’art. 2135 del codice civile), derivante dal divieto di realizzare in ogni caso vivai o altre colture, non appare rispettosa del principio di proporzionalità e ragionevolezza dell’azione amministrativa.
Lo stesso legislatore, del resto, ha in più occasioni introdotto una disciplina edilizia in qualche modo “di favore”, nei confronti dell’attività agricola, qualora la stessi si sostanzi non in una vera e propria attività edificatoria ma in una serie di opere di minore impatto, funzionali alla conduzione del fondo (cfr. art. 6, comma 1, lettera d e lettera e, del DPR 380/2001, sull’attività edilizia libera).
E anche questo Tribunale ha -in talune occasioni- censurato per illogicità previsioni urbanistiche comunali eccessivamente ed irrazionalmente penalizzati dell’impresa agricola (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 07.07.2011, n. 1843).
In conclusione, il presente ricorso merita parziale accoglimento, con annullamento del diniego di titolo edilizio del 07.07.2011, nella parte in cui vieta di realizzare vivai o colture arboree (cfr. doc. 1 dei ricorrenti, pag. 6/7, ultimo alinea) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.04.2012 n. 1020 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Serre, inapplicabili le norme sulle distanze per gli edifici.
I dati normativi convergono nel disporre che le serre non debbano essere qualificate come costruzioni. Pertanto, nel caso di specie avrebbe dovuto essere applicata non la distanza per le edificazioni ma quella prevista per la piantagione degli alberi, misurata, per le ragioni esposte, a partire dalla sede di occupazione dell’autostrada.
La corte amministrativa pugliese ha esaminato le disposizioni relative alla violazione sostanziale delle norme in materia di distanze delle costruzione e delle piantagioni dalla sede autostradale.
Il disposto dell’art. 9 L. 729/1961, prevede che “Lungo i tracciati delle autostrade e i relativi accessi, previsti sulla base dei progetti regolarmente approvati, è vietato costruire, ricostruire o ampliare edifici o manufatti di qualsiasi specie a distanza inferiore a metri 25 dal limite della zona di occupazione dell’autostrada stessa. La distanza è ridotta a metri 10 per gli alberi da piantare”.
La lettura della norma chiarisce quindi expressis verbis, innanzitutto, che la distanza va misurata a partire dalla zona di occupazione dell’autostrada, e non dal confine della proprietà autostradale; pertanto il parere negativo espresso dalla società Autostrade, sulla cui base è stata negata dal Comune la sanatoria, risulta viziato nella parte in cui quantifica la distanza minima delle opere dal confine autostradale, riportando la misura di m. 1,50.
Ma deve anche rilevarsi che, nel caso di specie, non è applicabile, come sostenuto dalla ricorrente, la distanza prevista per le costruzioni.
A tale conclusione conducono infatti sia il disposto del decreto del Ministro dei lavori pubblici del 16.12.1987, secondo cui la costruzione di serre smontabili in fregio all’autostrada non costituisce edificazione, sia la disciplina dell’art. 59 l.r. 1/2005, secondo cui “le serre e i loro annessi non sono da considerarsi costruzioni, indipendentemente dai materiali usati per la loro realizzazione e dai sistemi di ancoraggi”.
I dati normativi convergono dunque nel disporre che le serre non debbano essere qualificate come costruzioni e, pertanto, nel caso di specie avrebbe dovuto essere applicata non la distanza per le edificazioni ma quella prevista per la piantagione degli alberi, misurata, per le ragioni esposte, a partire dalla sede di occupazione dell’autostrada (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 05.04.2012 n. 682 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: No all’assoluto potere discrezionale della pubblica amministrazione nel conferimento di incarichi dirigenziali: si configura inadempimento contrattuale.
Così ha deciso, con sentenza 04.04.2012 n. 5369, la Sez. Lavoro della Suprema Corte di Cassazione, pronunciandosi su di un ricorso presentato da un dirigente cui non era stato riconosciuto, nei precedenti gradi di giudizio, il diritto al risarcimento del danno avanzato nei confronti dell’Istituto Autonomo Case popolari, per il mancato riconoscimento dell’incarico dirigenziale di Responsabile dell’Area Operativa Patrimoniale.
In particolare la Corte d’appello territoriale motivava il rigetto in considerazione del fatto che la contrattazione collettiva rimette alla dirigenza dell’Istituto, nell’esercizio del suo potere discrezionale, il conferimento di incarichi di posizione ai soggetti ritenuti meritevoli, mentre non prevede alcun obbligo di comparazione tra i singoli aspiranti all’incarico.
Contro tale decisione il dirigente presentava, dunque, ricorso per cassazione, adducendo che la Corte territoriale si era limitata ad affermare la discrezionalità della dirigenza nel conferimento dell’incarico in questione, senza interpretare correttamente la previsione contrattuale che fa riferimento alla natura e alle caratteristiche del programma da realizzare, ai requisiti culturali posseduti dal soggetto a cui viene conferito l’incarico, alle attitudini, alla capacità professionale ed esperienza, previsione che sarebbe inutile se interpretata nel senso dell’assoluta ed illimitata discrezionalità.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso, ribadendo il principio secondo cui, in tema di impiego pubblico privatizzato, nell’ambito del quale anche gli atti di conferimento di incarichi dirigenziali rivestono la natura di determinazioni negoziali assunte dall’amministrazione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, le norme contenute nell’art. 19 del D.Lgs. 165/2001 obbligano l’amministrazione datrice di lavoro al rispetto dei criteri di massima in esse indicati, anche per il tramite delle clausole generali di correttezza e buona fede, applicabili alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento di cui all’art. 97 della Costituzione. Tali norme obbligano la P.A. a valutazioni anche comparative, all’adozione di adeguate forme di partecipazione ai processi decisionali e ad esternare le ragioni giustificatrici delle scelte.
Laddove, pertanto, l’amministrazione non abbia fornito nessun elemento circa i criteri e le motivazioni seguiti nella scelta dei dirigenti ritenuti maggiormente idonei agli incarichi da conferire, è configurabile inadempimento contrattuale, suscettibile di produrre danno risarcibile (commento tratto da www.diritto.it).

APPALTIPossibile esclusione dalla gara per mancato inserimento della dichiarazione ex art. 38 Codice dei Contratti.
L’omesso inserimento della dichiarazione resa ex art. 38 nel plico dell’offerta stante la mancata contestazione dell’esistenza, a carico del preteso Direttore tecnico, di elementi preclusivi alla partecipazione, integra dunque una mera irregolarità formale, sanabile ex art. 46 del D.Lgs. n. 163/2006.
I primi giudici, pur non ignorando l’orientamento giurisprudenziale ispirato ad un approccio più rigoroso, in base al quale la semplice omessa produzione della dichiarazione determina di per sé l’esclusione dell’impresa concorrente dalla gara, hanno preferito valorizzare il profilo sostanziale dell’istituto aderendo all’opposto orientamento, ogni volta che non sussistano in concreto situazioni ostative alla partecipazione.
Il Collegio non condivide la scelta dei primi giudici e ritiene di dover confermare l’indirizzo più rigoroso, che, invero, ha ormai assunto rilievo prevalente, quanto meno nei casi, come quello in esame, in cui l’omessa dichiarazione risulti espressamente sanzionata con l’esclusione dalla legge della gara (Cons. St., Sez. IV, 01.04.2011, n. 2066; Sez. V, 24.03.2011, n. 1800; 24.03.2011 n. 1790; Sez. III, 13.05.2011, n. 2906; Sez. VI, 18.01.2012, n. 178).
E’ pur vero che l’art. 46 del d.lgs. n. 163 del 2006 –cui si ispira la clausola del disciplinare valorizzata dalla sentenza impugnata- codifica uno strumento inteso a far valere, entro certi limiti, la sostanza sulla forma nell'esibizione della documentazione ai fini della procedura selettiva, onde non sacrificare l'esigenza della più ampia partecipazione per carenze meramente formali nella documentazione; tuttavia, i limiti che, in generale, incontra il potere-dovere di chiedere una integrazione documentale e regolarizzare le dichiarazioni lacunose o incomplete, sono molto stringenti dovendo conciliarsi con la esigenza di par condicio, che esclude il soccorso a fronte di inosservanza di adempimenti procedimentali significativi o di omessa produzione di documenti richiesti a pena di esclusione dalla gara (Sez. III, n. 2906/2011, cit.) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 31.03.2012 n. 1896 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gara d'appalto - Dichiarazioni degli amministratori.
Il TAR Lazio-Roma, Sez. III, con la sentenza 29.03.2012 n. 2972 ha accolto il ricorso proposto da una società per l’annullamento del provvedimento adottato dall’Autorità di Vigilanza che oltre ad avergli applicato una sanzione pecuniaria, aveva iscritto la suddetta sul casellario informatico determinandone l’esclusione dalla partecipazione alle pubbliche gare per un anno.
L’adozione del provvedimento conseguiva ad una segnalazione dell’Istat, che sulla domanda di partecipazione alla gara, aveva rilevato un’omissione della ricorrente circa una sentenza di applicazione della pena, a carico di un amministratore, per la violazione di norme sulla repressione all’evasione fiscale.
Secondo costante giurisprudenza, l’esercizio del potere sanzionatorio dell’Autorità è subordinato ad un grave comportamento della concorrente, a cui peraltro non può essere ascritto il mancato possesso dei requisiti rientrante nella previsione dell’art. 75 del Codice dei Contratti, che commina la sola esclusione dalla gara e l’escussione della cauzione provvisoria, purché lo stesso sia esercitato entro i limiti del minimo e massimo fissato dalla legge per la graduazione delle sanzioni, che presuppone un preciso apprezzamento dell’Autorità medesima riguardo alla gravità del falso dichiarato e alla situazione soggettiva del dichiarante.
Nel caso di specie, l’Autorità ha disatteso tali valutazioni, nonostante le rimostranze della società che opportunamente evidenziava la buona fede nelle dichiarazioni conseguenti l’abrogazione della norma incriminatrice, sulla base della quale era stato condannato l’amministratore. Per tali ragioni il Tar ha annullato il provvedimento sanzionatorio (link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOSolo il consiglio comunale nomina il nucleo di valutazione. La decisione del Tar Campania.
L'ALTRO ORIENTAMENTO/ Secondo Anci, Civit e Corte dei conti la scelta è invece nella competenza del primo cittadino.

Il
TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 28.03.2012 n. 1510, ha ritenuto illegittimo, per incompetenza, il provvedimento di nomina dei componenti del nucleo di valutazione di un ente locale, nel caso in cui sia stato adottato dal sindaco e non dal Consiglio comunale.
Secondo la sentenza del tribunale amministrativo campano, infatti, dal combinato disposto di cui agli articoli 14, comma 3, del Dlgs 150/2009 e 42, comma 1, del Dlgs 267/2000, discende la regola che la competenza alla nomina dei componenti del nucleo di valutazione spetta al Consiglio comunale, in qualità di organo di indirizzo politico-amministrativo dell'ente e non al Sindaco, che è semplicemente l'organo responsabile dell'amministrazione generale del Comune e il suo massimo rappresentante.
La sentenza ha osservato che, se ex articolo 14, comma 3, del Dlgs 150/2009 l'organismo di valutazione deve essere nominato «dall'organo di indirizzo politico-amministrativo», questi, ex articolo 42, comma 1, del Dlgs 267/2000, non può che essere identificato nel Consiglio comunale, con la conseguenza di individuare per le amministrazioni comunali tale organo come quello competente alla nomina.
La tesi è tuttavia in contrasto con quanto finora affermato non solo dall'Anci ma anche dalla stessa Civit e dalla Corte dei Conti. Se per le amministrazioni dello Stato, infatti, la materia è regolata dall'articolo 14 del citato Dlgs è pur vero che le interpretazioni "univoche" (Anci, Civit e Corte Conti Controllo della Lombardia) ritengono che l'articolo 14 del Dlgs 150/2009 non sia operante per gli enti locali. La magistratura contabile, infatti, evidenzia come ai sensi dell'articolo 16 della riforma-Brunetta, risulti di immediata e diretta applicazione all'ordinamento locale solo l'articolo 11, commi 1 e 3. Sono, invece, disposizioni di principio alle quali gli ordinamenti di comuni e province debbono essere adeguati, quelle contenute negli articoli 3, 4, 5, comma 2, 7, 9 e 15, comma 1.
Il Dlgs 150/2009 non prevede alcun obbligo a carico degli enti locali di applicare l'articolo 14, che disciplina appunto gli Oiv anche in considerazione che l'articolo 14, comma 2, della riforma-Brunetta «sostituisce i servizi di controllo interno, comunque denominati, di cui al decreto legislativo 30.07.1999, n. 286»: il Dlgs 286/1999 ha sempre trovato applicazione in via esclusiva nelle sole amministrazioni statali e mai in via diretta presso gli enti locali. Non si capisce, dunque, sulla base di quali fondamenti sia emersa la teoria secondo la quale l'articolo 14 sia direttamente applicabile agli enti locali facendo recedere il potere normativo degli stessi in un ambito quale quello organizzativo (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.04.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Appalti scaduti senza tacito rinnovo.
Il divieto di rinnovo tacito dei contratti della P.A. esprime un principio generale attuativo di un vincolo comunitario discendente dal trattato CE.

La società Alfa si rivolgeva al TAR Liguria per chiedere il parziale annullamento di alcuni provvedimenti emanati dalla ASL territoriale competente concernenti la proroga, fino ad espletamento delle procedure concorsuali ed alla conseguente aggiudicazione del contratto, avente ad oggetto alcuni servizi integrati di manutenzione e gestione di immobili, nonché per il risarcimento del danno subito dalla ricorrente in termini di perdita di chances.
Si costituivano per resistere in giudizio la ASL competente e la società Beta quale controinteressata attuale detentrice dei servizi sopra specificati.
I Giudici del TAR Liguria hanno evidenziato che il consolidato orientamento in base al quale vige il divieto di rinnovo dei contratti di appalto scaduti, così come sancito dall’art. 23, l. 18.04.2005 n. 62, costituisce ormai un principio con valenza generale e preclusiva da ritenersi prevalente rispetto alle altre e contrarie disposizioni dell’ordinamento.
In particolare, nella suddetta pronuncia viene chiarito come tale principio necessiti di applicazione anche nel caso in cui una proroga sia prevista nella lex specialis, nel qual caso infatti, l’Amministrazione potrebbe consentire una limitata deroga al principio del divieto di rinnovo, purché si impegni a fornire a riguardo una puntuale motivazione che renda evidente le logiche che hanno spinto la P.A. a discostarsi e a disattendere il principio generale.
Tale rapporto tra regola ed eccezione si riflette sul contenuto della motivazione così che la proroga sarà ammessa, senza necessità di particolare illustrazione delle ragioni, nel caso in cui l’amministrazione decida di indire una gara ma solo limitatamente al periodo necessario per l’espletamento della stessa ed unicamente laddove essa sia finalizzata ad assicurare la continuità del servizio.
Ciò anche in considerazione del fatto che, il divieto di rinnovo tacito dei contratti della P.A., anche se posto dalla legge con espresso riferimento agli appalti di servizi, opere e forniture, esprime un principio generale, attuativo di un vincolo comunitario discendente dal Trattato Ce che, in quanto tale, opera per la generalità dei contratti pubblici ed è estensibile anche alle concessioni di servizi pubblici.
Il TAR Liguria ha rigettato la richiesta di risarcimento danni avanzata dalla ricorrente, specificando che, il ristoro del danno conseguente alla lesione di un interesse legittimo pretensivo, è subordinato, pur in presenza di tutti i requisiti dell’illecito (condotta, colpa, nesso di causalità, evento dannoso), alla dimostrazione, secondo un giudizio di prognosi formulato ex ante, che l’aspirazione al provvedimento fosse destinata nel caso di specie ad esito favorevole, quindi alla dimostrazione, ancorché fondata con il ricorso alle presunzioni, della spettanza definitiva del bene collegato a tale interesse.
Siffatto giudizio prognostico sarebbe da escludersi qualora non possa essere consentito allorché detta spettanza sia caratterizzata da consistenti margini di aleatorietà.
Allo stesso modo in termini di perdita di chances, che diversamente dal danno futuro è un danno attuale che non si identifica con la perdita di un risultato utile ma con la perdita della possibilità di conseguirlo, il Giudice Amministrativo specifica che è richiesta una probabilità di successo maggiore del 50% statisticamente valutabile con giudizio prognostico ex ante secondo l’id quod plerumque accidit sulla base di elementi forniti dal danneggiato (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Liguria, Sez. II, sentenza 28.03.2012 n. 430 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa casa non è uno studio. Trasformazione illegittima se non è dichiarata. Sentenza del Tar Lazio sulla destinazione d'uso degli immobili privati.
L'appartamento da residenza privata diventa studio professionale. Se ne accorge la polizia municipale che fa scattare l'abbattimento delle opere, abusive perché eseguite senza il permesso di costruire, sempre necessario quando si altera la destinazione d'uso dell'immobile.
È quanto emerge dalla sentenza 26.03.2012 n. 2832, pubblicata dalla Sez. I-quater del TAR Lazio-Roma.
Titolo necessario. Niente da fare per i proprietari dell'immobile trasformato in una zona di pregio di Roma: gli interventi realizzati dovranno essere rimossi. È la polizia municipale ad accorgersi di quanto sta avvenendo nell'appartamento: il contratto di affitto al nuovo inquilino, una società, parla inequivocabilmente di «locazione ad uso studio professionale» e i vigili accertano che la cucina è smantellata, seppure non del tutto, per far posto alle scrivanie con tanto di impianti elettrici, telematici e di climatizzazione tipici di un ufficio.
E i proprietari non dispongono del titolo edilizio: scatta allora il provvedimento del Comune che ordina la riduzione in pristino. È vero, la concessione non risulta sempre necessaria: se ne può ben fare a meno quando i lavori non consistono in interventi evidenti che alternano il territorio. Ma in questo caso l'immobile ricade in zona «A» del piano regolatore della Capitale, che impone la titolarità del permesso di costruire.
Proprietari smentiti. Bocciata su tutto il fronte la linea difensiva dei titolari dell'appartamento. È esclusa infatti la violazione di legge ed eccesso di potere con riguardo all'errata applicazione e allo sviamento della normativa di riferimento. Non si configura la denunciata illegittimità della determinazioni comunali per mancato rispetto della preventiva acquisizione dell'accertamento e del parere di cui all'articolo 33, commi 2 e 4, dpr 380/2001. I provvedimenti adottati dal Comune non sono affatto spropositati: la documentazione dell'amministrazione esclude che nello stop allo studio «abusivo» si possa configurare un eccesso di potere per travisamento dei fatti o un'ingiustizia «grave e manifesta» a carico dei proprietari dell'immobile.
Confermata, insomma, la demolizione delle opere abusive determinata dal «mutamento di destinazione d'uso dell'immobile da abitazione e ufficio privato con eliminazione del vano cucina e installazione di impianti telematici, elettrico e di condizionamento» rilevato dall'amministrazione (articolo ItaliaOggi del 13.04.2012).

EDILIZIA PRIVATA: Beni artistici e culturali, nelle parrocchie lo status è presunto.
In tema di protezione delle bellezze naturali, ai fini della configurabilità del reato di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, art. 169, comma 1, lett. a), che punisce l’abusiva demolizione, rimozione, modifica, restauro od esecuzione di opere di qualunque genere su beni culturali, non è necessaria per i beni artistici appartenenti alle parrocchie la preesistenza della dichiarazione di interesse culturale del bene, giacché si presumono per legge beni culturali, se hanno valore artistico, ecc..
Il problema che si pone consiste nello stabilire se ai beni appartenenti alle parrocchie ed in genere agli altri enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, potesse essere attribuita la qualifica di bene culturale allorché ovviamente, a norma del D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 2, presentavano interesse artistico storico, archeologico, ecc..
Si tratta in definitiva di stabilire se l’inciso normativo abbia carattere innovativo o meramente interpretativo.
In proposito si osserva che il D.Lgs. n. 62 del 2008, con cui è stato inserito nell’art. 10 del Codice dei Beni culturali l’inciso in esame è stato adottato in base alla Legge Delega 06.07.2002, n. 137, art. 10, comma 4, come modificato dalla L. 23.02.2006, n. 51, art. 1, con cui si era autorizzato il Governo, non solo ad adottare il Codice dei beni culturali, ma anche ad apportare le modificazioni, precisazioni ed integrazioni ritenute necessarie.
Con il decreto n. 62 del 2008 sono state apportate al "Codice Urbani" ulteriori disposizioni integrative e correttive, delle quali alcune hanno matura meramente interpretativa.
Con l’inciso in esame "ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti" il legislatore non ha apportato alcuna innovazione alla norma, ma ha solo reso esplicito ciò che già si desumeva dal tenore della norma stessa.
Tale convincimento si desume da varie circostanze.
Anzitutto dalla stessa locuzione "ivi compresi", la quale lascia chiaramente intendere il suo significato meramente esplicativo, nel senso che tra gli enti e le persone giuridiche menzionate in precedenza dovevano includersi anche i beni appartenenti agli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti.
In secondo luogo dall’ampia dizione contenuta nel primo comma dell’art. 10 nel testo vigente prima dell’intervento del 2008.
Tale norma, nella formulazione anteriore alla modificazione intervenuta con il D.Lgs. n. 62 del 1968, art. 2, comma 1 disponeva: "Sono beni culturali le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fini di lucro, che presentano interesse artistico, storico, ecc."
Orbene le parrocchie quali enti pubblici civilmente riconosciuti anche prima della modifica rientravano nella categoria degli "altri enti pubblici" menzionati dal legislatore o comunque tra le persone giuridiche privante non aventi scopo di lucro che erano equiparate agli enti pubblici.
I beni appartenenti ai soggetti anzidetti se aventi interesse artistico, ecc., acquistano la natura di bene culturale ex lege indipendentemente dalla dichiarazione prevista dall’art. 13, salvo che attraverso l’apposito procedimento di verifica dell’interesse culturale disciplinato dall’articolo 12 non si riconosca l’inesistenza dell’interesse culturale.
Invero, l’art. 10, comma 3, precisa che sono considerati beni culturali, quando sia intervenuta la dichiarazione di cui all’art. 13, "le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico......appartenenti a soggetti diversi da quelli indicati al comma 1", ossia a soggetti diversi da quelli pubblici e da quelli privati non aventi scopo di lucro che sono equiparati agli enti pubblici.
Pertanto, contrariamente all’assunto dei ricorrenti, in tema di protezione delle bellezze naturali, ai fini della configurabilità del reato di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, art. 169, comma 1, lett. a), che punisce l’abusiva demolizione, rimozione, modifica, restauro od esecuzione di opere di qualunque genere su beni culturali, non e’ necessaria per i beni artistici appartenenti alle parrocchie la preesistenza della dichiarazione di interesse culturale del bene, giacché si presumono per legge beni culturali, se hanno valore artistico, ecc..
Di conseguenza, l’affermazione del funzionario della soprintendenza secondo il quale i beni delle chiese aperte al pubblico sono stati sempre considerati beni culturali, se aventi valore artistico, è conforme alle disposizioni normative che si sono succedute nel tempo in materia di tutela di beni artistici ed all’orientamento di questa Corte.
A titolo esemplificativo va ricordato che questa sezione, prima dell’entrata in vigore del Codice Urbani, che sotto tale profilo, non ha modificato sostanzialmente la legislazione previgente, con la decisione n. 1463 del 1999, rv 212391, ha statuito che "Le cose che presentano un interesse artistico, storico, archeologico o etnografico, appartenenti ad Enti o Istituti legalmente riconosciuti -fra i quali vanno sicuramente annoverati anche gli Istituti ecclesiastici cui fanno capo le Chiese aperte al culto- non possono essere alienate se non previa autorizzazione del Ministero competente.
Ai sensi della L. 01.06.1939, n. 1089, art. 3, il decreto impositivo del vincolo deve essere notificato solo se relativo a cose appartenenti a privati, mentre per quelle appartenenti ad Istituto legalmente riconosciuto, il vincolo e’ efficace a prescindere da qualsiasi notifica del provvedimento ed anche se le cose non sono state comprese negli elenchi che i rappresentanti degli Enti sono obbligati a presentare.
Commette, pertanto, il reato di cui alla L. n. 1089 del 1939, art. 62 (che è di dolo generico e richiede soltanto la coscienza e volontà della alienazione) il titolare di una Parrocchia che alieni senza autorizzazione una cosa di interesse artistico appartenente ad una Chiesa aperta al pubblico
".
Secondo Cass. sez. 3, n. 311 del 1999 In tema di tutela delle cose di interesse artistico e storico, nell’ipotesi in cui la "res" sia di proprietà di un ente pubblico, il provvedimento di vincolo non deve essere notificato -diversamente da quanto previsto dall’art. 3 nel caso in cui la proprietà sia privata- al detentore del bene; ciò in relazione alla disposizione del successivo art. 4, che prevede l’obbligo per i soggetti pubblici di presentare l’elenco dei beni in questione.
Ne consegue che l’esecuzione di lavori di modifica o di restauro da parte del soggetto detentore, senza la autorizzazione ministeriale configura il reato di cui all’art. 59, in relazione alla L. 01.06.1939, n. 1089, art. 11.
Per le considerazioni sopra svolte appare evidente che il legislatore del 2008 con l’inciso "ivi compresi i beni degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti" non ha apportato alcuna innovazione alla legislazione precedente, ma come già accennato ha reso esplicita un orientamento che si desumeva in via interpretativa.
La Corte osserva inoltre che il reato in questione, a differenza dell’art. 733 c.p., che fa riferimento alla distruzione della cosa propria (peraltro secondo l’opinione prevalente il termine “propria" contenuto nella norma non evocherebbe la nozione civilistica di proprietà, ma sarebbe idonea a ricomprendere ogni situazione giuridicamente rilevante), non contiene alcun riferimento alla cosa propria e può, quindi, essere commesso da chiunque e non solo dal proprietario della res vincolata a dagli altri soggetti equiparati al proprietario, come ad esempio il direttore dei lavori incaricato dal proprietario.
In questi termini si è pronunciata la prevalente dottrina e la giurisprudenza di questa Corte pure con riferimento alla L. n. 1089 del 1939, art. 59, che aveva però un contenuto sovrapponibile a quello di cui all’art. 169 del Codice Urbani (cfr. Cass. sez. 3, 19.09.1997 n. 9230; Cass. n. 2490 del 1984; n. 1308 del 1984).
Recentemente però la sezione seconda di questa Corte, con la sentenza n. 35173 del 2008, ha affermato trattarsi di un reato proprio facendo leva sulla circostanza che l’autorizzazione può essere chiesta solo da determinati soggetti aventi un rapporto qualificato con la cosa.
La tesi non convince perché la norma è rivolta a "chiunque" trasgredisca le disposizioni poste a tutela dei beni protetti e quindi non solo ai soggetti che possono chiedere l’autorizzazione.
La norma infatti, come sostenuto dalla dottrina che sembra prevalere, tutela direttamente i beni, come si desume dall’inciso "i beni non possono" e solo indirettamente si riferisce ai titolari sui quali ricadono gli effetti giuridici.
La tesi che circoscrive la responsabilità solo ai soggetti che possono chiedere l’autorizzazione sposta la ratio della tutela dal bene al potere di controllo riservato alla pubblica amministrazione che deve rilasciare l’autorizzazione.
Questa, invero, come è stato osservato "ha valore per la sua funzionalità alla tutela del bene" e non di per sé.
L’oggetto diretto della tutela è il bene, che può essere aggredito da chiunque, e non il potere di controllo riservato alla pubblica amministrazione. In ogni caso il contrasto interpretativo nella fattispecie è irrilevante e per tale ragione la soluzione non viene rimessa alle Sezioni unite: infatti la responsabilità dei prevenuti sarebbe ugualmente evidente anche se si configurasse il reato come proprio.
Invero il direttore dei lavori incaricato dal proprietario, ossia dal parroco -rimasto stranamente estraneo al processo- aveva il dovere di chiedere l’autorizzazione e, quindi, rientra tra i soggetti qualificati (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione penale, sentenza 23.03.2012 n. 11412 - sentenza tratta da www.lexambiente.it).

APPALTI: Gare, partecipanti senza segreti.
Può costare caro ad una società che partecipa ad una gara di appalto con un amministrazione pubblica l'aver omesso di indicare, come previsto dall'articolo 38 del D.Lgs. 163/2006, cd. Codice degli Appalti, le condanne penali subite dai propri direttori tecnici o amministratori.
Per il Consiglio di Stato, Sez. IV, che sul problema si è espresso con la sentenza 16.03.2012 n. 1516, tale omissione può comportare l'esclusione dalla partecipazione alla gara pubblica.
La vicenda riguarda una SPA che nella sua qualità di capogruppo mandataria di un raggruppamento temporaneo di imprese che ha partecipato alla procedura di project financing avente a oggetto l’affidamento della realizzazione e gestione di una superstrada, ha impugnato la sentenza con la quale il TAR del Lazio ha dichiarato irricevibile il ricorso dalla stessa società, proposto avverso il provvedimento dell’ente preposto all’aggiudicazione della gara, avente a oggetto la verifica del possesso dei requisiti in capo al raggruppamento temporaneo di impresa.
Diverse sono le contestazioni evidenziate nel ricorso al Consiglio di Stato tra le quali riveste particolare importanza quella relativa alla violazione e falsa applicazione dell’art. 38 del D.Lgs. nr. 163 del 2006 in relazione alla mancata indicazione di un precedente penale riportato da uno dei direttori tecnici.
I giudici del Consiglio di Stato ritengono che sia fondato quanto sostenuto dal TAR nella sentenza di primo grado, secondo la quale la società avrebbe dovuto essere esclusa per l’accertata non veridicità della dichiarazione resa ai sensi dell’art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 2006, riguardante uno dei suoi direttori tecnici: infatti, a fronte della dichiarazione di insussistenza di condanne penali ostative alla partecipazione dichiarata nella domanda di partecipazione alla gara, è emersa l’esistenza a carico del soggetto suindicato di una sentenza definitiva di applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen..
I requisiti per partecipare a gare pubbliche
Gli appalti pubblici rappresentano un passaggio ormai decisivo per tutte le amministrazioni pubbliche per l’aggiudicazione di servizi e opere; il decreto legislativo n. 163/2006 modificato a più riprese dal legislatore disciplina i contratti delle stazioni appaltanti, degli enti aggiudicatori e dei soggetti aggiudicatori, aventi per oggetto l'acquisizione di servizi, prodotti, lavori e opere.
In particolare in sede di partecipazione alla gara i concorrenti devono attestare il possesso di una serie di requisiti contenuti nell’articolo 38 del DPR 163/2006, che i concorrenti devono possedere; con riferimento alla sentenza dei giudici del Consiglio di Stato l’oggetto della contestazione riguarda il contenuto disposto dall’articolo 38, comma 1, lettera c), del D.Lgs. 163/2006.
Tale norma prevede che sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere affidatari di subappalti, e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti nei cui confronti è stata pronunciata sentenza di condanna passata in giudicato, o emesso decreto penale di condanna divenuto irrevocabile, oppure sentenza di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per reati gravi in danno dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità professionale; è comunque causa di esclusione la condanna, con sentenza passata in giudicato, per uno o più reati di partecipazione a un'organizzazione criminale, corruzione, frode, riciclaggio, quali definiti dagli atti comunitari citati all'articolo 45, paragrafo 1, direttiva CE 2004/18; l'esclusione e il divieto operano se la sentenza o il decreto sono stati emessi nei confronti:
a. del titolare o del direttore tecnico se si tratta di impresa individuale;
b. del socio o del direttore tecnico, se si tratta di società in nome collettivo;
c. dei soci accomandatari o del direttore tecnico se si tratta di società in accomandita semplice;
d. degli amministratori muniti di potere di rappresentanza o del direttore tecnico se si tratta di altro tipo di società o consorzio.
In ogni caso l'esclusione e il divieto operano anche nei confronti dei soggetti cessati dalla carica nel triennio antecedente la data di pubblicazione del bando di gara, qualora l'impresa non dimostri di aver adottato atti o misure di completa dissociazione della condotta penalmente sanzionata; resta salva in ogni caso l'applicazione dell'articolo 178 del codice penale e dell'articolo 445, comma 2, del codice di procedura penale.
Le conclusioni del Consiglio di Stato
Per la società ricorrente l’omessa indicazione di tale precedente non costituirebbe in nessun caso motivo di esclusione dalla gara, sulla scorta di una lettura del disposto del citato art. 38, che rimette al concorrente l’indicazione delle condanne ritenute incidenti sulla moralità professionale, nonché del rilievo che, essendo la procedura per cui è causa anteriore alla modifica della norma per opera del decreto legge 13.05.2011, n. 70, non vi sarebbe stato alcun obbligo di dichiarare tutte le condanne riportate.
Per i giudici di Palazzo Spada , invece, la modifica normativa richiamata non ha fatto altro che regolamentare il diffuso indirizzo giurisprudenziale, al quale il Consiglio di Stato si è allineato, secondo cui, essendo rimesso alla stazione appaltante il giudizio in ordine all’effettiva incidenza (o meno) sulla affidabilità e moralità professionale delle eventuali condanne riportate dai concorrenti, questi ultimi hanno, in ogni caso, il dovere di indicare tutte le condanne riportate in modo da rendere possibile detta verifica.
Di conseguenza, l’omissione dell’indicazione ha nella specie comportato violazione della prescrizione di cui all’art. 38, con conseguente esclusione dalla partecipazione alla gara (commento tratto da www.ipsoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTINelle gare pubbliche non c'è posto per il falso innocuo.
Il partecipante di una gara pubblica chiamato a dichiarare i propri requisiti di moralità professionale deve essere immediatamente escluso se nella dichiarazione omette informazioni o dice il falso. Inoltre, non si può addurre a propria scusa il fatto che il falso sia innocuo, cioè non sia tale da alterare il corso della gara.

Lo ha stabilito la sentenza 16.03.2012 n. 1471, emessa dalla Sez. III del Consiglio di Stato.
Nel caso concreto una società è stata esclusa da una gara indetta da una Asl piemontese per l'affidamento dei servizi di pulizia e accessori. Secondo l'amministrazione la gareggiante avrebbe omesso alcune informazioni previste dall'art. 38 del codice dei contratti pubblici (dlgs n. 163/2006), motivo per il quale la gara, per la candidata, è finita prima del tempo.
L'esclusa ha quindi deciso di rivolgersi al tribunale amministrativo per la regione Piemonte, il quale, tuttavia, alla luce delle indicazioni mancanti nella domanda di partecipazione alla gara, ha confermato la decisione dell'Asl. La società si è allora rivolta al Consiglio di stato affermando l'erroneità della sentenza nella parte in cui non ha ritenuto che i dati mancanti nella domanda di partecipazione non avrebbero inciso sull'andamento della gara, data la loro irrilevanza.
In parole semplici, la ricorrente sostiene che si sarebbe trattato di un «falso innocuo». I giudici non hanno condiviso la tesi della società, aderendo alla diversa tesi per la quale nell'ambito delle procedure ad evidenza pubblica il «falso innocuo» non può trovare applicazione (articolo ItaliaOggi del 12.04.2012).

APPALTI: La Commissione di gara non può introdurre elementi di valutazione diversi rispetto a quelli indicati nella lex specialis.
Secondo la giurisprudenza, specialmente quella formatasi dopo la modifica del comma 4 dell'art. 83 del D.Lgs. 163/2006 (introdotta del D.Lgs. n. 152 del 2008), la Commissione di Gara non può integrare il sistema di valutazione delle offerte, poiché non è consentito introdurre ulteriori elementi di valutazione delle offerte rispetto a quelli indicati nella "lex specialis", dovendo essere rispettati i principi di legalità, buon andamento, imparzialità, "par condicio" e trasparenza, rivenienti dall'art. 97 Cost. (Cons. Stato, Sez. V, 26.05.2010 n. 3359).
Insomma, secondo la fisionomia impressa alle pubbliche commesse dalla giurisprudenza comunitaria, la contrattazione pubblica non è un gioco a sorpresa, nel quale vince chi riesce ad indovinare i gusti che la stazione appaltante manifesterà dopo la presentazione dell'offerta.
Il rapporto (pur mediato dalle regole della segretezza) deve essere, in altre parole, autentico e trasparente, in modo che le offerte, una volta preventivamente indicato l'ambito degli aspetti che saranno valutati ai fini dell'aggiudicazione, possano essere consapevolmente calibrate sulle effettive esigenze della stazione appaltante (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 07.03.2012 n. 2302 - tratto e link a www.mediagraphic.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: In ordine all'interpretazione dei concetti di "servizio analogo" e "fornitura analoga".
La giurisprudenza ha precisato che il concetto di “servizio analogo”, e parimenti quello di “fornitura analoga”, deve essere inteso non come identità ma come mera similitudine tra le prestazioni richieste (v. TAR Lombardia, Bs, Sez. II, 08.01.2011, n. 23 e TAR Piemonte, Sez. II 16.01.2008, n. 40), tenendo conto che l’interesse pubblico sottostante non è certamente la creazione di una riserva a favore degli imprenditori già presenti sul mercato ma, al contrario, l’apertura del mercato attraverso l’ammissione alle gare di tutti i concorrenti per i quali si possa raggiungere un giudizio complessivo di affidabilità, ma è altrettanto vero che quando la legge di gara, come nel caso di specie, definisce con attenzione e offre parametri percentuali sulle tipologie di servizi richiesti, il concorrente deve attenersi alla specifica indicazione e conformarsi ad essa nell’identificare le richieste prestazioni “analoghe” (TAR Lazio-Roma, Sez. III, sentenza 01.03.2012 n. 2104 - tratto e link a www.mediagraphic.it).

URBANISTICA: Sebbene ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 17, comma 1, e 28, comma 9, L. n. 1150/1942 il Piano di Lottizzazione convenzionata, come tutti gli strumenti urbanistici di natura attuativa e/o esecutiva, ha efficacia decennale, va rilevato che continuano a rimanere fermi a tempo indeterminato l’obbligo di osservare nelle costruzioni di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti “gli allineamenti e le prescrizioni di zona, stabile dal piano stesso”, per cui tali prescrizioni dei piani attuativi continuano a rimanere efficaci anche dopo la scadenza del termine di 10 anni.
Nell’ambito delle predette “prescrizioni di zona, stabilite dal piano stesso” rientra anche il dimensionamento dei cd. standard urbanistici, disciplinato dal DM n. 1444 del 02.04.1968 e perciò anche la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria di cui agli artt. 3, 4 e 5 del citato DM n. 1444 del 02.04.1968, destinate ad assicurare alla collettività, insediata in una determinata parte del territorio comunale, un livello di qualità della vita adeguato, anche se dopo il decorso del periodo di efficacia decennale non sono più validi i vincoli, preordinati all’espropriazione per la realizzazione delle opere di urbanizzazione, previste dal piano, ma non attuate nell’arco di 10 anni.
Pertanto, se nell’ambito dell’esecuzione dello strumento attuativo è stata già raggiunta la dotazione minima degli standards urbanistici e tale dotazione minima degli standards urbanistici risulta garantita anche tenendo conto della nuova pretesa edificazione, è possibile l’ulteriore edificazione residenziale secondo un criterio di armonico inserimento dei nuovi manufatti edilizi tra i preesistenti fabbricati, tenendo conto degli allineamenti e delle prescrizioni di tipo regolamentare e/o normativo del piano attuativo, approvato oltre 10 ani prima, la cui applicazione risulta necessaria e/o che continuano a mantenere la loro integrale applicabilità.
Mentre, se nell’ambito dell’esecuzione dello strumento attuativo non è stata già raggiunta la dotazione minima degli standards urbanistici, la parte inattuata dello strumento urbanistico di secondo livello, anche se i vincoli espropriativi non sono più efficaci, non permette il rilascio di altre autorizzazioni per la realizzazione di nuove costruzioni su quei terreni, destinati dal piano alla realizzazione delle opere di urbanizzazione fino all’emanazione di un nuovo strumento urbanistico attuativo, in quanto va esclusa la necessità di strumenti attuativi per il rilascio di permessi di costruire soltanto con riferimento alle zone già completamente e/o totalmente urbanizzate, per cui risulta priva di qualsiasi utilità l’adozione ed approvazione dello strumento attuativo. Ma tale principio non può trovare applicazione nel caso di edificazione disomogenea, poiché in quest’ultimo caso risultano necessari il riordino e la ridefinizione dell’assetto urbanistico della zona mediante apposito strumento urbanistico di livello esecutivo, che preveda soprattutto un’adeguata dotazione di infrastrutture primarie e secondarie, al fine di evitare l’incremento dei “guasti urbanistici” già verificatisi, essendo doverosa la pianificazione esecutiva e/o attuativa dell’urbanizzazione fino a quando essa conservi una qualche utile funzione anche in aree già compromesse e parzialmente urbanizzate e la pianificazione attuativa può ancora conseguire l’effetto di correggere e compensare il disordine edilizio in atto.

Sebbene ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 17, comma 1, e 28, comma 9, L. n. 1150/1942 il Piano di Lottizzazione convenzionata, approvato dalla Del. C.C. n. 318 del 13.07.1979, come tutti gli strumenti urbanistici di natura attuativa e/o esecutiva, ha efficacia decennale, va rilevato che continuano a rimanere fermi a tempo indeterminato l’obbligo di osservare nelle costruzioni di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti “gli allineamenti e le prescrizioni di zona, stabile dal piano stesso”, per cui tali prescrizioni dei piani attuativi continuano a rimanere efficaci anche dopo la scadenza del termine di 10 anni.
Nell’ambito delle predette “prescrizioni di zona, stabilite dal piano stesso” rientra anche il dimensionamento dei cd. standard urbanistici, disciplinato dal DM n. 1444 del 02.04.1968 e perciò anche la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria di cui agli artt. 3, 4 e 5 del citato DM n. 1444 del 02.04.1968, destinate ad assicurare alla collettività, insediata in una determinata parte del territorio comunale, un livello di qualità della vita adeguato, anche se dopo il decorso del periodo di efficacia decennale non sono più validi i vincoli, preordinati all’espropriazione per la realizzazione delle opere di urbanizzazione, previste dal piano, ma non attuate nell’arco di 10 anni.
Pertanto, se nell’ambito dell’esecuzione dello strumento attuativo è stata già raggiunta la dotazione minima degli standards urbanistici e tale dotazione minima degli standards urbanistici risulta garantita anche tenendo conto della nuova pretesa edificazione, è possibile l’ulteriore edificazione residenziale secondo un criterio di armonico inserimento dei nuovi manufatti edilizi tra i preesistenti fabbricati, tenendo conto degli allineamenti e delle prescrizioni di tipo regolamentare e/o normativo del piano attuativo, approvato oltre 10 ani prima, la cui applicazione risulta necessaria e/o che continuano a mantenere la loro integrale applicabilità.
Mentre, se nell’ambito dell’esecuzione dello strumento attuativo non è stata già raggiunta la dotazione minima degli standards urbanistici, la parte inattuata dello strumento urbanistico di secondo livello, anche se i vincoli espropriativi non sono più efficaci, non permette il rilascio di altre autorizzazioni per la realizzazione di nuove costruzioni su quei terreni, destinati dal piano alla realizzazione delle opere di urbanizzazione fino all’emanazione di un nuovo strumento urbanistico attuativo, in quanto va esclusa la necessità di strumenti attuativi per il rilascio di permessi di costruire soltanto con riferimento alle zone già completamente e/o totalmente urbanizzate, per cui risulta priva di qualsiasi utilità l’adozione ed approvazione dello strumento attuativo. Ma tale principio non può trovare applicazione nel caso di edificazione disomogenea, poiché in quest’ultimo caso risultano necessari il riordino e la ridefinizione dell’assetto urbanistico della zona mediante apposito strumento urbanistico di livello esecutivo, che preveda soprattutto un’adeguata dotazione di infrastrutture primarie e secondarie, al fine di evitare l’incremento dei “guasti urbanistici” già verificatisi, essendo doverosa la pianificazione esecutiva e/o attuativa dell’urbanizzazione fino a quando essa conservi una qualche utile funzione anche in aree già compromesse e parzialmente urbanizzate e la pianificazione attuativa può ancora conseguire l’effetto di correggere e compensare il disordine edilizio in atto (TAR Basilicata, sentenza 28.02.2012 n. 99 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione dell’istanza di sanatoria ordinaria ex art. 36 DPR n. 380/2001 non determina la definitiva cessazione di efficacia del precedente ordine di demolizione, ma soltanto una sospensione e/o quiescenza temporanea di efficacia dell’atto sanzionatorio, in quanto, se l’istanza di sanatoria viene accolta, l’ordine di demolizione risulta implicitamente e/o sostanzialmente abrogato, poiché viene meno il carattere abusivo dell’opera realizzata, a causa dell’accertata conformità dell’intervento edilizio alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente (sia al momento dell’edificazione, sia al momento della presentazione dell’istanza di sanatoria ordinaria); mentre, se l’istanza di sanatoria viene respinta (con provvedimento espresso o con silenzio rigetto, formatosi dopo 60 giorni), l’ordine di demolizione riacquista la sua efficacia, che non era definitivamente cessata, ma era solo sospesa in attesa della conclusione del nuovo iter procedimentale iniziato con l’istanza di sanatoria.
Al riguardo, va precisato che, comunque, nel caso di rigetto esplicito o implicito dell’istanza di sanatoria, l’istante non può rimanere pregiudicato dall’aver esercitato una facoltà prevista dalla legge (cioè quella di poter presentare l’istanza di sanatoria entro il termine in cui deve provvedersi spontaneamente alla demolizione, per evitare l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale del manufatto abusivo e della relativa area di sedime), per cui tale soggetto deve poter usufruire dell’intero termine, per eseguire spontaneamente l’ordine di demolizione ed evitare il trasferimento del bene e dell’area di sedime al Comune, mediante la sospensione del suo decorso fino all’esito espresso o tacito dell’istanza di sanatoria (più precisamente il termine di spontanea demolizione va calcolato, sommando il periodo decorrente dalla ricezione dell’ordinanza di demolizione fino alla proposizione dell’istanza di sanatoria ed il periodo decorrente dalla ricezione del provvedimento espresso di rigetto dell’istanza di sanatoria o dal compimento del 60° giorno nel caso di silenzio rigetto fino al compimento del predetto termine di spontanea demolizione).
Inoltre, il procedimento avviato con l’istanza di sanatoria è un procedimento del tutto autonomo da quello avviato d’ufficio e conclusosi con l’ingiunzione di demolizione, per cui non vi sono motivi per imporre all’Amministrazione l’obbligo di riesercitare il potere sanzionatorio a seguito dell’esito negativo dell’istanza di sanatoria, anche perché l’ordine di demolizione a suo tempo emanato costituisce un provvedimento vincolato sul quale non interferisce minimamente l’atto di rigetto (esplicito o implicito) dell’istanza di sanatoria (mentre, come sopra detto, al contrario l’atto di accoglimento dell’istanza di sanatoria comporta la caducazione della precedente ordinanza di demolizione).
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Mentre, la normativa in materia di condono edilizio, secondo cui la reiezione della domanda di condono comporta la successiva irrogazione di una nuova misura sanzionatoria (con conseguente improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse del ricorso avverso l’ordine di demolizione, emanato prima della presentazione del condono) non può essere estesa analogicamente alla fattispecie giuridica dell’istanza di sanatoria ordinaria, atteso che trattasi di una normativa di carattere eccezionale, che ai sensi dell’art. 14 Disp. Prelim. al C.C. non può essere applicata ad altre fattispecie.
Comunque, le fattispecie del condono edilizio e dell’istanza di sanatoria ordinaria non sono tra loro assimilabili, in quanto la domanda di condono edilizio comporta un riesame complessivo dell’intera fattispecie alla luce di una normativa di carattere eccezionale derogatrice della disciplina contenuta nella strumentazione urbanistica che provoca il definitivo superamento degli eventuali provvedimenti di demolizione emanati precedentemente all’entrata in vigore della normativa di condono edilizio (emanati soltanto con riferimento alle norme degli strumenti urbanistici), mentre l’istanza di sanatoria ordinaria può essere accolta soltanto se vi sia conformità con gli strumenti urbanistici generali e di attuazione anche solo adottati (e non ancora approvati) sia al momento della realizzazione dell’opera che al momento della presentazione dell’istanza, per cui in quest’ultimo caso l’emanazione di un secondo provvedimento di demolizione si rivelerebbe, in assenza di un’espressa previsione normativa, un’inutile ed antieconomica duplicazione dell’attività amministrativa finalizzata alla vigilanza urbanistico-edilizia del territorio ed al contrasto del fenomeno dell’abusivismo edilizio.

Secondo l’univoco orientamento giurisprudenziale di questo Tribunale (cfr. per es. TAR Basilicata Sent. n. 426 del 23.05.2005) la presentazione dell’istanza di sanatoria ordinaria ex art. 36 DPR n. 380/2001 non determina la definitiva cessazione di efficacia del precedente ordine di demolizione, ma soltanto una sospensione e/o quiescenza temporanea di efficacia dell’atto sanzionatorio, in quanto, se l’istanza di sanatoria viene accolta, l’ordine di demolizione risulta implicitamente e/o sostanzialmente abrogato, poiché viene meno il carattere abusivo dell’opera realizzata, a causa dell’accertata conformità dell’intervento edilizio alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente (sia al momento dell’edificazione, sia al momento della presentazione dell’istanza di sanatoria ordinaria); mentre, se l’istanza di sanatoria viene respinta (con provvedimento espresso o con silenzio rigetto, formatosi dopo 60 giorni), l’ordine di demolizione riacquista la sua efficacia, che non era definitivamente cessata, ma era solo sospesa in attesa della conclusione del nuovo iter procedimentale iniziato con l’istanza di sanatoria.
Al riguardo, va precisato che, comunque, nel caso di rigetto esplicito o implicito dell’istanza di sanatoria, l’istante non può rimanere pregiudicato dall’aver esercitato una facoltà prevista dalla legge (cioè quella di poter presentare l’istanza di sanatoria entro il termine in cui deve provvedersi spontaneamente alla demolizione, per evitare l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale del manufatto abusivo e della relativa area di sedime), per cui tale soggetto deve poter usufruire dell’intero termine, per eseguire spontaneamente l’ordine di demolizione ed evitare il trasferimento del bene e dell’area di sedime al Comune, mediante la sospensione del suo decorso fino all’esito espresso o tacito dell’istanza di sanatoria (più precisamente il termine di spontanea demolizione va calcolato, sommando il periodo decorrente dalla ricezione dell’ordinanza di demolizione fino alla proposizione dell’istanza di sanatoria ed il periodo decorrente dalla ricezione del provvedimento espresso di rigetto dell’istanza di sanatoria o dal compimento del 60° giorno nel caso di silenzio rigetto fino al compimento del predetto termine di spontanea demolizione).
Inoltre, il procedimento avviato con l’istanza di sanatoria è un procedimento del tutto autonomo da quello avviato d’ufficio e conclusosi con l’ingiunzione di demolizione, per cui non vi sono motivi per imporre all’Amministrazione l’obbligo di riesercitare il potere sanzionatorio a seguito dell’esito negativo dell’istanza di sanatoria, anche perché l’ordine di demolizione a suo tempo emanato costituisce un provvedimento vincolato sul quale non interferisce minimamente l’atto di rigetto (esplicito o implicito) dell’istanza di sanatoria (mentre, come sopra detto, al contrario l’atto di accoglimento dell’istanza di sanatoria comporta la caducazione della precedente ordinanza di demolizione).
Mentre, la normativa in materia di condono edilizio, secondo cui la reiezione della domanda di condono comporta la successiva irrogazione di una nuova misura sanzionatoria (con conseguente improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse del ricorso avverso l’ordine di demolizione, emanato prima della presentazione del condono) non può essere estesa analogicamente alla fattispecie giuridica dell’istanza di sanatoria ordinaria, atteso che trattasi di una normativa di carattere eccezionale, che ai sensi dell’art. 14 Disp. Prelim. al C.C. non può essere applicata ad altre fattispecie. Comunque, le fattispecie del condono edilizio e dell’istanza di sanatoria ordinaria non sono tra loro assimilabili, in quanto la domanda di condono edilizio comporta un riesame complessivo dell’intera fattispecie alla luce di una normativa di carattere eccezionale derogatrice della disciplina contenuta nella strumentazione urbanistica che provoca il definitivo superamento degli eventuali provvedimenti di demolizione emanati precedentemente all’entrata in vigore della normativa di condono edilizio (emanati soltanto con riferimento alle norme degli strumenti urbanistici), mentre l’istanza di sanatoria ordinaria può essere accolta soltanto se vi sia conformità con gli strumenti urbanistici generali e di attuazione anche solo adottati (e non ancora approvati) sia al momento della realizzazione dell’opera che al momento della presentazione dell’istanza, per cui in quest’ultimo caso l’emanazione di un secondo provvedimento di demolizione si rivelerebbe, in assenza di un’espressa previsione normativa, un’inutile ed antieconomica duplicazione dell’attività amministrativa finalizzata alla vigilanza urbanistico-edilizia del territorio ed al contrasto del fenomeno dell’abusivismo edilizio.
In ogni caso, l’opposta tesi, secondo cui la mera presentazione dell’istanza di sanatoria ex art. 36 DPR n. 380/2001 fa perdere ogni effetto al precedente provvedimento di demolizione, comporta l’assurda conseguenza (non verificabile nella fattispecie del condono edilizio, dove la domanda di condono va presentata obbligatoriamente entro un termine perentorio, costituito da una precisa data) che anche il secondo provvedimento di demolizione (emanato dopo la reiezione dell’istanza di sanatoria) potrebbe essere neutralizzato da un’altra istanza ex art. 36 DPR n. 380/2001 e così via in un continuo alternarsi di ingiunzioni di demolizioni e istanze ex art. 13 L. n. 47/1985, paralizzante dell’azione amministrativa di repressione degli abusi edilizi) (TAR Basilicata, sentenza 28.02.2012 n. 98 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOMalattia senza festivi.
La Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ha ribadito con la sentenza 09.02.2012 n. 1885 il seguente comportamento: «Se alla conclusione del periodo di malattia seguono dei giorni festivi gli stessi non devono essere conteggiati nel periodo di comporto pena l'illegittimità del licenziamento stesso».
Il caso di specie riguardava una dipendente del ministero della giustizia che aveva fruito di un periodo di malattia durato 18 mesi (periodo massimo consentito dal Ccnl) e che, alla conclusione del periodo stesso, aveva ottenuto dall'Amministrazione di assentarsi dal lavoro per un ulteriore periodo di 18 mesi.
L'ulteriore periodo concesso scadeva in data 31/10/2003 e pertanto la lavoratrice doveva riprendere servizio il giorno 1° novembre del 2003; tuttavia , essendo il giorno 1° novembre festivo e il giorno 2 novembre cadente di domenica, la dipendente si era presentata al lavoro il giorno 03.11.2003 (tale comportamento aveva portato al licenziamento della stessa in quanto in data 01/01/2003 scadeva il periodo massimo di assenza consentito dal contratto).
Il licenziamento è stato impugnato e la questione giuridica è arrivata fino alla Cassazione che ha riconosciuto l'illegittimità del licenziamento (cosa che era accaduta anche in primo grado) in quanto la lavoratrice non aveva superato il periodo di comporto (avendo ripreso servizio in tempo utile il 3/11/2003) in quanto il 1° e il 2 novembre del 2003 erano giorni festivi (articolo ItaliaOggi del 13.04.2012).

EDILIZIA PRIVATA: Abusi edilizi correlati all'erogazione di servizi pubblici.
La violazione dell’art. 48 del Dpr n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia) comporta due conseguenze: una di tipo civile (la nullità del contratto di somministrazione), una di tipo amministrativo (la sanzione amministrativa a carico del funzionario dell’azienda erogatrice). La competenza a provvedere sulla sanzione amministrativa, pur nel silenzio della norma, deve essere incardinata in capo al Comune, nel cui territorio è posto l’immobile, attesa la competenza generale dei Comune in materia di controllo della regolarità edilizia degli immobili ai sensi dell’articolo 27 del Testo Unico” (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 16.01.2012 n. 55).
Il Tar respinge il ricorso e conferma l’inquadramento del Comune e le motivazioni contenute nel provvedimento, sulla base della seguente ricostruzione:
a) La violazione dell’articolo 48 del Dpr n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia) comporta due conseguenze. Una di tipo civile, la nullità del contratto di somministrazione, ed una di tipo amministrativo: la sanzione amministrativa a carico del funzionario dell’azienda erogatrice.
b) La competenza a provvedere sulla sanzione amministrativa, pur nel silenzio della norma, deve essere incardinata in capo al Comune, nel cui territorio è posto l’immobile, attesa la competenza generale dei Comune in materia di controllo della regolarità edilizia degli immobili ai sensi dell’articolo 27 del Testo Unico”.
c) La sanzione amministrativa e la dichiarazione incidentale di nullità del contratto possono essere applicate dal Comune soltanto quando sia violato il disposto del comma 1° dell’articolo 48, e cioè quando sia stata chiesta la fornitura ad opere prive di permesso di costruire.
d) Non è prevista, pertanto, l’applicabilità della norma agli interventi in DIA.
e) Infatti, l’articolo 37, comma 6°, del Testo Unico Edilizia, nello stabilire le norme sanzionatorie che restano applicabili in caso di mancata presentazione della DIA, non richiama l’articolo 48.
f) Nella concreta vicenda, le opere in questione (spostamento della cucina, installazione di nuovo impianto termico) non abbisognavano di permesso di costruire o superdia. Fra l’altro, il Tar evidenzia che il mantenimento dell’impianto termico abusivo è stato consentito con provvedimento di sanatoria dell’illecito, peraltro, applicato a carico del ricorrente, nella sua qualità di proprietario. A tal riguardo, va osservato che la sanatoria degli abusi previsti dall’articolo 37 del Testo Unico (“interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla denuncia di inizio attività e accertamento di conformità”) comporta, comunque, l’estinzione dei procedimenti sanzionatori dell’abuso edilizio, tra cui deve ritenersi compreso anche quello previsto dall’articolo 48 (commento tratto dalla newsletter di www.centrostudimarangoni.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAppalti fasulli, committente con potere di vigilanza.
La Corte di Cassazione con sentenza n. 15615/2011, in tema di appalti fasulli, ha stabilito che l'esercizio di un potere di controllo da parte del committente può essere compatibile con un regolare contratto di appalto e quindi deve ritenersi legittima la pretesa da parte del committente dell'osservanza delle modalità temporali e tecniche di esecuzione del servizio o dell'opera oggetto dell'appalto che dovranno essere rispettate dall'appaltatore.
Nella fattispecie si trattava di un contratto di appalto avente ad oggetto servizi informatici che prevedevano lo svolgimento dell'attività lavorativa dei dipendenti della società appaltatrice presso la struttura della committente con mezzi materiali propri della stessa e in gruppi di lavoro formati anche dai dipendenti della società.
La società soccombente ha proposto ricorso per Cassazione affermando che i dipendenti della società appaltatrice erano in possesso di conoscenze tecniche specifiche e altamente qualificate in campo informatico e sussisteva quindi il requisito dell'organizzazione dei mezzi necessari richiesto ai fini della genuinità del contratto di appalto ai sensi dell'art. 29 dlgs n. 276/2003 (anche se l'attività lavorativa era svolta all'interno di una struttura della committente presso la quale erano presenti anche altri lavoratori e con mezzi materiali di proprietà della committente).
La Corte ha ribadito che il divieto di intermediazione di manodopera opera tutte le volte in cui l'appaltatore mette a disposizione del committente una prestazione lavorativa senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa finalizzata a un risultato produttivo autonomo ed ha precisato che l'esercizio di un potere di controllo da parte del committente è compatibile con un regolare contratto di appalto.
Sotto questo profilo può ritenersi legittima la predeterminazione da parte del committente anche delle modalità temporali e tecniche di esecuzione del servizio o dell'opera oggetto dell'appalto che dovranno essere rispettate dall'appaltatore.
Quindi non può ritenersi sufficiente, ai fini della configurabilità di un appalto fraudolento, la circostanza che il personale dell'appaltante impartisca disposizioni agli ausiliari dell'appaltatore, occorrendo verificare se le disposizioni impartite siano riconducibili al potere direttivo del datore di lavoro oppure al solo risultato delle prestazioni lavorative, il quale può formare oggetto di un genuino contratto di appalto (articolo ItaliaOggi del 13.04.2012).

AGGIORNAMENTO AL 10.04.2012

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NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

ENTI LOCALI: Oggetto: Decreto del Ministro dell'Interno 15.02.2012, n. 23, recante il "Regolamento adottato in attuazione dell'articolo 16, comma 25, del decreto-legge 13.08.2011, n. 138, recante "Istituzione dell'elenco dei revisori dei conti degli enti locali e modalità di scelta dell'organo di revisione economico-finanziario" (Ministero dell'Interno, circolare 05.04.2012 n. FL 7/2012).

EDILIZIA PRIVATA: Indicazioni operative nella redazione delle notizie di reato, in materia di edilizia e urbanistica, da inoltrare alla Procura della Repubblica da parte dei Comuni (Procura della Repubblica di Bergamo, nota 13.03.2012 n. 332 di prot.).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Polizia Locale - E' legittima l'attribuzione dell'indennità di disagio (CGIL-FP di Bergamo, nota 02.04.2012).

PUBBLICO IMPIEGO: Eccedenze di personale nelle pubbliche amministrazioni e licenziamento per motivi economici (CGIL-FP di Bergamo, nota 19.03.2012).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - AMBIENTE-ECOLOGIA - VARI: G.U. 06.04.2012 n. 82, suppl. ord. n. 69/L, "Testo del decreto-legge 09.02.2012, n. 5, coordinato con la legge di conversione 04.04.2012, n. 35, recante: «Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo»".

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 14 del 06.04.2012, "Disciplina del settore dei trasporti" (L.R. 04.04.2012 n. 6).

AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - ENTI LOCALI - INCARICHI PROFESSIONALI/PROGETTUALI - VARI: G.U. 03.04.2012 n. 79, suppl. ord. n. 65, "Ripubblicazione del testo del decreto-legge 24.01.2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24.03.2012, n. 27, recante: «Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività»".

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 03.04.2012 n. 79:
● "Quinto elenco aggiornato dei siti di importanza comunitaria per la regione biogeografica alpina in Italia, ai sensi della direttiva 92/43/CEE" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 07.03.2012);
● "Quinto elenco aggiornato dei siti di importanza comunitaria per la regione biogeografica continentale in Italia, ai sensi della direttiva 92/43/CEE" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 07.03.2012).
● "Quinto elenco aggiornato dei siti di importanza comunitaria per la regione biogeografica mediterranea in Italia, ai sensi della direttiva 92/43/CEE" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 07.03.2012).

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 14 del 02.04.2012, "Approvazione del capitolato d’oneri generale e del capitolato d’oneri particolare per la vendita in piedi di lotti boschivi di proprietà pubblica (art. 75, comma 2-bis, del r.r. 5/2007)"  (decreto D.G. 23.03.2012 n. 2481).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

ATTI AMMINISTRATIVI: E. Rovere, L'atto amministrativo (link a www.diritto.it).

APPALTI: V. Lioniello, La responsabilità solidale tra committente pubblico e appaltatore negli appalti stipulati dalla pubblica amministrazione (link a www.diritto.it).

APPALTI: S. Rocca e V. Montaruli, La documentazione antimafia e la recente semplificazione amministrativa (link a www.diritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: C. Morici, Se il datore di lavoro cambia la password del pc e sostituisce la serratura dell’ufficio del lavoratore è integrato il danno da mobbing (link a www.diritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: S. Rocchina, Cos'é il mobbing per la giurisprudenza (Cass. n. 3187/2012) - Per la configurazione di una condotta di "mobbing", l'illegittimità di un atto non è di per sé sufficiente (link a www.diritto.it).

URBANISTICA: A. Galbiati, La partecipazione ai procedimenti di pianificazione territoriale nella l.r. Lombardia 1/2012 (link a www.studiospallino.it).

APPALTI: F. Federici, Se l'appalto è affidato senza delibera di spesa - Nota a Corte di Cassazione - Sez. III civile, sentenza 25.01.2012 n. 1025 (link a www.filodiritto.com).

SICUREZZA LAVORO: A. Veltri, Individuazione della figura giuridica del dirigente nel Testo Unico di Sicurezza sul Lavoro (link a www.filodiritto.com).

CORTE DEI CONTI

INCARICHI PROFESSIONALIPersonale. La Corte dei conti condanna un sindaco per dieci anni di consulenze extra organico. Incarichi di vertice agli esterni limitati anche nella durata. La maxisanzione: tutti i compensi pagati vanno risarciti.
Giocare con le norme per aggirare i limiti previsti per gli incarichi di lavoro autonomo e i vincoli in materia di rapporti fiduciari può costare caro.
Se ne è reso conto il sindaco di un piccolo comune in provincia dell'Aquila, il quale, per poter usufruire delle prestazione del responsabile dell'ufficio tecnico, da lui selezionato con incarico esterno, ha fatto ricorso all'articolo 110, comma 2, del Testo unico enti locali (Dlgs 267/2000). Ma i magistrati contabili prima lo hanno condannato a una sanzione tutto sommato modesta, poi, in appello, hanno inasprito l'importo del danno erariale.

Può essere così riassunto il contenuto della sentenza 08.02.2012 n. 66 della Corte dei conti - Sez. III Giur. centrale d'appello.
Il sindaco abruzzese aveva conferito un incarico ad un ingegnere per sopperire alla carenza di personale qualificato. Dopo alcuni anni, il professionista era diventato responsabile dell'ufficio tecnico e l'incarico aveva assunto la veste di «alta professionalità», fuori dotazione organica, a tempo determinato e parziale.
La Corte, innanzitutto, ha evidenzia come il ricorso a personale esterno debba essere motivato da esigenze eccezionali, impreviste e transitorie, mentre, normalmente si deve provvedere ai compiti istituzionali con il personale inquadrato nella propria organizzazione. I giudici contabili quindi hanno ravvisato un primo profilo di illegittimità nel ricorso ad un'alta professionalità fuori dotazione organica assegnata a compiti ordinari. Senza contare che le esigenze si erano rivelate tutt'altro che temporanee e predeterminate, in quanto l'incarico era durato una decina d'anni, proroghe comprese.
Molto significativo un passaggio della sentenza nel quale i giudici contabili, hanno contestato al sindaco di aver fatto ricorso ad «una sorta di contraddittoria e inammissibile commistione tra le distinte ipotesi disciplinate dall'articolo 110 del Tuel» al comma 1, al comma 2 e al comma 3 (oggi comma 6). Di fatto, la Corte ha considerato l'incarico come una vera e propria assunzione del tecnico comunale, non legata ad esigenze eccezionali.
La condanna al danno, quindi, è stata inevitabile. Ma i magistrati contabili hanno osservato che, nel caso di specie, non si può neppure parlare di riduzione per utilità derivante dalla prestazione resa a favore del Comune. In primo luogo perché l'utilità deve essere comprovata dal soggetto che vorrebbe usufruire dello sconto sulla sanzione, non potendosi ricavare benefici solo dalla mera prestazione resa, e, in secondo luogo, perché l'ingegnere non ha affiancato le professionalità interne, presenti ed aventi titolo per assumere la responsabilità del servizio, ma si è sostituito ad esse. Il danno erariale è stato quantificato pari a tutte le retribuzioni corrisposte, con l'aggiunta di una quota parte dell'assegno ad personam, che seppure riconosciuto sproporzionato rispetto all'incarico, è addebitato solo in parte al sindaco, in quanto deciso in seno alla giunta.
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LA MASSIMA
Non sussiste un generale divieto per la Pa di ricorrere a collaborazioni esterne o a contratti di durata o, ancora, a consulenze, ma l'utilizzo di personale esterno non può concretizzarsi se non nel rispetto di determinate condizioni e limiti previsti dal legislatore.
I limiti trovano la propria ratio nella necessità di evitare il conferimento generalizzato di consulenze esterne, l'assunzione di personale in assenza di condizioni legittimanti, l'aggravio di costi e la violazione di norme cogenti le quali richiedono, per l'accesso alla pubblica amministrazione, lo svolgimento di una procedura concorsuale (articolo Il Sole 24 Ore del 02.04.2012 - tratto da www.corteconti.it).

NEWS

EDILIZIA PRIVATA: Semplificazioni. La legge 35, di conversione del Dl 5/2012, ha tolto i vincoli sugli spazi realizzati con le agevolazioni «Tognoli»
Parcheggi in vendita senza casa. Le aree potranno essere di pertinenza di immobili situati in altri quartieri.

Si possono vendere, con limiti, i parcheggi realizzati in attuazione della legge Tognoli del 1989: è questa la novità introdotta dall'articolo 10 del decreto legge 5/2012 (legge 35, in vigore da ieri).
In via generale, chi intende costruire deve rispettare standard di urbanizzazione e in particolare realizzare spazi per parcheggi in misura pari a un metro quadrato ogni 10 metri cubi di costruzione (articolo 41-sexies legge 1150/1942). Questi spazi per parcheggiare, nel periodo tra il 1985 e il 2005, erano considerati pertinenze necessarie delle singole costruzioni e cioè non separabili dalle stesse. Solo con l'entrata in vigore dell'articolo 12 della legge 246/2005 è stato possibile cedere il diritto a parcheggiare o affittare a terze persone o imprese.
Le agevolazioni
Questa prima liberalizzazione, però, non riguardava le aree di sosta realizzate in forza delle legge Tognoli 122/1989, che hanno continuato a essere considerate inseparabili dalle unità immobiliari di cui erano pertinenze. Il vincolo rimasto in vigore dal 1989 al 2012 sulle aree di sosta "Tognoli" era motivato dal fatto che la legge 122/1989 consentiva notevoli agevolazioni, elasticizzando le previsioni degli strumenti urbanistici (piani regolatori, regolamenti edilizi) e le maggioranze condominiali (bastava la metà del valore e maggioranza degli intervenuti), consentendo di realizzare parcheggi sotto gli edifici oppure al piano terreno nelle costruzioni "a pilotis", cioè con un piano terra vuoto, attraversato da nudi pilastri che reggono l'edifico sovrastante.
Per evitare fenomeni di accaparramento, ad esempio la vendita di tutto un piano interrato da trasformare in parcheggio, oppure la vendita di piani terra vuoti da delimitare con muri e da suddividere in spazi di sosta, il legislatore nel 1989 aveva previsto l'obbligo di cedere il parcheggio realizzato con le agevolazioni della legge 122 solo insieme all'unità immobiliare della quale costituiva pertinenza. Quindi le imprese edili che realizzavano tali parcheggi non potevano immetterli sul libero mercato ma dovevano cederli necessariamente ai proprietari delle unità immobiliari sovrastanti e solo questi ultimi potevano eventualmente cederli in affitto a terzi.
Quando si può vendere
Solo ora, quale effetto del Dl semplificazioni, è possibile che i proprietari di unità immobiliari possano cedere a terzi le aree di parcheggio realizzate (al piano terra o nell'interrato) con le agevolazioni della legge Tognoli. I terzi acquirenti, peraltro, devono mantenere il vincolo di pertinenza spostandolo su un'altra unità immobiliare (anche non loro) presente nello stesso comune. Non è necessario un rapporto di vicinanza tra pertinenza e questa diversa unità immobiliare e l'abitazione o l'ufficio, cui il parcheggio è collegato, possono essere molto distanti purché nello stesso comune.
Il decreto legge ha inteso infatti evitare che si generi un mercato di parcheggi realizzati con la legge Tognoli completamente sciolto dalle unità immobiliari, ma non ha più interesse a che l'abitazione o l'ufficio goda effettivamente della possibilità di parcheggiare nell'area di propria pertinenza. In altri termini, una casa può avere un parcheggio di pertinenza anche in un quartiere sito all'opposto del territorio comunale. Di conseguenza i proprietari dei parcheggi potranno vendere i posti auto, realizzati nel loro interrato o al piano terra con la legge 122, separatamente dalle loro unità immobiliari, magari per esigenze di liquidità oppure perché si tratta di un secondo o terzo posto auto diventato eccedente.
Aree ancora vincolate
Resistono quindi solo due categorie di posti auto che hanno concreti limiti a una separazione dalle unità immobiliari di cui sono pertinenza: la prima comprende i posti realizzati in concessione su aree (o sul sottosuolo di aree) comunali. Questi sono in genere i primi livelli dei parcheggi multipiano realizzati in concessione, che non possono essere separati dall'unità immobiliare della quale sono pertinenza.
La seconda categoria è quella dei parcheggi realizzati dai condomini o da singoli proprietari in aree pertinenziali esterne ai fabbricati (nel raggio, in genere, di poche centinaia di metri): tali aree di parcheggio devono restare a uso esclusivo dei residenti.
Poiché i "residenti" possono non identificarsi con i "proprietari", si arriva alla conclusione che gli inquilini (tecnicamente, i residenti) di un palazzo in cui i proprietari abbiano realizzato parcheggi interrati in aree pertinenziali (esterne ai fabbricati stessi) hanno diritto a fruire del parcheggio e non possono vedersi sottratto tale diritto nemmeno se l'area di parcheggio viene venduta a terzi.
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L'evoluzione delle regole
1 - Metro quadro
In base alla legge 1150/1942, chi vuole costruire un edificio deve realizzare spazi per parcheggi nella misura di un metro quadro ogni dieci metri cubi di costruzione
1985 - Vincolo
Tra il 1985 e il 2005 gli spazi per parcheggiare sono stati considerati pertinenze necessarie delle singole costruzioni e quindi non separabili dalle stesse
1989 - Iter semplificato
La legge Tognoli (122/1989) introduce diverse agevolazioni a livello urbanistico e di regolamento condominiale per la realizzazione di parcheggi al piano terra o interrati sotto i rispettivi edifici
2005 - Primo passo
La legge 246/2005 consente di cedere o affittare il diritto di parcheggiare a terzi, ma non per le aree realizzate con la legge Tognoli (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.04.2012).

ENTI LOCALI - VARIL'Imu va in onda in due puntate. Definite le aliquote per la rata da versare entro il 18 giugno. Scadenze e regole dell'imposta municipale unica contenute nel maxi-emendamento al dl 16/2012.
Finalmente i contribuenti sanno quali aliquote devono utilizzare per calcolare la prima rata dell'Imu da versare, esclusivamente con il modello F24, entro il 18 giugno (il 16 cade di sabato). Poi, per il conguaglio di dicembre, si profilano già dubbi e perplessità, atteso che i comuni devono fissare aliquote e detrazioni definitive entro il 30 settembre, prendendo come riferimento le aliquote che il governo potrebbe, paradossalmente, cambiare fino al 10 dicembre.
Sono le principali novità del maxi-emendamento al dl 16/2012, approvato nei giorni scorsi dal senato, e che ora passa alla camera per la seconda lettura (la conversione dovrà avvenire entro il 1° maggio). Il provvedimento è intervenuto anche su altre questioni che comunque rilevano ai fini dell'acconto. Si tratta degli immobili connessi all'attività agricola, delle case di interesse storico o artistico, dei fabbricati inagibili e, ancora, degli alloggi «ex Iacp».
Posto che oggi non è possibile sapere con certezza quale sarà nel 2012 il carico fiscale complessivo che graverà sui proprietari degli immobili, tenendo anche conto che gli alloggi non locati (seconde case e fabbricati a disposizione) saranno esclusi da Irpef e relative addizionali, vale la pena soffermarsi sulle regole da conoscere per calcolare correttamente la prima rata di giugno. Anche se occorre precisare che per determinate tipologie immobiliari sono sorti dubbi che gli attesi chiarimenti del ministero delle finanze potrebbero aiutare a dissipare.
Base imponibile. Rispetto a quanto originariamente previsto dall'art. 13 del dl 201/2011, le novità introdotte in tema di Imu riguardano i fabbricati inagibili e inabitabili e le case storiche. Con riguardo ai primi, viene, sostanzialmente, ripristinata la stessa riduzione prevista dall'Ici, anche se per l'Imu, anziché ridurre l'imposta del 50%, viene previsto un abbattimento del 50% della base imponibile. Viene poi precisato, anche se appare una sottolineatura pleonastica, che se il fabbricato inagibile è iscritto in catasto come unità collabente (categoria catastale F/2) continua «ad avere rendita zero».
Ciò che invece non viene chiarito (e il problema era già sorto con riguardo all'Ici) è se il fabbricato con rendita nulla, qualora ricostruibile in base agli strumenti urbanistici del comune, debba essere considerata area edificabile oppure se si tratti di un immobile irrilevante ai fini di tali imposte comunali.
Novità significative riguardano invece gli immobili dichiarati di interesse storico e artistico. Da una tassazione Ici agevolata (per effetto dell'applicazione di una rendita convenzionale determinata applicando la tariffa d'estimo più bassa) si è passati, con il decreto «salva-Italia», all'azzeramento dei benefici, per poi mediare, con il maxi-emendamento, attraverso la riduzione della metà del valore imponibile comunque calcolato sulla base della rendita risultante in catasto.
Aliquote. Per il calcolo della prima rata si dovrà applicare: l'aliquota del 4 per mille all'abitazione principale e relative pertinenze (purché accatastate in categoria C2, C/6 o C/7 e comunque nel limite massimo di un'unità immobiliare per ciascuna delle predette categorie); l'aliquota del 2 agli immobili strumentali rurali (al riguardo va segnalato che a tutt'oggi non risulta ancora adottato il decreto ministeriale con il quale dovrebbe essere chiarito se tali immobili assumeranno la categoria D/10); l'aliquota del 7,6 a tutti gli altri immobili.
Riduzioni. Per i terreni posseduti e condotti da coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali (Iap), comprese le società agricole, viene ripristinato lo stesso meccanismo di riduzione dell'imposta, articolato per scaglioni, già previsto per l'Ici.
Rispetto all'art. 9 del dlgs 504/1992, oltre ai diversi limiti degli scaglioni, non viene più previsto che nel caso di terreni ubicati in più comuni, ai fini del calcolo, si assume il valore complessivo dei terreni, ripartendo poi le riduzioni proporzionalmente ai valori dei singoli fondi.
Esenzioni. I terreni agricoli ricadenti in aree montane o di collina di cui all'art. 7, c. 1, del dlgs 504/92 restano esenti dall'Imu anche se il ministero delle finanze, con apposito decreto, potrebbe limitare il novero dei comuni rientranti in tale condizione. In assenza di tale decreto, pare di capire, si applicheranno le stesse regole dell'Ici.
Trova ingresso, invece, l'esenzione dall'Imu dei fabbricati rurali strumentali ubicati nei comuni montani o parzialmente montani di cui all'elenco dei comuni italiani predisposti dall'Istat. Tali immobili, esenti dall'Imu, saranno però assoggettati all'Irpef e alle relative addizionali.
Quota statale e versamento. Resta immutata la regola prevista dall'art. 13, c. 11, del dl 201/2011 in virtù del quale, tranne alcune eccezioni di seguito esaminate, allo stato è riservata una quota di imposta pari alla metà dell'importo calcolato applicando alla base imponibile l'aliquota del 7,6 per mille (per l'acconto o di quella che un dpcm potrebbe modificare entro il 10/12/2012).
Restano esclusi dal prelievo statale le abitazioni principali e relative pertinenze e i fabbricati rurali strumentali. A cui il maxi-emendamento ha aggiunto i fabbricati dei comuni utilizzati per scopi non istituzionali e gli alloggi degli «ex Iacp» e delle cooperative a proprietà indivisa. Proprio in relazione a tale ultima fattispecie, la formulazione della novella lascia spazio al dubbio se l'effettiva volontà del legislatore sia andata nella direzione di ridurre l'imposizione piuttosto che verso quella della devoluzione dell'intero gettito al comune.
Il versamento del 18 giugno potrà essere eseguito solo con il modello F24, utilizzando i nuovi codici tributo che renderanno possibile l'indicazione separata della quota erariale (ove dovuta) rispetto a quella comunale. Sarà naturalmente consentito compensare altri crediti con l'Imu mentre, allo stato attuale, non appare possibile il contrario atteso che l'eventuale credito Imu non risulta da una dichiarazione bensì da un provvedimento del comune (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.04.2012).

PUBBLICO IMPIEGO - VARIMalattia, attenzione al certificato. Lavoratore responsabile della presenza dei dati domiciliari. Indennità negata quando è impossibile svolgere la visita fiscale per scarsità di informazioni.
Attenzione a fare i furbi sul certificato medico per evitare i controlli fiscali. Fornire dati incompleti, infatti, può costare la perdita dell'indennità di malattia.
Lo ha precisato l'Inps, fornendo chiarimenti in merito ai controlli attivati da imprese e pubbliche amministrazioni (le cosiddette «visite fiscali»). L'istituto ha ribadito, in particolare, l'obbligo per il lavoratore di verificare con massima attenzione i dati riferiti al proprio indirizzo finalizzati al controllo domiciliare, in quanto la responsabilità sulla correttezza di tali informazioni ricade unicamente su se stesso che rischia di perdere l'indennità per malattia.
Entro il 30/4 vanno comunicati i dati 2011 su rifiuti, imballaggi, Aee, veicoli fuori uso, emissioni.
La malattia viaggia online. La novità scaturisce dal processo di uniformazione dei regimi previsti per i dipendenti pubblici e quelli privati in ordine alle certificazioni di malattia. Unificazione che ha portato dal 14 settembre all'entrata in vigore di un'unica disciplina (cioè applicabile sia al settore privato che pubblico) sulla trasmissione in via telematica dei certificati medici all'Inps. E ha portato pure alla telematizzazione delle richieste di controllo (le cosiddette visite fiscali), a regime dal 1° dicembre.
Oggi, dunque, è vigente un regime unico «per la certificazione di malattia dei lavoratori», a seguito della legge n. 183/2010 (collegato lavoro), con riferimento principale all'articolo 55-septies del dlgs n. 165/2001, ossia al T.u. pubblico impiego. Ciò ha comportato, inoltre, l'unificazione del regime anche per ciò che concerne gli aspetti sanzionatori riferiti ai medici del Ssn o convenzionati.
Vale la pena ricordare, infine, che dal 06.07.2011 (entrata in vigore del dl n. 98/2011) è arrivata un'ulteriore innovazione, sempre in tema di assenze per malattia, per cui «nel caso in cui l'assenza per malattia abbia luogo per l'espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche o esami diagnostici l'assenza è giustificata mediante la presentazione di attestazione rilasciata dal medico o dalla struttura, anche privati, che hanno svolto la visita o la prestazione» (unica ipotesi, insomma, per cui resta possibile la modalità cartacea di giustificazione dell'assenza).
La visita fiscale si chiede online. A decorrere dall'01.10.2011, come accennato, anche le richieste di visita medica di controllo (le cosiddette «visite fiscali») devono essere inoltrate all'Inps mediante canale telematico. La novità fa parte del piano di «estensione e potenziamento dei servizi telematici offerti dall'Inps ai cittadini», in costruzione progressiva dal 1° gennaio di quest'anno e che prevede l'utilizzo graduale del canale telematico per la presentazione delle principali domande di prestazioni/servizi.
Con riferimento alle segnalazioni da parte di alcune sedi dell'Inps di imprese che continuano ad inviare le richieste di visite mediche mediante fax, l'Inps ha precisato che tali richieste (per fax) possono essere accolte solo in eventuali casi di interruzione del servizio telematico connessi a problematiche di tipo tecnico. In via ordinaria, invece l'Inps non dà seguito alle richieste non pervenute in via telematica.
Modalità operative. Il servizio telematico di richiesta di visita fiscale è a disposizione dei datori di lavoro sia pubblici che privati, compresi i datori i cui dipendenti non sono tenuti al pagamento della contribuzione per l'indennità economica di malattia all'Inps. Per l'utilizzo del servizio occorre essere abilitati all'accesso. Tutti i soggetti già dotati di Pin e attualmente in grado di consultare gli attestati di malattia sono abilitati al servizio automaticamente.
Invece i datori di lavoro o loro incaricati non ancora abilitati ai servizi di consultazione degli attestati di malattia, per poter accedere al servizio, devono presentare presso una sede dell'Inps i seguenti documenti: modulo di richiesta, compilato e sottoscritto dallo stesso datore di lavoro privato o dal legale rappresentante (ove il datore di lavoro sia pubblico o organizzato in forma associata o societaria), con l'elenco dei dipendenti per i quali si chiede il rilascio del Pin per l'accesso agli attestati di malattia del personale con allegata copia del documento d'identità del sottoscrittore; modulo di richiesta «individuale» compilato e firmato da ogni dipendente autorizzato, con allegata una fotocopia del documento d'identità del sottoscrittore.
I datori di lavoro o loro incaricati che intendano affidare il servizio di richiesta visita medica di controllo a un soggetto diverso da quello attualmente dotato di abilitazione per la consultazione degli attestati di malattia, devono comunicarlo all'Inps, che provvederà a modificare i relativi profili autorizzativi. Inoltre, gli stessi datori di lavoro o loro incaricati in possesso di Pin sono tenuti a chiedere tempestivamente la revoca dell'autorizzazione all'Inps (che provvederà a cessare, con effetto immediato, l'abilitazione), al verificarsi della cessazione dell'attività, della sospensione o del trasferimento in altra struttura dell'intestatario del Pin.
La richiesta di visita medica di controllo, che viene indirizzata in automatico alla sede competente dell'Inps per residenza/domicilio o per reperibilità del lavoratore, può essere effettuata per un solo lavoratore e per una sola visita alla volta. È possibile, inoltre, richiedere anche la visita di controllo ambulatoriale Inps, per casi eccezionali e motivati, cui fa seguito una verifica di fattibilità, da un punto di vista organizzativo-temporale, da parte della sede territoriale dell'Inps destinataria.
Ogni visita può essere richiesta 24 ore su 24; tuttavia l'effettuazione del controllo nello stesso giorno di richiesta è garantita dall'Inps soltanto per le istanze inviate entro le ore 12. Infatti, i datori di lavoro possono inviare in qualsiasi momento della giornata la richiesta di controllo essendo attivo il canale telematico; lo smistamento delle richieste ai medici incaricati però avviene: per i controlli nella fascia antimeridiana con riferimento alle richieste pervenute entro le ore 9; per quelli pomeridiani con riferimento alle richieste arrivate entro le ore 12.
Indirizzo reperibilità. Per consentire il controllo domiciliare è di fondamentale importanza che il lavoratore verifichi, con la massima attenzione e precisione, l'inserimento nel certificato telematico dei dati riferiti all'indirizzo per la reperibilità. Anche per tale aspetto, infatti, nulla è innovato rispetto al passato e, pertanto, la responsabilità sulla correttezza delle informazioni ricade unicamente sul lavoratore che ha il diritto e l'onere di controllare i dati al momento dell'inserimento da parte del medico o successivamente visualizzando la copia stampata del certificato stesso (il lavoratore rischia di perdere l'indennità per malattia).
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Dopo dieci giorni parola al medico Ssn.
Per la malattia lunga serve un certificato medico «doc». Nei casi di assenza superiori ai dieci giorni, infatti, il lavoratore deve munirsi necessariamente di certificato rilasciato da un medico del Servizio sanitario o con esso convenzionato.
Il vincolo, finora vigente per il solo settore pubblico (cioè per gli impiegati statali), è stato esteso al settore privato dal Collegato lavoro (legge n. 183/2010). Vale non solo in caso di lunghe malattie (quelle superiori a dieci giorni), ma pure per le infermità oltre la seconda in un anno. In particolare, il Collegato lavoro ha stabilito che, per garantire un quadro completo e univoco delle assenze per malattia nei settori pubblico e privato, nonché un efficace sistema di controllo delle stesse assenze, a decorrere dall'01.01.2010 (termine poi slittato al 14 settembre scorso, per il solo settore privato), in tutti i casi di assenza per malattia dei dipendenti di datori di lavoro privati, per il «rilascio» e la «trasmissione» della attestazione di malattia si applicano le disposizioni di cui all'articolo 55-septies del dlgs n. 165/2001. È proprio questo rinvio normativo a determinare, per il settore privato, la necessità di ricorrere a una certificazione «doc» in alcune situazioni.
Nel dettaglio è nei casi di assenza per malattia superiori a dieci giorni e comunque nei casi di eventi successivi al secondo nel corso dello stesso anno solare che anche per il lavoratore del settore privato è divenuto obbligatorio produrre, al datore di lavoro, idonea certificazione rilasciata unicamente dal medico del Ssn o con esso convenzionato. Fa eccezione a tale regole l'assenza di malattia per l'espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche o diagnostiche per le quali la certificazione giustificativa può essere rilasciata anche da medico o struttura privata (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.04.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Dichiarazioni ambientali ad hoc. Mud, Mudino, Prtr: diverse le modalità dell'eco-denuncia.  Entro il 30/4 vanno comunicati i dati 2011 su rifiuti, imballaggi, Aee, veicoli fuori uso, emissioni.
Grandi produttori di rifiuti speciali, professionisti di recupero e smaltimento, organismi di gestione dei rifiuti di imballaggio, fabbricanti e importatori di apparecchiature elettroniche, soggetti che effettuano raccolta, trasporto e trattamento di veicoli fuori uso, impianti industriali a emissioni rilevanti ex regolamento Ce n. 166/2006.
Questi i soggetti che dovranno, con modalità differenti, comunicare entro il prossimo 30.04.2012 alle autorità competenti i dati quali/quantitativi dei beni nuovi o a fine vita rilevanti dal punto di vista dell'impatto ambientale prodotti o gestiti nel corso del 2011.
A differenziare i soggetti obbligati alle dichiarazioni ambientali in scadenza non è, infatti, soltanto l'oggetto delle comunicazioni, ma lo schema procedurale da seguire per trasmettere le informazioni in questione.
Dichiarazione «rifiuti». Obbligati alla dichiarazione dei dati relativi ai rifiuti prodotti e/o gestiti nel corso del 2011 sono due macrocategorie di persone. In primo luogo devono adempiere all'obbligo in parola tutti i soggetti già tenuti, prima dell'istituzione del nuovo sistema di tracciamento telematico dei rifiuti (cd. «Sistri»), alla tradizionale «comunicazione Mud» (acronimo del «Modello unico di dichiarazione ambientale» introdotto dalla legge 70/1994).
Tali soggetti coincidono, in particolare, con i seguenti: produttori iniziali di rifiuti pericolosi (a eccezione dei soggetti del cosiddetto «comparto del benessere», individuati dal dl 201/2011, che producono rifiuti pericolosi a rischio infettivo con codice «Cer 180103» e li trasportano in conto proprio entro determinati limiti quantitativi fino a soggetti autorizzati al ritiro e delle imprese agricole ex articolo 2135 Codice civile con volume annuo di affari non superiore a 8 mila euro ex articolo 189 del dlgs 152/2006 nella versione precedente alle modifiche introdotte dal dlgs 205/2010); produttori iniziali di rifiuti speciali non pericolosi di cui all'articolo 184/3, lettere c), d), g) del dlgs 152/2006 (ossia rifiuti da lavorazioni industriali, artigianali, da attività di smaltimento/recupero rifiuti, fanghi prodotti dalla potabilizzazione e da altri trattamenti delle acque e dalla depurazione delle acque reflue e da abbattimento di fumi) con più di dieci dipendenti; imprese ed enti che effettuano operazioni di recupero/smaltimento rifiuti.
L'assolvimento dell'obbligo di dichiarazione da parte dei soggetti in parola dovrà essere effettuato, secondo l'articolo 28 del dm Ambiente 52/2011 (il cd. «Testo unico Sistri») mediante la compilazione, sulla base dei dati presenti nei registri di carico e scarico, della apposita «scheda Sistri» disponibile sul portale www.sistri.it (scheda che, proprio perché in questa sede utilizzata ai soli fini della dichiarazione annuale, è stata giornalisticamente ribattezzata come «Mudino»).
A ragion di completezza si ricorda che il nuovo sistema di tracciamento telematico dei rifiuti sarà completamente operativo solo dal prossimo 30.06.2012, data a partire dalla quale molti produttori di rifiuti speciali e gestori professionali (in parte coincidenti con quelli sopra menzionati) saranno obbligati a passare a un sistema (quasi) totalmente informatizzato per la tenuta delle scritture ambientali.
Oltre alla citata prima categoria di soggetti, obbligati alla dichiarazione rifiuti del prossimo 30.04.2012, ma secondo modalità diverse, sono anche i comuni o loro unioni, consorzi e comunità montane. Essi dovranno infatti, entro il medesimo termine di scadenza, comunicare i dati quali/quantitativi relativi ai rifiuti urbani e assimilati raccolti in base a convenzioni con soggetti pubblici e privati nel 2011.
Tale comunicazione dovrà però essere effettuata direttamente alle camere di commercio competenti utilizzando modulistica e istruzioni previste dal nuovo dpcm 23.12.2011 (il regolamento recante la nuova disciplina «Mud» in attuazione della citata legge 70/1994 e in sostituzione di quella prevista dal dpcm 27.04.2010).
Dichiarazione imballaggi. Il Consorzio nazionale imballaggi (cosiddetto «Conai») e gli altri organismi di gestione dei rifiuti di imballaggio previsti dal articolo 221/3, dlgs 152/2006 dovranno invece comunicare al Catasto nazionale rifiuti, sempre entro il 30.04.2012 e comunque utilizzando modulistica e istruzioni previste dal citato dpcm 23/12/2011, i dati quantitativi e qualitativi degli imballaggi immessi sul mercato e dei rifiuti di imballaggio riciclati e recuperati nel corso del 2011.
Dichiarazione «Aee». A essere obbligati alla dichiarazione relativa alle apparecchiature elettriche ed elettroniche (cd. «Aee») sono i produttori e gli importatori delle stesse o gli eventuali sistemi collettivi di finanziamento ex dlgs 151/2005 cui gli stessi aderiscono. La comunicazione, avente a oggetto le «Aee» immesse sul mercato e i rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche raccolti, reimpiegati, riciclati, recuperati nel corso del 2011, andrà indirizzata alla camera di commercio utilizzando modulistica e istruzioni previste dal citato dpcm 23/12/2011.
Dichiarazione «veicoli fuori uso». L'adempimento riguarda i soggetti che effettuano attività di raccolta, trasporto e trattamento di veicoli fuori uso e relativi componenti e materiali ex dlgs 209/2003. Costoro dovranno sempre entro il 30.04.2012 comunicare alla camera di commercio competente, utilizzando modulistica e istruzioni recata dallo stesso dpcm 23/12/2011, i dati relativi veicoli fuori uso e relativi componenti e materiali gestiti nel 2011.
Dichiarazione emissioni. Chiamati alla dichiarazione ambientale sono infine i complessi industriali individuati dal regolamento (Ce) n. 166/2006 che dovranno entro la stessa data del 30.04.2012 comunicare ai soggetti individuati dall'articolo 3 del dpr 157/2011 i dati relativi alle emissioni in aria, acque e suolo nonché i trasferimenti fuori sito di rilevanti quantità di rifiuti e sostanze inquinanti effettuati nel corso del 2011 (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.04.2012).

ENTI LOCALIRevisori a sorte, ma non per tutti. La scelta con estrazione non si applica nelle regioni autonome. Una circolare del Viminale interviene a circoscrivere l'applicazione del dm del 15 febbraio.
Il procedimento di scelta dei revisori dei conti degli enti locali mediante estrazione a sorte, così come previsto dall'articolo 16, comma 25, del decreto legge n. 138/2011, non si applica alle regioni a statuto speciale e alle province autonome, almeno fino a quando tali enti non abbiano legiferato recependo le previsioni del legislatore nazionale. Inoltre, gli organi di revisione contabile in scadenza prima della data di effettivo avvio del nuovo procedimento, proseguono la loro attività in regime di prorogatio (ovvero 45 giorni dopo la scadenza del mandato triennale) e, al termine di quest'ultimo periodo, saranno nominati con il metodo sino ad oggi previsto dall'articolo 234 del Tuel, ovvero con nomina da parte del consiglio comunale.
Sono queste le importanti precisazioni contenute nella circolare 05.04.2012 n. FL 7/2012 che il dipartimento della finanza locale del Mininterno ha ritenuto opportuno diramare a seguito dell'avvenuta pubblicazione, sulla Gazzetta Ufficiale del 20 marzo, del decreto 15/02/2012 recante il regolamento del procedimento di nomina, con estrazione a sorte, dei revisori dei conti degli enti locali che, in possesso di determinati requisiti, verranno inseriti nell'apposito elenco (si veda ItaliaOggi del 22.03.2012).
La circolare diffusa dal Viminale si sofferma su due casi in particolare, dopo che, da parte degli enti locali, sono pervenuti numerosi quesiti in merito alle procedure da seguire nelle more della piena operatività del sistema di scelta dei revisori.
In primo luogo, occorre approfondire la problematica relativa all'applicabilità delle nuove disposizioni per gli enti locali che appartengono alle regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e Bolzano. Su questo versante, ci si deve riferire al comma 29 dell'articolo 16 dove si precisa che le disposizioni «si applicano anche a tali enti, ma nel rispetto degli statuti e delle relative norme di attuazione».
Stante la sibillina dicitura, pertanto, il Viminale afferma che le nuove disposizioni legislative non possono applicarsi «tout court» a tali enti, almeno fino a quando le regioni a statuto speciale e le province autonome, non avranno legiferato recependo le previsioni della normativa statale, tranne il caso in cui gli stessi statuti prevedono che, in assenza di normativa regionale in merito, si applica quella statale.
Inoltre, con riguardo alle disposizioni in materia di rinnovo, in attesa della piena operatività del nuovo sistema, il Viminale ha rilevato che gli organi di revisione contabile in scadenza prima della data di effettivo avvio del nuovo procedimento (che sarà reso noto con apposito avviso da pubblicarsi sulla Gazzetta Ufficiale), proseguono la loro attività in regime di prorogatio per 45 giorni dopo la scadenza del mandato triennale.
Allo scadere di tale periodo continueranno a essere nominati secondo il procedimento ex art. 234 Tuel, ovvero dal consiglio comunale. Solo i procedimenti di rinnovo che non si sono conclusi alla data di effettivo avvio a regime, devono sottostare alle nuove regole di estrazione a sorte dall'elenco (articolo ItaliaOggi del 07.04.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALIProfessionisti. Il ministero dell'Interno fissa i criteri per la definizione dell'elenco ufficiale. In Comune solo revisori doc. Formato il registro, le nomine saranno curate dalle prefetture.
PROBLEMA CREDITI/ Le modalità adottate svantaggiano sia i revisori contabili sia i dottori privi di punteggio adeguato.
TERZA FASCIA/ Per i centri più grandi si profila il rischio di non raggiungere un numero sufficiente di candidature.

Dopo il regolamento per la nomina dei revisori degli enti locali (Dm dell'Interno 23 del 15.02.2012) ecco la circolare 05.04.2012 n. FL 7/2012 del medesimo ministero, dipartimento per gli Affari interni e territoriali, che fornisce le «prime necessarie indicazioni» operative. L'elenco sarà curato dal dipartimento stesso. Vedremo, allora, se i criteri delineati per le fasce saranno adeguati al "fabbisogno", dal momento che il rischio è quello di avere un numero insufficiente di candidati, almeno per gli enti più grandi.
Dopo la formazione dell'elenco il ministero pubblicherà sulla «Gazzetta Ufficiale» e sul suo sito l'avvio del nuovo procedimento: fino ad allora, in sostanza, i revisori continueranno a essere nominati dai consigli comunali e provinciali. Per chi è affezionato al vecchio metodo è bene affrettarsi, perché nel caso in cui la nomina non sia perfezionata al momento della pubblicazione in «Gazzetta» dell'avviso si dovrà annullare la procedura in corso e seguire quella nuova.
Una volta formato l'elenco saranno le Prefetture a curare l'estrazione a sorte dei revisori, secondo l'articolo 5 del regolamento che si applica anche a Regioni a statuto speciale ed alle Province di Trento e Bolzano, fino a quando non emaneranno una loro legge.
Deve essere l'ente locale a comunicare al Prefetto la necessità di individuare i nuovi componenti dell'organo di revisione. E questo entro tre giorni, in caso di sua cessazione (totale o parziale) anticipata ed entro due mesi nel caso di fisiologico rinnovo (termine ridotto a soli 15 giorni per la prima applicazione).
La metodica è informatizzata e prevede l'individuazione di tre nominativi per ogni «posto»: se il primo rinuncia all'incarico si passa, al secondo e così via. Della selezione viene redatto verbale che sarà trasmesso all'ente per la sua delibera.
È nominato presidente del collegio chi ha svolto più incarichi e, a parità di incarichi, il revisore che li ha svolti negli enti più grandi demograficamente: in pratica si troverà in netto vantaggio chi ha svolto il ruolo nelle Province.
La circolare presenta poi un allegato con Linee guida per l'iscrizione dei revisori nell'elenco. Si precisa che chi ha i requisiti si può iscrivere in una o più delle tre fasce demografiche previste. Il termine per presentare le domande per entrare nel registro verrà pubblicato con avviso in Gazzetta Ufficiale ed il modello sarà disponibile all'indirizzo http://finanzalocale.inteno.it.
L'allegato tratta anche il tema, caldissimo, dei 15 crediti formativi richiesti, lasciando purtroppo irrisolta la questione di chi, essendo revisore contabile ma non dottore commercialista, non abbia avuto la possibilità di effettuare corsi di formazione che prevedessero crediti formativi nel triennio precedente. Il problema, per altro, si pone anche per i dottori commercialisti, in quanto si tratta di un obbligo «retroattivo», che pare eccessivamente restrittivo.
Sarebbe ragionevole, per la fase iniziale, concedere un periodo di sei mesi per rispettare l'adempimento, per altro di natura essenzialmente formale, visto che nessuno può pensare che bastino 15 ore di lezione per acquisire le competenze necessarie per svolgere adeguatamente la funzione.
Successivamente i corsi che daranno diritto ai crediti dovranno essere proposti dall'Ordine dei dottori commercialisti ed esperti contabili (o dal Registro dei revisori), prevedere un test di verifica, ed essere preventivamente approvati dal ministero.
Restano perciò esclusi i corsi universitari in materia (master compresi) e perfino i corsi organizzati dalla scuola superiore di pubblica amministrazione e da istituzioni analoghe.
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Le tappe
01 | ELENCO DEI REVISORI
La circolare dell'Interno fissa i criteri per la formazione dell'elenco dei revisori per gli enti locali
02 | REGIME TRANSITORIO
Fino alla prossima pubblicazione dell'elenco sulla Gazzetta Ufficiale, i revisori saranno però ancora nominati dai consigli comunali e provinciali
03 | LA NOMINA
Nel nuovo regime i revisori saranno estratti a sorte dagli elenchi tenuti presso le Prefetture, sulla base delle richieste inoltrate dai singoli enti
04 | GLI AVENTI DIRITTO
Per ogni posto verranno individuati tre aventi diritto "a scalare" nel caso di rinuncia
05 | CRITERIO DEMOGRAFICO
Per la nomina del presidente prevarrà chi ha svolto incarichi in enti più grandi (articolo Il Sole 24 Ore del 07.04.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

COMPETENZE GESTIONALIOSSERVATORIO VIMINALE/ A chi spetta la competenza a decidere il trattamento sanitario obbligatorio. Tso deciso dal commissario. Sostituisce il sindaco se il comune è stato sciolto.
Qual è l'organo competente ad adottare l'ordinanza relativa al procedimento amministrativo di trattamento sanitario obbligatorio, in assenza del commissario straordinario incaricato della temporanea gestione dell'ente?

L'articolo 34 della legge 23.12.1978, n. 833, attribuisce al sindaco la competenza ad adottare le ordinanze in materia di trattamento sanitario obbligatorio, entro 48 ore dalla convalida della proposta da parte di un medico della unità sanitaria locale.
Nel caso di specie, se il comune è sottoposto a gestione commissariale e non è prevista dalla specifica normativa regionale in materia di scioglimento degli organi la nomina di vice o sub commissari, la competenza all'adozione del provvedimento in argomento, spetta in via esclusiva al commissario straordinario incaricato della gestione dell'ente (articolo ItaliaOggi del 06.04.2012).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Incompatibilità per lite pendente.
Sussiste l'ipotesi d'incompatibilità per lite pendente, ai sensi dell'art. 63, comma 1, n. 4 del decreto n. 267/2000, nel caso di un consigliere comunale chiamato in giudizio davanti al Tar dall'ente presso cui esercita il mandato amministrativo?

In linea di principio, le cause ostative al mandato sono previste dal legislatore al fine di assicurare il regolare funzionamento dell'organo elettivo ed evitare l'insorgere di possibile conflitto di interessi tra l'ente e l'amministratore. Nel caso di lite pendente l'incompatibilità si genera al momento dell'iscrizione a ruolo della vertenza che vede parti contrapposte l'ente locale e il singolo amministratore. Il caso di specie risulta riconducibile alla previsione normativa, di talché compete all'amministratore formulare le proprie osservazioni al consiglio comunale, che valuterà la fondatezza delle deduzioni e, laddove riconosca sussistente la causa di incompatibilità, inviterà il consigliere a rimuoverla.
Nella fattispecie in esame, a fronte della tutela sia procedurale che sostanziale che la disposizione normativa citata introduce a tutela di opposti interessi di rango costituzionale, rimane di dubbia praticabilità il ricorso alla facoltà di opzione della rimozione della causa di incompatibilità mediante la rinuncia alla lite, non avendo il consigliere interessato, nella qualità di parte convenuta, la piena disponibilità della lite. In conformità al principio generale per cui ogni organo collegiale è competente a deliberare sulla regolarità dei titoli di appartenenza dei propri componenti, compete all'organo comunale ogni definitiva determinazione in proposito, ferma restando la possibilità di contestare per le vie giudiziali le decisioni che saranno assunte (articolo ItaliaOggi del 06.04.2012).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Permessi ai consiglieri.
Quale disciplina è prevista in ordine ai permessi di lavoratori dipendenti, pubblici o privati, che sono componenti dei consigli comunali e provinciali?

Con la modifica al primo comma dell'art. 79 del Tuel, di recente disposta dal comma 21 dell'art. 16 del dl 13/08/2011, n. 138, convertito nella legge 14/09/2011, n. 148, le parole «per l'intera giornata in cui sono convocati i rispettivi consigli» sono state sostituite dalle seguenti «per il tempo strettamente necessario per la partecipazione a ciascuna seduta dei rispettivi consigli e per il raggiungimento del luogo del suo svolgimento».
La rettifica è stata apportata nei termini suindicati solo relativamente al primo periodo del comma 1 dell'art. 79 che, nella parte rimanente, rimasta invariata, prevede che «nel caso in cui i consigli si svolgano in orario serale, i predetti lavoratori hanno diritto di non riprendere il lavoro prima delle otto ore del giorno successivo; nel caso in cui i lavori dei consigli si protraggano oltre la mezzanotte, hanno diritto di assentarsi dal servizio per l'intera giornata successiva» (articolo ItaliaOggi del 06.04.2012).

ENTI LOCALI - VARILe semplificazioni diventano legge. Cambi di residenza sprint, la p.a. comunicherà solo on-line. La camera ha convertito in via definitiva il dl n. 5/2012. Tlc, più concorrenza nell'ultimo miglio.
Dalla tassa sulle calamità ad una maggiore concorrenza sull'ultimo miglio nella telefonia fissa; dagli organici della scuola al pagamento on-line di multe, mensa scolastica, tassa sui rifiuti e ticket. Il decreto semplificazioni (n. 5/2012) è arrivato al suo ultimo giro di boa, con la conversione in legge da parte dell'aula della camera (i sì sono stati 394, i no 49, gli astenuti 21) e con diverse novità inserite dal parlamento rispetto alla versione originaria varata dal governo.
La novità principale introdotta al senato e che ha costretto a un nuovo passaggio alla camera riguarda il ripristino del meccanismo che impone all'Agenzia delle dogane di incrementare l'aliquota sui carburanti per reintegrare «in pari misura» risorse eventualmente prelevate dal fondo stesso per eventi imprevisti come le calamità naturali.
Ultimo miglio. Più concorrenza nell'ultimo miglio delle telecomunicazioni. L'Agcom dovrà individuare entro 4 mesi le misure volte a raggiungere due obiettivi: disaggregare i costi per l'accesso all'ingrosso alla rete fissa dal costo del servizio di attivazione della linea stessa e del servizio di manutenzione e rendere possibile per gli operatori di potersi rivolgere ad aziende terze per servizi accessori e manutenzione.
Ok agli organici della scuola. L'organico della scuola, a partire dal prossimo anno scolastico, verrà fissato ogni tre anni «sulla base della previsione dell'andamento demografico della popolazione in età scolare» ma «nei limiti dei risparmi di spesa accertati» nello stesso settore scuola. In 60 giorni dovranno arrivare le linee guida per il potenziamento dell'autonomia scolastica.
Dal 2014 comunicazioni on-line nella p.a. A partire dall'01.01.2014 nella pubblica amministrazione saranno utilizzati «esclusivamente» i «canali e i servizi telematici» compresa la «posta elettronica certificata».
Pagamenti alla p.a. online. Introdotto l'obbligo per le amministrazioni di pubblicare sul proprio sito i codici Iban per consentire i pagamenti on-line di multe, rette della mensa scolastica, ticket sanitari. La norma scatta entro tre mesi dall'entrata in vigore del decreto.
Il pagamento delle imposte di bollo sarà fatto per via telematica anche con carte di credito, debito e prepagate. Potranno così essere effettuati online tutti quei pagamenti che prevedono la marca da bollo e che fino ad ora non potevano essere effettuati per via telematica necessitando di supporto cartaceo.
Cartella clinica elettronica. Nei piani di sanità nazionali e regionali «si privilegia» la gestione elettronica delle pratiche cliniche, «attraverso l'utilizzo della cartella clinica elettronica, così come i sistemi di prenotazione elettronica per l'accesso alle strutture da parte dei cittadini».
Cambi di residenza in tempo reale. I cambi di residenza avverranno in tempo reale in modo da evitare i gravi disagi e gli inconvenienti determinati dalla lunghezza degli attuali tempi di attesa. Le procedure anagrafiche e di stato civile saranno più veloci. I documenti di riconoscimento scadranno il giorno del compleanno: la norma intende evitare gli inconvenienti che derivano spesso dal non avvedersi della scadenza.
Patenti ottantenni. Tempi più brevi per il rinnovo delle patenti di guida degli ultraottantenni: la visita verrà effettuata dal medico monocratico e non più dalla Commissione medica.
Contrassegno invalidi. Il contrassegno per gli invalidi sarà valido su tutto il territorio nazionale. Sarà un decreto del ministro dei trasporti, previo parere della conferenza unificata, a disciplinare le modalità per questo riconoscimento.
Disco rosso al turismo elettorale. In occasione di consultazioni elettorali o referendarie il cambio di residenza, che il decreto fissa in tempo reale, non può essere fatto oltre 15 giorni prima del voto.
Social card. La social card non sarà più riservata ai soli cittadini italiani ma potrà essere attribuita anche a quelli comunitari.
Soddisfazione per l'approvazione definitiva del testo è stata espressa dal ministro della funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi. «Con il dl semplificazioni, è in atto un processo con il quale miglioreremo la vita degli italiani», ha dichiarato il ministro annunciando i prossimi provvedimenti nell'agenda del governo. «La partita non è terminata, ora si aprono due ulteriori sfide. La prima è l'attuazione della legge appena approvata ed è in dirittura d'arrivo l'accordo con le regioni. L'altra sfida è un disegno di legge che presenteremo al più presto. Il nuovo testo recepirà le istanze che sono state avanzate nel corso del dibattito parlamentare e che, per mancanza di tempo, non è stato possibile esaminare approfonditamente».
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Le novità in materia di giustizia del decreto legge sulle semplificazioni burocratiche. Meno carte negli studi legali. Stop al Documento programmatico sulla sicurezza.
Niente più Documento programmatico sulla sicurezza per gli studi legali. Anche i ricercatori in commissione d'esame per l'abilitazione alla professione forense.
Sono queste alcune delle novità che toccano i legali contenute nella legge di conversione del decreto 5/2012, sulle semplificazioni, che dopo le modifiche del senato è tornato alla camera per la seconda lettura ed è stato approvato definitivamente ieri da Montecitorio (la pubblicazione in Gazzetta è attesa per venerdì).
Il decreto incide anche su alcune specifiche materie relative a particolari giudizi. Per il processo amministrativo, ad esempio, si prevede la immediata notizia alla corte dei conti delle sentenze che accertano l'illegittimo silenzio della p.a. sulla istanza del privato; per il processo civile si introduce il benefici della preventiva escussione dell'appaltatore, opponibile dal committente chiamato a pagare il salario dei dipendenti dell'appaltatore stesso.
Peraltro altre misure di semplificazione, pur non essendo specifiche della professione forense, incideranno sull'organizzazione del lavoro degli studi dei professionisti: si pensi all'obbligo di pagamenti online con la pubblica amministrazione.
Dps. Viene abrogato l'obbligo di redigere e aggiornare un documento programmatico sulla sicurezza. Si tratta del documento che dovrebbe essere tenuto da ogni professionista. Nel Documento programmatico andavano indicate tutte le misure adottate o da adottare per il trattamento dei dati con elaboratori. L'obbligo in questione era tutelato anche da pesanti sanzioni amministrative e pecuniarie. L'abolizione del Dps non deve far dimenticare all'avvocato l'obbligo, comunque, da rispettare di conservare le informazioni contenute nei fascicoli con la dovuta attenzione.
Se non vigono più le disposizioni specifiche sul Dps, non vengono, tuttavia, meno gli obblighi anche deontologici oltre che contrattuali di evitare che i dati dei propri clienti siano carpiti o manipolati. In altre parole se non c'è più l'obbligo del Dps, rimangono ferme le esigenze di sicurezza dei trattamenti dei dati personali. Tra l'altro rimangono fermi gli obblighi di informativa e di nomina di incaricati e responsabili, nonché l'obbligo di osservare il codice deontologico di categoria sulla protezione dei dati.
Esami avvocati. Il decreto sulle semplificazioni modifica la composizione della commissione per gli esami di avvocato. La commissione continuerà a essere composta da cinque membri, dei quali due sono avvocati, iscritti da almeno dodici anni all'albo degli avvocati; due sono magistrati, con qualifica non inferiore a magistrato di Corte di appello. Il quinto componente poteva essere professore ordinario o associato di materie giuridiche presso un'università o presso un istituto superiore. Il dl in esame aggiunge che il quinto componente può anche essere un ricercatore universitario, naturalmente di materie giuridiche.
Pagamenti online. Diventerà obbligatorio per gli enti pubblici pubblicare nei propri siti istituzionali e sulle richieste di pagamento i codici identificativi dell'utenza bancaria sulla quale i privati possono effettuare i pagamenti mediante bonifico.
Responsabilità erariale. Il decreto semplificazioni aggiunge un'appendice ai giudizi che si svolgono davanti al giudice amministrativo in materia di silenzio dell'amministrazione. In prima battuta si tratta di una mera disposizione di rinvio al codice del processo amministrativo, inserita nella legge generale sul procedimento amministrativo (n. 241/1990): tutela in materia di silenzio dell'amministrazione è disciplinata dal codice del processo amministrativo, di cui al decreto legislativo 02.07.2010, n. 104.
In secondo luogo si aggiunge che le sentenze passate in giudicato che accolgono il ricorso proposto avverso il silenzio inadempimento dell'amministrazione sono trasmesse, in via telematica, alla Corte dei conti. In sostanza ogni volta che viene accertata giudizialmente l'inerzia della pubblica amministrazione, necessariamente si deve attivare anche il giudice della responsabilità erariale, per verificare se non vi siano danni da rimborsare all'ente pubblico, e da porre conseguentemente a carico del funzionario negligente.
Appalti e responsabilità appaltatore. Viene istituita la Banca dati nazionale dei contratti pubblici per la verifica requisiti generali, tecnico-organizzativi ed economico-finanziari dei concorrenti alle gare pubbliche.
Dall'01.01.2013, dunque, la documentazione comprovante il possesso dei requisiti di carattere generale, tecnico-organizzativo ed economico-finanziario per la partecipazione alle procedure disciplinate dal Codice degli appalti pubblici deve essere acquisita presso la Banca dati nazionale dei contratti pubblici (e non essere richiesta tutte le volte ai singoli concorrenti.
Il decreto prescrive, infatti, che le stazioni appaltanti e gli enti aggiudicatori devono verificare il possesso dei requisiti esclusivamente tramite la Banca dati nazionale dei contratti pubblici. Se la disciplina di gara richiede il possesso di requisiti economico finanziari o tecnico organizzativi diversi da quelli di cui è prevista l'inclusione nella Banca dati ai sensi del comma 2, il possesso di tali requisiti è verificato dalle stazioni appaltanti mediante l'applicazione delle disposizioni previste dal codice dei contratti.
Altra novità riguarda il Durc: in materia di lavori pubblici le amministrazioni pubbliche dovranno acquisire d'ufficio il documento unico di regolarità contributiva. Ancora una modifica di rilievo concerne la responsabilità solidale di committenti e appaltatori per i salari dei lavoratori.
Viene modificato l'articolo 29 del decreto legislativo 276/2003. La disposizione, come modificata, prevede che in caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto. Quindi dello stipendio del dipendente dell'appaltatore risponde anche il committente (e fin qui siamo sostanzialmente all'impianto originario dell'articolo 29 citato).
Il decreto introduce la novità del beneficio della preventiva escussione dell'appaltatore: se convenuto in giudizio per il pagamento unitamente all'appaltatore, il committente imprenditore o datore di lavoro può eccepire, nella prima difesa, il beneficio della preventiva escussione del patrimonio dell'appaltatore medesimo (articolo ItaliaOggi del 05.04.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ATTI AMMINISTRATIVIDecertificazione, notai esclusi. Per la pratica bisogna sempre portare l'atto necessario. Uno studio del Notariato dedicato alle novità introdotte dalla legge numero 183 del 2011.
La decertificazione non si applica ai notai: per le pratiche notarili si deve sempre portare il certificato necessario.
Queste le conclusioni dello studio 16.02.2012 n. 21-2012/C, del Consiglio nazionale del notariato (Cnn) dedicato ai «riflessi sull'attività notarile delle nuove norme sulle certificazioni amministrative introdotte dall'art. 15 della legge 12.11.2011 n. 183».
Così, ad esempio, al notaio bisognerà portare l'estratto di morte necessario per la pubblicazione del testamento. E bisognerà portargli il certificato di destinazione urbanistica, che d'altra parte non è considerato un vero e proprio certificato.
Ma vediamo di illustrare lo studio.
LE NOVITÀ LEGISLATIVE
La legge 183 ha portato numerose novità, in particolare all'articolo 40 del dpr 445/2000. Innanzi tutto i certificati rilasciati dalla pubblica amministrazione che accertino stati, qualità personali e fatti sono validi e utilizzabili solo tra i privati. Sui certificati, poi, a pena di nullità, deve essere apposta la dicitura «il presente certificato non può essere prodotto agli organi della pubblica amministrazione o ai privati gestori di pubblici servizi»; nei rapporti con le amministrazioni pubbliche e i gestori di pubblici servizi la regola diventa l'acquisizione d'ufficio dei dati e informazioni e l'utilizzo delle dichiarazioni sostitutive. Insomma i certificati si possono chiedere solo per pratiche con privati e non più con organi pubblici.
RIFLESSI SUL NOTAIO
Lo studio del Cnn arriva alla conclusione che non è possibile estendere l'autocertificazione anche nei rapporti che si svolgono tra il privato e il notaio. Non si può, infatti, considerare il notaio come un organo della pubblica amministrazione.
La conseguenza di questa impostazione è che non devono essere sostituiti dalle dichiarazioni sostitutive sia i certificati da prodursi al notaio e sia i certificati allegati agli atti notarili, come ad esempio l'estratto dell'atto di morte di cui all'articolo 620, comma 3, codice civile, necessario per la pubblicazione di un testamento olografo.
Il notaio, anzi, per ragioni di opportunità, deve controllare che i certificati che gli sono presentati, contengano la dicitura sulla inutilizzabilità dello stesso presso organi della pubblica amministrazione. Si potrebbe sostenere che la mancanza della dicitura sia un vizio solo formale, ma questa interpretazione non è pacifica, e quindi è meglio essere prudenti.
Inoltre l'articolo 40 citato non riguarda tutti i certificati rilasciati dalla Pubblica amministrazione, ma solo quelli che si riferiscono a stati, qualità personali e fatti: è escluso, quindi, il certificato di destinazione urbanistica di cui all'articolo 30 del Testo unico per l'edilizia, dpr n. 380/2001.
Altro aspetto è se la normativa sia applicabile alle certificazioni che i notai debbono utilizzare nei rapporti con organi della pubblica amministrazione. La risposta dello studio è affermativa. In seguito alle novità, pertanto, non si possono più presentare i certificati: alla dichiarazione di successione sicuramente potrà essere allegata la dichiarazione sostitutiva di certificazione (come peraltro già previsto dall'articolo 30, comma 3, del dlgs 346/1990).
Tuttavia va ricordato che l'articolo 6, comma 5, del dl 16/2012, in tema di attività e certificazioni in materia catastale, ha stabilito una deroga all'articolo 40: le disposizioni sulla decertificazione non si applicano ai certificati e alle attestazioni da produrre al conservatore dei registri immobiliari per l'esecuzione di formalità ipotecarie, nonché ai certificati ipotecari e catastali rilasciati dall'Agenzia del territorio.
In conclusione i certificati continuano a essere utilizzabili nei confronti dei notai, del resto così come nei confronti dei tribunali. A questo proposito il Consiglio nazionale notarile rileva che solo se e quando ai notai sarà consentito l'accesso alle banche dati delle pubbliche amministrazioni si potrà immaginare un significativo passo in avanti verso una più incisiva semplificazione nei rapporti notaio/cittadino (articolo ItaliaOggi del 05.04.2012).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGONiente più scuse per la p.a. lumaca. La tardiva emanazione dell'atto incide sulla valutazione. Il decreto semplificazioni contiene molte novità in materia di procedimento amministrativo.
La semplificazione passa anche per la garanzia dell'effettività degli obblighi posti a carico della p.a. Questo sembra essere il disegno che ha ispirato il legislatore nelle modifiche introdotte, in tema di procedimento amministrativo (con riferimento particolare all'articolo 2 della legge n. 241 del 1990), dal decreto legge n. 5 del 2012 (c.d. decreto «semplificazione»).
Il decreto in questione è intervenuto cercando di garantire la certezza dei tempi del procedimento attraverso un duplice meccanismo e, precisamente, mediante la puntualizzazione delle forme di responsabilità dei singoli attori della vicenda e l'introduzione di una nuova figura chiamata a concludere il procedimento. Sotto il primo profilo va riguardato l'obbligo generalizzato della segreteria del Tar di trasmettere, in via telematica, alla Corte dei conti tutte le sentenze passate in giudicato che accolgono il ricorso avverso il silenzio inadempimento dell'amministrazione.
Nella stessa ottica deve essere vista la specifica previsione secondo cui la mancata o tardiva emanazione del provvedimento nei termini costituisce elemento di valutazione della performance individuale nonché della responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente.
Le disposizioni in esame non hanno carattere innovativo ma si limitano a ribadire che la violazione dell'obbligo di provvedere da parte dei soggetti chiamati a gestire il procedimento (e, quindi, non solo il responsabile del provvedimento ma anche il dirigente che omette il dovuto controllo o non adempie agli oneri organizzativi di competenza), oltre a produrre conseguenze sul piano della legittimità dell'azione amministrativa, rileva anche ai fini delle varie forme di responsabilità per la cui operatività rimanda ai presupposti previsti dalle norme di riferimento.
Singolare è la previsione (contenuta nell'articolo 2, comma 9-quinquies, della legge n. 241/1990) per cui nei provvedimenti rilasciati in ritardo, a istanza di parte, deve essere indicato il termine stabilito dalla normativa vigente per provvedere e quello effettivamente impiegato.
A parte le concrete modalità di operatività della disposizione, che prevede una sorta di «autodenuncia» del ritardo nel provvedere e che, al limite, potrebbe paradossalmente incentivare forme di inerzia totale invece del ravvedimento tardivo dell'amministrazione, c'è da chiedersi quale sia la reale efficacia dell'obbligo dovendosi escludere che la mancata osservanza dello stesso possa riverberarsi sulla legittimità del provvedimento dal momento che nella fattispecie sembra, al più, potersi configurare una mera irregolarità dell'atto.
Probabilmente, l'attestazione di tardività contenuta nell'atto amministrativo è stata pensata come remora per il funzionario competente e come forma di controllo da parte della collettività del rispetto dell'obbligo di concludere il procedimento nei tempi previsti anche nell'ottica dell'attivazione, davanti agli organi competenti, delle responsabilità dei dipendenti pubblici coinvolti. Decisamente innovativa è, invece, la previsione di una figura nuova che può essere definita quale sostituto del responsabile del provvedimento.
Il legislatore, probabilmente conscio del problematico effetto dissuasivo che il richiamo alla responsabilità del pubblico dipendente produce, ha cercato di garantire, in concreto, l'osservanza dell'obbligo di conclusione del procedimento individuando un soggetto, collocato in una posizione qualificata nell'ambito della struttura amministrativa, al quale tale obbligo si trasferisce dopo il decorso del termine previsto per provvedere.
Tale soggetto è individuato con atto organizzatorio o con provvedimento puntuale dall'organo di governo dell'ente e, quindi, ad esempio, dal ministro nelle amministrazioni centrali e dal sindaco o, meglio, dalla giunta nei comuni; singolare si presenta questo coinvolgimento dell'organo politico in un'attività amministrativa che segna un passo indietro rispetto alla tendenza alla separazione tra funzioni politiche e gestionali e probabilmente si spiega con la collocazione verticistica del sostituto.
E, infatti, la legge stabilisce che la scelta avvenga tra le «figure apicali dell'amministrazione» con ciò presupponendo una limitata discrezionalità dell'organo decidente; significativa è la previsione per cui la mancanza della nomina non osta all'operatività del meccanismo surrogatorio in quanto è la stessa legge a designare il sostituto nella persona del dirigente generale o, in mancanza, del dirigente preposto all'ufficio o, in mancanza ancora, del funzionario di più elevato livello presente.
Il privato può rivolgersi a tale soggetto affinché quest'ultimo, entro un termine pari alla metà di quello originariamente previsto, concluda il procedimento attraverso le strutture competenti o con la nomina di un commissario esterno; le generalità di tale soggetto dovrebbero essere inviate alla parte con la comunicazione di avvio del procedimento che, infatti, deve indicare anche il termine per concludere il procedimento e le modalità di reazione all'inerzia dell'amministrazione (tra cui, appunto, deve intendersi compresa la possibilità di adire il sostituto).
Ulteriori problemi che la nuova normativa pone sono costituiti dalla possibilità che l'inadempimento del sostituto faccia decorrere un nuovo termine per impugnare l'inerzia dell'amministrazione (la soluzione positiva sembra preferibile) e dal rapporto tra sostituito e sostituto (il primo perde la competenza a provvedere?) e tra quest'ultimo e le strutture dell'amministrazione chiamate a collaborare con lo stesso (articolo ItaliaOggi del 05.04.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOI licenziamenti pubblici sono già a prova di giudice. E c'è una legge che, se applicata anche allo stato, escluderebbe del tutto il reintegro sul posto di lavoro.
Non è possibile parlare di riforma del mercato del lavoro, e in particolare del nuovo art. 18 dello Statuto dei lavoratori, applicata al pubblico impiego senza far riferimento al nuovo articolo 33 del d.lgs. 165/2001. Il procedimento è stato novellato dalla legge 183/2011 e risulta particolarmente semplificato dal punto di vista delle causali di giustificazione del licenziamento degli statali, in quanto fa riferimento a tre fattispecie: soprannumero rispetto alla dotazione organica, eccedenze in relazione alle esigenze funzionali ed eccedenze in relazione alla situazione finanziaria.
Si tratta nel settore pubblico di tre fattispecie che si fondano quasi sempre su atti formali e che costituiscono una base probatoria certa sulla quale difficilmente il giudice di merito potrebbe sindacare (come ribadito dall'art. 30, comma 1, della legge 183/2010). É utile in questa sede fare alcuni esempi. Gli atti di organizzazione e le dotazioni organiche, con le quali attestare le eccedenze, sono atti organizzativi di natura regolamentare, soggetti a formalizzazione in base alla riserva di legge di cui agli artt. 2, comma 1, e 6 del d.lgs. 165/2001.
Le esigenze funzionali potrebbero essere di carattere macro, e quindi fondarsi su una cessione di funzioni, la gestione associate delle stesse, le varie forme di esternalizzazione, e necessitano pertanto di atti formali di carattere organizzativi certi, spesso supportati da documenti di bilancio e dal parere del collegio dei revisori. Vi può essere in questo caso anche una dimensione micro e gestionale, che può avere effetti in termini di riduzione e trasformazione delle attività connesse ai processi di innovazione tecnologica e di razionalizzazione, e che potrebbe basarsi su atti gestionali formalizzati come piani della performance, di informatizzazione o i piani di razionalizzazione di cui all'art. 16 del DL 98/2011. La terza fattispecie, di particolare gravità e attualità nell'attuale periodo storico, riguarda le eccedenze per situazioni finanziarie.
Qui i numerosi tetti di spesa sul personale e l'irrigidimento delle misure sul patto di stabilità rendono chiari, insindacabili e inderogabili i presupposti per i quali ci si può trovare di fronte a gravi situazioni finanziarie. Alcuni casi sono ad esempio: il non rispetto del tetto di spesa per il personale, il taglio significativo dei capitoli di funzionamento e per le locazioni degli stabili, il mancato rispetto del patto di stabilità o le situazioni di deficitarietà strutturale o di dissesto.
Ovviamente l'applicazione di queste norme apre per il settore pubblico tutta una serie di problematiche mai affrontate, come ad esempio i criteri di scelta per gli esuberi. In questo caso il settore pubblico non avendo molti profili specialistici non potrebbe far affidamento sulle «esigenze tecniche e produttive», ma sui carichi di famiglia e l'anzianità, da decidere poi se anagrafica o aziendale (vedi art. 5 legge 223/1991). L'impugnativa nel caso di specie potrebbe riguardare la messa in disponibilità di cui al comma 7 dell'art. 33, ma anche degli atti presupposti (atti di organizzazione e bilanci).
Inoltre, il settore pubblico ha un meccanismo di gestione della mobilità attraverso gli articoli 34 e 34-bis del d.lgs. 165/2001 molto procedimentalizzata ma al contempo di assoluta garanzia, ma che potrebbe generare ulteriori casi di contenzioso. Ma probabilmente il tema riguarda le politiche e i comportamenti sulla pa, in quanto il vertice politico di un'amministrazione (e quello amministrativo) si adopera sovente per mascherare le gravi situazioni finanziarie e quindi per evitare i licenziamenti, e prima ancora le sanzioni connesse al mancato rispetto delle norme di finanza pubblica. I diversi casi di fallimento di città, asl e regioni, tardivamente scoperti e ripianati dalle finanze pubbliche, sono a tutti noti.
Il paradosso circa l'applicabilità della flessibilità per il datore di lavoro, per esempio con il non reintegro in caso di mancanza dei presupposti del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, è che per gli statali non ci troveremmo di fronte a scelte di libertà aziendale, ma per la maggior parte a situazioni attestate e certificate di mutamento delle funzioni o di criticità finanziarie che ben giustificherebbero (anzi richiedono) «la riduzione o la trasformazione di attività o di lavoro». Partendo dalle fattispecie concrete quindi è possibile concludere che il datore di lavoro pubblico non avrebbe difficoltà a dimostrare la veridicità e congruenza dei casi in cui necessita ricorrere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo economico.
Circa la scelta di applicare anche al settore pubblico questa riforma, è interessante ricordare, da ultimo, come il d.lgs. 110/2004 ha modificato l'art. 24 della legge 223/1991 in materia di licenziamenti collettivi, prevedendo per «datori di lavoro non imprenditori che svolgono, senza fini di lucro, attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto» l'applicazione delle disposizioni di cui alla legge 15.07.1966, n. 604, cioè il pagamento dell'indennizzo in luogo del reintegro. Data questa particolare deroga, non sarebbe strano (ove non paradossalmente già ricomprendibili per i settori cultura e istruzione) immaginare di includere per questa via anche le pubbliche amministrazioni pubbliche, che certamente sono «datori di lavoro non imprenditori» (articolo ItaliaOggi del 03.04.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAConto alla rovescia per il regolamento sulle nuove condizioni per gestire i materiali da riporto. Le terre da scavo non sono rifiuti. Applicabili le norme sui sottoprodotti in arrivo dal Minambiente.
Attesa entro fine maggio 2012 la nuova disciplina per l'utilizzo delle terre e rocce da scavo e relativi «materiali di riporto» in esse contenute. Con l'entrata in vigore, avvenuta lo scorso 25 marzo, della legge 27/2012 di conversione del dl 1/2012 (il cosiddetto decreto liberalizzazioni) è, infatti, scattato il countdown per l'adozione da parte del ministero dell'ambiente del regolamento che dovrà stabilire le nuove condizioni per gestire i materiali da scavo come sottoprodotti invece che come rifiuti.
Le nuove regole in arrivo.
Le attese norme del Minambiente, da emanarsi entro il 24.05.2012 (secondo la deadline sancita dalla legge di conversione del «dl ambiente») sostituiranno dalla loro entrata in vigore (e in forza della delegificazione prevista dal dlgs 205/2010) le attuali regole sulla gestione delle terre e rocce da scavo contenute nell'articolo 186 del dlgs 152/2006 (cosiddetto «Codice ambientale»).
Il regolamento ministeriale, inoltre, stabilirà anche le condizioni per gestire come sottoprodotti i «materiali di riporto» contenuti nelle stesse terre, ossia (secondo la nuova definizione del dl 2/2012, cosiddetto «dl ambiente») i materiali eterogenei utilizzati per la realizzazione di riempimenti e rilevati non assimilabili per caratteristiche geologiche e stratigrafiche al terreno in situ, all'interno dei quali possono trovarsi materiali estranei.
L'allargamento alle matrici di riporto delle regole sui materiali da scavo è infatti prevista proprio dal citato dl 2/2012, decreto che parifica a monte tali materiali al suolo che li contiene, stabilendo però che la loro gestione fuori dalla disciplina sui rifiuti potrà avvenire solo nel rispetto delle prescrizioni tecniche dettate dal futuro decreto del ministero dell'ambiente, e in attesa del quale un'eventuale deroga al regime dei beni a fine vita può per loro oggi avvenire solo dietro osservanza delle condizioni generali in materia di «sottoprodotti» recate dall'articolo 184-bis del dlgs 152/2006.
Le terre e rocce da scavo nel «Codice ambientale». In base all'articolo 185 del dlgs 152/2006 non sono considerati rifiuti («ex lege») unicamente il suolo non contaminato e il materiale allo stato naturale riutilizzato nello stesso sito di escavo. Ogni altro e diverso materiale da scavo è invece (di «default») considerato rifiuto, tranne nel caso in cui sussista almeno una delle seguenti condizioni: esso materiale rispetta a monte i requisiti «specifici» in materia di sottoprodotti dettati oggi dall'articolo 186 dello stesso «Codice ambientale» (e domani dal nuovo dm Ambiente in arrivo); oppure, in alternativa, esso materiale ha riacquistano a valle, ossia all'esito di operazioni di recupero, lo status di «bene».
I «materiali di riporto». La disciplina dei materiali di riporto è stata oggetto negli ultimi mesi di una schizofrenica attività legislativa, attività che li ha visto dal 25.01.2012 (in virtù delle novità introdotte dal citato dl 2/2012) sottratti alla disciplina sui rifiuti se contenuti nelle porzioni di suolo gestibili (in base all'articolo 185 del «Codice ambientale») in regime di deroga, per poi essere dal successivo 25.03.2012 (in virtù delle modifiche apportate dalla legge 28/2012 di conversione allo stesso dl 2/2012) nuovamente ricondotti nella disciplina dei rifiuti, dalla quale possono uscire solo se rispettosi delle regole sui sottoprodotti, regole (come accennato) da rintracciarsi oggi in quelle «generali» stabilite dall'articolo 184-bis del dlgs 152/2006, domani in quelle «specifiche» che saranno dettate dall'emanando decreto Minambiente in sostituzione di quelle attualmente previste dall'articolo 186 dello stesso Codice ambientale (articolo ItaliaOggi Sette del 02.04.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Licenziamenti economici estranei agli uffici pubblici.
IL PERCORSO/ Nella Pa per situazioni di soprannumero ed eccedenze si prevedono mobilità e prove di ricollocazione.

Con la riforma del lavoro è diventata di stretta attualità l'applicazione al lavoro pubblico dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
L'articolo 2 del Dlgs 165/2001 elenca le fonti che disciplinano i rapporti di lavoro dei dipendenti delle Pa a seguito della loro privatizzazione. Esse sono:
a) le disposizioni del Codice civile;
b) le leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nello stesso decreto.
Da quest'articolo si deduce che lo Statuto dei lavoratori (legge 300/1970), si applica anche al lavoro pubblico nel rispetto della pregiudiziale evidenziata.
L'articolo 51 del Dlgs 165/2001 lo ribadisce e ricorda che il rapporto di lavoro dei dipendenti delle Pa è disciplinato secondo le disposizioni degli articoli 2 e 3 dello stesso decreto. La stesso articolo prevede che lo Statuto dei lavoratori si applichi alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti. L'articolo 18 dello Statuto rileva quale baricentro del sistema della flessibilità in uscita in ragione delle tutele in esso previste. La disciplina dei licenziamenti individuali o plurimi (tenendoli distinti da quelli collettivi) è quella della legge 604/1966 che individua le ragioni giustificatrici del licenziamento:
a) giusta causa senza preavviso, detto anche licenziamento in tronco (ad esempio nel settore pubblico: falsa attestazione della presenza in servizio, reiterazione nell'ambiente di lavoro di condotte aggressive o moleste);
b) giustificato motivo, con preavviso, nella duplice veste di:
   1. giustificato motivo soggettivo (determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali; ad esempio nel settore pubblico: assenza priva di valida giustificazione ovvero mancata ripresa del servizio, in caso di assenza ingiustificata);
   2. giustificato motivo oggettivo (determinato da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione e al funzionamento. In casi di questo tipo nel settore pubblico non si ritrovano esempi di licenziamento, in quanto scatta l'articolo 33 del Dlgs 165/2001).
Per completezza si ricorda che la legge 604/1966 disciplina anche il licenziamento discriminatorio. In caso di licenziamenti individuali illegittimi la legge 604/1966 dava l'ultima parola al datore di lavoro che poteva decidere tra riassunzione e risarcimento del danno.
La svolta epocale dell'articolo 18 è stata quella di aver previsto una duplice tutela per il caso di licenziamento illegittimo: la tutela reale dell'obbligo di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro; la tutela obbligatoria intesa come risarcimento del danno subito. Questa duplice tutela si applica al datore di lavoro privato che occupa alle sue dipendenze più di 15 prestatori di lavoro. Altrimenti si applicano le tutele meno efficaci della legge 604/1966 (scelta del datore di lavoro se reintegrare o indennizzare). Visto che lo Statuto dei lavoratori si applica alle Pa a prescindere dal numero dei dipendenti, anche il comune che ne ha 9 e che licenzia illegittimamente un dipendente può essere condannato a reintegrarlo in servizio ed a corrispondergli il risarcimento del danno.
La discussione sul tavolo Fornero è quella di non contemplare la tutela reale della reintegrazione in servizio per il caso di licenziamento per ragioni economiche non motivate. Quest'aspetto è ininfluente nel settore pubblico in quanto il licenziamento per ragioni economiche non sussiste in modo diretto, passando attraverso la disciplina dell'articolo 33 del Dlgs 165/2001 secondo cui le Pa che hanno situazioni di soprannumero o eccedenze, in relazione alle esigenze funzionali o alla situazione finanziaria tentano la ricollocazione del personale stesso, collocandolo in disponibilità qualora non sia possibile impiegarlo diversamente anche mediante lo strumento della mobilità. Dalla data di collocamento in disponibilità restano sospese tutte le obbligazioni inerenti al rapporto di lavoro e il lavoratore ha diritto ad un'indennità pari all'80% dello stipendio per un periodo massimo di ventiquattro mesi. In questi 24 mesi si tenta ancora di collocarlo in mobilità in tutte le Pa e solo in caso di impossibilità si arriva al licenziamento.
Questa disposizione speciale del lavoro pubblico si distingue anche rispetto al regime dei licenziamenti collettivi del settore privato, questi ultimi riconducibili solo alle ragioni economiche di riduzione o trasformazione di attività o di lavoro. I licenziamenti collettivi possono avvenire nel settore privato in via diretta (articolo 24 della legge 223/91) oppure dopo l'intervento straordinario della cassa integrazione. In entrambi i casi scatta il collocamento in mobilità che per il settore privato ha un significato diverso rispetto a quello pubblico (articolo Il Sole 24 Ore del 02.04.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODecentrata. I chiarimenti sul mancato accordo con i sindacati: sì alla liquidazione provvisoria ma le trattative vanno riaperte. Sui contratti decentrati l'ente decide anno per anno.
Sulla contrattazione decentrata ogni anno fa storia a sé. Per una annualità, l'ente può decidere di seguire la strada tracciata da Brunetta e adottare un atto unilaterale per risolvere l'empasse della contrattazione decentrata; per l'anno successivo, la stessa amministrazione può ritornare al tavolo con le organizzazioni sindacali, pur avendo ancora aperta la vecchia trattativa.
Questa, in sintesi, la posizione della Funzione Pubblica, espressa con nota 06.03.2012, protocollo 9738, in risposta al quesito posto dal Comune di Marcellina, in provincia di Roma.
Per il 2010 l'ente non era riuscito a raggiungere un accordo con i sindacati e quindi aveva proceduto ai sensi dell'articolo 40, comma 3-ter, del Dlgs 165/2001, a liquidare «in via provvisoria» il trattamento accessorio. Il Comune si chiedeva cosa fare nel 2011, e in particolare se potesse riprendere le relazioni sindacali per stipulare il contratto decentrato per il 2011.
Nella risposta la Funzione pubblica avalla il comportamento tenuto dal Comune, evidenziando come già la circolare 7 del 13.05.2010 dello stesso Dipartimento aveva affermato l'immediata applicabilità dell'articolo 40 citato. Ma avverte che, nel provvedimento in cui si dà atto che viene intrapresa la strada della unilateralità, dopo aver evidenziato gli sforzi per raggiungere l'intesa, si devono anche «chiaramente» indicare i motivi di interesse pubblico che hanno determinato questa scelta. In secondo luogo, Palazzo Vidoni raccomanda all'ente di proseguire, la trattativa per raggiungere comunque l'accordo anche per il 2010, in quanto l'atto unilaterale ha valenza provvisoria. Quindi, il datore di lavoro deve farsi parte attiva convocando periodicamente le organizzazioni sindacali per arrivare a un accordo.
Sulla legittimità dell'atto unilaterale si deve esprimere l'organo di revisione, che dovrà porre attenzione «al rispetto dei criteri di meritocrazia ed al perseguimento dell'obiettivo di una maggiore produttività».
Tutto ciò, però, non pregiudica le sorti del 2011, per il quale si ritorna ai blocchi di partenza.
Ma se dal punto di vista giuridico la questione può apparire semplice, non lo è sotto il profilo delle relazioni sindacali. I sindacati chiederanno di riunire le due annualità, mentre l'amministrazione ha tutto l'interesse a tenerle separate. Il mancato accordo anche per il secondo anno diventa un'ipotesi del tutto probabile, con il ricorso ad un nuovo atto unilaterale. Insomma, la situazione può incancrenirsi, senza via d'uscita (articolo Il Sole 24 Ore del 02.04.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVIL'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici non può essere negato ove sia sufficiente fare ricorso al potere di differimento.
L’art. 22, co. 2, della legge 07.08.1990, n. 241, stabilisce che “l’accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell'attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza". Aggiunge il co. 3 che “tutti i documenti amministrativi sono accessibili, ad eccezione di quelli indicati all'articolo 24, commi 1, 2, 3, 5 e 6.”.
L’art. 24, dopo aver elencato i documenti per i quali il diritto di accesso è escluso (co. 1) e posto a carico delle singole P.A. l’onere di individuare le categorie relative, nell’ambito dei documenti da esse formate o comunque nella loro disponibilità (co. 2), aggiunge che l'accesso ai documenti amministrativi non può essere negato ove sia sufficiente fare ricorso al potere di differimento (co. 4).
Non vi sono ragioni per escludere che un tale potere sussista anche con riguardo ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici, per i quali il co. 7 garantisce comunque l’accesso ai richiedenti. Depongono in questo senso considerazioni sistematiche: il termine “comunque” deve intendersi nel senso che la tutela di tali interessi va comunque garantita anche nell’ambito di quei regolamenti mediante i quali il Governo, ai sensi del precedente co. 6, può prevedere determinate fattispecie di sottrazione all’accesso di documenti amministrativi.
In altri termini, anche per i documenti richiamati dal co. 7 vale quel potere di differimento che con tutta evidenza serve a contemperare le ragioni dell’interesse pubblico con quelle del privato (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.04.2012 n. 2005 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe scelte effettuate dall'Amministrazione nell'adozione degli strumenti urbanistici costituiscono apprezzamenti di merito, come tali sottratti al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità.
Per tale via, anche la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano o della variante generale al piano stesso, salvo che particolari situazioni, nel caso di specie non allegate, non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni.
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Se è vero che nella specie le modifiche apportate allo strumento adottato sono andate certamente al di là del mero accoglimento delle osservazioni formulate (come dimostrato, del resto, dall'impugnazione giurisdizionale proposta dallo stesso soggetto artefice delle stesse), tuttavia resta fermo il principio per cui una nuova pubblicazione del piano s'impone nel solo caso in cui le modifiche apportate siano tali da comportarne uno stravolgimento nei suoi fondamenti, determinandone una sostanziale nuova adozione; ciò che è da escludersi che avvenga laddove, come nel caso che occupa, sia in questione una modifica "puntuale" interessante una singola area o singole aree specificamente individuate.
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La perequazione consegue i propri fini proprio in sede di pianificazione di dettaglio, assicurando all'amministrazione lo strumento per acquisire, senza oneri e con modalità diverse dall'esproprio, aree da destinare a scopi di pubblico interesse, senza denotare perciò solo alcun profilo di illegittimità.
Di siffatto metodo perequativo, infatti, al di là della specifica previsione introdotta dall’art. 11 della legge regionale 12/2005, si rinviene un sicuro fondamento nell’art. 3 della Costituzione, allorché se ne valorizzi lo scopo di attenuazione delle disuguaglianze create dalla pianificazione.
In ogni caso, l’istituto perequativo della cessione di aree, pur in assenza di una specifica previsione normativa, trova il suo fondamento “in due pilastri fondamentali” del nostro ordinamento, e cioè nella potestà conformativa del territorio di cui è titolare l’Amministrazione nell’esercizio della propria attività di pianificazione e, al contempo, nella possibilità di utilizzare modelli consensuali per il perseguimento di finalità di interesse pubblico, secondo quanto previsto dagli artt. 1, comma 1-bis, e 11 della legge n. 241 del 1990

Come ripetutamente affermato in giurisprudenza, infatti, le scelte effettuate dall'Amministrazione nell'adozione degli strumenti urbanistici costituiscono apprezzamenti di merito, come tali sottratti al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità.
Per tale via, anche la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano o della variante generale al piano stesso, salvo che particolari situazioni, nel caso di specie non allegate, non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, Sez. IV, 16.02.2011, n. 1015, ove si ribadisce come le scelte urbanistiche per la disciplina del territorio possano formare oggetto di sindacato giurisdizionale nei soli casi di arbitrarietà, irrazionalità o irragionevolezza ovvero di palese travisamento dei fatti, che costituiscono i limiti della discrezionalità amministrativa; analogamente, Consiglio di Stato, Sez. III, 17.09.2010, n. 2536; id. Sez. IV, 27.07.2010 n. 4920; id., 21.04.2010, n. 2264; id., 18.06.2009, n. 4024; id., 06.02.2002 n. 664).
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Con specifico riguardo ai presupposti per la ripubblicazione, poi, è utile richiamare quanto recentemente osservato dal Consiglio di Stato, in una vicenda per molti versi analoga a quella in esame, ove si è puntualizzato che: <<…se è vero che nella specie le modifiche apportate allo strumento adottato sono andate certamente al di là del mero accoglimento delle osservazioni formulate (come dimostrato, del resto, dall'impugnazione giurisdizionale proposta dallo stesso soggetto artefice delle stesse), tuttavia resta fermo il principio per cui una nuova pubblicazione del piano s'impone nel solo caso in cui le modifiche apportate siano tali da comportarne uno stravolgimento nei suoi fondamenti, determinandone una sostanziale nuova adozione (cfr. Cons. Stato, sez. III, 24.03.2009, nr. 617; Cons. Stato, sez. IV, 26.04.2006, nr. 2297; id., 05.09.2003, nr. 4980; id., 04.03.2003, nr. 1197; id., 20.11.2000, nr. 6178; id., 20.02.1998, nr. 301; id., 11.06.1996, nr. 777); ciò che è da escludersi che avvenga laddove, come nel caso che occupa, sia in questione una modifica "puntuale" interessante una singola area o singole aree specificamente individuate>> (così Cons. Stato sez. IV 27.12.2011 n. 6865).
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Invero, la perequazione consegue i propri fini proprio in sede di pianificazione di dettaglio, assicurando all'amministrazione lo strumento per acquisire, senza oneri e con modalità diverse dall'esproprio, aree da destinare a scopi di pubblico interesse, senza denotare perciò solo alcun profilo di illegittimità (cfr. al riguardo la sentenza TAR Lombardia, Milano, II, 27.01.2012 n. 297, alle cui considerazioni in tema di perequazione urbanistica si rinvia).
Di siffatto metodo perequativo, infatti, al di là della specifica previsione introdotta dall’art. 11 della legge regionale 12/2005, si rinviene un sicuro fondamento nell’art. 3 della Costituzione, allorché se ne valorizzi lo scopo di attenuazione delle disuguaglianze create dalla pianificazione.
In ogni caso, come da ultimo evidenziato dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 13.07.2010, n. 4545), l’istituto perequativo della cessione di aree, pur in assenza di una specifica previsione normativa, trova il suo fondamento “in due pilastri fondamentali” del nostro ordinamento, e cioè nella potestà conformativa del territorio di cui è titolare l’Amministrazione nell’esercizio della propria attività di pianificazione e, al contempo, nella possibilità di utilizzare modelli consensuali per il perseguimento di finalità di interesse pubblico, secondo quanto previsto dagli artt. 1, comma 1-bis, e 11 della legge n. 241 del 1990 (cfr. TAR Campania, Salerno, sez. I, 05.07.2002, n. 670, TAR Veneto sez. I, 19.05.2009, n. 1504)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.04.2012 n. 1008 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAllorquando un provvedimento amministrativo ampliativo sia stato ottenuto dall'interessato in base ad una falsa o comunque erronea rappresentazione della realtà materiale, è consentito alla p.a. esercitare il proprio potere di autotutela ritirando l'atto stesso, senza necessità di esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente "in re ipsa".
E' sufficiente richiamare l'orientamento giurisprudenziale, che il Collegio condivide, secondo cui, allorquando un provvedimento amministrativo ampliativo sia stato ottenuto dall'interessato in base ad una falsa o comunque erronea rappresentazione della realtà materiale, è consentito alla p.a. esercitare il proprio potere di autotutela ritirando l'atto stesso, senza necessità di esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente "in re ipsa" (TAR Lecce Puglia sez. I, 04.04.2006, n. 1831) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.04.2012 n. 1002 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'art. 9 d.m. 1444/1968 non può essere derogato dalle disposizioni regolamentari locali e, in caso di contrasto, prevale su di esse.
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L'art. 9 d.m. n. 1444/1968 va rispettato anche in caso di realizzazione di interventi di recupero del sottotetto: si richiama al riguardo il precedente di questa Sezione, 10.12.2010, n. 7505, oltre a quanto affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 19.05.2011, n. 173, secondo cui l'art. 64, comma 2, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005 "deve interpretarsi nel senso che esso consente la deroga dei parametri e indici urbanistici ed edilizi di cui al regolamento locale ovvero al piano regolatore comunale, fatto salvo il rispetto della disciplina sulle distanze tra fabbricati, essendo quest'ultima materia inerente all'ordinamento civile e rientrante nella competenza legislativa esclusiva dello Stato".

Anche il secondo, il terzo ed il quarto motivo di ricorso –che possono essere trattati congiuntamente perché strettamente connessi sul piano logico e giuridico- sono privi di fondamento in quanto:
- per giurisprudenza costante, l'art. 9 d.m. 1444/1968 non può essere derogato dalle disposizioni regolamentari locali e, in caso di contrasto, prevale su di esse (cfr. da ultimo, Cassazione civile sez. un., 07.07.2011, n. 14953); non assume, dunque, alcun rilievo il rispetto, nel caso di specie, della previsione dell'art. 27, c. 2 del r.e.c.;
- l'art. 9 d.m. n. 1444/1968 va rispettato anche in caso di realizzazione di interventi di recupero del sottotetto: si richiama al riguardo il precedente di questa Sezione, 10.12.2010, n. 7505, oltre a quanto affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 19.05.2011, n. 173, secondo cui l'art. 64, comma 2, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005 "deve interpretarsi nel senso che esso consente la deroga dei parametri e indici urbanistici ed edilizi di cui al regolamento locale ovvero al piano regolatore comunale, fatto salvo il rispetto della disciplina sulle distanze tra fabbricati, essendo quest'ultima materia inerente all'ordinamento civile e rientrante nella competenza legislativa esclusiva dello Stato (sentenza n. 232 del 2005)";
- legittimamente l'amministrazione ha qualificato l'intervento in questione quale nuova costruzione e non quale ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione, essendo incontestato il mutamento della sagoma del fabbricato.
Né può invocarsi la previsione di cui all'art. 27, comma 1, lettera d), ultimo periodo, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, come interpretato dall'art. 22 della legge della Regione Lombardia n. 7 del 2010, in quanto dichiarato incostituzionale con sentenza della Corte Costituzionale n. 309 del 23.11.2011.
Non può, inoltre, condividersi, al riguardo, quanto affermato dal ricorrente circa l'inapplicabilità della pronuncia di incostituzionalità al caso di specie.
Per giurisprudenza costante, infatti, l'efficacia delle sentenze dichiarative della illegittimità costituzionale di una norma incontra il solo limite dei rapporti esauriti in modo definitivo ed irrevocabile per avvenuta formazione del giudicato o per essersi comunque verificato altro evento cui l'ordinamento ricollega il consolidamento del rapporto, laddove il rapporto in questione, insorto in conseguenza dell'annullamento in autotutela della d.i.a., è lungi dall'essere esaurito; né assume rilievo la circostanza che il titolo edilizio si fosse perfezionato in epoca antecedente la pronuncia di illegittimità costituzionale, avendo l'amministrazione inciso sulla sua validità mediante il potere di autotutela (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.04.2012 n. 1002 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIQuando siano posti a sostegno di un provvedimento amministrativo più motivi, ciascuno autonomamente idoneo a sorreggerlo, è sufficiente che sia verificata la legittimità di uno di essi, per escludere che l’atto possa essere annullato in sede giurisdizionale.
Si deve, in altri termini, fare applicazione del principio, più volte enunciato dalla giurisprudenza, secondo il quale, quando siano posti a sostegno di un provvedimento amministrativo più motivi, ciascuno autonomamente idoneo a sorreggerlo, è sufficiente che sia verificata la legittimità di uno di essi, per escludere che l’atto possa essere annullato in sede giurisdizionale (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.04.2012 n. 1002 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZILa revisione dei prezzi ha una duplice funzione: da un lato di tutela dell’esigenza dell’Amministrazione di evitare che il corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo tali da sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è avvenuta la stipulazione del contratto; dall’altro di tutela dell’interesse dell’impresa a non subire l’alterazione dell’equilibrio contrattuale conseguente alle modifiche dei costi che si verifichino durante l’arco del rapporto e che potrebbero indurla ad una surrettizia riduzione degli standard qualitativi delle prestazioni.
La previsione di un meccanismo di revisione del prezzo di un appalto di durata su base periodica dimostra, quindi, che la legge ha inteso munire i contratti di forniture e servizi di un meccanismo che, a cadenze determinate, comporti la definizione di un "nuovo" corrispettivo per le prestazioni oggetto del contratto riferito alla dinamica dei prezzi registrata in un dato arco temporale di riferimento, con beneficio di entrambi i contraenti, poiché l’appaltatore vede ridotta, anche se non eliminata, l’alea propria dei contratti di durata, e la stazione appaltante vede diminuito il pericolo di un peggioramento di una prestazione divenuta onerosa.
L’orientamento giurisprudenziale che si è ormai consolidato è nel senso di ritenere che la disciplina dettata in materia di revisione prezzi ha carattere imperativo e che una eventuale clausola contrattuale difforme rispetto alla disciplina normativamente prevista deve ritenersi nulla.
A ciò consegue che la disciplina legale in materia di revisione prezzi si inserisce automaticamente e prevale sulla previsione pattizia, assunta in contratto.
Ugualmente è ormai orientamento consolidato quello secondo il quale le norme concernenti la revisione dei prezzi in materia di appalti di servizi, costituendo una disciplina specifica di settore, prevalgono sul regime generale di cui all'art. 1664 c.c.; ne consegue la nullità delle clausole dei contratti pubblici che, pur contemplando la revisione dei prezzi prevedano, conformemente alla disciplina civilistica, limitazioni alla revisione dei prezzi, e, quindi, anche l’esclusione della revisione per aumenti di costi inferiori al 10%.
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Venendo ora ai criteri per la determinazione della revisione del corrispettivo, occorre rilevare che in mancanza della determinazione dei criteri da parte dell’ISTAT e di patti negoziali in merito al quantum debeatur (v. art. 3 del contratto d’appalto) fino alla suddetta determinazione, occorre utilizzare i criteri individuati dalla giurisprudenza.
A tal fine l’orientamento giurisprudenziale fa riferimento costante al cosiddetto "indice F.O.I." sulla base del quale la stazione appaltante deve istruire il procedimento, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto, al fine di esprimere la propria determinazione discrezionale, entro il limite massimo oltre il quale, salvo circostanze eccezionali che devono essere provate dall’impresa, non può essere determinato il compenso revisionale.
In secondo luogo il diritto alla revisione spetta alla ricorrente a partire dal secondo anno di contratto in conformità alla richiesta e si estende anche ai periodi di proroga del contratto in considerazione dell’unicità del rapporto contrattuale.

L’art. 115 del Codice degli appalti, applicabile ratione temporis alla controversia in decisione, essendo stato stipulato il contratto in data 21.07.2006, stabilisce che tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi o forniture debbono recare una clausola di revisione periodica del prezzo. La revisione viene operata sulla base di una istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell'acquisizione di beni e servizi sulla base dei dati di cui all'articolo 7, comma 4, lettera c), e comma 5.
La revisione dei prezzi ha una duplice funzione: da un lato di tutela dell’esigenza dell’Amministrazione di evitare che il corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo tali da sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è avvenuta la stipulazione del contratto; dall’altro di tutela dell’interesse dell’impresa a non subire l’alterazione dell’equilibrio contrattuale conseguente alle modifiche dei costi che si verifichino durante l’arco del rapporto e che potrebbero indurla ad una surrettizia riduzione degli standard qualitativi delle prestazioni (Consiglio di Stato, Sez. V, n. 935 del 17.02.2010).
La previsione di un meccanismo di revisione del prezzo di un appalto di durata su base periodica dimostra, quindi, che la legge ha inteso munire i contratti di forniture e servizi di un meccanismo che, a cadenze determinate, comporti la definizione di un "nuovo" corrispettivo per le prestazioni oggetto del contratto riferito alla dinamica dei prezzi registrata in un dato arco temporale di riferimento, con beneficio di entrambi i contraenti, poiché l’appaltatore vede ridotta, anche se non eliminata, l’alea propria dei contratti di durata, e la stazione appaltante vede diminuito il pericolo di un peggioramento di una prestazione divenuta onerosa (Cons. Stato, Sez. III, 19.07.2011, n. 4362).
A differenza della giurisprudenza risalente ricordata dal Comune (Cons. Stato, sez. I, 22.03.2006, n. 710; TAR Lombardia, Milano, sez. III, 28.02.2002, n. 874 e 31.03.2003, n. 578) l’orientamento si è ormai consolidato nel senso di ritenere che la disciplina dettata in materia di revisione prezzi ha carattere imperativo e che una eventuale clausola contrattuale difforme rispetto alla disciplina normativamente prevista deve ritenersi nulla (Consiglio di Stato, Sez. V, n. 6709 del 02.11.2009).
A ciò consegue che la disciplina legale in materia di revisione prezzi si inserisce automaticamente e prevale sulla previsione pattizia, assunta in contratto (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 25.02.2010, n. 680; Cons. Stato, Sez. V, 09.06.2008, n. 2786).
Ugualmente è ormai orientamento consolidato quello secondo il quale le norme concernenti la revisione dei prezzi in materia di appalti di servizi, costituendo una disciplina specifica di settore, prevalgono sul regime generale di cui all'art. 1664 c.c. (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, 13.12.2010, n. 2826; Consiglio di Stato, Sez. V, 09.06.2008, n. 2786; Sez. V, 14.12.2006, n. 7461; Sez. V, 16.06.2003, n. 3373; Sez. V, 08.05.2002, n. 2461); ne consegue la nullità delle clausole dei contratti pubblici che, pur contemplando la revisione dei prezzi prevedano, conformemente alla disciplina civilistica, limitazioni alla revisione dei prezzi, e, quindi, anche l’esclusione della revisione per aumenti di costi inferiori al 10% (Cons. Stato, Sez. V, 08.05.2002, n. 2461; idem, 19.02.2003, n. 916).
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Venendo ora ai criteri per la determinazione della revisione del corrispettivo, occorre rilevare che in mancanza della determinazione dei criteri da parte dell’ISTAT e di patti negoziali in merito al quantum debeatur (v. art. 3 del contratto d’appalto) fino alla suddetta determinazione (TAR Puglia Lecce, sez. II, 23.05.2006, n. 2958), occorre utilizzare i criteri individuati dalla giurisprudenza.
A tal fine l’orientamento giurisprudenziale fa riferimento costante al cosiddetto "indice F.O.I." sulla base del quale la stazione appaltante deve istruire il procedimento, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto, al fine di esprimere la propria determinazione discrezionale, entro il limite massimo oltre il quale, salvo circostanze eccezionali che devono essere provate dall’impresa, non può essere determinato il compenso revisionale (Consiglio di Stato, sez. V, 08.05.2002, n. 2461; Consiglio di Stato, sez. V, 16.06.2003, n. 3373; Consiglio di Stato, sez. V, 14.12.2006, n. 7461; Consiglio di Stato, Sez. V, n. 935 del 17.02.2010).
In secondo luogo il diritto alla revisione spetta alla ricorrente a partire dal secondo anno (01/01/2007) di contratto in conformità alla richiesta e si estende anche ai periodi di proroga del contratto in considerazione dell’unicità del rapporto contrattuale.
Deve invece escludersi la revisione del prezzo con riferimento alla sopravvenienza in data 31.10.2008 della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale delle tabelle approvate con decreto ministeriale riferite al “costo orario delle lavoratrici e dei lavoratori delle cooperative del settore socio-sanitario, assistenziale ed educativo e di inserimento lavorativo”.
In merito occorre rilevare che l’art. 7, comma 5-bis, del Codice degli appalti, invocato dalla ricorrente, stabilisce che “nella determinazione dei costi standardizzati, di cui al comma 4, lettere b) e c), si tiene conto del costo del lavoro determinato dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale, secondo quanto previsto dall'articolo 87, comma 2, lettera g)”.
Risulta chiaro dalla lettera della norma che il costo del lavoro, così come individuato nelle tabelle ministeriali attuative dell’art. 87 del Codice ai fini della valutazione di anomalia dell’offerta, costituisce un criterio per la determinazione dei costi standardizzati da parte dell’ISTAT e non una quantificazione degli stessi.
A ciò si aggiunge che l’art. 7, commi 4 e 6 del Codice, prevede l’elaborazione, da parte dell’I.S.T.A.T., di particolari indici concernenti il miglior prezzo di mercato desunto dal complesso delle aggiudicazioni di appalti di beni e servizi, rilevate su base semestrale (così Cons. Stato, sez. V, 09.06.2008, n. 2786), mentre il decreto ministeriale che approva le tabelle FISE ha natura meramente ricognitiva del costo del lavoro effettivo medio, come chiarito dalla giurisprudenza in materia di valutazione di anomalia dell’offerta (TAR Puglia, Bari, 09.09.2009, n. 2061; Consiglio di Stato, sez. IV, 30/07/2003, n. 4409). In sostanza l’art. 7, comma 2, lettera c), e l’art. 87, comma 2, lettera g), definiscono due tipi diversi di costi standard: il primo è un costo standard atteso, derivante da un complesso meccanismo di confronto tra i costi affrontati delle amministrazioni aggiudicatrici, della CONSIP e del mercato, mentre i secondi sono un costi standard fondati su dati storici che riflettono il costo medio del fattore produttivo lavoro. Ne consegue che i valori contenuti nelle tabelle di cui all’art. 87, comma 2, lettera g), e pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale in data 30.10.2008, possono indurre un’indebita locupletazione da parte dell’impresa rispetto al parametro legale della revisione prezzi.
Deve inoltre respingersi la pretesa alla rivalutazione in considerazione dell’approvazione del nuovo CCNL del personale del 2008, in quanto la giurisprudenza citata in materia di revisione prezzi (alla quale si aggiunge per il caso specifico TAR Veneto, Sez. I, 01.02.2010, n. 236) ha colmato la lacuna nella determinazione dei criteri per operare la revisione stabilendo il ricorso al cosiddetto "indice F.O.I.", subordinando l’applicazione di altre voci di spesa al carattere eccezionale dell’evento, che dev’essere provato dall’impresa.
La giurisprudenza ammette che soltanto in frangenti del tutto eccezionali si possa tenere conto di elementi diversi dal cosiddetto "indice F.O.I." in quanto, come già osservato, l’istituto della revisione è preordinato, nell’attuale disciplina, alla tutela dell’esigenza dell’amministrazione di evitare che il corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo (talora frutto di illecite collusioni), tali da sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è avvenuta la stipulazione del contratto.
Solo in via mediata l’istituto tutela l’interesse dell’impresa a non subire l’alterazione dell’equilibrio contrattuale conseguente alle modifiche dei costi che si verifichino durante l’arco del rapporto e che potrebbero indurla ad una surrettizia riduzione degli standard qualitativi delle prestazioni, con la conseguenza che solo in presenza di fatti eccezionali si giustifica la considerazione dell’interesse dell’impresa (cfr. al riguardo Cons. Stato, Sez. V, 09.06.2008, n. 2786).
Nel caso in questione deve escludersi che l’approvazione del CCNL del settore durante la durata del contratto fosse un evento eccezionale, tale da costituire un’evenienza straordinaria, in quanto la stipulazione di un nuovo contratto di lavoro è già prevedibile al momento dell’approvazione del precedente, del quale è stabilita la durata.
Deve invece accogliersi la domanda in merito all’applicazione dell’aumento della contribuzione obbligatoria disposta con la finanziaria per il 2007, in quanto l’approvazione di una legge che modifica la contribuzione costituisce un evento eccezionale trattandosi di un fatto non comune che si verifica solo a seguito di un complesso e di regola lungo procedimento legislativo soggetto alle spesso non prevedibili decisioni della politica (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 04.04.2012 n. 999 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANel caso di denunzia di inizio di attività, il termine di 30 giorni entro cui, ai sensi dell'art. 23, comma 6, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, occorre riscontrare l'assenza di una o più delle condizioni stabilite, va identificato nell'adozione del provvedimento e non nell'avvenuta notifica dello stesso.
Ai sensi dell’art. 23, d.P.R. n. 380/2001, costituiscono, difatti, oggetto della d.i.a. solo le opere indicate, oltre che negli elaborati progettuali, nella relazione firmata da un progettista che ne asseveri la conformità agli strumenti urbanistici. La sola rappresentazione su una tavola di progetto non abilita, pertanto, alla realizzazione dell’intervento.

Nel caso di denunzia di inizio di attività, il termine di 30 giorni entro cui, ai sensi dell'art. 23, comma 6, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, occorre riscontrare l'assenza di una o più delle condizioni stabilite, va identificato nell'adozione del provvedimento e non nell'avvenuta notifica dello stesso (TAR Lecce Puglia sez. I, 15.01.2009, n. 54).
Ai sensi dell’art. 23, d.P.R. n. 380/2001, costituiscono, difatti, oggetto della d.i.a. solo le opere indicate, oltre che negli elaborati progettuali, nella relazione firmata da un progettista che ne asseveri la conformità agli strumenti urbanistici. La sola rappresentazione su una tavola di progetto non abilita, pertanto, alla realizzazione dell’intervento (cfr. Tar Lombardia, Milano, 08.06.2011, n. 1472)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.04.2012 n. 990 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata della pubblica amministrazione con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio di comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
Per giurisprudenza costante, invero, l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata della pubblica amministrazione con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio di comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto (da ultimo cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 10.08.2011, n. 4764) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.04.2012 n. 990 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEConseguenze a carico del Comune dell'avvio delle procedure espropriative e conclusione dei lavori in assenza del decreto d’esproprio.
In data 06/07/2011 è entrato in vigore il d.l. n. 6/7/2011, n. 98 (conv. in l. 15/7/2011, n. 111) il cui art. 34 introduce il nuovo art. 42-bis d.p.r. n. 327/2001, contenente la disciplina relativa al c.d. “provvedimento di acquisizione sanante” a seguito della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 43 d.p.r. n. 327/2001 da parte della Corte Cost. (v. sentenza n. 293/2010). Il nuovo art. 42-bis t.u. espropri, per come introdotto dalla l. n. 111/2011, è applicabile al caso di specie stante l’espressa previsione ivi contenuta, nel c. 8, a norma del quale: “Le disposizioni del presente articolo trovano altresì applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore …".
La condotta serbata dall’Amministrazione intimata, la quale ha omesso di adottate nei termini il decreto di esproprio, è illecita nel senso che ha determinato un pregiudizio in capo ai proprietari delle aree di cui trattasi, in ragione della perdita subita dei beni utilizzati dalla p.a. per scopi di interesse pubblico, in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio, nonché in ragione del periodo di occupazione illegittimamente subita.
Ai sensi della norma citata spetta esclusivamente alla p.a. la valutazione in ordine agli interessi in conflitto (attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che giustificano, in luogo della restituzione del bene, l'emanazione del provvedimento di acquisizione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati, evidenziando l'assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione, v. cc. 1-4 dell’art. 42-bis d.p.r. n. 327/2001), interessi della cui esistenza dovrà darsi atto nella motivazione del provvedimento di acquisizione sanante, per come previsto dal c. 4, primo periodo, della norma citata.
Nell’eventualità che la p.a. si determini ad adottare il provvedimento di acquisizione, l’effetto traslativo della proprietà opererà dalla data dell’adozione del provvedimento stesso, sotto condizione sospensiva del pagamento del prezzo o del suo versamento presso la Cassa Depositi e Prestiti.
Laddove il Comune si determini ad adottare il provvedimento di acquisizione, esso dovrà altresì contenere la liquidazione delle somme dovute ai ricorrenti, da pagarsi nel termine di giorni trenta e da quantificarsi secondo i seguenti criteri fissati, ai sensi all'art. 34, c. 4, c.p.a., applicabile in assenza di alcuna espressa opposizione delle parti:
1) per il pregiudizio patrimoniale (perdita della proprietà del bene), la somma dovuta dovrà determinarsi in misura corrispondente al valore venale dei beni utilizzati per scopi di pubblica utilità e, riguardando l'occupazione un terreno edificabile (v. certificato di destinazione urbanistica in atti), sulla base delle disposizioni dell'articolo 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7 (v. combinato disposto di cui al c. 1, ult. periodo, e c. 3, primo periodo, art. 42-bis, d.p.r. 327/2001);
2) per il pregiudizio non patrimoniale cagionato anch’esso per perdita del diritto di proprietà, la somma dovuta dovrà essere forfettariamente liquidata nella misura del dieci per cento del valore venale del bene così come calcolato ai fini dell’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale (c. 1, ult. periodo, art. 42-bis, d.p.r. 327/2001);
3) per il danno derivante dal periodo di occupazione illegittima, la somma dovuta dovrà essere calcolata nella misura del cinque per cento annuo sul valore venale del bene così come calcolato ai fini dell’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale, salvo che dagli atti del procedimento amministrativo non risulti la prova di una diversa entità di tale danno (c. 3, ult. periodo, art. 42-bis, d.p.r. 327/2001);
4) le somme così quantificate, se non saranno accettate dagli interessati, dovranno essere depositate presso la Cassa depositi e prestiti S.p.a. (v. c. 4, ult. periodo, art. 42-bis, d.p.r. 327/2001), e l'Autorità comunale potrà comunque adottare il provvedimento di acquisizione, da trascriversi presso la conservatoria dei registri immobiliari e trasmettersi alla Corte dei Conti (v. c. 7, art. 42-bis, d.p.r. 327/2001).
Il Collegio pertanto, alla luce delle considerazioni che precedono, ha accolto il ricorso e, per l’effetto, ha disposto che il Comune si attivi, ai sensi e per gli effetti di cui 42-bis d.p.r. n. 327/2001 e dell’art. 34, c. 4, c.p.a., ponendo in essere le attività procedimentali ivi previste (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 04.04.2012 n. 737 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa notificazione degli atti in materia edilizia può essere effettuata anche dal messo comunale.
Sono legittimi gli atti adottati in materia edilizia che siano stati notificati per mezzo del messo comunale e non dell'ufficiale giudiziario come previsto per legge (cfr., fra le tante, TAR Sicilia Palermo, sez. I, 08.07.2002, n. 1936, sez. III, 26.10.2005, n. 4105, 15.02.2006, n. 394, 02.02.2012, n. 256) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 04.04.2012 n. 730 
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EDILIZIA PRIVATAE' inammissibile il ricorso avverso un provvedimento sanzionatorio proposto successivamente all’istanza di accertamento di conformità ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001.
Secondo consolidata giurisprudenza la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, anteriormente alla impugnazione dell’ordinanza di sospensione e/o demolizione –o alla notifica del provvedimento di irrogazione delle altre sanzioni per gli abusi edilizi– produce l’effetto di rendere inammissibile l’impugnazione stessa, per carenza di interesse.
Il riesame dell’abusività dell’opera, sia pure al fine di verificarne la eventuale sanabilità, provocato dall’istanza di sanatoria, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito od implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’impugnativa (cfr. TAR Toscana-Firenze, sez. III, 09.04.2009 n. 605; TAR Campania-Salerno, Sez. II, 21.03.2006 n. 314).
Lo stesso TAR ha già avuto modo di puntualizzare che il ricorso giurisdizionale avverso un provvedimento sanzionatorio, proposto successivamente all’istanza di concessione in sanatoria ex art. 13 L. n. 47/1985, è inammissibile per carenza di interesse, “spostandosi” l’interesse del responsabile dell’abuso edilizio dall’annullamento del provvedimento sanzionatorio già adottato, all’eventuale annullamento del provvedimento (esplicito o implicito) di rigetto (22.12.2005 n. 8159) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 03.04.2012 n. 687 
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PUBBLICO IMPIEGOConcorso pubblico: il voto numerico, attribuito dalle competenti Commissioni alle prove scritte ed orali, esprime e sintetizza il giudizio tecnico-discrezionale della Commissione stessa, contenendo in sé la sua stessa motivazione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni e chiarimenti.
Costituisce ius receptum il principio secondo cui il voto numerico, attribuito dalle competenti Commissioni alle prove scritte ed orali di un concorso pubblico, esprime e sintetizza il giudizio tecnico-discrezionale della Commissione stessa, contenendo in sé la sua stessa motivazione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni e chiarimenti (salvo il caso in cui, mancando l'unanimità, uno dei commissari solleciti specifiche determinazioni).
La motivazione espressa numericamente, oltre a rispondere al principio di economicità e proporzionalità dell’azione amministrativa di valutazione, assicura infatti la necessaria spiegazione delle valutazioni di merito compiute dalla Commissione e consente il sindacato sul potere amministrativo esercitato (da ultimo questa Sezione, 18.10.2011, n. 5597; 30.06.2011, n. 3890; 12.04.2011, n. 1612; 31.03.2011, n. 1996; 11.02.2011, n. 913) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 02.04.2012 n. 1939 
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PUBBLICO IMPIEGOProcedure concorsuali: prima della nomina dei vincitori non sono configurabili contro interessati.
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa con la sentenza in esame ha riformato la decisione resa dal Giudice di prime cure che aveva dichiarato l’inammissibilità del ricorso ai sensi dell’art. 21, comma 1, della legge n. 1034/1971 sul presupposto che il medesimo non era stato notificato ad alcuno dei soggetti inseriti nella impugnata graduatoria.
Il Collegio, sul punto ha richiamato l'insegnamento consolidato (CGA, sentenze nn. 477/2009 e 479/2009), secondo il quale, premesso che “la nozione di contro interessato in senso tecnico … esige la simultanea presenza di due elementi parimenti essenziali: quello formale, scaturente dalla esplicita contemplazione del soggetto nel provvedimento impugnato ovvero della sua immediata individuabilità, e quello sostanziale, discendente dal riconoscimento di un interesse al mantenimento della situazione esistente ...”, ne consegue, con riferimento alle procedure concorsuali “che non sono configurabili, prima della nomina dei vincitori, contro interessati in senso tecnico con riguardo al ricorso proposto avverso il provvedimento di esclusione dalla procedura di concorso, attesa l’insussistenza della lesione di un interesse protetto e attuale, in capo agli altri concorrenti, derivante dall’accoglimento del ricorso stesso” (CGA Regione Siciliana, Sez. I, sentenza 02.04.2012 n. 372
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PUBBLICO IMPIEGOL’equiparazione tra i diplomi di laurea in Architettura v.o. e la laurea specialistica n.o. relativa alla classe 4/S –Architettura ed Ingegneria Civile va interpretata solo “ai fini della partecipazione ai pubblici concorsi" e non può ritenersi operante anche nei confronti degli esami di abilitazione professionale.
Il Collegio nella sentenza in esame ha rilevato come il DPR n. 328/2001 ha previsto che la laurea specialistica in Architettura ed Ingegneria Civile - classe 4/S (nuovo ordinamento) costituisce titolo idoneo per l’ammissione agli esami di Stato per l’abilitazione sia all’esercizio della professione di ingegnare, che a quella di architetto; ma nulla ha disposto in tal senso per le lauree in Architettura vecchio ordinamento, che sotto questo profilo non sono menzionate come titolo idoneo per l’accesso agli esami di Stato per l’abilitazione all’esercizio della professione.
Il senso di tale omissione e conseguente esclusione si precisa alla stregua di quanto disposto dall’art. 8 dello stesso DPR n. 328/2001 e dalle note di applicazione contenute nella nota n. 2126 del 22.05.2002 del MIUR, la quale, per un verso, ha voluto sottolineare che “per coloro che sono in possesso di titoli rilasciati secondo l’ordinamento previgente … tutti i titoli che precedentemente davano la possibilità di accedere ad uno specifico esame di Stato continuano ad essere titoli validi per l’accesso allo stesso, secondo quanto previsto dall’art. 8 del DPR n. 328/2001”; e, per altro verso, ha voluto precisare che “al contrario le lauree … del previgente ordinamento non costituiscono titolo idoneo per sostenere i nuovi esami, a meno che non esistano espresse previsioni in tal senso nel DPR n. 328/2001 …”.
L’orientamento così formulato risulta riaffermato sia dal D.L. n. 107/2002 (conv. in legge n. 173/2002) contenente “Disposizioni urgenti in materia di accesso alle professioni”, sia, poi, dall’art. 7 dell’Ordinanza del MIUR 22.01.2007 per le due sessioni di esami di Stato per il 2007, dove si è ribadito che “i possessori di titoli conseguiti secondo l’ordinamento previgente alla riforma … svolgono le prove degli esami di Stato secondo l’ordinamento previgente al decreto del Presidente della Repubblica 05.06.2001 n. 328”.
La formulazione di questa disciplina attesta con ragionevole evidenza il tipo di problema che essa ha inteso risolvere, e cioè quello di consentire l’ammissione agli esami di abilitazione dei soggetti in possesso di titoli di studio rilasciati secondo il vecchio ordinamento, che in tal modo non dovranno subire alcun pregiudizio a seguito della riforma del sistema universitario circa le pregresse possibilità professionali che i vecchi titoli gli garantivano. La disciplina de qua, dunque, nel passaggio dal vecchio al nuovo ordinamento degli studi universitari, ha inteso risolvere essenzialmente un problema di salvaguardia dei titoli di vecchio ordinamento, ma non quello di equiparare in via di principio percorsi di studio e professionali che viceversa si vuole in via di principio tenere distinti.
In questo senso, infatti, depone la più attenta giurisprudenza del Consiglio di Stato citata dalla difesa della parte appellante, sia quando, in un caso particolare, ha escluso che “il diploma di laurea in biotecnologie mediche conseguito in base all’ordinamento previgente … che non dava accesso alla professione di biologo nel precedente ordinamento, tantomeno lo consente nel sistema disciplinato dal DPR n. 328/2001 ...”; sia quando ha voluto ribadire che l’art. 8 del DPR n. 328/2001 costituisce “una disposizione di salvaguardia, che proprio perché diretta a conservare il valore dei titoli di studio del passato ordinamento didattico non può attribuire a detti titoli un valore maggiore di quello che era loro proprio” (Cons. Stato, VI, n. 1548/2007) (CGA Regione Siciliana, Sez. I, sentenza 02.04.2012 n. 367 
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EDILIZIA PRIVATANon e' configurabile in sede di autotutela un annullamento parziale delle concessioni edilizie.
L’annullamento del provvedimento autorizzatorio edilizio non può che essere totale, posto che non è configurabile, in sede di autotutela, un annullamento parziale delle concessioni edilizie, trattandosi di provvedimenti non frazionabili, tenuto conto che l'annullamento d'ufficio esclude qualsiasi valutazione di carattere discrezionale sulle possibilità tecniche di modificazione del progetto di costruzione.
Infatti in sede di autotutela, l'Amministrazione non ha la possibilità di disporre l'annullamento parziale di un permesso di costruire volto alla realizzazione di un complesso immobiliare comprendente più corpi di fabbrica diversi e funzionalmente collegati, non avendo alcun potere di rielaborare il progetto, trattandosi di valutazioni e di scelte rimesse in via esclusiva all'autonomia privata (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 05.02.1998, n. 198; idem, 31.07.2007, n. 4256) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 30.03.2012 n. 3065 
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APPALTIIl divieto di avvalimento parziale non si estende agli appalti diversi da quelli di lavoro.
Il divieto di avvalimento parziale non si estende agli appalti diversi da quelli di lavoro. Invero la Commissione europea, con la nota C(2008)0108 del 30.01.2008 aveva aperto una procedura di infrazione verso l’Italia, ritenendo configurabile un’incompleta trasposizione delle direttive comunitarie nel codice degli appalti ed esprimendo, in particolare, perplessità sulla compatibilità comunitaria dell’art. 49 del codice appalti, che consente ad un concorrente di avvalersi di una sola impresa ausiliaria per ciascun requisito o categoria, sembrando, al contrario, riconoscere la possibilità anche di cumulare frazioni del requisito.
Per conformarsi alla contestazione comunitaria di un recepimento eccessivamente restrittivo dell’istituto in esame, il terzo decreto correttivo (d.lgs. 11.09.2008, n. 152) ha novellato il comma 6, il quale, nel testo attuale, prevede dunque che solo per i lavori si applica il divieto legale di avvalersi di più imprese ausiliarie per ciascuna categoria di qualificazione (TAR Lazio-Roma, Sez. III-quater, sentenza 29.03.212 n. 3006 
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APPALTI SERVIZIIl Tar Lazio sugli appalti pubblici. I requisiti in prestito per le gare di servizi.
Negli appalti pubblici di servizi e forniture è consentito al concorrente ricorrere al prestito parziale dei requisiti, anche da parte di più imprese; soltanto nei lavori pubblici, infatti, si applica il divieto di «avvalimento parziale».

È quanto ha affermato il TAR Lazio-Roma, Sez. III-quater, con la sentenza 29.03.2012 n. 3006 che ha affrontato il tema del cosiddetto «avvalimento parziale» e della sua applicazione agli appalti diversi dai lavori pubblici.
Il tema era stato trattato dal Consiglio di Stato che aveva affermato il principio per cui se un'impresa non possiede l'intero requisito deve frasi prestare non quanto manca, bensì l'intero requisito da parte di un'altra impresa. I giudici del Tar del Lazio erano invece chiamati a pronunciarsi su una fattispecie relativa a un appalto di progettazione in cui l'impresa concorrente aveva integrato quota parte del requisito di fatturato con una restante parte fornita dall'impresa ausiliaria che, quindi, non aveva «prestato» l'intero requisito, bensì soltanto la quota necessaria al concorrente per raggiungere la soglia minima indicata nel bando di gara.
Il Tar del Lazio chiarisce in primo luogo che la norma che consente di avvalersi di una sola impresa ausiliaria (art. 49, comma 6) non è applicabile al settore dei servizi, riguardando soltanto gli appalti di lavori. Con ciò, quindi, nel settore dei servizi e delle forniture ci si può avvalere anche di più imprese. In secondo luogo la sentenza del Tar Lazio contesta anche l'applicazione del divieto di avvalimento parziale anche agli appalti di servizi e forniture appoggiandosi al provvedimento della Commissione europea che nel 2008, aprì la procedura di infrazione verso l'Italia ritenendo configurabile un'incompleta trasposizione delle direttive comunitarie nel codice degli appalti ed esprimendo, in particolare, esprimendo perplessità sulla compatibilità comunitaria dell'art. 49 del codice appalti che consente a un concorrente di avvalersi di una sola impresa ausiliaria per ciascun requisito o categoria.
Tant'è che, ricorda il collegio, per conformarsi alla contestazione comunitaria, il terzo decreto correttivo nel 2008 ha novellato il comma 6, dell'articolo 49 del Codice dei contratti pubblici il quale, nel testo attuale, prevede dunque che solo per i lavori si applica il divieto legale di avvalersi di più imprese ausiliarie per ciascuna categoria di qualificazione.
Ma, ed è questo il passaggio interessante, il Tar aggiunge anche che nella procedura di infrazione la Commissione sembrava «al contrario, riconoscere la possibilità anche di cumulare frazioni del requisito», contrariamente a quanto sostenuto dalla sentenza del Consiglio di stato n. 3565 (articolo ItaliaOggi del 05.04.2012).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordinanza di demolizione costituisce per costante giurisprudenza un atto dovuto, necessariamente conseguente al rigetto dell’istanza di sanatoria.
... Ritenuto che l’ordinanza di demolizione costituisce per costante giurisprudenza un atto dovuto, necessariamente conseguente al rigetto dell’istanza di sanatoria (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV, 28.12.2009, n. 9638; Sez. VI, 09.11.2009, n. 7077; Sez. VII, 04.12.2008, n. 20987) (TAR Veneto, Sez. II, ordinanza 29.03.2012 n. 236 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il d.P.R. n. 380/2001 ha predisposto una disciplina puntuale ed esaustiva della sanatoria in materia edilizia, tale da non ammettere spazi residui che consentano di affermare, in via interpretativa, la sopravvivenza della cosiddetta sanatoria giurisprudenziale.
... Rilevato che anche questo Collegio ritiene che, salvo ogni ulteriore approfondimento riservato alla fase di merito, deve ritenersi non sussistente il vizio di illegittimità derivata in considerazione del fatto che il provvedimento in origine impugnato appare adottato nel rispetto del requisito della “doppia conformità” di cui all’ art. 36 del d.P.R. n. 380/2001 e, ciò, anche in considerazione di recenti pronunce che hanno affermato che “Il d.P.R. n. 380/2001 ha, infatti, predisposto una disciplina puntuale ed esaustiva della sanatoria in materia edilizia, tale da non ammettere spazi residui che consentano di affermare, in via interpretativa, la sopravvivenza della cosiddetta sanatoria giurisprudenziale" (TAR Puglia Lecce Sez. III, 02-09-2010, n. 1887) (TAR Veneto, Sez. II, ordinanza 29.03.2012 n. 236 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: È il consiglio comunale che nomina i componenti del nucleo di valutazione.
La ricorrente ha partecipato alla selezione pubblica, indetta dal Comune di Agerola, finalizzata al conferimento dell’incarico di componente del nucleo di valutazione di cui agli artt. 14 e ss. del d.lgs. n. 150/2009, organo monocratico la cui nomina è devoluta alla competenza del Sindaco a termini dell’art. 50, comma 2, del regolamento di organizzazione degli uffici e dei servizi del Comune di Agerola, approvato con delibera di giunta municipale n. 107 del 14.09.2011.
La ricorrente impugna il decreto sindacale n. 18 del 24.11.2011, con il quale è stato conferito al dott. ... il predetto incarico, nonché la presupposta fonte regolamentare limitatamente alla parte in cui individua il sindaco quale organo competente alla nomina del nucleo di valutazione, adducendo vari vizi inerenti all’incompetenza, alla violazione dell’art. 97 della Costituzione, alla violazione della legge n. 241/1990, nonché all’eccesso di potere sotto svariati profili.
È fondata la censura con cui la ricorrente denuncia la sussistenza del vizio di incompetenza per violazione del combinato disposto dell’art. 14, comma 3, del d.lgs. n. 150/2009 e dell’art. 42, comma 1, del d.lgs. n. 267/2000.
Infatti, si presenta condivisibile la tesi sostenuta in gravame secondo la quale dalla combinazione di tali disposizioni discende la regola che la competenza alla nomina del nucleo di valutazione spetta al consiglio comunale, in qualità di organo di indirizzo politico-amministrativo dell’ente, e non al sindaco, che è semplicemente l’organo responsabile dell’amministrazione generale del comune ed il suo massimo rappresentante.
Osserva il Collegio che, se a termini dell’art. 14, comma 3, del d.lgs. n. 150/2009 l’organismo di valutazione deve essere nominato “dall’organo di indirizzo politico-amministrativo”, d’altra parte è la stessa legge, con l’art. 42, comma 1, del d.lgs. n. 267/2000, che qualifica espressamente come organo di indirizzo politico-amministrativo il consiglio comunale, con la conseguenza di individuare per le amministrazioni comunali tale organo come quello competente alla nomina.
Tale esegesi, tra l’altro, è in linea con il principio secondo cui la competenza attribuita ai consigli comunali è circoscritta agli atti fondamentali di natura programmatoria o aventi un elevato contenuto di indirizzo politico (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 09.06.2008 n. 2832 e 31.01.2007 n. 383), se letto alla luce del chiaro enunciato dell’art. 15 del d.lgs. n. 150/2009, che attribuisce appunto all’organo di indirizzo politico-amministrativo dell’ente anche compiti di alta programmazione in materia di miglioramento della performance.
Ne discende che la nomina del componente del nucleo di valutazione doveva essere effettuata dal consiglio comunale e non dal sindaco, con conseguente illegittimità degli atti impugnati (decreto di nomina e norma regolamentare) che pertanto vanno annullati (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 28.03.2012 n. 1510 -
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CONSIGLIERI COMUNALIIl consigliere comunale può legittimamente esercitare la generale legittimazione al ricorso solo quando viene in rilievo una lesione diretta delle sue prerogative, ossia del munus che gli viene riconosciuto dall'ordinamento; è inammissibile, invece, il ricorso di consiglieri comunali nel caso di censure estranee a quelle idonee a radicare la legittimazione attiva degli eletti negli enti locali, in relazione all'impugnazione di atti del consiglio di cui facciano parte; infatti, in casi del genere, non vengono in rilievo violazioni (irritualità della convocazione, violazione dell'ordine del giorno, difetto di costituzione del collegio) inerenti alle modalità sub-procedimentali estrinseche e come tali di per sé suscettibili di determinare un'indotta illegittimità del provvedimento conclusivo. La tutela giurisdizionale dell'interesse del consigliere comunale è, dunque, ammessa solo qualora venga in rilievo un interesse connesso alla posizione del consigliere stesso all'interno dell'ente e non quando l'atto contestato non incida direttamente sul suo diritto all'ufficio o sull'esercizio del suo mandato.
Il ricorrente afferma espressamente di agire “esclusivamente in tutela del pubblico interesse, nella veste di consigliere comunale in carica”.
Costituisce principio giurisprudenziale consolidato quello secondo cui “il consigliere comunale può legittimamente esercitare la generale legittimazione al ricorso solo quando viene in rilievo una lesione diretta delle sue prerogative, ossia del munus che gli viene riconosciuto dall'ordinamento; è inammissibile, invece, il ricorso di consiglieri comunali nel caso di censure estranee a quelle idonee a radicare la legittimazione attiva degli eletti negli enti locali, in relazione all'impugnazione di atti del consiglio di cui facciano parte; infatti, in casi del genere, non vengono in rilievo violazioni (irritualità della convocazione, violazione dell'ordine del giorno, difetto di costituzione del collegio) inerenti alle modalità sub-procedimentali estrinseche e come tali di per sé suscettibili di determinare un'indotta illegittimità del provvedimento conclusivo. La tutela giurisdizionale dell'interesse del consigliere comunale è, dunque, ammessa solo qualora venga in rilievo un interesse connesso alla posizione del consigliere stesso all'interno dell'ente e non quando l'atto contestato non incida direttamente sul suo diritto all'ufficio o sull'esercizio del suo mandato" (TAR Sicilia, Catania, Sez. III, 26.11.2009 n. 2000, C.S. Sez. V 29.04.2010 n. 2457). I motivi di ricorso non contestano la lesione delle prerogative di consigliere comunale, essendo invece incentrati su presunte violazioni della disciplina urbanistica, in materia di “giusto procedimento”, oltreché su censure di eccesso di potere per sviamento, e contraddittorietà con atti presupposti (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 28.03.2012 n. 956 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Non ammesso il ricorso del Consigliere contro la variante di piano regolatore.
In questa circostanza il ricorrente affermava espressamente di agire “esclusivamente in tutela del pubblico interesse, nella veste di consigliere comunale in carica”.
Costituisce principio giurisprudenziale consolidato, si legge nella pronuncia in commento, quello secondo cui “il consigliere comunale può legittimamente esercitare la generale legittimazione al ricorso solo quando viene in rilievo una lesione diretta delle sue prerogative, ossia del munus che gli viene riconosciuto dall'ordinamento; è inammissibile, invece, il ricorso di consiglieri comunali nel caso di censure estranee a quelle idonee a radicare la legittimazione attiva degli eletti negli enti locali, in relazione all'impugnazione di atti del consiglio di cui facciano parte; infatti, in casi del genere, non vengono in rilievo violazioni (irritualità della convocazione, violazione dell'ordine del giorno, difetto di costituzione del collegio) inerenti alle modalità sub-procedimentali estrinseche e come tali di per sé suscettibili di determinare un'indotta illegittimità del provvedimento conclusivo.
La tutela giurisdizionale dell'interesse del consigliere comunale è, dunque, ammessa solo qualora venga in rilievo un interesse connesso alla posizione del consigliere stesso all'interno dell'ente e non quando l'atto contestato non incida direttamente sul suo diritto all'ufficio o sull'esercizio del suo mandato
” (TAR Sicilia, Catania, Sez. III, 26.11.2009 n. 2000, C.S. Sez. V 29.04.2010 n. 2457).
I motivi di ricorso, peraltro, non contestavano la lesione delle prerogative di consigliere comunale, ma erano incentrati su presunte violazioni della disciplina urbanistica, in materia di “giusto procedimento”, oltreché su censure di eccesso di potere per sviamento, e contraddittorietà con atti presupposti.
Si aggiunga che il ricorrente affermava inoltre di essere “cittadino” del Comune in causa, senza tuttavia dimostrare un eventuale pregiudizio derivante dai provvedimenti impugnati, nella sua sfera personale o patrimoniale; mentre invece, i giudici amministrativi milanesi sottolineano che in giurisprudenza sussiste l'interesse all'impugnazione della variante di piano regolatore anche da parte del soggetto che è proprietario di aree diverse da quelle direttamente incise dalle varie previsioni urbanistiche, allorché tali previsioni abbiano comunque rilevanza sul godimento e sul valore di mercato di dette diverse aree e sugli interessi del loro proprietario (TAR Liguria Genova, Sez. I, 22.07.2005 n. 1080) (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 28.03.2012 n. 956 -
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ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICASussiste l'interesse all'impugnazione della variante di piano regolatore anche da parte del soggetto che è proprietario di aree diverse da quelle direttamente incise dalle varie previsioni urbanistiche, allorché tali previsioni abbiano comunque rilevanza sul godimento e sul valore di mercato di dette diverse aree e sugli interessi del loro proprietario.
Sotto altro profilo occorre aggiungere che il ricorrente afferma altresì di essere “cittadino” del Comune di Porlezza, senza tuttavia ulteriormente dimostrare un eventuale pregiudizio derivante dai provvedimenti impugnati, nella sua sfera personale o patrimoniale, ritenendosi invece in giurisprudenza che sussista l'interesse all'impugnazione della variante di piano regolatore anche da parte del soggetto che è proprietario di aree diverse da quelle direttamente incise dalle varie previsioni urbanistiche, allorché tali previsioni abbiano comunque rilevanza sul godimento e sul valore di mercato di dette diverse aree e sugli interessi del loro proprietario (TAR Liguria Genova, Sez. I, 22.07.2005 n. 1080) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 28.03.2012 n. 956 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Installazione di cartelloni stradali pubblicitari: l'Ente Locale non può rigettare la domanda di autorizzazione ad installare cartelloni pubblicitari stradali in base al “regolamento comunale dei mezzi pubblicitari” interpretato ed applicato nel senso di un generalizzato divieto di collocazione per i detti cartelli all’interno dei centri abitati.
Secondo la giurisprudenza (TAR Veneto Venezia, Sez. III, 09.02.2006, n. 339), è illegittimo il rigetto della domanda di autorizzazione ad installare cartelloni pubblicitari stradali che sia basato sul “regolamento comunale dei mezzi pubblicitari” interpretato ed applicato dall’amministrazione nel senso di un generalizzato divieto di collocazione per i detti cartelli all’interno dei centri abitati, posto che tale divieto è privo di un individuabile fondamento normativo e, comunque, di sufficiente giustificazione.
Sul presupposto che l’ampiezza di un siffatto divieto, esteso ad ogni suolo pubblico dell’intero territorio comunale, e della natura regolamentare della disposizione recante tale divieto, come tale non giustificata da contingenti esigenze (connesse, ad esempio, all’imminente adozione del piano generale degli impianti di cui all’art. 3, comma 3, del decreto legislativo n. 507/1993), per il giudice amministrativo risulta evidente che l’impugnata delibera si pone in radicale ed insanabile contrasto con la libertà d’iniziativa economica privata, tutelata dall’art. 41 Cost., e con discipline di settore come quella posta dal codice della strada (invocata nel primo motivo di ricorso) che -nel prevedere la possibilità ed i limiti entro i quali è consentito installare cartelli ed altri mezzi pubblicitari lungo le strade o in vista di esse- mira piuttosto a contemperare l’esigenza di garantire la libertà d’iniziativa economica privata con quella di garantire la sicurezza della circolazione sulle strade (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 26.03.2012 n. 2868 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: E' legittima la motivazione per relationem dei provvedimenti amministrativi preceduti da atti istruttori o da pareri.
E’ noto, infatti, che il provvedimento amministrativo preceduto da atti istruttori o da pareri può ritenersi adeguatamente motivato per relationem anche con il mero richiamo ad essi, giacché tale richiamo sottintende l'intenzione dell'autorità emanante di farli propri, assumendoli a causa giustificativa della determinazione adottata.
Ciò, ovviamente, a condizione che dal complesso degli atti del procedimento siano evincibili le ragioni giuridiche che supportano la decisione onde consentire al destinatario di contrastarle con gli strumenti offerti dall'ordinamento e al giudice amministrativo, ove investito della relativa controversia, di sindacarne la fondatezza (cfr., ex plurimis, Consiglio Stato , sez. VI, 24.02.2011, n. 1156) (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 26.03.2012 n. 2867 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl cambio di destinazione d'uso, effettuato senza opere evidenti, non implica necessariamente un mutamento urbanistico-edilizio del territorio comunale e, come tale, non necessita di concessione edilizia qualora non sconvolga l'assetto dell'area in cui l'intervento edilizio ricade.
Nella fattispecie in esame si controverte della legittimità della determinazione dirigenziale di demolizione opere abusive adottata dal Comune a fronte del mutamento di destinazione d’uso di un'immobile da abitazione e ufficio privato con eliminazione del vano cucina e installazione di impianti telematici, elettrico e di condizionamento.
Il Collegio ha richiamato l'orientamento giurisprudenziale a tenere del quale il semplice cambio di destinazione d'uso, effettuato senza opere evidenti, non implica necessariamente un mutamento urbanistico-edilizio del territorio comunale e, come tale, non abbisogna di concessione edilizia qualora non sconvolga l'assetto dell'area in cui l'intervento edilizio ricade (cfr, tra le tante, Cons. Stato, sez. V., 23.02.2000 n. 949, TAR Liguria, sez. I, 28.01.2004 n. 102, TAR Veneto, Sez. III, 13.11.2001 n. 3699, Cass. Penale, Sez. III, 01.10.1997 n. 3104 e, più di recente, TAR Lazio, sez. II, 07.10.2005 n. 8002 e TAR Abruzzo, sede l'Aquila, 02.04.2009 n. 236).
Nel caso in esame, tuttavia, il giudice preso atto che si ricade in zona A di PRG ha rigettato il ricorso in quanto il mutamento da residenza a studio privato abbisognava di permesso a costruire (art. 10, comma 1, lett. c) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 26.03.2012 n. 2832
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URBANISTICA: Individuazione delle disposizioni dirette a regolamentare l'uso del territorio negli aspetti urbanistici ed edilizi che comportano un onere d'immediata impugnazione.
In tema di disposizioni dirette a regolamentare l'uso del territorio negli aspetti urbanistici ed edilizi, contenute nel piano regolatore, nei piani attuativi o in altro strumento generale individuato dalla normativa regionale, si è distinto fra le prescrizioni che in via immediata stabiliscono le potenzialità edificatorie della porzione di territorio interessata —nel cui ambito rientrano le norme di c.d. zonizzazione; la destinazione di aree a soddisfare gli standard urbanistici; la localizzazione di opere pubbliche o di interesse collettivo— dalle altre regole che, più in dettaglio, disciplinano l'esercizio dell'attività edificatoria, generalmente contenute nelle norme tecniche di attuazione del piano o nel regolamento edilizio (disposizioni sul calcolo delle distanze e delle altezze; sull'osservanza di canoni estetici; sull'assolvimento di oneri procedimentali e documentali; regole tecniche sull'attività costruttiva, ecc.).
Si ritiene che per le disposizioni appartenenti alla prima categoria s'impone -tra cui la localizzazione, in relazione all'immediato effetto sullo jus aedificandi dei proprietari dei suoli interessati che ne deriva, ove se ne intenda contestare il contenuto- un onere di immediata impugnativa, in osservanza del termine decadenziale a partire dalla pubblicazione dello strumento pianificatorio (Consiglio Stato , sez. IV, 28.03.2011, n. 1868).
Se il vincolo particolare quindi incide su beni determinati, in funzione non già di una generale destinazione di zona, ma della localizzazione di un'opera pubblica, la cui realizzazione non può coesistere con la proprietà privata, il vincolo che la stessa contiene deve essere qualificato come preordinato alla relativa espropriazione con onere di impugnazione (Cassazione civile, sez. I, 07.02.2006, n. 2612) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.03.2012 n. 1750 
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ATTI AMMINISTRATIVIPugno duro del Consiglio di stato: in caso di inadempienza verrà nominato un commissario ad acta. Comuni, le sentenze si rispettano. L'ente che si ribella al giudice rischia la lite temeraria.
Rischia grosso, e intanto paga la sanzione per lite temeraria, il comune che non rispetta la sentenza sfavorevole emessa dal giudice amministrativo. Se l'ente non si adeguerà alla decisione del magistrato, provvederà un commissario ad acta inviato dal prefetto, che valuterà l'opportunità di aprire l'iter per l'eventuale scioglimento del consiglio comunale «per gravi e persistenti violazioni di legge» e, se del caso, per denunciare gli amministratori alla procura della repubblica e alla Corte dei conti per danno erariale.
È quanto emerge dalla sentenza 26.03.2012 n. 1733 della V Sez. del consiglio di stato.
Prima e dopo. La controversia nasce in Piemonte sulla natura di una strada che in realtà è pubblica, come ha accertato palazzo Spada. Ma il comune l'ha sempre considerata privata al punto da costituire un consorzio ad hoc per la gestione. L'amministrazione non si dà per vinta, neppure dopo la sentenza sfavorevole del consiglio di stato: il ricorso per revocazione è però dichiarato inammissibile. Una sconfitta annunciata anche per l'ente locale che nella delibera consiliare annuncia che sarebbe andato avanti per la sua strada anche se il tentativo di revocazione fosse fallito.
Fatto sta che per ora sono le casse comunali a fare le spese del braccio di ferro fra amministrazione e giudici: il comune è condannato a pagare una somma pari alle spese di lite, 5 mila euro, ai suoi cittadini che hanno chiesto, e si spera otterranno, l'ottemperanza alla sentenza per loro favorevole. La somma è modesta, ma il segnale è importante per tutti gli enti che resistono in giudizio con condotta assimilabili alla lite temeraria.
Va tuttavia detto che nella specie si applica la vecchia e più severa formulazione dell'articolo 26, secondo comma, del codice del processo amministrativo: la nuova veste, introdotta dal dlgs correttivo 195/2011, riguarda soltanto gli atti introduttivi o di costituzione in giudizio in resistenza, rispettivamente notificati o depositati successivamente all'08.12.2011, dal momento che la norma ha natura sanzionatoria e dunque non retroattiva; bisogna infatti ricordare che, nel testo precedente, affinché si configuri responsabilità aggravata del soccombente è sufficiente che la decisione sia fondata su ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali consolidati, mentre nella formulazione attuale si richiede la lite temeraria vera e propria.
E non bisogna dimenticare che prima del «correttivo», come nella specie, scatta la liquidazione equitativa in favore della controparte, mentre dopo si applica una sanzione pecuniaria di entità ancorata al contributo unificato versato per la causa.
Addio consorzio. Ciò che conta, nel caso del comune anti-giudici, è che ora l'amministrazione dovrà aggiornare i documenti, le mappe e la segnaletica della strada della discordia, in quanto pubblica a tutti gli effetti. E dovrà bloccare tutto l'iter per la costituzione dell'agognato consorzio. Se non provvederà entro 90 giorni, arriverà il commissario ad acta. Il quale dovrà attivarsi, entro 90 giorni (articolo ItaliaOggi del 05.04.2012 - tratto da www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATAChi contesta la legittimità dell'ordinanza di demolizione di un manufatto abusivo realizzato fuori dal centro abitato ante 01.09.1967 ha l'onere di fornire perlomeno un principio di prova in ordine al tempo dell'ultimazione di quest'ultimo.
La sola aerofotogrammetria non risulta di per sé idonea a dare conto della reale consistenza e caratteristica costruttiva del bene.

Per consolidata giurisprudenza (cfr. ex multis TAR Puglia Lecce, sez. III, 09.11.2010 , n. 2631) chi contesta la legittimità dell'ordinanza di demolizione di un manufatto abusivo realizzato fuori dal centro abitato ante 01.09.1967 ha l'onere di fornire perlomeno un principio di prova in ordine al tempo dell'ultimazione di quest'ultimo.
Nella fattispecie, come già evidenziato nella fase cautelare, il ricorrente ha fornito tale principio di prova.
Per contro il Comune si fonda esclusivamente sulle risultanze aerofotogrammetriche.
Peraltro, la documentazione fotografica prodotta in giudizio dall’Amministrazione evidenzia l’assoluta inidoneità delle rappresentazioni del 1971 e del 1987 (per scala rappresentativa e qualità dell’immagine) a dare conto della sussistenza o meno dei due fabbricati di cui si predica l’inesistenza.
Va rilevato che, in via generale, la sola aerofotogrammetria non risulta di per sé idonea a dare conto della reale consistenza e caratteristica costruttiva del bene (cfr. in tal senso, in una vicenda analoga, ancorché a parti invertite: TAR Campania, Sez. III, 18.01.2011 n. 280).
In tale contesto non v’è necessità di procedere alla assunzione di prove testimoniali né alla effettuazione di una CTU.
Invero, il provvedimento impugnato risulta adottato in carenza d’istruttoria (vizio implicitamente arguibile dalla argomentazioni svolte dal ricorrente) sicché, per poter validamente affermare che la realizzazione dei fabbricati è avvenuta in epoca successiva al 01.09.1967, l’Amministrazione avrebbe dovuto effettuare altri, più approfonditi, accertamenti (quali la verifica della tipologia e la datazione dei materiali costruttivi in essere) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 26.03.2012 n. 486 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILe stazioni appaltanti possono decidere di non procedere all’aggiudicazione se nessuna offerta risulti conveniente o idonea in relazione all’oggetto del contratto.
L’art. 81, comma 3, del d.lgs. 12.04.2006, n. 163 prevede che “le stazioni appaltanti possono decidere di non procedere all’aggiudicazione se nessuna offerta risulti conveniente o idonea in relazione all’oggetto del contratto”.
Si rende in proposito necessario precisare che la “o” collocata tra “conveniente” ed “idonea” ha significato e valore disgiuntivo e non congiuntivo, il che comporta che, al fine di decidere nel senso della non aggiudicazione, non si richiede che si presentino entrambe le condizioni: non convenienza e non idoneità delle offerte, essendo invece a tal fine sufficiente la sussistenza di una sola (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 23.03.2012 n. 2769
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APPALTIQualora il numero delle offerte ammesse alla gara sia inferiore a cinque non trova applicazione il criterio d'individuazione delle offerte anomale.
Nel caso di specie la parte ricorrente si duole che l’offerta aggiudicataria non è stata assoggettata alla verifica di anomalia, ancorché caratterizzata da un ribasso assai più elevati rispetto a quello della ricorrente. Il Collegio ha rigettato l'eccezione atteso che avendo partecipato solo due concorrenti, l’ATI ricorrente e il RTI aggiudicatario non ricorrono i presupposti per la verifica obbligatoria dell'anomalia.
Come noto, in virtù dell'espresso rinvio operato dall'art. 86, comma 4, del codice dei contratti, nel caso in cui il numero delle offerte ammesse alla gara sia inferiore a cinque non trova applicazione il criterio d'individuazione delle offerte anomale previste dal comma 1 dello stesso art. 86, ma, la più flessibile disciplina di cui al comma 3 del medesimo articolo sopra riportato, che, invece, con norma di chiusura, prevede: “In ogni caso le stazioni appaltanti possono valutare la congruità di ogni altra offerta che, in base ad elementi specifici, appaia anormalmente bassa”.
Tanto precisato, osserva il Collegio che nessun appunto può essere mosso all’operato della Commissione di gara che non ha ritenuto di ricorrere al potere di controllo dell’offerta più bassa, e dunque da considerarsi senz’altro la migliore secondo la disciplina di gara, tenuto conto del metodo di aggiudicazione prescelto, cui il seggio di gara era vincolato, del prezzo più basso, inferiore a quello a base di gara, determinato mediante offerta a prezzi unitari.
Ed invero, la facoltà di procedere comunque alla valutazione della congruità del ribasso, ai sensi dell'art. 86, terzo comma, del codice dei contratti pubblici presuppone un giudizio tecnico della stazione appaltante circa il sospetto di anomalia dell’offerta “in base ad elementi specifici”, come ricordato dal legislatore. Solo in tale ipotesi, il sub-procedimento di verifica dell'anomalia deve essere aperto dalla stazione appaltante che, sulla base di elementi oggettivi, procede a richiedere chiarimenti da parte dell'impresa.
Tale attività costituisce, indubbiamente, espressione della discrezionalità riconosciuta dalla legge alle Amministrazioni aggiudicatrici, sindacabile solo in presenza di macroscopica irragionevolezza, che nella specie non sussiste (TAR Lazio-Roma, Sez. III-ter, sentenza 23.03.2012 n. 2750 -
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EDILIZIA PRIVATAL’esistenza di un sequestro penale sul manufatto abusivo oggetto di ingiunzione comunale di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi non determina la sospensione del termine di novanta giorni, il cui decorso comporta, in caso di inottemperanza, l'acquisizione gratuita di diritto al patrimonio del Comune, ai sensi dell'art. 31 d.P.R. 06.06.2001 n. 380; il sequestro penale, infatti, non rientra tra gli "impedimenti assoluti" che non consentono di dare esecuzione all'ingiunzione, stante il disposto dell'art. 85 disp. att. c.p.p..
In linea con la prevalente giurisprudenza, il Tribunale ritiene che l’esistenza di un sequestro penale sul manufatto abusivo oggetto di ingiunzione comunale di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi non determina la sospensione del termine di novanta giorni, il cui decorso comporta, in caso di inottemperanza, l'acquisizione gratuita di diritto al patrimonio del Comune, ai sensi dell'art. 31 d.P.R. 06.06.2001 n. 380 (cfr., da ultimo, Consiglio di Stato Sez. IV - sentenza 06.03.2012 n. 1260); il sequestro penale, infatti, non rientra tra gli "impedimenti assoluti" che non consentono di dare esecuzione all'ingiunzione, stante il disposto dell'art. 85 disp. att. c.p.p. (cfr. Cass. pen., sez. III, 14.01.2009, n. 9186) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 23.03.2012 n. 910 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’interesse al ricorso, radicato sulla base del criterio della vicinitas, non può essere disconosciuto laddove il ricorrente lamenti l’illegittimità, non già, di uno strumento di pianificazione urbanistica, ma di uno specifico titolo edilizio, in forza del quale il relativo titolare è autorizzato a realizzare un intervento su un lotto attiguo e/o confinante con quello di sua proprietà.
In tali evenienze, infatti, si deve ritenere che esista una situazione soggettiva ed oggettiva di stabile collegamento con la zona coinvolta dalla costruzione che, se illegittimamente assentita, è idonea ad arrecare un pregiudizio ai valori urbanistici della zona medesima, evidenziando, così, la legittimazione e l'interesse al ricorso del proprietario confinante, senza bisogno di richiedere la prova della lesione di un qualsiasi altro interesse giuridicamente rilevante.

Ritiene il Collegio che l’interesse al ricorso, radicato sulla base del criterio della vicinitas, non possa essere disconosciuto laddove il ricorrente lamenti l’illegittimità, non già, di uno strumento di pianificazione urbanistica, ma di uno specifico titolo edilizio, in forza del quale il relativo titolare è autorizzato a realizzare un intervento su un lotto attiguo e/o confinante con quello di sua proprietà.
In tali evenienze, infatti, si deve ritenere –in linea con la giurisprudenza dominante– che esista una situazione soggettiva ed oggettiva di stabile collegamento con la zona coinvolta dalla costruzione che, se illegittimamente assentita, è idonea ad arrecare un pregiudizio ai valori urbanistici della zona medesima, evidenziando, così, la legittimazione e l'interesse al ricorso del proprietario confinante, senza bisogno di richiedere la prova della lesione di un qualsiasi altro interesse giuridicamente rilevante (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 05.01.2011, n. 18; id. 20.10.2010, n. 7591; id. 29.07.2009, n. 4756; 12.05.2009, n. 2908; 31.05.2007, n. 2849; sez. V, 07.05.2008, n. 2086; sez. VI, 15.06.2010, n. 3744; TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 24.02.2012 n. 623; id. 08.09.2011 n. 2194) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 23.03.2012 n. 909 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa presenza di un vincolo di piano urbanistico generale non può incidere di per sé negativamente sulla potestà del dominus di chiudere in qualunque tempo il proprio fondo, mediante l’apposizione di una recinzione, ai sensi dell’art. 841 c.c..
Per giurisprudenza pacifica, la presenza di un vincolo di piano urbanistico generale non può incidere di per sé negativamente sulla potestà del dominus di chiudere in qualunque tempo il proprio fondo, mediante l’apposizione di una recinzione, ai sensi dell’art. 841 c.c. (cfr., ex plurimis, Cons. Stato 15-10-2003 n. 6293, per cui: <<non appare configurabile una incompatibilità tra la destinazione urbanistica, che comunque dovrà essere attuata attraverso l’adozione di provvedimenti ulteriori di approvazione del progetto di realizzazione dell’opera pubblica e di acquisizione dell’area interessata al progetto e l’iniziativa edificatoria che … consiste nell’apposizione di un cancello e recinzione metallica; cioè di lavori che non mutano la destinazione urbanistica ma si limitano a dare concreta attuazione al diritto del proprietario di chiudere il fondo.
Al riguardo, è appena il caso di ricordare che questo Consiglio ha già avuto modo di osservare come “l'installazione di un cancello, non comportando di norma trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, non richiede il rilascio di una concessione edilizia ma di una semplice autorizzazione”…
>>; Consiglio Stato sez. II, 12.05.1999, n. 720; nonché, TAR Lombardia, Milano, II, 19-06-2009 n. 4072) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 23.03.2012 n. 908 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIGare d'appalto: omessa dichiarazione.
In virtù dell'articolo 38, comma 1, lettera f), del D.Lgs. n. 163 del 2006 "sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere affidatari di subappalti, e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti che, secondo motivata valutazione della stazione appaltante, hanno commesso grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara; o che hanno commesso un errore grave nell'esercizio della loro attività professionale, accertato con qualsiasi mezzo di prova da parte della stazione appaltante".
Tale disposizione, nel precludere la partecipazione alle gare d'appalto alle imprese che si sono rese responsabili di gravi inadempienze nell'esecuzione di precedenti contratti (denotando ciò un'inidoneità "tecnico-morale" a contrarre con la P.A.), fissa il duplice principio che la sussistenza di tali situazioni ostative può essere desunta da qualsiasi mezzo di prova e che il provvedimento di esclusione deve essere motivato congruamente (Consiglio di Stato, V, 27.01.2010 n. 296).
Per procedere alla esclusione in questione è necessario quindi che sia fornita un'adeguata prova dell'inadempimento e che lo stesso rilevi sul piano del venir meno dell'affidabilità dell'impresa nei confronti della Amministrazione e, ai fini della sussunzione nell'ipotesi prevista dall'articolo 38, comma 1, lettera f), del codice dei contratti pubblici, occorre ricordare ulteriormente che quest'ultima postula, alternativamente, una grave negligenza o malafede nell'esecuzione di uno specifico contratto con la medesima stazione appaltante oppure un grave errore nell'esercizio della attività professionale.
E’ illegittima l’aggiudicazione di una gara di appalto in favore di una ditta che, nonostante la chiara e specifica prescrizione della lex specialis, prevista a pena di esclusione, ha omesso di dichiarare una precedente risoluzione contrattuale disposta dalla P.A. per grave inadempimento e/o malafede, ex art. 38, co. 1, lettera f), del D.Lgs. n. 163 del 2006, a nulla rilevando che tale inadempimento sia stato posto in essere dalla società fusa per incorporazione e successivamente sanato; in tal caso, infatti, la sostanziale causa di esclusione non è tanto quella del grave inadempimento, peraltro successivamente sanato, in cui è incorsa la ditta interessata nei rapporti contrattuali con la P.A., bensì quella, formale, di aver violato un precetto del bando, e, quindi, il principio della par condicio.
L’incorporazione per fusione di una società in un'altra non comporta l'estinzione del soggetto giuridico incorporato e l'insorgenza di uno nuovo e distinto che succede al primo articolo universale, costituendo unicamente una vicenda meramente evolutivo-modificativa del medesimo soggetto giuridico. Gli obblighi dichiarativi nelle gare di appalto permangono pertanto anche nei confronti degli amministratori della società incorporata.
E' quanto ha affermato il TAR Veneto, nella sentenza 23.03.2012 n. 412 (commento tratto da www.giurdanella.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Per il riconoscimento del beneficio della riduzione della cauzione provvisoria la certificazione di qualità deve essere relativa all’oggetto dell’appalto.
L’art. 75, co. 7, d.lgs. n. 163 del 2006 stabilisce che l’importo della garanzia, e del suo eventuale rinnovo, è ridotto del cinquanta per cento per gli operatori economici ai quali venga rilasciata, da organismi accreditati, ai sensi delle norme europee della serie UNI CEI EN 45000 e della serie UNI CEI EN ISO/IEC 17000, la certificazione del sistema di qualità conforme alle norme europee della serie UNI CEI ISO 9000; per fruire di tale beneficio, l’operatore economico segnala, in sede di offerta, il possesso del requisito, e lo documenta nei modi prescritti dalle norme vigenti. La riduzione della cauzione configura un beneficio riconosciuto ad un’impresa in considerazione di una sua particolare condizione soggettiva, attestata dal possesso della certificazione di qualità, per cui questa è ritenuta particolarmente affidabile sia come concorrente sia come potenziale affidataria dell’appalto.
Ne consegue –essendo la riduzione dell’importo cauzionale giustificata dalla maggiore affidabilità strutturale ed operativa dell’impresa– la necessità che il requisito sia posseduto con riferimento all’oggetto specifico dell’appalto, dovendo pertanto esservi corrispondenza tra la categoria prevalente dei lavori posti in gara e quella a cui si riferisce la certificazione di qualità. Non può assumere rilievo che l’art. 75, co. 7, d.lgs. n. 163 del 2006 faccia riferimento alla certificazione del sistema di qualità senza ulteriori specificazioni, atteso che deve ritenersi implicito, in ragione della sua ratio, che la certificazione di qualità, ai fini del beneficio della dimidiazione, deve essere relativa all’oggetto dell’appalto (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 21.03.2012 n. 2716 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Gli atti di alta amministrazione a differenza degli atti politici sono soggetti all'obbligo di motivazione.
A differenza degli atti politici (i quali, pur se formalmente e sostanzialmente amministrativi, sono sottratti al sindacato giurisdizionale in quanto espressione della fondamentale funzione di direzione e di indirizzo politico del Paese), gli atti di alta amministrazione sono soggetti all’obbligo di motivazione previsto in generale dalla l. n. 241 del 1990.
La natura di atto di alta amministrazione, a forte valenza fiduciaria, non comporta l’esclusione dell’obbligo di motivazione, essendo chiuso nel sistema, dopo l’entrata in vigore della l. n. 241 del 1990, ogni spazio per la categoria dei provvedimenti amministrativi c.d. a motivo libero.
Dunque anche gli atti de quibus, nonostante l'ampia discrezionalità che li caratterizza, non sono esclusi dal sindacato giurisdizionale sull'esercizio di detto potere discrezionale: sindacato che è solo limitato al riscontro dell'esistenza dei presupposti e alla congruità della motivazione nonché all'esistenza del nesso logico di consequenzialità fra presupposti e conclusioni (TAR Lazio-Roma, Sez. I-ter, sentenza 21.03.2012 n. 2697 
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ATTI AMMINISTRATIVI: In materia di silenzio-rifiuto della P.A. l'adozione di un qualsivoglia provvedimento in risposta all'interessato fa venir meno i presupposti per la condanna dell'Amministrazione a provvedere.
Il Collegio nella sentenza in esame ha richiamato il consolidato indirizzo giurisprudenziale a tenore del quale in materia di silenzio rifiuto della P.A., l'adozione di un qualsivoglia provvedimento (anche non satisfattivo dell'interesse pretensivo fatto valere dal privato), in risposta all'interessato, fa venir meno i presupposti per la condanna dell'Amministrazione a provvedere (cfr. Cons. St. n. 910/2009, 5311/2007, 1193/2006, 7969/2003).
E', quindi improcedibile, per sopravvenuta carenza di interesse, il ricorso contro il silenzio-rifiuto nel caso in cui sopraggiunga un provvedimento discrezionale di reiezione dell'istanza e ciò in quanto il decorso del termine stabilito dalla legge per la formazione del silenzio-rifiuto non comporta la perdita della potestà di decidere dell'amministrazione.
Dunque, un eventuale ricorso contro l'inerzia dell'amministrazione deve essere dichiarato improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse, nel caso in cui il provvedimento esplicito venga adottato successivamente, in quanto il privato ha ottenuto il risultato al quale mira il giudizio, ossia l'intervento di un provvedimento (giurisprudenza pacifica) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-ter, sentenza 21.03.2012 n. 2694 
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ATTI AMMINISTRATIVI: L’annullamento in autotutela di un provvedimento amministrativo impone la precisa individuazione delle ragioni di pubblico interesse che giustificano l’adozione del provvedimento di secondo grado.
L’annullamento in autotutela di un provvedimento amministrativo impone la precisa individuazione delle ragioni di pubblico interesse che giustificano l’adozione del provvedimento di secondo grado.
Per quanto attiene precipuamente alle gare pubbliche, la potestà di annullamento in autotutela degli atti è espressamente ricondotta al principio costituzionale di buon andamento che impegna l’Amministrazione ad adottare atti il più possibile rispondenti ai fini da conseguire, ma con l’obbligo di fornire una adeguata motivazione in ordine ai motivi che, alla luce della comparazione dell’interesse pubblico con le contrapposte posizioni consolidate dei partecipanti alla gara, giustificano il provvedimento di autotutela (cfr., tra le altre, C.d.S., Sez. V, 04.01.2011, n. 11; TAR Campania, Napoli, Sez. I, 18.03.2011, n. 1500).
Sussiste, pertanto, la inequivoca necessità di ragioni di interesse pubblico sottese all’adozione del provvedimento di autoannullamento –le quali non possono comunque prescindere dalla considerazione del tempo eventualmente trascorso e delle posizioni giuridiche consolidatesi per effetto del provvedimento da annullare- con l’ulteriore precisazione che tali ragioni devono trovare espresso riscontro nel provvedimento di secondo grado attraverso una motivazione tanto più approfondita e stringente quanto più gli interessi privati sacrificati risultino consolidati per il decorso del tempo: l’esercizio del potere di autotutela è sì espressione di rilevante discrezionalità ma comunque non esime l’Amministrazione dal dare conto della sussistenza, tra l’altro, dell’interesse pubblico -presupposto di detto potere, al pari dell’illegittimità originaria del provvedimento- in termini esaustivi e chiaramente comprensibili (cfr., tra le altre, C.d.S., Sez. IV, 27.11.2010, n. 8291; TAR Lazio, Roma, Sez. III, 25.10.2010, n. 32960; TAR Puglia, Bari, Sez. I, 14.09.2010, n. 3456).
E’ pur vero che esistono casi in cui l’interesse pubblico all’esercizio dell’autotutela è “in re ipsa”, ma detti casi presuppongono provvedimenti atti ad esplicare effetti giuridici protratti nel tempo e, dunque, perseguono il precipuo scopo di evitare il protrarsi nel tempo di ulteriori effetti “contra legem” o, anche, richiedono la soddisfazione di un interesse pubblico “non ponderabile” perché conseguente ad una pronuncia giudiziale già emessa (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. V, 17.09.2010, n. 6980; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 15.11.2010, n. 2692; TAR Campania, Napoli, Sez. II, 07.10.2010, n. 18004).
In sintesi, appare evidente che:
1) l’esercizio del potere di annullare un provvedimento in autotutela necessita della presenza di un interesse pubblico che non si identica con il mero ripristino della legalità violata, bensì richiede ragioni diverse, desunte dall’adeguata ponderazione comparativa degli interessi coinvolti, con obbligo di tener conto delle posizioni consolidate e del conseguente affidamento derivante dal comportamento tenuto dall’Amministrazione (cfr. C.d.S., Sez. IV, 16.04.2010, n. 2178);
2) l’annullamento d’ufficio presuppone una congrua motivazione sull’interesse pubblico attuale e concreto a sostegno dell’esercizio discrezionale dei poteri di autotutela, idonea ad esternare anche le valutazioni effettuate in relazione alle posizioni dei destinatari dell’atto (cfr. C.d.S., Sez. IV, 16.04.2010, n. 2178; C.d.S., Sez. IV, 21.12.2009, n. 8529) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-ter, sentenza 20.03.2012 n. 2683 
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EDILIZIA PRIVATA: La non applicabilità in materia edilizia degli artt. 7 e seguenti della legge n. 241/1990, che obbligano le amministrazioni a comunicare agli interessati l’inizio delle attività procedimentali, non esclude la necessità del contraddittorio.
E' ormai consolidato l’indirizzo giurisprudenziale che esclude per le pratiche edilizie l’applicabilità della normativa generale sul procedimento amministrativo dettata dalla legge n. 241/1990, in virtù delle discipline speciali vigenti nel settore e del principio di non necessità della comunicazione di avvio dei procedimenti aperti da iniziative del medesimo interessato (come, in fattispecie, con la dichiarazione d’inizio di attività edilizia presentata dai privati costruttori o committenti, sulla quale le amministrazioni comunali attivano le procedure di controllo), perché in tal caso vengono meno le esigenze di conoscenza e di trasparenza sottese alla previsione normativa e riferibili alle ipotesi di procedimenti ad iniziativa delle amministrazioni, dei quali gli interessati possono essere consapevoli solo a seguito della comunicazione di avvio.
Peraltro la non applicabilità nella materia edilizia delle disposizioni di cui agli artt. 7 e seguenti della legge n. 241/1990, che obbligano le amministrazioni a comunicare agli interessati l’inizio delle attività procedimentali, non esclude la necessità del contraddittorio che permea, quale principio generale, ogni forma di attività amministrativa che involga interessi qualificati, alla stregua dei generali principi di pubblicità e trasparenza dell’azione dei pubblici poteri (art. 1 L. n. 241/1990; art. 97 Cost.).
Dunque, ove non sussistano esigenze particolari di ordine pubblico, non riscontrabili comunque in fattispecie, non può ritenersi assistito da adeguata istruttoria il procedimento amministrativo che escluda l’interlocuzione con il soggetto destinatario degli effetti del provvedimento finale, ovvero che non tenga conto delle osservazioni da questi presentate (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 20.03.2012 n. 2679 
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EDILIZIA PRIVATA: Impianti fotovoltaici, per evitare bocciature serve il piano paesaggistico.
Il sistema incentrato sul parere obbligatorio ma non vincolante del Soprintendente, affinché diventi operativo, presuppone l’avvenuta adozione, da parte delle regioni, dei piani paesaggistici che richiedono che l’elaborazione del piano avvenga congiuntamente tra Ministero e regioni con riguardo, fra gli altri, ai beni dichiarati di notevole interesse pubblico.
Le disposizioni del piano territoriale paesaggistico richiamate dal ricorrente attengono all’uso antropico del territorio in questione che, in base alla normativa di legge regionale antecedente all’entrata in vigore del codice dell’ambiente, si intende consentire una volta stabilita la compatibilità paesaggistica dell’intervento; viceversa, l’amministrazione statale, nella specie, con i due pareri impugnati, ha chiaramente ritenuto il progetto non compatibile col vincolo paesaggistico.
Il comma ottavo del citato articolo 146 dispone infatti che il Soprintendente renda il proprio parere con riferimento al merito della compatibilità paesaggistica.
La previsione, accanto a tale valutazione di compatibilità, di un’altra e distinta disamina, quella inerente la “conformità” dell’intervento medesimo alle disposizioni contenute nel piano paesaggistico, attiene invece ad un ulteriore riscontro, di natura diversa, volto a verificare che, oltre alla ritenuta compatibilità del progetto, ricorra comunque l’osservanza delle norme che, pur sempre nel segno della tutela e valorizzazione del territorio con riferimento ai profili paesistico-ambientali, fissano gli usi ammessi nella zona considerata e le prescrizioni tecniche inerenti la progettazione.
Ciò perché compito del p.t.p. è proprio quello di declinare tutela e valorizzazione degli elementi paesistico- ambientali presenti sul territorio con riferimento agli usi, attraverso cioè la delineazione d’una correlazione possibile fra le prime e i secondi; laddove invece la valutazione di compatibilità paesaggistica attiene piuttosto ad un giudizio tendenzialmente assoluto, che ha cioè ha a suo parametro essenziale la possibilità stessa di inserire l’intervento progettato “nel suo complesso” (co. 8 cit.) all’interno del territorio assoggettato a vincolo, cioè, in altri termini, di intravederne la possibilità di inserimento senza pregiudizio alcuno per i beni paesaggistici e ambientali tutelati.
Proprio questa possibilità, nella fattispecie, è stata invece esclusa, in modo radicale, dall’amministrazione.
Il precedente giurisprudenziale richiamato dal ricorrente (TAR Campania, Napoli, VII, n. 17333/2010) è inconferente poiché attiene alla diversa fattispecie dell’annullamento (disposto dalla Soprintendenza in punto di legittimità) d’un precedente nulla osta ambientale; in sentenza, il TAR, sostanzialmente, ammette il ricorso, da parte dell’amministrazione statale, alle disposizioni normative del piano territoriale paesistico-ambientale per pervenire all’annullamento dell’autorizzazione ambientale rilasciata.
Come rilevato dalla difesa della Regione Basilicata, nella fattispecie, come si evince chiaramente dal tenore del D.M. 18/04/1985 istitutivo del vincolo, si verte in ipotesi di immobili e aree dichiarati di notevole interesse pubblico ai sensi dell’art. 1 della legge n. 1497 del 1939 (corrispondente all’attuale articolo 136 del codice del paesaggio); di conseguenza, l’intervento è compreso fra quelli di cui alle lettere b), c) e d) del comma 1 dell’art. 143 del codice medesimo.
Il sistema di cui al comma 5 del citato articolo 146, incentrato sul parere obbligatorio ma non vincolante del Soprintendente, affinché diventi operativo, presuppone infatti l’avvenuta adozione, da parte delle regioni, dei piani paesaggistici disciplinati dagli articoli 135 e 143 che, non a caso, richiedono che l’elaborazione del piano avvenga congiuntamente tra Ministero e regioni proprio con riguardo, fra gli altri, ai beni dichiarati di notevole interesse pubblico ai sensi del predetto art. 136.
Allo stato, come precisato dalla difesa regionale, la Regione ha solo stipulato l’intesa col Ministero ed è in procinto di elaborare in modo congiunto il nuovo piano paesaggistico, sulla base del quale verrà effettuata la “ricognizione degli immobili e delle aree dichiarati di notevole interesse pubblico ai sensi dell’art. 136, loro delimitazione e rappresentazione in scala idonea alla identificazione, nonché determinazione delle specifiche prescrizioni d’uso….” (commento tratto da www.ipsoa.it - Sentenza TAR Basilicata, sentenza 21.03.2012 n. 127 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gare d'appalto: allegazione copia carta d'identità.
Per giurisprudenza consolidata, le dichiarazioni sostitutive di certificazione richiedono l'allegazione della copia del documento di identità, quale elemento essenziale per il perfezionamento della dichiarazione medesima, consentendo di comprovare non solo le generalità del dichiarante, ma anche la riferibilità della dichiarazione stessa al soggetto dichiarante (vedi ex multis C.d.S. n. 478/2011 e n. 3690/2009).
E' quanto ha ribadito il Consiglio di Stato, Sez. III, nella sentenza 16.03.2012 n. 1524 (commento tratto da www.giurdanella.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gare pubbliche e requisiti di moralità dei partecipanti. Falso innocuo? Negli appalti pubblici non esiste.
La dichiarazione attinente alla titolarità dei requisiti di moralità professionale di cui all'articolo 38 del codice dei contratti pubblici non può essere aggirata invocando il "falso innocuo". Di talché alle asserzioni false o reticenti deve corrispondere la sanzione dell'esclusione dalla gara, così sgombrando ogni pericolo per la lesione dei principi di buon andamento e di proporzionalità dell'agire amministrativo ai quali si ispira la procedura ad evidenza pubblica.
Lo ha stabilito la sentenza 16.03.2012 n. 1471, emessa dalla III Sez. del Consiglio di Stato.
Il caso sottoposto all'attenzione del Consesso ha visto l'esclusione di una società da una gara per l'affidamento dei servizi di pulizia ed accessori presso una ASL piemontese.
La società, infatti, non ha dichiarato in modo puntuale i requisiti di moralità professionale di un suo rappresentante legale, in contrasto a quanto imposto dall'art. 38 del codice dei contratti pubblici (decreto legislativo n. 163 del 2006).
La società ha, quindi, deciso di rivolgersi al giudice amministrativo al fine di contestare la decisione assunta dalla stazione appaltante.
Il tribunale amministrativo per la regione Piemonte, tuttavia, ha rigettato le censure tese a smentire il ruolo di rappresentante del soggetto cui le dichiarazioni dovevano riferirsi, e, per l'effetto, ha confermato la legittimità della decisione amministrativa.
La questione è stata riproposta al Consiglio di Stato.
Tra i vari motivi di ricorso la società ha tacciato di erroneità la sentenza nella parte in cui il Tar Piemonte non ha rilevato gli estremi per applicare al caso di specie la teoria, frutto dell'esperienza penalistica, del “falso innocuo”.
Più precisamente, secondo la tesi citata dovrebbe essere impedita la partecipazione alle gare solo allorquando in capo all'operatore economico difettino in concreto le condizioni previste per la partecipazione, a nulla rilevando le dichiarazioni, pur inveritiere o incomplete, che non siano idonee ad alterare gli esisti della gara.
In tale ordine di idee si collocherebbe anche la direttiva 2004/18/CE laddove fa conseguire l'esclusione della gara alle sole ipotesi di grave colpevolezza e di false dichiarazioni nel fornire informazioni, non sussumibili qualora il concorrente non consegua alcun vantaggio in termini di competitività, essendo in possesso di tutti gli altri requisiti previsti.
La tesi richiamata non ha convinto il Consiglio di Stato, il quale ha manifestato adesione all'orientamento che, invece, milita per la non sussumibilità del falso innocuo nell'ambito delle procedure ad evidenza pubblica.
Oltre a segnare con maggior precisione i tratti somatici del falso innocuo, così come ricostruiti dalla giurisprudenza nel corso degli anni, i giudici di Palazzo Spada hanno sottolineato come il falso possa dirsi innocuo solo qualora non incida, neppure minimamente, sugli interessi tutelati dall'ordinamento.
E hanno, altresì, posto in evidenza come proprio nelle procedure ad evidenza pubblica la completezza delle dichiarazioni sia, già di per sé, un “valore da perseguire”, sia alla luce dei principi di buon andamento dell’amministrazione e di proporzionalità, sia per la necessità di raggiungere una celere decisione in ordine all’ammissione dell’operatore economico alla gara.
Ancora, si osserva come una dichiarazione inaffidabile (perché falsa o incompleta) sia “già di per sé stessa lesiva degli interessi considerati dalla norma a prescindere dal fatto che l’impresa meriti ‘sostanzialmente’ di partecipare alla gara”.
La ratio sottesa a tale secondo intendimento è data dalla necessità tipica del diritto degli appalti (come in altri casi, il Consiglio di Stato, fra tutti, richiama Cass. S.U. penali 27.11.2008 n. 6591 in materia patrocinio a spese dello Stato) di poter fare “affidamento su una dichiarazione idonea a far assumere tempestivamente alla stazione appaltante le necessarie determinazioni in ordine all’ammissione dell’operatore economico alla gara o alla sua esclusione”.
Concludendo, la sentenza in commento merita apprezzamento perché cristallizza il principio in base al quale, attesa l'imprescindibilità della dichiarazione ai sensi dell'articolo 38 del codice degli appalti ai fini della legittima ammissione alla gara, la sua difformità dal vero o la sua incompletezza non possono essere “sanate” per il tramite del falso innocuo.
L'effetto, pertanto, sarà quello di ampliare il novero, già severo, delle cause implicanti l'esclusione dalle gare ad evidenza pubblica (commento tratto da www.ipsoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALa differenza tra i vincoli espropriativi e quelli conformativi sta nel fatto che, mentre per i primi è necessario che la previsione di P.R.G. determini una riserva alla mano pubblica della facoltà di realizzare determinate strutture (pubbliche, per l’appunto), i secondi lasciano il proprietario nella condizione di gestire la eventuale trasformazione dell'immobile, non intaccando il valore di scambio del bene in quanto non privano il suo titolare della facoltà di godimento e di utilizzazione della res.
In linea generale, dunque, i vincoli di piano regolatore, ai quali si applica il principio della decadenza quinquennale, sono soltanto quelli che incidono su beni determinati, assoggettandoli a vincoli preordinati all'espropriazione o a vincoli che ne comportano l'inedificabilità e dunque svuotano il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero diminuendone in modo significativo il valore di scambio.
E' da escludersi che la destinazione dell’area ad edilizia scolastica possa configurare un vincolo preordinato all’esproprio, poiché, non sussistendo alcun impedimento a che alle necessità scolastiche si provveda mediante soluzioni locative, anziché proprietarie, il vincolo può ricomprendersi tra quelli che, secondo la decisione della Corte cost. n. 179 del 1999, "importano una destinazione (anche di contenuto specifico) realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata". In altri termini, dunque, la destinazione scolastica comporta l’attribuzione al terreno di una vocazione edificatoria, sia pure specifica, in quanto realizzabile anche da privati ed inoltre la vocazione edificatoria del terreno va confermata anche in relazione al fatto che l'edilizia scolastica elementare costituisce opera di urbanizzazione secondaria (art. 1, lett. c, in relazione all'art. 4 della l. n. 847 del 1964), la cui costruzione si deve considerare funzionale ad una destinazione edificatoria della zona.

Si deve premettere, in linea generale, che la differenza tra i vincoli espropriativi e quelli conformativi sta nel fatto che, mentre per i primi è necessario che la previsione di P.R.G. determini una riserva alla mano pubblica della facoltà di realizzare determinate strutture (pubbliche, per l’appunto), i secondi lasciano il proprietario nella condizione di gestire la eventuale trasformazione dell'immobile, non intaccando il valore di scambio del bene in quanto non privano il suo titolare della facoltà di godimento e di utilizzazione della res.
In linea generale, dunque, i vincoli di piano regolatore, ai quali si applica il principio della decadenza quinquennale, sono soltanto quelli che incidono su beni determinati, assoggettandoli a vincoli preordinati all'espropriazione o a vincoli che ne comportano l'inedificabilità e dunque svuotano il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero diminuendone in modo significativo il valore di scambio.
Tanto premesso osserva il collegio che secondo la prevalente giurisprudenza, anche della Corte di Cassazione, “è da escludersi che la destinazione dell’area ad edilizia scolastica possa configurare un vincolo preordinato all’esproprio, poiché, non sussistendo alcun impedimento a che alle necessità scolastiche si provveda mediante soluzioni locative, anziché proprietarie, il vincolo può ricomprendersi tra quelli che, secondo la decisione della Corte cost. n. 179 del 1999, "importano una destinazione (anche di contenuto specifico) realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata".
In altri termini, dunque, la destinazione scolastica comporta l’attribuzione al terreno di una vocazione edificatoria, sia pure specifica, in quanto realizzabile anche da privati ed inoltre la vocazione edificatoria del terreno va confermata anche in relazione al fatto che l'edilizia scolastica elementare costituisce opera di urbanizzazione secondaria (art. 1, lett. c, in relazione all'art. 4 della l. n. 847 del 1964), la cui costruzione si deve considerare funzionale ad una destinazione edificatoria della zona
” (cfr. Cass. civile, sez. I, 21.03.2000, n. 3298; Cass. civile, sez. I, 21.02.2003, n. 2641; si veda altresì, in questa stessa direzione, TAR Puglia Bari, sez. III, 26.02.2009, n. 403) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 14.03.2012 n. 504 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Non è dovuta la comunicazione di avvio del procedimento, ex art. 7, l. n. 241 del 1990, rispetto ad una ordinanza avente carattere contingibile ed urgente ai sensi dell'art. 54, d.lgs. n. 267 del 2000. In tal caso, infatti, l'urgenza di provvedere è connaturata alla funzione stessa del provvedimento adottato.
Il potere di adozione di un'ordinanza contingibile ed urgente di cui all'art. 54, d.lgs. n. 267 del 2000 presuppone la necessità di provvedere in via d'urgenza con strumenti extra ordinem per far fronte a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile di pericolo attuale ed imminente per l'incolumità pubblica, cui non si può provvedere con gli strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento.

Osserva il Collegio che, come ritiene la costante giurisprudenza, non è dovuta la comunicazione di avvio del procedimento, ex art. 7, l. n. 241 del 1990, rispetto ad una ordinanza avente carattere contingibile ed urgente ai sensi dell'art. 54, d.lgs. n. 267 del 2000 (cfr., da ultimo, TAR Lazio Roma, sez. II, 14.05.2010 , n. 11327). In tal caso, infatti, l'urgenza di provvedere è connaturata alla funzione stessa del provvedimento adottato (cfr. TAR Piemonte Torino, sez. II, 18.02.2010, n. 965).
...
Come già statuito nella sentenza n. 3018 del 2010, risulta fondato l’ulteriore motivo di ricorso con cui parte ricorrente ha dedotto violazione dell’art. 54 del testo unico degli enti locali, con specifico riguardo al rilevato difetto delle stesse condizioni legittimanti il ricorso all’adozione di ordinanze con tingibili ed urgenti. L’ampiezza dei lavori prescritti in uno con la necessità degli stessi conseguente sostanzialmente alla vetustà dell’opera confermano, in fatto, l’illegittimità del ricorso allo strumento eccezionale dell’ordinanza contingibile ed urgente.
Ed invero, il ricorso allo strumento dell’ordinanza extra ordinem appare fondatamente un rimedio (tuttavia illegittimo) per fare fronte ad una situazione di fatto che negli anni avrebbe necessitato di tempestivi interventi ordinari. Come questo Tribunale ha osservato, infatti, il potere di adozione di un'ordinanza contingibile ed urgente di cui all'art. 54, d.lgs. n. 267 del 2000 presuppone la necessità di provvedere in via d'urgenza con strumenti extra ordinem per far fronte a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile di pericolo attuale ed imminente per l'incolumità pubblica, cui non si può provvedere con gli strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento (cfr. TAR Calabria Catanzaro, sez. II, 09.09.2010, n. 2556) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 14.03.2012 n. 264 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il trasferimento della proprietà delle opere di urbanizzazione in capo al comune costituisce un'obbligazione ex lege -inderogabile e indisponibile per le parti della convenzione di lottizzazione in base alla quale le opere stesse sono state realizzate-, ex art. 28 della L. n. 1150 del 17.08.1942, con la conseguenza che le parti non potrebbero legittimamente accordarsi sul loro mantenimento in capo al lottizzante, essendo tali opere strumentali allo svolgimento di pubblici servizi fisiologicamente rientranti nelle competenze dell'autorità amministrativa (mentre la gestione degli stessi per mezzo di privati sarebbe teoricamente concepibile solo previo atto di concessione di pubblico servizio, contenente le regole da osservare per garantire l'ottimale soddisfacimento del servizio offerto ai cittadini); ove, infatti, si ammettesse la possibilità di mantenere la gestione delle opere di urbanizzazione primaria in capo al lottizzante, i cittadini interessati (che hanno diritto di pretendere servizi di qualità, che solo l'ente pubblico può garantire, non essendo la sua azione finalizzata ad ottenere un utile d'impresa) resterebbero sostanzialmente "in balia" del privato gestore, il quale avrebbe tutto l'interesse a contenere i costi di manutenzione, con presumibile decadimento della qualità dei servizi offerti.
L'acquisizione delle aree ove insistono le opere di urbanizzazione da parte del Comune, insomma, costituisce un obbligo puntualmente enunciato dall'art. 28 della L. 1150 del 1942, ove al quinto comma si prevede -nel testo conseguente alle sostituzioni disposte per effetto dell'art. 8 della L. 847 del 1967- che la convenzione di lottizzazione debba contemplare, comunque, "la cessione gratuita entro termini prestabiliti delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, precisate dall'articolo 4 della legge 29.09.1964, n. 847".
Il legislatore, nel disciplinare le opere di urbanizzazione, ha confermato la possibilità della realizzazione diretta c.d. a scomputo dal contributo di concessione ma non ha lasciato alcun dubbio in merito al passaggio della proprietà delle stesse, una volta realizzate, in capo all'ente pubblico territoriale di riferimento, prevedendone la confluenza nel patrimonio indisponibile (art. 16, comma 2, d.lgs. n. 380 del 2001); ciò ad ulteriore riprova che si tratti di beni destinati alla fruizione pubblica. In altri termini per le dette opere di urbanizzazione si registra una presunzione iuris et de iure di proprietà pubblica, con la conseguenza che per tali interventi, a seguito dell'entrata in vigore del T.U. edilizia, non può ipotizzarsi la permanenza in capo ai privati della relativa proprietà.
E’ pacifico, in conclusione, che gli oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria connessi alle opere di urbanizzazione ricadono interamente sull'ente locale, una volta acquisite al suo patrimonio per cessione (previo collaudo sulla loro regolare esecuzione) da parte del lottizzante.

Ciò premesso, con riferimento ad una fattispecie analoga a quella in esame, questo Tribunale si è già pronunciato, tra l’altro, con la sentenza n. 3018 del 2010, stabilendo che “il trasferimento della proprietà delle opere di urbanizzazione in capo al comune costituisce un'obbligazione ex lege -inderogabile e indisponibile per le parti della convenzione di lottizzazione in base alla quale le opere stesse sono state realizzate-, ex art. 28 della L. n. 1150 del 17.08.1942, con la conseguenza che le parti non potrebbero legittimamente accordarsi sul loro mantenimento in capo al lottizzante, essendo tali opere strumentali allo svolgimento di pubblici servizi fisiologicamente rientranti nelle competenze dell'autorità amministrativa (mentre la gestione degli stessi per mezzo di privati sarebbe teoricamente concepibile solo previo atto di concessione di pubblico servizio, contenente le regole da osservare per garantire l'ottimale soddisfacimento del servizio offerto ai cittadini); ove, infatti, si ammettesse la possibilità di mantenere la gestione delle opere di urbanizzazione primaria in capo al lottizzante, i cittadini interessati (che hanno diritto di pretendere servizi di qualità, che solo l'ente pubblico può garantire, non essendo la sua azione finalizzata ad ottenere un utile d'impresa) resterebbero sostanzialmente "in balia" del privato gestore, il quale avrebbe tutto l'interesse a contenere i costi di manutenzione, con presumibile decadimento della qualità dei servizi offerti (cfr. TAR Sardegna Cagliari, sez. II, 19.02.2010, n. 187)”.
L'acquisizione delle aree ove insistono le opere di urbanizzazione da parte del Comune, insomma, costituisce un obbligo puntualmente enunciato dall'art. 28 della L. 1150 del 1942, ove al quinto comma si prevede -nel testo conseguente alle sostituzioni disposte per effetto dell'art. 8 della L. 847 del 1967- che la convenzione di lottizzazione debba contemplare, comunque, "la cessione gratuita entro termini prestabiliti delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, precisate dall'articolo 4 della legge 29.09.1964, n. 847".
Il legislatore, nel disciplinare le opere di urbanizzazione, ha confermato la possibilità della realizzazione diretta c.d. a scomputo dal contributo di concessione ma non ha lasciato alcun dubbio in merito al passaggio della proprietà delle stesse, una volta realizzate, in capo all'ente pubblico territoriale di riferimento, prevedendone la confluenza nel patrimonio indisponibile (art. 16, comma 2, d.lgs. n. 380 del 2001); ciò ad ulteriore riprova che si tratti di beni destinati alla fruizione pubblica. In altri termini per le dette opere di urbanizzazione si registra una presunzione iuris et de iure di proprietà pubblica, con la conseguenza che per tali interventi, a seguito dell'entrata in vigore del T.U. edilizia, non può ipotizzarsi la permanenza in capo ai privati della relativa proprietà (cfr. TAR Puglia Bari, sez. II, 01.07.2010, n. 2815).
E’ pacifico, in conclusione, che gli oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria connessi alle opere di urbanizzazione ricadono interamente sull'ente locale, una volta acquisite al suo patrimonio per cessione (previo collaudo sulla loro regolare esecuzione) da parte del lottizzante (cfr. TAR Sardegna Cagliari, sez. II, 26.01.2009 , n. 89) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 14.03.2012 n. 264 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: In attesa dell’adozione del decreto ministeriale di cui al comma 2 dell’art. 9 del decreto-legge n. 1 del 2012, si deve comunque farsi luogo alla liquidazione giudiziale delle spese di lite, comprensive degli onorari di difesa, qualora l’organo giudicante non ritenga di procedere alla loro compensazione ai sensi dell’art. 26 c.p.a., che a sua volta rinvia agli artt. 91, 92, 93, 94, 96 e 97 c.p.c..
In particolare, ritiene il Collegio che –fintanto che non saranno stabiliti i parametri in forza dei quali determinare il compenso professionale– possano continuare ad applicarsi, all’attività processuale svolta, le tariffe professionali precedentemente in vigore (D.M. n. 127 del 2004). Ciò perché il giudice, nel liquidare le spese di lite e, in particolare, gli onorari di difesa, deve procedere, in mancanza di qualsivoglia parametro normativo, in via equitativa: detta equità può ben essere esercitata tramite il riferimento alle precedenti tariffe professionali.
Ne consegue che la liquidazione degli onorari di difesa e dei diritti e il rimborso delle spese sarà effettuato impiegando, quale mero parametro, il D.M. n. 127 del 2004, contenente le tariffe precedentemente in vigore, ancorché esso non sia più obbligatorio perché abrogato dal decreto legge n. 1 del 2012.

...
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
In proposito, il Collegio osserva quanto segue.
Come noto, prima dell’entrata in vigore del decreto-legge n. 1 del 2012, gli “onorari di difesa” venivano liquidati dall’organo giudicante facendo riferimento alle tariffe adottate mediante deliberazione del Consiglio nazionale forense, approvata dal Ministro della Giustizia. L’art. 9, comma 1, del suddetto decreto-legge ha abrogato “le tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico”. Tuttavia, il medesimo articolo, al comma 2, ha previsto che “nel caso di liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, il compenso del professionista è determinato con riferimento a parametri stabiliti con decreto del ministro vigilante". Il suddetto decreto non è ancora stato adottato.
Tanto premesso, ritiene questo Tribunale che, in attesa dell’adozione del decreto ministeriale di cui al comma 2 dell’art. 9 del decreto-legge n. 1 del 2012, debba comunque farsi luogo alla liquidazione giudiziale delle spese di lite, comprensive degli onorari di difesa, qualora l’organo giudicante non ritenga di procedere alla loro compensazione ai sensi dell’art. 26 c.p.a., che a sua volta rinvia agli artt. 91, 92, 93, 94, 96 e 97 c.p.c..
In particolare, ritiene il Collegio che –fintanto che non saranno stabiliti i parametri in forza dei quali determinare il compenso professionale– possano continuare ad applicarsi, all’attività processuale svolta, le tariffe professionali precedentemente in vigore (D.M. n. 127 del 2004). Ciò perché il giudice, nel liquidare le spese di lite e, in particolare, gli onorari di difesa, deve procedere, in mancanza di qualsivoglia parametro normativo, in via equitativa: detta equità può ben essere esercitata tramite il riferimento alle precedenti tariffe professionali.
Ne consegue che la liquidazione degli onorari di difesa e dei diritti e il rimborso delle spese sarà effettuato impiegando, quale mero parametro, il D.M. n. 127 del 2004, contenente le tariffe precedentemente in vigore, ancorché esso non sia più obbligatorio perché abrogato dal decreto legge n. 1 del 2012 (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 14.03.2012 n. 262 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La ristrutturazione edilizia con demolizione e fedele ricostruzione presuppone una volumetria che si suppone già dotata delle necessarie opere di urbanizzazione.
Inoltre, il contributo per oneri di urbanizzazione costituisce un corrispettivo di diritto pubblico previsto dal legislatore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione, ovvero un contributo speciale che ha la propria causa giuridica nelle maggiori spese che l’amministrazione pubblica deve accollarsi in dipendenza della costruzione dell’edificio e del connesso utilizzo, da parte dei detentori del bene, dei servizi e degli spazi circostanti.
Ne deriva che la cubatura preesistente va esentata dal pagamento di esso qualora, come nel caso in esame, non si sia verificato un cambiamento di destinazione d’uso o il frazionamento dell’originaria struttura in più appartamenti, e cioè qualora il manufatto realizzato non renda necessarie nuove opere di urbanizzazione o un più intenso utilizzo delle urbanizzazioni esistenti.

Il permesso in sanatoria rilasciato dal Comune di Portoferraio assume ad oggetto la fedele ricostruzione del preesistente manufatto (documento n. 8 depositato in giudizio dal Comune): gli atti impugnati fanno infatti riferimento alla volumetria corrispondente a quella demolita (mc. 291,30) e non anche alla variante avente ad oggetto l’ampliamento del piano terra (il cui iter non risulta concluso).
Pertanto, non rilevando un aumento di superficie, del volume o del numero delle unità abitative, o una modifica di destinazione d’uso, l’intervento edilizio in questione non produce un incremento del carico urbanistico.
Invero, la ristrutturazione edilizia con demolizione e fedele ricostruzione presuppone una volumetria che si suppone già dotata delle necessarie opere di urbanizzazione (TAR Lombardia, Milano, II, 23.07.2009, n. 4455).
Inoltre, il contributo per oneri di urbanizzazione costituisce un corrispettivo di diritto pubblico previsto dal legislatore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione, ovvero un contributo speciale che ha la propria causa giuridica nelle maggiori spese che l’amministrazione pubblica deve accollarsi in dipendenza della costruzione dell’edificio e del connesso utilizzo, da parte dei detentori del bene, dei servizi e degli spazi circostanti.
Ne deriva che la cubatura preesistente va esentata dal pagamento di esso qualora, come nel caso in esame, non si sia verificato un cambiamento di destinazione d’uso o il frazionamento dell’originaria struttura in più appartamenti, e cioè qualora il manufatto realizzato non renda necessarie nuove opere di urbanizzazione o un più intenso utilizzo delle urbanizzazioni esistenti (TAR Trentino Alto Adige, Bolzano, 06.03.2000, n. 59) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 12.03.2012 n. 496 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 15 secondo comma, del T.U. 06.06.2001 n. 380 (che peraltro riprende l’art. 4 della legge 28.01.1977, n. 10), nel disporre tra l’altro, che decorsi i termini di durata del permesso di costruire “il permesso decade di diritto per la parte non eseguita” espressamente prevede che, in via di eccezione, i termini di durata (dell’allora licenza ed oggi) del permesso di costruire “possono essere prorogati ... per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso ...”.
In base a tale norme dunque non può essere opposto il decorso del termine decadenziale a colui che non poteva comunque continuare l’edificazione per un fatto sopravvenuto estraneo alla sua volontà.
Se ordinariamente la decadenza disciplinata dall’art. 15 d.P.R. n. 380 del 2001 consegue all’inerzia dell’interessato questa deve essere esclusa se venga rappresentata la sussistenza di fatti sopravvenuti che possono legittimare la proroga del termine di inizio o completamento dei lavori ai sensi dell’art. 15, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001, e queste siano oggetto di valutazione e verifica in sede amministrativa.
La giurisprudenza ha concordemente ritenuto che è illegittimo il provvedimento dell’Amministrazione comunale di declaratoria di decadenza della concessione edilizia allorché sussistano impedimenti assoluti all’esecuzione dei lavori segnalati o comunque conosciuti all’Amministrazione e l’impedimento non sia riferibile alla condotta del concessionario, per cui è tale da costituire quella causa di forza maggiore che sospende il decorso dei termini previsti dall’art. 4, comma 4, l. 28.01.1977 n. 10.
Posto quindi che la scadenza del termine apposto all’autorizzazione edilizia per l’avvio dei lavori non determina, automaticamente, la cessazione di effetti del provvedimento, ma costituisce soltanto il presupposto per l’accertamento della eventuale decadenza dall’autorizzazione edilizia, le ipotesi di sospensione o proroga connessi a “factum principis”, forza maggiore o ad altre cause non riferibili alla condotta del titolare della concessione quando assolutamente ostative dei lavori, producono l’effetto di prolungare automaticamente il tempo massimo stabilito per l’esecuzione delle opere.
Nei casi in cui l’amministrazione comunale <<sia a conoscenza di eventi che hanno impedito al titolare della concessione edilizia di ultimare i lavori>>, essa <<non può adottare un provvedimento di decadenza della concessione, trovando applicazione, anche senza richiesta del concessionario, la proroga del termine per la ultimazione dei lavori per fatti estranei alla volontà del concessionario che siano sopravvenuti a ritardare i lavori durante la loro esecuzione.

... deve tuttavia evidenziarsi come la giurisprudenza amministrativa abbia ritenuto che, <<se, come è noto, secondo la regola generale i termini di decadenza decorrono per il solo fatto materiale del trascorrere del tempo, cioè indipendentemente dalle situazioni soggettive ed oggettive verificatesi “medio tempore” e dalle quali sia dipeso l’inutile decorso del termine, devono esser fatti salvi i casi e le eccezioni tassativamente previste dalla legge.
Nel caso di specie, proprio la norma posta a base del provvedimento, l’art. 15 secondo comma, del T.U. 06.06.2001 n. 380 (che peraltro riprende l’art. 4 della legge 28.01.1977, n. 10), nel disporre tra l’altro, che decorsi i termini di durata del permesso di costruire “il permesso decade di diritto per la parte non eseguita” espressamente prevede che, in via di eccezione, i termini di durata (dell’allora licenza ed oggi) del permesso di costruire “possono essere prorogati ... per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso ...”.
In base a tale norme dunque non può essere opposto il decorso del termine decadenziale a colui che non poteva comunque continuare l’edificazione per un fatto sopravvenuto estraneo alla sua volontà.
Se ordinariamente la decadenza disciplinata dall’art. 15 d.P.R. n. 380 del 2001 consegue all’inerzia dell’interessato (arg. ex Consiglio Stato, IV, 08.02.2008, n. 434) questa deve essere esclusa se venga rappresentata la sussistenza di fatti sopravvenuti che possono legittimare la proroga del termine di inizio o completamento dei lavori ai sensi dell’art. 15, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001, e queste siano oggetto di valutazione e verifica in sede amministrativa (cfr. Consiglio Stato, IV, 10.08.2007, n. 4423).
[…]
La giurisprudenza ha concordemente ritenuto che è illegittimo il provvedimento dell’Amministrazione comunale di declaratoria di decadenza della concessione edilizia allorché sussistano impedimenti assoluti all’esecuzione dei lavori segnalati o comunque conosciuti all’Amministrazione e l’impedimento non sia riferibile alla condotta del concessionario, per cui è tale da costituire quella causa di forza maggiore che sospende il decorso dei termini previsti dall’art. 4, comma 4, l. 28.01.1977 n. 10 (cfr. TAR Lazio Roma, II, 15.04.2004, n. 3297; Consiglio Stato, V, 29.01.2003, n. 453; Consiglio Stato, V, 13.05.1996, n. 535; TAR Liguria Genova, I, 22.06.2007, n. 1200).
Posto quindi che la scadenza del termine apposto all’autorizzazione edilizia per l’avvio dei lavori non determina, automaticamente, la cessazione di effetti del provvedimento, ma costituisce soltanto il presupposto per l’accertamento della eventuale decadenza dall’autorizzazione edilizia (cfr. Consiglio Stato, V, 18.09.2008, n. 4498), la Sezione non può che ribadire il proprio precedente orientamento (ricordato anche dai ricorrenti) per cui le ipotesi di sospensione o proroga connessi a “factum principis”, forza maggiore o ad altre cause non riferibili alla condotta del titolare della concessione quando assolutamente ostative dei lavori, producono l’effetto di prolungare automaticamente il tempo massimo stabilito per l’esecuzione delle opere (cfr. TAR Lazio Roma, II, 24.11.2004, n. 13996)
>> (v. TAR Lazio Roma, II, 07.06.2010, n. 15939).
Nel caso di specie, dunque, sinteticamente ricordata la cronologia degli eventi e degli atti che portavano infine alla stipula del contratto (08.11.1999: rilascio c.e. n. 459; 28.12.1999: ammissione del progetto al finanziamento da parte del C.E.R. - Comitato per l’Edilizia Residenziale; 08.06.2000: l’I.A.C.P. rilevava che il finanziamento era erroneamente concesso per lavori di recupero e non, invece, per la realizzazione ex novo della struttura; 26.06.2000: la Comunità Airone chiedeva di rettificare il provvedimento di finanziamento; 08.11.2000: decreto di correzione da parte del C.E.R.; 05.12.2000: comunicazione al Comune che i lavori sarebbero iniziati il 06.12.2000; 03.12.2002: non avendo l’IACP ancora espletato la gara, nuova richiesta di proroga da parte della Comunità; 28.01.2003: nuovo titolo edilizio; 20.11.2003: stipula del contratto; 04.12.2003: comunicazione inizio lavori; 06.08.2004: emissione del provvedimento impugnato), non può che rilevarsi come i ritardi determinatisi nell’avvio dei lavori non fossero in alcun modo dipesi dall’inerzia della Comunità Airone ma, piuttosto, dalle obiettive difficoltà dei sub-procedimenti svoltisi avanti al Ministero dei Lavori Pubblici e all’Istituto Autonomo Case Popolari.
In questa prospettiva, dunque, sulla base di quanto fin qui esposto, deve respingersi <<la tesi dell’amministrazione, che sostiene che la proroga avrebbe necessariamente dovuto essere richiesta dalla ricorrente prima della scadenza del termine in parola>>, dovendo invece evidenziarsi che nei casi in cui, come quello de quo, l’amministrazione medesima <<sia a conoscenza di eventi che hanno impedito al titolare della concessione edilizia di ultimare i lavori>>, essa <<non può adottare un provvedimento di decadenza della concessione, trovando applicazione, anche senza richiesta del concessionario, la proroga del termine per la ultimazione dei lavori per fatti estranei alla volontà del concessionario che siano sopravvenuti a ritardare i lavori durante la loro esecuzione>> (TAR Calabria Reggio Calabria, I, 20.04.2010, n. 420; TAR Sicilia, III, 19.02.2007, n. 560) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 12.03.2012 n. 490 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATARientrano nella nozione di ristrutturazione edilizia gli interventi di demolizione e ricostruzione dei manufatti solo se eseguiti nel rispetto della volumetria e della sagoma originarie, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica.
La ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione non può giammai implicare anche la traslazione dell'edificio, importando, in tal caso, una oggettiva trasformazione dell'esistente incompatibile con la nozione stessa di ristrutturazione.
Laddove il risultato finale dell'attività demolitoria-ricostruttiva non coincida, per volumetria o sagoma, con il manufatto preesistente, l'intervento deve essere qualificato come nuova costruzione.
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Il raffronto fra la situazione indicata quale esistente e l’intervento realizzato evidenzia oltre alla riduzione della volumetria e della SU, la traslazione dell’edificio di ca. 150 mt. e, dunque, impedisce di ricondurre l’intervento medesimo entro l’ipotesi della ristrutturazione, venendo piuttosto in rilievo quella della nuova costruzione.

Rileva il Tribunale che può pacificamente sostenersi:
- che rientrano nella nozione di ristrutturazione edilizia gli interventi di demolizione e ricostruzione dei manufatti solo se eseguiti nel rispetto della volumetria e della sagoma originarie, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica (Consiglio di Stato, IV, 10.08.2011 n. 4765);
- che la ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione non può giammai implicare anche la traslazione dell'edificio, importando, in tal caso, una oggettiva trasformazione dell'esistente incompatibile con la nozione stessa di ristrutturazione (cfr. TAR Abruzzo L'Aquila, sez. I, 14.12.2009, n. 548);
- che laddove il risultato finale dell'attività demolitoria-ricostruttiva non coincida, per volumetria o sagoma, con il manufatto preesistente, l'intervento deve essere qualificato come nuova costruzione (TAR Napoli, 14.11.2011 n. 5316).
Orbene, nel caso in esame, un semplice raffronto fra la situazione indicata quale esistente e l’intervento realizzato evidenzia oltre alla riduzione della volumetria e della SU, la traslazione dell’edificio di ca. 150 mt. e, dunque, impedisce di ricondurre l’intervento medesimo entro l’ipotesi della ristrutturazione, venendo piuttosto in rilievo quella della nuova costruzione (TAR Napoli, 26.10.2011 n. 4923; Cassazione civile, sez. un., 19.10.2011 n. 21578).
In ragione di ciò, il rilascio del permesso di costruire deve rispettare la disciplina urbanistica dell’area su cui insiste il fabbricato e le limitazioni da essa imposte agli interventi di nuova costruzione in zona di rispetto cimiteriale e in zona ad alto rischio idrogeologico (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 12.03.2012 n. 484 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALIE' legittima l’ordinanza adottata dal dirigente con cui il Comune ha ingiunto la rimozione e lo smaltimento di rifiuti speciali pericolosi abbandonati lungo la strada.
Invero, la previsione di cui al comma 3 dell’art. 192 del d.lgs. 03.04.2006, n. 152 (che prevede che il sindaco adotti l’ordinanza per le ipotesi di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti) va letta alla luce dell’evoluzione normativa in tema di distinzione fra le competenze della componente politico-amministrativa e quelle della componente gestionale, con la conseguenza che l’adozione dell’ordinanza in parola non è illegittima se adottata dal dirigente o funzionario addetto al relativo settore; il Collegio, invero, reputa tale interpretazione la più corretta, pur non ignorando che una parte della giurisprudenza amministrativa è di contrario avviso, ritenendo che la norma sopra richiamata abbia attribuito espressamente al sindaco il potere di emanare le ordinanze di rimozione dei rifiuti abbandonati.

Quanto al primo motivo di ricorso, si osserva che il lamentato profilo di incompetenza relativa deve ritenersi non sussistente poiché la previsione di cui al comma 3 dell’art. 192 del d.lgs. 03.04.2006, n. 152 (che prevede che il sindaco adotti l’ordinanza per le ipotesi di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti) va letta alla luce dell’evoluzione normativa in tema di distinzione fra le competenze della componente politico-amministrativa e quelle della componente gestionale, con la conseguenza che l’adozione dell’ordinanza in parola non è illegittima se adottata dal dirigente o funzionario addetto al relativo settore (TAR Sardegna Cagliari, sez. II, 04.11.2009, n. 1598; TAR Puglia Lecce, sez. I, 07.02.2008, n. 375); il Collegio, invero, reputa tale interpretazione la più corretta, pur non ignorando che una parte della giurisprudenza amministrativa è di contrario avviso, ritenendo che la norma sopra richiamata abbia attribuito espressamente al sindaco il potere di emanare le ordinanze di rimozione dei rifiuti abbandonati (TAR Toscana Firenze, sez. II, 13.10.2010, n. 6453; TAR Calabria Catanzaro, sez. I, 20.10.2009, n. 1118)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 08.03.2012 n. 461 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAQualora l’autore materiale della violazione non sia identificato, al fine di individuare il soggetto obbligato alla rimozione dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi, è necessario procedere al duplice accertamento della titolarità dell’area e dell’imputabilità della violazione per dolo o colpa al proprietario o a colui che risulta titolare di diritti reali o personali di godimento sulla stessa.
La responsabilità per colpa di cui all’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006 si ravvisa tutte le volte in cui vi sia un comportamento negligente (da verificare caso per caso) da parte del soggetto ritenuto responsabile, che può anche consistere in un fatto omissivo (per esempio, l’omessa predisposizione delle dovute cautele atte ad evitare il danno), con esclusione della responsabilità nei casi di mera “culpa in vigilando”. L’obbligo di diligenza, inoltre, deve essere valutato secondo criteri di ragionevole esigibilità, con la conseguenza che va esclusa la responsabilità per colpa anche quando sarebbe stato possibile evitare il fatto solo sopportando un sacrificio obiettivamente sproporzionato.
L'eventuale mancata recinzione del fondo non costituisce di per sé la prova della colpevolezza del proprietario, rappresentando una facoltà dello stesso e non un suo specifico obbligo.
Al dovere dei proprietari (o dei diversi utilizzatori) di effettuare i necessari interventi di manutenzione ordinaria dei suoli, si aggiunge quello dell’Amministrazione di vigilare ed accertare che detta manutenzione venga regolarmente svolta e ciò per evitare che il terreno che versi in uno stato di abbandono per incuria del titolare, diventi esso stesso potenzialmente capace di attrarre rifiuto.

Fondate, invece, sono le censure contenute nel secondo motivo di ricorso, con cui si lamenta l’assenza di una condotta dolosa o colposa in capo al Consorzio necessaria al fine di affermare una responsabilità di quest’ultimo ai sensi dell’art. 192, comma 3, del d.lgs. n. 152/2006.
Quest’ultima disposizione stabilisce, infatti, che “fatta salva l'applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 255 e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate”.
Pertanto, qualora l’autore materiale della violazione non sia identificato, al fine di individuare il soggetto obbligato alla rimozione dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi, è necessario procedere al duplice accertamento della titolarità dell’area e dell’imputabilità della violazione per dolo o colpa al proprietario o a colui che risulta titolare di diritti reali o personali di godimento sulla stessa.
In proposito la giurisprudenza ha chiarito che la responsabilità per colpa di cui all’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006 si ravvisa tutte le volte in cui vi sia un comportamento negligente (da verificare caso per caso) da parte del soggetto ritenuto responsabile, che può anche consistere in un fatto omissivo (per esempio, l’omessa predisposizione delle dovute cautele atte ad evitare il danno), con esclusione della responsabilità nei casi di mera “culpa in vigilando” (TAR Toscana Firenze, sez. II, 23.12.2010, n. 6862; TAR Campania Napoli, sez. V, 08.06.2010, n. 13059). L’obbligo di diligenza, inoltre, deve essere valutato secondo criteri di ragionevole esigibilità, con la conseguenza che va esclusa la responsabilità per colpa anche quando sarebbe stato possibile evitare il fatto solo sopportando un sacrificio obiettivamente sproporzionato.
Nel caso in esame, il Comune di Manduria attribuisce al Consorzio la responsabilità di non aver adottato le misure di prevenzione idonee ad evitare il danno, atteso che l’area non risulta recintata e che i cartelli indicanti il divieto di accesso alla stessa sarebbero stati divelti e mai sostituiti.
Ebbene, si osserva che l’idoneità delle cautele adottate dal soggetto proprietario o utilizzatore del bene va valutata in concreto, tenendo conto di una serie di circostanze obiettive; nel caso di specie la notevole estensione dell’area avrebbe richiesto un’opera di recinzione estesa per chilometri, costringendo il Consorzio a sopportare costi eccessivi, peraltro con scarsi risultati rispetto all’effetto contenitivo che essa avrebbe potuto produrre (non sempre, infatti, la presenza di una recinzione è di ostacolo allo sversamento di rifiuti nell’area considerata). A ciò aggiungasi che l'eventuale mancata recinzione del fondo non costituisce di per sé la prova della colpevolezza del proprietario, rappresentando una facoltà dello stesso e non un suo specifico obbligo (Consiglio Stato, sez. V, 19.03.2009, n. 1612).
Non è del tutto esatta, inoltre, l’affermazione contenuta nell’atto impugnato secondo cui non sarebbe stata apposta la segnaletica indicante il divieto di accesso e che quella originariamente esistente, ora divelta, non sarebbe stata sostituita.
In realtà, dai rilievi fotografici versati in atti risulta che all’ingresso della strada denominata “Pista del Sinni” vi è più di un segnale di divieto di accesso all’area, mentre quello in parte divelto è il segnale di divieto di transito. La difesa del Comune sostiene che, date le numerose intersezioni lungo la strada di servizio della condotta del “Sinni IV Tronco e Irrigazione Salento”, nel tratto compreso tra le strade provinciali SP 129 e SP 136 (cfr. relazione di servizio del Corpo di Polizia municipale del Comune di Manduria prot. N. 309/E del 06.09.2011), sarebbe stato opportuno apporre idonea segnaletica stradale indicante il divieto di accesso in prossimità di ogni intersezione.
Il Collegio reputa, invero, che l’obbligo di diligenza richiesto al Consorzio può ritenersi assolto anche con l’apposizione del divieto di accesso in corrispondenza delle intersezioni con le predette strade provinciali (che, verosimilmente, costituiscono quelle di maggiore percorrenza), anche in considerazione dello scarso effetto deterrente che l’apposizione di ulteriori indicazioni di divieto di accesso avrebbe sortito sugli autori materiali della violazione.
Né è esigibile la predisposizione di un servizio di vigilanza notturno e diurno al fine di assicurare l’osservanza del divieto di accesso comunque apposto dal Consorzio all’ingresso della strada di servizio, atteso che trattasi di un impegno che va ben oltre i canoni della diligenza media che l’ordinamento pone alla base della nozione di colpa generica richiamata dall’art. 192, comma 3, del d.lgs. n. 152/2006 (Consiglio Stato, sez. V, 08.03.2005, n. 935, richiamata dallo stesso ricorrente).
In ogni caso, anche a voler affermare una responsabilità del Consorzio per le non ottimali condizioni manutentive dell’area, non può negarsi che al dovere dei proprietari (o dei diversi utilizzatori) di effettuare i necessari interventi di manutenzione ordinaria dei suoli, si aggiunge quello dell’Amministrazione di vigilare ed accertare che detta manutenzione venga regolarmente svolta e ciò per evitare che il terreno che versi in uno stato di abbandono per incuria del titolare, diventi esso stesso potenzialmente capace di attrarre rifiuto
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 08.03.2012 n. 461 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ben sussiste in capo all’Amministrazione statale il potere di annullare l'autorizzazione paesaggistica ove questa sia carente della motivazione circa la compatibilità dell'intervento con il vincolo ambientale e (ove) non sussista neanche un rinvio per relazione a specifici atti istruttori. Ciò perché, costituendo il provvedimento autorizzatorio regionale (o, come nel caso di specie, subregionale) atto applicativo di gestione del vincolo e non modificativo di esso, la sua funzione è quella di verificare la compatibilità dell'opera con le esigenze di conservazione della bellezza naturale oggetto del vincolo, che ha assunto le caratteristiche ambientali come valori specifici della zona; ne consegue la necessità di una congrua motivazione con l'indicazione della ricostruzione dell'itinerario logico seguito, in ordine alle ragioni di compatibilità effettive con gli specifici valori paesistici dei luoghi, e ne deriva il corollario della legittimità del provvedimento dell’Autorità statale che annulli l'autorizzazione paesaggistica all’esito di una verifica della suddetta omissione, che si traduce nel vizio di eccesso di potere per difetto di motivazione, tipico vizio di legittimità dell'atto amministrativo, come tale pienamente verificabile in sede di controllo da parte dell'Autorità statale.
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Il termine di sessanta giorni stabilito dall’art. 82, comma 2, D.P.R. n. 616/1977, nel testo modificato dall’art. 1 D.L. n. 312/1985, convertito nella legge n. 431/1985, ancorché perentorio, attiene al solo esercizio del potere di annullamento dell’autorizzazione rilasciata dal Comune, sia perché è estranea alla previsione normativa l’ulteriore fase della comunicazione o notificazione, sia perché l’atto di annullamento non può essere considerato di natura recettizia.

La giurisprudenza ha ripetutamente sottolineato che ben sussiste in capo all’Amministrazione statale il potere di annullare l'autorizzazione paesaggistica ove questa sia carente della motivazione circa la compatibilità dell'intervento con il vincolo ambientale e (ove) non sussista neanche un rinvio per relazione a specifici atti istruttori. Ciò perché, costituendo il provvedimento autorizzatorio regionale (o, come nel caso di specie, subregionale) atto applicativo di gestione del vincolo e non modificativo di esso, la sua funzione è quella di verificare la compatibilità dell'opera con le esigenze di conservazione della bellezza naturale oggetto del vincolo, che ha assunto le caratteristiche ambientali come valori specifici della zona; ne consegue la necessità di una congrua motivazione con l'indicazione della ricostruzione dell'itinerario logico seguito, in ordine alle ragioni di compatibilità effettive con gli specifici valori paesistici dei luoghi, e ne deriva il corollario della legittimità del provvedimento dell’Autorità statale che annulli l'autorizzazione paesaggistica all’esito di una verifica della suddetta omissione, che si traduce nel vizio di eccesso di potere per difetto di motivazione, tipico vizio di legittimità dell'atto amministrativo, come tale pienamente verificabile in sede di controllo da parte dell'Autorità statale (cfr., ex multis, Tar Campania, VII, n. 16531 del 28.12.2007 e la giurisprudenza ivi riportata).
Pertanto, chiarito che l’Amministrazione statale nella fattispecie in esame ha agito nel pieno esercizio dei suoi poteri –con conseguente infondatezza del connesso profilo di doglianza di cui al primo motivo di ricorso– la stessa, a fronte della rilevata assoluta carenza motivazionale dell’autorizzazione paesaggistica comunale, non revocata in dubbio dal ricorrente, sufficiente a sorreggere adeguatamente il provvedimento impugnato –da cui l’inconferenza degli ulteriori profili di doglianza di cui sempre al primo motivo di ricorso– non poteva che annullare l’autorizzazione paesaggistica per difetto di motivazione.
Né può fondatamente sostenersi (secondo motivo di ricorso) che l’impugnato D.M. di annullamento sarebbe stato adottato senza osservare i limiti temporali fissati dall’art. 1 della legge n. 431/1985.
Infatti, come ribadito dalla giurisprudenza, secondo una linea interpretativa pienamente condivisa dal Collegio, il termine di sessanta giorni stabilito dall’art. 82, comma 2, D.P.R. n. 616/1977, nel testo modificato dall’art. 1 D.L. n. 312/1985, convertito nella legge n. 431/1985, ancorché perentorio, attiene al solo esercizio del potere di annullamento dell’autorizzazione rilasciata dal Comune, sia perché è estranea alla previsione normativa l’ulteriore fase della comunicazione o notificazione, sia perché l’atto di annullamento non può essere considerato di natura recettizia (per tutte, Cons. Stato, sez. VI, 29.01.2008, n. 224; 09.06.2009, n. 3557) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 08.03.2012 n. 440 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il restauro conservativo è costituito da interventi di recupero che conservano le preesistenti strutture, assicurando il rispetto di tipologia, struttura e conformazione del manufatto; esso presuppone concettualmente l’esistenza di un edificio sul quale intervenire, con la conseguenza che, qualora l’edificio stesso crolli, per fatto volontario o accidentale, la ricostruzione non può mai costituire restauro o risanamento conservativo ma, semmai, ristrutturazione edilizia.
Il restauro conservativo, cui si riferisce la d.i.a. presentata dalla ricorrente, è costituito da interventi di recupero che conservano le preesistenti strutture, assicurando il rispetto di tipologia, struttura e conformazione del manufatto; esso presuppone concettualmente l’esistenza di un edificio sul quale intervenire, con la conseguenza che, qualora l’edificio stesso crolli, per fatto volontario o accidentale, la ricostruzione non può mai costituire restauro o risanamento conservativo (Cass. pen., III, 13.10.1997, n. 10392; TAR Piemonte, I, 03.03.1988, n. 56; si veda inoltre la definizione contenuta nell’art. 3, comma 1, lett. c, del d.p.r. n. 380/2001 e nell’art. 37 dell’allegato A al regolamento urbanistico).
Ne deriva che il venir meno del fabbricato cui è riferito il progettato intervento di recupero determina l’estinzione dell’oggetto della d.i.a. e l’impossibilità di eseguire l’opera ivi prevista.
La ricostruzione dell’edificio crollato non potrebbe infatti ascriversi alla categoria del risanamento, ma, semmai, a quella della ristrutturazione edilizia, non prevista nella d.i.a. presentata dalla ricorrente e vietata dal regolamento urbanistico.
La sopravvenuta inefficacia del titolo edilizio comporta quindi che le macerie presenti in loco non possano essere utilizzate ai fini del risanamento (concettualmente impossibile), indipendentemente dalle cause, accidentali o meno, del crollo (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 08.03.2012 n. 437 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Lo strumento attuativo della lottizzazione è necessario allorquando si tratti di asservire per la prima volta un'area ad un nuovo insediamento, mediante la costruzione di uno o più fabbricati che, obiettivamente, esigano, per il loro armonico raccordo col preesistente aggregato abitativo, la realizzazione o il potenziamento delle opere e dei servizi necessari a soddisfare taluni bisogni della collettività, vale a dire la realizzazione o il potenziamento delle opere di urbanizzazione primaria o secondaria.
La fattispecie lottizzatoria, pertanto, se da un lato, esula sia dalle situazioni di zone completamente urbanizzate, sia dai casi di lotto intercluso, nel qual caso nessuno spazio potrebbe rinvenirsi per una ulteriore pianificazione, dall'altro si configura come necessaria non soltanto nelle ipotesi estreme di zone assolutamente inedificate, ma anche in quelle, intermedie, di zone parzialmente edificate ed urbanizzate, nelle quali si profili un'esigenza di raccordo col preesistente aggregato abitativo e di potenziamento delle opere di servizio, in quanto trattasi di aree ancora esposte al rischio di compromissione di valori urbanistici.
La lottizzazione può essere ritenuta necessaria anche con riguardo ad edifici singoli, tanto che per escluderne la necessità dev’essere comunque comprovata una situazione di pressoché completa edificazione della zona tale da rendere del tutto superfluo un piano attuativo.
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La concessione diretta può essere rilasciata solo ove esistano tutte le opere di urbanizzazione previste dalla legge e non sussistano esigenze di completamento o integrazione delle urbanizzazioni esistenti.
In particolare "il principio secondo cui va esclusa la necessità di strumenti attuativi per il rilascio di concessioni in zone già urbanizzate è applicabile solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non anche all'ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo "ex novo" un disegno urbanistico di completamento della zona, ad esempio debba essere completato il sistema della viabilità secondaria nella zona o quando debba essere integrata l'urbanizzazione esistente garantendo il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione".
Non è quindi sufficiente, ai fini di escludere la necessità del piano attuativo, l’esistenza di opere di urbanizzazione, in quanto il piano attuativo risponde anche alla necessità di garantire l’equilibrato sviluppo del territorio.
Ne consegue che l’esonero dal piano di lottizzazione previsto nel piano regolatore generale può avvenire riguardo ai casi assimilabili a quello del "lotto intercluso", nel quale nessuno spazio si rinviene per un’ulteriore pianificazione, mentre detto esonero è precluso in caso di zone solo parzialmente urbanizzate, esposte al rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle quali la pianificazione può ancora conseguire l’effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto.

Può osservarsi, in via di principio, che lo strumento attuativo della lottizzazione è necessario allorquando si tratti di asservire per la prima volta un'area ad un nuovo insediamento, mediante la costruzione di uno o più fabbricati che, obiettivamente, esigano, per il loro armonico raccordo col preesistente aggregato abitativo, la realizzazione o il potenziamento delle opere e dei servizi necessari a soddisfare taluni bisogni della collettività, vale a dire la realizzazione o il potenziamento delle opere di urbanizzazione primaria o secondaria.
La fattispecie lottizzatoria, pertanto, se da un lato, esula sia dalle situazioni di zone completamente urbanizzate, sia dai casi di lotto intercluso, nel qual caso nessuno spazio potrebbe rinvenirsi per una ulteriore pianificazione, dall'altro si configura come necessaria non soltanto nelle ipotesi estreme di zone assolutamente inedificate, ma –come nel caso di specie- anche in quelle, intermedie, di zone parzialmente edificate ed urbanizzate, nelle quali si profili un'esigenza di raccordo col preesistente aggregato abitativo e di potenziamento delle opere di servizio, in quanto trattasi di aree ancora esposte al rischio di compromissione di valori urbanistici.
In tal senso, per giurisprudenza pacifica, la lottizzazione può essere ritenuta necessaria anche con riguardo ad edifici singoli, tanto che per escluderne la necessità dev’essere comunque comprovata una situazione di pressoché completa edificazione della zona tale da rendere del tutto superfluo un piano attuativo.
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Anche recentemente questo Tribunale ha avuto modo di precisare che la concessione diretta può essere rilasciata solo ove esistano tutte le opere di urbanizzazione previste dalla legge e non sussistano esigenze di completamento o integrazione delle urbanizzazioni esistenti.
In particolare "il principio secondo cui va esclusa la necessità di strumenti attuativi per il rilascio di concessioni in zone già urbanizzate è applicabile solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non anche all'ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo "ex novo" un disegno urbanistico di completamento della zona, ad esempio debba essere completato il sistema della viabilità secondaria nella zona o quando debba essere integrata l'urbanizzazione esistente garantendo il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione" (TAR Sardegna, Sez. II, 10.02.2011 n. 117).
Non è quindi sufficiente, ai fini di escludere la necessità del piano attuativo, l’esistenza di opere di urbanizzazione, in quanto il piano attuativo risponde anche alla necessità di garantire l’equilibrato sviluppo del territorio.
Ne consegue che l’esonero dal piano di lottizzazione previsto nel piano regolatore generale può avvenire riguardo ai casi assimilabili a quello del "lotto intercluso", nel quale nessuno spazio si rinviene per un’ulteriore pianificazione, mentre detto esonero è precluso in caso di zone solo parzialmente urbanizzate, esposte al rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle quali la pianificazione può ancora conseguire l’effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto (cfr: Consiglio di Stato, sez. V, 01.12.2003, n. 7799)
(TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 07.03.2012 n. 248 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il termine di 10 giorni, stabilito dall'art. 10-bis, L. n. 241 del 1990 per la presentazione di osservazioni e/o documenti in seguito alla ricezione della comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento di un'istanza del privato non ha natura perentoria, dal momento che:
a) tale disposto normativo non qualifica espressamente come perentorio il citato termine di 10 giorni, né il Legislatore in tale circostanza ha usato il verbo dovere, ma si è limitato a prevedere "il diritto di presentare" osservazioni e/o documenti;
b) eccetto che per quanto riguarda i ricorsi amministrativi e per le domande di partecipazione ai procedimenti di evidenza pubblica ed ai concorsi per pubblico impiego, nell'ambito dei procedimenti amministrativi non vi sono termini decadenziali, come nel diritto processuale;
c) la comunicazione inviata ai sensi di tale norma non sospende i termini di conclusione del procedimento amministrativo, ma li interrompe, per cui in seguito alla presentazione delle osservazioni e/o documenti il termine ex art. 2 L. n. 241/1990 inizia a decorrere ex novo, per cui risulta illogico che con dalla comunicazione del preavviso di rigetto, istituita con lo scopo di favorire un esito del procedimento amministrativo positivo per l'istante, possa derivare contestualmente un termine decadenziale di 10 giorni per lo stesso istante ed il raddoppio dei termini per la conclusione del procedimento per l'Amministrazione;
d) lo scopo del Legislatore di deflazionare le controversie giurisdizionali non verrebbe più attuato, in quanto, impedendo all'istante la presentazione di osservazioni oltre il termine di 10 giorni, il medesimo istante farebbe valere tali osservazioni dinanzi alla competente Autorità Giudiziaria;
e) pertanto, l'Amministrazione fino all'emanazione del provvedimento conclusivo del procedimento ha il dovere di prendere in considerazione tutte le osservazioni ed i documenti presentati dall'istante.
Sennonché, la violazione dell'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990 non può ritenersi tale da produrre ex se l'illegittimità del provvedimento finale, dovendo la disposizione sul preavviso di rigetto, essere interpretata alla luce del successivo art. 21-octies, comma 2, che impone al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo.
L'art. 21-octies rende, quindi, irrilevante la violazione delle norme sul procedimento o sulla forma dell'atto per il fatto che il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

Quanto al secondo motivo di impugnazione il Collegio ben conosce, e condivide, l’orientamento giurisprudenziale per il quale il termine di 10 giorni, stabilito dall'art. 10-bis, L. n. 241 del 1990 per la presentazione di osservazioni e/o documenti in seguito alla ricezione della comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento di un'istanza del privato non ha natura perentoria, dal momento che:
a) tale disposto normativo non qualifica espressamente come perentorio il citato termine di 10 giorni, né il Legislatore in tale circostanza ha usato il verbo dovere, ma si è limitato a prevedere "il diritto di presentare" osservazioni e/o documenti;
b) eccetto che per quanto riguarda i ricorsi amministrativi e per le domande di partecipazione ai procedimenti di evidenza pubblica ed ai concorsi per pubblico impiego, nell'ambito dei procedimenti amministrativi non vi sono termini decadenziali, come nel diritto processuale;
c) la comunicazione inviata ai sensi di tale norma non sospende i termini di conclusione del procedimento amministrativo, ma li interrompe, per cui in seguito alla presentazione delle osservazioni e/o documenti il termine ex art. 2 L. n. 241/1990 inizia a decorrere ex novo, per cui risulta illogico che con dalla comunicazione del preavviso di rigetto, istituita con lo scopo di favorire un esito del procedimento amministrativo positivo per l'istante, possa derivare contestualmente un termine decadenziale di 10 giorni per lo stesso istante ed il raddoppio dei termini per la conclusione del procedimento per l'Amministrazione;
d) lo scopo del Legislatore di deflazionare le controversie giurisdizionali non verrebbe più attuato, in quanto, impedendo all'istante la presentazione di osservazioni oltre il termine di 10 giorni, il medesimo istante farebbe valere tali osservazioni dinanzi alla competente Autorità Giudiziaria;
e) pertanto, l'Amministrazione fino all'emanazione del provvedimento conclusivo del procedimento ha il dovere di prendere in considerazione tutte le osservazioni ed i documenti presentati dall'istante (cfr: TAR Campania Napoli, sez. IV, 17.09.2009, n. 5013).
Sennonché, in conformità ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, la violazione dell'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990 non può ritenersi tale da produrre ex se l'illegittimità del provvedimento finale, dovendo la disposizione sul preavviso di rigetto, essere interpretata alla luce del successivo art. 21-octies, comma 2, che impone al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo.
L'art. 21-octies rende, quindi, irrilevante la violazione delle norme sul procedimento o sulla forma dell'atto per il fatto che il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (nel caso di specie, il provvedimento conclusivo del procedimento avviato dal ricorrente non poteva assumere un contenuto diverso dal diniego, stante l'impossibilità per quest’ultimo, alla stregua della normativa applicabile alla fattispecie, di conseguire un titolo edilizio diretto in luogo della predisposizione di un piano di lottizzazione esteso all’intera subzona, non occorreva neppure il preavviso ex art. 10-bis, l. n. 241 del 1990 (cfr: da ultimo: TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, 13.03.2011 n. 541; TAR Lazio Roma, sez. III, 14.03.2011, n. 2253)
(TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 07.03.2012 n. 248 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Non sono segrete le denunce dell’amministrazione nell'esercizio delle proprie funzioni istituzionali.
L’ARDIS ha negato l’accesso agli atti richiesti dalla Compagnia di Navigazione Ponte Sant’Angelo S.r.l. in quanto il regolamento della Regione Lazio n. 1/2002, all’art. 445, sottrarrebbe all’accesso le denunce, gli esposti, i verbali di accertamento relativi a violazioni e infrazioni soggette a comunicazioni di notizie di reato all’Autorità Giudiziaria, se e in quanto coperti dalla segretezza delle indagini.
In tal modo l’ARDIS, affermando che i verbali di accertamento redatti dai propri funzionari in sede dei sopralluoghi effettuati (nei quali sarebbero riportate e descritte le difformità delle opere provvisorie realizzate rispetto a quelle approvate) sono coperti da segreto istruttorio ex art. 329 cpp (e, quindi, non conoscibili) ha opposto un diniego generalizzato alla conoscenza degli atti che interessano la ricorrente, senza fornire specifiche indicazioni sul presupposto del diniego e cioè sul fatto che, nella fattispecie, gli atti fossero concretamente coperti dal segreto istruttorio, e senza distinguere tra atti effettivamente coperti da segreto istruttorio e altri documenti amministrativi.
Va osservato, sul punto, che non ogni denuncia di reato presentata dalla p.a. all'autorità giudiziaria costituisce atto coperto da segreto istruttorio penale (che, in quanto tale, è sottratto all'accesso). Infatti, qualora la denuncia sia stata presentata dall’Amministrazione nell'esercizio delle proprie funzioni istituzionali, l'atto richiesto in ostensione non ricade nell'ambito di applicazione dell'art. 329 c.p.p. (TAR Emilia Romagna Bologna, sez. II, 18.02.2011, n. 144) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-ter, sentenza 05.03.2012 n. 2181 -
link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASe il comune è silente la Scia va in tribunale.
Al chi si ritiene leso dagli effetti della Dia (oggi Scia) concessa, per esempio, a un vicino di casa, non resta che esperire l'azione di cui all'articolo 31 del codice del processo amministrativo in materia di silenzio della pubblica amministrazione.

È il risultato della manovra di Ferragosto prima e del correttivo al Cpa poi che, recependo solo in parte le indicazioni dell'Adunanza plenaria del Consiglio di stato, hanno di fatto cancellato dall'ordinamento giuridico l'azione di annullamento del provvedimento tacito di diniego dei provvedimenti inibitori, introdotta solo per via giurisprudenziale da palazzo Spada. Chi si ritiene danneggiato dalla Dia-Scia, comunque, potrà agire ben prima della scadenza del termine finale assegnato all'amministrazione per l'esercizio del potere di bloccare l'iniziativa o modificare il titolo. E ciò fin da quando la Scia o la Dia sono presentate e il terzo viene a sapere della loro utilizzazione.
Lo precisa la sentenza 05.03.2012 n. 298 della II Sez. del TAR Veneto.
Unico rimedio
L'adunanza plenaria 15/2011 di palazzo Spada ha stabilito che la Dia costituisce una mera dichiarazione del privato rivolta all'amministrazione competente e non un provvedimento tacito formatosi per il decorso del termine. In base al nuovo quadro normativo, tuttavia, il legislatore recepisce sì l'indicazione proveniente dal Consiglio di stato rispetto alla Dia-Scia, in quanto atto del privato non immediatamente impugnabile, ma se ne discosta sui rimedi esperibili dal terzo controinteressato, il quale ha ora a disposizione soltanto l'azione prevista dall'articolo 31 Cpa per i casi di silenzio dell'amministrazione.
Ma l'azione, più che il silenzio, riguarderà direttamente l'accertamento dei presupposti di legge per l'esercizio dell'attività oggetto della segnalazione, con i conseguenti effetti conformativi rispetto ai provvedimenti spettanti all'amministrazione. Il rinvio all'istituto del silenzio, insomma, non riduce molto la tutela in favore del terzo: chi si ritiene leso dalla Dia-Scia concessa al vicino di casa potrà sollecitare con una diffida l'esercizio dei poteri sanzionatori e repressivi che spettano all'amministrazione in materia edilizia, oltre che l'esercizio del potere di autotutela.
Entro un anno dalla scadenza del termine per l'adempimento si potrà esperire l'azione di cui all'articolo 31 Cpa, richiamata dal comma 6-ter dell'articolo 19 della legge 241/1990 (articolo ItaliaOggi del 04.04.2012).

EDILIZIA PRIVATA: Il vincolo di cui all’art. 1 R.D.L. n. 3267 (ndr: vincolo idrogeologico) riguarda direttamente i terreni e non i boschi in quanto tali ed ha come finalità quella di prevenire smottamenti e movimenti franosi in genere. Sotto tale profilo, la tutela può avere ad oggetto tutti gli interventi edificatori e consente alla pubblica amministrazione di adottare qualsiasi misura, tanto restrittiva, quanto impeditiva (e, quindi, anche il divieto di edificabilità) per ragioni di tutela ambientale.
Ancora, è stata rilevata l’infondatezza della pretesa inopponibilità del vincolo in questione per essere intervenuto dopo l’acquisto dei terreni da parte della ricorrente. Infatti, l’apposizione del vincolo di cui all’art. 1 del R.D.L. è disciplinato dai successivi artt. 3, 4 e 5 (affissione all’Albo pretorio, fase delle contestazioni, pubblicazione) del medesimo Decreto, con la conseguenza che, in mancanza di prova –non fornita nel caso qui in esame- in ordine alla avvenuta contestazione da parte degli interessati secondo le modalità e termini indicati nelle ricordate disposizioni, l’area deve considerarsi definitivamente vincolata.

In linea generale, il vincolo di cui all’art. 1 R.D.L. n. 3267 -quale quello qui in esame- riguarda direttamente i terreni e non i boschi in quanto tali ed ha come finalità quella di prevenire smottamenti e movimenti franosi in genere. Sotto tale profilo, la tutela può avere ad oggetto tutti gli interventi edificatori e consente alla pubblica amministrazione di adottare qualsiasi misura, tanto restrittiva, quanto impeditiva (e, quindi, anche il divieto di edificabilità) per ragioni di tutela ambientale.
Ancora, è stata rilevata l’infondatezza della pretesa inopponibilità del vincolo in questione per essere intervenuto dopo l’acquisto dei terreni da parte della ricorrente. Infatti, l’apposizione del vincolo di cui all’art. 1 del R.D.L. è disciplinato dai successivi artt. 3, 4 e 5 (affissione all’Albo pretorio, fase delle contestazioni, pubblicazione) del medesimo Decreto, con la conseguenza che, in mancanza di prova –non fornita nel caso qui in esame- in ordine alla avvenuta contestazione da parte degli interessati secondo le modalità e termini indicati nelle ricordate disposizioni, l’area deve considerarsi definitivamente vincolata (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 29.02.2012 n. 240 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOrdinanze contingibili ed urgenti. Presupposti per l’adozione da parte del Sindaco.
Nel caso in cui il giudizio concerna la legittimità di una ordinanza contingibile ed urgente emessa dal Sindaco nella qualità di ufficiale di governo, solo il Sindaco è legittimato a resistere all'azione annullatoria e, conseguentemente, a proporre appello in caso di soccombenza in primo grado (1). Infatti, quando il Sindaco, nell’adempimento delle sue funzioni, agisce quale ufficiale di governo, l’ordinamento disciplina un fenomeno di imputazione giuridica allo Stato degli effetti dell'atto dell'organo del Comune, nel senso che il Sindaco non diventa un "organo" di un’Amministrazione dello Stato, ma resta incardinato nel complesso organizzativo dell'ente locale, senza che il suo status sia modificato (2).
Ai sensi dell’art. 54, comma 2, del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267 (T.U.E.L.), le ordinanze contingibili ed urgenti possono essere adottate dal Sindaco nella veste di ufficiale di governo solamente quando si tratti di affrontare situazioni di carattere eccezionale e impreviste, costituenti concreta minaccia per la pubblica incolumità, per le quali sia impossibile utilizzare i normali mezzi apprestati dall’ordinamento giuridico; tali requisiti non ricorrono di conseguenza quando le pubbliche amministrazioni possono adottare i rimedi di carattere ordinario. Infatti le ordinanze in questione presuppongono una situazione di pericolo effettivo in cui si possono configurare anche situazioni non tipizzate dalla legge e ciò giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi, la possibilità di deroga rispetto alla disciplina vigente e la necessità di motivazione congrua e peculiare, la configurazione anche residuale, quasi di chiusura, delle ordinanze contingibili ed urgenti.
E’ illegittima una ordinanza contingibile e urgente, ex artt. 50 e 54 del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267, con la quale il Sindaco, per ragioni di tutela della sicurezza pubblica, correlate alla gravità della situazione internazionale determinatasi a seguito degli attentati alle Torri Gemelle dell’11.09.2001, ha ingiunto al proprietario di un’area la rimozione della relativa recinzione e di alcuni containers presenti nella stessa, sita al confine con una pista aeroportuale, e adibita a deposito di materiali militari fuori uso ed in genere di oggetti metallici, che sia stata adottata a distanza di oltre cinque mesi dai suddetti attentati e comunque tre mesi dopo la segnalazione prefettizia sulla necessità di intervenire, e a fronte di una situazione - l’esistenza del deposito - ben nota alle autorità e quindi né imprevedibile, né eccezionale; in tal caso, infatti, trattandosi di una situazione conosciuta e duratura nel tempo, difettavano le condizioni contingenti per l’adozione dell’ordinanza sindacale prevista dalle suindicate disposizioni normative (3).
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(1) Cfr. Cons. Stato, V, n. 4434 del 2008; id., n. 4718 del 2007; id., 13.08.2007 n. 4448
Alla stregua del principio nella specie è stata disposta l’estromissione dal giudizio avverso l’ordinanza contingibile ed urgente del Prefetto.
(2) Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28.03.1994, n. 291; Sez. V, 27.11.1987, n. 736; Sez. V, 27.10.1986, n. 568; Trib. Sup. acque pubbliche, 19.05.2000, n. 56.
(3) Ha aggiunto la sentenza in rassegna che nella specie non ricorrevano le condizioni contingenti per l’adozione dell’ordinanza sindacale -situazione conosciuta e duratura nel tempo, adozione del provvedimento a lunga distanza dalla rappresentazione dei pericoli per le installazioni aeroportuali- ma difettavano altresì le necessità di coprire un eventuale vuoto normativo di carattere ordinario: infatti gli artt. 714, 714-bis, 715-ter e 716 cod. nav. prevedono una serie di possibilità d’intervento prima rimesse al Ministero dei Trasporti ed ora all’Ente nazionale dell’aviazione civile, da attivarsi in tutti quei casi di presenza di ostacoli o pericoli per la navigazione aerea e che ben potevano essere azionati nell’arco temporaneo rappresentato nella fattispecie (Cons. Stato, Sez. V, 15.03.2006 n. 1367)
(massima tratta da www.regione.piemonte.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.02.2012 n. 904 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La sanzione pecuniaria, al pari della misura demolitoria, ha natura ripristinatoria dell’ordine urbanistico violato, e quindi può essere rivolta anche al proprietario dell’immobile interessato dall’abuso, a prescindere dall’accertamento di sue responsabilità personali nella commissione dell’illecito.
Secondo l’orientamento maggioritario, al quale il Collegio ritiene di aderire, la sanzione pecuniaria, al pari della misura demolitoria, ha natura ripristinatoria dell’ordine urbanistico violato, e quindi può essere rivolta anche al proprietario dell’immobile interessato dall’abuso, a prescindere dall’accertamento di sue responsabilità personali nella commissione dell’illecito (TAR Liguria, I, 13.5.2011, n. 762; idem, 12.3.2009, n. 306; TAR Piemonte, I, 25.3.2011, n. 278; TAR Lazio, Roma, I, 18.1.2011, n. 381) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 17.02.2012 n. 361 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non è ravvisabile a carico dell’Ente l’obbligo di indicare o di prendere in considerazione prescrizioni finalizzate a rendere l’opera compatibile con la bellezza d’insieme, la cui salvaguardia risponde ad un interesse pubblico prevalente su quello privato, anche per il rango costituzionale che il primo presenta ex art. 9 della Costituzione.
L’amministrazione è infatti vincolata ad esaminare l’oggetto della domanda di condono nel suo stato esistente, ovvero il manufatto così come è stato realizzato entro la scadenza prevista dall’art. 31 della legge n. 47/1985, cosicché la valutazione di fattibilità di eventuali successivi interventi correttivi esula dagli obblighi istruttori dell’Ente, potendo al più concretare una facoltà circoscritta ai casi di minime modifiche, che comunque non possono oltrepassare il limite della manutenzione ordinaria, in quanto interventi di maggior impatto (ad esempio la ristrutturazione e la manutenzione straordinaria) colliderebbero con la necessità che l’opera sia già integralmente eseguita, nell’attuale conformazione, al momento del termine di ultimazione dei lavori imposto dalla normativa sul condono (art. 31 della legge n. 47/1985), salvi i casi eccezionali di cui all’art. 35, comma 8, della legge n. 47/1985 concernente lavori di completamento necessari ai fini dell’utilizzabilità del manufatto.

Secondo il costante orientamento giurisprudenziale al quale il Collegio ritiene di aderire, non è ravvisabile a carico dell’Ente l’obbligo di indicare o di prendere in considerazione prescrizioni finalizzate a rendere l’opera compatibile con la bellezza d’insieme, la cui salvaguardia risponde ad un interesse pubblico prevalente su quello privato, anche per il rango costituzionale che il primo presenta ex art. 9 della Costituzione (Cons. Stato, V, 07.09.2009, n. 5232; TAR Campania, IV, 13.06.2007, n. 6142).
L’amministrazione è infatti vincolata ad esaminare l’oggetto della domanda di condono nel suo stato esistente, ovvero il manufatto così come è stato realizzato entro la scadenza prevista dall’art. 31 della legge n. 47/1985, cosicché la valutazione di fattibilità di eventuali successivi interventi correttivi esula dagli obblighi istruttori dell’Ente, potendo al più concretare una facoltà circoscritta ai casi di minime modifiche, che comunque non possono oltrepassare il limite della manutenzione ordinaria, in quanto interventi di maggior impatto (ad esempio la ristrutturazione e la manutenzione straordinaria) colliderebbero con la necessità che l’opera sia già integralmente eseguita, nell’attuale conformazione, al momento del termine di ultimazione dei lavori imposto dalla normativa sul condono (art. 31 della legge n. 47/1985), salvi i casi eccezionali di cui all’art. 35, comma 8, della legge n. 47/1985 concernente lavori di completamento necessari ai fini dell’utilizzabilità del manufatto (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 17.02.2012 n. 359 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La qualità di responsabile dell’abuso non appare sufficiente a chiedere la sanatoria edilizia, occorrendo comunque il consenso del titolare del bene interessato, che può essere estraneo all’illecito ed avere un interesse contrario alla sanatoria, in quanto la definitiva regolarizzazione potrebbe risolversi in suo danno.
Il Comune, con missiva del 17.11.2000 (documento n. 4 depositato in giudizio dall’Ente), ha chiesto alla società istante la presentazione di titolo idoneo a giustificare la domanda di sanatoria (quale, ad esempio, il contratto di acquisto).
Tuttavia la ricorrente non ha dimostrato di aver ottemperato a tale richiesta; né il titolo in base al quale è stata presentata la domanda di sanatoria edilizia risulta allegato all’istanza (documento n. 3 depositato in giudizio dall’amministrazione).
La legittimazione a chiedere la regolarizzazione dell’abuso edilizio non poteva essere desunta dal ricorso proposto da Enel s.p.a. avverso l’ordine di demolizione.
Infatti, l’impugnazione dell’ordine di demolire un’opera abusiva, rivolto al ricorrente, non sottintende necessariamente la volontà di accettare la definitiva regolarizzazione postuma, in quanto potrebbe essere giustificata, ad esempio, dalla volontà di sottrarsi alle spese della demolizione, o dall’accettazione della permanenza provvisoria del manufatto, ritenuto opera mobile non sanzionabile (si veda il terzo motivo del ricorso n. 2979/2000); inoltre, nel citato atto di ricorso Enel s.p.a. sostiene di non essere più proprietaria dell’immobile, stante l’avvenuta cessione ad Enel Distribuzione s.p.a. (pagina 8 del ricorso n. 2979/2000), cosicché al Comune non poteva risultare chiara la legittimazione della società Ericsson.
La qualità di responsabile dell’abuso non appare sufficiente a chiedere la sanatoria edilizia, occorrendo comunque il consenso del titolare del bene interessato, che può essere estraneo all’illecito ed avere un interesse contrario alla sanatoria, in quanto la definitiva regolarizzazione potrebbe risolversi in suo danno (Cons. Stato, V, 21.10.2003, n. 6529)
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 17.02.2012 n. 358 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I limiti di esposizione ai campi elettromagnetici, fissati dal d.m. n. 381/1998, sono posti a salvaguardia del diritto fondamentale alla salute dai rischi dell’elettromagnetismo, sulla base del principio generale di precauzione.
Condizione per la realizzazione e il funzionamento delle stazioni radio base di telefonia mobile è l’accertato rispetto delle soglie di tollerabilità identificate in via generale dal predetto decreto ministeriale.
Invero, ai sensi dell’art. 2-bis del d.l. n. 115/1997, convertito nella legge n. 189/1997, non solo l’uso, ma anche l’installazione di impianti di telefonia deve essere preceduta dalla garanzia della loro compatibilità con le norme relative ai rischi sanitari derivanti dai campi elettromagnetici.
La valutazione di impatto sulla salute e sull’ambiente, incentrata sulla verifica del rispetto dei limiti ex d.m. n. 381/1998 e costituente elemento imprescindibile per l’autorizzazione all’installazione, non incontra deroghe nel procedimento di sanatoria dell’impianto già esistente, in quanto l’inosservanza o la non comprovata osservanza dei limiti di esposizione ai campi elettromagnetici costituisce, ai sensi dell’art. 2-bis del citato d.l. n. 115/1997, causa preclusiva dell’installazione, e quindi anche del rilascio della relativa autorizzazione, preventiva o successiva che sia.

I limiti di esposizione ai campi elettromagnetici, fissati dal d.m. n. 381/1998, sono posti a salvaguardia del diritto fondamentale alla salute dai rischi dell’elettromagnetismo, sulla base del principio generale di precauzione.
Condizione per la realizzazione e il funzionamento delle stazioni radio base di telefonia mobile è l’accertato rispetto delle soglie di tollerabilità identificate in via generale dal predetto decreto ministeriale.
Invero, ai sensi dell’art. 2-bis del d.l. n. 115/1997, convertito nella legge n. 189/1997, non solo l’uso, ma anche l’installazione di impianti di telefonia deve essere preceduta dalla garanzia della loro compatibilità con le norme relative ai rischi sanitari derivanti dai campi elettromagnetici (TAR Campania, Napoli, II, 05.12.2001, n. 5232).
La valutazione di impatto sulla salute e sull’ambiente, incentrata sulla verifica del rispetto dei limiti ex d.m. n. 381/1998 e costituente elemento imprescindibile per l’autorizzazione all’installazione, non incontra deroghe nel procedimento di sanatoria dell’impianto già esistente, in quanto l’inosservanza o la non comprovata osservanza dei limiti di esposizione ai campi elettromagnetici costituisce, ai sensi dell’art. 2-bis del citato d.l. n. 115/1997, causa preclusiva dell’installazione, e quindi anche del rilascio della relativa autorizzazione, preventiva o successiva che sia
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 17.02.2012 n. 358 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Condono edilizio in zona soggetta a tutela ambientale. Concessione edilizia per box auto realizzati fuori terra.
Legittimità di una ordinanza di demolizione nel caso in cui la precisa individuazione delle opere sia successiva alla mancata ottemperanza dell’ordine da parte del destinatario.

La concessione edilizia in sanatoria in ordine ad un manufatto realizzato su area sottoposta a vincolo ambientale-paesaggistico presuppone, ai sensi dell’art. 32 della L. 28.02.1985, n. 47, il parere dell’organo preposto alla tutela del vincolo e i provvedimenti successivamente adottati costituiscono atti necessari e non superflui. E’ pertanto ammissibile un ricorso proposto contro il provvedimento di diniego di condono e non già direttamente contro il parere in materia ambientale espresso sulla domanda di condono edilizio (nella specie si trattava di un parere espresso dalla Commissione Edilizia Integrata - C.E.I.), atteso che tale parere non ha natura provvedimentale, né è l’atto conclusivo del procedimento attivato con la istanza di permesso di costruire o di sanatoria edilizia e non è pertanto immediatamente lesivo e, in quanto tale, non è suscettibile di impugnazione autonoma in via giurisdizionale, ma lo è unitamente al provvedimento finale concretamente lesivo della sfera giuridica del richiedente (1).
Ai sensi dell’art. 32 della L. n. 47/1985, il rilascio della concessione in sanatoria per le opere edilizie abusive ricadenti su aree sottoposte a vincolo è subordinato al previo rilascio del parere favorevole dell’amministrazione o dell’organo preposto alla tutela del vincolo, parere che non ha carattere solo obbligatorio ma è vincolante per le determinazioni del Comune. Conseguentemente è legittimo il provvedimento di rigetto della domanda di condono edilizio, motivato facendo riferimento al parere negativo della Commissione Edilizia Integrata (C.E.I.), atteso che il giudizio circa la compatibilità di costruzioni abusive con gli interessi alla tutela ambientale e paesaggistica spetta pienamente agli organi a ciò preposti (2).
Alcuni box edificati fuori terra non possono essere qualificati quali semplici pertinenze del fabbricato principale, essendo costruzioni indipendenti e autonomamente utilizzabili (3).
E’ irrilevante, ai fini della legittimità dell’ordinanza di demolizione di opere abusive, la circostanza che la individuazione più precisa e completa delle opere da demolire e da acquisire al patrimonio comunale sia effettuata in un momento successivo alla mancata ottemperanza dell’ordine da parte del destinatario.
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(1) Cons. Stato, sez. V, n. 4412/2005; n. 480/2004; n. 1511/2000; sez. VI, n. 114/1998.
(2) Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 24.09.1996, n. 1248.
(3) Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 11.11.2004, n. 7325
(massima tratta da www.regione.piemonte.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 16.02.2012 n. 794 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’autorizzazione alla installazione di impianti pubblicitari è subordinata alla valutazione in ordine alla sua compatibilità con il diverso interesse pubblico generale alla ordinata regolamentazione degli spazi pubblicitari (che non possono essere indiscriminatamente lasciati alla libera iniziativa privata), e, quindi, costituisce oggetto di una specifica disciplina, non sovrapponibile o confondibile con quella edilizia.
Il Comune è chiamato ad esercitare, al riguardo, un potere sicuramente caratterizzato da profili di discrezionalità, in quanto titolare sia delle funzioni relative alla sicurezza della circolazione (ciò che comporta la titolarità del potere autorizzatorio dell'installazione di impianti pubblicitari, nel rispetto delle prescrizioni del Codice della Strada), sia di quelle relative all'uso del proprio territorio, anche sotto l’aspetto dei monumenti, dell'estetica cittadina e del paesaggio, ben potendo individuare limitazioni e divieti per particolari forme pubblicitarie, in connessione ad esigenze di pubblico interesse.
Siffatto potere, inerente alla ponderazione comparativa degli interessi coinvolti, quali, da un lato, quelli pubblici e, dall’altro, quello privato, alla libertà di iniziativa economica -di cui l'attività pubblicitaria rappresenta estrinsecazione- si esprime, innanzitutto, nella potestà pianificatoria e, dunque, nella potestà regolamentare, attraverso la quale il Comune disciplina le modalità dello svolgimento della pubblicità, la tipologia e quantità degli impianti pubblicitari e le modalità per ottenere l'autorizzazione all'installazione di questi, senza violare l’art. 41 Cost., ma, anzi, ponendosi nell'ambito semantico della “utilità sociale” e nel contesto di valori costituzionali equiordinati, quali quello alla difesa dell'ambiente e delle valenze estetiche del patrimonio culturale della Nazione, riconducibili all’art. 9 della Costituzione.
Inoltre, nei casi in cui viene richiesta l’affissione di impianti pubblicitari direttamente su suolo pubblico, l’Amministrazione -nella cui disponibilità, oltretutto, si trova il suolo stesso- è tenuta ad espletare una valutazione complessiva, non limitata soltanto alla mera compatibilità dell’impianto pubblicitario con l’interesse pubblico (come nell’ipotesi in cui il suolo si trovi nella disponibilità dell’interessato), ma estesa anche alla verifica che, attraverso detto uso privato della risorsa pubblica, si realizzino quegli interessi collettivi, di cui l’Amministrazione stessa è portatrice.
Invero, in questi casi, viene richiesto un esame più approfondito e attento, che si articola nell’ambito di un procedimento destinato a sfociare in un provvedimento non già meramente autorizzatorio, ma di natura concessoria, il cui rilascio presuppone la canalizzazione dell’attività privata nell’alveo del pubblico interesse, e non solo la non incompatibilità dell’una rispetto all’altro.
In altri termini, l’installazione di mezzi pubblicitari su suolo pubblico postula un provvedimento di concessione dell’uso del medesimo, non bastando a tale scopo il solo provvedimento autorizzatorio, poiché, mentre il procedimento autorizzatorio si esaurisce nel sopra menzionato giudizio di "non incompatibilità" dell’attività privata con l’interesse pubblico, il procedimento concessorio involve la valutazione della conformità di tale attività con il pubblico interesse.
Ne segue che, quando l’esposizione degli impianti di pubblicità avviene su suolo pubblico, l’occupazione del predetto suolo fa sì che non si possa in alcun modo prescindere dalla citata valutazione di conformità, la cui complessità non consente che si possa formare tacitamente il provvedimento finale concessorio, in quanto involve l’esercizio di una potestà discrezionale, escludente l’applicabilità del regime del silenzio-assenso.
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Sotto altro profilo, deve poi rilevarsi che non sussiste un rapporto di tipo derogatorio fra la normativa edilizia, oggi compendiata nel D.P.R. 06.06.2001 n. 380 e la normativa per le pubbliche affissioni di cui al D.Lgs. 15.11.1993, n. 507, giacché trattasi di discipline differenti, avente differenti contenuti e finalità, che concorrono nella valutazione della medesima fattispecie ai fini della tutela di interessi pubblici diversi nonché ai fini della definizione di differenti procedimenti amministrativi.
Ed invero, la normativa edilizia trova applicazione in tutte le ipotesi in cui si configura un mutamento del territorio nel suo contesto preesistente sia sotto il profilo urbanistico che sotto quello edilizio ed entro questi limiti pertanto assume rilevanza la violazione dei regolamenti edilizi.
Conseguentemente, nelle ipotesi in cui la sistemazione di una insegna o di una tabella (cosiddetta tabellone) pubblicitaria o di ogni altro genere, per le sue consistenti dimensioni, comporti un rilevante mutamento territoriale, è richiesto l’assenso mediante “permesso di costruire” e mediante semplice s.c.i.a. negli altri casi, in coerenza con le previsioni della normativa edilizia di cui agli artt. 2, 6 e 7 del D.P.R. n. 380 del 2001 e succ. mod..
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La violazione della normativa antisismica di cui alla legge 02.02.1974 n. 64, posta a tutela della pubblica incolumità nelle zone dichiarate sismiche, non può essere derogata dalla normativa speciale di cui al D.Lgs. 15.11.1993, n. 507 e trova applicazione, omnicomprensivamente, ai sensi dell'art. 3, co. 1, a "tutte le costruzioni la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità", a nulla rilevando la natura dei materiali impiegati e delle relative strutture: anzi, proprio l'impiego, come nel caso di specie, di elementi strutturali meno solidi e duraturi di quelli in cemento ed assimilati, rende vieppiù necessari i controlli e le cautele prescritte ai fini preventivi in questione.

Il D.Lgs. 15.11.1993 n. 507, recante revisione ed armonizzazione dell'imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni stabilisce, all’art. 3, che il Comune è tenuto ad adottare apposito regolamento per l'applicazione dell'imposta, con il quale può disciplinare "le modalità di effettuazione della pubblicità e può stabilire limitazioni e divieti per particolari forme pubblicitarie in relazione ad esigenze di pubblico interesse" (II° comma) e "in ogni caso determinare la tipologia e la quantità degli impianti pubblicitari, le modalità per ottenere il provvedimento per l'installazione ..." (III° comma).
L'installazione di impianti pubblicitari è attività "contingentata", non sussumibile nella disciplina di cui all’art. 19 della legge n. 241 del 1990, in base alla quale l'atto di consenso, cui sia subordinato l'esercizio di un'attività privata, s'intende sostituito dalla denuncia di inizio di attività da parte dell'interessato alla pubblica amministrazione competente, sempre che il suo rilascio "dipenda esclusivamente dall'accertamento dei presupposti e dei requisiti di legge, senza l'esperimento di prove a ciò destinate che comportino valutazioni tecniche discrezionali, e non sia previsto alcun limite o contingente complessivo".
Ed invero, l’autorizzazione alla installazione di impianti pubblicitari è subordinata alla valutazione in ordine alla sua compatibilità con il diverso interesse pubblico generale alla ordinata regolamentazione degli spazi pubblicitari (che non possono essere indiscriminatamente lasciati alla libera iniziativa privata), e, quindi, costituisce oggetto di una specifica disciplina, non sovrapponibile o confondibile con quella edilizia.
Il Comune è chiamato ad esercitare, al riguardo, un potere sicuramente caratterizzato da profili di discrezionalità, in quanto titolare sia delle funzioni relative alla sicurezza della circolazione (ciò che comporta la titolarità del potere autorizzatorio dell'installazione di impianti pubblicitari, nel rispetto delle prescrizioni del Codice della Strada), sia di quelle relative all'uso del proprio territorio, anche sotto l’aspetto dei monumenti, dell'estetica cittadina e del paesaggio, ben potendo individuare limitazioni e divieti per particolari forme pubblicitarie, in connessione ad esigenze di pubblico interesse (ex plurimis: TAR Lombardia- Brescia, Sez. I 28.02.2008 n. 174).
Siffatto potere, inerente alla ponderazione comparativa degli interessi coinvolti, quali, da un lato, quelli pubblici e, dall’altro, quello privato, alla libertà di iniziativa economica -di cui l'attività pubblicitaria rappresenta estrinsecazione- si esprime, innanzitutto, nella potestà pianificatoria e, dunque, nella potestà regolamentare, attraverso la quale il Comune disciplina le modalità dello svolgimento della pubblicità, la tipologia e quantità degli impianti pubblicitari e le modalità per ottenere l'autorizzazione all'installazione di questi, senza violare l’art. 41 Cost., ma, anzi, ponendosi nell'ambito semantico della “utilità sociale” e nel contesto di valori costituzionali equiordinati, quali quello alla difesa dell'ambiente e delle valenze estetiche del patrimonio culturale della Nazione, riconducibili all’art. 9 della Costituzione (conf.: Corte Cost. sent. 17.07.2002 n. 355).
Inoltre, nei casi in cui viene richiesta l’affissione di impianti pubblicitari direttamente su suolo pubblico, l’Amministrazione -nella cui disponibilità, oltretutto, si trova il suolo stesso- è tenuta ad espletare una valutazione complessiva, non limitata soltanto alla mera compatibilità dell’impianto pubblicitario con l’interesse pubblico (come nell’ipotesi in cui il suolo si trovi nella disponibilità dell’interessato), ma estesa anche alla verifica che, attraverso detto uso privato della risorsa pubblica, si realizzino quegli interessi collettivi, di cui l’Amministrazione stessa è portatrice.
Invero, in questi casi, viene richiesto un esame più approfondito e attento, che si articola nell’ambito di un procedimento destinato a sfociare in un provvedimento non già meramente autorizzatorio, ma di natura concessoria, il cui rilascio presuppone la canalizzazione dell’attività privata nell’alveo del pubblico interesse, e non solo la non incompatibilità dell’una rispetto all’altro.
In altri termini, l’installazione di mezzi pubblicitari su suolo pubblico postula un provvedimento di concessione dell’uso del medesimo, non bastando a tale scopo il solo provvedimento autorizzatorio, poiché, mentre il procedimento autorizzatorio si esaurisce nel sopra menzionato giudizio di "non incompatibilità" dell’attività privata con l’interesse pubblico, il procedimento concessorio involve la valutazione della conformità di tale attività con il pubblico interesse.
Ne segue che, quando l’esposizione degli impianti di pubblicità avviene su suolo pubblico, l’occupazione del predetto suolo fa sì che non si possa in alcun modo prescindere dalla citata valutazione di conformità, la cui complessità non consente che si possa formare tacitamente il provvedimento finale concessorio (TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 26.07.2005, n. 3421), in quanto involve l’esercizio di una potestà discrezionale, escludente l’applicabilità del regime del silenzio-assenso (conf.: Corte Cost. 27.07.1995 n. 408).
Sotto altro profilo, deve poi rilevarsi che non sussiste un rapporto di tipo derogatorio fra la normativa edilizia, oggi compendiata nel D.P.R. 06.06.2001 n. 380 e la normativa per le pubbliche affissioni di cui al D.Lgs. 15.11.1993, n. 507, giacché trattasi di discipline differenti, avente differenti contenuti e finalità, che concorrono nella valutazione della medesima fattispecie ai fini della tutela di interessi pubblici diversi nonché ai fini della definizione di differenti procedimenti amministrativi.
Ed invero, la normativa edilizia trova applicazione in tutte le ipotesi in cui si configura un mutamento del territorio nel suo contesto preesistente sia sotto il profilo urbanistico che sotto quello edilizio ed entro questi limiti pertanto assume rilevanza la violazione dei regolamenti edilizi.
Conseguentemente, nelle ipotesi in cui la sistemazione di una insegna o di una tabella (cosiddetta tabellone) pubblicitaria o di ogni altro genere, per le sue consistenti dimensioni, comporti un rilevante mutamento territoriale, è richiesto l’assenso mediante “permesso di costruire” e mediante semplice s.c.i.a. negli altri casi, in coerenza con le previsioni della normativa edilizia di cui agli artt. 2, 6 e 7 del D.P.R. n. 380 del 2001 e succ. mod..
Analogamente, la violazione della normativa antisismica di cui alla legge 02.02.1974 n. 64, posta a tutela della pubblica incolumità nelle zone dichiarate sismiche, non può essere derogata dalla normativa speciale di cui al D.Lgs. 15.11.1993, n. 507 e trova applicazione, omnicomprensivamente, ai sensi dell'art. 3, co. 1, a "tutte le costruzioni la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità", a nulla rilevando la natura dei materiali impiegati e delle relative strutture: anzi, proprio l'impiego, come nel caso di specie, di elementi strutturali meno solidi e duraturi di quelli in cemento ed assimilati, rende vieppiù necessari i controlli e le cautele prescritte ai fini preventivi in questione.
Pertanto, si conferma l’assunto per cui è richiesto il titolo abilitativo del Comune allorché vi si un sostanziale mutamento del territorio nel suo contesto preesistente sia sotto il profilo urbanistico che sotto quello edilizio (cfr. Cons. Stato, V Sezione, 17.05.2007 n. 2497 che richiama Cass. pen. sez. 3°, n. 5328 del 14.01.2004 e precedenti ivi indicati) con conseguente infondatezza del primo motivo di ricorso (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 14.02.2012 n. 186 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il manufatto assentito con concessione edilizia in precario può essere conservato solo finché il Comune non decida di chiederne la rimozione, facendo così venire meno l’efficacia del titolo edilizio provvisoriamente rilasciato e rendendo l’opera, non più tollerata, sostanzialmente assimilabile ad un abuso edilizio da rimuovere. Inoltre, la mancata ottemperanza alla prescrizione prevista nel titolo edilizio del 1979 (“il container dovrà essere opportunamente nascosto con piante soprattutto nella parte prospiciente la strada provinciale”) si configura come condizione risolutiva del titolo medesimo, con conseguente applicabilità delle misure repressive previste dalla normativa edilizia.
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L'installazione non meramente occasionale di un prefabbricato, come nel caso di un container, comporta l'alterazione dello stato dei luoghi ed incide sull'assetto urbanistico-edilizio del territorio…Da quanto sopra deriva che, ricorrendo nel caso in esame le caratteristiche di una permanente trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale, per la presenza stabile del manufatto (art. 1 della legge 28.01.1977, n. 10) necessitasse la concessione edilizia e che, in base all'art. 7 della legge 28.02.1985, n. 47, il…” responsabile dell’area tecnica, “nell'esercizio del suo potere dovere di vigilanza e di intervento per la repressione degli abusi edilizi, legittimamente abbia imposto la demolizione dello stesso manufatto.
La società esponente, in attesa di edificare la nuova centrale telefonica, in data 21.09.1979 ha presentato al Comune domanda di nulla osta alla collocazione provvisoria di un container di metri 6,06 per 2,50 e altezza di metri 3,40. Tale istanza è stata accolta con il rilascio della concessione edilizia n. 74 del 05.10.1979, la quale dettava la prescrizione secondo cui il container avrebbe dovuto essere nascosto con piante. Con domanda del 23.02.1985 la deducente ha presentato domanda di concessione relativa all’installazione di un secondo container, precisando con nota dell’11.9.1985 che il manufatto avrebbe avuto carattere precario. L’installazione precaria è stata quindi assentita con concessione n. 19 del 24.10.1985.
Orbene, da un lato la natura precaria dei container dichiarata nel secondo titolo edilizio rilasciato e nella prima istanza della ricorrente, dall’altro il mancato adempimento della prescrizione dettata dal titolo rilasciato nel 1979, giustificano l’ordine di rimuovere tali manufatti.
Invero il manufatto assentito con concessione edilizia in precario può essere conservato solo finché il Comune non decida di chiederne la rimozione, facendo così venire meno l’efficacia del titolo edilizio provvisoriamente rilasciato e rendendo l’opera, non più tollerata, sostanzialmente assimilabile ad un abuso edilizio da rimuovere. Inoltre la mancata ottemperanza, non confutata dalla ricorrente, alla prescrizione prevista nel titolo edilizio del 1979 (“il container dovrà essere opportunamente nascosto con piante soprattutto nella parte prospiciente la strada provinciale”) si configura come condizione risolutiva del titolo medesimo, con conseguente applicabilità delle misure repressive previste dalla normativa edilizia (TAR Lombardia, Milano, II, 16.02.2010, n. 412; Tribunale di Catanzaro, II, 07.05.2009).
Quanto al regime di autorizzazione ex art. 7 della legge n. 94/1982, invocato nell’impugnativa, il Collegio, dato atto che i manufatti in questione sono stati installati da oltre 25 anni e appaiono di rilevanti dimensioni (metri 6,06 per 2,50 e altezza di metri 3,40 –si vedano i documenti depositati in giudizio dal Comune-), osserva che “l'installazione non meramente occasionale di un prefabbricato, come nel caso di un container, comporta l'alterazione dello stato dei luoghi ed incide sull'assetto urbanistico-edilizio del territorio…Da quanto sopra deriva che, ricorrendo nel caso in esame le caratteristiche di una permanente trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale, per la presenza stabile del manufatto (art. 1 della legge 28.01.1977, n. 10) necessitasse la concessione edilizia e che, in base all'art. 7 della legge 28.02.1985, n. 47, il…” responsabile dell’area tecnica, “nell'esercizio del suo potere dovere di vigilanza e di intervento per la repressione degli abusi edilizi, legittimamente abbia imposto la demolizione dello stesso manufatto” (Cons. Stato, V, 15.06.2000, n. 3320; si veda anche Cons. Stato, V, 18.03.1991, n. 280) (TAR Lombardia Milano, sez. III, 21.12.2010, n. 7633) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 30.01.2012 n. 166 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non sussiste l'obbligo di comunicazione di avvio del procedimento in relazione al rigetto dell'istanza di concessione in sanatoria, essendo il relativo procedimento attivato ad istanza di parte.
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La validità del nulla osta ambientale, rilasciato per l'esecuzione di lavori edilizi nelle zone sottoposte a vincolo paesistico, viene meno, automaticamente, nel caso in cui siano decorsi cinque anni, come sancito dall'art. 16, r.d. 03.06.1940 n. 1357.
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L’ordinanza di demolizione, pur nella estrema sinteticità della sua parte motiva, è atto consequenziale al diniego di concessione in sanatoria.

Non vi è, innanzitutto, alcuna violazione nell’operato della resistente amministrazione delle disposizioni di legge in tema di partecipazione al procedimento. Infatti, in disparte l’orientamento giurisprudenziale per cui non sussiste l'obbligo di comunicazione di avvio del procedimento in relazione al rigetto dell'istanza di concessione in sanatoria, essendo il relativo procedimento attivato ad istanza di parte (cfr. Consiglio Stato , sez. IV, 21.02.2011, n. 1085), deve essere rilevato come nel caso di specie non solo è stata inviata alla società ricorrente la preventiva comunicazione in ordine al nominativo del responsabile del procedimento, ma è stata anche comunicato il cd. preavviso di rigetto, cioè la comunicazione delle ragioni ostative all’accoglimento dell’istanza di concessione in sanatoria, recante peraltro invito alla medesima ricorrente a voler formulare osservazione e produrre memoria. Piuttosto, è la ricorrente che in sede procedimentale non ha dato, pur richiesto, il proprio utile apporto omettendo di far pervenire contestazioni o deduzioni di sorta.
Quanto al “merito” dell’avversato diniego, devesi innanzitutto rilevare che non vi è contestazione tra le parti sulla circostanza per cui la zona interessata all’intervento, realizzato in difetto di titolo edilizio, è sottoposta a vincolo paesaggistico, con conseguente necessità dell’autorizzazione dell’autorità preposta alla gestione del vincolo. Orbene, è un fatto che la ricorrente si richiama ad una autorizzazione paesaggistica rilasciata nel 1993, ma è parimenti corretto quanto rileva il Comune in ordine alla intervenuta scadenza di detta autorizzazione. Infatti, la validità del nulla osta ambientale, rilasciato per l'esecuzione di lavori edilizi nelle zone sottoposte a vincolo paesistico, viene meno, automaticamente, nel caso in cui siano decorsi cinque anni, come sancito dall'art. 16, r.d. 03.06.1940 n. 1357 (cfr. TAR Campania Napoli, sez. II, 07.05.2007, n. 4788). E’ chiaro che la intervenuta (abusiva) realizzazione dell’opera non impedisce il venir meno della validità della autorizzazione del 1993, non essendosi concluso nel quinquennio dal suo rilascio l’iter per la sanatoria dell’opera. Del resto, a comprova della sostanziale mancanza di autorizzazione paesaggistica all’atto della presentazione della istanza di condono denegata, va rimarcato che la stessa ricorrente ha proposto ricorso straordinario al Capo dello Stato contro il silenzio rifiuto della competente Soprintendenza proprio in ordine alla procedura di sanatoria della stazione radio base di cui è questione.
Sono, del pari, infondati i motivi aggiunti rivolti avverso l’ordinanza di demolizione adottata dal Comune di Diamante, peraltro puntualmente preceduta da comunicazione di avvio del procedimento. L’ordinanza di demolizione, pur nella estrema sinteticità della sua parte motiva, è atto consequenziale al diniego di concessione in sanatoria, la cui legittimità è stata innanzi riscontrata dal Collegio (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 17.01.2012 n. 22 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Laddove una determinazione amministrativa di segno negativo tragga forza, come nel caso di specie, da una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali sia di per sé idonea a supportarla in modo autonomo, è sufficiente che anche una sola di esse passi indenne alle censure mosse in sede giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso resti esente dall'annullamento, diventando irrilevanti, per difetto di interesse, le ulteriori censure dedotte da parte ricorrente avverso le altre ragioni opposte dall'autorità emanante a rigetto della sua istanza.
Consegue a quanto rilevato che l’avversato diniego di condono è legittimo anche avendo esclusivo riguardo alla mancanza di autorizzazione della competente Soprintendenza.
Ciò posto, rileva il Collegio che laddove una determinazione amministrativa di segno negativo tragga forza, come nel caso di specie, da una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali sia di per sé idonea a supportarla in modo autonomo, è sufficiente che anche una sola di esse passi indenne alle censure mosse in sede giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso resti esente dall'annullamento (cfr. TAR Campania Napoli, sez. I, 06.04.2011, n. 1966), diventando irrilevanti, per difetto di interesse, le ulteriori censure dedotte da parte ricorrente avverso le altre ragioni opposte dall'autorità emanante a rigetto della sua istanza (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 31.03.2011, n. 1981) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 17.01.2012 n. 22 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 6, d.p.r. n. 380 del 2001, come modificato dalla l. n. 73 del 2010 espressamente statuisce che "(...) possono essere eseguiti senza alcun titolo abilitativo i seguenti interventi: (...) le opere di pavimentazione e di finitura di spazi esterni, anche per aree di sosta, (…), ove stabilito dallo strumento urbanistico comunale" lasciando intenderne l’esecuzione senza il rilascio di alcun titolo abilitativo purché la realizzazione delle stesse sia compatibile con le destinazioni impresse alle varie aree dallo strumento urbanistico vigente.
Inoltre va ribadito che l'art. 6, d.p.r. n. 380 del 2001, come modificato dalla l. n. 73 del 2010 espressamente statuisce che "(...) possono essere eseguiti senza alcun titolo abilitativo i seguenti interventi: (...) le opere di pavimentazione e di finitura di spazi esterni, anche per aree di sosta, (…), ove stabilito dallo strumento urbanistico comunale" lasciando intenderne l’esecuzione senza il rilascio di alcun titolo abilitativo purché la realizzazione delle stesse sia compatibile con le destinazioni impresse alle varie aree dallo strumento urbanistico vigente (TAR Veneto sez. II, 30.09.2010, n. 5244) (
TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 13.01.2012 n. 184 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’indicazione dell’area di sedime, così come di quella necessaria per opere analoghe a quelle abusive, da acquisire al patrimonio comunale “non deve considerarsi requisito dell’ordinanza di demolizione -e dunque la mancanza non ne inficia la legittimità- giacché siffatta specificazione è elemento essenziale del distinto provvedimento con cui l’Amministrazione accerta la mancata ottemperanza alla demolizione da parte dell’ingiunto”.
Il contenuto essenziale dell’ingiunzione di demolizione va individuato in relazione alla funzione tipica del provvedimento, che è quella di prescrivere la rimozione delle opere abusive. Pertanto, ai fini della legittimità dell’atto è necessaria e sufficiente l’analitica indicazione delle opere abusivamente realizzate in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente.

Uniformandosi alla giurisprudenza prevalente, la Sezione ha ritenuto che l’indicazione dell’area di sedime, così come di quella necessaria per opere analoghe a quelle abusive, da acquisire al patrimonio comunale “non deve considerarsi requisito dell’ordinanza di demolizione -e dunque la mancanza non ne inficia la legittimità- giacché siffatta specificazione è elemento essenziale del distinto provvedimento con cui l’Amministrazione accerta la mancata ottemperanza alla demolizione da parte dell’ingiunto” (TAR Puglia Lecce, sez. III, 15.12.2011, n. 2172, 28.07.2011, n. 1461, 24.03.2011, n. 518 e 09.12.2010, n. 2809; nello stesso senso, TAR Piemonte Torino, sez. I, 24.03.2010, n. 1577).
Il contenuto essenziale dell’ingiunzione di demolizione va individuato in relazione alla funzione tipica del provvedimento, che è quella di prescrivere la rimozione delle opere abusive. Pertanto, ai fini della legittimità dell’atto è necessaria e sufficiente l’analitica indicazione delle opere abusivamente realizzate in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente (TAR Lazio Roma, sez. I, 09.02.2010, n. 1785) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 13.01.2012 n. 56 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 02.04.2012

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Siamo stanchi di inkazzarci per le nefandezze altrui !!

     In questi ultimi mesi, il Governo italiano ha operato manovre economico-finanziarie-sociali le più disparate per salvare il "sistema Italia" ... e si sente vociferare, già in questi giorni, che i dipendenti pubblici italiani, come quelli della Grecia, si vedranno diminuire lo stipendio.
     Bene, che si incominci pure dagli strapagati top manager, direttori generali, segretari comunali (ove molti di quest'ultimi tengono il piede in 3, 4, 5 e più comuni ... e non si comprende come possano svolgere al meglio le loro mansioni !!) e non dalla stragrande maggioranza di dipendenti che, dopo 33 anni di lavoro -tanto per fare un esempio, beccano 1.300,00/1.500,00 euro netti mensili !! Certo, anche questi sono pur sempre dei privilegiati rispetto a chi il lavoro non ce l'ha, ma arrivare alla fine del mese è un quotidiano rinunciare a tante piccole cose che mina, a lungo andare, la dignità umana.
     Poi, che dire di quegli amministratori comunali, provinciali e regionali che scialacquano il denaro pubblico in mille consulenze clientelari semplicemente inutili oppure dei consiglieri regionali che lavorano così tanto da essere sempre grondanti oppure dei super pagati dirigenti dello Stato centrale: ebbene, leggete gli articoli qui sotto riportati.
 

ENTI LOCALI: Consulenze pubbliche: la “grande abbuffata” di Comuni, Province e Regioni.
Da uno studio della Funzione pubblica emerge che nel 2010 enti territoriali, università e aziende sanitarie hanno disperso oltre un miliardo e mezzo di euro in 276mila incarichi inutili, figure professionali esterne spesso doppioni rispetto ai già abbondanti dipendenti statali.
Ogni anno l’Italia spende 2 miliardi di euro in consulenze pubbliche (fonte Corte dei Conti). Carburante che Regioni, Province, università e aziende sanitarie disperdono in migliaia di incarichi (276 mila per l’esattezza) più o meno inutili, più o meno bizzarri.
Figure professionali esterne che diventano doppioni rispetto ai già abbondanti dipendenti statali. Il ministero per la Funzione Pubblica ha pubblicato le auto-certificazioni relative al 2010; la somma complessiva è di oltre 1,675 miliardi di euro, ma qualche furbo –i comuni di Roma o Napoli (mandato Rosetta Iervolino) e persino il governo– omette i particolari: e la cifra, seppur enorme, dimagrisce. Senza cancellare, però, decine di sprechi che saltano di qua e di là in mezzo a migliaia di pagine. Un elenco impressionante che i sindaci d’Italia –550 milioni di euro dichiarati, in realtà tanti di più– riempiono con commissioni a volte assurde e a volte cinematografiche: indagini per censire i piccioni; monitoraggio per le mosche che aggrediscono le olive e per l’insetto che distrugge le viti; corsi per estetica e accoglienza; esperti di risparmio energetico che consigliano di spegnere le luci in casa; sedute di ginnastica cinese, mediatori culturali arabi; calendari per la polizia municipale, loghi per i parchi cittadini. E poi milioni di euro in contenziosi legali sempre ai soliti studi; esosi atti notarili; architetti di lusso. I comuni grandi non badano a spese, anche se durante l’esame ministeriale insabbiano i dettagli; i comuni piccoli faticano a distribuire il malloppo che ricevono, ovviamente non risparmiano né denari pubblici né avventurose consulenze: a Benevento c’è un meteorologo municipale, a Ginosa (20 mila abitanti) la comunicazione costa oltre 100 mila euro, contratti divisi in otto contrattini per non scontentare nessuno.
La relazione ministeriale, che cerca di contenere rivoli che esondano, precisa un fatto semplice per intuizione: i nostri enti pubblici preferiscono assegnare le consulenze a persone esterne all’amministrazione. I dipendenti non s’avvicinano nemmeno a quei rapporti di lavoro occasionale che superano i 15 mila euro. Il ministero, ottimista, spera che i vari Comuni e Regioni, in futuro, restituiranno il denaro di troppo, che non serve nemmeno per “il benessere e lo sviluppo dei cittadini” (succede a Parma, 400 mila euro). Non sfugge la passione dei centri anche minuscoli per consulenze edilizie per decine di migliaia di euro né per i giornalini-megafono di sindaci e assessori. E quante docenze, musiche e arte ovunque, a forte intensità, per quei borghi dove non nascono più bambini, ma fiorisce la fantasia (... continua) (articolo Il Fatto Quotidiano del 29.03.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI: In tre mesi i consiglieri regionali hanno lavorato da 4 a 18 giorni e guadagnato fino a 60 mila euro lordi.
La morale? Se il
nuovo articolo 18 fosse applicato a questi politici, molti di loro sarebbero da licenziare (... continua) (articolo Panorama del 04.04.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI: La casta italiana degli stipendi d'oro. Inchiesta sui superburocrati che neppure lo Stato sa di pagare così tanto.
Almeno quindici dirigenti pubblici hanno compensi oltre 450 mila euro. Poi ci sono extra, pensioni, incarichi fantasma. Consiglieri top secret di ministri e professori  di "buona amministrazione" che non insegnano. Ecco i nomi dei funzionari che guadagnano più di Obama (400 mila dollari). E perché. (... continua) (articolo Corriere della Sera - Sette del 29.03.2012 - tratto da www.ecostampa.it).


     Allora, di fronte a tanta scempiaggine non dobbiamo abbandonarci al torpore mentale sentendo quotidianamente dai mass-media tali notizie. Perché ciò

NON E' NORMALE !!

     L'indifferenza è il substrato da dove prolifera ogni tipo di virus che può intaccare la parte sana della società civile. Ed è ora di finirla di essere indifferenti, sempre e comunque.
     Quindi, dobbiamo tenere alta la testa, non aver paura di indignarci e che gli onesti (che sono ancora la maggioranza, per fortuna) non abbiano il timore di gridare a questi amministratori, per il bene dell'Italia e degli Italiani:

ANDATEVENE A CASA !!

02.04.2012 - LA SEGRETERIA PTPL

SINDACATI

ENTI LOCALI  - PUBBLICO IMPIEGO: EE.LL.: le posizioni organizzative e il blocco del salario accessorio (CGIL-FP di Bergamo, nota 29.03.2012).

CORTE DEI CONTI

SEGRETARI COMUNALI: Diritti di rogito - oneri contributivi e IRAP.
La Corte dei Conti Sez. Reg.le Sardegna, con il parere 29.03.2012 n. 27, risponde ai quesiti posti dal Comune di Capoterra volti a conoscere l'avviso della Corte circa la possibile applicazione analogica ai Segretari comunali (per la percezione dei diritti di rogito) delle previsioni che dispongono che le competenze professionali maturate dai tecnici e dai legali dipendenti della pubblica amministrazione sono da ritenersi comprensive anche degli oneri riflessi a carico del datore di lavoro e circa le modalità di copertura dell'onere costituito dall'IRAP.
Per gli oneri contributivi, la Sezione ritiene: "... poiché per i diritti di rogito manca nell'ordinamento un'espressa previsione di deroga all'art. 2115 c.c. che superi quella già applicabile di cui all'art. 2 comma 2 della legge 335/1995 e poiché le eccezioni indicate dai commi 207 e 208 della legge 266/2005 e dall'art. 92 comma 5 del D.lgs. 163/2006 non possono trovare applicazione oltre i casi ivi espressamente previsti, ritiene in conclusione la Sezione che non sia possibile applicare analogicamente ai segretari comunali la disciplina che è stata prevista dal legislatore solo per gli onorari professionali dei legali pubblici e per gli incentivi del personale tecnico dipendente delle pubbliche amministrazioni, la quale pone interamente a carico di questi ultimi gli oneri riflessi od accessori sui loro compensi latu sensu professionali (dunque anche per la parte altrimenti a carico dell'amministrazione di appartenenza secondo le previsioni generali della legge n. 335/1995)".
Per quanto concerne, invece, l'IRAP: "Considerazioni diverse devono invece effettuarsi per l'Irap, rispetto al quale il Comune richiedente sembra ignorare l'esatta portata della deliberazione n. 33/2010 delle Sezioni Riunite di questa Corte ............La circostanza,......, che le Sezioni Riunite abbiano correttamente specificato che da un punto di vista contabile gli enti che corrispondono compensi incentivanti per la progettazione ovvero compensi professionali alle avvocature interne sono tenuti ad accantonare e prevedere nei rispettivi fondi gli importi necessari a fronteggiare il pagamento dell'IRAP ......... non significa che l'Irap debba necessariamente rimanere a carico dei professionisti dipendenti: come è stato precisato nella precedente deliberazione n. 18/2012 di questa Sezione e dalla deliberazione n. 48/2010 della Sezione di controllo per la Regione Piemonte .............Pertanto è evidente che per i diritti di rogito dei segretari comunali, per la cui regolamentazione opera la fonte contrattuale e per i quali al momento non sussiste la possibilità di una diversa autonoma regolamentazione interna dell'ente locale, non si pone nemmeno una questione di applicabilità analogica della disciplina operante per l'Irap sui compensi professionali dei legali pubblici e sui compensi incentivanti del personale tecnico.
Infatti anche per gli avvocati pubblici ed i tecnici dipendenti dell'amministrazione si applicano le previsioni generali che pongono l'Irap a carico del datore di lavoro, fatti salvi gli effetti che indirettamente possono derivare dalla regolamentazione adottata dall'ente di appartenenza. Né, del resto, in assenza di specifica normativa di segno contrario, si ravvisano ulteriori ragioni per le quali si debba o si possa porre a carico dei segretari comunali il pagamento dell'Irap sui diritti di rogito, valendo anche per essi l'essenziale considerazione che tale onere grava sul titolare dell'attività produttiva che è, appunto, l'amministrazione presso la quale prestano servizio
" (tratto da www.publika.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 30.03.2012 n. 76 "Piano straordinario biennale adottato ai sensi dell’articolo 15, commi 7 e 8, del decreto-legge 29.12.2011, n. 216, convertito, con modificazioni, dalla legge 24.02.2012, n. 14, concernente l’adeguamento alle disposizioni di prevenzione incendi delle strutture ricettive turistico-alberghiere con oltre venticinque posti letto, esistenti alla data di entrata in vigore del decreto del Ministro dell’interno 09.04.1994, che non abbiano completato l’adeguamento alle suddette disposizioni di prevenzione incendi" (Ministero dell'Interno, decreto 16.03.2012).

APPALTI SERVIZI: G.U. 28.03.2012 n. 74, suppl. ord. n. 57, "Adozione dei criteri ambientali minimi da inserire nei bandi di gara della Pubblica Amministrazione per l’acquisto di servizi energetici per gli edifici - servizio di illuminazione e forza motrice - servizio di riscaldamento/raffrescamento" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 07.03.2012).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: L. Bellagamba, La comunicazione del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali sulla «non autocertificabilità» del DURC. La correzione interpretativa della successiva comunicazione dell’INAIL, d'intesa con il Ministero stesso. La piena autocertificabilità del DURC anche per l’ipotesi di cui al D.Lgs. 81/2008, art. 90, comma 9, lett. c). La circolare INPS 27.03.2012, n. 47 (sesto aggiornamento) (29.03.2012 - link a www.linobellagamba.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: G. Corsi, La responsabilità della PA da esercizio o mancato esercizio di potere amministrativo (link a www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: F. Maggio, Il censimento catastale dei fabbricati rurali (link a www.ipsoa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: M. Sanna, Terre e rocce da scavo: una storia italiana (link a www.industrieambiente.it).

NEWS

INCARICHI PROGETTUALIAppalti al sicuro. Affidamenti diretti fino a 40 mila. La risposta del ministero delle infrastrutture sull'art. 125.
Legittimi gli affidamenti diretti, senza gara, disposti dalle stazioni appaltanti per incarichi di progettazione, direzione lavori e collaudo di importo fino a 40 mila euro.
È quanto precisato dal ministero delle infrastrutture con la risposta 29.03.2012 del sottosegretario Guido Improta alla Commissione ambiente della Camera, rispetto a un'interrogazione (C.5/05557 - Innalzamento del limite per il conferimento fiduciario degli incarichi professionali nell'ambito dei lavori pubblici) presentata da Guido Dussin (Lega Nord).
Si chiude così una querelle sulla quale anche l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici si era espressa nell'ottobre scorso (parere n. 181) derivante dal mancato coordinamento fra due norme.
In particolare l'art. 4, comma 15 della legge 106/2011 ha modificato sia l'art. 125, comma 11 del Codice dei contratti pubblici, portando a 40 mila euro la soglia per gli affidamenti fiduciari per servizi e forniture affidate da amministrazioni pubbliche, sia l'art. 267, comma 10 del dpr 207/2010 (regolamento del Codice) eliminando il richiamo alla norma del Codice in materia di affidamenti diretti, con la conseguenza di ritenere ammissibili solo i cottimi fiduciari fino a 20 mila euro.
Si trattava di stabilire se fosse legittimo, alla luce delle modifiche della legge 106, affidare in via fiduciaria e quindi direttamente, senza confronto informale fra più soggetti, incarichi di servizi di progettazione, direzione lavori e collaudo anche per importi compresi fra 20 mila e 40 mila euro. Si potevano infatti ritenere illegittimi tali affidamenti, attribuendo al disposto di cui all'art. 267 del regolamento del Codice un carattere di specialità rispetto alla normativa di riferimento (l'art. 125, comma 11 del Codice che fissa a 40 mila euro la soglia per affidare direttamente tutti i servizi), con la conseguenza che sarebbero stati illegittimi gli affidamenti compresi fra 20 mila e 40 mila euro.
Il ministero ha affermato la prevalenza della norma del Codice (art. 125, comma 11), così come modificata dalla legge 106/2011, su quella del regolamento, in considerazione del carattere non delegificante del dpr 207/2010, che non autorizza quindi in alcun modo un'interpretazione che possa ritenere prevalente l'art. 267 rispetto alla norma di legge.
Il ministero, inoltre, ha affermato che la norma regolamentare, avendo eliminato il richiamo al secondo periodo del comma 11 dell'art. 125 del Codice, deve essere letta nel senso di ritenere applicabile la soglia dei 40 mila euro a tutte le tipologie di servizi e forniture e non, quindi, nel senso di non ammettere alcun affidamento diretto o soltanto cottimi fiduciari fino a 20 mila euro.
Il ministero ha confermato quanto l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, nel parere n. 181 del 20/10/2011, aveva affermato ritenendo che la volontà del legislatore sia stata quella di assoggettare l'intero ambito dei servizi di cui all'art. 252 (Servizi attinenti all'architettura e all'ingegneria) alla nuova disciplina prevista dall'art. 125, comma 11 e, quindi, alla soglia dei 40 mila euro (articolo ItaliaOggi del 31.03.2012 - tratto da www.ecostampa.it)

ENTI LOCALI - VARIL'acconto per l'Imu diventa un rebus. Da chiarire come pagare ed evitare sanzioni.
IL SECONDO FRONTE/ Per molti immobili detenuti al 1° gennaio sarà necessario presentare una nuova dichiarazione per la fine di luglio.
La disciplina dell'Imu si arricchisce di particolari, ma complica ulteriormente il rebus del primo appuntamento effettivo alla cassa, fissato per il 18 giugno prossimo con il versamento dell'acconto (il 16 cade di sabato).
È questo il risultato degli emendamenti dei relatori alla legge di conversione del decreto fiscale (si veda Il Sole 24 Ore di ieri), che nascono dalla difficoltà di avere in tempi brevi un quadro chiaro sui gettiti reali dell'imposta e offrono quindi più tempo ai sindaci per fissare le aliquote definitive.
In pratica, secondo gli emendamenti le amministrazioni locali potranno prendersi fino al 30 settembre per decidere le aliquote definitive da applicare alle diverse tipologie di immobili; nulla, però, si dice sulle modalità di calcolo da seguire per effettuare il versamento dell'acconto mettendosi al riparo da eventuali sanzioni riservate a chi paga una prima rata troppo leggera.
Il problema era già emerso dopo che il «Milleproroghe» aveva fatto slittare al 30 giugno i termini per chiudere preventivi e regolamenti tributari ma naturalmente si complica ora che la distanza fra la scadenza per l'acconto e quella per le aliquote definitive si allunga da due settimane a tre mesi e mezzo. Una prima versione del decreto fiscale aveva deciso di ancorare i calcoli dell'acconto alle aliquote di riferimento fissate dal decreto «Salva-Italia» (4 per mille per l'abitazione principale e 7,6 per mille per gli altri immobili, con eccezioni per categorie particolari come i fabbricati strumentali all'attività agricola) ma nel testo approvato dal Governo non c'è traccia della previsione. Alla luce dei nuovi emendamenti, la questione si fa ancora più urgente.
I correttivi diffusi nella serata di giovedì, che saranno votati lunedì, si incaricano anche di tornare sugli obblighi dichiarativi, resi urgenti dalle tante novità determinate nel passaggio dalla disciplina Ici a quella dell'Imu. La nuova imposta, per esempio, permette di trattare come abitazione principale solo un garage, una cantina e una tettoia, mentre l'Ici consentiva una geografia delle pertinenze più generosa, e una stretta ancora più drastica arriva per le assimilazioni.
La nuova regola proposta dagli emendamenti fissa la prima scadenza al 30 luglio prossimo (quindi, anch'essa, un mese e mezzo dopo i termini dell'acconto) per gli immobili già posseduti allo scorso 1° gennaio e, proprio a causa delle tante novità portate dall'Imu rispetto alla vecchia imposta comunale sugli immobili, appare destinata a imbarcare un'ampia platea di contribuenti. Sarà comunque un decreto ministeriale, previsto dal decreto legislativo sul federalismo dei sindaci (articolo 9, comma 6, del Dlgs 23/2011) ma non ancora varato, a stabilire le modalità della dichiarazione, che senza dubbio sarà più ricca di informazioni rispetto alle dichiarazioni Ici.
Le novità messe nero su bianco dai relatori al provvedimento si occupano poi di alleggerire un po' il carico agli agricoltori, esentano i fabbricati sopra i mille metri quadrati (per i terreni continuano invece a operare le vecchie esenzioni nei Comuni collinari e montani), reintroducono forme di abbattimento dell'imponibile e tagliando l'acconto al 30% per i terreni. "Salvati" dalla quota erariale dell'imposta gli immobili di Iacp e cooperative edilizie a proprietà indivisa, insieme al mattone dei Comuni utilizzato per scopi non istituzionali che per questa via esce del tutto dall'ambito Imu.
Sull'intera partita, però, pesano le ristrettezze del bilancio pubblico, che per esigenze di copertura lasciano fuori dai correttivi una ricca platea che invece guardava con speranza al passaggio parlamentare. In prima fila ci sono i proprietari di immobili dati in affitto, che nel passaggio all'Imu vanno incontro a regole che moltiplicano la vecchia Ici per 2-3 volte quando il canone è di mercato e arrivano a decuplicarla quando l'affitto è a canone concordato. Il colpo rischia di essere duro per il mercato degli affitti (e letale per i canoni concordati) già frenato dalla crisi economica. Un ritocco, inaspettato, è invece giunto per i proprietari di dimore storiche, che si vedono gonfiare l'imponibile e di conseguenza il conto presentato dall'Imu (articolo Il Sole 24 Ore del 31.03.2012 - tratto da www.ecostampa.it)

ENTI LOCALII piccoli comuni dovranno associare anche le funzioni Ict. Lo prevede un emendamento al dl semplificazioni. Ma si rischia il caos.
I piccoli comuni dovranno esercitare in forma associata le funzioni Ict. Lo prevede un emendamento al decreto «Semplifica Italia» che, tuttavia, pone diversi problemi, sovrapponendosi alle norme già in vigore sull'esercizio associato delle funzioni comunali.
L'art. 47-ter del dl 5/12 (introdotto dalla camera in sede di conversione del provvedimento, ora all'esame del senato) novella l'art. 15 del codice dell'amministrazione digitale (dlgs 82/2005) aggiungendovi 7 nuovi commi.
Il nuovo comma 3-bis prevede che, nei comuni fino a 5.000 ab., le funzioni legate alle tecnologie dell'informazione e della comunicazione siano «obbligatoriamente ed esclusivamente» esercitate in forma associata.
In base al comma 3-ter, l'obbligo abbraccia realizzazione e gestione di infrastrutture tecnologiche, rete dati, fonia, apparati, banche dati, applicativi e licenze software, formazione e consulenza nel settore dell'informatica. Sarà un decreto del ministero della funzione pubblica, d'intesa con la Conferenza unificata, a definire puntualmente le singole funzioni.
Lo stesso provvedimento, da emanare entro sei mesi, dovrà dettare la tempistica attuativa, garantendo che il limite demografico minimo raggiunga almeno 30.000 abitanti, salvo diversa previsione da parte delle regioni, le quali, entro due mesi e con riferimento alle materie di competenza legislativa regionale, potranno individuare «la dimensione territoriale ottimale e omogenea per area geografica» dei vari ambiti. A regime, i comuni non potranno più assumere singolarmente obbligazioni inerenti alle funzioni e ai servizi Ict e dovranno individuare, all'interno della gestione associata, un'unica stazione appaltante.
Con tutta evidenza, tale disciplina si sovrappone a quella dettata da precedenti disposizioni, a partire dall'art. 14 del dl 78/10 (che riguarda le funzioni fondamentali dei comuni fra 1.000 e 5.000 ab.), proseguendo con l'art. 16 del dl 138/11 (relativo alle funzioni, anche non fondamentali, dei comuni con meno di 1.000 ab.), per finire con l'art. 23 del dl 201/2011 (che ha previsto per tutti i comuni fino a 5.000 ab. la centralizzazione delle funzioni di stazione appaltante).
Sarà, pertanto, fondamentale sincronizzare tempi e modalità di attuazione di tutte le disposizioni citate, tenendo presenti le proroghe previste dal dl 216/11. Anche con questo accorgimento, tuttavia, le criticità paiono numerose. Problematico pare, in particolare, il comma 3-quater, secondo cui la medesima funzione Ict non può essere svolta da più di una forma associativa. Occorre, infatti, ricordare che, in base all'art. 16 del dl 138/2011, i comuni con meno di 1.000 abitanti (ma non quelli fra 1.000 e 5.000 ab.) sono obbligati a gestire la totalità delle loro funzioni mediante un'unica forma associativa, sicché il combinato disposto di tale previsione con quelle successive rischia di segmentare la platea dei piccoli comuni, rendendo arduo il raggiungimento delle soglie minime e il conseguimento di economie di scala.
Come sottolineato da Mauro Guerra, delegato Anci ai piccoli comuni, quindi, «occorre recuperare razionalità e coerenza tra i diversi interventi normativi» per scongiurare il rischio «di rendere ancora più difficoltose le attività dei piccoli comuni» (articolo ItaliaOggi del 30.03.2012).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALISEMPLIFICAZIONI/ Ok alla fiducia sul dl 5/2012, che va alla camera per l'ultimo sì. Niente tagli a revisori e sindaci. I compensi sono fuori dalla riduzione delle indennità.
Compensi dei revisori e sindaci della p.a. senza tagli. Il taglio delle indennità per i componenti di organi degli enti pubblici non tocca i collegi dei revisori e sindacali e i revisori dei conti.
Lo precisa il maxiemendamento al decreto legge semplificazioni (5/2012) su cui ieri l'aula del senato ha votato la fiducia con 246 voti a favore, 33 contrari e due astenuti.
Il provvedimento è stato modificato e dovrà tornare alla camera in terza lettura per l'ok definitivo: va convertito in legge entro il 9 aprile. Ma presto, ha annunciato il ministro della funzione pubblica Filippo Patroni Griffi, arriverà un ddl per riprendere una serie di punti rimasti in sospeso nell'iter delle semplificazioni. Ecco alcune delle novità.
REVISORI E SINDACI. L'articolo 6, comma 2, del decreto legge 78/2010 si è occupato di riduzione dei costi degli apparati amministrativi. In particolare si è previsto che la partecipazione agli organi collegiali, anche di amministrazione, degli enti, che comunque ricevono contributi a carico delle finanze pubbliche, e la titolarità di organi dei predetti enti è onorifica. Niente compensi, dunque.
È ammesso solo un rimborso delle spese sostenute se previsto dalla normativa vigente e, se sono già previsti, i gettoni di presenza non possono superare l'importo di 30 euro a seduta giornaliera. Il maxiemendamento interpreta la disposizione citata e spiega che essa deve intendersi nel senso che il carattere onorifico è previsto per gli organi diversi dai collegi dei revisori dei conti e sindacali e dai revisori dei conti: svolgono una prestazione d'opera a cui corrisponde una controprestazione economica.
APPALTI. L'articolo 29 del dlgs 276/2003 prevede che in caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, oltre i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto.
Per le sanzioni civili, invece, risponde solo il responsabile dell'inadempimento. In sostanza il lavoratore chiede il pagamento dello stipendio al committente. Se chiamato in causa per il pagamento unitamente all'appaltatore il committente imprenditore o datore di lavoro può eccepire nella prima difesa il beneficio della preventiva escussione del patrimonio dell'appaltatore medesimo. E, quindi, il lavoratore dovrà prima fare esecuzione nei confronti dell'appaltatore e poi sul committente. In tal caso, infatti, il giudice accerta la responsabilità solidale di entrambi gli obbligati, ma l'azione esecutiva può essere intentata nei confronti del committente imprenditore o datore di lavoro solo dopo l'infruttuosa escussione del patrimonio dell'appaltatore.
L'eccezione della preventiva escussione può essere sollevata anche se l'appaltatore non è stato convenuto in giudizio, ma in tal caso committente imprenditore o datore di lavoro deve indicare i beni del patrimonio dell'appaltatore sui quali il lavoratore possa agevolmente soddisfarsi. Il committente imprenditore o datore di lavoro che ha eseguito il pagamento può, naturalmente, esercitare l'azione di regresso nei confronti del coobbligato secondo le regole generali.
PARCHEGGI PERTINENZIALI. Il maxiemendamento precisa le eccezioni alla regola per cui la proprietà dei parcheggi di proprietà privata realizzati nei sottosuoli degli immobili o nei locali siti al piano terreno dei fabbricati può essere trasferita solo con contestuale destinazione a pertinenza di altra unità immobiliare sita nello stesso comune. Le eccezion sono le seguenti. La prima è l'espressa previsione contenuta nella convenzione stipulata con il comune. La seconda è l'espressa autorizzazione dell'atto di cessione da parte del comune.
DURC. Si prevede che nell'ambito dei lavori pubblici e privati dell'edilizia le pubbliche amministrazioni acquisiscono d'ufficio il documento unico di regolarità contributiva (Durc).
IMMIGRATI. L'articolo 3 del dpr 445/2000 prevede che i cittadini di stati non appartenenti all'Unione europea regolarmente soggiornanti in Italia, possono utilizzare le dichiarazioni sostitutive, ma limitatamente agli stati, alle qualità personali e ai fatti certificabili o attestabili da parte di soggetti pubblici italiani, fatte salve le speciali disposizioni contenute nelle leggi e nei regolamenti concernenti la disciplina dell'immigrazione e la condizione dello straniero.
In sostanza è la legge speciale che deve stabilire se si usa o non si usa l'autocertificazione. Il maxiemendamento abroga la norma speciale relativa all'uso dell'autocertificazione per gli extracomunitari a fare data dall'01.01.2013 (articolo ItaliaOggi del 30.03.2012).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Sul caso del richiedente poi assente al voto la casistica fornisce soluzioni diverse. Consigli, parola agli enti. Mani libere sulla verifica del numero legale.
Deve essere computato tra i presenti il consigliere che, dopo aver chiesto la verifica del numero legale del consiglio comunale, si sia assentato?
Le modalità di determinazione del numero legale per la validità delle sedute sono demandate all'autonomia normativa degli enti locali; è importante, pertanto, che i medesimi si dotino di una disciplina chiara ed esaustiva in materia. Ciò anche al fine di sottrarre l'ente a possibili contestazioni.
Numerose fonti regolamentari recanti la disciplina di organi collegiali prevedono che i richiedenti la verifica del numero legale debbano essere considerati presenti (cfr art. 46, comma 6, regolamento della camera dei deputati e art. 108 del senato) ancorché siano assenti dall'aula al momento del conteggio.
Tuttavia, se tale criterio non è stato recepito dal regolamento del consiglio comunale ovvero nello stesso viene previsto che la verifica dei presenti sia compiuta tramite appello nominale, o apparecchiatura elettronica e che i consiglieri che si astengono dal votare sono computati nel numero dei presenti sembrerebbe evincersi che i consiglieri assenti dall'aula al momento dell'appello non possano essere considerati presenti ai fini del numero legale della seduta (articolo ItaliaOggi del 30.03.2012).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Delibera di Giunta in composizione ridotta.
La giunta provinciale può deliberare in una composizione ridotta, nel caso in cui sia stato revocato e non ancora sostituito uno degli assessori della sua compagine?

In merito si evidenzia la necessità che la sostituzione dell'assessore revocato avvenga in tempi brevi, allo scopo di ricostituire il plenum dell'organo collegiale qualora la composizione dello stesso sia determinata in modo rigido dallo statuto dell'ente.
Infatti tale fonte può individuare il numero degli assessori in modo fisso oppure, in alternativa, in modo «flessibile» entro il limite massimo consentito dalla legge statale (v. art. 47, comma 2, del Tuel n. 267/2000); nel caso sia stata prescelta dall'ente locale la prima opzione, lo stesso è vincolato all'osservanza della prescritta composizione numerica, senza margini di discrezionalità, per tale profilo, da parte del presidente.
Per quanto concerne la tempistica riguardante la sostituzione dell'assessore revocato, nulla stabilisce sul punto l'art. 46, comma 4, del Tuel.
È appena il caso di rammentare che l'istituto della revoca dell'incarico assessorile, nella previgente legislatura, prevedeva la contestualità della sostituzione; più precisamente, revoca e sostituzione dell'assessore erano configurati quali adempimenti di competenza del consiglio –adottati su proposta del sindaco ovvero del presidente della provincia– che dovevano avere luogo «nella stessa seduta».
Nell'attuale sistema, conformato a tutt'altre modalità di elezione della giunta ed alla sua configurazione di organo fiduciario del sindaco ovvero del presidente della provincia, ora eletto a suffragio diretto, mancano riferimenti espressi ad un termine entro il quale l'organo di vertice deve provvedere alla sostituzione dell'assessore revocato.
Ciò non impedisce che sia insita nel sistema la necessità che l'adempimento in questione debba essere effettuato tempestivamente, al fine di rendere conforme alle prescrizioni statutarie la composizione numerica della giunta.
Per quanto concerne l'evenienza che l'incompleta composizione dell'organo collegiale comporti, nelle more della sostituzione, l'impossibilità di deliberare validamente, si rileva che l'indirizzo giurisprudenziale formatosi sul punto è impostato sul principio per cui la completezza dell'organo collegiale è indispensabile ai fini della sua operatività soltanto all'atto della costituzione originaria.
Pertanto, se qualcuno dei componenti viene a mancare successivamente deve ritenersi che il collegio possa continuare legittimamente a svolgere le sue funzioni, nelle more della reintegrazione del plenum, purché sia sussistente il quorum strutturale (così Consiglio di stato sez. V 08.07.1977 n. 767); la giurisprudenza in parola motiva, invero, tale soluzione con la necessità di impedire la paralisi dell'organo, privilegiando l'efficienza rispetto alla rappresentatività (articolo ItaliaOggi del 30.03.2012).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATALe istruzioni Inps sull'acquisizione d'ufficio delle informazioni. Durc e invalidità civile. Rimane la certificazione.
Stop alla produzione di certificazioni nei confronti dell'Inps. Dal 1° gennaio, le sedi territoriali non richiedono né accettano più certificati da cittadini e imprese, i cui dati e informazioni devono essere ora reperiti direttamente presso le altre amministrazioni, fatta eccezione per il Durc, il certificato di agibilità ex Enpals, la certificazione di esposizione all'amianto Inail e i verbali di invalidità civile.
Lo spiega, tra l'altro, lo stesso Inps
nella circolare 27.03.2012 n. 47.
La decertificazione. Le istruzioni riguardano la direttiva n. 14/2011 con cui il ministro per la pubblica amministrazione ha spiegato le molteplici novità delle modifiche apportate al dpr n. 445/2000, con l'obiettivo ultimo della completa «decertificazione» del rapporto tra pubblica amministrazione e cittadini.
La filosofia di base è, infatti, il rafforzamento del criterio dell'acquisizione d'ufficio (a cura della p.a. interessata) delle informazioni necessarie allo svolgimento dell'istruttoria di una pratica, liberando in tal modo i cittadini dal dover reperire e produrre le relative certificazioni. Peraltro, aggiunge l'Inps, la legge n. 183/2011 (la Finanziaria 2012), al divieto per le p.a. di richiedere certificati o atti di notorietà, ha aggiunto l'ulteriore divieto anche di accettarli.
A tal fine, è fatto obbligo per le p.a. che emettono una certificazione di riportarvi la seguente formula: «Il presente certificato non può essere prodotto agli organi della pubblicazione amministrazione o ai privati gestori di pubblici servizi»; insomma, tutte le certificazioni sono adesso adoperabili esclusivamente nei rapporti tra privati (il funzionario p.a. che dovesse richiedere o accettare un documento con sopra riportata la predetta formula commette illecito disciplinare).
Le eccezioni. In alcuni casi, spiega l'Inps, il nuovo principio non è attuabile. Innanzitutto con il documento unico di regolarità contributiva (Durc). L'Inps spiega che il ministero del lavoro, nel confermare in pieno la precedente disciplina, ha precisato che la nuova normativa (articolo 44-bis del dpr n. 445/2000) definisce esclusivamente una modalità di acquisizione del Durc da parte delle p.a. senza, tuttavia, intaccare in alcun modo il principio secondo cui le valutazioni effettuate da un organismo tecnico (Inps, Inail, cassa Edile) non possono essere sostituite da un'autocertificazione, che non insiste, evidentemente né su fatti, né su status né tantomeno su qualità personali.
Analoghe considerazioni, aggiunge l'Inps vanno svolte in ordine al certificato di agibilità relativo alle imprese del settore dello spettacolo, iscritte alla gestione ex Enpals e per le attestazioni di regolarità contributiva in generale. Le medesime considerazioni, inoltre, valgono anche in merito alla certificazione di esposizione all'amianto rilasciata dall'Inail nonché per i verbali relativi ad accertamenti medico legali redatti da strutture sanitarie pubbliche, in quanto documenti rilasciati all'esito di valutazioni effettuate da organismi tecnici.
Infine, l'Inps esclude dalla decertificazione i verbali di invalidità civile e i verbali d'invalidità ordinaria. Pertanto, per tutti i precedenti documenti resta ferma la possibilità di essere presentati in copia, con una dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà sulla conformità all'originale, resa dal soggetto che li presenza il quale, peraltro, è tenuto a dichiarare che quanto attestato in quei documenti non è stato revocato, né sospeso o modificato (articolo ItaliaOggi del 29.03.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

APPALTIA fronte di una controversa (rispetto all’intendimento della p.a.) formulazione del bando, confermata nella specie dalla pluralità di soggetti incorsi nel medesimo reputato errore e, soprattutto, dal fatto che nessun’impresa ha potuto rispettarne in toto le previsioni (sempre quantomeno nel senso inteso dall’amministrazione) tanto che la stessa aggiudicataria ha violato la lex specialis, avrebbe dovuto assumere rilievo preminente il principio del favor partecipationis, secondo un consolidato e condiviso orientamento.
Dall’analisi della legge di gara emerge all’evidenza come fosse richiesto l’inserimento del crono programma nella busta contenente l’offerta tecnica; in proposito, se da un lato nessuna limitazione veniva indicata rispetto a tale obbligo (dettato oltretutto a pena di esclusione) dalla lex specialis che, anzi, richiedeva al riguardo anche l’indicazione dei tempi di lavorazione, dall’altro lato l’indicazione del tempo di esecuzione costituisce un elemento connaturale dello stesso crono programma, come emerge dalla stessa definizione normativa (art. 40 dPR recante attuazione al codice dei contratti pubblici) a mente della quale lo stesso deve contenere l’indicazione dei tempi di lavorazione.
A fronte di una controversa (rispetto all’intendimento della p.a.) formulazione del bando, confermata nella specie dalla pluralità di soggetti incorsi nel medesimo reputato errore e, soprattutto, dal fatto che nessun’impresa ha potuto rispettarne in toto le previsioni (sempre quantomeno nel senso inteso dall’amministrazione) tanto che la stessa aggiudicataria ha violato la lex specialis, avrebbe dovuto assumere rilievo preminente il principio del favor partecipationis, secondo un consolidato e condiviso orientamento (cfr. ad es. Tar Liguria n. 9204/2010).
Diversamente, in violazione della lex specialis rettamente intesa alla luce del predetto principio, la stazione appaltante ha escluso la totalità dei concorrenti tranne l’unico che, in termini di stretta interpretazione, non ha rispettato la legge di gara, con ciò peraltro precludendosi altresì la pluralità di offerte. Peraltro, a fronte di un bando formalmente non corrispondente all’obiettivo sostanziale perseguito la prima strada percorribile era quella, una volta avviata la gara, del rispetto del predetto principio, fatta salva la sussistenza dei presupposti per l’azzeramento della gara e la riscrittura della lex specialis (TAR Liguria. Sez. II, sentenza 30.03.2012 n. 465 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO:  Inquadramento di pubblici dipendenti: non è ammissibile un'azione volta all'ottenimento di un diverso inquadramento, se non tempestivamente proposta avverso il provvedimento di attribuzione della qualifica, né è ammesso un autonomo giudizio di accertamento per la disapplicazione di provvedimenti dell'Amministrazione.
I provvedimenti di inquadramento di pubblici dipendenti sono considerati atti autoritativi e, come tali, soggetti al termine decadenziale di impugnazione, con la conseguenza che non è ammissibile un'azione volta all'ottenimento di un diverso inquadramento, se non tempestivamente proposta avverso il provvedimento di attribuzione della qualifica, né è ammesso un autonomo giudizio di accertamento in funzione di disapplicazione di provvedimenti dell'Amministrazione, atteso che l'azione di accertamento è esperibile a tutela di un diritto soggettivo, laddove la posizione del pubblico dipendente a fronte della potestà organizzatoria della Pubblica amministrazione è quella di titolare di un mero interesse legittimo (Consiglio di Stato, sez. V, n. 1251 del 28.02.2011; sez. VI, n. 1049 del 18.02.2011) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 29.03.2012 n. 1871 -
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ATTI AMMINISTRATIVILa domanda d'accesso formulata ai sensi dell'art. 22 della l. n. 241 del 1990 deve avere un oggetto non generico e deve riferirsi a documenti specifici senza necessità di attività di elaborazioni o di indagini da parte del soggetto destinatario della richiesta, né detta istanza può essere rivolta a tutti gli atti adottati in un determinato settore, o avere per oggetto tutti gli atti adottati in più anni anche se relativi a specificati procedimenti amministrativi.
Costituisce in materia principio consolidato (e condiviso) quello per cui la domanda d'accesso formulata ai sensi dell'art. 22 della l. n. 241 del 1990 deve avere un oggetto non generico e deve riferirsi a documenti specifici senza necessità di attività di elaborazioni o di indagini da parte del soggetto destinatario della richiesta (cfr. ad es., C.d.S., sez. VI, 10.02.2006, n. 555; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 09.07.2010, n. 16647; TAR Campania, Salerno, sez. I, 21.01.2010, n. 796), né detta istanza può essere rivolta a tutti gli atti adottati in un determinato settore (cfr. ad es., TAR Sicilia, Catania, sez. III, 29.06.2002, n. 1176), o avere per oggetto tutti gli atti adottati in più anni anche se relativi a specificati procedimenti amministrativi (cfr. ad es., TAR Lazio, Roma, sez. III, 11.01.2005, n. 152) (TAR Liguria. Sez. II, sentenza 29.03.2012 n. 447 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIl corrispettivo della concessione del diritto di superficie, previsto nella convenzione, comprende anche i costi sostenuti dal comune per l'esproprio di aree non oggetto della concessione, ma destinate a contenere opere di urbanizzazione previste dal p.e.e.p..
La disposizione di cui all’art. 35, comma 12, della legge 22.10.1971, n. 865, a mente della quale “i corrispettivi della concessione in superficie…ed i prezzi delle aree cedute in proprietà devono, nel loro insieme, assicurare la copertura delle spese sostenute dal comune o dal consorzio per l’acquisizione delle aree comprese in ciascun piano approvato a norma della legge 18.04.1962, n. 167”, ha natura di norma inderogabile e pertanto essa, per effetto di quanto stabilito dall’art. 1339 c.c., integra il contenuto della convenzione (C.d.S., sez. V, 14.02.2005, n. 453; 01.12.2003, n. 7820), quand’anche questa non avesse espressamente previsto l’evenienza del conguaglio (sempre che la acquisizione delle aree sia avvenuta nel rispetto della procedura espropriativa prevista dalla legge, circostanza che non è stata oggetto di contestazione).
Al riguardo è appena il caso di rilevare che, alla stregua di un consolidato indirizzo giurisprudenziale, il corrispettivo della concessione del diritto di superficie, previsto nella più volte ricordata convenzione, comprende anche i costi sostenuti dal comune per l'esproprio di aree non oggetto della concessione, ma destinate a contenere opere di urbanizzazione previste dal p.e.e.p. (atteso che la norma fa riferimento ai "costi" o "corrispettivi" delle opere di urbanizzazione realizzate o realizzande a cura del comune e "relative" alle aree oggetto della concessione, tra i quali ben possono rientrare quelli sostenuti o sostenendi per l'esproprio delle aree su cui tali opere devono sorgere, tanto più che non vi è ragione di escludere il concessionario di un determinato lotto dall'onere dei costi delle opere di urbanizzazione funzionali alla edificabilità del suo lotto, salva ovviamente l’esistenza del necessario legame funzionale tra opere di urbanizzazione ed aree date in concessione che costituisce giustificazione e limite dell'addebito dei costi (Cass. Civ., sez. I, 07.02.2007, n. 2706; 14.09.2004, 18440) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.03.2012 n. 1863 -
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APPALTIGare pubbliche: l'esame delle offerte economiche prima di quelle tecniche costituisce una palese violazione dei principi inderogabili di trasparenza e di imparzialità.
Secondo il consolidato indirizzo giurisprudenziale nelle procedure indette per l'aggiudicazione di appalti con la Pubblica Amministrazione sulla base del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, la commissione di gara è tenuta a valutare prima i profili tecnici delle offerte, e solo successivamente quelli economici.
E’ irrilevante che il bando non richiami una specifica disposizione di legge per stabilire quale delle due offerte debba essere esaminata con priorità sull'altra, atteso che l'esame delle offerte economiche prima di quelle tecniche costituisce una palese violazione dei principi inderogabili di trasparenza e di imparzialità che devono presiedere alle gare pubbliche, dal momento la conoscenza preventiva dell'offerta economica consente di modulare il giudizio sull'offerta tecnica in modo non conforme alla parità di trattamento dei concorrenti, e tale possibilità, ancorché remota ed eventuale, per il solo fatto di esistere inficia la regolarità della procedura (cfr., di recente, C.d.S., V, 25.05.2009, n. 3217; 08.09.2010, n. 6509; 21.03.2011, n. 1734).
Il principio appena detto, giusta l’ampia valenza del suo fondamento giustificativo, ha una portata generale. Per quanto già desumibile dall’art. 91 d.P.R. n. 554/1999, esso si applica incontestabilmente anche alla materia degli appalti pubblici di servizi (così, ad es., V, 02.10.2006, n. 5735, proprio in tema di servizi: “…è fermo e pacifico l'orientamento secondo cui costituisce ordinario quanto inderogabile canone operativo, nelle pubbliche gare, necessario a garantirne la trasparenza, la massima obiettività nell'assegnazione dei punteggi e, in definitiva, la par condicio tra i concorrenti, quello per cui l'assegnazione dei punteggi tecnici -tanto più quando siano frutto di apprezzamento tecnico ampiamente discrezionale, caratterizzato da una molteplicità di fattori di valutazione differenziati- deve precedere la conoscenza delle offerte economiche”) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.03.2012 n. 1862 -
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APPALTILa Commissione di gara deve predisporre specifiche cautele per assicurare l'integrità e la conservazione dei plichi contenenti le offerte.
L'obbligo di predisporre adeguate cautele a tutela dell'integrità delle buste recanti le offerte delle imprese partecipanti a gare pubbliche, in mancanza di apposita previsione da parte del legislatore, discende necessariamente dalla stessa ratio che sorregge e giustifica il ricorso alla gara pubblica per l'individuazione del contraente nei contratti delle Pubbliche amministrazioni, in quanto l'integrità dei plichi contenenti le offerte dei partecipanti all'incanto è uno degli elementi sintomatici della segretezza delle offerte e della par condicio di tutti i concorrenti, assicurando il rispetto dei principi di buon andamento ed imparzialità consacrati dall'art. 97 Cost., ai quali deve uniformarsi l'azione amministrativa (cfr. ad es. C.d.S., V, 29.12.2009, n. 8817).
La commissione di gara, quindi, deve predisporre specifiche cautele a tutela dell'integrità e della conservazione delle buste contenenti le offerte, di cui deve farsi menzione nel verbale di gara: e tale tutela deve essere assicurata in astratto e comunque, a prescindere, cioè, dalla circostanza che sia stata poi dimostrata una effettiva manomissione dei plichi. Né la relativa illegittimità potrebbe essere sanata dalla dichiarazione postuma del presidente e del segretario della commissione sull’avvenuta conservazione della documentazione in cassaforte, atteso che tale dichiarazione non varrebbe a sostituire le funzioni del verbale di gara, che è sottoscritto dai componenti della commissione (C.d.S., V, 21.05.2010, n. 3203) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.03.2012 n. 1862 -
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APPALTIAppalti pubblici: la tempestività dell'impugnazione va verificata rispetto all'aggiudicazione definitiva e non a quella provvisoria.
La tempestività dell’impugnativa va verificata rispetto all’atto di aggiudicazione definitiva, e non a quella provvisoria, la giurisprudenza avendo abbondantemente chiarito che è la prima, e non la seconda, l’atto da impugnare da parte di chi intenda contestare l’esito di una gara (così C.d.S., V, 20.06.2011, n. 3671, che ribadisce che l'aggiudicazione provvisoria di un appalto pubblico ha natura di atto endoprocedimentale, ad effetti ancora instabili e del tutto interinali, sicché è inidonea a produrre la definitiva lesione del soggetto non risultato aggiudicatario, che si verifica solo con l'aggiudicazione definitiva, la quale non costituisce atto meramente confermativo del precedente ed è l’unico in riferimento al quale va verificata la tempestività del ricorso; in termini cfr. anche, tra le più recenti, V, 11.01.2011, n. 80; III, 11.03.2011, n. 1581; VI, 20.10.2010, n. 7586) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.03.2012 n. 1862 -
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EDILIZIA PRIVATAPresupposti per la condonabilità di opere abusive in aree sottoposte a vincolo.
L’art. 32 legge n. 47 del 1985, nell’introdurre la possibilità di condonare opere abusive realizzate prima dell'01.10.1983 su aree sottoposte al vincolo, subordina il rilascio della concessione edilizia al parere dell’Amministrazione preposta alla tutela del vincolo stesso. Come ha osservato il Consiglio di Stato nel parere reso dalla seconda sezione nell’adunanza del 09.03.2011, n. 2404/2011, sul ricorso straordinario proposto da alcuni proprietari di immobili siti nella stessa zona del Comune di Ardea interessata dalla vicenda in esame, tale parere ha natura giuridica di condizione ostativa e di presupposto indefettibile per la concessione edilizia in sanatoria e comporta la verifica della compatibilità dell’intervento con gli interessi paesaggistici e ambientali dell’area sottoposta a tutela.
Nel caso di specie il comune di Ardea ha valutato che l’edificio in esame “fa parte di una serie dì costruzioni, realizzate tra la spiaggia e il lungomare, le quali compromettono sia l’accessibilità che la fruizione del panorama marino”. Esso ha inoltre rilevato che tali edifici costituiscono un “grave danno paesaggistico in quanto alterano le caratteristiche morfologiche e naturali del luogo, facendogli perdere la propria identità fisica. L’impatto della realizzazione edilizia, nel contesto disturbante di diffusa fabbricazione, ha carattere invasivo tanto da determinare la compromissione non solo della percezione paesaggistica da parte della collettività, ma anche lo stravolgimento dell’armonia e naturale bellezza del paesaggio e dell’ambiante circostante”. L’ente locale ha quindi valutato le caratteristiche morfologiche e paesaggistiche dell’area tutelata ed ha considerato che l’edificio in questione contribuisce ad alterare proprio quelle caratteristiche meritevoli di salvaguardia.
Tale modo di agire dell’amministrazione è conforme ai principi più volte affermati dalla giurisprudenza, secondo la quale, in materia di tutela delle bellezze panoramiche, l’esistenza di una anteriore lesione arrecata alla zona non rappresenta, da sola, un motivo sufficiente a dispensare dalla verifica riguardante la realizzabilità o la sanabilità di un’opera; anzi, l’eventuale danno progresso produce la necessità di una indagine ancora più accurata, per scongiurare un maggiore, più grave e definitivo turbamento dei valori tipici dei luoghi (cfr. per tutte, Cons. Stato, sez. VI, 27.09.2002, n. 4971): la situazione di compromissione della bellezza naturale da parte di preesistenti realizzazioni, anziché impedire, maggiormente richiede, quindi, che ulteriori costruzioni non deturpino irreversibilmente l’ambiente protetto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.03.2012 n. 1813 -
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EDILIZIA PRIVATADolosa falsità della domanda di sanatoria delle opere abusive: la conformità dell'opera con quanto realizzato e' condizione imprescindibile perché l'Amministrazione proceda ad esaminarne la condonabilità.
La conformità dell’opera per la quale viene chiesta la sanatoria ai sensi della legge n. 47 del 1985 con quanto effettivamente realizzato senza titolo è condizione assolutamente imprescindibile perché l’Amministrazione proceda all’esaminarne la condonabilità.
L’art. 40 della legge citata parifica la domanda presentata con omissioni -o inesattezze tali da farla ritenere dolosamente infedele- alla totale mancanza di istanza, e assoggetta gli autori di dette opere abusive non sanate alle medesime sanzioni di cui al capo I (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.03.2012 n. 1812 -
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ATTI AMMINISTRATIVINiente risarcimento dei danni senza tempestiva impugnazione del provvedimento illegittimo: l'art. 30 del codice del processo amministrativo codifica la regola della non risarcibilità dei danni evitabili con l'impugnazione del provvedimento e con la diligente utilizzazione degli altri strumenti di tutela previsti dall'ordinamento
Il Consiglio di Stato nella sentenza in esame ha evidenziato come non possa ritenersi fondata la domanda di risarcimento senza l’accertamento di illegittimità della attività amministrativa, sia pure nel superamento della c.d. pregiudiziale amministrativa, che comporterebbe l'ammissibilità dell’azione di risarcimento solo a condizione che sia stato impugnato tempestivamente il provvedimento illegittimo e che sia stato coltivato con successo il relativo giudizio di annullamento.
Si è osservato che la regola della non risarcibilità dei danni evitabili con l'impugnazione del provvedimento e con la diligente utilizzazione degli altri strumenti di tutela previsti dall'ordinamento, oggi sancita dall'art. 30, comma 3 c.p.a., deve ritenersi ricognitiva di principi già evincibili alla stregua di un'interpretazione evolutiva del comma 2, art. 1227 c.c..
Pertanto l'omessa attivazione degli strumenti di tutela costituisce, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, dato valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini dell'esclusione o della mitigazione del danno evitabile con l'ordinaria diligenza, non più come preclusione di rito, ma come fatto da considerare in sede di merito ai fini del giudizio sulla sussistenza e consistenza del pregiudizio risarcibile (così, Consiglio di Stato ad. plen., 23.03.2011, n. 3) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.03.2012 n. 1750 -
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ESPROPRIAZIONEIn mancanza della dichiarazione di pubblica utilità sui danni del privato per l'occupazione usurpativa della P.A. decide il giudice ordinario.
Spetta al giudice amministrativo la controversia per il risarcimento dei danni conseguenti all'annullamento giurisdizionale di un provvedimento amministrativo in tema di espropriazione per pubblica utilità. E infatti, mentre le domande risarcitorie e restitutorie relative a fattispecie di occupazione usurpativa, intese come manipolazione del fondo di proprietà privata avvenuta in assenza della dichiarazione di pubblica utilità ovvero a seguito della sua sopravvenuta inefficacia, rientrano nella giurisdizione ordinaria, sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in caso di danni conseguenti all’annullamento della dichiarazione di pubblica utilità (così, da ultimo, Consiglio Stato , sez. IV, 04.04.2011, n. 2113).
Dopo l'annullamento della dichiarazione di pubblica utilità dell'opera e degli altri provvedimenti preordinati all'esproprio caso per caso, vengono meno i titoli autoritativi che erano alla base delle condotte materiali con le quali si è data esecuzione alla dichiarazione di pubblica utilità, mentre rimangono invece integri, nella realtà effettuale, i comportamenti materiali dell'Amministrazione che, proprio perché non più sorretti da atti autoritativi, vanno ricondotti sotto il regime dell'illecito aquiliano; tuttavia, in forza della disposizione dell'art. 34, d.lgs. 31.03.1998, n. 80, così come interpretato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 204 del 06.07.2004, la controversia relativa al risarcimento del danno subìto dal privato appartiene alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, dal momento che i "comportamenti" ai quali faceva riferimento l'art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998, prima dell'intervento demolitorio operato dalla Corte Costituzionale con la citata sentenza, hanno ad oggetto non già attività materiali sorrette dall'esplicazione del potere, ma condotte poste in essere dalla pubblica amministrazione anche in vista del perseguimento di interessi pubblici, ma comunque fuori dell'esplicazione del potere pubblico (Consiglio Stato, sez. IV, 12.02.2010, n. 801).
Nel caso di specie l’azione esaminata dal Consiglio di Stato venga attiene ad un'occupazione illecita a seguito di annullamento giurisdizionale del piano di localizzazione, contenente la dichiarazione di pubblica utilità con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.03.2012 n. 1750 -
massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL'obbligo procedimentale dell'amministrazione inerente al contraddittorio partecipativo non implica la confutazione puntuale di tutte le osservazioni svolte dall'interessato, essendo invece sufficiente che il provvedimento amministrativo sia corredato da una motivazione che renda nella sostanza percepibile la ragione del mancato adeguamento dell'azione dell'amministrazione alle deduzioni difensive del privato.
Per costante giurisprudenza, l'obbligo procedimentale dell'amministrazione inerente al contraddittorio partecipativo non implica la confutazione puntuale di tutte le osservazioni svolte dall'interessato, essendo invece sufficiente che il provvedimento amministrativo sia corredato da una motivazione che renda nella sostanza percepibile la ragione del mancato adeguamento dell'azione dell'amministrazione alle deduzioni difensive del privato (Cons. di St., V, 10.09.209, n. 5424)
(TAR Liguria. Sez. I, sentenza 23.03.2012 n. 424 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALaddove lo strumento urbanistico comunale prescriva che, in zona omogenea A di piano, l'altezza massima degli edifici di nuova costruzione non possa superare la media dell'altezza di quelli preesistenti circostanti, tale media non può che limitarsi ai soli edifici limitrofi a quello costruendo, a pena di svuotare la norma urbanistica di qualunque significato, mentre essa è appunto preordinata ad evitare che fabbricati contigui o vicini presentino altezze marcatamente differenti, considerato, peraltro, che l'assetto edilizio mira a rendere omogenei gli assetti costruttivi rientranti in zone di limitata estensione.
La citata norma del P.R.G. riprende la corrispondente disposizione dell’art. 8 del D.M. 02.04.1968, n. 1444, che, in tema di altezze massime degli edifici in zone B, stabilisce che esse non possono “superare l’altezza degli edifici preesistenti e circostanti”, con la sola eccezione -non rilevante nel caso di specie- di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche, sempre che rispettino i limiti di densità fondiaria di cui all'art. 7.
Orbene, con riguardo ad omologhe disposizioni, la giurisprudenza ha costantemente chiarito che “laddove lo strumento urbanistico comunale prescriva che, in zona omogenea A di piano, l'altezza massima degli edifici di nuova costruzione non possa superare la media dell'altezza di quelli preesistenti circostanti, tale media non può che limitarsi ai soli edifici limitrofi a quello costruendo, a pena di svuotare la norma urbanistica di qualunque significato, mentre essa è appunto preordinata ad evitare che fabbricati contigui o vicini presentino altezze marcatamente differenti, considerato, peraltro, che l'assetto edilizio mira a rendere omogenei gli assetti costruttivi rientranti in zone di limitata estensione” (così Cons. di St., V, 21.10.1995, n. 1448; nello stesso senso cfr., più recentemente, le sentenze Cons. di St., IV, 02.11.2010, n. 7731 e 12.07.2002, n. 3931, dove trovasi la precisazione che la locuzione “circostanti” ricomprende solo gli edifici limitrofi, non gli edifici esistenti nella stessa sottozona urbanistica; TAR Campania, IV, 25.01.2005, n. 355, concernente la zona urbanistica B).
Dunque, l’opzione ermeneutica fatta propria dal comune di Borgio Verezzi, che ha preso a riferimento i soli fabbricati “di intorno” siti nell’isolato delimitato da via Isonzo e dalla strada privata a monte (comprendente tre ville unifamiliari di un piano), lungi dall’essere eccessivamente restrittiva, appare conforme sia al tenore letterale della disposizione, che alla sua ratio ispiratrice, come individuata dalla giurisprudenza citata.
A ciò si aggiunga che tale interpretazione appare altresì conforme alla pertinente disciplina paesistica contenuta nell’art. 44 delle norme di attuazione del piano territoriale di coordinamento paesistico per le zone ID-MA (in cui ricade l’intervento, cfr. la richiesta di permesso di costruire 21.12.2007, doc. 2 delle produzioni 04.11.2010 di parte ricorrente), che, nell’individuare come obiettivo quello del mantenimento dei caratteri complessivi dell'insediamento, consente esclusivamente interventi di limitata modificazione delle preesistenze ed eventualmente di contenuta integrazione dell'insediamento, “purché nel rispetto dei caratteri peculiari della zona”, tra i quali va sicuramente annoverata anche l’altezza degli edifici
(TAR Liguria. Sez. I, sentenza 23.03.2012 n. 424 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'annullamento parziale di una concessione edilizia riconosciuta illegittima (e dunque, mutatis mutandis, il diniego parziale di sanatoria) è ammissibile soltanto quando l'opera autorizzata sia scindibile in modo tale da poter essere oggetto di distinti progetti: la ragione di tale principio è la stessa per cui il comune può respingere o accogliere una domanda di concessione edilizia, ma non può modificare il progetto, non potendosi imporre al richiedente un'opera diversa dal progetto sul quale ha chiesto la concessione.
La giurisprudenza ha più volte chiarito che l'annullamento parziale di una concessione edilizia riconosciuta illegittima (e dunque, mutatis mutandis, il diniego parziale di sanatoria) è ammissibile soltanto quando l'opera autorizzata sia scindibile in modo tale da poter essere oggetto di distinti progetti: la ragione di tale principio è la stessa per cui il comune può respingere o accogliere una domanda di concessione edilizia, ma non può modificare il progetto, non potendosi imporre al richiedente un'opera diversa dal progetto sul quale ha chiesto la concessione (così Cons. di St., V, 11.10.2005, n. 5495; nello stesso senso cfr. anche Cons. di St., V, 22.05.2006, n. 2960) (TAR Liguria. Sez. I, sentenza 23.03.2012 n. 423 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione mediante opere edilizie di un pergolato caratterizzato da una solida struttura –addirittura in cemento- di dimensioni non trascurabili, che fa desumere una permanenza prolungata nel tempo del manufatto stesso e delle utilità che esso è destinato ad arrecare, comportando una trasformazione edilizia del territorio, dev’essere qualificata come intervento di nuova costruzione, che necessita di concessione edilizia.
Per costante giurisprudenza –anche della Sezione- la realizzazione mediante opere edilizie di un pergolato caratterizzato da una solida struttura – addirittura in cemento - di dimensioni non trascurabili, che fa desumere una permanenza prolungata nel tempo del manufatto stesso e delle utilità che esso è destinato ad arrecare, comportando una trasformazione edilizia del territorio, dev’essere qualificata come intervento di nuova costruzione, che necessita di concessione edilizia (Cons. di St., IV, 02.10.2008, n. 4793; TAR Liguria, I, 27.01.2012, n. 195; TAR Campania-Napoli, IV, 25.03.2011, n. 1746; TAR Emilia Romagna, II, 19.01.2011, n. 36) (TAR Liguria. Sez. I, sentenza 23.03.2012 n. 423 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALIE' legittima l'ordinanza di demolizione, di opera abusiva, sottoscritta dal segretario comunale laddove allo stesso il sindaco ha attribuito la direzione del 4° settore, competente in materia di edilizia privata.
Con l’ultimo motivo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 97 D.Lgs. 267/2000, per incompetenza del segretario comunale a disporre l’ordine di demolizione.
Ai sensi dell’art. 97, comma 4, lett. d), del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, il segretario comunale esercita ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti, o conferitagli dal sindaco.
Nel caso di specie, conformemente all’art. 47 dello statuto del comune di Varazze (a mente del quale il segretario generale è responsabile, insieme agli altri dirigenti, dell’attività “di gestione” dell’ente), con provvedimento 17.06.2009, n. 14 (doc. 2-bis delle produzioni 18.07.2011 di parte comunale), il sindaco ha attribuito al segretario comunale la direzione del 4° settore, competente in materia di edilizia privata.
Donde l’infondatezza del dedotto vizio di incompetenza (cfr., per fattispecie analoghe, TAR Piemonte, II, 04.11.2008, n. 2739; TAR Calabria-Catanzaro, II, 04.05.2005, n. 415; TAR Lazio-Roma, II, 05.03.2004, n. 2140)
(TAR Liguria. Sez. I, sentenza 23.03.2012 n. 423 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPrima delle modifiche introdotte alla L. n. 241/1990 dalla L. n. 15 del 2005, non sussisteva l'obbligo di comunicazione di avvio del procedimento in relazione al rigetto dell'istanza di concessione in sanatoria, essendo il relativo procedimento attivato ad istanza di parte.
La medesima conclusione vale per gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di costruzione abusiva, in ragione del contenuto rigidamente vincolato che li caratterizza.

Per costante giurisprudenza, prima delle modifiche introdotte alla L. n. 241/1990 dalla L. n. 15 del 2005, non sussisteva l'obbligo di comunicazione di avvio del procedimento in relazione al rigetto dell'istanza di concessione in sanatoria, essendo il relativo procedimento attivato ad istanza di parte (Cons. di St., IV, 21.02.2011, n. 1085).
La medesima conclusione vale per gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di costruzione abusiva, in ragione del contenuto rigidamente vincolato che li caratterizza (TAR Liguria, I, 22.04.2011, n. 666) (TAR Liguria. Sez. I, sentenza 23.03.2012 n. 420 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer gli interventi edilizi effettuati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico ai sensi della l. 29.06.1939 n. 1497, nel corso del procedimento di sanatoria di cui all'art. 13, l. 28.02.1985 n. 47, l'amministrazione preposta alla tutela del vincolo paesaggistico può rilasciare in via postuma l'autorizzazione paesaggistica ex art. 7 l. n. 1497 cit., previa valutazione della compatibilità dell'intervento già realizzato con il vincolo paesaggistico.
Sicché, qualora l’amministrazione neghi la sanatoria su conforme parere della commissione edilizia, con la motivazione che “l’intervento proposto risulterebbe di notevole impatto ambientale”, tale motivazione posta a base del diniego, facendo riferimento ad un “notevole” impatto ambientale, esclude per ciò solo che l’intervento possa definirsi di “limitata” modificazione delle preesistenze” e di “contenuta” integrazione dell'insediamento, e possa dunque dirsi rispettoso dell’ambito paesistico circostante.
Si tratta di una motivazione che -ancorché sintetica- appare congrua ed in linea con la disciplina paesistica della zona, improntata al mantenimento, tenuto anche conto che trattasi di una valutazione caratterizzata da ampia discrezionalità.

E’ noto che, per gli interventi edilizi effettuati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico ai sensi della l. 29.06.1939 n. 1497, nel corso del procedimento di sanatoria di cui all'art. 13, l. 28.02.1985 n. 47, l'amministrazione preposta alla tutela del vincolo paesaggistico può rilasciare in via postuma l'autorizzazione paesaggistica ex art. 7 l. n. 1497 cit., previa valutazione della compatibilità dell'intervento già realizzato con il vincolo paesaggistico (cfr. TAR Molise, I, 23.12.2010, n. 1568).
Nel caso di specie, l’amministrazione, richiamata la pertinente normativa di attuazione del piano territoriale di coordinamento paesistico (art. 44 delle N.A.), ha negato la sanatoria su conforme parere della commissione edilizia, con la motivazione che “l’intervento proposto risulterebbe di notevole impatto ambientale”.
Orbene, l’art. 44 delle norme di attuazione del P.T.C.P., rubricato Insediamenti Diffusi - Regime normativo di MANTENIMENTO (ID-MA), stabilisce che “1. Tale regime si applica là dove l'assetto insediativo abbia conseguito una ben definita caratterizzazione e un corretto inserimento paesistico, tali da consentire un giudizio positivo sulla situazione complessiva in atto, non suscettibile peraltro di essere compromesso dalla modificazione di singoli elementi costituenti il quadro d'insieme o da contenute integrazioni dei tessuto edilizio.
2. L'obiettivo della disciplina è quello di mantenere sostanzialmente immutati i caratteri complessivi dell'insediamento in quanto vi si riconosce l'espressione di un linguaggio coerente ed un equilibrato rapporto con il contesto ambientale.
3. Sono pertanto consentiti esclusivamente interventi di limitata modificazione delle preesistenze ed eventualmente di contenuta integrazione dell'insediamento purché nel rispetto dei caratteri peculiari della zona e dei suoi rapporti con l'ambito paesistico.
4. Per far fronte a quelle carenze di ordine funzionale che possono influire sulla stessa qualità dell'ambiente e sulla sua fruizione, con particolare riferimento alla accessibilità ed ai parcheggi, sono consentiti interventi anche relativamente più incidenti sull'assetto dell'insediamento
”.
La disciplina paesistica di zona prescrive di regola il mantenimento, e consente esclusivamente interventi di “limitata” modificazione delle preesistenze e di “contenuta” integrazione dell'insediamento, purché nel rispetto dei caratteri peculiari della zona e dei suoi rapporti con l'ambito paesistico.
Ciò posto, la motivazione posta a base del diniego, facendo riferimento ad un “notevole” impatto ambientale, esclude per ciò solo che l’intervento possa definirsi di “limitata” modificazione delle preesistenze” e di “contenuta” integrazione dell'insediamento, e possa dunque dirsi rispettoso dell’ambito paesistico circostante.
Si tratta di una motivazione che -ancorché sintetica- appare congrua ed in linea con la disciplina paesistica della zona, improntata al mantenimento, tenuto anche conto che trattasi di una valutazione caratterizzata da ampia discrezionalità (Cons. di St., VI, 22.08.2003, n. 4766) (TAR Liguria. Sez. I, sentenza 23.03.2012 n. 420 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn ragione del contenuto rigidamente vincolato che li caratterizza, gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di costruzione abusiva, non devono essere preceduti dalla comunicazione d'avvio del relativo procedimento.
La sezione ha, infatti, anche recentemente ribadito che in ragione del contenuto rigidamente vincolato che li caratterizza, gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di costruzione abusiva, non devono essere preceduti dalla comunicazione d'avvio del relativo procedimento (TAR Liguria Genova, sez. I, 21.03.2011, n. 432 (TAR Liguria. Sez. I, sentenza 23.03.2012 n. 414 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALIL'adozione degli atti di rilascio di concessione edilizia è ora di competenza esclusiva ed immediata dei dirigenti comunali.
L'esercizio dei medesimi da parte di un soggetto diverso determina l'incompetenza assoluta ed esecutiva.

Ai sensi dell'art. 6, comma 2, lett. h), l. 15.05.1997 n. 127 l'adozione degli atti di rilascio di concessione edilizia è ora di competenza esclusiva ed immediata dei dirigenti comunali.
L'esercizio dei medesimi da parte di un soggetto diverso determina l'incompetenza assoluta ed esecutiva (TAR Liguria, sez. I, 22.03.1998, n. 65) (TAR Liguria. Sez. I, sentenza 23.03.2012 n. 414 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn presenza di un abuso edilizio non sussiste alcun obbligo per l'Amministrazione di dettare prescrizioni per rendere l'abuso esteticamente compatibile con la zona, perché tale finalità non rientra nei compiti di istituto, dovendo la stessa limitarsi a valutare il contenuto della domanda di sanatoria allo scopo di accertarne la compatibilità paesaggistica e non già suggerire ulteriori attività volte a legalizzare comportamenti incontestabilmente contra legem.
È illegittimo un provvedimento di sanatoria che, al fine di rendere l'esistente conforme alle prescrizioni urbanistiche vigenti, preveda l'esecuzione di ulteriori lavori: l'art. 36, d.P.R. n. 380/2001 non consente spazi interpretativi, nel senso che la concessione in sanatoria è ammessa soltanto entro i limiti delineati dal legislatore, senza alcuna estensione discrezionale da parte della p.a..

Deve, infatti, rilevarsi come il diniego di accertamento di conformità sia stato giustificato sulla base del parere dell’usl 3 secondo cui l’altezza del manufatto sarebbe inferiore a quella ammessa dal regolamento edilizio comunale.
In presenza di un abuso edilizio non sussiste alcun obbligo per l'Amministrazione di dettare prescrizioni per rendere l'abuso esteticamente compatibile con la zona, perché tale finalità non rientra nei compiti di istituto, dovendo la stessa limitarsi a valutare il contenuto della domanda di sanatoria allo scopo di accertarne la compatibilità paesaggistica e non già suggerire ulteriori attività volte a legalizzare comportamenti incontestabilmente contra legem (Consiglio Stato , sez. V, 08.03.2011, n. 1440).
È illegittimo un provvedimento di sanatoria che, al fine di rendere l'esistente conforme alle prescrizioni urbanistiche vigenti, preveda l'esecuzione di ulteriori lavori: l'art. 36, d.P.R. n. 380/2001 non consente spazi interpretativi, nel senso che la concessione in sanatoria è ammessa soltanto entro i limiti delineati dal legislatore, senza alcuna estensione discrezionale da parte della p.a. (TAR Lombardia Milano, sez. II, 22.11.2010, n. 7311).
Il Collegio ritiene che la posizione di cui sopra, che deriva dal requisito della doppia conformità richiesto per l’accertamento di conformità, consenta di tratteggiare in maniera equa i rapporti tra cittadino e p.a. anche sul piano dei limiti del reciproco dovere di collaborazione.
E’ evidente, infatti, che il cittadino che si sottrae per primo al dovere di collaborazione realizzando un abuso non ha alcun titolo per pretendere che l’amministrazione gli indichi le modifiche necessarie per rendere conforme l’intervento abusivamente realizzato (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 23.03.2012 n. 411 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl rimedio dell'accesso non può essere utilizzato per indurre o costringere l'Amministrazione a formare atti nuovi rispetto ai documenti amministrativi già esistenti, ovvero a compiere un'attività di elaborazione di dati e documenti, potendo essere invocato esclusivamente al fine di ottenere il rilascio di copie di documenti già formati e materialmente esistenti presso gli archivi dell'amministrazione.
Per costante giurisprudenza, il rimedio dell'accesso non può essere utilizzato per indurre o costringere l'Amministrazione a formare atti nuovi rispetto ai documenti amministrativi già esistenti, ovvero a compiere un'attività di elaborazione di dati e documenti, potendo essere invocato esclusivamente al fine di ottenere il rilascio di copie di documenti già formati e materialmente esistenti presso gli archivi dell'amministrazione (Cons. di St., IV, 30.11.2010, n. 8359; TAR Campania-Salerno, II, 27.05.2010, n. 8151).
Nel caso di specie, il ricorrente non ha dedotto né provato l’esistenza di uno specifico vincolo giuridico circa la destinazione a bilancio delle somme derivanti dal pagamento degli oneri di urbanizzazione (che anzi, per legge, sono genericamente destinate al finanziamento di spese correnti e di spese di manutenzione ordinaria del patrimonio comunale, cfr. la memoria comunale 02.01.2012, p. 5), destinazione che rientra pertanto nella discrezionalità delle scelte amministrative effettuate all’atto dell’approvazione del bilancio comunale.
In ogni caso, la sua istanza non si limita alla richiesta di ostensione di copie di documenti già formati e fisicamente esistenti presso gli archivi dell’amministrazione (documenti neppure genericamente indicati), ma postula –inammissibilmente- un’attività di ricerca e di elaborazione di dati e documenti contabili, finalizzata ad un controllo generalizzato sull’operato del comune (TAR Lombardia, III, 03.11.2009, n. 4951), sub specie della destinazione impressa a specifiche entrate del bilancio comunale (TAR Liguria. Sez. I, sentenza 23.03.2012 n. 402 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Senza motivazione la costruzione abusiva ''resta in piedi''.
Una costruzione abusiva può rimanere "in piedi" se non si motiva in modo dettagliato la richiesta di demolizione.
l ricorrente ha impugnato la diffida a demolire, chiedendone l’annullamento in quanto sostiene che, ha presentato domanda di sanatoria e corrisposto l’oblazione in relazione ad un opera realizzata in assenza di concessione su terreno di proprietà.
Secondo il ricorrente la diffida a demolire si baserebbe su un rilievo “vago e inidoneo” in quanto sussisterebbe un vizio di difetto di motivazione che non permetterebbe di inquadrare in modo delineato l’abusività dell’opera controversa.
Il ricorso per questo “vizio” risulta fondato (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Liguria, Sez. I, sentenza 21.03.2012 n. 396 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Elementi comuni e differenze tipologiche tra impresa pubblica ed organismo di diritto pubblico.
Elementi comuni tra impresa pubblica e organismo di diritto pubblico attengono all'impiego dello strumento societario e dunque alla fase di costituzione nonché all'esigenza di perseguire l'interesse pubblico. Le differenze tipologiche riguardano, invece, le modalità di svolgimento dell'attività -economica e non economica- e la conseguente possibile compatibilità, esistente soltanto per le imprese pubbliche, tra scopo di interesse pubblico e scopo di lucro.
Esiste poi un elemento costituito dall'influenza dominante che si atteggia diversamente a seconda della specificità della fattispecie: mentre per l'organismo di diritto pubblico si tratta di un elemento indefettibile di identificazione dell'ente, per l'impresa pubblica la sua presenza dipende, alla luce di quanto previsto dall'art. 2449 cod. civ., dalla composizione, maggioritaria o minoritaria, della compagine societaria.
Ne consegue che, nel caso di specie, la società Porto Antico di Genova deve essere qualificata quale impresa pubblica, con giurisdizione del giudice ordinario, in quanto la specifica attività posta in essere dalla medesima società per azioni Porto Antico di Genova, è svolta con metodo economico ed è finalizzata al perseguimento di uno scopo di lucro, compatibile con l'interesse pubblico, con la conseguenza che sono presenti i connotati tipici ed esclusivi dell'attività di impresa e non dell'attività amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 20.03.2012 n. 1574 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI SERVIZI: L'art. 3, c. 27, della l. 24.12.2007 n. 244 pone un chiaro limite all'esercizio dell'attività di impresa pubblica rappresentato dalla funzionalizzazione al perseguimento anche dell'interesse pubblico.
L'art. 3, c. 27, della l. 24.12.2007 n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2008), ha stabilito che "al fine di tutelare la concorrenza e il mercato", le pubbliche amministrazioni "non possono costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né assumere o mantenere direttamente o indirettamente partecipazioni, anche di minoranza, in tali società".
La disposizione riportata ha posto un limite all'impiego dello strumento societario non tanto per assicurare, come, invero, dichiarato nella parte iniziale della disposizione stessa, la tutela della concorrenza -che di per sé lo strumento dell'impresa pubblica non potrebbe pregiudicare- quanto per garantire, in coerenza con l'esigenza di rispettare il principio di legalità, il perseguimento dell'interesse pubblico.
Può, pertanto, ritenersi che, allo stato, esiste una norma imperativa che -esprimendo "un principio già in precedenza immanente nel sistema"- pone un chiaro limite all'esercizio dell'attività di impresa pubblica rappresentato dalla funzionalizzazione al perseguimento anche dell'interesse pubblico (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 20.03.2012 n. 1574 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Zone agricole ed interventi realizzabili.
Tutte le attività e gli interventi che si ritengono realizzabili in zona agricola restano comunque funzionali ad un'attività tipicamente agricola o alle altre attività alla stessa intimamente connesse con esclusione, quindi, di tutto ciò che è riferibile ad altre zone individuate in sede di pianificazione del territorio comunale, con la conseguenza che una struttura eminentemente residenziale o turistico-alberghiera non potrebbe in ogni caso realizzarsi in Zona “E” (fattispecie relativa a «punti di ristoro» nella regione Sardegna) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.03.2012 n. 9369 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Demolizione e ricostruzione.
Ove il risultato finale dell'attività demolitoria-ricostruttiva non coincida, per volumetria o sagoma, con il manufatto preesistente, l'intervento deve essere qualificato come "nuova costruzione" e necessita dei permesso di costruire, non essendo sufficiente la semplice denuncia di inizio attività (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.03.2012 n. 9348 - tratto da www.lexambiente.it).

ATTI AMMINISTRATIVINon è dovuta la comunicazione di avvio del procedimento, ex art. 7, l. n. 241 del 1990, rispetto ad una ordinanza avente carattere contingibile ed urgente ai sensi dell'art. 54, d.lgs. n. 267 del 2000. In tal caso, infatti, l'urgenza di provvedere è connaturata alla funzione stessa del provvedimento adottato.
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Il potere di adozione di un'ordinanza contingibile ed urgente di cui all'art. 54, d.lgs. n. 267 del 2000 presuppone la necessità di provvedere in via d'urgenza con strumenti extra ordinem per far fronte a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile di pericolo attuale ed imminente per l'incolumità pubblica, cui non si può provvedere con gli strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento.

Come ritiene la costante giurisprudenza, non è dovuta la comunicazione di avvio del procedimento, ex art. 7, l. n. 241 del 1990, rispetto ad una ordinanza avente carattere contingibile ed urgente ai sensi dell'art. 54, d.lgs. n. 267 del 2000 (cfr., da ultimo, TAR Lazio Roma, sez. II, 14.05.2010, n. 11327). In tal caso, infatti, l'urgenza di provvedere è connaturata alla funzione stessa del provvedimento adottato (cfr. TAR Piemonte Torino, sez. II, 18.02.2010, n. 965).
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Come già statuito nella sentenza n. 3018 del 2010, risulta fondato l’ulteriore motivo di ricorso con cui parte ricorrente ha dedotto violazione dell’art. 54 del testo unico degli enti locali, con specifico riguardo al rilevato difetto delle stesse condizioni legittimanti il ricorso all’adozione di ordinanze con tingibili ed urgenti. L’ampiezza dei lavori prescritti in uno con la necessità degli stessi conseguente sostanzialmente alla vetustà dell’opera confermano, in fatto, l’illegittimità del ricorso allo strumento eccezionale dell’ordinanza contingibile ed urgente.
Ed invero, il ricorso allo strumento dell’ordinanza extra ordinem appare fondatamente un rimedio (tuttavia illegittimo) per fare fronte ad una situazione di fatto che negli anni avrebbe necessitato di tempestivi interventi ordinari. Come questo Tribunale ha osservato, infatti, il potere di adozione di un'ordinanza contingibile ed urgente di cui all'art. 54, d.lgs. n. 267 del 2000 presuppone la necessità di provvedere in via d'urgenza con strumenti extra ordinem per far fronte a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile di pericolo attuale ed imminente per l'incolumità pubblica, cui non si può provvedere con gli strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento (cfr. TAR Calabria Catanzaro, sez. II, 09.09.2010, n. 2556) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 09.03.2012 n. 245 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIl trasferimento della proprietà delle opere di urbanizzazione in capo al comune costituisce un'obbligazione ex lege -inderogabile e indisponibile per le parti della convenzione di lottizzazione in base alla quale le opere stesse sono state realizzate-, ex art. 28 della L. n. 1150 del 17.08.1942, con la conseguenza che le parti non potrebbero legittimamente accordarsi sul loro mantenimento in capo al lottizzante, essendo tali opere strumentali allo svolgimento di pubblici servizi fisiologicamente rientranti nelle competenze dell'autorità amministrativa (mentre la gestione degli stessi per mezzo di privati sarebbe teoricamente concepibile solo previo atto di concessione di pubblico servizio, contenente le regole da osservare per garantire l'ottimale soddisfacimento del servizio offerto ai cittadini); ove, infatti, si ammettesse la possibilità di mantenere la gestione delle opere di urbanizzazione primaria in capo al lottizzante, i cittadini interessati (che hanno diritto di pretendere servizi di qualità, che solo l'ente pubblico può garantire, non essendo la sua azione finalizzata ad ottenere un utile d'impresa) resterebbero sostanzialmente "in balia" del privato gestore, il quale avrebbe tutto l'interesse a contenere i costi di manutenzione, con presumibile decadimento della qualità dei servizi offerti.
L'acquisizione delle aree ove insistono le opere di urbanizzazione da parte del Comune, insomma, costituisce un obbligo puntualmente enunciato dall'art. 28 della L. 1150 del 1942, ove al quinto comma si prevede -nel testo conseguente alle sostituzioni disposte per effetto dell'art. 8 della L. 847 del 1967- che la convenzione di lottizzazione debba contemplare, comunque, "la cessione gratuita entro termini prestabiliti delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, precisate dall'articolo 4 della legge 29.09.1964, n. 847".
Il legislatore, nel disciplinare le opere di urbanizzazione, ha confermato la possibilità della realizzazione diretta c.d. a scomputo dal contributo di concessione ma non ha lasciato alcun dubbio in merito al passaggio della proprietà delle stesse, una volta realizzate, in capo all'ente pubblico territoriale di riferimento, prevedendone la confluenza nel patrimonio indisponibile (art. 16, comma 2, d.lgs. n. 380 del 2001); ciò ad ulteriore riprova che si tratti di beni destinati alla fruizione pubblica. In altri termini per le dette opere di urbanizzazione si registra una presunzione iuris et de iure di proprietà pubblica, con la conseguenza che per tali interventi, a seguito dell'entrata in vigore del T.U. edilizia, non può ipotizzarsi la permanenza in capo ai privati della relativa proprietà.
E’ pacifico, in conclusione, che gli oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria connessi alle opere di urbanizzazione ricadono interamente sull'ente locale, una volta acquisite al suo patrimonio per cessione (previo collaudo sulla loro regolare esecuzione) da parte del lottizzante.

Questo Tribunale si è già pronunciato, tra l’altro, con la sentenza n. 3018 del 2010, stabilendo che “il trasferimento della proprietà delle opere di urbanizzazione in capo al comune costituisce un'obbligazione ex lege -inderogabile e indisponibile per le parti della convenzione di lottizzazione in base alla quale le opere stesse sono state realizzate-, ex art. 28 della L. n. 1150 del 17.08.1942, con la conseguenza che le parti non potrebbero legittimamente accordarsi sul loro mantenimento in capo al lottizzante, essendo tali opere strumentali allo svolgimento di pubblici servizi fisiologicamente rientranti nelle competenze dell'autorità amministrativa (mentre la gestione degli stessi per mezzo di privati sarebbe teoricamente concepibile solo previo atto di concessione di pubblico servizio, contenente le regole da osservare per garantire l'ottimale soddisfacimento del servizio offerto ai cittadini); ove, infatti, si ammettesse la possibilità di mantenere la gestione delle opere di urbanizzazione primaria in capo al lottizzante, i cittadini interessati (che hanno diritto di pretendere servizi di qualità, che solo l'ente pubblico può garantire, non essendo la sua azione finalizzata ad ottenere un utile d'impresa) resterebbero sostanzialmente "in balia" del privato gestore, il quale avrebbe tutto l'interesse a contenere i costi di manutenzione, con presumibile decadimento della qualità dei servizi offerti (cfr. TAR Sardegna Cagliari, sez. II, 19.02.2010, n. 187)”.
L'acquisizione delle aree ove insistono le opere di urbanizzazione da parte del Comune, insomma, costituisce un obbligo puntualmente enunciato dall'art. 28 della L. 1150 del 1942, ove al quinto comma si prevede -nel testo conseguente alle sostituzioni disposte per effetto dell'art. 8 della L. 847 del 1967- che la convenzione di lottizzazione debba contemplare, comunque, "la cessione gratuita entro termini prestabiliti delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, precisate dall'articolo 4 della legge 29.09.1964, n. 847".
Il legislatore, nel disciplinare le opere di urbanizzazione, ha confermato la possibilità della realizzazione diretta c.d. a scomputo dal contributo di concessione ma non ha lasciato alcun dubbio in merito al passaggio della proprietà delle stesse, una volta realizzate, in capo all'ente pubblico territoriale di riferimento, prevedendone la confluenza nel patrimonio indisponibile (art. 16, comma 2, d.lgs. n. 380 del 2001); ciò ad ulteriore riprova che si tratti di beni destinati alla fruizione pubblica. In altri termini per le dette opere di urbanizzazione si registra una presunzione iuris et de iure di proprietà pubblica, con la conseguenza che per tali interventi, a seguito dell'entrata in vigore del T.U. edilizia, non può ipotizzarsi la permanenza in capo ai privati della relativa proprietà (cfr. TAR Puglia Bari, sez. II, 01.07.2010, n. 2815).
E’ pacifico, in conclusione, che gli oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria connessi alle opere di urbanizzazione ricadono interamente sull'ente locale, una volta acquisite al suo patrimonio per cessione (previo collaudo sulla loro regolare esecuzione) da parte del lottizzante (cfr. TAR Sardegna Cagliari, sez. II, 26.01.2009, n. 89) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 09.03.2012 n. 245 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Mutamento della destinazione.
Il mutamento della destinazione d'uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, qualora venga realizzato dopo l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza, configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita dall'art. 3, 1° comma, lett. d), del TU. 380/2011, in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente".
L'intervento rimane assoggettato, pertanto, al previo rilascio del permesso di costruire con pagamento del contributo di costruzione dovuto per la diversa destinazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza  07.03.2012 n. 8945 - tratto da www.lexambiente.it).

ENTI LOCALI - VARIMulte, illegittime le maggiorazioni. Il Codice della strada non prevede l'aggravio del 10%. La Corte di cassazione lo ha deciso nel 2007. Ma ora fioccano i ricorsi dei consumatori.
In bilico la maggiorazione sulle sanzioni del codice della strada. La legge 689/1981 (legge quadro sulle sanzioni amministrative) prevede l'aggravio a carico di chi non paghi l'ordinanza ingiunzione; il codice della strada, con riferimento ai verbali, non ne fa espressa menzione. Sul punto è intervenuta la Cassazione e anche alcuni giudici di pace si sono adeguati.
Altre sentenze, invece, propendono per la tesi sfavorevole all'automobilista, attraverso un'interpretazione sistematica del codice della strada.
Nel frattempo le associazioni dei consumatori si stanno muovendo per capire se aprire un fronte di battaglia.
Si parla di verbali del Codice della strada non impugnati e che, quindi, passano in riscossione coattiva. Il problema è che nel tempo che intercorre fino alla notifica della cartella si computa un balzello del 10%. Secondo alcuni è illegittimo.

Così ha, infatti, stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza 16.02.2012 n. 3701 della Sez. II..
Vediamo di illustrare la pronuncia.
Nel caso specifico una prefettura ha impugnato una sentenza del giudice di pace di Benevento, che aveva dichiarato la nullità di una cartella esattoriale relativa al pagamento della sanzione per violazione del codice della strada. Il giudice di pace ha ritenuta illegittima la maggiorazione per interessi operata sulla somma, prevista dall'articolo 27 della legge n. 689/1981.
La prefettura ha ritenuto del tutto legittima la maggiorazione e si è rivolta alla Cassazione, che ha in poche righe bocciato il ricorso.
Secondo la cassazione alle sanzioni stradali, si applica l'articolo 203 Codice della strada, comma 3, che, in deroga alla legge 689 del 1981, articolo 27, in caso di ritardo nel pagamento della sanzione irrogata nell'ordinanza–ingiunzione, prevede, l'iscrizione a ruolo della sola metà del massimo edittale; ma non prevede espressamente li aumenti semestrali del 10%. Secondo la cassazione, dunque, gli aumenti sono stati correttamente ritenuti non applicabili dal giudice di pace. Pertanto nel caso specifico è stata confermata la nullità della cartella esattoriale.
Da un punto di vista normativo si deve valutare se l'articolo 203 del codice della strada deroga l'articolo 27 della legge 689/1981. Quest'ultimo prevede in generale per le sanzioni amministrative pecuniarie che «in caso di ritardo nel pagamento la somma dovuta è maggiorata di un decimo per ogni semestre a decorrere da quello in cui la sanzione è divenuta esigibile e fino a quello in cui il ruolo è trasmesso all'esattore. La maggiorazione assorbe gli interessi eventualmente previsti dalle disposizioni vigenti».
Questa maggiorazione è stata qualificata come sanzione aggiuntiva, nascente al momento in cui diviene esigibile la sanzione principale. In sostanza non si tratta di interessi, ma di sanzione per il mancato tempestivo pagamento.
Per verificare se l'articolo 27 sia inapplicabile al codice della strada va tenuto in considerazione l'articolo 206 del Codice della strada, ai sensi del quale la riscossione delle somme dovute a titolo di sanzione amministrativa pecuniaria è regolata dall'articolo 27 della legge 689/1981; ve richiamato anche l'articolo 194 dello stesso codice della strada, che richiama le disposizioni della legge 689/1981 sull'applicazione delle sanzioni (e quindi anche l'articolo 27), salvo espressa deroga.
Tra l'altro la tesi dell'applicabilità dell'articolo 27 è riconosciuta anche in qualche sentenza dei giudici di pace. Ad esempio il giudice di pace di Bari (sentenza 2570 del 15.03.2010) non ha condiviso la sentenza della cassazione del 2007 sostenendo che l'articolo 206 comma 1 codice della strada richiama nella sua interezza l'articolo 27 della legge 689 del 1981, concludendo che, in caso di mancato pagamento, il trasgressore è tenuto a pagare la maggiorazione semestrale del 10%.
Certo il trasgressore potrà contare sulla autorevolezza della sentenza della Corte di cassazione (anche se non emessa a sezioni unite) e confidare nel fatto che i giudici di pace si conformino alla stessa.
Per l'ipotesi, quindi, che si riceva una cartella esattoriale contenenti maggiorazioni, l'interessato potrà tentare di formulare un ricorso al giudice di pace (anche se è più corretto parlare di opposizione agli atti esecutivi) e chiedere di ridurre l'importo portato dalla cartella, decurtando la cifra relativa alla maggiorazione.
Contro una cartella viziata, perché recante la maggiorazione in contestazione, si deve proporre con un avvocato l'opposizione all'esecuzione ex articolo 615 codice di procedura civile, dal momento che il verbale non è più impugnabile dinanzi al giudice di pace: la cartella è equiparabile a un precetto, di cui si contestano alcune somme e quindi si contestano i presupposti dell'azione esecutiva.
Nel caso in cui la cartella sia già stata pagata l'unica strada è di chiedere la restituzione delle somme direttamente all'esattore. È prevedibile, tuttavia, che non si riceva una risposta positiva e, allora, occorrerà svolgere una domanda di restituzione somme indebitamente trattenute dall'ente (articolo ItaliaOggi del 30.03.2012).

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