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AGGIORNAMENTO AL 29.03.2012 |
ã |
MOBILITA' |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il Comune di San Pellegrino Terme (BG) cerca, con mobilità
volontaria, un geometra (o equivalente) per
la copertura di n. 1 posto vacante
all'Ufficio Tecnico - cat. C - a tempo pieno
ed indeterminato.
Il bando integrale è leggibile
cliccando qui
ed il termine entro cui inviare le domande è
il 10.04.2012, ore 12,00. |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Oggetto: trasmissione informatizzata
della notifica preliminare di avvio lavori
nei cantieri (Decreto del Direttore Generale
Sanità n. 9056 del 14.09.2009 e Decreto del
Direttore Regionale del Lavoro n. 117 del
23.09.2009) – integrazione con l’applicativo
“Osservatorio sui contratti di lavori,
servizi e forniture” (Regione
Lombardia, Direzione Generale Sanità,
Governo della Prevenzione e Tutela
Sanitaria, Prevenzione Ambienti di Vita e di
Lavoro,
nota
20.03.2012 n. 9172 di prot.). |
UTILITA' |
APPALTI:
Gli atti del convegno "Appalti pubblici:
le recenti novità (Manovra Monti - Decreto
Semplificazioni - Linee Guida sulla offerta
economicamente più vantaggiosa - Procedure
negoziate)" tenutosi nel febbraio
2012 a cura del Centro Studi Marangoni
(link a www.centrostudimarangoni.it):
-
1^ parte; -
2^ parte; -
3^ parte; -
4^ parte. |
APPALTI:
Gli atti del convegno "Le procedure di
acquisto in economia" tenutosi nel
novembre 2011 a cura del Centro Studi
Marangoni (link a
www.centrostudimarangoni.it):
-
1^ parte. |
APPALTI SERVIZI:
Gli atti del convegno "La riforma dei
Servizi Pubblici Locali" tenutosi nell'ottobre
2011 a cura del Centro Studi Marangoni
(link a www.centrostudimarangoni.it):
-
1^ parte; -
2^ parte. |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI SERVIZI: C.
Rapicavoli,
Servizi pubblici locali e liberalizzazioni:
cosa cambia - La disciplina dei servizi
pubblici locali dopo la conversione in legge
del decreto liberalizzazioni (link a www.leggioggi.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: S.
Camonita,
Strade vicinali e regime giuridico-normativo
(link a www.diritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
A. Borzi,
Inquinamento elettromagnetico: spunti sulla
disciplina comunitaria e nazionale, tra
precauzione e sostenibilità (parte prima)
(link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
A. Fiale,
La confisca penale delle costruzioni abusive
e dei terreni abusivamente lottizzati
(link a www.lexambiente.it). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 5 del
31.01.2012, "Aggiornamento Albo regionale
delle imprese boschive - art. 57 legge
regionale n. 31/2008" (decreto
D.S. 24.01.2012 n. 368). |
SINDACATI |
APPALTI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
EE.LL.: la conversione in legge
del decreto milleproroghe
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 19.03.2012). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Personale. Corte dei conti Toscana.
Con lo stop ai resti assunzioni bloccate.
RETROATTIVI/
Il decreto del Viminale impone un numero di
attestazioni relative al 2009-2011 ma manca
la disciplina di Economia e Consob.
Gli enti locali non possono utilizzare i
resti delle possibilità di assunzione a
tempo indeterminato di cui non si sono
serviti negli anni precedenti.
È questa l'indicazione contenuta nel
parere 13.03.2012 n.
30 della sezione regionale di
controllo della Corte dei Conti della
Toscana.
Si tratta di una lettura
assai rigida, che segna una netta differenza
rispetto alle regole dettate per le
amministrazioni dello Stato.
Essa riduce ulteriormente la possibilità dei
Comuni di effettuare assunzioni di
personale, vanificandole di fatto per gli
enti soggetti al Patto di stabilità di
ridotte dimensioni. Il tutto con conseguenze
assai pesanti sui comuni con popolazione
superiore a mille abitanti che dal prossimo
1° gennaio dovrebbero essere soggetti al
Patto. Se questa lettura si consoliderà, di
fatto si avrà una condizione di sostanziale
blocco delle assunzioni per la stragrande
maggioranza dei Comuni.
Il Dl 78/2010 ha disposto, per la gran parte
delle Pubbliche amministrazioni, il tetto
del 20% della spesa del personale cessato
nell'anno precedente come soglia massima per
le assunzioni a tempo indeterminato. Agli
enti locali sono inoltre richiesti il
rispetto del Patto di stabilità, avere
contenuto la spesa del personale entro
quella dell'anno precedente e avere un
rapporto tra spesa del personale e spesa
corrente inferiore al 50 per cento. Il
riferimento, per espressa indicazione
contenuta nel comma 9 dell'articolo 14, va
per le assunzioni del 2011 solamente al
personale cessato nell'anno 2010. Il che
impedisce già, a differenza di quanto le
Sezioni unite della Corte dei Conti hanno
stabilito per gli enti non soggetti al Patto
di stabilità, di recuperare le cessazioni
degli anni precedenti che non sono state
utilizzate per nuove assunzioni.
Alle amministrazioni dello Stato l'articolo
9, comma 11, consente di recuperare le quote
di cessazione degli anni precedenti che gli
enti non hanno potuto utilizzare come base
per nuove assunzioni in quanto non si
raggiungeva la soglia di almeno 1 unità. Per
la sezione di controllo della Corte dei
Conti della Toscana, sulla base dei lavori
preparatori, si deve ritenere che questa
disposizione sia «applicabile agli enti di
piccole dimensioni da individuarsi negli
enti pubblici non economici e negli enti di
ricerca nei confronti dei quali è pertanto
riferita la disposizione normativa». E da
ciò se ne trae la conseguenza della
«esclusione degli enti locali».
Questa conclusione viene si basa su una
lettura meramente formale, che non tiene
conto del fatto che gli enti locali hanno
generalmente una dimensione medio piccola
nel numero dei dipendenti e che, quindi,
molto spesso le cessazioni di 1 anno non
consentono di effettuare neppure una
assunzione. Essa determina inoltre una
condizione di sperequazione negativa
rispetto alle amministrazioni dello Stato,
condizione che risulta essere del tutto
ingiustificata alla luce della scelta
legislativa di avere invece le stesse
regole, si veda da ultimo la estensione ai
comuni dei tetti alle assunzioni flessibili
dettate per lo Stato (articolo Il
Sole 24 Ore del 26.03.2012 - tratto
da www.corteconti.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Indennità Amministratori locali.
La Corte dei Conti Sez. Reg.le Piemonte, con
il
parere 07.03.2012 n. 28, si esprime -come segue- in merito
all'applicazione della riduzione del 50%
dell'indennità di carica da corrispondere ad
un amministratore comunale che svolge
attività professionale di lavoratore
autonomo, contestualmente a quella di
lavoratore dipendente presso un'azienda di
servizi ex municipalizzata (non in
aspettativa):
"I presupposti legislativi previsti per
operare la riduzione del 50% sono l'essere
lavoratore dipendente e non aver richiesto
l'aspettativa ed entrambi sono presenti
nella fattispecie prospettata
dall'amministrazione comunale richiedente.
La circostanza che il lavoratore dipendente
svolga contemporaneamente attività di
lavoratore autonomo, non è idonea ad
escludere l'operatività della riduzione, ma
al contrario ne giustifica ulteriormente
l'applicazione, ove si tenga conto che la ratio della decurtazione va individuata
anche nel minor tempo che i lavoratori
dipendenti non collocati in aspettativa
possono dedicare all'espletamento del
mandato amministrativo.
Ritiene pertanto la
Sezione che, nell'ipotesi di lavoratore
dipendente che non abbia chiesto il
collocamento in aspettativa e svolga
contemporaneamente attività professionale di
lavoratore autonomo, opera la riduzione del
50% dell'indennità di funzione, prevista
dall'ultimo inciso del primo comma dell'art.
82 del TUEL"
(tratto da www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Comando e art. 9, comma 28, D.L.
78/2010.
La Corte dei Conti Sez. Reg.le Liguria, con
il
parere 27.02.2012
n. 7, si allinea alla posizione
espressa dalla sezione di controllo per la
Toscana (deliberazione n. 6/2012/PAR) e
ritiene che le acquisizioni di personale in
comando o distacco non possono essere
formalmente annoverate tra le forme di
lavoro flessibile il cui utilizzo è limitato
dall'articolo 9, comma 28, del d.l. 78/2010,
convertito in legge n. 122/2010. Aggiunge
però le seguenti considerazioni:
- "Sebbene, come anche affermato
dall'Ente, l'istituto del comando non sia da
inquadrarsi tra le tipologie di assunzione
di personale, non possono non essere
considerati gli effetti derivanti dallo
stesso in termini di mantenimento del
principio di neutralità finanziaria";
- "... in applicazione del principio di
neutralità finanziaria ...., nella diversa
fattispecie ora all'esame, quale è quella
del limite di assunzione del personale a
tempo determinato di cui all'art. 9, comma
28, del d.l. n. 78 del 2010, la spesa
relativa al personale utilizzato in
posizione di comando può essere esclusa
dall'ambito applicativo di cui all'art. 9,
comma 28, del d.l. n. 78 del 2010 a
condizione che la medesima spesa sia
figurativamente mantenuta dall'Ente cedente
ai soli fini dell'applicazione della norma
richiamata" (tratto da www.publika.it). |
NEWS |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
ministro Patroni Griffi conferma e anticipa
gli approfondimenti annunciati da Fornero. L'articolo
18 si applica agli statali.
Licenziamenti? Ragioni finanziarie invece
che economiche.
L'articolo 18 si applica anche al lavoro
pubblico. Lo ha confermato il ministro della
funzione pubblica Patroni Griffi, con una
lettera aperta pubblicata ieri sui giornali.
Confermando quanto ItaliaOggi ha avuto modo
di chiarire più volte (si vedano i numeri
del 17 febbraio e del 23.03.2012).
L'intervento sulla stampa di Palazzo Vidoni
sembra inizialmente tendere verso la
soluzione opposta. Il ministro si meraviglia
del dibattito sorto in merito
all'applicabilità o meno dell'articolo 18 ai
pubblici dipendenti, considerandolo
«fuorviante».
Ma la lettera aperta, che sostanzialmente
anticipa gli «approfondimenti» annunciati in
tema dal ministro Fornero, non poteva che
riportare la realtà dei fatti, che è quella
discendente direttamente dalla legge. Il
ministro Patroni Griffi, infatti, con
riferimento ai dipendenti poco capaci ha
affermato che «i licenziamenti
discriminatori hanno una disciplina identica
nel settore pubblico e nel settore privato.
I licenziamenti disciplinari nel settore
pubblico hanno poi una disciplina molto
dettagliata proprio per evitare che possano
essere utilizzati per finalità diverse»; a
conferma dell'inevitabile simmetria della
disciplina dei licenziamenti.
Quanto, invece, alle «ragioni economiche»,
Patroni Griffi prova a fare dei distinguo:
«Il licenziamento per giustificato motivo
oggettivo o economico non può trovare
applicazione nel pubblico in quanto in
questi casi c'è una disciplina ad hoc che
riguarda i casi in cui le pubbliche
amministrazioni abbiano situazioni di
soprannumero o rilevino comunque eccedenze
di personale, in relazione alle esigenze
funzionali o alla situazione finanziaria».
Si tratta solo di una sottigliezza tecnica.
Il ministro afferma che nella p.a. non opera
il motivo economico, ma poche parole dopo
non può che ammettere la sussistenza del
licenziamento per ragioni finanziarie,
previsto espressamente dall'articolo 33 del dlgs 165/2001. Ci si deve riferire alle
ragioni «finanziarie», invece che a quelle
«economiche», per una ragione estremamente
semplice: le amministrazioni pubbliche hanno
una contabilità appunto solo finanziaria,
posta, cioè, a misurare solo i volumi di
entrata e spesa del denaro, senza riferirsi
a grandezze economiche (costi, ammortamenti,
scorte ecc.), utilizzate solo a corredo dei
bilanci, impostati sulla parità finanziaria.
È evidente che un'amministrazione pubblica
non può ritrovarsi in ambasce economiche per
carenza di fatturato o ritardi
nell'acquisizione dei pagamenti dei clienti
o per crisi della domanda rispetto ai beni e
servizi che produce. Per questo,
correttamente, il citato articolo 33 del
dlgs 165/2001 considera possibile il
licenziamento anche individuale per
giustificato motivo oggettivo dettato dalla
«situazione finanziaria». Per
esemplificare, un ente locale in dissesto o
che non abbia rispettato il patto di
stabilità, alla luce di tale norma non solo
può, ma deve verificare la possibilità di
alleggerire la spesa del personale
collocando i propri dipendenti in esubero e
in disponibilità, cioè sospendendo ogni
prestazione lavorativa per 24 mesi,
riducendo il trattamento economico all'80%
di quello fondamentale e giungendo al
licenziamento se nel frattempo il dipendente
non sia stato trasferito presso qualche
altra amministrazione.
Paradossalmente, davanti al giudice del
lavoro un licenziamento per la «situazione
finanziaria» di un ente pubblico può
trovare, ai sensi della riforma paventata
dell'articolo 18, tutela di molto inferiore
a quella dovuta alle ragioni economiche di
un ente privato. Infatti, la «situazione
finanziaria» negativa di
un'amministrazione pubblica non può che
essere sorretta da atti pubblici, asseverati
dagli organi di controllo amministrativo e
contabile, tale che sostanzialmente
risulterebbe impossibile in sede
giurisdizionale accertare la simulazione di
ragioni discriminatorie o disciplinari.
Per queste ragioni, anche se ancora
l'articolo 18 non è stato riformato, nei
confronti dei dipendenti pubblici opera già
a partire dall'entrata in vigore della legge
183/2011 una disciplina di maggior rigore
rispetto al lavoro privato, qualora
intervengano licenziamenti per ragioni
finanziarie
(articolo ItaliaOggi del 28.03.2012). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Enti,
oblio sul web.
Dati personali sui siti per 15 giorni.
Provvedimento del Garante. Rischio multe da
120 mila.
Diritto d'oblio sui siti istituzionali degli
enti locali. I dati personali contenuti
nelle delibere pubblicate sull'albo pretorio
virtuale non devono continuare a essere
diffusi oltre il termine di 15 giorni
previsto dal Testo unico degli enti locali.
Altrimenti l'ente rischia una sanzione
amministrativa pecuniaria che va da 10 a 120
mila euro.
È quanto ha deciso il Garante con
il
provvedimento di prescrizione
23.02.2012 n. 73, che si occupa di modalità
di pubblicazione dei provvedimenti
amministrativi.
Nel caso specifico una signora si è
lamentata del fatto che sul sito del comune
fosse presente una delibera contenente i
suoi dati anagrafici e l'informazione che
avesse perso una causa tributaria con
l'amministrazione, menzionando anche la
condanna alle spese. Il problema è che la
pubblicazione della deliberazione integrale
si è protratta oltre il termine previsto
dall'art. 124 del dlgs 267/2000 (Tuel), la
norma che obbliga gli enti a pubblicare sul
proprio sito le deliberazioni di comune e
provincia per 15 giorni consecutivi, salvo
specifiche disposizioni di legge.
Il Garante ha ricordato che i soggetti
pubblici sono tenuti ad assicurare il
rispetto dei limiti temporali previsti,
rendendo accessibili i dati personali sul
proprio sito web durante il circoscritto
ambito temporale individuato dalle
disposizioni di riferimento, anche per
garantire il diritto all'oblio degli
interessati. Mentre, trascorsi i termini
specificatamente individuati, determinate
notizie, documenti o sezioni del sito devono
essere rimossi dal web o privati degli
elementi identificativi degli interessati
(così le «Linee guida in materia di
trattamento di dati personali contenuti
anche in atti e documenti amministrativi,
effettuato da soggetti pubblici per finalità
di pubblicazione e diffusione sul web»,
pubblicate in G.U. n. 64 del 19.03.2011).
Accertato il superamento del termine, il
Garante ha vietato al comune di diffondere
ulteriormente in internet i dati personali
della signora. E ha prescritto di modificare
le modalità di pubblicazione sul sito così
da rispettare le Linee guida. Una volta
trascorso il termine il comune potrà tenere
sul sito regolamenti e deliberazioni, purché
privati di dati personali, ha spiegato.
Aggiungendo che, a questo proposito, sarebbe
meglio creare una sezione apposita del sito
nel quale inserire l'archivio di
documentazione depurato da riferimenti
specifici.
Il Garante ha anche fatto scattare i
provvedimenti n. 74, 75 e 76 del 23.02.2012 per il blocco del trattamento dei dati
nei confronti di tre società di
telemarketing che effettuavano chiamate
pubblicitarie indesiderate a utenze iscritte
nel Registro delle opposizioni senza rendere
identificabile la linea chiamante, e
impedendo in tal modo agli abbonati di poter
tutelare i loro diritti. Il Codice della
privacy, infatti, vieta espressamente ai
soggetti che effettuano chiamate commerciali
e promozionali di camuffare o celare la loro
identità.
Alla luce di queste violazioni, oltre a
dichiarare illecito il trattamento dei dati
effettuato dalle tre società, il Garante ha
dunque disposto il blocco che impedisce alle
tre società l'uso dei dati raccolti fino a
quando esse non si metteranno in regola e
invieranno agli Uffici dell'Autorità la
documentazione che comprovi l'avvenuto
adeguamento. Il Garante si è comunque
riservato di valutare la possibilità di
contestare alle società anche sanzioni
amministrative
(articolo ItaliaOggi del 28.03.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Inps.
Indicati i documenti che nonostante la
semplificazione non possono essere
eliminati.
Autocertificazione con limiti. Sopravvivono
Durc, agibilità, accertamenti medico legali.
Il Documento unico di regolarità
contributiva (Durc), il certificato di
agibilità, le attestazioni di regolarità
contributiva non possono essere sostituiti
con un'autocertificazione dell'interessato,
nonostante la decertificazione prevista dal
collegato lavoro.
Lo ribadisce l'Inps nella
circolare 27.03.2012 n. 47.
L'Istituto di previdenza fa il punto sulla
norma mirante alla semplificazione dei
rapporti tra cittadini e Pubblica
amministrazione, ricordando che l'articolo
15 della legge 183/2011 ha rafforzato il
principio secondo cui la Pa deve acquisire
d'ufficio le informazioni che sono
necessarie allo svolgimento dell'istruttoria
chiedendole all'amministrazione che le
detiene.
In tal senso le modifiche introdotte dal
collegato impongono alle Pubbliche
amministrazioni non solo il divieto di
richiedere certificati o atti di notorietà
ma anche di accettarli (se prodotti di
iniziativa dell'utente). Ne deriva che le
certificazioni rilasciate dalla Pa in ordine
a stati, qualità personali e fatti sono
valide e utilizzabili solo nei rapporti tra
privati. In quelli i con gli organi della Pa
e i gestori di pubblici servizi, i
certificati e gli atti di notorietà devono
essere sostituiti dalle autocertificazioni.
A tal fine è previsto che sui certificati
rilasciati dalla Pa sia apposta la dicitura:
«il presente certificato non può essere
prodotto agli organi della pubblica
amministrazione o ai privati gestori di
pubblici servizi». Se il funzionario accetta
un documento che reca tale formula commette
un illecito disciplinare.
Così, i vertici dell'Istituto invitano le
proprie strutture ad acquisire d'ufficio i
dati necessari a istruire i processi
amministrativi (a tal fine si stanno
implementando i canali telematici)
accettando, se del caso, le
autocertificazioni. Quando si rende
necessario acquisire agli atti dei dati
contenuti in un provvedimento dell'autorità
giudiziaria, che non rientrano nel novero di
quelli che possono essere sostituiti da
dichiarazioni del cittadino, allora
quest'ultimo ha l'obbligo di fornire le
indicazioni per il reperimento delle
informazioni.
Alcune informazioni, però, non possono
essere autocertificate. Oltre a quelle già
menzionate si contano la certificazione di
esposizione all'amianto rilasciata
dall'Inail e i verbali relativi ad
accertamenti medico legali redatti da
strutture sanitarie pubbliche. Si tratta,
infatti, di documenti rilasciati all'esito
di valutazioni effettuate da organismi
tecnici. Questi documenti possono essere
presentati in copia, unitamente a una
dichiarazione sostitutiva dell'atto di
notorietà sulla conformità all'originale in
cui l'interessato deve anche dichiarare che
quanto attestato non è stato revocato,
sospeso o modificato.
Inoltre, secondo l'Inps, il legislatore è
intervenuto in materia per limitare la
certificazione senza, tuttavia, intaccare la
facoltà delle amministrazioni di richiedere
l'autocertificazione, al fine di evitare un
aggravio del procedimento. Permane, così,
per l'Inps la possibilità richiedere, a pena
di esclusione, dichiarazioni sostitutive
nelle procedure che prevedono la
partecipazione di numerosi soggetti, per una
valutazione comparativa di titoli
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.03.2012). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il dirigente risponde per dolo o
colpa grave. E' tenuto ai danni se ha
assegnato ai dipendenti mansioni superiori
rispetto a quelle stabilite.
La responsabilità a cui si accenna nel
quesito è qualificata dal nostro ordinamento
come amministrativa e si configura ogni
volta che il pubblico dipendente ...
(articolo Il
Sole 24 Ore del 26.03.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI:
L'iscrizione agli elenchi condizionata dai
crediti formativi, anzianità e numero d'incarichi. Revisori,
il caso la fa da padrone.
Il ruolo di auditor negli enti locali sarà
assegnato a estrazione.
Una vera e propria rivoluzione per il
sistema delle nomine a revisore degli enti
locali: dal modello della scelta «politica»
a quello della «dea bendata».
Il decreto del
ministero dell'interno n. 1 del 2012,
firmato dal ministro Annamaria Cancellieri
lo scorso 15 febbraio e pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale del 20 marzo, darà
infatti il via alla formazione degli elenchi
di professionisti che potranno ambire,
attraverso sorteggio, ad assumere il ruolo
auditor in comuni, province, città
metropolitane, comunità montane, comunità
isolane e unioni di comuni. La possibilità
d'iscriversi sarà condizionata dai crediti
formativi in materia di contabilità ed
economia degli enti territoriali,
dall'anzianità d'iscrizione agli albi
professionali e dal numero d'incarichi
pregressi.
Un nuovo elenco. Verrà istituito, presso il
dipartimento per gli affari interni e
territoriali del ministero dell'interno,
l'elenco dei revisori dei conti degli enti
locali; questo sarà costituito, su base
regionale e per fasce, dai revisori legali
nonché dai dottori commercialisti ed esperti
contabili che, in seguito alla presentazione
di specifica domanda telematica,
dimostreranno di possedere i requisiti
previsti dall'art. 3 del decreto
ministeriale.
Per la prima fascia, quella dei comuni fino
a 4.999 abitanti (5.683 secondo gli ultimi
dati Ancitel), saranno richiesti: a)
l'iscrizione da almeno due anni nel registro
dei revisori legali o all'Ordine dei dottori
commercialisti e degli esperti contabili; b)
il conseguimento, nel periodo che va dal 1°
gennaio al 30 novembre dell'anno precedente,
di almeno dieci crediti formativi relativi
alla partecipazione a corsi e/o seminari
formativi in materia di contabilità pubblica
e gestione economica e finanziaria degli
enti territoriali.
Alla seconda fascia, riferita ai comuni con
popolazione da 5 mila a 14.999 abitanti e
alle unioni di comuni e comunità montane (in
tutto 2.261 enti), potranno iscriversi
coloro che: a) sono iscritti da almeno
cinque anni nel registro dei revisori legali
o all'Ordine dei dottori commercialisti e
degli esperti contabili; b) hanno svolto,
per la durata di tre anni, almeno un
incarico di revisore dei conti presso un
ente locale; c) hanno conseguito, nel
periodo che va dal 1° gennaio al 30 novembre
dell'anno precedente, almeno i citati dieci
crediti formativi.
Per l'ultima fascia, quella dei comuni con
popolazione pari o superiore a 15 mila
abitanti e delle province (si tratta di 847
enti), saranno richiesti: a) l'iscrizione da
almeno dieci anni nel registro dei revisori
legali o all'Ordine dei dottori
commercialisti e degli esperti contabili; b)
l'aver svolto almeno due incarichi, ciascuno
per la durata di tre anni, di revisore dei
conti presso enti locali; c) il
conseguimento, nel periodo che va dal l°
gennaio al 30 novembre dell'anno precedente,
degli stessi crediti formativi visti nei
casi precedenti.
La domanda d'iscrizione. A regime l'elenco
sarà aggiornato al 1° gennaio di ciascun
anno: i soggetti che risulteranno già
iscritti (per la fase transitoria si rinvia
allo specifico box) dovranno, con modalità
che saranno comunicate sul sito internet del
ministero dell'interno, dimostrare il
permanere dei requisiti a pena di
cancellazione. Sarà prevista la possibilità,
da parte di nuovi soggetti, di presentare
domanda d'iscrizione: questa prevederà la
possibilità di indicare, oltre alle fasce
d'interesse (che, nell'ipotesi si abbiano i
requisiti per più di una, non sono
alternative fra loro), anche uno o più
ambiti territoriali provinciali per cui non
si è disponibili ad assumere l'incarico.
Particolare attenzione dovrà essere posta
sulla formazione: a regime il decreto
ministeriale prevede la valenza, fatto nuovo
per la vigente disciplina di formazione
professionale continua, non già della
normale formazione accreditata dagli ordini
o associazioni professionali bensì di «corsi
e/o seminari formativi in materia di
contabilità pubblica e gestione economica e
finanziaria degli enti territoriali i cui
programmi di approfondimento e i relativi
test di verifica siano stati preventivamente
condivisi con il ministero dell'interno».
Una formazione caratterizzata, quindi, dal
controllo sui contenuti e, soprattutto, da
esami sui partecipanti che potrà essere
organizzata, ai sensi dell'ultimo comma
dell'art. 3 del provvedimento in commento,
anche dallo stesso ministero avvalendosi,
senza oneri per lo stato, della scuola
superiore dell'amministrazione dell'interno.
La procedura d'estrazione. Gli enti locali
dovranno comunicare all'Ufficio territoriale
del governo della prefettura competente, con
almeno due mesi di anticipo, la scadenza
dell'incarico del proprio organo di
revisione economico-finanziario; in caso di
cessazione anticipata, la comunicazione sarà
inoltrata entro il terzo giorno successivo
all'evento. La prefettura comunicherà quindi
il giorno in cui si procederà
all'estrazione, in seduta pubblica e alla
presenza del prefetto o di un suo delegato,
dei componenti degli organi di revisione da
rinnovare.
Per ciascun componente da rinnovare saranno
estratti tramite sistema informatico, con
annotazione dell'ordine di estrazione, tre
nominativi: il primo è designato per la
nomina di revisore dei conti; gli altri
subentrano, nell'ordine di estrazione,
nell'eventualità di rinuncia o impedimento
ad assumere l'incarico da parte del soggetto
che li precede.
I risultati dell'estrazione saranno
riportati in un verbale inviato a ciascun
ente locale interessato che provvederà, con
delibera del consiglio, a nominare quale
organo di revisione economico-finanziaria i
soggetti estratti (dopo aver verificato
eventuali cause d'incompatibilità e
impedimenti, ai sensi degli artt. 235, 236 e
238 del Tuel, nonché eventuali rinunce). In
caso di organo collegiale le funzioni di
presidente saranno attribuite al componente
che ha ricoperto il maggior numero di
incarichi di revisore presso enti locali e,
in caso di egual numero di incarichi
ricoperti, conterà la dimensione demografica
di tali enti.
---------------
Le regole per la fase di prima applicazione.
Quando entrerà in vigore il meccanismo
dell'estrazione? Non è possibile individuare
una data precisa, serviranno infatti ancora
diversi mesi. La pubblicazione in Gazzetta
Ufficiale del decreto ministeriale, avvenuta
il 20 marzo, è solo il punto di partenza del
complesso iter necessario per formare
l'elenco dei revisori dei conti degli enti
locali: ci vorrà del tempo non solo per
realizzare la procedura telematica,
bisognerà prevedere anche un congruo termine
per permettere la presentazione delle
domande d'iscrizione (da pubblicizzare non
solo sul sito internet del ministero
dell'interno ma anche in Gazzetta
Ufficiale); saranno poi necessari fino ad
altri 90 giorni per valutare le richieste
pervenute, verificandone i requisiti, in
modo da procedere alla prima formazione
dell'elenco che rimarrà in vigore fino al 28.02.2013 (data di prima manutenzione).
Considerando sia le tempistiche riportare
che il periodo estivo, crediamo che le
estrazioni non possano avvenire prima
dell'autunno: la partenza del nuovo sistema
sarà comunque ufficializzata attraverso un
avviso pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale e
divulgato sulle pagine web dello stesso
ministero dell'interno. Fino ad allora
varranno le vecchie regole del Tuel.
Particolare interesse destano i requisiti,
previsti dall'art. 4 del decreto
ministeriale, per la fase di sua prima
applicazione: esistono, infatti, due
differenze significative rispetto a quelli a
regime indicati nella parte superiore di
questa pagina. La prima riguarda le
caratteristiche dei crediti formativi: nella
fase di start-up, non esistendo ancora i
programmi di approfondimento e i test di
verifica condivisi con il ministero
dell'interno, il provvedimento normativo
secondario ne richiede almeno 15, rispetto
ai 10 a regime, purché riconosciuti dai
competenti ordini professionali o dalle
associazioni rappresentative degli stessi
(sempre, ovviamente, per la partecipazione a
corsi e/o seminari formativi in materia di
contabilità pubblica e gestione economica e
finanziaria degli enti territoriali).
Sarebbero quindi esclusi dall'elenco,
quantomeno fino alla fase a regime, anche i
professionisti che pur avendo già svolto
numerosi incarichi in enti locali non
abbiano acquisito, pur essendo in regola con
gli obblighi deontologici, i crediti
indicati dal provvedimento.
Per l'appartenenza alla prima fascia viene
aggiunto, infine, un ulteriore requisito:
«Aver avanzato, entro la data di entrata in
vigore del presente decreto, richiesta di
svolgere la funzione quale organo di
revisione di ente locale». Profetiche, in
tal senso, le indicazioni fornite nel mese
di febbraio dal Consiglio nazionale dei
dottori commercialisti e degli esperti
contabili: veniva suggerito, infatti,
l'invio di una semplice istanza, consegnata,
spedita per raccomandata o magari inviata
con la pec, a un comune o a una provincia
per poter maturare il requisito. Ricordiamo,
infine, che l'elenco sarà sottoposto a una
prima manutenzione/aggiornamento il 28.02.2013, per poi entrare nella fase a
regime a partire dall'01.01.2014 (articolo
ItaliaOggi Sette del 26.03.2012 -
tratto da www.corteconti.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
La legge di conversione del dl ambiente
riduce il libero utilizzo dei materiali di riporto. Rifiuti, gestione del suolo a tappe.
In attesa di nuove condizioni valgono le
norme sui sottoprodotti.
Sì alla gestione dei «materiali di riporto»
fuori dalla disciplina sui rifiuti, ma solo
nel rispetto delle nuove condizioni tecniche
dettate dal ministero dell'ambiente, e in
attesa delle quali vanno comunque osservate
le norme generali in materia di
«sottoprodotti».
Esce ridimensionata dalle modifiche
apportate dalla legge di conversione
approvata definitivamente il 21.03.2012
la nuova disciplina sul «libero» utilizzo
dei materiali eterogenei contenuti nel suolo
e utilizzati per riempimenti e rilevati
disegnata dal dl 2/2012 (c.d. «dl
ambiente»). Con le novità apportate dalla
legge di conversione del dl 2/2012, la nuova
gestione dei materiali da riporto risulta
quindi scandita in tre distinte fasi
temporali: la prima, che va dal 25.01.2012 (data di entrata in vigore del decreto
2/2012) alla data di entrata in vigore della
legge di conversione; la seconda, che andrà
dalla data di entrata in vigore della citata
legge di conversione (in attesa di
pubblicazione sulla G.U.) a quella della
entrata in vigore del citato dm ambiente (la
cui deadline di adozione è stata stabilita
dal dl 1/2012 nel 24.03.2012); la terza,
che sarà operativa dalla entrata in vigore
del nuovo dm ambiente. Vediamo, nel
dettaglio, le tre fasi.
Le novità previste dal dl 2/2012. Mediante
un'opera di interpretazione autentica ed
estensiva della nozione di «suolo» recata
dal dlgs 152/2006, l'originaria versione del
«dl ambiente» ha sancito dal 25.01.2012
l'equiparazione allo stesso dei materiali di
riporto in esso contenuti, con la
conseguenza di rendere ufficialmente lecita
la gestione di questi ultimi al di fuori dal
regime dei rifiuti ove analoga gestione sia
consentita per i primi.
In particolare, in
base alla originaria formulazione del dl
2/2012, non sono dal 25.01.2012
considerati rifiuti (fermo restando
l'obbligo di procedere a bonifica dei
terreni contaminati oltre una certa soglia)
le matrici di riporto contenute nelle
porzioni di suolo definite dall'articolo
185, comma 1, lettere b) e c), dlgs 152/2006,
ossia contenute: nel terreno (non scavato);
nel suolo contaminato non scavato; nel suolo
non contaminato escavato nel corso di
attività di costruzione, purché riutilizzato
allo stato naturale nello stesso sito a fini
di costruzione.
Dalla stessa data non sono
altresì considerati rifiuti, se soddisfano
almeno una delle condizioni di cui agli
articoli 183/1, lettera a) (il detentore non
se disfa), 184-bis (sono dei sottoprodotti)
e 184-ter (sono stati oggetto di recupero)
del dlgs 152/2006, i materiali di riporto
contenuti nel suolo escavato non contaminato
e utilizzati in siti diversi da quelli di
escavo.
Le novità della legge di conversione. La
legge approvata il 21.03.2012 ha, come
accennato, confermato l'impianto di fondo
del decreto d'urgenza, delimitandone però la
sfera d'azione, e ciò mediante due nuove
disposizioni. In primo luogo, tale legge ha
infatti introdotto una precisa definizione
di «matrici materiali di riporto» facendoli
coincidere con i soli «materiali eterogenei,
disciplinati dal dm ambiente previsto
dall'articolo 49 del dl 1/2012, utilizzati
per la realizzazione di riempimenti e
rilevati non assimilabili per
caratteristiche geologiche e stratigrafiche
al terreno in situ, all'interno dei quali
possono trovarsi materiali estranei».
In
secondo luogo, stabilendo che fino
all'entrata in vigore del dm ambiente in
parola tali matrici materiali di riporto
eventualmente presenti nei terreni e nei
suoli gestibili al di fuori della disciplina
sui rifiuti (quelli ex articolo 185/1,
lettere b) e c), ed ex articolo 185/4 del dlgs 152/2006 sopra citati) possono essere
considerati sottoprodotti (dunque utilizzati
in deroga al regime sui rifiuti) solo se
rispettosi delle condizioni generali sui
sottoprodotti stabilite dall'articolo
184-bis dello stesso codice ambientale.
La gestione dei materiali
di riporto a «pieno regime».
L'assetto definitivo della nuova disciplina
sui materiali di riporto troverà un suo
assetto definitivo solo con l'entrata in
vigore del nuovo dm ambiente in materia di
terre e rocce da scavo previsto
dall'articolo 49 del dl 1/2012.
Tale decreto, superando le norme dettate per
il periodo transitorio dalla legge di
conversione del dl 2/2012, traccerà infatti
in modo preciso e definitivo i confini entro
i quali la gestione dei materiali di riporto
potrà avvenire in deroga alla disciplina sui
rifiuti (articolo
ItaliaOggi Sette del 26.03.2012). |
APPALTI SERVIZI:
Liberalizzazioni. Riscritto il calendario
per la riforma degli affidamenti
Servizi, pareri all'Antitrust con rischio
ingorgo date.
Tra luglio e agosto pioggia di decisioni con
le analisi dei mercati locali.
Con la nuova riscrittura della riforma nel
decreto liberalizzazioni appena convertito
dal Parlamento, la disciplina dei servizi
pubblici locali di rilevanza economica
dovrebbe aver trovato un quadro definito.
Le amministrazioni affidanti sono chiamate
ad avviare sin da ora l'analisi per
qualificare i servizi interessati dal nuovo
quadro, che oltre alle attività prive di
rilevanza economica esclude una serie di
settori (servizio idrico, gas, energia,
farmacie e ferrovie regionali).
Il nuovo percorso è a tappe forzate, inizia
con il Dm sui criteri per la verifica
dell'attribuzione dei diritti di esclusiva:
il decreto va adottato entro il 31 marzo.
Gli elementi desumibili dalla bozza
consentono di avviare l'analisi istruttoria
per rilevare su quali servizi possa essere
configurata la gestione liberalizzata o
invece l'attribuzione di diritti di
esclusiva. La definizione delle condizioni
per la gestione unitaria va realizzata con
l'adozione della delibera-quadro per tutti i
servizi in gestione entro il 13.08.2012.
Considerando che i Comuni con più di 10mila
abitanti, prima di adottare l'atto, devono
ottenere il parere dell'Agcm
sull'istruttoria, e che l'authority deve
renderlo entro 60 giorni dalla richiesta, è
concreto il rischio di ingolfamento.
Lo schema di Dm contiene poi due norme
contraddittorie: l'articolo 2, comma 5,
evidenzia l'adozione della delibera-quadro
come condizione necessaria solo per
l'affidamento con gara o a società mista,
mentre l'articolo 5, comma 3 la esplicita
come necessaria anche per gli affidamenti
(derogatori) in house. In questa prima fase
potrebbero essere facilitati i Comuni con
meno di 10mila abitanti, che non devono
richiedere il parere all'Agcm.
Molti degli elementi essenziali per
l'analisi sull'attribuzione dei diritti di
esclusiva nei servizi a rete (ad esempio
rifiuti e Tpl) potranno tuttavia essere
definiti solo dopo gli ambiti e bacini
territoriali, che le Regioni devono
individuare entro il 30 giugno.
I Comuni che
intendano proporre alle Regioni sub-ambiti
più piccoli rispetto alla Provincia devono
formalizzare una richiesta, supportata da un
progetto associativo, entro il 31 maggio. In
base a questo quadro, gli elementi di
riferimento effettivo per molti servizi
potrebbero essere disponibili solo alla fine
di giugno, con un margine veramente esiguo
per il perfezionamento dell'istruttoria e
del parere presso l'Agcm, in rapporto alla
prima scadenza del 13.06.2012.
Superata questa fase, gli enti locali devono
confrontarsi con le nuove scadenze delle
gestioni esistenti, che vede il primo punto
critico nel 31 dicembre, data alla quale
cessano gli affidamenti in house non
coerenti con i parametri comunitari e
comunque superiori a 200mila euro di valore
annuo del servizio). Questo stesso termine
vale per le amministrazioni che, aggregando
gli attuali gestori di uno stesso servizio,
vogliano dar vita a una società affidataria
in house del servizio per tutto l'ambito
territoriale, per un valore anche superiore
al limite dato nel comma 13 e per un periodo
massimo di tre anni (quindi sino al 31.12.2015).
La soluzione è proposta in
un'ottica di rafforzamento degli operatori
pubblici in vista di future gare di ambito.
Per le società miste in cui il socio privato
sia stato scelto con gara ma non a doppio
oggetto la scadenza delle gestioni è
posticipata al 31.03.2013, mentre
rimangono invariati i termini entro cui le
quotate devono cedere le azioni in mano
pubblica tra la metà del 2013 e la fine del
2015.
---------------
Il calendario
Percorso per l'affidamento dei servizi
pubblici locali con rilevanza economica
31 marzo 2012|GOVERNO - MINISTRO AFFARI
REGIONALI
Adozione Dm definizione criteri
delibera-quadro (diritti di esclusiva)
31 maggio 2012|COMUNI ASSOCIATI
Proposta a Regioni per possibile definizione
sub-ambito
30 giugno 2012|REGIONI
Definizione ambiti / bacini territoriali
ottimali
13 agosto 2012|ENTI LOCALI - ENTI AFFIDANTI
I SPL
Approvazione delibera-quadro generale per
attribuzione diritti esclusiva su gestione
SPL
31 dicembre 2012|ENTI LOCALI SOCI
Costituzione di società unico gestore in
house per ambito di SPL ex aggregazione
precedenti gestori affidatari diretti
(deroga)
31 dicembre 2012|SOCIETÀ / PREFETTO (per
esercizio potere sostitutivo)
Rilevazione cessazione gestioni esistenti in
base a affidamenti in house non conformi
---------------
Il
regolamento. Punti controversi.
Delibere obbligate per tutti gli enti.
LA CONTRADDIZIONE/
Da un lato si punta ad aggregare gli
«ambiti» e dall'altro si prevedono atti
amministrativi diversi da una pluralità di
soggetti.
Il regolamento di attuazione dell'articolo
4, comma 33-ter, del Dl 138/2011 dovrà certo
superare lo scoglio della sua pratica
attuazione, ma sottovalutarne la portata
sarebbe un grave errore perché rappresenta
un repentino cambiamento di rotta rispetto a
quanto ad oggi immaginato dal percorso di
riforma.
I maggiori dubbi suscitati dal processo di
liberalizzazione dei servizi, ad oggi,
riguardano l'assenza di un numero adeguato
di imprenditori competenti e che siano in
condizione di investire quanto
indispensabile in settori impegnativi sul
piano degli investimenti.
In fondo fu il medesimo problema con cui si
misurò la Thatcher, che prese atto
dell'impossibilità di liberalizzare il
settore del trasporto pubblico locale ed
optò per la deregulation: in pratica, non
riuscendo a trovare privati in grado di
gestire il servizio, aprì le porte a chi
volesse svolgerne anche solo piccole
porzioni.
La scelta del regolamento va nella stessa
direzione, mettendo perciò in discussione
l'idea che i servizi vadano gestiti
unitariamente. Se il disegno sarà confermato
verrà meno, in sostanza, l'idea che per una
«gestione integrata» sia indispensabile un
gestore unico, la cui necessità non è più
assunta come dato ma deve essere dimostrata
attraverso una verifica di mercato.
Così facendo, però, si rimette in
discussione il processo oggi in corso, che
mira a una crescita dimensionale delle
aziende, attraverso una riduzione del numero
degli ambiti e incoraggiando le fusioni. Si
rischia di interrompere un lavoro già in
corso e che sta cominciando a produrre i
suoi frutti.
Si noti, ancora, che a differenza di quanto
previsto dai commi 1 e 2 dell'articolo 4, il
regolamento (articolo 1, comma 2) estende
l'obbligo di formulare la delibera quadro a
tutti gli enti territoriali, cioè anche alle
autorità amministrative che esercitano
funzioni nei servizi pubblici locali. Scelta
ribadita, del resto, con specifico
riferimento al trasporto pubblico (articolo
3 del regolamento) e dei rifiuti (articolo
4).
Tutto ciò, peraltro, non è privo di rischi e
di problemi. Non è chiaro, anzitutto, come
si possa conciliare una scelta di
«frazionamento del servizio» con il processo
di ampliamento degli ambiti auspicato dalla
legge: sarà la Regione, ai sensi
dell'articolo 3-bis, comma 1, del Dl
138/2011, infatti, a definire gli ambiti con
l'intento di conseguire «economie di scala e
di differenziazione idonee a massimizzare
l'efficienza del servizio»; se è così, ha
senso che a decidere sull'eventuale
suddivisione del servizio stesso in più fasi
e sulle diverse condizioni di
concorrenzialità di ciascuna di queste sia
un soggetto diverso?
Infine, una perplessità di fondo: fino a
oggi i nostri enti non hanno certo brillato
in tema di capacità di regolazione. Oggi si
prospetta di affidare loro un lavoro ancora
più complesso, e cioè di confrontarsi con
soggetti specializzati. Siamo sicuri che le
nostre autorità d'ambito saranno in grado di
governare con efficacia i rapporti con un
numero probabilmente elevato di operatori,
quando hanno dimostrato di non riuscire a
controllarne uno solo? Il rischio è di
rendere ancora più difficoltoso il compito
di chi deve "dettare le regole", con
risultati prevedibili
(articolo Il
Sole 24 Ore del 26.03.2012 - tratto
da www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI:
Professionisti. Per fornire crediti utili
nel sistema riformato le attività formative
si devono concludere con una verifica.
Revisori, nuovi corsi con test.
In arrivo la circolare dell'Interno con le
modalità per iscriversi negli elenchi.
Potrebbe arrivare in settimana l'ultimo
tassello per la nuova disciplina di nomina
dei revisori dei conti negli enti locali. Il
ministero dell'Interno sta lavorando alla
circolare, annunciata nei giorni scorsi
insieme alla pubblicazione in «Gazzetta
Ufficiale» (si veda Il Sole 24 Ore del 21
marzo) del decreto 23/2012 attuativo della
riforma.
La circolare fisserà le regole per
le domande di iscrizione negli elenchi, che
correranno solo online all'interno di un
sistema telematico chiamato a guidare
l'intero meccanismo di estrazione, chiarirà
le procedure per individuare gli ambiti
provinciali d'interesse all'interno della
regione di residenza (in realtà il sistema
dovrebbe permettere di "spuntare" le
Province da escludere) e detterà le modalità
operative per certificare e verificare il
rispetto dei requisiti chiesti per
l'iscrizione nei tre elenchi destinati alle
diverse fasce demografiche di enti locali.
Tutto il meccanismo dovrebbe essere pronto
prima dell'estate, e prima della pausa
dovrebbe andare in «Gazzetta Ufficiale»
anche l'avviso che offrirà un mese di tempo
per presentare domanda di iscrizione
all'elenco da parte degli attuali revisori,
in modo che le nuove nomine possano partire
puntuali a fine settembre, cioè alla nuova
data fissata dal rinvio alla riforma
contenuta nel Milleproroghe.
Il lavoro sulla certificazione e sulla
verifica dei requisiti di curriculum, in
realtà, sarà svolto a braccetto con gli
ordini professionali, che oltre
all'anzianità d'iscrizione già ora
gestiscono i dati sui crediti formativi
ottenuti dagli iscritti. Sul versante della
formazione, il decreto pubblicato la
settimana scorsa in «Gazzetta» divide in due
la disciplina: in sede di prima
applicazione, la normativa riferisce il
requisito dei crediti formativi a quelli
ottenuti nel 2009-2011, e le verifiche non
fisseranno caratteristiche rigide né per gli
enti erogatori né per le modalità di
svolgimento del corso.
Diverso è il panorama
per le nuove attività di formazione, perché
per ottenere crediti spendibili come
revisore occorrerà frequentare corsi i cui
programmi siano stati condivisi in via
preventiva con il Viminale, e che si
concludano con un «test di verifica» (la
forma del test non è predefinita dal decreto
e può essere scelta dall'organizzatore). Un
modo, questo, per evitare il diffondersi di
un "mercato dei crediti" e, in prospettiva,
per creare un orizzonte condiviso fra
Viminale e ordini professionali sulla
formazione (e quindi sul ruolo) dei revisori
contabili di Comuni e Province.
Il periodo
di prima applicazione prevede inoltre regole
a sé anche per quel che riguarda l'istanza,
perché per chi non ha mai svolto la funzione
(e di conseguenza può debuttare negli enti
fino a 5mila abitanti) è sufficiente aver
fatto richiesta presso un Comune. Una volta
a regime, il meccanismo delle verifiche sui
requisiti non sarà comunque invasivo, perché
sarà affidato in larga parte alla
certificazione presso gli ordini
professionali e potrà essere affiancato da
controlli a campione.
In realtà sulla richiesta «retroattiva» di
crediti fissata nel decreto un punto
problematico andrebbe risolto, oltre
all'esclusione di professionisti che, per
varie ragioni, non hanno chiesto crediti che
all'epoca non erano prescritti. L'articolo 5
del Dlgs 39/2010 chiede che i revisori
iscritti al Registro prendano parte a
programmi di aggiornamento professionale
secondo le modalità stabilite con
regolamento dell'Economia, sentita la
Consob.
La norma prescrive anche che il
regolamento definisca le modalità con cui la
formazione continua può essere svolta presso
società o enti dotati di un'adeguata
struttura organizzativa e secondo programmi
accreditati sempre da Economia e Consob. Il
regolamento, però, non è ancora stato
emanato, e non si vede quindi in che modo e
con quali programmi «società o enti» possano
essere stati accreditati.
---------------
Le regole
01|L'ISCRIZIONE
Per essere iscritti negli elenchi regionali
dei revisori dei conti di Comuni e Province
occorrerà fare domanda entro un mese
dall'avviso che sarà pubblicato in «Gazzetta
Ufficiale». La circolare fisserà la
disciplina
per l'invio telematico
delle domande
e per l'esclusione delle province non
d'interesse del professionista
02|IL DEBUTTO
Per chi non ha mai fatto
il revisore è ora sufficiente aver fatto
domanda
in un ente locale (articolo Il
Sole 24 Ore del 26.03.2012 - tratto
da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: Tributi. Rischi di impugnazione.
Regolamenti Imu fermi in attesa dei
correttivi statali.
La mancata introduzione (finora) nel Dl
sulle semplificazioni fiscali delle norme
che avrebbero dovuto modificare la
disciplina Imu sta mettendo in seria
difficoltà i Comuni. Anche se il
Milleproroghe ha rinviato i termini per i
preventivi al 30 giugno, molti enti (anche
quelli a fine mandato, nonostante i dubbi in
materia; si veda Il Sole 24 Ore del 19
marzo) stanno predisponendo il bilancio
2012, al cui interno il posto di primo piano
è occupato proprio dalle aliquote e dalla
disciplina regolamentare dell'Imu.
La mancanza di norme certe su molte modalità
applicative della nuova imposta e le
difficoltà di valutare le conseguenze della
quota erariale devono però indurre i Comuni
alla cautela nella determinazione delle
aliquote, e nell'adozione di agevolazioni o
di modalità applicative dell'entrata (per
esempio i rimborsi della quota di Imu
versata allo Stato), che potrebbero
determinare gravi perdite di gettito.In
questo panorama, appare opportuno che i
Comuni attendano quanto meno la conversione
definitiva del Dl fiscale, per evitare di
introdurre una disciplina che potrebbe
risultare contrastante con le modifiche
normative o con le interpretazioni
ministeriali.
Il regolamento (articolo 52 del Dlgs
446/1997) deve infatti essere trasmesso al
ministero delle Finanze, che può impugnarlo
per vizi di legittimità davanti ai giudici
amministrativi, con un rischio oggi
amplificato proprio dalla quota erariale.
Per queste ragioni è consigliabile approvare
il regolamento Imu con un quadro normativo
più stabile.
L'approvazione del regolamento, se
necessario, potrà intervenire anche dopo
l'approvazione di aliquote e bilancio
(purché entro il 30.06.2012, a termini
attuali), in quanto la previsione
dell'articolo 52, comma 2, del Dlgs 446/1997
(secondo cui i regolamenti vanno approvati
non oltre il termine di approvazione del
bilancio di previsione e non hanno effetto
prima del 1° gennaio dell'anno successivo) è
stata successivamente integrata dalla legge
338/2000 (articolo 53, comma 16) e dalla
legge 448/2001 (articolo 27, comma 8) in
base ai quali i regolamenti sulle entrate
hanno effetto dal 1° gennaio dell'anno di
riferimento, anche se approvati
successivamente all'inizio dell'esercizio,
purché entro il termine del bilancio di
previsione.
A fronte di tale disposizione, che non lega
l'approvazione dei regolamenti al bilancio
(al contrario di quanto deve succedere per
aliquote e tariffe delle entrate, necessarie
per predisporre la manovra economica), è
evidente che i regolamenti possono essere
approvati anche dopo il bilancio (ma entro
la scadenza), e avranno comunque efficacia
dal 1° gennaio.
Per quanto l'adozione del regolamento Imu
sia necessaria per una corretta applicazione
del tributo (che vede sparsa la propria
disciplina primaria in diverse normative),
si ritiene quindi opportuno che anche i
Comuni che stanno per approvare i propri
bilanci rimandino il via libera al
regolamento Imu, per evitare l'adozione di
atti che si pongano in contrasto con le
modifiche normative che il legislatore
potrebbe ancora introdurre o con le
interpretazioni che si attendono dal
ministero delle Finanze; in questo caso,
infatti, i regolamenti sarebbero subito da
modificare, o potrebbero addirittura essere
impugnati in sede giurisdizionale.
---------------
Gli aspetti controversi
01 | LE SCADENZE
Bilanci e regolamenti tributari vanno
approvati entro il 30 giugno.
I regolamenti possono essere approvati dopo
i bilanci, purché entro
la scadenza, e conservano valore retroattivo
a partire dal 1° gennaio
02 | I CORRETTIVI
Nella conversione
sul decreto fiscale sono possibili
interventi importanti sui beni
dei Comuni, sull'Imu
in agricoltura e sui meccanismi che
disciplinano la quota erariale del tributo (articolo Il Sole 24
Ore del 26.03.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
QUESITI &
PARERI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Funzionari Arpa.
Domanda.
Si chiede se i funzionari dell'Agenzia
regionale per la protezione dell'ambiente
(Arpa) possano esser qualificati o meno
pubblici ufficiali.
Risposta.
La Corte di cassazione, sezione III penale,
con la sentenza 01.02.2011 n.
3634, dopo avere evidenziato che l'Agenzia
regionale per la protezione dell'ambiente
(Arpa) è un ente di diritto pubblico
preposto all'esercizio delle funzioni e
delle attività tecniche per la vigilanza ed
il controllo ambientale, nonché
all'erogazione di prestazioni analitiche di
rilievo sia ambientale che sanitario, ha
sottolineato che non si può sostenere che
«il pubblico ufficiale preposto al controllo
e alla vigilanza ambientale, che venga a
conoscenza dell'esistenza di rifiuti
interrati e partecipi alle operazioni di
rimozione, non assuma una posizione di
garanzia, in relazione alle sue condotte
omissive», anche se «il decreto legislativo
numero 152, del 2006, non prevede
specificamente che si debba interessare
della tipologia e dello smaltimento del
rifiuto».
«Va rilevato», aggiungono i
Supremi giudici, «che tra i compiti
fondamentali posti in capo alle regioni (e
alle province), secondo quanto previsto dal
citato decreto legislativo, numero 152, del
2006, articolo 196, rientra la
predisposizione dei piani regionali di
gestione dei rifiuti, con esercizio, tra le
altre, di funzioni attinenti al controllo
periodico su tutte le attività di gestione,
intermediazione e commercio dei rifiuti
predetti, compreso l'accertamento delle
violazioni delle disposizioni in materia».
«Orbene», aggiunge la Suprema corte, «per
l'esercizio delle funzioni de quibus, le
regioni e le province si avvalgono del
supporto dell'Arpa, per cui, l'affermazione
del giudice di merito, secondo la quale non
sarebbe ravvisabile nella specie l'esistenza
di una norma di copertura in grado di
legittimare una contestazione ex articolo
40, capoverso, codice penale, nei confronti
dell'imputato non risulta corretto».
Nella fattispecie, è spontaneo chiedersi se
i funzionari dell'agenzia regionale per la
protezione dell'ambiente (Arpa) debbano
essere considerati quali pubblici ufficiali
o quali ufficiali o agenti di polizia
giudiziaria (articolo
ItaliaOggi Sette del 26.03.2012). |
VARI:
Caparra confirmatoria.
Domanda.
Qual è la disciplina fiscale applicabile
alla caparra confirmatoria versata per un
contratto preliminare? È sempre soggetta a
imposta di registro o se il fisco ritiene
che è un anticipo sconta l'Iva?
Risposta.
La dazione di somme a titolo di caparra
confirmatoria, convenuta in un contratto
preliminare, comporta l'applicazione
dell'imposta proporzionale di registro nella
misura dello 0,50%, di cui all'art. 6 della
tariffa parte prima allegata al dpr n.
131/1986. Tale imposta è dovuta anche nel
caso di caparre solo «promesse».
La caparra confirmatoria è, invece, estranea
al campo di applicazione dell'Iva non
potendo, per definizione, essere considerata
«corrispettivo» di una cessione di beni o di
una prestazione di servizi ai fini
dell'applicazione del suddetto tributo.
Qualora però, le parti attribuiscano
espressamente a tali somme anche una «funzione»
di anticipo sul prezzo dovuto per la stipula
del definitivo, tali modalità redazionali
delle clausole contrattuali possono
comportare una tassazione delle somme
secondo le disposizioni fiscali previste per
gli acconti prezzo, con conseguente loro
assoggettamento a Iva, come peraltro
ritenuto dall'Agenzia delle entrate (articolo
ItaliaOggi Sette del 26.03.2012). |
APPALTI:
Documento Unico Valutazione Rischi da
Interferenze: quando redigerlo
Domanda
Non avendo previsto la redazione del DUVRI
in sede di appalto, nel momento in cui
dovessero evidenziarsi variazioni tali da
comportare rischi da interferenza, occorre
redigerlo?
Risposta
La
redazione del DUVRI, il Documento Unico
Valutazione Rischi da Interferenze, è un
obbligo di legge introdotto dal D.Lgs.
09.04.2008, n. 81, che è successivamente
stato modificato dal D.Lgs. 03.08.2009, n.
106; esso è un vero e proprio obbligo per le
aziende che intendano affidare mansioni e
parti del lavoro a ditte esterne, in
appalto.
Il reale obiettivo di tale Documento è far
prestare maggiore attenzione ai responsabili
dei lavori nell'osservazione e nella
valutazione di tutti quei rischi potenziali
o reali che possono essere riscontrati sul
luogo di lavoro. Il DUVRI si può
considerare, dunque, una valutazione dei "rischi
di interferenza" tra materiali e
strumentazioni, il cui contatto potrebbe
rivelarsi deleterio e pericoloso, da
scrivere, mostrare, e tener sempre presente.
Il Documento deve essere allegato al
contratto di appalto o di opera e va
adeguato in funzione dell'evoluzione dei
lavori, servizi e forniture; deve essere
quindi tenuto conto di ogni cambiamento o
mutamento della situazione di rischio,
essendo evidente la necessità di aggiornare
(nel caso in esame di stendere ex novo)
costantemente il DUVRI, a seconda della
reale situazione di fatto.
Si ricorda che sono esentati dalla stesura
del modello DUVRI i servizi di natura
intellettuale, le forniture di materiali o
attrezzature di durata inferiore o uguale ai
due giorni o meno, che non siano però in
ambienti a rischio (23.03.2012 -
tratto da www.ispoa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
È possibile correggere in un FIR la data di
emissione, scrivendo nelle annotazioni “correzione
effettuata prima della partenza”?
(19.03.2012 - link a
www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
È possibile che in un FIR la data di
emissione sia diversa da quella di inizio
del trasporto? (19.03.2012
- link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
È possibile in un FIR a destino correggere
numero e tipo di imballaggio? (19.03.2012
- link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
È possibile scrivere nelle annotazioni, come
correzione effettuata a destino, il numero e
data di omologa? (19.03.2012
- link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
È possibile l’utilizzo di un singolo FIR per
rifiuti confezionati diversamente?
(19.03.2012 - link a
www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
È possibile correggere in un FIR, al momento
della presa in carico, la tipologia di
imballaggio? (19.03.2012 -
link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
È possibile correggere in un FIR il dato
relativo al conducente del veicolo?
(19.03.2012 - link a
www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
È possibile correggere nel FIR il dato
relativo alla targa del veicolo?
(19.03.2012 - link a
www.ambientelegale.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO:
Comunicazione al controinteressato del
ricorso in materia di accesso.
Con e-mail del 20 luglio scorso la Sig.ra
..., qualificandosi dipendente di ente
locale, ha chiesto di conoscere se, a parere
di questa Commissione:
1) vi siano casi in cui la comunicazione del
ricorso in materia di accesso non va
comunicato al controinteressato;
2) nel caso in cui il controinteressato –di
fatto– non venga a conoscenza della
comunicazione del ricorso il procedimento
possa procedere o debba essere sospeso.
Al riguardo la Commissione ritiene:
1) che il ricorso in tema di accesso vada
sempre comunicato al controinteressato,
qualora a ciò non abbia già provveduto
direttamente il ricorrente;
2) che una volta che l’Amministrazione abbia
correttamente effettuato la comunicazione al
controinteressato l’eventuale mancata presa
di conoscenza del contenuto della
comunicazione da parte di quest’ultimo sia
allo stesso imputabile, e quindi non
precluda la prosecuzione del procedimento
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 28.09.2010 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Comunicazione del nominativo di
autori di denunce o esposti.
Con nota del 15.07.2010 n. 0022686 il
Comando della Polizia Municipale del Comune
di Porto Sant’Elpidio ha chiesto di
conoscere se, a parere di questa
Commissione, debba dare corso alle
richieste, avanzate da persone che in sede
di procedimenti ispettivi o sanzionatori
(per lo più relativi a rapporti di lavoro
dipendente) siano state oggetto di denunzie
o di esposti, di conoscere il nominativo del
denunziante o dell’esponente.
Al riguardo la Commissione fa presente che
secondo un orientamento giurisprudenziale “le
finalità che sostengono le disposizioni che
precludono ai datori di lavoro l'accesso
alla documentazione contenente le
dichiarazioni rese in sede ispettiva dai
rispettivi dipendenti -fondate su un
particolare aspetto della riservatezza,
quello cioè attinente all'esigenza di
preservare l'identità dei dipendenti autori
delle dichiarazioni allo scopo di sottrarli
a potenziali azioni discriminatorie,
pressioni indebite o ritorsioni da parte del
datore di lavoro-, prevalgono a fronte
dell'esigenza contrapposta di tutela della
difesa dei propri interessi giuridici,
essendo la realizzazione del diritto alla
difesa garantita “comunque” dall'art. 24,
comma 7, della legge n. 241 del 1990”
(Sez. V, 07.12.2009 n. 7678 e 29.07.2008, n.
3798; Sez. VI, 10.04.2003, n. 1923;
03.05.2002, n. 2366, 26.01.1999, n. 59).
Secondo altro orientamento, invece, “nell'ordinamento
delineato dalla L. n. 241/1990, ispirato ai
principi della trasparenza, del diritto di
difesa e della dialettica democratica, ogni
soggetto deve, pertanto, poter conoscere con
precisione i contenuti e gli autori di
segnalazioni, esposti o denunce che,
fondatamente o meno, possano costituire le
basi per l'avvio di un procedimento
ispettivo o sanzionatorio, non potendo la
p.a. procedente opporre all'interessato
esigenze di riservatezza. La tolleranza
verso denunce segrete e/o anonime è un
valore estraneo al nostro ordinamento
giuridico.
Emblematico, in tal senso, è l'art. 111
Cost. che, nel sancire (come elemento
essenziale del giusto processo) il diritto
dell'accusato di interrogare o far
interrogare le persone che rendono
dichiarazioni a suo carico, inevitabilmente
presuppone che l'accusato abbia anche il
diritto di conoscere il nome dell'autore di
tali dichiarazioni. Tale sfavore verso le
denunce e le dichiarazioni anonime emerge
poi, a più riprese, dal codice di procedura
penale: si pensi, ad esempio, all'art. 240
C.p.p. in forza del quale i documenti che
contengono dichiarazioni anonime non possono
essere acquisti né in alcun modo utilizzati,
salvo che costituiscano il corpo del reato o
provengano comunque dall'imputato; all'art.
195, comma 7, C.p.p. che sancisce
l'inutilizzabilità della testimonianza di
chi si rifiuta o non è in grado di indicare
la persona o la fonte da cui appreso la
notizia dei fatti oggetto dell'esame;
all'art. 203 C.p.p. che pure prevede
l'inutilizzabilità delle informazioni rese
dagli informatori alla polizia giudiziaria
quando il nome di tali informatori non venga
svelato” (così TAR Lombardia-Brescia,
Sez. I, sentenza 29.10.2008 n. 1469, sulla
base dei precedenti di cui C.d.S. Sez. V,
27.05.2008 n. 2511; Sez. VI, 23.10.2007 n.
5569; Sez. VI, 25.06.2007 n. 3601; Sez. VI,
12.04.2007, n. 1699; Sez. V, 22.06.1998 n.
923; Ad. Plen. 04.02.1997 n. 5).
Entrambi gli orientamenti danno luogo a
perplessità. Il primo orientamento perché in
sostanza interpreta restrittivamente il
disposto dell’art. 24, comma 7, relativo
alla garanzia dell’accesso finalizzato alla
“conoscenza necessaria per curare o
difendere i propri interessi giuridici”,
limitandolo alla cura e difesa in sede
giurisdizionale, trascurando che la legge
assicura una prima difesa in sede
amministrativa dinanzi a questa Commissione;
e su questa base nega al datore di lavoro
l’accesso in sede amministrativa, per la
considerazione che l’interessato potrà
comunque ottenerlo in sede giurisdizionale.
Ma in tal modo chi voglia ottenere l’accesso
è costretto a seguire la costosa e più lunga
via giurisdizionale. Ma anche il secondo
orientamento dà luogo a dubbi: perché
consentendo l’accesso in sede amministrativa
espone effettivamente il lavoratore ad
azioni ritorsive.
Ritiene pertanto la Commissione che una equa
via di mezzo possa essere quella di
ammettere l’accesso al contenuto degli
esposti o delle denunzie solo qualora
ricorrano le seguenti condizioni:
1) che il provvedimento, ispettivo o
sanzionatorio, sia direttamente fondato
sulle dichiarazioni acquisite da parte del
denunziante o dell’esponente e non sugli
accertamenti obiettivi che, sia pure a
seguito delle denunce e delle dichiarazioni
ricevute, l’Amministrazione ha poi
autonomamente effettuato; e cioè soltanto
nei casi in cui la denuncia o la
dichiarazione abbia costituito la diretta ed
essenziale causa giustificatrice del
provvedimento lesivo e non semplicemente
l’occasione per attivare i poteri d’ufficio
dell’Amministrazione (cfr. C.d.S., Sez. VI,
n. 5199/2009, in Commissione per l’accesso,
Giurisprudenza 2009, pag. 270);
2) che il documento al quale è stato chiesto
di accedere, non consenta, con gli opportuni
omissis, di desumerne l’autore;
3) che, ove non sia possibile oscurare
l’identità dell’autore, l’accesso possa
essere concesso soltanto nel caso in cui
l’interessato possa dare specifica prova,
che la mancata conoscenza del nominativo di
detto autore gli precluderebbe la cura o
difesa dei suoi interessi giuridici in
giudizio
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 28.09.2010 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO:
Comunicazione elenco incarichi conferiti a
legali esterni.
Con nota del 12.08.2010 n. 0025447 il
Servizio Legale del Comune di Porto
Sant’Elpidio ha chiesto di conoscere se, a
parere di questa Commissione, debba dare
corso alla richiesta, avanzata da una
persona per asseriti motivi di studio, di
ottenere l’elenco degli incarichi conferiti
dal Comune a legali esterni nel periodo
1999-2009, con precisazione delle parti,
degli avvocati e dell’oggetto delle cause.
Al riguardo il Servizio Legale fa presente
che un elenco del genere non esiste agli
atti del Comune e quindi dovrebbe essere
compilato appositamente.
Osserva la Commissione che, ai sensi
dell’art. 2 del d.P.R. n. 184/2006 l’accesso
è consentito soltanto a documenti
amministrativi “materialmente esistenti
al momento della richiesta”, dal momento
che la pubblica amministrazione “non è
tenuta ad elaborare dati in suo possesso al
fine di soddisfare le richieste d’accesso”.
Si ritiene pertanto che la richiesta
d’accesso in esame debba essere respinta
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 28.09.2010 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO:
Richiesta di accesso agli atti – Consiglieri
comunali di minoranza.
Il Ministero dell’Interno chiede a questa
Commissione il parere circa le difficoltà,
rappresentate dalla Prefettura di Rieti, di
alcuni consiglieri di minoranza di un Comune
della Provincia ad esercitare il diritto di
accesso agli atti e ai documenti dell’ente,
ai sensi dell’art. 43, comma 2, TUEL.. In
particolare, l’Amministrazione esprime dubbi
sulla previsione regolamentare dell’ente che
riconosce l’esenzione dall’imposta di bollo,
dai diritti di segreteria e dai costi di
riproduzione solo per le copie “richieste
per l’esercizio del mandato di
consigliere…necessarie ed indispensabili per
la discussione di argomenti posti all’ordine
del giorno di sedute del Consiglio comunale
e delle Commissioni”, mentre sottopone a
costi tutti gli altri atti.
In proposito il Ministero dell’Interno
ricorda che con due circolari (n. 23/1993 e
n. 24/1999), recependo il parere del
Ministero delle finanze, aveva affermato
l’esenzione dal bollo dell’accesso dei
consiglieri comunali in funzione del loro
mandato elettivo.
La limitazione dell’esenzione dell’imposta
di bollo dei diritti di segreteria e dei
costi di riproduzione alle richieste dei
consiglieri comunali in questione è
illegittima.
Il “diritto di accesso” ed il “diritto di
informazione” dei consiglieri comunali
nei confronti della P.A. trovano la loro
disciplina specifica nell’art. 43 del d.lgs.
n. 267/2000 (TU degli Enti locali) che
riconosce ai consiglieri comunali e
provinciali il “diritto di ottenere dagli
uffici, rispettivamente, del comune e della
provincia, nonché dalle loro aziende ed enti
dipendenti, tutte le notizie e le
informazioni in loro possesso, utili
all’espletamento del proprio mandato”.
Dal contenuto della citata norma si evince
il riconoscimento in capo al consigliere
comunale di un diritto dai confini più ampi
sia del diritto di accesso ai documenti
amministrativi attribuito al cittadino nei
confronti del Comune di residenza (art. 10,
T.U. enti locali) sia, più in generale, nei
confronti della P.A. quale disciplinato
dalla legge n. 241/1990. Tale maggiore
ampiezza di legittimazione è riconosciuta in
ragione del particolare munus
espletato dal consigliere comunale, affinché
questi possa valutare con piena cognizione
di causa la correttezza e l’efficacia
dell’operato dell’Amministrazione, onde
poter esprimere un giudizio consapevole
sulle questioni di competenza della P.A.,
opportunamente considerando il ruolo di
garanzia democratica e la funzione
pubblicistica da questi esercitata (a
maggior ragione, per ovvie
considerazioni, qualora il consigliere
comunale appartenga alla minoranza,
istituzionalmente deputata allo svolgimento
di compiti di controllo e verifica
dell’operato della maggioranza). A tal
proposito, il Giudice amministrativo
individua la situazione giuridica in capo ai
consiglieri comunali con l’espressione “diritto
soggettivo pubblico funzionalizzato”,
vale a dire un diritto che “implica
l’esercizio di facoltà finalizzate al pieno
ed effettivo svolgimento delle funzioni
assegnate direttamente al consiglio comunale”.
A tal fine il consigliere comunale non deve
motivare la propria richiesta di
informazioni, poiché, diversamente opinando,
la P.A. si ergerebbe ad arbitro delle forme
di esercizio delle potestà pubblicistiche
dell’organo deputato all’individuazione ed
al perseguimento dei fini collettivi.
Conseguentemente, gli Uffici comunali non
hanno il potere di sindacare il nesso
intercorrente tra l’oggetto delle richieste
di informazioni avanzate da un Consigliere
comunale e le modalità di esercizio del
munus da questi espletato.
Anche per quanto riguarda le modalità di
accesso alle informazioni e alla
documentazione richieste dal consigliere
comunale, costituisce principio
giurisprudenziale consolidato (cfr., fra le
molte, C.d.S., Sez. V, 22.05.2007 n. 929)
quello secondo cui il diritto di accesso
agli atti di un consigliere comunale non può
subire compressioni per pretese esigenze di
natura burocratica dell’Ente, tali da
ostacolare l’esercizio del suo mandato
istituzionale, con l’unico limite di poter
esaudire la richiesta (qualora essa sia di
una certa gravosità) secondo i tempi
necessari per non determinare interruzione
alle altre attività di tipo corrente e ciò
in ragione del fatto che il consigliere
comunale non può abusare del diritto
all’informazione riconosciutogli
dall’ordinamento pregiudicando la corretta
funzionalità amministrativa dell’ente civico
con richieste non contenute entro i limiti
della proporzionalità e della
ragionevolezza.
Proprio al fine di evitare che le continue
richieste di accesso si trasformino in un
aggravio della ordinaria attività
amministrativa dell’ente locale, la
Commissione per l’accesso ha riconosciuto la
possibilità per il consigliere comunale di
avere accesso diretto al sistema informatico
interno (anche contabile) dell’ente
attraverso l’uso della password di servizio
(fra gli ultimi, cfr. parere del
29.11.2009).
Contrasta con i richiamati principi ogni
regola organizzativa che impedisca o
comprima il diritto di accesso dei
consiglieri comunali, compresa, a maggior
ragione, quella che vorrebbe subordinare il
rilascio di atti e documenti al pagamento
dei costi di riproduzione e di bollo come
nella specie.
Per quanto riguarda, in particolare,
l’imposta di bollo si ricorda che il
Ministero delle finanze, con risoluzione n.
151/E del 05.10.2001, ha esentato
dall’imposta di bollo chiunque faccia
istanza di accesso e a maggior ragione tale
risoluzione deve trovare applicazione per i
consiglieri comunali
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 28.09.2010 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO:
Richiesta di parere concernente il diritto
di accesso dei consiglieri comunali di
minoranza.
Due consiglieri del Comune di Baselice
chiedono parere in ordine al Regolamento
Comunale per il diritto di accesso agli
atti, approvato con delibera n. 16 del
28.4.2010, ritenendo che alcune parti della
disciplina avrebbero leso le prerogative in
materia di accesso stabilite per i
consiglieri comunali.
In particolare, il regolamento prevede che:
1) la domanda di accesso dovrà essere
“sottoposta al Dirigente dell’Ufficio o, in
mancanza, al Sindaco, il quale deciderà
sulla singola istanza/richiesta entro il
termine di giorni 10 decorrenti dalla data
dell’istanza”;
2) il dirigente o il Sindaco possano
ritardare l’accesso agli atti,
subordinandolo ad un primo termine di 10 gg.
solo per pronunciarsi sull’istanza ed a un
successivo termine non precisato per il
rilascio della documentazione;
3) l’accesso dei consiglieri è vietato “a
dati normalmente non accessibili al
pubblico, motivato da interessi di tipo
personale o professionale”;
Preliminarmente, la Commissione rileva che
il regolamento Comunale non risulta a suo
tempo trasmesso a questa Commissione, in
contrasto con quanto stabilito dal d.P.R.
12.04.2006 n. 184, art. 11, comma 3. Si
segnala pertanto l’esigenza che a ciò venga
provveduto.
Quanto poi alle segnalazioni degli istanti
si fa presente che:
- sub 1) la richiesta di accesso va
indirizzata normalmente al dirigente o al
responsabile o addetto dell’ufficio
competente ad autorizzare in via generale
l’accesso e non al Sindaco, con la
conseguenza che la norma in questione non
appare conforme all’art. 6, comma 6, d.P.R.
n. 184/2006.
Tuttavia, una volta ristretta nei predetti
limiti soggettivi, la previsione di un “filtro”
sull’istanza di accesso attribuito alla
competenza del responsabile dell’ufficio non
è di per sé solo lesivo delle prerogative
del consigliere comunale, dovendosi valutare
volta per volta se il sindacato operato sia
illegittimo. Invero, se, da un lato, l’ente
non ha il potere di sindacare il nesso
intercorrente tra l’oggetto delle richieste
di informazioni avanzate da un Consigliere
comunale e le modalità di esercizio del
munus da questi espletato, altrimenti si
ergerebbe ad arbitro delle forme di
esercizio delle potestà pubblicistiche;
tuttavia, dall’altro, le richieste dei
consiglieri non possono avere carattere
emulativo ed aggravare eccessivamente,
superando i limiti della proporzionalità e
della ragionevolezza, la corretta
funzionalità dell'amministrazione comunale
(cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza
02.09.2005, n. 4471);
- sub 2) la fissazione di specifici termini
per provvedere sulla richiesta di accesso e
la mancanza di termini per il rilascio dei
documenti, potrebbe determinare, in alcuni
casi, la concreta soppressione delle
prerogative del consigliere, soprattutto
quando il Comune, in caso di procedimenti in
corso o urgenti o che richiedano
l’espletamento delle funzioni politiche
entro un termine inferiore a quello
previsto, non consenta l’accesso agli atti
in tempi utili al consigliere per prendere
conoscenza delle fonti di informazione
ritenute necessarie.
Onde scongiurare tali prospettive, appare
opportuna l’integrazione del regolamento,
con l’aggiunta di una “clausola di
salvaguardia” che imponga alla p.a. di
garantire l’accesso nell’immediatezza e,
comunque, nei tempi più celeri e ragionevoli
possibili da valutare caso per caso in
funzione delle diverse esigenze del mandato
(ad es. consentendo al consigliere nei casi
di urgente necessità o gravosità della
richiesta di prendere subito visione degli
atti, anche con mezzi informatici,
dilazionando nel tempo il rilascio delle
copie);
- sub c) la limitazione dell’accesso del
consigliere comunale ad atti c.d. riservati
o segreti, nella formulazione della norma
regolamentare, non appare conforme all’art.
43, co. 2, del TUEL che non prevede alcuna
limitazione all’accesso da parte dei
consiglieri. A questi ultimi, infatti, non
possono essere opposte alla richiesta del
consigliere esigenze di tutela della
riservatezza dei terzi, essendo i
consiglieri comunali tenuti al segreto nei
casi specificamente determinati dalla legge
ex art. 43, co. 2, d.lgs. n. 267/2000 (cfr
Consiglio di Stato n. 5879/2005; C.d.S.,
Sez. V, 04.05.2004 n. 2716; TAR Sardegna,
Sez. II, 30.11.2004 n. 1782).
Per la restante parte, inerente l’accesso
per motivi personali o professionali, seppur
al consigliere comunale e provinciale di
norma non può essere opposto alcun diniego,
sono comunque fatti salvi i casi in cui
l’accesso sia piegato dal consigliere ad
esigenze meramente personali o al
perseguimento di finalità emulative
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 28.09.2010 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO:
Equiparazione di una istanza, prodotta da
dipendenti della polizia municipale, a “documento
amministrativo” ai sensi della legge n.
241/1990.
Una ex dirigente della Polizia Municipale
-riammessa in servizio dopo un annoso
contenzioso giudiziario- dopo essere venuta
a conoscenza dalla stampa locale che con
nota del 27.05.2010 prot. n. 9545 alcuni
colleghi (n. 13) avevano presentato un
esposto che la riguardava, relativamente
alla possibile alterazione che il suo
ritorno al lavoro avrebbe ingenerato sulla
serenità dell’ambiente lavorativo, e
ritenendo tale esposto “…lesivo della
propria immagine pubblica e della propria
professionalità e in quanto tale da
utilizzare per finalità processuali” ha
presentato istanza di accesso al predetto
esposto.
A seguito del rigetto dell’istanza, motivata
dal fatto che “la nota in oggetto non
rientra nella nozione di documento
amministrativo”, l’ente civico chiede
sulla questione il parere di questa
Commissione.
Al riguardo, si osserva che la nota in
questione costituisce indubbiamente un
documento amministrativo e non rientra tra
le categorie per le quali è vietato
l’accesso; come tale è ostensibile ai sensi
dell’art. 22, co. 1, lett. d), della legge
n. 241/1990 che annovera tra i documenti
accessibili anche gli atti interni o non
relativi ad uno specifico procedimento
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 28.09.2010 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
APPALTI -
ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO:
Accesso alla documentazione amministrativa
relativa al rilascio di una informazione
antimafia.
Con nota del 18.08.2010 la Prefettura di
Udine ha comunicato che una ditta
appaltatrice, avendo appreso, da un
certificato antimafia che le era stato
rilasciato, che in fase istruttoria era
stato acquisito un rapporto della DIA, ha
presentato domanda di accesso a tale
rapporto. Ciò premesso l’Amministrazione ha
chiesto se, a parere di questa Commissione,
sia opportuno concedere tale accesso.
Al riguardo si fa presente che l’art. 3 del
D.M. 10.06.1994 n. 415, come integrato dal
D.M. 17.11.1996 n. 508, nelle categorie dei
“documenti inaccessibili per motivi di
ordine e sicurezza pubblica ovvero ai fini
di prevenzione e repressione della
criminalità” comprende, al punto b), le
“relazioni di servizio ed altri atti o
documenti presupposto per…. adempimenti
istruttori relativi a licenze, concessioni
od autorizzazioni comunque denominate ….che
contengono notizie relative a situazioni di
interesse per l’ordine e la sicurezza
pubblica e all’attività di prevenzione e
repressione della criminalità salvo che, per
disposizioni di legge o di regolamento, ne
siano previste particolari forme di
pubblicità o debbano essere uniti a
provvedimenti o atti soggetti a pubblicità”.
Ora è indubbio che il rapporto in questione
sia un adempimento istruttorio che contiene
notizie relative a situazioni di interesse
per l’ordine e la sicurezza pubblica e
all’attività di prevenzione e repressione
della criminalità; e che quindi sia
sottratto all’accesso ai sensi della citata
disposizione regolamentare.
Né a diversa conclusione può indurre l’art.
7, comma 2, del regolamento di cui al dPR
12.04.2006 n. 184, che prevede che
l’accoglimento della domanda d’accesso “comporta
anche la facoltà di accesso agli altri
documenti nello stesso richiamati e
appartenenti al medesimo procedimento, fatte
salve le eccezioni di legge o di regolamento”.
Infatti nel caso in esame ricorre appunto
l’eccezione prevista dal citato art. 3 del
D.M. n. 415/1994, dal momento che nessuna
norma prevede che il rapporto della DIA sia
soggetto a particolari forme di pubblicità o
debba essere unito all’autorizzazione
antimafia.
Si esprime pertanto il parere che domanda
d’accesso non debba essere accolta
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 14.09.2010 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO:
Istanza di accesso a schede di valutazione
di una procedura concorsuale.
Con fax del 19.06.2010 la Città di Caserta,
Polizia Municipale, Area Comando ha
comunicato:
1) che il dipendente ..., che aveva
partecipato ad una procedura concorsuale per
il passaggio dalla posizione C4 a C5, ha
chiesto copia delle schede di valutazione di
tutti i concorrenti interessati a detto
passaggio, al fine di accertare l’equità e
l’uniformità dei giudizi e delle
valutazioni;
2) che la domanda d’accesso è stata respinta
perché ritenuta preordinata ad un controllo
generalizzato dell’attività
dell’Amministrazione.
Sulla questione viene chiesto il parere di
questa Commissione.
Al riguardo si fa presente che chi ha
partecipato ad una selezione di tipo
concorsuale ha l’evidente interesse di poter
poi controllare se, ai suoi danni, siano
stati commessi errori o parzialità. Pertanto
il Sig. ... ha indubbiamente diritto, ai
sensi dell’articolo 24, comma 7, della legge
n. 241/1990, di accedere alle schede di
valutazione richieste, limitatamente però a
quelle dei concorrenti che l’abbiano
preceduto nella graduatoria, dal momento che
negli altri casi l’esistenza di eventuali
errori o parzialità non potrebbe causargli
alcun danno, con conseguente carenza di
interesse all’accesso
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 14.09.2010 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Diritto di accesso dei
consiglieri comunali. Modifiche al
Regolamento del Comune di Pacentro (AQ).
Richiesta parere.
Il Sig. ..., consigliere di minoranza del
Comune di Pacentro (AQ), chiede parere in
ordine alle modifiche e integrazioni
apportate dal Consiglio comunale con
deliberazione numero n. 20 del 09.08.2008 al
Regolamento approvato con deliberazione n.
35 del 24.06.2002, con le quali è stato
stabilito, in particolare (art. 4, comma 7),
che i consiglieri possono prendere visione
di tutti gli atti per un’ora e per due
giorni settimanali e che qualora le
richieste dei Consiglieri riguardano
documentazioni particolarmente corpose,
complessa o generiche il diritto può essere
limitato (art. 4, comma 10). Il Sig. ...
chiede anche quale sono, nel caso in cui la
Commissione riscontrasse delle irregolarità
nelle modifiche e integrazioni introdotte, i
rimedi utilizzabili per rimuoverle.
Costituisce giurisprudenza consolidata di
questa Commissione in adesione
dell’orientamento espresso dal giudice
amministrativo (cfr., parere 3 febbraio
2009) quello secondo il quale il “diritto
di accesso” ed il “diritto di
informazione” dei consiglieri comunali
nei confronti della P.A. –che trovano la
loro disciplina specifica nell’art. 43 del
d.lgs. n. 267/2000 (T.U. degli Enti locali)
che riconosce ai consiglieri comunali e
provinciali il “diritto di ottenere dagli
uffici, rispettivamente, del comune e della
provincia, nonché dalle loro aziende ed enti
dipendenti, tutte le notizie e le
informazioni in loro possesso, utili
all’espletamento del proprio mandato”–
ha un contenuto più ampio rispetto sia al
diritto di accesso ai documenti
amministrativi attribuito al cittadino nei
confronti del Comune di residenza (art. 10,
T.U. Enti locali) sia, più in generale, nei
confronti della P.A. quale disciplinato
dalla legge n. 241/1990.
Tale maggiore ampiezza di legittimazione è
riconosciuta in ragione del particolare
munus espletato dal consigliere
comunale, affinché questi possa valutare con
piena cognizione di causa la correttezza e
l’efficacia dell’operato
dell’Amministrazione, onde poter esprimere
un giudizio consapevole sulle questioni di
competenza della P.A., opportunamente
considerando il ruolo di garanzia
democratica e la funzione pubblicistica da
questi esercitata (a maggior ragione, per
ovvie considerazioni, qualora il consigliere
comunale appartenga alla minoranza,
istituzionalmente deputata allo svolgimento
di compiti di controllo e verifica
dell’operato della maggioranza).
A tal fine il consigliere comunale non deve
motivare la propria richiesta di
informazioni, poiché, diversamente opinando,
la P.A. si ergerebbe ad arbitro delle forme
di esercizio delle potestà pubblicistiche
dell’organo deputato all’individuazione ed
al perseguimento dei fini collettivi.
Conseguentemente, gli Uffici comunali non
hanno il potere di sindacare il nesso
intercorrente tra l’oggetto delle richieste
di informazioni avanzate da un Consigliere
comunale e le modalità di esercizio del
munus da questi espletato.
Anche per quanto riguarda le modalità di
accesso alle informazioni e alla
documentazione richieste dal consigliere
comunale, costituisce principio
giurisprudenziale consolidato (cfr., fra le
molte, C.d.S., Sez. V, 22.05.2007 n. 929)
quello secondo cui il diritto di accesso
agli atti di un consigliere comunale non può
subire compressioni per pretese esigenze di
natura burocratica dell’Ente, tali da
ostacolare l’esercizio del suo mandato
istituzionale, con l’unico limite di poter
esaudire la richiesta (qualora essa sia di
una certa gravosità) secondo i tempi
necessari per non determinare interruzione
alle altre attività di tipo corrente e ciò
in ragione del fatto che il consigliere
comunale non può abusare del diritto
all’informazione riconosciutogli
dall’ordinamento pregiudicando la corretta
funzionalità amministrativa dell’ente civico
con richieste non contenute entro i limiti
della proporzionalità e della
ragionevolezza.
Il ricorso a supporti magnetici o l’accesso
diretto al sistema informatico interno
dell’Ente, ove operante, sono strumenti di
accesso certamente consentiti al consigliere
comunale che favorirebbero la tempestiva
acquisizione delle informazioni richieste
senza aggravare l’ordinaria attività
amministrativa.
Nel caso che ne occupa, più che le nuove
modalità di accesso dei consiglieri comunali
di cui all’art. 4, comma 7, che non sembrano
contenere irregolarità atteso che sono
ispirate dall’esigenza di evitare ritardi e
disservizi nell’ordinaria attività
amministrativa, è la modifica introdotta dal
comma 10 dello stesso articolo che
illegittimamente comprime il diritto di
accesso dei consiglieri limitandolo ad
libitum nel caso in cui le richieste
riguardino documentazioni particolarmente
corpose e complesse (non quelle generiche
che, come tali, possono essere disattese).
Il rimedio per rimuovere la predetta
illegittimità è solo il ricorso al TAR
Abruzzo (avverso il diniego opposto
dall’amministrazione ad una richiesta
specifica, atteso che il termine per
ricorrere direttamente avverso il
Regolamento è maturato), ricorso che, del
resto, era stato già preannunciato, in sede
di discussione consiliare, qualora la
proposta di modifica del Regolamento fosse
stata approvata nei termini contestati (cfr.
delibera n. 20/2008)
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 14.09.2010 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO:
Richiesta parere sulla verifica della
legittimazione a richiedere l’accesso a
documenti amministrativi da parte di un
Comitato di cittadini.
Con e-mail dell'01.07.2010 l’amministrazione
del Comune di San Giorgio del Sannio ha
chiesto di conoscere se l’ente civico debba
verificare, prima di concedere l’accesso ai
documenti richiesti, la legittimazione del
richiedente, qualificatosi coordinatore di
un comitato di cittadini.
Al riguardo, l’art. 6, co. 1, del d.P.R. n
184/2006 dispone, tra l’altro, che “qualora…
… sorgano dubbi sulla legittimazione del
richiedente, sulla sua identità, sui suoi
poteri rappresentativi …..l’amministrazione
invita l’interessato a presentare richiesta
d’accesso formale…” e l’art. 5, co. 2,
stesso decreto precisa d’altra parte che “il
richiedente deve… dimostrare…, ove occorra,
i propri poteri di rappresentanza del
soggetto interessato”.
Alla stregua delle citate disposizioni, la
Commissione è del parere che, ove sorgano
dubbi sulla legittimazione dell’istante
–come pare nella specie, difettando la prova
documentale della titolarità della carica in
capo all’istante– l’amministrazione debba
invitare l’interessato a regolarizzare
l’istanza
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 14.09.2010 - link a
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CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO:
Accesso di consigliere comunale al
protocollo informatico del Comune.
L’ente civico istante ha negato ad un
consigliere comunale l’accesso al protocollo
informatico, manifestando dubbi sulla
legittimità della pretesa del consigliere di
accedere al protocollo “direttamente dal
monitor del computer in dotazione ai
dipendenti”.
Questa Commissione ha già affrontato in
altra occasione (seduta del 23.2.2010)
proprio la questione inerente l’accesso
diretto del consigliere comunale al sistema
informatico del Comune istante, esprimendosi
positivamente per le argomentazioni che di
seguito si riportano per quanto interessa.
In particolare, quanto alle modalità di
accesso alle informazioni e alla
documentazione richieste dal consigliere
comunale, costituisce principio
giurisprudenziale consolidato (cfr., fra le
molte, C.d.S., Sez. V, 22.05.2007 n. 929)
quello secondo cui il diritto di accesso
agli atti di un consigliere comunale non può
subire compressioni per pretese esigenze di
natura burocratica dell’Ente, tali da
ostacolare l’esercizio del suo mandato
istituzionale, con l’unico limite di poter
esaudire la richiesta (qualora essa sia di
una certa gravosità) secondo i tempi
necessari per non determinare interruzione
alle altre attività di tipo corrente e ciò
in ragione del fatto che il consigliere
comunale non può abusare del diritto
all’informazione riconosciutogli
dall’ordinamento pregiudicando la corretta
funzionalità amministrativa dell’ente civico
con richieste non contenute entro i limiti
della proporzionalità e della
ragionevolezza.
Tale essendo il consolidato orientamento del
giudice amministrativo e di questa
Commissione, le motivazioni del diniego
opposto alla consultazione diretta del
protocollo tramite monitor in dotazione al
personale non sono condivisibili né in punto
di gravosità per l’ufficio (in quanto è ben
possibile senza un eccessivo dispendio
mettere a disposizione un monitor dedicato
alle esigenze dei consiglieri, senza che
questi ultimi interferiscano con le attività
in corso, aggravando il carico dei
dipendenti) né in punto di proporzionalità
e/o ragionevolezza (in quanto il consigliere
comunale ha chiesto di consultare
direttamente il protocollo limitatamente
alle ore pomeridiane negli orari di apertura
degli uffici), dovendo invece
l’amministrazione in modo responsabile
compiere ogni sforzo diligente e tecnico per
assicurare al consigliere l’esercizio del
diritto di accesso.
Alla luce dei soprarichiamati principi si
ritiene illegittimo il diniego opposto
dall’ente alla consultazione diretta del
protocollo da parte del consigliere
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
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ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO:
Richiesta di esonero dal pagamento del costo
di riproduzione ex art. 25 legge n. 241/1990.
L’azienda istante chiede se il rilascio di
documenti, richiesti dal personale
dipendente ad “uso tentativo di
conciliazione e/o giudiziale”, sia
esente dal pagamento del costo di
riproduzione in virtù dell’esonero previsto
dall’art. 10 della legge n. 533/1973 e se i
costi di spedizione della documentazione al
domicilio del richiedente siano a carico
dell’amministrazione.
Quanto al primo quesito, la Commissione
osserva preliminarmente che la fattispecie,
pur inerendo all’ambito di applicazione di
un’esenzione tributaria o fiscale,
interferisce con il rimborso dei costi di
riproduzione ex art. 25 legge n. 241/1990 e,
come tale, rientra tra le materie di
competenza di questa Commissione.
Ciò posto, si rileva che l’art. 10 della
Legge n. 533 del 1973 –rubricato “gratuità
del giudizio”– al primo comma dichiara
esenti dall’imposta di bollo, di registro e
da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi
specie e natura, tra gli altri, gli atti
relativi alle “controversie individuali
di lavoro” (nonché a quelle concernenti
il pubblico impiego e le controversie di
previdenza ed assistenza) ed “ai
provvedimenti di conciliazione dinanzi agli
uffici del lavoro e della massima
occupazione o previsti da contratti o
accordi collettivi di lavoro”.
La regola della gratuità degli atti inerenti
alle controversie di lavoro pubblico e
privato, desumibile dall’ampia formulazione
del citato articolo, tuttavia incontra il
limite specifico nell’onere di rimborso del
costo di riproduzione dei documenti
richiesti ex art. 25 della legge n.
241/1990.
Ed infatti, alla stregua della rubrica
dell’art. 10 legge n. 533/1973 (gratuità
giudizio) nonché dell’interpretazione
letterale di tale disposizione (atti
relativi a controversie e a provvedimenti di
conciliazione), l’esenzione è riferibile
alle spese, di qualsiasi specie,
ricollegabili alla fruizione del servizio
giustizia e dunque a quelle occorrenti per
il compimento di atti giudiziali (es.
notifiche) ovvero di atti pregiudiziali
(avvio della conciliazione) strutturalmente
e necessariamente finalizzati alla tutela
giurisdizionale dei crediti di lavoro, ma
non anche a procedimenti di diversa natura e
finalità, come nella specie, quello di
accesso a documenti amministrativi, essendo
meramente occasionale l’uso dei documenti
richiesti per fini conciliativi o giudiziali
(fatti salvi, in caso di necessità, i poteri
acquisitivi in sede giudiziale o
conciliativa).
Non pare, poi, che la disposizione dell’art.
10 della legge n. 533/1973 sia suscettibile
di interpretazione analogica ad atti non
giudiziari (o non pregiudiziali), essendo
vietata dal carattere eccezionale delle
norme di esenzione (ex art. 14 delle
disposizioni preliminari al codice civile).
Pertanto, trattandosi di documenti non
legati da un nesso strutturale necessario
con la controversia di lavoro ovvero con la
conciliazione, la Commissione è del parere
che per i costi di riproduzione degli atti
oggetto dell’accesso non operi l’esenzione
sancita in generale per l’esercizio dei
diritti dei lavoratori dall’art. 41 della
legge n. 300/1970 e in particolare
nell’ambito del processo del lavoro,
dall’art. 10 della legge n. 533/1973.
Quanto al secondo quesito prospettato, oltre
alle considerazioni già svolte sopra con
riguardo all’inapplicabilità dell’esenzione,
si ribadisce che per costo –secondo la
giurisprudenza amministrativa (cfr. C.d.S.,
Sez. V, 25.10.1999, n. 1709), alla quale si
è allineata anche quella di questa
Commissione (cfr. parere 01.07.2008)– non
deve intendersi solo quello di riproduzione
del documento, ma anche tutti gli altri
sostenuti dall’amministrazione (quali, per
esempio, quelli concernenti la ricerca dei
documenti e/o l’istruzione della pratica).
Ne consegue che l’eventuale richiesta di
rimborso, oltre che dei costi di
fotoriproduzione, anche delle spese
sostenute per l’invio della documentazione
al domicilio del richiedente l’accesso deve
considerarsi legittima, non essendo tale
richiesta limitativa del diritto di accesso,
né tanto meno illogica ed irragionevole
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in
seduta del 14.09.2010 - link a
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GIURISPRUDENZA |
VARI: Se
l'arroganza diventa reato.
LE INDICAZIONI/ Il classico «lei non sa chi
sono io» assume rilevanza anche penale. Se
la cava invece chi «minaccia» i gatti.
«Lei non sa chi sono io»
è solo una frase fuori moda e un po'
patetica ma unita a un «te la farò pagare»
diventa un reato. Almeno se la facenda
finisce davanti a un giudice.
L'espressione, spiega la Corte di Cassazione,
V Sez. penale, con la
sentenza 27.03.2012 n. 11621, va letta in "combinato
disposto" con la promessa di una
vendetta che può essere percepita
dall'ascoltatore più plausibile, proprio
perché chi la pronuncia lascia intendere di
essere in una posizione in cui può nuocere.
Secondo la Corte prima di escludere la
valenza minatoria, come aveva fatto il
giudice di pace, va valutato anche il
contesto in cui l'espressione viene
pronunciata. La capacità di intimidire è
quindi direttamente proporzionale anche «all'alta
tensione verbale».
Con la pronuncia depositata ieri la
Cassazione torna per la seconda volta a
sottolineare l'inopportunità di ricorrere a
un modo di dire che è indice di arroganza e
maleducazione e spesso, anche di fantasia.
La prima volta lo ha fatto nel 2006
(sentenza n. 138) confermando una sanzione
disciplinare a carico di un avvocato. Il
legale non aveva gradito che una dipendente
dell'ordine degli avvocati, intenta a fare
fotocopie, avesse dimenticato di accoglierlo
come meritava.
Attenzioni che aveva "garbatamente"
richiesto dicendo alla signora: «Si deve
mettere da parte e darmi la precedenza. Lei
non sa chi sono io? Qui è diventato un
mercato, una volta si diceva, prego avvocato
si accomodi». Nella condanna gli
ermellini avevano considerato anche che
l'avvocato, nel suo sproloquio, non aveva
usato il titolo di dottoressa. Non sapeva
chi era la signora che faceva le fotocopie.
La passa invece liscia chi, per colpire gli
umani, tenta la vendetta "trasversale"
e minaccia il gatto. Non c'è da
meravigliarsi. Capita. E certamente non
piacerà agli amanti dei felini la sentenza
11646, con cui ieri la Suprema corte ha
liquidato come "spacconeria" o "fanfaronata"
la frase «Ti avveleno tutti i gatti, non
te ne faccio ritrovare neanche uno».
Avvertimento che non può in alcun modo
rappresentare la «condotta idonea a
limitare la libertà morale del destinatario»,
senza la quale non c'è minaccia
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.03.2012). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Il
preavviso di rigetto ex art. 10-bis legge n.
241/1990 è previsto solo per i procedimenti
avviati ad istanza di parte e, quindi, non
si applica al procedimento della
Soprintendenza di annullamento
dell'autorizzazione paesaggista rilasciata
dal Comune.
Il preavviso di provvedimento negativo di
cui all’art. 10-bis l. n. 241 del 1990 non
si applica a questo procedimento, che è
volto all’annullamento, in tempi stretti e
perentori, dell’autorizzazione paesaggistica
(o, in questo specifico caso, del parere
sull’istanza di sanatoria) sub specie di
riesame di quell’atto da parte dell’Autorità
statale, e che si configura come una fase di
riscontro della già ritenuta possibilità
giuridica di mutare lo stato dei luoghi
(Cons. Stato, Ad. plen. 14.12.2001, n. 9; VI,
27.08.2010, n. 5980).
Il preavviso di diniego –che è finalizzato
ad aprire una fase, anche non breve, di
confronto endoprocedimentale- è di suo
incompatibile con la stretta tempistica del
vaglio delle condizioni di legittimità di un
atto legittimante già rilasciato e
produttivo di taluni effetti. Si tratta di
uno strumento partecipativo che la legge
prevede solo “nei procedimenti ad istanza
di parte” e che non trova applicazione
per questa sequenza di secondo grado, che è
avviata d’ufficio e che, pur configurando un
secondo tratto di un'unica vicenda
amministrativa di cogestione del vincolo,
segue la cesura procedimentale del già
avvenuto rilascio del provvedimento di base
che conclude la fase ad istanza di parte (la
fase soprintendentizia concreta una sequenza
officiosa, avviata con la trasmissione degli
atti da parte del Comune).
Quanto ai contenuti e alla funzione pratica,
si deve poi considerare che, data la
struttura e l’ambito di vaglio consentito
all’amministrazione statale, siffatto
preavviso non potrebbe consistere in
un’autonoma comunicazione dei “motivi che
ostano all’accoglimento della domanda”,
ma diverrebbe senz’altro la comunicazione
delle motivazioni in diritto per le quali
l’autorità statale ritiene che quella locale
abbia agito illegittimamente.
Dunque, senza avere un’utilità particolare
ai fini della miglior cura dell’interesse
pubblico, coinciderebbe di fatto con i
contenuti propri dell’annullamento stesso,
che anticiperebbe improduttivamente e solo
ne rallenterebbe gli effetti, ostacolando la
sua funzione di estrema difesa del vincolo
(di cui a Corte cost, 27.06.1986, n. 151;
18.10.1996, n. 341; 25.10.2000, n. 437;
Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9).
Si tratterebbe dunque solo di un’inutile e
anzi dannosa duplicazione di atti (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.03.2012 n. 1803 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Modalità
di individuazione delle situazioni
giuridicamente tutelate che legittimano il
diritto di accesso alla documentazione
amministrativa.
Il fatto legittimante l’accesso alla
documentazione amministrativa, ossia il
possesso di “un interesse diretto,
concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto
l'accesso”, giusta la nozione di cui
all’art. 22 della legge n. 241 del 1990, non
presuppone una predeterminazione rigida
delle situazioni giuridicamente tutelate, in
quanto la loro individuazione è data dal
raccordo con il documento per il quale è
chiesto l'accesso.
In questo senso, la valutazione sulla
fondatezza o meno della domanda di
ostensione si fonda sulla sussumibilità
della pretesa concreta in una fattispecie
normativa, secondo una valutazione
prognostica e secondo un rapporto di chiara
percepibilità (Consiglio di Stato, sez. VI,
18.09.2009, n. 5625). Ciò implica che
l’accesso possa essere riconosciuto facendo
perno sulla situazione sostanziale vantata
dal richiedente e sul fatto lesivo da questi
vantato.
In tal senso vanno le pronunce che hanno
riconosciuto tale interesse non solo,
secondo una proposizione più generale, ai
soggetti territorialmente vicini (come nel
caso tipico dei rilasci di titoli
abilitativi in edilizia, da ultimo Consiglio
di Stato, sez. V, 14.05.2010, n. 2966), ma
anche a singoli o enti in relazione a fatti
amministrativi che potevano incidere
sull’attività da questi svolta (si veda, in
relazione ad una associazione privata che
per statuto svolge attività per la
diffusione e lo sviluppo delle discipline
sportive d’acqua, la pronuncia del Consiglio
di Stato, sez. VI, 07.04.2010, n. 1962)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.03.2012 n.
1768 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'aggiudicazione provvisoria di
un contratto non vincola l'Amministrazione
che può sempre procedere, ove ne ricorrano i
presupposti, al suo annullamento.
L’aggiudicazione provvisoria di un contratto
non e' idonea a generare alcun affidamento
qualificato, per cui la mancata conclusione
della procedura o anche il suo annullamento,
può sempre aver luogo, salvo l’obbligo di
motivazione in relazione all’esistenza dei
presupposti necessari (Consiglio di Stato,
sez. V, 27.04.2011, n. 2479) (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 26.03.2012 n. 1766 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il meccanismo del
silenzio-assenso previsto dall’art. 12,
comma 1, del codice dei contratti riguarda
solo l’approvazione dell’aggiudicazione
provvisoria, mentre l’aggiudicazione
definitiva richiede una provvedimento
espresso dell’Amministrazione.
L’art. 11, comma 5, del codice dei contratti
afferma che “la stazione appaltante,
previa verifica dell'aggiudicazione
provvisoria ai sensi dell'articolo 12, comma
1, provvede all'aggiudicazione definitiva”.
Il Consiglio di Stato rileva che dal testo
normativo, non è dato capire se la verifica,
di cui parla il citato comma 5 dell’art. 11,
coincida in tutto con il meccanismo di
approvazione dell’aggiudicazione
provvisoria, indicato nel comma 1 dell’art.
12 successivo.
Tuttavia, se è vero che le due norme
contengono un’indicazione semanticamente
diversa, è del pari vero che non vi è
diversità di spazio giuridico diverso tra i
due meccanismi subprocedimentali e,
soprattutto, non è dato rinvenire quale
ulteriore attività dell’amministrazione
potrebbe giustificare una diversità
concettuale. Il completamento delle attività
di cui all’art. 12, comma 1, del codice dei
contratti pubblici, ossia l’approvazione
dell’organo competente nel rispetto dei
termini previsti dai singoli ordinamenti,
ed, in mancanza, entro trenta giorni, salva
la disciplina dell’interruzione dei termini,
esaurisce i poteri specifici
dell’amministrazione in questa fase
processuale. Decorso il termine,
l’aggiudicazione si intende approvata per
cui, a norma nel comma 5 dell’art. 11 del
codice dei contratti, “la stazione
appaltante … provvede all'aggiudicazione
definitiva”.
Il testo normativo evidenzia quindi, da un
lato, un obbligo di procedere all’emissione
di un provvedimento espresso di
aggiudicazione definitiva e, dall’altro, la
sua obbligatorietà, tranne l’attivazione
degli altri poteri generali di controllo
spettanti alla stazione appaltante, ma
estranei alla suddetta fase
subprocedimentale.
Conclusivamente, scaduto il termine di
trenta giorni dall’aggiudicazione
provvisoria ed in assenza di un
provvedimento espresso, l’emissione del
provvedimento di aggiudicazione definitiva
diviene concretamente esigibile da parte del
privato, attesa la natura vincolata di tale
atto e l’inesistenza di poteri interdittivi
della pubblica amministrazione, se non
quelli generali di cui si vedrà in seguito.
Ovviamente, tale situazione non incide sulla
conseguibilità in concreto dell’affidamento
del contratto, atteso che a valle di questa
situazione si collocano ulteriori
adempimenti (ed in particolare, nell’ambito
della stessa fase subprocedimentale, quelli
tesi a conferire efficacia
dell’aggiudicazione definitiva, nonché i
controlli sul contratto stipulato) che
possono influire sull’effettivo svolgimento
della prestazione e sul pregiudiziale
affidamento.
Si tratta, però, di momenti di controllo
successivi, che non incidono quindi sulla
fase in esame e sulla nascita del vincolo in
capo alla pubblica amministrazione. Il
meccanismo del silenzio assenso prefigurato
dall’art. 12, comma 1, riguarda solo
l’approvazione dell’aggiudicazione
provvisoria, mentre l’aggiudicazione
definitiva richiede una manifestazione di
volontà espressa dell’Amministrazione, ossia
un provvedimento (Consiglio di Stato, Sez.
IV,
sentenza
26.03.2012 n. 1766 - massima
tratta da
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www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Concorso
pubblico: le cancellature a penna
nell'elaborato non sono segni di
riconoscimento.
In materia di pubblici concorsi, le regole
che vietano l'apposizione di segni di
riconoscimento sugli elaborati scritti sono
finalizzate a garantire l'anonimato di tali
prove, a salvaguardia della par condicio tra
i candidati, per cui ciò che rileva non è
tanto l'identificabilità dell'autore
dell'elaborato attraverso un segno a lui
personalmente riferibile, quanto piuttosto
l'astratta idoneità del segno a fungere da
elemento di identificazione.
Ciò ricorre
quando la particolarità riscontrata assuma
un carattere oggettivamente ed
incontestabilmente anomalo rispetto alle
ordinarie modalità di estrinsecazione del
pensiero e di elaborazione dello stesso in
forma scritta, in tal caso a nulla rilevando
che in concreto la commissione o singoli
componenti di essa siano stati, o meno, in
condizione di riconoscere effettivamente
l'autore dell'elaborato scritto (cfr. Cons.
Stato Sez. IV, 25-06-2010, n. 4119; Sez. V ,
16-02-2010, n. 877 ; Sez. VI, 08.02.2006 n.
5220; Sez. V, 29.09.1999, n. 1208).
Ritiene il Collegio che l’apposizione di
cancellature (peraltro non isolate, ma in un
certo numero) a penna nell’elaborato è fatto
riconducibile ad una incertezza usuale nei
candidati, rilevabile nella maggior parte
degli elaborati di una selezione concorsuale
e non connotata da un carattere di anomalia
tale da poter mettere la Commissione o un
suo componente in condizione di riconoscerne
l’autore. Per questo, essa non è
configurabile come segno di riconoscimento
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
26.03.2012 n. 1740 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
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ATTI AMMINISTRATIVI: Liti
temerarie: il Consiglio di Stato bacchetta
il Comune soccombente e applica l'art. 26 c.p.a condannandolo d'ufficio anche al
pagamento di una "sanzione" pecuniaria.
Nella sentenza in esame il Consiglio di
Stato sul presupposto che la pronuncia di
accoglimento del ricorso in esame si fonda
su ragioni manifeste e interviene dopo che
in ben tre gradi di giudizio procedere ad
applicare l’art. 26, co. 2, c.p.a. -nel
testo originario applicabile ratione
temporis– laddove stabilisce che «2. Il
giudice, nel pronunciare sulle spese, può
altresì condannare, anche d’ufficio, la
parte soccombente al pagamento in favore
dell’altra parte di una somma di denaro
equitativamente determinata, quando la
decisione è fondata su ragioni manifeste o
orientamenti giurisprudenziali consolidati».
Ed invero, la nuova formulazione dell’art.
26, co. 2, c.p.a. ad opera del correttivo
approvato dal d.lgs. 15.11.2011, n.
195, con decorrenza 08.12.2011 -<>-
deve ritenersi applicabile ai soli atti
introduttivi o di costituzione in giudizio
in resistenza, rispettivamente notificati o
depositati successivamente all’08.12.2011, in quanto dal carattere sanzionatorio
della norma discende che la sua
applicazione, in ossequio al principio
generale di irretroattività delle
fattispecie di responsabilità amministrativa
(art. 1, l. n. 689 del 1981), è circoscritta
alle condotte processuali successive alla
sua entrata in vigore. Circa l’ambito
applicativo della norma e i criteri di
liquidazione della speciale indennità, il
collegio rinvia, a mente del combinato
disposto degli art. 74, co. 1, e 88, co. 1,
lett. d), c.p.a., alla sentenza della
medesima sezione 31.05.2011, n. 3252.
Nella specie il collegio, in assenza di
elementi fattuali che consentano
l’applicazione di parametri diversi, non ha
motivo di discostarsi dal criterio della «percentuale
sulle spese di lite» e,
conseguentemente, stima equo condannare il
Comune ad una somma pari a quella liquidata
a titolo di rifusione delle spese di
giudizio (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
26.03.2012 n. 1733 - massima
tratta da
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APPALTI: Principi
giurisprudenziali consolidati in materia di
associazioni temporanee di imprese.
Nel caso di partecipazione alle procedure di
gara di appalti pubblici di organismi
costituiti da più imprese (a.t.i.,
consorzi), secondo consolidati principi
(cfr. Cons. St., ad. plen., 07.04.2011, n.
4; ad. plen., 15.04.2010, n. 1; sez. V,
19.09.2011, n. 5279; sez. VI, 09.02.2011, n.
888):
a) il possesso dei requisiti generali e
speciali deve sussistere in capo a ogni
singola impresa, non solo alla data di
scadenza del termine per la presentazione
delle domande indicato dal bando, ma al
momento dell’aggiudicazione provvisoria, di
quella definitiva nonché della stipula del
contratto;
b) l’immodificabilità della compagine
soggettiva degli organismi che partecipano a
procedure di evidenza pubblica riguarda,
senza possibilità di deroghe, le modifiche
di tipo “additivo” (che si realizzano
allorquando un soggetto giuridico
formalmente nuovo si aggiunge, nel corso del
procedimento di gara, a quelli originari);
c) le a.t.i. non possono in alcun modo
variare la loro composizione rispetto a
quella risultante dall’impegno presentato in
sede di offerta, nel quale devono essere
precisate tutte le circostanze che
legittimano le singole imprese alla
partecipazione alla gara, risolvendosi in
una non consentita modifica anche solo la
diversa configurazione dell’a.t.i. quanto ai
requisiti di partecipazione richiesti ai
raggruppamenti e alle singole partecipanti
(mandataria e mandanti); invero, l’art. 37,
co. 9 e 10, sancendo il principio della
immodificabilità soggettiva dei partecipanti
alle gare, tende ad assicurare una
conoscenza piena, da parte
dell’amministrazione aggiudicatrice, dei
soggetti che intendono contrarre con essa,
consentendo una verifica preliminare e
compiuta dei requisiti, verifica che non
deve essere resa vana, in corso di gara, con
modificazioni di alcun genere; la ratio
di tale divieto è dunque quella di
consentire un controllo preliminare serio e
non aggirabile.
Un’attenuazione del principio di
immodificabilità soggettiva delle a.t.i. si
rinviene nella disciplina dettata dall’art.
51 cit. nella ricorrenza, tuttavia, di
precise condizioni.
L’art. 51 regola le vicende soggettive
fisiologiche del candidato, dell’offerente e
dell’aggiudicatario prima della fase di
sottoscrizione ed esecuzione del contratto;
nel caso di ricorso a tale strumento, la
norma governa il necessario rapporto che si
deve instaurare tra partecipanti e stazione
appaltante, in guisa tale:
a) da onerare quest’ultima,
indipendentemente da una formale
comunicazione in tal senso, del compito di
svolgere il doveroso relativo
sub-procedimento incentrato sulla verifica
del possesso dei requisiti, sia di ordine
generale, sia di ordine speciale, da parte
del nuovo soggetto, non potendo quest’ultimo
avvantaggiarsi della qualificazione del
dante causa;
b) da escludere l’esercizio di qualsivoglia
potere di veto da parte della stazione
appaltante;
c) da postulare l’accettazione, da parte del
successore, del procedimento nello stato in
cui si trova, sicché non potrebbe essere
modificata l’offerta già presentata dal
dante causa, o le condizioni di
aggiudicazione.
In quest’ottica è stata reputata
insufficiente, nel caso di una a.t.i., la
mera comunicazione, formulata dopo
l’aggiudicazione provvisoria e proveniente
dalla sola mandataria, in ordine alla
posizione della trasformata società e,
soprattutto, in assenza di una tempestiva
verifica, da parte della stazione
appaltante, in ordine all’avvenuta
trasformazione, ai caratteri ed ai requisiti
del nuovo soggetto che deve dimostrare il
possesso dei requisiti (cfr. Cons. Stato,
sez. V, 23.07.2010, n. 4849; sez. V,
05.12.2008, n. 6046; sez. IV, 04.10.2007, n.
5197).
Nel caso di partecipazione alla gara di
appalto di un costituendo r.t.i., la
cauzione provvisoria deve essere
inderogabilmente intestata non solo alla
società capogruppo ma anche alle singole
mandanti: ciò affinché possa essere
individuata l’obbligazione garantita in
tutti i suoi elementi soggettivi ed
oggettivi onde evitare il configurarsi di
una carenza di garanzia per la stazione
appaltante con riferimento a quei casi in
cui l’inadempimento non dipenda dalla
capogruppo designata ma dalle future
mandanti (cfr. Cons. St., ad. plen.,
04.10.2005, n. 8) (Consiglio di Stato, Sez.
V,
sentenza 26.03.2012
n. 1732 - massima
tratta da
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www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Negli
appalti pubblici i partecipanti devono non
solo essere in possesso dei requisiti, ma
anche dichiararlo.
In base a un consolidato indirizzo
giurisprudenziale tutti i soggetti che a
qualunque titolo concorrono a pubblici
appalti (in veste di affidatari, sub
affidatari, consorziati, componenti di
a.t.i., ausiliari in sede di avvalimento),
devono non solo essere in possesso dei
requisiti generali e speciali richiesti
dalla legge e dal bando, ma anche
dichiararlo, assumendosi le relative
responsabilità in caso di omissione (cfr. da
Cons. St., ad. plen., 07.04.2011, n. 4; ad. plen., 15.04.2010, n. 1, cui si
rinvia a mente degli artt. 74 e 120, co. 10,
c.p.a.) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
26.03.2012 n. 1731 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
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APPALTI: Partecipazione
alla gara di appalto di una associazione
temporanea di imprese: presupposti per
ottenere il beneficio della riduzione della
cauzione provvisoria.
Nel caso di partecipazione alla gara di
appalto di un costituendo r.t.i., la
cauzione provvisoria deve essere
inderogabilmente intestata non solo alla
società capogruppo ma anche alle singole
mandanti (cfr. Cons. St., ad. plen., 04.10.2005, n. 8), il beneficio della
riduzione della cauzione provvisoria deve
essere accordato esclusivamente nei casi in
cui venga dimostrato il possesso della
certificazione di qualità in capo a tutte le
imprese associate, indipendentemente dalla
tipologia di raggruppamento (cfr. Cons. St.,
sez. V, 12.05.2003, n. 2512).
Anche
secondo un diverso indirizzo, che pur
distingue fra le varie tipologie di
raggruppamenti, nel caso di partecipazione
alla gara d'appalto di un'associazione
temporanea di imprese, la riduzione del 50%
della cauzione provvisoria è consentita:
I)
nel caso di associazione temporanea di
imprese di tipo orizzontale, solo qualora
tutte le imprese associate siano in possesso
della certificazione di qualità, stante il
regime di responsabilità solidale delle
imprese stesse;
II) nel caso di associazione temporanea di
imprese di tipo verticale -caratterizzata da
una specializzazione diversificata delle
associate e, quindi, da una divisione
qualitativa del lavoro pro quota- soltanto
se alcune delle imprese associate siano in
possesso di certificazione di qualità (o
comunque di tanto abbiano fornito la prova),
in quanto in tale ipotesi la responsabilità
correlata alle garanzie risulta ripartita
pro quota fra tutte le imprese del
raggruppamento (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
26.03.2012 n. 1731 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sanatoria
edilizia in zona vincolata: il responsabile
dell'abuso deve dimostrare che l'immobile
precario e' stato realizzato armonizzandolo
con i pregi paesistici dell’area.
Nel caso di specie il Collegio ha rilevato
che in una situazione caratterizzata dalla
realizzazione di manufatti precari in zona
vincolata grava sul responsabile dell’abuso
dimostrare come nel caso di specie
eccezionalmente la realizzazione degli
immobili abusivi sia avvenuta in termini
tali da consentire la loro armonizzazione
con i pregi paesistici dell’area
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
26.03.2012 n. 1727 - massima
tratta da
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APPALTI: Anche
il subappalto garantisce la concorrenza.
Il Consiglio di Stato nella sentenza in
esame dopo aver affermato di non poter
negare le differenze strutturali che
intercorrono tra l’avvalimento, istituto
elaborato dalla giurisprudenza comunitaria,
recepito dall’art. 47 della direttiva
2004/18/CE e trasfuso nell’art. 49 del
decreto legislativo n. 163 del 2006, volto a
consentire ad un imprenditore il possesso
mediato ed indiretto dei requisiti di
partecipazione ad una gara, ed il
subappalto, contratto secondario o derivato,
posto “a valle” del contratto di appalto ed
attinente alla sua esecuzione, procede
comunque a rilevare numerosi profili della
disciplina di cui agli artt. 37, comma 11 e
118 del codice sui contratti pubblici che,
sotto il profilo funzionale, possono essere
considerati indici di un sostanziale
inserimento del subappalto tra gli strumenti
idonei a garantire la maggiore concorrenza
tra gli operatori economici e l’allargamento
del mercato, nella prospettiva propria
dell’art. 47 della direttiva 2004/18, al
pari dell’avvalimento.
Tra questi meritano
rilievo: l’inserimento del subappalto tra
gli strumenti che consentono la
realizzazione di lavori ad elevato contenuto
tecnologico da parte di soggetti affidatari
non in grado di eseguirli nell’art. 37,
disciplinante i raggruppamenti temporanei;
l’obbligo a carico dei concorrenti, all’atto
dell’offerta, di indicare i lavori o le
parti di opere che intendono subappaltare,
con la conseguenza, in caso di mancata
indicazione, che l’autorizzazione al
subappalto non potrà essere accordata;
l’obbligo di deposito presso la stazione
appaltante del contratto di appalto e della
certificazione attestante il possesso da
parte del subappaltatore dei requisiti di
qualificazione prescritti in relazione alla
prestazione subappaltata oltre alla
dichiarazione relativa al possesso dei
requisiti di ordine generale;
l’insussistenza nei confronti del
subappaltatore dei divieti previsti
dall’art. 10 della legge n. 575/1965 e
successive modificazioni; l’autorizzazione
al subappalto da parte della stazione
appaltante, previa verifica dei requisiti in
capo al subappaltatore; la possibilità che
la stazione appaltante stabilisca nel bando
di gara di corrispondere direttamente al
subappaltatore l’importo dovuto per le sue
prestazioni; l’obbligo per il subappaltatore
di praticare per le prestazioni affidate in
subappalto gli stessi prezzi unitari
risultanti dall’aggiudicazione; la
responsabilità solidale dell’appaltatore
degli adempimenti da parte del
subappaltatore relativi agli obblighi di
sicurezza.
Si tratta di disposizioni e
condizioni che, nell’intento di ridurre i
margini di autonomia del rapporto
appaltatore – subappaltatore, attraendolo
sotto il controllo diretto della stazione
appaltante ed imponendo il rispetto di
regole di trasparenza volte a scongiurare i
rischi di aggiramento della disciplina
dell’evidenza pubblica tramite il subingresso
di un soggetto diverso da quello scelto
tramite la gara, tendono a stabilire una
relazione diretta tra committente e
subappaltatore.
Nel contempo, esse soddisfano la finalità
dell’art. 47, p.2 della direttiva 2004/18/CE
(«Un operatore economico può, se del caso
e per un determinato appalto, fare
affidamento sulle capacità di altri
soggetti, a prescindere dalla natura
giuridica dei suoi legami con questi ultimi.
In tal caso deve dimostrare alla
amministrazione aggiudicatrice che disporrà
dei mezzi necessari, ad esempio mediante
presentazione dell’impegno a tal fine di
questi soggetti»), già sottolineata
dalla giurisprudenza comunitaria (Corte di
Giustizia C.E. 02.12.1999, n. 176), di
consentire all’autorità aggiudicatrice la
verifica delle capacità dei terzi ai quali
un prestatore, che non soddisfi da solo i
requisiti minimi prescritti per partecipare
alla procedura di aggiudicazione di un
appalto, intenda ricorrere, con lo scopo di
fornire garanzia che l'offerente avrà
effettivamente a disposizione i mezzi di cui
si avvarrà durante il periodo di durata
dell'appalto “a prescindere dalla natura
giuridica dei suoi legami” con
l’ausiliario e, quindi, anche in virtù di un
contratto di subappalto (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
26.03.2012 n. 1726 - massima
tratta da
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ATTI AMMINISTRATIVI:
L'istanza di accesso alla
documentazione amministrativa può essere
riproposta solo a seguito di nuovi elementi
o fornendo una diversa rappresentazione
dell'interesse legittimante l'accesso.
L’azione, nel giudizio in materia di accesso
alla documentazione amministrativa, è
ancorata “a termini di decadenza”, il
giudizio ha “struttura impugnatoria”
e che l’“istanza di accesso non è
reiterabile” ad libitum, ma può
essere riproposta solo a seguito di nuovi
fatti ed elementi, o fornendo una diversa
prospettazione dell’interesse giuridicamente
rilevante che legittima al diritto di
accesso (Cons. Stato, ad plen., 18.04.2006,
n. 7) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 26.03.2012 n.
1724 - massima
tratta da
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APPALTI: La
revoca della concessione non è mai
automatica alla stregua di una risoluzione
civilistica, ma necessita di un procedimento
in contraddittorio.
La revoca della concessione, in quanto
revoca di un precedente atto espressione di
potere amministrativo (la concessione,
appunto), non può mai ritenersi automatica,
alla stregua di una risoluzione civilistica,
poiché il potere amministrativo è un potere
necessariamente ad esercizio
procedimentalizzato (cd. principio di
articolazione), e deve sottostare, per
esigenze legate alla tutela del principio di
legalità, ai requisiti della tipicità, oltre
che della nominatività.
Ciò significa che, per espungere
dall’ordinamento un atto amministrativo,
occorre un preciso atto amministrativo che
abbia una sua specifica funzione, descritta
dalla legge, e segua un ordine
procedimentale, descritto dalla l. n. 241
del 1990
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
26.03.2012 n. 1713 - massima
tratta da
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APPALTI:
Significato ed effetti della
"concessione".
Il Consiglio di Stato nella sentenza in
esame osserva come il termine “concessione”
può assumere diversi significati a seconda
dei contesti normativi; e che altrettanto
differenziati, sempre in ragione dei
contesti normativi, possono essere gli
effetti di un atto denominato “concessione”.
Così, nel caso del bene demaniale dato in
concessione ad un privato per uso
individuale (come l’esercizio di un’attività
imprenditoriale) è intuitivo che l’ente
pubblico non risponde, almeno in linea di
principio, dei danni a terzi, prodotti
eventualmente dal concessionario.
Nel caso in esame, invece, si tratta di
lavori di pubblica utilità, che includono
anche l’espropriazione di immobili,
progettati e finanziati dallo Stato per un
interesse pubblico del quale lo Stato è
titolare per legge (appunto il r.d. n.
215/1933), e tale rimane anche dopo l’atto
di concessione. Quest’ultimo, infatti, non è
che un mezzo tecnico, una modalità
organizzativa attraverso la quale lo Stato
raggiunge il suo scopo. Tanto è vero che
(come risulta anche esplicitamente dall’art.
4, secondo comma, del decreto di
concessione) gli immobili espropriati
dovranno essere intestati catastalmente al “Demanio
dello Stato”; che è come dire che per
effetto dell’espropriazione gli immobili
divengono di proprietà dello Stato, non del
concessionario.
In questa luce, appare chiaro che, almeno
nei rapporti esterni, il Ministero non è
esonerato da responsabilità per gli effetti
dell’attività del concessionario, quanto
meno quando, come nella specie, l’attività
dannosa sia stata posta in essere in
conformità al progetto e al relativo
mandato, e abbia realizzato l’obiettivo
previsto. Si potrà forse giudicare
diversamente nell’ipotesi di danni a terzi
prodotti ad es. per colpa nell’esecuzione
dei lavori, ma non è questo il caso
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 23.03.2012 n.
1695 - massima
tratta da
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ATTI AMMINISTRATIVI:
Il nuovo provvedimento adottato
dall'Amministrazione nelle more del giudizio
di appello ha effetto caducante sul
precedente provvedimento con conseguente
improcedibilità del ricorso.
Secondo l’orientamento consolidato del
Consiglio di Stato la carenza di interesse
in ordine all'annullamento del provvedimento
originariamente impugnato, sopravvenuta
nelle more del giudizio di appello, comporta
la dichiarazione di improcedibilità, non
soltanto dell'appello, ma altresì
dell'originario ricorso proposto davanti al
giudice di primo grado e determina,
l'annullamento senza rinvio della sentenza
impugnata (v., ex plurimis, Cons.
Stato, Sez. V, 06.09.2007, n. 4681; Sez. IV,
17.04.2002, n. 2031).
E infatti, se viene adottato un nuovo atto
in esito ad una rinnovata istruttoria, la
nuova determinazione è idonea a
rappresentare l’unica volontà
provvedimentale della amministrazione
produttiva di effetti nella sfera giuridica
del destinatario, con conseguente venire
meno di ogni efficacia lesiva della prima
determinazione e dunque di ogni interesse
alla sua caducazione (Consiglio di Stato,
Sez. III,
sentenza
23.03.2012 n. 1689 - massima
tratta da
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EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Procedura
di Valutazione di Impatto Ambientale:
natura, posizioni soggettive coinvolte e
limiti del sindacato del giudice
amministrativo.
Il Consiglio di Stato nella controversia in
esame ha ritenuto di soffermarsi, sia pur
sinteticamente, sopra la natura della
procedura di VIA e delle posizioni
soggettive in essa coinvolte, il tipo di
sindacato esercitabile dal giudice
amministrativo, e le relative conseguenze in
ordine ai limiti, cognitori e probatori, dei
suoi poteri.
Circa l’esatta individuazione
della natura del potere e l’ampia latitudine
della discrezionalità esercitata
dall’amministrazione in sede di VIA, in
quanto istituto finalizzato alla tutela
preventiva dell’ambiente inteso in senso
ampio, il collegio non intende deflettere
dagli approdi esegetici cui è pervenuta la
più recente giurisprudenza (internazionale e
nazionale), da cui emerge la natura
ampiamente discrezionale delle scelte
effettuate, giustificate alla luce dei
valori primari ed assoluti coinvolti (cfr.,
da ultimo, Cons. St., sez. VI, 13.06.2011, n. 3561; sez. IV,
05.07.2010, n.
4246; sez. V, 12.06.2009, n. 3770; Corte giust., 25.07.2008, c-142/2007; Corte
cost., 07.11.2007, n. 367, cui si
rinvia a mente del combinato disposto degli
artt. 74, co.1, e 88, co. 2, lett. d),
c.p.a.).
E’ stato chiarito che nel rendere
il giudizio di valutazione di impatto
ambientale, l’amministrazione esercita una
amplissima discrezionalità che non si
esaurisce in un mero giudizio tecnico, in
quanto tale suscettibile di verificazione
tout court sulla base di oggettivi criteri
di misurazione, ma presenta al contempo
profili particolarmente intensi di
discrezionalità amministrativa e
istituzionale in relazione all’apprezzamento
degli interessi pubblici e privati
coinvolti; la natura schiettamente
discrezionale della decisione finale risente
dunque dei suoi presupposti sia sul versante
tecnico che amministrativo.
Le posizioni
soggettive delle persone e degli enti
coinvolti nella procedura sono pacificamente
qualificabili in termini di interesse
legittimo ed è altrettanto assodato che le
relative controversie non rientrano nel
novero delle tassative ed eccezionali
ipotesi di giurisdizione di merito sancite
oggi dall’art. 134 c.p.a. (cfr., sotto
l’egida della precedente normativa, identica
in parte qua, Cons. St., ad. plen., 09.01.2002, n. 1).
Premesso che a seguito
della storica decisione di questo Consiglio
(cfr. sez. IV, 09.04.1999, n. 601), è
pacifico che il sindacato giurisdizionale
sugli apprezzamenti tecnici
dell’amministrazione possa svolgersi
attraverso la verifica diretta
dell’attendibilità delle operazioni compiute
da quest’ultima, sotto il profilo della loro
correttezza quanto a criterio tecnico ed a
procedimento applicativo, è necessario
precisare che il controllo del giudice
amministrativo sulle valutazioni
discrezionali deve essere svolto extrinsecus,
nei limiti della rilevabilità ictu oculi dei
vizi di legittimità dedotti, essendo diretto
ad accertare il ricorrere di seri indici di
invalidità e non alla sostituzione
dell’amministrazione.
Sulla scorta di
ricevuti principi (cfr., da ultimo e negli
esatti termini, Cass. civ., sez. un., 17.02.2012, nn. 2312 e 2313; Corte cost.,
03.03.2011, n. 175; Cons. St., sez. VI, 09.02.2011, n. 871), cui si rinvia a
mente del combinato disposto degli artt. 74,
co. 1, e 88, co. 2, lett. d), c.p.a.:
a) la
sostituzione, da parte del giudice
amministrativo, della propria valutazione a
quella riservata alla discrezionalità
dell’amministrazione costituisce ipotesi di
sconfinamento vietato della giurisdizione di
legittimità nella sfera riservata alla p.a.,
quand’anche l’eccesso in questione sia
compiuto da una pronuncia il cui contenuto
dispositivo si mantenga nell’area
dell’annullamento dell’atto;
b) in base al
principio di separazione dei poteri sotteso
al nostro ordinamento costituzionale, solo
l’amministrazione è in grado di apprezzare,
in via immediata e diretta, l’interesse
pubblico affidato dalla legge alle sue cure;
c) conseguentemente, il sindacato sulla
motivazione delle valutazioni discrezionali:
I) deve essere rigorosamente mantenuto sul
piano della verifica della non pretestuosità
della valutazione degli elementi di fatto
acquisiti;
II) non può avvalersi di criteri
che portano ad evidenziare la mera non
condivisibilità della valutazione stessa;
III) deve tenere distinti i profili
meramente accertativi da quelli valutativi
(a più alto tasso di opinabilità) rimessi
all’organo amministrativo, potendo
esercitare più penetranti controlli, anche
mediante c.t.u. o verificazione, solo avuto
riguardo ai primi (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
22.03.2012 n. 1640 - massima
tratta da
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Messi
notificatori: nessun compenso aggiuntivo per
le notifiche di atti dell'Amministrazione
Finanziaria.
E’ pacifico in giurisprudenza (per tutte,
cfr. Cons. Gius. Amm. 28.09.1998, n.
546; Cons. Stato, sez. V, 03.09.1985,
n. 280; 30.09.1992, n. 910; 12.02.2008, n. 493;
02.08.2010, nn.
5090 – 5099; 06.12.2010, n. 8542) che
il principio di omnicomprensività della
retribuzione introdotto dall’art. 19 del
d.p.r. 01.06.1079, n. 191 impedisce di
attribuire compensi aggiuntivi per lo
svolgimento di attività lavorative comunque
riconducibili ai doveri istituzionali dei
dipendenti pubblici e che in tale ambito si
colloca anche l’attività di notificazione
svolta dai messi comunali nell’interesse
dell’amministrazione finanziaria o di altre
amministrazioni dello Stato, tenendo conto
dell’evoluzione dell’ordinamento.
La
notificazione degli atti, invero, è mansione
tipica e specifica della categoria del messo
comunale già secondo la definizione
contenuta nell’art. 273 del TULCP n. 383 del
1934 (“il messo comunale e quello
provinciale sono autorizzati a notificare
gli atti delle rispettive
amministrazioni….Possono anche notificare
atti nell’interesse di altre amministrazioni
pubbliche che ne facciano richiesta …”) e
viene svolta nel normale orario di ufficio e
mediante l’utilizzo degli strumenti
organizzativi messi a disposizione
dell’amministrazione di appartenenza.
Correttamente il Giudice di prime cure ha,
quindi, affermato che l’art. 19 del d.p.r. 01.06.1979, n. 191 –confermato dalle
successive norme dettate dalla
contrattazione collettiva per il personale
dipendente degli enti locali- ha escluso la
corresponsione di indennità aggiuntive alla
retribuzione annua lorda derivante dal
trattamento economico di livello e di
progressione economica orizzontale, in
quanto inglobante qualsiasi retribuzione per
prestazioni a carattere sia continuativo che
occasionale, ad eccezione di quelle
indennità specificatamente individuate, tra
cui non sono ricompresi i diritti invocati
dal ricorrente; ha in connessione
evidenziato, altresì, che la ratio della
disposizione, derivando dall’esigenza di
uniformare il trattamento economico dei
dipendenti pubblici, in specie degli enti
locali, e di globalità della previsione
della connessa spesa pubblica, ha in via
generale portata preclusiva della
corresponsione di compensi ulteriori alle
complessive voci retributive individuate in
sede contrattuale, con la conseguenza che
possono essere esclusi dal divieto normativo
i soli compensi dovuti a seguito dello
svolgimento da parte dei dipendenti di
compiti ulteriori ed estranei alle ordinarie
mansioni, e dunque non direttamente
ricollegabili allo status professionale,
mentre la notifica degli atti effettuata per
conto dell’amministrazione finanziaria,
rientra nelle mansioni proprie della
qualifica di appartenenza del dipendente
comunale con la qualifica di messo
notificatore, sicché non può dar luogo a
compenso aggiuntivo.
Fermo tanto, quanto
alle leggi delle quali il ricorrente assume
la violazione, l’art. 4 della l. n. 249 del
1976 è stato abrogato dall’art. 4 della l. 12.07.1991, n. 201 che fissa la nuova
misura dei compensi esclusivamente per i
notificatori speciali mentre nulla prevede
per i messi comunali, eliminando qualunque
collegamento tra i messi comunali (vigile
urbano con funzioni di notificatore) e i
notificatori speciali; l’art. 14, secondo
comma della l. n. 890 del 1982 è stato, di
conseguenza, implicitamente abrogato, atteso
il rinvio al primo comma dell’abrogato
articolo 4 della l. n. 249 del 1976.
E’,
poi, del tutto irrilevante ai fini del
riconoscimento del diritto il fatto che le
notificazioni riguardino atti
dell’amministrazione finanziaria, essendo il
Comune l’unico soggetto legittimato a
riscuotere le indennità per l’attività di
notifica come testualmente dispongono l’art.
10, della l. n. 265 del 1999 (Notificazione
degli atti delle pubbliche amministrazioni),
che al comma 2 stabilisce testualmente “Al
comune che vi provvede spetta da parte
dell’amministrazione richiedente, per ogni
singolo atto notificato, oltre alle spese di
spedizione a mezzo posta raccomandata con
avviso di ricevimento, una somma determinata
con decreti dei Ministri del tesoro, del
bilancio e della programmazione economica,
dell’interno e delle finanze” ed il decreto
del Ministero del Tesoro del Bilancio e
della Programmazione Economica del 14.03.2000 “Al Comune che vi provvede spetta da
parte dell’amministrazione richiedente, per
ogni singolo atto notificato, la somma di
lire …”.
Invero, il conferimento da parte
dell’amministrazione finanziaria al Comune
del compito di procedere tramite i messi
municipali alla notificazione degli atti
finanziari, va inquadrato nella figura
giuridica del mandato ex lege in favore del
comune e come tale insuscettibile sia a
determinare l’inquadramento del messo
comunale nell’organizzazione
dell’amministrazione richiedente che ad
attribuirgli diritti nei confronti della
medesima amministrazione.
Il messo
municipale, in altri termini, rimane
comunque dipendente dell’ente locale ed
agisce, anche nell’esecuzione del compito di
cui si discute, in adempimento degli
obblighi ad esso rivenienti dal rapporto di
impiego con il comune (in tal senso, Cass.
Civ. 30.10.2008, n. 26118 e da ultimo
Cass. Sez. Unite, 27.01.2010, n. 1627,
che in materia di responsabilità per errori
e ritardi nella notifica degli atti
dell’amministrazione finanziaria, ha escluso
la responsabilità del messo notificatore,
affermando che unico responsabile è il
Comune nei cui confronti si instaura un
rapporto di preposizione gestoria che deve
essere qualificato come mandato “ex lege”,
la cui violazione costituisce, se del caso,
fonte di responsabilità esclusiva a carico
del comune, non essendo ravvisabile
l’instaurazione di un rapporto di servizio
diretto tra l’amministrazione finanziaria e
i messi comunali, che operano alle esclusiva
dipendenza dell’ente territoriale.
In conclusione, conformemente alla univoca
giurisprudenza qui in rilievo, deve
ritenersi, che il ricorrente, che riveste la
qualifica di vigile messo, è tenuto ad
effettuare l’attività di notificazione di
tutti gli atti in relazione ai quali si
assume il relativo compito, normativamente
previsto, la stessa amministrazione comunale
da cui dipende e, dunque, anche gli atti di
altre amministrazioni, siccome rientranti
tra gli ordinari compiti di ufficio, senza
che vi sia titolo ad emolumenti
differenziati
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
22.03.2012 n. 1635 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
servizio di polizia stradale non è una
funzione che spetta automaticamente ai
dipendenti con la qualifica di cantoniere o
capo cantoniere, ma consegue ad una scelta
dell’amministrazione.
Nel giudizio in esame i ricorrenti, con
qualifica di cantonieri e capo cantonieri
tendono al riconoscimento del diritto
all’espletamento di specifici servizi di
polizia stradale e chiedono, di conseguenza,
la consegna dei blocchetti per l’elevazione
delle contravvenzioni per le violazioni
delle norme del codice della strada. Il
Consiglio di Stato ha confermato la
statuizione del Giudice di prime cure a
tenore della quale l’espletamento del
servizio di polizia stradale non è funzione
che spetta automaticamente ai dipendenti con
la suddetta qualifica di cantoniere o capo
cantoniere, ma consegue ad una scelta
dell’amministrazione.
L’art. 12, comma 2, del codice della strada
non attribuisce i servizi di polizia
stradale immediatamente ed in via automatica
ai dipendenti degli enti locali, ma prevede
la possibilità che a detto personale vengano
assegnati specifici e limitati servizi di
polizia stradale e precisamente solo quelli
di prevenzione ed accertamento delle
violazioni in materia di circolazione
stradale e di tutela e controllo sull’uso
delle strade, allorché l’amministrazione
istituisca il servizio e individui i
dipendenti ai quali assegnare delle
funzioni. In sostanza, spetta
all’amministrazione assegnare ai dipendenti
con la qualifica indicata dalla norma citata
l’espletamento del suddetto servizio.
Ciò presuppone che il servizio sia disposto
e organizzato dall’amministrazione che,
d’altro canto, non ha alcun onere né obbligo
di istituire il servizio e tanto meno di
affidarlo a tutti i dipendenti che abbiano
una determinata qualifica e che abbiano
superato il corso.
In conclusione, l’aver superato il corso di
qualificazione costituisce mero presupposto
per l’espletamento del servizio, ma non
attribuisce di per sé alcun diritto
all’espletamento del servizio di polizia
stradale che, invece, può essere affidato
solo dall’ente
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
22.03.2012 n. 1634 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Violazione di sigilli e ruolo
del custode.
In tema di violazione di sigilli, la nomina
a custode costituisce un "munus publicum"
obbligatorio che prescinde anche
dall'accettazione del custode e che non
richiede, per la nomina dello stesso,
ulteriori formalità rispetto a quelle
indicate dalla legge, tanto che il soggetto
nominato custode rimane investito della
relativa funzione per il solo fatto della
nomina, portata debitamente a sua conoscenza
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.03.2012 n. 8550 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nozione di ristrutturazione.
La semplice congiunzione fisica dell'opera
con una già esistente non basta a
qualificare l'opera stessa come
ristrutturazione (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 01.03.2012 n. 8021 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni Ambientali. Compatibilità paesaggistica
ed effetto estensivo.
La disposizione dell'art. 181, c. 1-ter, DLvo
42/2004 (introdotta con l'art. 1, c. 36,
L. 308/2004) prevede la non punibilità per
fatti ritenuti dal Legislatore meno lesivi
dello interesse protetto a condizione che
venga accertata la compatibilità
paesaggistica dei lavori eseguiti.
La norma
prevede la inapplicabilità delle sanzioni
penali non per premiare ad un comportamento
fattivo del richiedente la procedura (come
avviene nella ipotesi del comma quinto ove
la punibilità e esclusa in casi di
tempestivo ripristino del bene), ma in
considerazione della non lesività della
condotta in rapporto agli interventi
eseguiti; trattasi, di conseguenza, di una
causa di non punibilità di natura oggettiva
e non soggettiva che può estendersi ai
concorrenti nel reato secondo le regole
generali (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 29.02.2012 n. 7900 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abusi edilizi e soggetti responsabili.
È responsabile del reato di costruzione
abusiva anche il mero esecutore dei lavori
quando sia ravvisabile un profilo di colpa
collegato alla conoscenza del carattere
illecito dei lavori: ciò è configurabile
quando non ha adempiuto all'onere di
accertare il rilascio del provvedimento
abilitante.
L'esecutore è, invece, esonerato da
responsabilità nella ipotesi di lavori
eseguiti in difformità dal titolo, gravando
espressamente sul direttore dei lavori
l'obbligo di curarne la corrispondenza al
progetto (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 29.02.2012 n. 7888 -
tratto da www.lexambiente.it). |
CONDOMINIO:
La Cassazione su un manufatto che percorre
tutto il muro. Vale il principio sulla cosa comune. La canna fumaria è affare di tutti.
Per la legittimità dell'opera non conta il
diritto di veduta.
Per valutare se sia legittima la
realizzazione da parte di un condominio di
una canna fumaria che percorre tutto il muro
condominiale non bisogna considerare se il
nuovo manufatto impedisca o meno la veduta
del proprietario dell'attico ma individuare
se, con la realizzazione di essa, sia
impedito o meno agli altri comproprietari il
normale uso del detto muro perimetrale.
In altri termini, in casi del genere non
bisogna fare applicazione delle norme a
tutela del diritto di veduta del
proprietario dell'immobile, bensì del
principio generale desumibile dall'art. 1102
del codice civile, in base al quale ciascun
partecipante può servirsi della cosa comune
purché non ne alteri la destinazione e non
impedisca agli altri partecipanti di farne
parimenti uso.
Queste le interessanti
conclusioni alle quali è pervenuta la
II Sez. della Corte di Cassazione
con la recente
sentenza 23.02.2012 n. 2741.
La controversia tra condomini che ha portato
alla decisione in questione nasceva a
seguito della realizzazione da parte dei
proprietari di un locale condominiale
adibito a pizzeria di una nuova e più
efficiente canna fumaria che partiva dal
forno del locale (collocato a piano terra) e
si inerpicava lungo il muro condominiale,
sboccando a ridosso della terrazza
dell'attico. Il proprietario di quest'ultimo
si rivolgeva quindi al tribunale per
richiedere la rimozione della canna fumaria,
per la presunta violazione del suo diritto
di veduta e delle norme sulle distanze nelle
costruzioni. Il proprietario del locale
pizzeria e il conduttore si difendevano però
sottolineando il fatto di avere ottenuto una
specifica autorizzazione dell'assemblea
condominiale, nonché eccependo l'inesistenza
di un oggettivo pregiudizio a danno del
proprietario dell'ultimo piano.
Dette eccezioni venivano considerate valide
dal tribunale, che riteneva legittima la
nuova canna fumaria, ma tale decisione
veniva ribaltata dalla Corte di appello, che
ordinava la rimozione parziale del manufatto
in questione da tenere almeno a tre metri
sotto la soglia della terrazza annessa
all'attico. Nella sentenza di secondo grado
si precisava, infatti, che ogni condomino ha
diritto a esercitare una vista a piombo fino
alla base dell'edificio (oltre che quella
panoramica intorno al caseggiato), mentre la
possibilità di un altro condomino di
appoggiare la canna fumaria è ammessa solo
ove la stessa non leda il diritto di veduta
del vicino. Del resto, i giudici di secondo
grado avevano ricordato come, in riferimento
a un caso simile, i giudici supremi, in una
decisione risalente nel tempo, avessero già
precisato che qualora il proprietario di un
attico condominiale agisca per denunciare la
collocazione di un canna fumaria che arrechi
pregiudizio alla vista che si gode dal suo
appartamento, l'indagine sulla legittimità
del fatto denunciato va condotta con
riferimento alle norme sul diritto di
veduta, in quanto la domanda giudiziale è
rivolta a tutelare la veduta del singolo
appartamento e non certo il muro
condominiale.
La sentenza della Corte di appello veniva
però contestata dai proprietari della
pizzeria che, presentando ricorso per
cassazione, insistevano nell'affermare la
legittimità della collocazione della canna
fumaria, sottolineando come il manufatto
installato fosse stata indicata come la
soluzione migliore anche dal consulente
tecnico del giudice. La Suprema corte, però,
con la decisione indicata, ha dato ragione
ai proprietari della pizzeria, ricordando
che se le norme in materia condominiale
consentono al singolo condomino di servirsi
di un bene comune (compreso il muro
perimetrale del caseggiato), anche se
rispettando determinati limiti, a maggior
ragione deve essere consentito al condomino
di poter utilizzare liberamente un manufatto
di proprietà esclusiva.
In ogni caso i giudici supremi hanno
sottolineato come la distanza di tre metri
sia quella che deve essere rispettata tra le
costruzioni e, quindi, non poteva essere
applicata al caso esaminato.
Infatti, come sottolineato dalla Cassazione,
è difficile qualificare una canna fumaria
(cioè un tubo in metallo) come una
costruzione, trattandosi di manufatto che
costituisce un semplice accessorio di un
impianto (nella specie un forno), facente
parte di una unità immobiliare di proprietà
esclusiva, collocato non nel fondo adiacente
a quello del condomino che ne denuncia la
illegittimità, ma nello spazio non
condominiale.
In altre parole, nel caso di specie non
erano presenti le condizioni per applicare
le norme sulle distanze legali e, di
conseguenza, per valutare la legittimità o
meno dell'opera, non bisognava considerare
se la stessa avesse ridotto o escluso il
diritto di veduta del proprietario
dell'ultimo piano, ma se l'utilizzo del muro
condominiale fosse da considerare legittimo,
e cioè rispettoso di quella norma
fondamentale secondo cui ciascun
partecipante può servirsi della cosa comune
purché non ne alteri la destinazione e non
impedisca agli altri condomini di farne
ugualmente uso.
In mancanza di un'indagine per accertare se,
con la realizzazione della nuova canna
fumaria, fosse stato impedito il normale
godimento del muro perimetrale, la
Cassazione ha quindi accolto il ricorso del
proprietario della pizzeria, rimettendo la
stessa questione alla Corte di appello, che
dovrà nuovamente esaminare il caso secondo
le nuove indicazioni fornite dai giudici di
legittimità (articolo
ItaliaOggi Sette del 26.03.2012). |
ESPROPRIAZIONE: Il
Consiglio di stato sulla manovra economica
2011. Espropri con scia.
Illegittimità? C'è danno morale.
Se c'è espropriazione illegittima, c'è anche
danno morale. Il cittadino che viene
espropriato del proprio terreno ha diritto a
che l'amministrazione, se sbaglia, paghi non
solo il valore del bene. L'ente deve pagare
anche i danni non patrimoniali. Può costare,
dunque, molto caro non seguire le procedure.
La manovra 2011 (decreto legge 98)
appesantisce il conto delle espropriazioni
(prevedendo appunto il ristoro del danno
morale). E questo anche per vecchi espropri,
iniziati prima dell'entrata in vigore del
decreto 98 citato.
È quanto ha stabilito il Consiglio di stato,
con la
sentenza 02.11.2011 n. 5844, chiamato a
pronunciarsi su una lite insorta tra il
comune di Nuoro e una serie di cittadini
rimasti senza terreni.
L'amministrazione, infatti, decide di
realizzare alcune opere di urbanizzazione
del territorio. Ma il luogo prescelto
coinvolge le proprietà di alcuni privati.
Così, vengono approvati i progetti e si
procede con un'occupazione d'urgenza, con
valenza di dichiarazione di pubblica
utilità. I terreni vengono progressivamente
trasformati fino a ottenere una quadro
irreversibile. Tuttavia, i decreti di
espropriazione, necessari per completare la
procedura di espropriazione, arrivano in
ritardo. L'occupazione dell'amministrazione,
nata come legittima, diviene illegittima. Si
tratta, infatti, di un'occupazione
appropriativa, non ammessa dalla legge.
Il
tribunale amministrativo per la regione
Sardegna, adito dai cittadini lesi dal
comportamento dell'amministrazione, annulla
l'espropriazione e quantifica i danni. I
ricorrenti ritengono il risarcimento non
appagante e si rivolgono in appello al
Consiglio di stato, che rimescola le carte.
La sentenza richiamata, oltre a ribadire che
al cittadino dev'essere corrisposto un
risarcimento del danno che sia rapportato al
reale pregiudizio arrecato per la perdita
della proprietà, ossia al valore venale del
bene, fa un ulteriore passo in avanti. Ai
danni patrimoniali, dice la Corte, si
sommano quelli non patrimoniali. Con la
«Manovra economica 2011», dl n. 98 del
06.07.2011, infatti, è stato introdotta una
nuova norma nel Testo Unico in materia di
espropriazioni, finalizzata a riconoscere al
proprietario illecitamente espropriato un
indennizzo comprensivo sia del pregiudizio
patrimoniale sia di quello non patrimoniale.
Nel caso specifico quest'ultimo, visto come
«danno morale», viene quantificato, in via
equitativa, in 50 mila euro, da rivalutare
sulla base degli indici Istat. Una bella
somma, quindi, che va ad aggiungersi al
valore venale del bene espropriato. E,
soprattutto, un prezzo salato per
l'amministrazione caduta in errore. Si noti
come il riconoscimento del danno morale
spetti anche ai cittadini espropriati prima
dell'entrata in vigore della nuova legge che
lo ha introdotto, fatti salvi i processi
esauriti. Il che potrebbe incoraggiare i
cittadini, oggi più di ieri, a ricorrere al
giudice amministrativo, aumentando la mole
del contenzioso in materia di espropriazioni
illegittime
(articolo ItaliaOggi del 28.03.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
AGGIORNAMENTO AL 26.03.2012 |
ã |
Ma
l'approvazione dei progetti di opere pubbliche non è
di competenza della Giunta Comunale ?? |
Come tutti sanno, la progettazione delle opere
pubbliche si sviluppa su tre livelli ovverosia:
progetto preliminare, definitivo ed esecutivo.
Mentre il primo va di pari passo con l'approvazione
del bilancio di previsione (quindi, Consiglio
Comunale) per gli altri due la competenza è in capo
alla Giunta Comunale.
Ad essere precisi, si potrebbe puntualizzare che il
progetto esecutivo rientri nella competenza
dirigenziale (alla stregua di non poca
giurisprudenza sul tema) ... ma non è questo
l'aspetto che si vuole qui trattare.
Orbene, forse è scappata
-anche ai più attenti- un'eccezione e cioè:
i progetti di ampliamento dei
cimiteri esistenti e di costruzione dei nuovi, la
cui approvazione è di competenza consiliare.
Al riguardo, si leggano le due sentenze sotto
riportate ... e se ne facciano tesoro.
26.03.2012 - LA SEGRETERIA PTPL
|
COMPETENZE GESTIONALI - LAVORI PUBBLICI: Nel
caso di costruzione di nuovi cimiteri o di
ampliamento di quelli esistenti, la
competenza all’approvazione dei relativi
progetti appartiene in ogni caso al
Consiglio Comunale, e ciò sia se l’opera sia
esterna alla fascia di rispetto dei 200
metri, e quindi nell’ipotesi di
localizzazione ordinaria, sia se venga
ubicata ad una distanza a questa inferiore,
ben potendo, tra l’altro, lo stesso organo
consiliare ridurre addirittura la fascia di
rispetto medesima.
La ratio ispiratrice di una competenza
speciale dell’organo consiliare in materia
di approvazione di progetti di opere
cimiteriali deve essere individuata
nell’esigenza di sottoporre alla discussione
democratica ed al controllo da parte
dell’organo rappresentativo di tutta la
comunità locale l’opportunità circa la
realizzazione di strutture che assumono
particolare rilevanza, sia in riferimento ad
esigenze di tutela igienico-sanitaria che di
valore ambientale, oltre che per quanto
concerne non secondari aspetti di natura
affettiva e morale appartenenti all’intera
collettività.
---------------
Analogamente a quanto avviene per il
progetto, anche gli studi di fattibilità
(per l'ampliamento del cimitero comunale)
devono essere preventivamente sottoposti
all’esame del Consiglio Comunale e non anche
della Giunta.
---------------
La competenza a procedere sia a
modificazioni del Programma Triennale che
all’aggiornamento dell’elenco annuale –come
nel caso di specie in cui la realizzazione
dell’opera pubblica in questione era stata
anticipata nell’anno 2003 in luogo della
originaria previsione per il 2004–
appartiene al Consiglio Comunale e non anche
alla Giunta, secondo il chiaro tenore
letterale dell’art. 42, secondo comma, lett.
b), del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267.
L’art. 55 del D.P.R. 10.09.1990 n. 285
stabilisce che “I progetti di ampliamento
dei cimiteri esistenti e di costruzione dei
nuovi devono essere preceduti da uno studio
tecnico delle località, specialmente per
quanto riguarda l'ubicazione, l'orografia,
l'estensione dell'area e la natura
fisico-chimica del terreno, la profondità e
la direzione della falda idrica e devono
essere deliberati dal consiglio”.
Inoltre, l’art. 28 della legge 01.08.2002 n.
166, modificativo dell’art. 338 R.D.
24.07.1934, n. 1265, prevede che i cimiteri
debbano essere collocati alla distanza di
almeno 200 metri dal centro abitato; detta
norma prevede, inoltre, che “il consiglio
comunale può approvare, previo parere
favorevole della competente azienda
sanitaria locale, la costruzione di nuovi
cimiteri o l'ampliamento di quelli già
esistenti ad una distanza inferiore a 200
metri dal centro abitato, purché non oltre
il limite di 50 metri, quando ricorrano,
anche alternativamente, due condizioni:
a) risulti accertato dal medesimo consiglio
comunale che, per particolari condizioni
locali, non sia possibile provvedere
altrimenti;
b) l'impianto cimiteriale sia separato dal
centro urbano da strade pubbliche almeno di
livello comunale, sulla base della
classificazione prevista ai sensi della
legislazione vigente, o da fiumi, laghi o
dislivelli naturali rilevanti, ovvero da
ponti o da impianti ferroviari”.
Infine, ai fini che qui interessano, la
medesima norma stabilisce che “per dare
esecuzione ad un'opera pubblica o
all'attuazione di un intervento urbanistico,
purché non vi ostino ragioni
igienico-sanitarie, il consiglio comunale
può consentire, previo parere favorevole
della competente azienda sanitaria locale,
la riduzione della zona di rispetto tenendo
conto degli elementi ambientali di pregio
dell'area, autorizzando l'ampliamento di
edifici preesistenti o la costruzione di
nuovi edifici”.
Da tale complesso normativo discende che,
nel caso di costruzione di nuovi cimiteri o
di ampliamento di quelli esistenti, la
competenza all’approvazione dei relativi
progetti appartiene in ogni caso al
Consiglio Comunale, e ciò sia se l’opera sia
esterna alla fascia di rispetto dei 200
metri, e quindi nell’ipotesi di
localizzazione ordinaria, sia se venga
ubicata ad una distanza a questa inferiore,
ben potendo, tra l’altro, lo stesso organo
consiliare ridurre addirittura la fascia di
rispetto medesima.
La ratio ispiratrice di una
competenza speciale dell’organo consiliare
in materia di approvazione di progetti di
opere cimiteriali deve essere individuata
nell’esigenza di sottoporre alla discussione
democratica ed al controllo da parte
dell’organo rappresentativo di tutta la
comunità locale l’opportunità circa la
realizzazione di strutture che assumono
particolare rilevanza, sia in riferimento ad
esigenze di tutela igienico-sanitaria che di
valore ambientale, oltre che per quanto
concerne non secondari aspetti di natura
affettiva e morale appartenenti all’intera
collettività.
Con riferimento al caso di specie, si tratta
della realizzazione di un ampliamento del
cimitero comunale rientrante entro la fascia
di rispetto dei 200 metri, circostanza non
contestata dall’Amministrazione resistente e
risultante dalla documentazione tecnica
depositata agli atti del giudizio; inoltre,
la deliberazione di Giunta Municipale n. 81
dell’11.04.2003 di approvazione del progetto
preliminare, la cui adozione era stata
giustificata da esigenze di rinnovazione
procedimentale, si caratterizza per la sua
autonomia rispetto ai precedenti
provvedimenti approvativi del progetto
preliminare dell’opera (ossia la
deliberazione di Giunta n. 328 del
03.11.1999, annullato in sede di autotutela,
e quella di Consiglio n. 7 dell’11.02.1998
avente ad oggetto la progettazione
originaria), per cui non vi è dubbio alcuno
che, ratione temporis, il regime
giuridico che deve essere considerato ai
fini della corretta individuazione del
procedimento da seguire è quello introdotto
dall’art. 338 T.U.L.S. come modificato
dall’art. 28 della legge 01.08.2002 n. 166.
In conclusione, non solo la competenza in
merito all’approvazione dei progetti
relativi alle opere cimiteriali de quibus
apparteneva al Consiglio Comunale (TAR
Campania, V Sezione, 03.07.2003 n. 9298) e
non anche alla Giunta, ma l’Amministrazione
avrebbe dovuto anche specificamente seguire
il procedimento previsto dall’art. 338
T.U.L.S. come modificato dall’art. 28 della
legge 01.8.2002 n. 166.
In tal senso parimenti fondata è la
doglianza, contenuta nel quinto motivo di
ricorso, relativa al dedotto vizio di
incompetenza ascrivibile alla violazione
dell’art. 55 del D.P.R. 10.09.1990 n. 285,
posto che, analogamente a quanto avviene per
il progetto, anche gli studi di fattibilità
avrebbero dovuto essere preventivamente
sottoposti all’esame del Consiglio Comunale
e non anche della Giunta.
Deve, pertanto, concludersi per
l’accoglimento del primo e quinto motivo di
ricorso, con consequenziale annullamento
della deliberazione di Giunta Municipale n.
81 dell’11.04.2003 avente ad oggetto
l’approvazione del progetto preliminare
dell’opera pubblica de qua, nonché
per invalidità derivata, di quelle n. 99 del
05.05.2003 e n. 116 del 14.05.2003,
rispettivamente di approvazione dei progetti
definitivo ed esecutivo della medesima,
oltre che dell’impugnato decreto di
occupazione di urgenza e comunicazione di
presa di possesso e redazione dello stato di
consistenza, con assorbimento del secondo,
quarto, sesto motivo di censura e restanti
profili del primo.
Parimenti fondato è il terzo motivo di
censura con cui parte ricorrente ha
impugnato la deliberazione n. 94 del
28.04.2003 con cui la Giunta Municipale di
Barano d’Ischia aveva modificato l’elenco
dei lavori da realizzare nell’anno 2003 in
riferimento al Programma Triennale dei
Lavori Pubblici per il triennio 2003/2005.
Infatti, la competenza a procedere sia a
modificazioni del Programma Triennale che
all’aggiornamento dell’elenco annuale –come
nel caso di specie in cui la realizzazione
dell’opera pubblica in questione era stata
anticipata nell’anno 2003 in luogo della
originaria previsione per il 2004–
appartiene al Consiglio Comunale e non anche
alla Giunta, secondo il chiaro tenore
letterale dell’art. 42, secondo comma, lett.
b), del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267.
Deve pertanto concludersi per la fondatezza
del motivo di ricorso con consequenziale
annullamento della deliberazione della
Giunta Municipale di Barano d’Ischia n. 94
del 28.04.2003
(TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 21.01.2004 n. 228 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - LAVORI PUBBLICI: E'
illegittima, per incompetenza, la
deliberazione di Giunta Comunale circa
l'approvazione del progetto esecutivo per
l’ampliamento del cimitero.
Sul punto non è superfluo rilevare che la
disposizione in questione (art. 55, comma 1,
del D.P.R. 10.09.1990, n. 285 - Approvazione
del regolamento di polizia mortuaria)
costituisce una norma speciale, mai
abrogata, che deroga in modo specifico alla
competenza generale di tipo residuale
stabilita dall’articolo 35 della legge
08.06.1990 n. 142, abrogato dall'articolo
274 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267 e
riprodotto nell'articolo 48 di quest’ultimo.
---------------
L’inserimento di un’opera pubblica
nell’elenco annuale delle opere pubbliche da
realizzare non equivale certo alla
approvazione del relativo progetto
preliminare: una cosa è il progetto
preliminare di un’opera (che deve rispettare
le prescrizioni dell’articolo 16 della legge
n. 109 citata) e una cosa è il suo
inserimento nell’elenco annuale delle opere
da realizzare.
Del resto la stessa disposizione invocata
dal comune prescrive che l’inserimento
dell’opera nell’elenco presuppone che il
relativo progetto preliminare sia stato
previamente approvato.
... per l’annullamento, previa sospensione
dell’esecuzione della disposizione del
dirigente del servizio tecnico normalità del
comune di Napoli prot. n. 10
dell'08.10.2002, recante autorizzazione
all’occupazione in via d’urgenza di suolo
della ricorrente, delle delibere G.M. n.
3116 del 02.08.2002 e n. 3219 del
06.09.2002, recanti approvazione del
progetto esecutivo per l’ampliamento del
cimitero di Secondigliano e di ogni altro
atto presupposto, connesso e/o conseguente.
...
Fondato e assorbente risulta il terzo motivo
di gravame con cui viene dedotta la
violazione dell’articolo 55, comma 1, del
D.P.R. 10.09.1990, n. 285 (Approvazione del
regolamento di polizia mortuaria), cioè
l’incompetenza della giunta comunale
all’approvazione del progetto.
Il motivo è fondato.
La disposizione del citato articolo 55
dispone infatti testualmente che “i
progetti di ampliamento dei cimiteri
esistenti e di costruzione dei nuovi devono
essere preceduti da uno studio tecnico delle
località, specialmente per quanto riguarda
l'ubicazione, l'orografia, l'estensione
dell'area e la natura fisico-chimica del
terreno, la profondità e la direzione della
falda idrica e devono essere deliberati dal
consiglio comunale”.
Nel caso in esame il progetto definitivo
dell’opera –non impugnato dalla ricorrente,
non depositato agli atti di causa e
semplicemente citato dalle delibere di
approvazione del progetto esecutivo– è stato
adottato dalla giunta, al pari delle
impugnate delibere di approvazione in linea
tecnica ed economica del progetto esecutivo.
Appare quindi sussistente la violazione
della disposizione dell’articolo 55.
Sul punto non è superfluo rilevare che la
disposizione in questione –come del resto
già affermato in giurisprudenza– costituisce
una norma speciale, mai abrogata, che deroga
in modo specifico alla competenza generale
di tipo residuale stabilita dall’articolo 35
della legge 08.06.1990 n. 142, abrogato
dall'articolo 274 del d.lgs. 18.08.2000 n.
267 e riprodotto nell'articolo 48 di
quest’ultimo (TAR Umbria 07.02.2002, n. 75,
TAR Umbria 06.03.1998, n. 190).
Deve poi aggiungersi che non persuasiva è la
difesa articolata sul punto dal comune:
questo infatti sostiene che il Consiglio
comunale –con delibera n. 268 del 02.08.2002
(che ha ratificato la delibera G.M. n. 2864
del 26.07.2002)– ha inserito il progetto per
cui è causa nel programma triennale e
nell’elenco annuale dei lavori pubblici;
poiché l’articolo 14, comma 6, della legge
11.02.1994, n. 109 dispone che “l'inclusione
di un lavoro nell'elenco annuale … è
subordinata alla previa approvazione della
progettazione preliminare”, il comune
sembra sostenere che la delibera n. 268
contiene l’approvazione del progetto
preliminare e che tanto basterebbe a
garantire l’osservanza della disposizione
dell’articolo 55.
In realtà l’inserimento di un’opera pubblica
nell’elenco annuale delle opere pubbliche da
realizzare non equivale certo alla
approvazione del relativo progetto
preliminare: una cosa è il progetto
preliminare di un’opera (che deve rispettare
le prescrizioni dell’articolo 16 della legge
n. 109 citata) e una cosa è il suo
inserimento nell’elenco annuale delle opere
da realizzare.
Del resto la stessa disposizione invocata
dal comune prescrive che l’inserimento
dell’opera nell’elenco presuppone che il
relativo progetto preliminare sia stato
previamente approvato.
A ciò si aggiunge che –seguendo la tesi del
comune– si avrebbe una scansione temporale
del procedimento di approvazione del
progetto a dir poco anomala dato che la
(implicita) approvazione del progetto
preliminare da parte del consiglio sarebbe
posteriore di quasi tre anni
all’approvazione del progetto definitivo da
parte della giunta (avvenuta il 03.11.1999 a
mezzo della delibera n. 4009) e sarebbe
contemporanea alla approvazione in linea
tecnica del progetto esecutivo (la delibera
n. 268 del consiglio comunale reca infatti
la medesima data del 02.08.2002 della
delibera della giunta di approvazione in
linea tecnica del progetto esecutivo).
La riconosciuta fondatezza del vizio di
incompetenza è preclusiva dell’esame degli
ulteriori motivi dedotti che risultano
pertanto assorbiti.
Il ricorso deve dunque essere accolto: le
delibere G.M. n. 3116 del 02.08.2002 e n.
3219 del 06.09.2002 devono pertanto essere
annullate per incompetenza; parimenti deve
essere annullata in via di illegittimità
derivata la disposizione del dirigente del
servizio tecnico normalità del comune di
Napoli prot. n. 10 dell'08.10.2002
(TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 21.07.2003 n. 9298 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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Art. 18 e pubblico impiego -
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nota 23.03.2012). |
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AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.
24.03.2012 n. 71 "Testo
del decreto-legge 25.01.2012, n. 2,
coordinato con la legge di conversione
24.03.2012, n. 28, recante:
«Misure straordinarie e urgenti in materia
ambientale»". |
AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - ENTI LOCALI -
INCARICHI PROFESSIONALI/PROGETTUALI - VARI: G.U.
24.03.2012 n. 71, suppl. ord. n. 53/L, "Testo
del decreto-legge 24.01.2012, n. 1,
coordinato con la legge di conversione
24.03.2012, n. 27, recante:
«Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo
sviluppo delle infrastrutture e la
competitività»". |
ENTI LOCALI: G.U.
20.03.2012 n. 67 "Regolamento adottato in
attuazione dell’articolo 16, comma 25, del
decreto-legge 13.08.2011, n. 138,
convertito, con modificazioni, dalla legge
14.09.2011, n. 148, recante: «Istituzione
dell’elenco dei revisori dei conti degli
enti locali e modalità di scelta dell’organo
di revisione economico-finanziario»"
(Ministero dell'Interno,
decreto 15.02.2012 n. 23). |
APPALTI: G.U.
17.03.2012 n. 65 "Regolamento sul
procedimento per la soluzione delle
controversie ai sensi dell’art. 6, comma 7,
lettera n), del decreto legislativo
12.04.2006, n. 163"
(A.V.C.P.,
provvedimento 01.03.2012).
---------------
Codice appalti, nuove regole per la
soluzione delle controversie.
Pubblicato il nuovo regolamento che
disciplina il procedimento per la soluzione
delle controversie di cui all'art. 6, comma
7, lettera n), del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163.
L'Authority per i lavori pubblici ha
modificato la disciplina sul procedimento
per la soluzione delle controversie ai sensi
dell'art. 6, comma 7, lettera n), del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163 e
successive modifiche ed integrazioni.
Possono presentare istanza di parere i
seguenti soggetti:
- la stazione appaltante, in persona del
soggetto legittimato ad esprimere
all'esterno la volontà del richiedente;
- l'operatore economico, in persona del
soggetto legittimato ad esprimere
all'esterno la volontà del richiedente;
- i soggetti portatori di interessi pubblici
o privati, nonché portatori di interessi
diffusi costituiti in associazioni o
comitati, in persona del soggetto
legittimato ad esprimere all'esterno la
volontà' del richiedente.
L'istanza può essere presentata
congiuntamente dalla stazione appaltante e
da una o più parti interessate.
Non sono ammissibili le istanze presentate:
- da soggetti che non rientrano tra quelli
individuati in precedenza;
- su questioni che non sono oggetto di una
controversia insorta fra le parti durante lo
svolgimento di una procedura ad evidenza
pubblica di cui al decreto legislativo n.
163/2006 e successive modifiche ed
integrazioni;
- su questioni che attengono alla fase
successiva al provvedimento di
aggiudicazione definitiva;
- su questioni per la risoluzione delle
quali e' stato già presentato ricorso
innanzi all'autorità giudiziaria;
- in violazione di quanto disposto dal
decreto in relazione alle modalità di
presentazione della domanda.
Non sono ammissibili le istanze non
correttamente compilate e/o non sottoscritte
dalla persona fisica legittimata ad
esprimere all'esterno la volontà del
soggetto richiedente (commento tratto da www.ipsoa.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA:
L. Spallino,
Piano Casa Regione Lombardia 2012: quadro
degli interventi straordinari
(link a www.studiospallino.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Bottone,
Per chi “suona” la Campania? - Il
Paesaggio come alibi, il salvataggio
dell’abusivismo come scopo (24.03.2012). |
ENTI LOCALI:
G. Bertagna e A. Sacchi,
I piani di razionalizzazione
(tratto
dalla newsletter di www.publika.it n. 48 -
marzo 2012). |
ENTI LOCALI:
F. Albo,
Il dissesto finanziario negli enti locali
alla luce del decreto legislativo n.
149/2011 (link a www.ipsoa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: L.
Bellagamba,
Lavori a scomputo sotto soglia: l’incerta
determinazione n. 7/2012 dell’Autorità
(20.03.2012 - link a
www.linobellagamba.it). |
APPALTI: L.
Bellagamba,
Tassatività delle cause di esclusione: la
non condivisibile tesi del TAR Valle d’Aosta
(20.03.2012 - link a
www.linobellagamba.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
G. Panassidi,
La pubblicità on-line per finalità di
pubblicità legale degli atti amministrativi,
dei bandi di gara e dei bilanci (gennaio
2012 - link a www.lexitalia.it). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI - SEGRETARI COMUNALI:
Direttore Generale.
Dalla Corte dei Conti Sez. Reg.le Lombardia
-parere
15.03.2012 n. 71- arriva la
conferma dei consolidati orientamenti circa
il divieto, per gli enti con popolazione
inferiore a 100.000 abitanti, di nominare il
Direttore Generale sia in favore di soggetto
esterno che mediante attribuzione delle
relative funzioni al Segretario Comunale ed
anche con segreteria convenzionata.
Infatti, a seguito dell'entrata in vigore
dell'articolo 2, commi 183-186, della legge
23.12.2009, n. 191 (Finanziaria 2010) e
decorso il periodo transitori previsto
(articolo 1, comma 2, del d.l. 25.01.2010,
n. 2, convertito con modificazioni dalla
legge 26.03.2010, n. 42) ovvero intervenuta
la scadenza degli incarichi già conferiti,
la soppressione della figura del direttore
generale è definitiva.
Alle esigenze gestorie ed operative degli
enti di piccole dimensioni si dovrà
sopperire affidando ai dipendenti in
servizio le relative specifiche
responsabilità, riconoscendo loro la
posizione organizzativa in applicazione del
CCNL ovvero al Segretario Comunale
nell'ambito delle competenze di
coordinamento attribuitegli dall'articolo
97, comma 4, del TUEL (tratto da
www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Corte
conti su opere di urbanizzazione. Esecuzione
diretta solo se c'è l'accordo.
La realizzazione senza gara, con affidamento
diretto al privato titolare del permesso di
costruire, di opere di urbanizzazione
primaria di importo inferiore a 5 milioni
non è possibile per le convenzioni già
stipulate alla data del 06.12.2011, ma il
privato e il comune possono modificare la
convenzione prevedendo l'esecuzione diretta
da parte del costruttore.
È quanto afferma la Corte dei conti, con il
parere 14.03.2012 n. 64 della
sezione regionale di controllo per la
Lombardia, che ha preso in esame gli effetti
della nuova norma che disciplina la
possibilità di procedere all'esecuzione
diretta, senza gara, delle opere di
urbanizzazione primaria di importo inferiore
alla soglia comunitaria.
Oggetto della delibera era quindi l'articolo
45 del decreto legge n. 201/2011, convertito
nella legge n. 214/2011, che ha introdotto
all'interno del corpo dell'articolo 16 del
dpr n. 380/2001, il comma 2-bis il quale
dispone che «nell'ambito degli strumenti
attuativi e degli atti equivalenti comunque
denominati nonché degli interventi in
diretta attuazione dello strumento
urbanistico generale, l'esecuzione diretta
delle opere di urbanizzazione primaria di
cui al comma 7, di importo inferiore alla
soglia di cui all'articolo 28, comma 1,
lettera c), del decreto legislativo
12.04.2006, n. 163, funzionali
all'intervento di trasformazione urbanistica
del territorio, è a carico del titolare del
permesso di costruire e non trova
applicazione il decreto legislativo
12.04.2006, n. 163».
Questa nuova norma, che prevede la
possibilità (ma non l'obbligo)
dell'esecuzione diretta con esclusione della
gara, si applica soltanto alle opere sotto
soglia perché per l'esecuzione «a
scomputo» di opere di urbanizzazione di
importo superiore alla soglia comunitaria
rimane ferma sia l'ipotesi della gara
indetta dal privato per la realizzazione
delle opere di urbanizzazione, sia l'ipotesi
dell'esercizio da parte dell'amministrazione
delle funzioni di stazione appaltante.
La magistratura contabile si esprime
rispetto a una fattispecie in cui la nuova
norma del decreto-legge n. 201/2011 era
entrata in vigore fra il perfezionarsi della
convenzione edilizia ed il suo adempimento
mediante procedura negoziata ex articolo 57,
comma 6, del Codice dei contratti pubblici
con invito di almeno tre operatori
economici. In altre parole si chiedeva alla
Corte dei conti se la norma sull'affidamento
diretto potesse o meno rendere superflua la
procedura negoziata prevista dalla
convenzione per l'individuazione del
soggetto tenuto alla realizzazione delle
opere di urbanizzazione accessorie e imporre
l'automatico affidamento dei lavori allo
stesso soggetto titolare della convenzione
medesima.
In particolare la Corte ha affermato che il
sopravvenire del decreto n. 201/2011
(entrato in vigore il 06.12.2011) «non
può incidere, salvo diverso accordo delle
parti, su una fattispecie in cui diritti e
obblighi reciproci (sotto il profilo
esecutivo) sono già definiti
contrattualmente; è chiaro, infatti, che
diversamente opinando una delle parti
dell'accordo vedrebbe irrimediabilmente leso
il suo interesse consolidato nell'accordo
pattizio». I magistrati contabili
specificano quindi che la novella introdotta
dall'articolo 45 si applicherà alle sole
convenzioni edilizie concluse
successivamente la sua entrata in vigore (articolo
ItaliaOggi del 23.03.2012 -
tratto da www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI:
Contratti ex art. 90 TUEL e
limitazioni al lavoro flessibile.
La Corte dei Conti Sez. Reg.le Campania, con
il
parere 13.03.2012 n. 65, su
quanto in oggetto, conferma che:
"Le assunzioni a tempo determinato ex
art. 90 del TUEL, oltre che essere soggette
ai vincoli di cui all'art. 1, comma 557,
della legge 296 del 2006 e norme collegate,
devono anche rispettare, se e in quanto
recanti oneri a carico del bilancio
dell'ente per l'anno 2012, le disposizioni
limitative di cui alla legge n° 183 del
2011, concorrendo i connessi oneri a
determinare, per natura e per tipologia,
l'ammontare delle spese soggette
all'osservanza del limite del 50% fissato
dal già menzionato art. 9, comma 28, del
decreto legge n. 78 del 2010, come integrato
dall'art. 4, comma 102, della legge
12.11.2011 n° 183 (cfr. Corte dei conti,
Sezione regionale di controllo per la
Campania, deliberazione n° 493/2011 del
20.12.2011)" (tratto da www.publika.it). |
QUESITI &
PARERI |
ESPROPRIAZIONE:
Ad una srl agricola - Indennità corrisposta
a titolo di esproprio: quale il trattamento
ai fini delle imposte dirette?
Domanda
Si chiede di conoscere il trattamento ai
fini delle imposte dirette di un'indennità
corrisposta a titolo di esproprio (per
realizzazione di opere di pubblica utilità)
di terreni agricoli (zona omogenea "E", area
destinata ad esclusivo uso agricolo) ad una
società agricola (S.r.l.) con requisiti
I.A.P., precisando che detta S.r.l. agricola
non ha sinora optato per la tassazione del
reddito a valori catastali, rimanendo
soggetta a normale tassazione sul reddito di
impresa.
A prescindere dall'indicazione della
plusvalenza nel bilancio di esercizio, si
richiede se, come succede per i soggetti che
non esercitano un'impresa commerciale, vi
siano requisiti di non imponibilità
dell'indennità di esproprio nel caso in
esame.
Risposta
Non si ritiene corretto quanto precisato
nell'ultima parte dal gentile lettore;
premesso che l'argomento è piuttosto
complesso si è dell'avviso che per i
soggetti che non esercitano impresa
commerciali siano imponibili le indennità in
commento. Si ritiene, fermo restando che
bisognerebbe avere un quadro completo di
informazioni, che l'indennità nel caso
specifico possa concorrere a tassazione ai
fini delle imposte dirette.
In base al disposto dell'art. 11, comma 5,
della l. 30.12.1991, n. 413, le plusvalenze
realizzate da soggetti non imprenditori
derivanti da indennità di esproprio o di
somme percepite a seguito di cessioni
volontarie nel corso di procedimenti
espropriativi nonché delle altre somme ivi
indicate -relativamente a terreni destinati
ad opere pubbliche o ad infrastrutture
urbane all'interno delle zone omogenee di
tipo A, B, C, D di cui al D.M. 02.04.1968,
definite dagli strumenti urbanistici ovvero
ad interventi di edilizia residenziale
pubblica ed economica e popolare di cui alla
L. n. 167 del 1998 e successive
modificazioni- sono soggette ad imposizione
diretta (redditi diversi) a norma dell'art.
67, comma 1, lettera b), del D.P.R. n. 917
del 22.12.1986.
In merito, con la circolare n. 194/E del
24.07.1998 è stato precisato che le
indennità e le altre somme sopra menzionate
devono essere assoggettate a tassazione a
condizione che siano state corrisposte
relativamente ad aree destinate alla
realizzazione di opere pubbliche o di
infrastrutture urbane all'interno delle
anzidette zone omogenee di tipo A, B, C e D.
Ne deriva, al contrario, che qualora
l'esproprio venga disposto per destinare
l'area ad interventi di edilizia
residenziale pubblica ed economica e
popolare di cui alla citata legge, la
relativa indennità di esproprio è sempre
assoggettata a tassazione, non assumendo
alcun rilievo la collocazione dell'area in
questione nelle diverse zone omogenee in cui
è ripartito il territorio. Infatti, le zone
omogenee vengono prese in considerazione, ai
fini della tassazione delle indennità di
esproprio, solo quando si riferiscono a
procedimenti espropriativi relativi ad aree
destinate alla realizzazione di opere
pubbliche o di infrastrutture urbane. Le
istruzioni impartite con la richiamata
circolare n. 194/E del 1998 sono da
ritenersi tuttora operanti anche a seguito
dell'entrata in vigore del D.P.R.
08.06.2001, n. 327 (art. 35, comma 1).
Di conseguenza è ininfluente il fatto che il
terreno espropriato sia ubicato in zona "E",
considerato che la tipologia della zona, di
tipo "A", "B", "C" e "D", di cui al comma 5
dell'art. 11 della L. n. 413/1991, rileva
solo qualora l'esproprio sia finalizzato
alla realizzazione di "opere pubbliche o
di infrastrutture urbane"; mentre tale
collocazione non assume alcun rilievo quando
la procedura di esproprio sia disposta per
destinare l'area ad interventi di edilizia
economica e popolare ai sensi della L. n.
167 del 1962 (19.03.2012 - tratto da
www.ipsoa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Oggetto: Regolamento comunale in itinere:
non accessibilità.
Il responsabile dell’URP del Comune di
Mantova, con e-mail del 15 marzo scorso, ha
chiesto se sia legittimo differire l’accesso
ad un regolamento comunale approvato dalla
Giunta ma non ancora dal Consiglio comunale.
Al riguardo si fa presente che la situazione
prospettata rientra nella fase di “attività
amministrativa diretta all’emanazione di
atti normativi”, per la quale l’art. 24,
comma 1, c), della legge n. 241/1990 esclude
il diritto d’accesso.
Eventuali domande d’accesso, pertanto,
dovranno essere differite al momento della
pubblicazione del regolamento (Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 19.04.2011
- link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO -
SICUREZZA LAVORO:
Oggetto: Accesso a verbali di visita
ispettiva in materia di salute e sicurezza
del lavoro.
Con nota del 19.03.2011 la S.V. ha
comunicato che un dipendente del
Conservatorio “E. R. Duni” di Matera,
che dichiara di agire a tutela del proprio
diritto alla salute ed alla sicurezza nei
luoghi di lavoro, ha chiesto di accedere ai
verbali di visita ispettiva con i quali la
ASL ha rilevato, negli edifici
dell’Istituto, varie violazioni,
oggettivamente imputabili alla S.V., alle
norme in materia di salute e sicurezza del
lavoro.
Al riguardo viene prospettato alla
Commissione che la domanda d’accesso
dovrebbe essere respinta, sia perché il
procedimento avviato con la visita ispettiva
non è ancora concluso, sia perché,
trattandosi di atti relativi ad un
contenzioso, opererebbe l’esclusione
prevista dall’art. 4, comma 2, del
regolamento per l’accesso vigente presso
l’Istituto. In via subordinata si prospetta
l’opportunità di un differimento
dell’accesso, ai sensi dell’art. 9, comma 2,
del regolamento generale n. 184/2006.
Osserva la Commissione che né la legge n.
241/1990 né il regolamento dell’Istituto
precludono l’accesso agli atti
infraprocedimentali relativi ad un
contenzioso (che peraltro allo stato non
risulta) tra terzi qualora vi sia un congruo
interesse personale, diretto, attuale e
giuridicamente protetto del richiedente;
interesse che nel caso in esame palesemente
sussiste, atteso che il dipendente intende
tutelare il proprio diritto fondamentale
alla salute. L’accesso pertanto non può
essere senz’altro negato.
Attesa peraltro l’evidente lesione del
diritto alla riservatezza della S.V. che
potrebbe derivare da un accesso effettuato
prima che il Conservatorio abbia potuto
esplicitare le proprie eventuali
controdeduzioni, può ritenersi applicabile
la citata disposizione dell’art. 9, comma 2,
del regolamento n. 184/2006, secondo cui “il
differimento dell’accesso è disposto ove sia
sufficiente per assicurare una temporanea
tutela agli interessi di cui all’art. 24,
comma 6, della legge”, che riguarda –tra
l’altro– la riservatezza delle persone; e
che di conseguenza l’accoglimento
dell’accesso possa essere differito al
momento in cui l’accertamento ispettivo
diventerà incontestabile da parte
dell’Amministrazione.
Va peraltro precisato che, in attesa della
prescritta messa a norma degli impianti e
delle strutture, i luoghi in cui l’indagine
ispettiva ha rilevato situazioni di pericolo
dovranno essere senza indugio opportunamente
segnalati e –ove possibile- preclusi sia
pure parzialmente al transito dei
dipendenti, al fine di richiamare questi
ultimi ad una condotta improntata ad una
responsabile cautela (Presidenza del
Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 19.04.2011
- link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Oggetto: Diritto di visionare gli atti in
originale e di leggere i nominativi delle
persone nominate negli atti oppure oscurati.
Il Sig. ... chiede di sapere se il cittadino
abbia il diritto di:
1) prendere visione degli atti in originale,
o debba accontentarsi di prendere visione di
fotocopie degli stessi;
2) leggere i nominativi delle persone
nominate negli atti, o debba accontentarsi
di prendere visione di atti con i nominativi
oscurati.
Ai sensi dell’art. 25, comma 1, l.n.
241/1990 e s.m.i. il diritto di accesso si
esercita mediante esame ed estrazione di
copia dei documenti amministrativi. Esame
significa visione del documento originale o
di copia conforme. La fotocopia integra il
momento del rilascio di copia del documento
ove richiesto dall’accedente.
Il diritto di accesso comprende quello di
prendere visione (ed eventualmente di
estrarre copia) del documento nella sua
integralità, compreso i nominativi delle
persone nello stesso indicate. L’oscuramento
dei nominativi costituisce solo una modalità
che rende più agevole per l’amministrazione
provvedere alla richiesta di accesso a
tutela della riservatezza dei soggetti
controinteressati.
Naturalmente, ove la domanda di accesso
fosse finalizzata a conoscere proprio quei
nominativi, l’esercizio del diritto di
accesso sarebbe sottoposto al vaglio della
sua ammissibilità, in riferimento sia alla
titolarità di una posizione giuridicamente
tutelata, sia alla sua prevalenza sul
diritto alla riservatezza dei
controinteressati secondo le modalità
previste dalla legge (art. 25 cit. e art. 3,
d.p.r. n. 184/2006) (Presidenza del
Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 19.04.2011
- link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Oggetto: Diritto di accesso a delibera
comunale non più affissa all’Albo Pretorio.
Il Dr. ... chiede a questa Commissione
parere circa l’opposizione fatta
dall’amministrazione comunale di Lacedonia
(AV) ad una sua richiesta di accesso ad una
delibera di Giunta municipale in quanto non
più affissa all’Albo Pretorio. L’istante si
chiede se il diritto di accesso e la
trasparenza hanno un limite temporale;
precisa che il Comune in questione ha
istituito l’Albo Pretorio on-line
(pur mantenendo l’affissione cartacea in
bacheca), ma non pubblica le determine degli
uffici e pubblica on-line solo gli
atti di Giunta e di Consiglio privi degli
allegati.
La motivazione addotta dal Comune di
Lacedonia per opporsi alla richiesta di
accesso in oggetto non ha alcun giuridico
fondamento.
Ai sensi dell’art. 10, comma 1, TUEL, tutti
gli atti dell’amministrazione comunale (e
provinciale) sono pubblici e il regolamento
assicura ai cittadini il diritto di accesso
agli atti amministrativi (comma 2). Di
fronte a tali disposizioni –cui la
giurisprudenza amministrativa e di questa
Commissione ricollega un diritto pressoché
illimitato e incondizionabile, se non nelle
ipotesi di atti “riservati” per
espressa indicazione di legge o per effetto
di una temporanea e motivata dichiarazione
del sindaco o del presidente della provincia
che ne vieti l’esibizione (comma 1)– non
solo non acquista pregio la motivazione
addotta dall’amministrazione comunale, ma
nessun’altra motivazione sarebbe stata
idonea ad impedire l’esercizio del diritto
di accesso che, si ribadisce, non è
subordinato, per quanto riguarda atti,
documenti ed informazioni in possesso di
enti locali, ad alcun particolare requisito
soggettivo in capo all’accedente.
L’ente locale può solo dettare le modalità
dell’esercizio del diritto per evitare
interferenze pregiudizievoli sull’ordinaria
attività amministrativa (Presidenza del
Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 19.04.2011
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ATTI AMMINISTRATIVI:
Oggetto: Legittimità dell’aumento del
costo di riproduzione di atti.
Il Sig. ... chiede il parere di questa
Commissione in ordine alla legittimità della
delibera n. 128 del 13.11.2008 della G.M. di
Lastra a Signa che ha portato il costo di
copia formato A4 ad euro 0,50 e del formato
A3 ad euro 1.
La decisione assunta dal Comune di Lastra a
Signa sembra legittima.
Ai sensi dell’art. 25, comma 1, l.n.
241/1990 e s.m.i. il rilascio di copia è
subordinato soltanto al rimborso del costo
di riproduzione, salve le disposizioni
vigenti in materia di bollo, nonché i
diritti di ricerca e di misura. Tali
principi, stabiliti per l’accesso agli atti
di amministrazioni centrali, valgono anche
per gli enti locali che li fanno propri
inserendoli nel proprio regolamento.
L’entità del costo di riproduzione deve,
dunque, compensare l’effettivo costo di
riproduzione nonché i diritti di ricerca e
visura, costo che solo se determinato
immotivatamente in misura irragionevole
potrebbe essere contestato.
Non è questo il caso in esame, in cui usando
motivatamente della propria discrezionalità,
la Giunta municipale ha rimodulato la
tabella dei diritti di segreteria in materia
di urbanistica ed edilizia privata fissando
i costi per la copia di atti nella misura
sopraindicata che, considerati i diritti
legati alla ricerca e visura degli atti, non
sembra essere viziato da irragionevolezza
(Presidenza del Consiglio dei Ministri,
Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 19.04.2011
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ATTI AMMINISTRATIVI:
Oggetto: mancata risposta dell’ENEL a
richieste di notizie.
Con nota del 14.02.2011 il Dott. ... ha
comunicato che l’ENEL non ha dato alcuna
risposta a varie note da lui inviate per
ottenere la verifica della correttezza degli
importi esposti in bolletta; ed ha chiesto
in proposito un intervento di questa
Commissione.
Al riguardo questa Commissione fa presente
che la propria competenza è limitata
all’esame di controversie relative al
diritto d’accesso a documenti
amministrativi; e che essa pertanto, pur non
potendo non rilevare che una ingiustificata
omissione di rispondere alle richieste
dell’utenza non è conforme né ai doveri di
correttezza professionale né al dovere di
trasparenza che ogni gestore di pubblico
servizio è tenuto ad osservare, non ha alcun
potere di intervenire per imporre all’ENEL
di rispondere all’utente (Presidenza del
Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 06.04.2011
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Oggetto: Comune di Poggio Sannita:
consiglieri comunali: accesso ai tabulati
telefonici del Comune.
Con nota in data 08.11.2010, pervenuta il
successivo giorno 19, i consiglieri comunali
di Poggio Sannita Sigg. ..., ... e ... hanno
comunicato di avere chiesto al Sindaco
l’accesso ai tabulati telefonici di alcuni
uffici comunali e di averne ricevuto un
diniego. Chiedono pertanto un parere di
questa Commissione sul comportamento del
Sindaco.
Al riguardo la Commissione, con parere del
14.12.2010, ha fatto presente che vero è che
i tabulati telefonici non sono qualificabili
documenti amministrativi, ai sensi dell’art.
22, comma 1, lett. d), della legge n.
241/1990, dal momento che essi costituiscono
rappresentazione di eventi materiali e non
di atti detenuti dalla Pubblica
Amministrazione o di attività da essa
compiuti. Ma l’art. 43 del testo unico n.
267/2000 attribuisce ai consiglieri
comunali, in considerazione della natura
pubblica del loro munus, non il
semplice diritto d’accesso previsto dalla
legge n. 241/1990 ma anche il più ampio
diritto di ottenere dagli uffici del comune
“tutte le notizie e le informazioni in
loro possesso” che siano utili
all’esercizio del mandato dei consiglieri
stessi; con la conseguenza che l’unico
limite di tale diritto è costituito dalla
circostanza che si tratti di documenti,
notizie od informazioni già acquisiti dal
comune e non già di documenti, notizie od
informazioni che il Comune, a seguito della
richiesta del consigliere comunale, dovrebbe
acquisire.
La Commissione ha pertanto espresso il
parere che il Sindaco sia tenuto a
consentire l’accesso ai tabulati telefonici
che il gestore del servizio trasmette
usualmente al Comune.
Con nota del 21 marzo scorso il Sindaco ha
fatto presente che i tabulati telefonici non
sono allegati dal gestore alle fatture
inviate periodicamente al Comune; ed ha
chiesto se sia tenuto richiederli al gestore
per mettersi in grado di consentire l’utile
esercizio del diritto d’accesso da parte dei
suindicati consiglieri.
Al riguardo la Commissione non può che
ribadire quanto già precisato: e cioè che il
diritto d’accesso può essere esercitato
soltanto su documenti, notizie od
informazioni già acquisiti dal comune e non
anche su documenti, notizie od informazioni
che il Comune, a seguito della richiesta del
consigliere comunale, dovrebbe acquisire.
Pertanto se il gestore non trasmette al
Comune i tabulati telefonici, nemmeno nella
usuale forma ridotta che prevede
l’oscuramento delle ultime cifre, la domanda
d’accesso deve essere respinta (Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 06.04.2011
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ATTI AMMINISTRATIVI:
Oggetto: Istanza di accesso alle delibere
di Consiglio comunale decorso il periodo di
pubblicazione di cittadino non residente.
Il Comune di Monterosso al Mare ha chiesto
parere a questa Commissione su un’istanza di
accesso del Sig. M.E. ad alcune delibere
adottate nella seduta del Consiglio comunale
del 29.09.2010. Poiché l’istante è titolare
di beni immobili nel territorio comunale ma
non cittadino residente, l’autorità comunale
ha chiesto all’accedente di motivare più
specificamente i motivi della sua richiesta
sotto il profilo della titolarità di un
interesse diretto, concreto ed attuale ai
sensi dell’art. 22, comma 1, lett. b), della
l. n. 241/1990 e s.m.i
Il Sig. M.E. ha riproposto formale richiesta
di accesso motivandola come segue:
1 – delibera n. 23/2010: poiché lo scrivente
risulta essere contribuente comunale per
quanto riguarda il versamento dei tributi
relativi ai rifiuti solidi urbani, credo che
sia lecito essere a conoscenza dei tempi e
ragione sociale delle aziende che forniscono
tale servizio e concorrono quindi a
determinare l’ammontare dei tributi pagati
dallo scrivente;
2 – delibera n. 24-25-26/2010: in qualità di
regolare contribuente che con i propri
versamenti (vedi ICI) concorre alla
formazione del bilancio comunale credo sia
lecito essere a conoscenza di come la A.C.
impiega il denaro pubblico (e quindi anche
quello dello scrivente) acquistando ad
esempio beni immobiliari e concorrendo ad
interessare direttamente il bilancio
comunale e le sue variazioni/equilibri;
3 – delibera n. 27/2010: credo sia lecito da
parte di ogni cittadino conoscere i
regolamenti comunali già al momento della
loro approvazione proprio per snellire e
favorire il conseguente funzionamento degli
uffici pubblici;
4 – delibera n. 29/2010: in qualità di
cittadino che paga regolarmente le cartelle
relative alla fornitura di acqua potabile e
relative al collegato servizio di
depurazione acque credo sia perfettamente
lecito poter visionare la delibera che
tratta lo statuto della società pubblica
ACAM che fornisce detti servizi sul
territorio comunale.
Le motivazioni del Sig. M.E. sono state
ritenute dal Comune di Monterosso al Mare
generiche e prive della dimostrazione di un
interesse diretto e concreto giuridicamente
tutelato.
La Prefettura di La Spezia, intervenuta
sulla vicenda con nota del 01.02.2011, dopo
aver chiesto chiarimenti all’autorità
comunale, ha suggerito, facendo leva su
precedenti giurisprudenziali del giudice
amministrativo, di riconsiderare l’istanza
di accesso in questione. Da qui la richiesta
di parere alla Commissione per l’accesso.
Per quanto riguarda la legittimazione
all’accesso agli atti adottati da enti
locali, correttamente il Comune di
Monterosso al Mare (SP) richiama il
principio del “doppio regime”,
distinguendo, in linea con la consolidata
giurisprudenza di questa Commissione, la
diversa posizione dei cittadini residenti e
non. Per i primi, cittadini residenti (siano
essi persone fisiche, associazioni o persone
giuridiche), il principio fondamentale che
informa l’orientamento consolidato della
Commissione sull’applicazione dell’art. 10,
TUEL è quello di “specialità”: si
ritiene cioè che il legislatore abbia
adottato una disciplina specifica per gli
enti locali versata nel TUEL approvato con
il d.lgs. n. 267/2000.
Tale specialità comporta, in linea generale,
che le norme contenute nella l. n. 241/1990
si applicano al TUEL solo in via suppletiva,
ove necessario, e nei limiti in cui siano
con esso compatibili. E mentre, per
l’accesso agli atti di amministrazioni
centrali dello Stato (e sue articolazioni
periferiche) l’art. 22, comma 1, lett. b),
l. n. 241/1990 prevede che la legittimazione
all’accesso spetti soltanto ai soggetti
titolari di un “interesse diretto,
concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione tutelata e collegata al documento
al quale è chiesto l’accesso”, l’art. 10
del TUEL non stabilisce invece alcuna
restrizione e si limita a prevedere
l’esistenza di un’area di atti (non
precisata) il cui accesso o è assolutamente
precluso per legge o è differibile (tale
essendo l’effetto pratico della necessaria
dichiarazione del Sindaco) nei casi previsti
da un apposito regolamento, a tutela della
riservatezza. Secondo la Commissione i
diversi contenuti delle due disposizioni
citate caratterizzano la specificità del
diritto di accesso dei cittadini comunali
configurandolo alla stregua di un’azione
popolare che non deve essere accompagnata né
dalla titolarità di una situazione
giuridicamente rilevante né da un’adeguata
motivazione.
La mancanza del requisito della residenza
nel soggetto interessato all’accesso a
documenti adottati da amministrazioni locali
impedisce l’applicazione della più
favorevole disposizione dell’art. 10, TUEL,
facendo rivivere l’operatività dei
presupposti stabiliti dal richiamato art,
22. comma 1, lett. b), della l.n. 241/1990 e
s.m.i
E’ dunque alla luce dell’esistenza in capo
al Sig. M.E. di un interesse diretto,
concreto ed attuale che deve essere valutata
l’ammissibilità della sua istanza in
riferimento alla tipologia dei singoli atti
richiesti.
Secondo la consolidata giurisprudenza del
giudice amministrativo, correttamente citata
nella nota della Prefettura di La Spezia, <<…ai
fini della sussistenza del presupposto
legittimante per l’esercizio del diritto di
accesso deve esistere un interesse
giuridicamente rilevante del soggetto che
richiede l’accesso, non necessariamente
consistente in un interesse legittimo o in
un diritto soggettivo, ma comunque
giuridicamente tutelato, non potendo
identificarsi con il generico ed indistinto
interesse di ogni cittadino al buon
andamento della attività amministrativa, ed
un rapporto di strumentalità tra tale
interesse e la documentazione di cui si
chiede l’ostensione.>>
Nella fattispecie, per fare alcuni esempi,
si potrebbe configurare un interesse
diretto, concreto ed attuale, correlato al
diritto di proprietà su immobili insistenti
sul territorio comunale, nei casi in cui un
atto dell’Ente incidesse su tale diritto
(provvedimento di variazione urbanistica o
edilizia, rilascio di permesso di costruire
su un terreno limitrofo, ecc.) e, in
riferimento alla posizione di contribuente
(requisito soggettivo rivendicato a sostegno
della domanda di accesso), nei casi di
provvedimento che influisse sullo specifico
rapporto tributario connesso al possesso del
bene immobile o di istanze aventi ad oggetto
(per citare fattispecie ricorrente nei
pareri di questa Commissione) l’accesso
all’elenco dei contribuenti (senza che venga
peraltro pregiudicato il diritto alla
riservatezza). Nessuna di tali ipotesi
ricorre nella specie per cui l’interesse del
Sig. M.E. sottostante alla sua domanda di
accesso. non perde il carattere di
genericità che ne impedisce l’ammissibilità.
Diversamente opinando si avallerebbe
l’equiparazione del titolare di un diritto
di proprietà immobiliare al cittadino
residente, eludendo il dettato normativo
così come ritenuto operativo dalla
consolidata giurisprudenza.
Non vi è nessun motivo giuridico di opporsi
alla richiesta di accesso al Regolamento
comunale -come anche segnalato dalla
Prefettura nella citata nota– atto generale
la cui conoscenza costituisce diritto di
ogni cittadino. Ma alla pubblicità di tale
atto, così come delle delibere comunali, il
Comune di Monterosso ha già provveduto
rendendo operativo, dal 01.01.2011, il sito
istituzionale informatico in ossequio anche
alle disposizioni introdotte dall’art. 32,
l.n. 69/2009 (Presidenza del Consiglio dei
Ministri, Commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 06.04.2011
- link a www.commissioneaccesso.it). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI:
Oggetto: Accesso agli atti di gara di
concorrente non aggiudicatario.
Il Comune di Castelgrande, dopo aver
premesso che per consolidata giurisprudenza
è ormai pacifico che una ditta partecipante
a gara d’appalto per l’affidamento di
lavori, servizi e/o forniture non risultata
aggiudicataria abbia il diritto di accesso
agli atti prodotti dal soggetto che, al
contrario, si è aggiudicato l’appalto
medesimo, chiede a questa Commissione se
possa ritenersi corretta –considerato
appunto l’innegabile diritto di accesso del
concorrente non aggiudicatario– la non
applicazione della disposizione di cui
all’art. 3, d.p.r. n. 184/2006 che fa
obbligo alla P.A. cui è indirizzata la
richiesta di accesso di dare comunicazione
al controinteressato.
La Commissione ha affrontato più volte il
tema del diritto di accesso in materia di
procedure ad evidenza pubblica di gare di
appalto, da ultimo con il parere espresso
nella seduta del 15.03.2011 di cui, per
chiarezza e completezza, si ritiene poter
richiamare e trascrivere qui di seguito la
parte motiva.
<<L’orientamento consolidato di questa
Commissione è nel senso di ritenere che
l’art. 13, co. 5, lett. a), d.lgs. 163/2006
(Codice dei contratti) esclude il diritto
d’accesso e ogni forma di divulgazione con
riferimento “alle informazioni fornite dagli
offerenti nell’ambito delle offerte o a
giustificazione delle medesime, che
costituiscano, secondo motivata e comprovata
motivazione dell’offerente, segreti tecnici
o commerciali”. Ma il successivo comma 6
ammette l’accesso anche in tali casi qualora
esso sia richiesto “in vista della tutela in
giudizio dei propri interessi in relazione
alla procedura di affidamento del contratto
nell’ambito del quale viene formulata la
richiesta di accesso”.
In proposito, il Consiglio di Stato (Sez. V,
09.12.2008 n. 6121) ha chiarito che le
disposizioni in questione sembrano
“ripetere, specificandoli, i principi
dell’art. 24 della legge n. 241/1990, che
stabilisce una complessa operazione di
bilanciamento tra gli interessi contrapposti
alla trasparenza e alla riservatezza….Per
non dilatare in modo irragionevole la
portata della norma si deve ritenere che
essa imponga di effettuare un accurato
controllo in ordine dell’effettiva utilità
della documentazione richiesta, alla stregua
di una sorta di prova di resistenza”: dal
che “discende che non è consentito
esercitare l’accesso alla documentazione
posta a corredo dell’offerta selezionata ove
l’impresa aggiudicataria abbia dichiarato
che sussistono esigenze di tutela del
segreto tecnico o commerciale ed il
richiedente non abbia dimostrato la
necessità di utilizzare tale documentazione
in uno specifico giudizio”.
Pertanto, sarà cura dell’amministrazione
interessata comunicare preliminarmente la
domanda di accesso al controinteressato e,
qualora quest’ultimo manifesti la propria
opposizione all’accesso, la p.a. dovrà
valutare in concreto anzitutto se gli
elaborati allegati all’offerta della ditta
aggiudicataria contengano davvero segreti
tecnici e/o commerciali e poi l’effettiva
necessità di utilizzare il chiesto documento
in uno specifico giudizio, potendosi
concedere l’accesso soltanto se
effettivamente finalizzato ad esigenza di
tutela giurisdizionale, potendo bastare a
tal fine la dichiarazione dell’accedente di
voler utilizzare il documento a fini di
tutela giurisdizionale, senza alcun esame
preventivo della reale utilità della sua
domanda, salvo la sua macroscopica
illogicità o inconferenza.>> (Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 06.04.2011
- link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Oggetto: richiesta di parere in merito
alla nozione di controinteressato
all’accesso.
L’istante chiede di sapere se alcuni
soggetti (come il privato che ha
sottoscritto l’atto amministrativo di cui è
chiesta l’ostensione ovvero che è stato
nominato nell’atto; il funzionario
amministrativo che ha sottoscritto l’atto;
il legale rappresentante attuale o cessato
dalla carica di una persona giuridica)
possano o meno essere annoverati nella
qualifica di controinteressati all’accesso
ai documenti amministrativi ai sensi
dell’art. 22 legge n 241/1990.
Questa Commissione, in conformità
all’orientamento della giurisprudenza
amministrativa, è del parere che, in linea
generale, la posizione di controinteressato
in materia di diritto di accesso non va
ancorata al solo dato formale della menzione
di tale soggetto negli atti e nei documenti
cui si riferisce l’accesso oppure al dato
estrinseco che gli atti e i documenti
medesimi riguardino tale soggetto, ma anche
al dato sostanziale della serietà e
meritevolezza di tutela nel merito della
posizione del controinteressato all’accesso,
nel senso che occorre valutare la
sussistenza della fondatezza di un’eventuale
opposizione da parte di quest’ultimo
soggetto.
Ciò è confermato dall’art. 22 della legge n.
241/1990 come modificato dalla legge n.
15/2005 che, nell’introdurre la nozione di “controinteressati”,
li ha identificati in quei “soggetti
individuati o facilmente individuabili in
base alla natura del documento richiesto,
che dall’esercizio dell’accesso vedrebbero
compromesso il loro diritto alla
riservatezza” (si veda anche l’art. 3
del d.P.R. 12.04.2006, n. 184, che al comma
3 ha precisato che i soggetti
controinteressati sono individuati tenuto
anche conto del contenuto degli atti
connessi, di cui all'articolo 7, comma 2).
Quindi, sono controinteressati non tutti i
soggetti contemplati o riguardati dall’atto
ma solo quelli che dall’esercizio
dell’accesso vedrebbero in concreto
compromesso il loro diritto alla
riservatezza.
Con riguardo ai soggetti menzionati
dall’istante, la Commissione rileva che, se
tutti sono in astratto potenzialmente idonei
ad essere annoverati quali controinteressati
all’accesso, tuttavia in concreto non è
possibile fornire una risposta difettando
nella specie gli elementi descrittivi delle
singole situazioni che avrebbero riguardato
i soggetti indicati, ferma restando, in ogni
caso, la potestà della p.a. interessata di
valutare caso per caso se i soggetti
indicati possano vedere compromesso il loro
diritto alla riservatezza (Presidenza del
Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 06.04.2011
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Oggetto: richiesta di parere in tema di
limiti al diritto di accesso del consigliere
comunale.
L’istante, lamentando l’impossibilità di
svolgere il ruolo di consigliere comunale
poiché ostacolato dalle stringenti
disposizioni regolamentari approvate dal
Comune in tema di diritto di accesso dei
consiglieri, chiede un parere a questa
Commissione sulla legittimità del
regolamento comunale.
Preliminarmente, la Commissione rileva che
il regolamento Comunale non risulta a suo
tempo formalmente trasmesso a questa
Commissione, in contrasto con quanto
stabilito dal d.P.R. 12.04.2006 n. 184, art.
11, comma 3. Si segnala pertanto l’esigenza
che a ciò venga provveduto.
Nel merito, si formulano le seguenti
considerazioni:
- art. 2, co. 1, in combinato disposto con
art. 4 co. 1: in astratto, l’attribuzione di
un filtro sull’istanza di accesso attribuito
al Sindaco o all’Assessore potrebbe essere
lesiva delle prerogative del consigliere
comunale, in quanto l’ente si ergerebbe ad
arbitro delle forme di esercizio
dell’accesso del consigliere che non deve
motivare la sua richiesta.
Resta comunque fermo che anche i consiglieri
comunali, in uno spirito di leale
cooperazione, non debbono creare agli uffici
comunali aggravi di lavoro tali da incidere
sul normale andamento dell’attività
amministrativa né comunque piegare l’accesso
a finalità emulative ed abnormi;
- art. 2, co. 2 e 3: stando alla lettera
della disposizione, appare fortemente
limitato l’accesso dei consiglieri comunali
nella parte in cui si prevede che, dopo la
richiesta al sindaco, all’assessore o al
segretario comunale, successivamente ci si
dovrà rivolgere presso il dipendente
dell’ufficio per prendere visione degli atti
e documenti e quindi successivamente si
possa estrarre copia dei documenti presso il
servizio competente.
Sembra che la presa visione sia congegnata
come un adempimento preliminare
all’ottenimento dell’atto richiesto. Va,
invece, considerato che sia la visione che
il diritto ad ottenere copia dei documenti
dell’ente sono alcune delle espressioni in
cui si sostanzia lo speciale accesso dei
consiglieri comunali previsto dal citato
art. 43 TUEL;
- art. 2, co. 4, in combinato disposto con
art. 4 co. 2: la previsione di un termine di
10 gg. per evadere la richiesta di accesso
potrebbe in astratto determinare la concreta
soppressione delle prerogative del
consigliere nei casi di procedimenti urgenti
o che richiedano l’espletamento delle
funzioni politiche entro un termine
inferiore a quello previsto.
Onde scongiurare tale pericolo, è necessario
che l’ente garantisca l’accesso al
consigliere comunale nell’immediatezza, e
comunque nei tempi più celeri e ragionevoli
possibili. Nel caso in cui l’accesso non
possa essere garantito subito (per eccessiva
gravosità della richiesta), rientrerà nelle
facoltà del responsabile del procedimento
dilazionare opportunamente nel tempo il
rilascio delle copie, ferma restando la
facoltà del consigliere comunale di prendere
visione, nel frattempo, di quanto richiesto
negli orari stabiliti presso gli uffici
comunali competenti, anche con mezzi
informatici;
- art. 3, co. 2: è in linea con la costante
giurisprudenza respingere la domanda di
accesso perché riguardante “atti ancora
da adottare”, ma si ricorda che sono
accessibili in base all’art. 24, comma 1,
lett. d), legge n. 241/1990 anche gli atti
interni (relativi o meno ad uno specifico
procedimento) e, per consolidato
orientamento del giudice amministrativo gli
atti preparatori, relazioni o pareri
informali e persino “brogliacci di giunta”.
Inoltre, quanto al rigetto della richiesta
di accesso agli atti adottati
successivamente ad una certa data o intere
categorie di documenti, si rammenta che,
seppur anche le richieste di accesso ai
documenti avanzate dai Consiglieri comunali
ai sensi dell’art. 43, co. 2, d.lgs. n.
267/2000 debbano rispettare il limite di
carattere generale –valido per qualsiasi
richiesta di accesso agli atti- della non
genericità della richiesta medesima (cfr.
C.d.S., Sez. V, n. 4471 del 02.09.2005 e n.
6293 del 13.11.2002) non è generica
l’istanza relativa all’accesso a tutti gli
atti precedenti e successivi a quelli
specificamente indicati qualora nell’istanza
siano indicati gli elementi necessari e
sufficienti alla puntuale identificazione
dei documenti richiesti;
- art. 6: seppur l’esercizio della funzione
di consigliere comunale comporta il diritto
ad ottenere i documenti amministrativi e le
notizie richieste ma non a disporre senza
limiti del tempo del personale degli uffici,
tuttavia la limitazione dell’orario
d’accesso solo in due giorni al mese pare,
in assenza di adeguati meccanismi elastici,
di per sé sola lesiva delle prerogative del
consigliere comunale;
- art. 7, co. 2: l’esclusione dall’accesso
delle minutazioni dei verbali delle riunioni
degli organi collegiali, delle
registrazioni, degli appunti utilizzati per
la formazione del verbale delle sedute non è
compatibile con l’ampiezza del diritto di
accesso dei consiglieri comunali. Tale
ampiezza determina, di riflesso, che
l’accesso può in astratto indirizzarsi,
oltre che, in generale, verso qualsiasi “notizia”
o “informazione”, soprattutto verso
tutti “documenti amministrativi e non”
formati o, comunque, utilizzati ai fini
dell’attività amministrativa, ricomprendendo
anche gli atti istruttori interni in qualche
modo preparatori e/o propedeutici all’atto
definitivo. Al riguardo, la giurisprudenza
amministrativa –e in linea con essa quella
di questa Commissione– è consolidata
nell’ammettere, ai sensi dell’art. 22, comma
1, lett. d), della legge n. 241/1990,
l’accesso anche agli atti preparatori,
relazioni o pareri informali anche se non
hanno una autonoma rilevanza, estendendo
tale diritto anche a bozze o a brogliacci
(in questo senso, cfr., da ultimo, parere
Commissione 20.04.2009);
- art. 7, co. 3: la sottrazione all’accesso
di atti di consulenza redatti da
professionisti, di pareri resi da legali
dopo l’avvio di un contenzioso nonché di
atti relativi a richiesta di conciliazione
in materia lavoristica e di documenti
secretati dal Sindaco non è compatibile con
l’art. 43 TUEL. Infatti, le ipotesi di
segretezza delle informazioni nei casi
specificamente determinati dalla legge (tra
cui il segreto professionale o altre ipotesi
di segreto) non possono incidere sul diritto
di accesso dei consiglieri comunali, essendo
estraneo all’ampiezza di tale diritto
qualunque divieto di “ottenere notizie e
informazioni” su atti o documenti che
possano essere qualificati “segreti”
e come tali sottratti alla sua visione (o
estrazione di copia).
La segretezza che pure opera nei confronti
del consigliere comunale non è quella legata
alla natura dell’atto ma al suo
comportamento che non può essere divulgativo
(“nei casi specificamente determinati
dalla legge”) del contenuto degli atti
ai quali ha avuto accesso, stante il vincolo
previsto dal citato art. 43 all’osservanza
del segreto d’ufficio nelle ipotesi
specificatamente determinate dalla legge
nonché al divieto di divulgazione dei dati
personali ai sensi del d.lgs. 196/2003 e
successive modificazioni (cfr. in senso
favorevole TAR Toscana Firenze Sez. II,
06.04.2007, n. 622).
Si fa, comunque, presente che l’autorità
competente ad annullare eventuali
determinazioni amministrative illegittime è
il giudice amministrativo e non anche questa
Commissione, salve le iniziative di modifica
regolamentare rimesse alla autonoma
valutazione del Consiglio Comunale
(Presidenza del Consiglio dei Ministri,
Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 06.04.2011
- link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Oggetto: richiesta di parere in materia
di accesso dei consiglieri comunali ad atti
processuali penali, contabili e di lavoro.
L’ente istante rappresenta che tre
consiglieri comunali hanno chiesto l’accesso
a copie di eventuali atti giudiziari
relativi a vari procedimenti (contabili,
penali e giuslavoristi) avviati per condotte
asseritamente illegali contestate a carico
dell’ex sindaco e segretario comunale, al
fine di verificare se l’interesse comunale
fosse stato correttamente tutelato dalla
pregressa gestione politica. Dubitando della
legittimità dell’accesso a tali atti -attesa
la genericità dell’istanza e alla luce di
alcune pronunce rese su casi analoghi da
questa Commissione (plenum 22.10.2002,
05.10.2004)- viene chiesto a questa
Commissione un parere sulla spettanza o meno
del diritto di accesso ai consiglieri
comunali.
In via generale, come già affermato in
precedenza (cfr. plenum 14.07.2009), il
diritto d’accesso dei consiglieri comunali e
provinciali agli atti amministrativi
dell’ente locale è disciplinato
espressamente dall’art. 43, comma 2, d.lgs.
18.08.2000, n. 267 (Testo unico ordinamento
degli enti locali), il quale prevede in capo
agli stessi il diritto di ottenere dagli
uffici, rispettivamente comunali o
provinciali, tutte le notizie e le
informazioni in loro possesso, utili
all’espletamento del loro mandato. Dal
contenuto di tale norma emerge chiaramente
che i consiglieri comunali hanno diritto di
accesso a tutti gli atti che possano essere
d’utilità all’espletamento del proprio
mandato, senza alcuna limitazione, essendo
estraneo all’ampiezza di tale diritto
qualunque divieto di “ottenere notizie e
informazioni” su atti o documenti che
possano essere qualificati “segreti”
e come tali sottratti alla sua visione (o
estrazione di copia).
La giurisprudenza del Consiglio di Stato,
infatti, si è orientata nel senso di
ritenere che ai consiglieri comunali spetti
un’ampia prerogativa a ottenere informazioni
senza che possano essere opposti profili di
riservatezza nel caso in cui la richiesta
riguardi l’esercizio del mandato
istituzionale, restando fermi, peraltro, gli
obblighi di tutela del segreto e i divieti
di divulgazione di dati personali secondo la
vigente normativa sulla riservatezza
(secondo la quale, ai sensi dell’art. 43,
comma 2, d.lgs. 18.08.2000, n. 267, i
consiglieri comunali e provinciali “sono
tenuti al segreto nei casi specificamente
determinati dalla legge”).
In argomento, inoltre, è intervenuta la
sentenza del Consiglio di Stato n. 2716 del
04.05.2004, la quale nel ribadire l’ampio
diritto di accesso dei consiglieri comunali
nell’espletamento del loro mandato, ha
precisato che “i consiglieri comunali,
nella loro veste di componenti del massimo
organo di governo del Comune, hanno titolo
ad accedere anche agli atti concernenti le
vertenze nelle quali il Comune è coinvolto
nonché ai pareri legali richiesti
dall’amministrazione comunale, onde
prenderne conoscenza e poter intervenire al
riguardo”.
L’eventuale segretezza (delle indagini o
professionale) che pure opera nei confronti
del consigliere comunale non è quella legata
alla natura dell’atto ma al suo
comportamento che non può essere divulgativo
(“nei casi specificamente determinati
dalla legge”) del contenuto degli atti
ai quali ha avuto accesso, stante il vincolo
previsto in capo al consigliere comunale dal
citato art 43 all’osservanza del segreto
d’ufficio nelle ipotesi specificatamente
determinate dalla legge nonché al divieto di
divulgazione dei dati personali ai sensi del
d.lgs. 196/2003 e successive modificazioni
(cfr. in senso favorevole TAR Toscana
Firenze Sez. II, 06.04.2007, n. 622).
Nella specie, anzitutto non sono pertinenti
le fattispecie risolte nei plenum indicati,
inerendo oltre che a casi diversi da quello
in esame, all’interpretazione della
disciplina generale dell’accesso contenuta
nella legge n 241/1990 e non anche a quella
specifica di cui all’art 43 TUEL
specificamente prevista per il consigliere
comunale; inoltre, la richiesta di
informazioni, indubbiamente utile
all’esercizio del mandato politico dei
consiglieri comunali, come pure ritiene
implicitamente l’ente, non risulta affatto
generica, essendo ben individuati i soggetti
(ex sindaco e segretario comunale) e
conseguentemente individuabili gli eventuali
contenziosi in corso e i relativi atti
giudiziari.
Per tali ragioni, la Commissione ritiene che
la richiesta di accesso formulata dai
consiglieri comunali sia da accogliere
(Presidenza del Consiglio dei Ministri,
Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 06.04.2011
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ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Sig. ...: denegato diritto
d’accesso.
Con e-mail del 04.11.2010 il Sig. ...
trasmetteva una relazione, indirizzata anche
alle Autorità in indirizzo, con cui
lamentava di non aver potuto esercitare, a
causa di ostacoli di varia natura oppostigli
da funzionari della Provincia di Potenza, il
diritto d’accesso ai documenti
amministrativi del progetto “Vie blu”
gestito dalla Provincia stessa, malgrado
tale diritto gli fosse stato riconosciuto da
questa Commissione con parere del
04.03.2010. L’interessato chiedeva pertanto
un ulteriore intervento da parte di questa
Commissione.
Questa Commissione, con parere del
14.12.2010, faceva presente che
l’ordinamento vigente non le attribuiva il
potere di effettuare ulteriori diretti
interventi dopo l’emissione del parere; e
che pertanto la richiesta dell’interessato
non poteva essere accolta. Rilevava peraltro
che l’interessato con l’indicata relazione
aveva prospettato un quadro di sistematica
elusione del proprio diritto d’accesso e del
dovere di trasparenza dell’attività
amministrativa, in contrasto con i principi
generali sanciti rispettivamente dalla legge
n. 241/1990 e dal decreto legislativo n.
150/2009; e pertanto invitava la Provincia
di Potenza a voler riferire sulla questione,
ai fini di un’eventuale menzione di essa
nella relazione annuale sulla trasparenza
della pubblica amministrazione che questa
Commissione è tenuta a presentare alle
Camere ed al Presidente del Consiglio dei
ministri, ai sensi dell’art. 27, comma 5,
della legge n. 241/1990.
Con ampia e dettagliata nota del 25.01.2011
la Provincia di Potenza ha in particolare
riferito:
- che è stato il ... a non voler prendere
visione dell’intera documentazione messagli
a disposizione il 12.04.2010, ed a
rifiutarsi di ottemperare alle procedure
previste per l’accesso, tra cui
l’esplicitazione degli elementi utili
all’individuazione dei documenti richiesti e
dello specifico interesse alla loro
ostensione, genericamente indicato come
interesse “a verificare l’esattezza delle
retribuzioni a lui corrisposte”;
- che a seguito di segnalazioni dello stesso
... il locale Ispettorato del lavoro ha
effettuato ispezioni, che hanno accertato la
regolarità e l’esattezza dell’operato della
Provincia.
L’interessato, dal canto suo, con e-mail del
18.02.2011 ha in sostanza contestato il
contenuto degli atti messi a sua
disposizione.
La Commissione, preso atto della perdurante
contrapposizione tra le parti e constatata
l’inutilità di richiedere ulteriori
informazioni, non ritiene di dover compiere
ulteriori interventi, fermo restando il
diritto dell’interessato di tutelarsi in
sede giurisdizionale; e, considerato che il
competente Ispettorato del lavoro, in
posizione di terzietà, ha accertato la
regolarità e l’esattezza dell’operato della
Provincia, ritiene che la questione debba
essere archiviata (Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 15.03.2011
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CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Consiglieri comunali: accesso
alle liquidazioni dei buoni di economato.
Con nota dell’01.02.2011 il Comune di
Trevico (AV) ha chiesto il parere di questa
Commissione in ordine alla richiesta,
presentata dai consiglieri comunali di
minoranza, di ottenere copia delle
liquidazioni dei buoni di economato relativi
al periodo 2 gennaio-31.12.2010.
Al riguardo il Comune esprime perplessità,
considerato che si tratterebbe di una forma
di controllo specifico non inerente alle
funzioni di indirizzo politico
amministrativo e comunque di una forma di
controllo prettamente contabile, demandato
dall’art. 239 del TUEL al revisore dei
conti.
Al riguardo la Commissione osserva che
l’art. 43 del TUEL dà diritto ai consiglieri
comunali di ottenere dagli uffici del Comune
tutti i documenti che i richiedenti
ritengano necessari per l’espletamento del
loro mandato, senza alcuna esclusione; e che
pertanto non sussiste alcun motivo per
negare la copie suindicate.
Si tratta infatti non dell’esercizio delle
funzioni di indirizzo politico
amministrativo, che spetta al consiglio
comunale nella sua collegialità, ma
dell’esercizio del generale potere di
controllo del singolo consigliere
sull’operato dell’amministrazione comunale,
che nel caso in esame si affianca –senza
sostituirlo- a quello specifico compiuto dal
revisore dei conti a fini esclusivamente
contabili (Presidenza del Consiglio dei
Ministri, Commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 15.03.2011
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ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Accesso di movimento politico
culturale ad atti comunali.
L’Associazione ”Movimento Politico
Culturale Avanguardia Angri” ha chiesto
al Comune di Angri, tramite un suo aderente,
di visionare il verbale del bando di gara
relativo alla delibera di G.M. n. 71 del
06/07/2010 e copia della relazione dei
Revisori dei conti in merito alla delibera
del Commissario Straordinario n. 96 del
12/03/2010, ricevendo un diniego per carenza
di motivazione.
Il Sig. ..., nella sua qualità di Presidente
pro-tempore della predetta Associazione,
sottopone al parere di questa Commissione la
legittimità di tale diniego. Per quanto
riguarda la legittimazione all’accesso dei
cittadini residenti (siano essi persone
fisiche, associazioni o persone giuridiche),
il principio fondamentale che informa
l’orientamento consolidato della Commissione
sull’applicazione dell’art. 10, TUEL è
quello di “specialità": il
legislatore ha, cioè, adottato una
disciplina specifica per gli enti locali
versata nel TUEL approvato con il d.lgs. n.
267/2000. Tale specialità comporta, in linea
generale, che le norme contenute nella l. n.
241/1990 si applicano al TUEL solo in via
suppletiva, ove necessario, e nei limiti in
cui siano con esso compatibili.
Nella materia che ne occupa, mentre l’art.
22, comma 1, lett. b), l. n. 241/1990
prevede che la legittimazione all’accesso
spetti soltanto ai soggetti titolari di un “interesse
diretto, concreto e attuale, corrispondente
ad una situazione tutelata e collegata al
documento al quale è chiesto l’accesso”,
l’art. 10 del TUEL non stabilisce invece
alcuna restrizione e si limita a prevedere
l’esistenza di un’area di atti (non
precisata) il cui accesso o è assolutamente
precluso per legge o è differibile (tale
essendo l’effetto pratico della necessaria
dichiarazione del Sindaco) nei casi previsti
da un apposito regolamento, a tutela della
riservatezza. Secondo la Commissione i
diversi contenuti delle due disposizioni
citate caratterizzano la specificità del
diritto di accesso dei cittadini comunali
configurandolo alla stregua di un’azione
popolare che non deve essere accompagnata né
dalla titolarità di una situazione
giuridicamente rilevante né da un’adeguata
motivazione.
Ne consegue, sul presupposto che
l’Associazione istante abbia sede nel Comune
di Angri, l’illegittimità nella specie del
diniego opposto dall’Ente locale (Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 15.03.2011
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CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Accesso di consiglieri comunali
a documenti di ingente mole comportanti
anche notevoli spese di copia.
Il Segretario Generale del Comune di
Bernareggio si preoccupa che la richiesta di
un consigliere comunale relativa ad
un'ingente mole di documenti concernenti, in
particolare, i lavori della nuova biblioteca
e la realizzazione di una casa alloggio,
possa compromettere lo svolgimento regolare
delle altre attività degli uffici e che,
soprattutto, alcune riproduzioni grafiche
comportino –in quanto non eseguibili
all’interno dell’Ente– elevati costi.
Chiede, pertanto, a questa Commissione il
parere “se è corretto consentire solo la
visione del materiale richiesto, dalla
lettura del quale il consigliere comunale
potrà acquisire tutte le informazioni che,
ai sensi dell’art. 43 del T.U. n. 267/2000
ha diritto di conoscere per poi,
eventualmente, richiedere copia di specifici
documenti. La visione potrebbe avvenire
previo accordo con il Responsabile del
Settore competente, secondo i tempi
necessari per non determinare interruzione
delle altre attività di tipo corrente”.
La soluzione operativa che il Comune ritiene
di seguire appare corretta.
La Commissione ha avuto già modo di
affermare (per un caso analogo cfr. parere
del 22.02.2011) che l’esercizio
dell’incondizionato diritto dei consiglieri
comunali riconosciuto dall’art. 43, TUEL
deve essere concordato con l’amministrazione
comunale allorché il contenuto complesso dei
documenti richiesti renda gravoso il suo
adempimento pregiudicando il regolare
espletamento dell’ordinaria attività
amministrativa dell’Ente o comporti anche
spese di copia che potrebbero essere evitate
limitando l’accesso, in via preliminare,
alla sola visione degli atti
circoscrivendone poi il rilascio solo ad
alcuni di essi (Presidenza del Consiglio dei
Ministri, Commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 15.03.2011
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ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Richiesta parere in pendenza di
ricorso al Difensore Civico.
Il Ten. ..., Vice-Comandante del Corpo della
Polizia Municipale del Comune di Ugento
(Lecce), chiede il parere di questa
Commissione in ordine alla legittimità del
diniego opposto dal Comando della Polizia
Municipale alla domanda di accesso relativa
a documentazione e informazioni in materia
ambientale, e più specificamente in materia
di vigilanza ambientale ed abusi edilizi,
presentata dal Sig. ...
Tale parere viene chiesto a seguito della
richiesta da parte del Difensore Civico
della Provincia di Lecce di controdeduzioni
sul ricorso presentato dallo stesso Sig.
..................... avverso il non
accoglimento della sua domanda di accesso.
Come questa Commissione ha avuto modo di
sottolineare in precedenti occasioni non è
istituzionalmente corretto che venga
richiesto e, tanto più emesso, un parere
(che, fra l’altro, non avrebbe alcun effetto
giuridico se non quello di creare una
possibile discordanza di valutazioni)
allorché sia in corso un giudizio sul
ricorso amministrativo presentato dinanzi
l’Organo competente (Difensore Civico).
Solo nel caso in cui sia quest’ultimo,
nell’esercizio delle proprie funzioni, a
sottoporre un quesito che la Commissione
sarebbe legittimamente investita del
conseguente parere (Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 15.03.2011
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ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Accesso a documenti di gara
d’appalto per affidamento sevizio di
assistenza domiciliare anziani: limiti.
Con e-mail del 26.01.2011 l’ente istante ha
chiesto di conoscere se, a parere di questa
Commissione, possa essere rigettata la
domanda, presentata dal concorrente
classificatosi al secondo posto di una gara
d’appalto per l’affidamento del servizio di
assistenza domiciliare agli anziani, per
accedere alla documentazione presentata
dalle altre ditte concorrenti (e cioè
offerta tecnica, offerta economica,
dichiarazioni, ect.). Al riguardo, l’istante
ha precisato che l’offerta tecnica contiene
le modalità lavorative e di organizzazione
industriale del servizio che costituiscono
segreto tecnico e commerciale.
L’orientamento consolidato di questa
Commissione è nel senso di ritenere che
l’art. 13, co. 5, lett. a), d.lgs. n
163/2006 esclude il diritto d’accesso e ogni
forma di divulgazione con riferimento “alle
informazioni fornite dagli offerenti
nell’ambito delle offerte o a
giustificazione delle medesime, che
costituiscano, secondo motivata e comprovata
motivazione dell’offerente, segreti tecnici
o commerciali”. Ma il successivo comma 6
ammette l’accesso anche in tali casi qualora
esso sia richiesto “in vista della tutela
in giudizio dei propri interessi in
relazione alla procedura di affidamento del
contratto nell’ambito del quale viene
formulata la richiesta di accesso”.
In proposito, il Consiglio di Stato (Sez. V,
09.12.2008 n. 6121) ha chiarito che le
disposizioni in questione sembrano “ripetere,
specificandoli, i principi dell’art. 24
della legge n. 241/1990, che stabilisce una
complessa operazione di bilanciamento tra
gli interessi contrapposti alla trasparenza
e alla riservatezza…. Per non dilatare in
modo irragionevole la portata della norma si
deve ritenere che essa imponga di effettuare
un accurato controllo in ordine
dell’effettiva utilità della documentazione
richiesta, alla stregua di una sorta di
prova di resistenza”: dal che “discende
che non è consentito esercitare l’accesso
alla documentazione posta a corredo
dell’offerta selezionata ove l’impresa
aggiudicataria abbia dichiarato che
sussistono esigenze di tutela del segreto
tecnico o commerciale ed il richiedente non
abbia dimostrato la necessità di utilizzare
tale documentazione in uno specifico
giudizio”.
Pertanto, sarà cura dell’amministrazione
interessata comunicare preliminarmente la
domanda di accesso al controinteressato e,
qualora quest’ultimo manifesti la propria
opposizione all’accesso, la p.a. dovrà
valutare in concreto anzitutto se gli
elaborati allegati all’offerta della ditta
aggiudicataria contengano davvero segreti
tecnici e/o commerciali e poi l’effettiva
necessità di utilizzare il chiesto documento
per agire o reagire in uno specifico
giudizio, potendosi concedere l’accesso
soltanto se effettivamente finalizzato ad
esigenza di tutela giurisdizionale, potendo
bastare a tal fine la dichiarazione
dell’accedente di voler utilizzare il
documento a fini di tutela giurisdizionale,
senza alcun esame preventivo della reale
utilità della sua domanda, salvo la sua
macroscopica illogicità o inconferenza
(Presidenza del Consiglio dei Ministri,
Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 15.03.2011
- link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Comunicazione dati inerenti il
domicilio di proprietari di immobili
confinanti.
Con e-mail del 07.02.2010 l’istante,
intenzionato ad offrire in vendita un
proprio terreno agricolo ai terzi confinanti
titolari del diritto di prelazione agraria,
ha chiesto di conoscere se, a parere di
questa Commissione, sia possibile ottenere
dalla p.a. (Agenzia del Territorio o delle
Entrate) i dati relativi al domicilio dei
proprietari degli immobili confinanti, dato
necessario per poter inviare a questi ultimi
l’offerta di acquisto del terreno. Al
riguardo, l’istante segnala di aver potuto
reperire, tramite visure catastali, soltanto
l’identità anagrafica ed il codice fiscale
dei confinanti.
Da quanto è possibile evincere dall’istanza,
si chiede se sia possibile ottenere dalle
amministrazioni indicate un’informazione
(cioè il domicilio fiscale di un soggetto)
ricavandola da altri dati già in possesso
dell’istante (e cioè identità anagrafica e
c.f.). Ciò posto, osserva la Commissione
che, ai sensi dell’art. 22, comma 4, della
legge n. 241/1990, (e salvo quanto previsto
dal decreto legislativo 30.06.02003 n. 196
in materia di accesso a dati personali da
parte della persona cui i dati si
riferiscono) “non sono accessibili le
informazioni in possesso di una pubblica
amministrazione che non abbiano forma di
documento amministrativo”, così come
definito dall’art. 22 comma 1 lettera d)
della legge n. 241/1990, e posto che l’art.
2, comma 2, del d.P.R. n. 184/2006 dispone,
inoltre, che “la pubblica amministrazione
non è tenuta ad elaborare dati in suo
possesso al fine di soddisfare le richieste
di accesso” (Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 15.03.2011
- link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Accesso di cittadino alla
documentazione relativa a denuncia inizio
attività.
Lo Sportello Unico per l’edilizia del Comune
di Borgonovo Val Tidone ha chiesto a questa
Commissione parere in ordine ad una
richiesta di accesso ai documenti relativi
alla D.I.A. di un cittadino residente avente
ad oggetto opere per eliminazione di
barriere architettoniche in un’abitazione
civile. A tale richiesta si è opposto il
controinteressato eccependo che, trattandosi
di dati inerenti il figlio minorenne
disabile verrebbe a mancare un interesse
diretto e concreto ad accedere.
L’opposizione all’accesso, nei limiti di
quanto richiesto, non pare accoglibile.
Secondo l’orientamento della Commissione,
inaugurato con la direttiva 10.02.1996 e che
sembra più aderente all’art. 10 TUEL (“Tutti
gli atti dell’amministrazione comunale e
provinciale sono pubblici, ad eccezione di
quelli riservati per espressa indicazione di
legge o per effetto di una temporanea e
motivata dichiarazione del sindaco o del
presidente della provincia che ne vieti
l’esibizione…”) il diritto di accesso
agli atti degli enti locali non è
condizionato alla titolarità in capo al
soggetto accedente di una situazione
giuridica differenziata, atteso che
l’esercizio di tale diritto è equiparabile
all’attivazione di un’azione popolare
finalizzata ad una più efficace e diretta
partecipazione del cittadino all’attività
amministrativa dell’ente locale e alla
realizzazione di un più immanente controllo
sulla legalità dell’azione amministrativa.
Il principio fondamentale che informa
l’orientamento della Commissione
sull’applicazione del citato art. 10, TUEL è
quello di “specialità:” il
legislatore ha, cioè, adottato una
disciplina specifica per gli enti locali
versata nel TUEL approvato con il d.lgs. n.
267/2000. Tale specialità comporta, in linea
generale, che le norme contenute nella l. n.
241/1990 si applicano al TUEL solo in via
suppletiva, ove necessario, e nei limiti in
cui siano con esso compatibile.
Nella materia che ne occupa, mentre l’art.
22, comma 1, lett. b), l. n. 241/1990
prevede che la legittimazione all’accesso
spetti soltanto ai soggetti titolari di un “interesse
diretto, concreto e attuale, corrispondente
ad una situazione tutelata e collegata al
documento al quale è chiesto l’accesso”,
l’art. 10 del TUEL non stabilisce invece
alcuna restrizione per cui l’istanza di
accesso non deve essere accompagnata né
dalla titolarità di una situazione
giuridicamente rilevante né da un’adeguata
motivazione (Presidenza del Consiglio dei
Ministri, Commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 15.03.2011
- link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Consiglieri comunali: richiesta
di una comunicazione settimanale di tutte le
determinazioni dei responsabili di settore.
Con nota dell’11 gennaio scorso codesto
Comune ha chiesto il parere di questa
Commissione circa la richiesta, avanzata da
alcuni consiglieri comunali, di ricevere,
sino alla fine del loro mandato, copia di
tutte le determinazioni dei responsabili di
settore.
Al riguardo si osserva che, ai sensi della
vigente normativa (dPR 20.10.1998 n. 428,
dPCM 31.10.2000, dPR 28.12.2000 n. 445, dPCM
14.10.2003), ogni comune deve provvedere a
realizzare il protocollo informatico, al
quale possono poi liberamente accedere i
consiglieri comunali, i quali pertanto
-tramite tale protocollo– possono prendere
visione di tutte le determinazioni e le
delibere adottate dall’ente; ciò in
ottemperanza al principio generale di
economicità dell’azione amministrativa, che
riduce allo stretto necessario la redazione
in forma cartacea dei documenti
amministrativi.
Pertanto i consiglieri interessati, dal
momento che possono liberamente e
direttamente accedere in via informatica a
qualsiasi determinazione dei responsabili di
settore, non hanno necessità –salvo
specifiche eccezioni– di ottenere anche, ed
in via generalizzata, copia delle richieste
determinazioni, adempimento che
costituirebbe una palese diseconomia di
gestione con inutile aggravio del normale
lavoro degli uffici (Presidenza del
Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 22.02.2011
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CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Accesso di consiglieri comunali
ad atti amministrativi in materia di
edilizia e urbanistica.
Due gruppi consiliari del Comune di Turriaco
hanno chiesto l’accesso (mediante rilascio
di copia) a tutti i titoli abilitativi
all’edificazione previsti dalla normativa
vigente (autorizzazioni, concessioni,
permessi e denunce di attività) dal 2000
fino al 18.05.2010.
Chiedono a questa Commissione il parere in
ordine al diniego –da essi definito “probabile”–
che il Comune sembra opporre con la seguente
motivazione: ”Giurisprudenza consolidata
sostiene che il diritto di accesso sia
correttamente esercitato e la richiesta deve
essere precisa e puntuale e non
indiscriminata, cioè priva
dell’individuazione specifica dell’oggetto
su cui si dovrebbe esercitare il diritto di
accesso…omissis…Nel caso in oggetto le
richieste non sono state espresse nelle
forme e modalità previste e ritenute
opportune al fine di “non aggravare
eccessivamente sulla corretta funzionalità
amministrativa dell’ente civico”.
Inoltre la richiesta deve essere “specifica
e dettagliata, indicando l’esatta
individuazione degli estremi identificativi
degli atti e dei documenti o, qualora siano
ignoti tali estremi, almeno degli elementi
che consentano l’individuazione dell’oggetto
dell’accesso”.
La giurisprudenza riportata dal Comune nella
propria lettera (del 16.06.2010) di risposta
all’istanza di accesso dei consiglieri
comunali interessati (pertinente all’oggetto
del quesito) stabilisce per i consiglieri
comunali non un limite al loro diritto di
accesso (che sarebbe illegittimo) ma
modalità di attuazione dello stesso per
renderlo compatibile –specialmente quando la
mole dei documenti richiesti è notevole– con
lo svolgimento dell’ordinaria attività
amministrativa dell’ente locale. E’ in
questi limiti che va interpretato il
presunto diniego del Comune di Turriaco che,
fra l’altro, nelle ultime righe della stessa
lettera di risposta si dichiara disponibile
ad accogliere la richiesta invitando i
richiedenti a “prendere apposito
appuntamento con il Servizio Tecnico per la
visione degli atti specifici e
circostanziati per i quali si chiede
estrazione e copia.”
E’ un invito ad una concreta collaborazione
che sembra opportuno che i consiglieri
comunali istanti accolgano anche al fine di
evitare una infruttuosa conflittualità
(Presidenza del Consiglio dei Ministri,
Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 22.02.2011
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ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
OGGETTO: Estrazione copia di elaborati di
un concorso pubblico.
Il Comune di Serrastretta ha bandito ed
espletato un concorso pubblico per
l’assunzione di un vigile. Alcuni
concorrenti giudicati idonei alla prima
prova e quindi non ammessi agli esami
successivi hanno presentato istanza di
accesso agli atti. L’accesso è stato
consentito immediatamente sia per quanto
riguarda l’elaborato del candidato
richiedente che per quello del concorrente
vincitore e degli idonei, e ciò in
ottemperanza –sottolinea lo stesso Comune–
della consolidata giurisprudenza
amministrativa.
Viene chiesto a questa Commissione il parere
in ordine alla richiesta di un candidato di
estrarre copia degli elaborati dei
concorrenti risultati idonei e se, in caso
positivo, l’accoglimento dell’istanza debba
essere subordinato al consenso dei
controinteressati.
La risposta al quesito, in linea con la
consolidata giurisprudenza del giudice
amministrativo, e anche di questa
Commissione, è positiva.
In materia di concorsi pubblici ed in tutti
i casi di atti endoprocedimentali il diritto
di accesso del concorrente ad accedervi è
pieno, non limitato alla sola visione ma
anche al rilascio di copia e non
condizionato all’assenso del
controinteressato il quale, consapevole di
partecipare ad una procedura a contenuto
comparativo e selettivo, non può opporre
motivi di riservatezza a tutela della
propria posizione giuridica se non nei casi
specificatamente previsti dalla legge (v.,
per esempio, la normativa sulla
partecipazione a gara per l’assegnazione di
appalti pubblici) (Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 22.02.2011
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ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: richiesta di accesso a documenti
in presenza di contro interessati. Mancata
ottemperanza alle decisioni della
commissione. Richiesta di parere.
L’istante rappresenta che la Commissione ha
già pronunciato una favorevole decisione in
esito ad un ricorso -regolarmente notificato
ai controinteressati (come pure noto
all’amministrazione resistente)-
riconoscendogli l’accesso a non meglio
specificati documenti amministrativi.
Precisa poi che l’amministrazione non
avrebbe ottemperato alla pronuncia in
quanto, a dire della stessa pa, dovrebbero
nuovamente essere informati i
controinteressati ai fini di eventuali
opposizioni, così perpetuando
l’atteggiamento ostruzionistico all’accesso.
Viene, pertanto, chiesto se, nonostante la
decisione della Commissione,
l’amministrazione possa (ed entro quale
termine massimo) ritardare l’accesso ovvero
in caso negativo, quali rimedi abbia il
cittadino per obbligare l’amministrazione al
rilascio dei documenti.
La Commissione osserva che se i
controinteressati hanno già avuto
comunicazione della copia del ricorso
proposto dall’interessato e non hanno
opposto alcunché, l’amministrazione non
dovrà informare ulteriormente i
controinteressati né attendere un’eventuale
opposizione da parte loro, in quanto gli
obblighi di comunicazione ai
controinteressati, previsti dagli artt. 3 e
12 dpr n. 184/2006, devono essere assolti
nell’ambito del procedimento amministrativo
di accesso ovvero nel procedimento
giustiziale innanzi alla Commissione.
Resta fermo che, in caso di perdurante
ritardo dell’amministrazione nel concedere
l’accesso, pur dopo una decisione favorevole
al cittadino in sede di ricorso, la
Commissione -nell’esercizio della propria
attività consultiva o giustiziale- non può
obbligare l’amministrazione, difettando in
capo alla prima poteri ordinatori nei
confronti della p.a. (ex art. 25 L n.
241/1990), fatta salva l’eventuale
possibilità del cittadino di adire il
competente Giudice amministrativo, dotato di
poteri coercitivi per dare attuazione
concreta al diritto di accesso (Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 22.02.2011
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ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Coordinamento tra disciplina
dell’accesso e del ricorso gerarchico
amministrativo; modalità di tutela
dell’istante per l’accesso ai documenti
amministrativi. Richiesta di parere.
L’istanza in oggetto sembra porre un duplice
ordine di questioni. Da un lato, sembrerebbe
indicare un difetto di coordinamento tra
disciplina dell’accesso e del ricorso
gerarchico amministrativo in quanto, a dire
dell’istante, se l’interessato ha chiesto
l’accesso per valutare un’eventuale
erroneità dell’operato dell’amministrazione
e quest’ultima impieghi trenta giorni per
consegnare i documenti richiesti, allora di
fatto sarebbe inibita la possibilità di
proporre ricorso gerarchico, i cui termini
di proposizione sarebbero ormai tramontati
nelle more dell’accesso. D’altra parte,
sembra invece porsi la più semplice
questione di quali siano le modalità di
tutela dell’istante avverso il comportamento
dell’amministrazione che neghi, in tutto o
in parte, l’accesso ai documenti
amministrativi.
Ciò posto, se la questione fosse nei termini
da ultimo descritti, si rammenta che qualora
la p.a. neghi, in modo espresso o tacito, in
tutto o in parte l’accesso, limitandolo o
differendolo, il richiedente può presentare,
nel termine di trenta giorni, ricorso
gerarchico amministrativo ovvero rivolgersi
al tribunale amministrativo regionale ovvero
al difensore civico competente per ambito
territoriale, oppure alla Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi.
Qualora, invece, il problema fosse il
delineato difetto di coordinamento tra la
disciplina dell’accesso e quella del ricorso
gerarchico amministrativo, la Commissione,
pur comprendendo l’importanza e la
delicatezza del problema prospettato, non si
ritiene competente ai sensi dell’art. 27
legge n. 241/1990, inerendo il parere a
settori diversi da quelli strettamente
concernenti l’esercizio del diritto di
accesso.
Compito della Commissione è infatti quello
di garantire la trasparenza dell'attività
delle pubbliche amministrazioni, provvedendo
anche a dare impulso al governo per
modificare il tessuto normativo vigente in
tema di accesso ai documenti amministrativi,
ma senza poter entrare in altri ambiti, pur
connessi, come quello della tutela
giurisdizionale o giustiziale
amministrativa.
Quindi la Commissione non è tenuta a
pronunciarsi sulla presente richiesta,
limitandosi a considerare che in mancanza di
espressa previsione legislativa, la mera
circostanza di aver presentato un'istanza di
accesso ai documenti amministrativi, di per
sé, non sospende né interrompe la decorrenza
dei termini per proporre ricorso gerarchico
(Presidenza del Consiglio dei Ministri,
Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 22.02.2011
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CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Consiglieri comunali: accesso
per via telematica agli archivi
informatizzati dei rispettivi enti: quesiti
vari.
Con fax del 20.12.2010 codesta Regione
Autonoma ha posto a questa Commissione i
seguenti quesiti relativi all’accesso per
via telematica dei consiglieri comunali
della Regione agli archivi informatizzati
dei rispettivi enti:
1) se l’accesso possa essere differito sino
al momento in cui l’ente abbia adeguato il
proprio sistema informatico ed il proprio
regolamento alle esigenze specifiche di tale
accesso;
2) se l’accesso debba essere limitato alla
consultazione del solo elenco degli atti
protocollati oppure consenta anche la
consultazione degli atti stessi;
3) se l’accesso possa essere escluso per
particolari categorie di atti (ad esempio,
gli atti elencati nel protocollo riservato
del sindaco);
4) se l’accesso possa essere esercitato
anche sugli atti precedenti all’assunzione
della carica di consigliere comunale;
5) se l’accesso debba avvenire soltanto in
modalità locale, e cioè mettendo a
disposizione dei consiglieri una postazione
all’interno dell’ente, o possa avvenire
anche in modalità remota, e cioè da
qualsiasi postazione, anche esterna
all’ente;
6) se il temporaneo vincolo di riservatezza
previsto per alcune tipologie di documenti
(gare, appalti, concorsi, ecc.) operi anche
nei confronti dei consiglieri comunali.
Al riguardo la Commissione esprime il
seguente parere.
1) Non sono stati indicati i motivi per i
quali un archivio informatizzato, che
sarebbe già operante, potrebbe –di fatto-
essere utilizzato dai consiglieri comunali
solo previo adeguamento del sistema
operativo e del regolamento comunale ad
esigenze specifiche dell’accesso proprie di
questi ultimi. Se comunque tali motivi sono
effettivamente sussistenti e precludono –di
fatto- l’accesso per via telematica dei
consiglieri comunali non può – ovviamente –
che prendersi atto della situazione.
Peraltro, trattandosi dell’applicazione di
norme risalenti ormai a molti anni fa e che
gli enti interessati hanno il dovere e la
responsabilità di attuare, ciò non significa
che l’accesso possa essere differito sine
die né esclude che, nelle more
dell’adeguamento, i consiglieri comunali
possano usufruire delle postazioni di coloro
che hanno accesso al protocollo informatico.
Va infatti ricordato che gli enti locali, al
pari di tutte le pubbliche amministrazioni,
sono tenuti a curare tutti gli adempimenti a
loro carico e quindi devono dotarsi anche
dei mezzi (personale, strumentazioni
tecniche e materiali vari) necessari
all'assolvimento dei compiti finalizzati a
garantire il diritto di accesso di cui
all’art. 43, comma 2, del T.U.E.L (cfr., su
quest'ultimo punto, Cons. Stato, Sez. V,
04.05.2004 n. 2716; cfr. anche Cons. Stato,
sez. V, 22.05.2007 n. 929, secondo cui il
diritto di accesso agli atti di un
consigliere comunale non può subire
compressioni per pretese esigenze di natura
burocratica dell’Ente, tali da ostacolare
l’esercizio del suo mandato istituzionale).
Alla luce delle suesposte considerazioni, si
ritiene che l’ente comunale debba compiere
in modo responsabile ogni sforzo per
assicurare al consigliere comunale
l’esercizio del diritto di accesso in via
telematica mediante utilizzo della pec per
lo scambio di documenti e informazioni, come
già ritenuto da questa Commissione con
parere n. 3 dell’11 gennaio scorso.
2) Attesa l’ampiezza di poteri d’accesso che
l’art. 43 del testo unico sugli enti locali
di cui al d.P.R. n. 267/1990 attribuisce ai
consiglieri comunali deve ritenersi che essi
abbiano diritto di accedere non soltanto
all’elenco degli atti protocollati
nell’archivio informatico ma anche agli atti
stessi.
3) Il diritto d’accesso dei consiglieri
comunali non incontra alcun limite legato ad
esigenze di riservatezza o addirittura di
segreto, dal momento che il citato art. 43
prevede espressamente che i consiglieri
debbano mantenere il segreto, con ciò
presupponendo che essi abbiano titolo a
prendere conoscenza delle notizie o dei
documenti segretati. Per quanto poi riguarda
eventuali protocolli riservati del sindaco,
va precisato che le uniche eccezioni
all’accesso sono costituite da eventuali
documenti che attengano alla normale vita di
relazione del sindaco come privato cittadino
e non già come vertice dell’amministrazione
comunale.
4) Il diritto d’accesso può essere
esercitato sugli atti formati o comunque
detenuti da una pubblica amministrazione per
motivi di pubblico interesse,
indipendentemente dalla data in cui essa li
ha formati o acquisiti.
5) Atteso che i consiglieri comunali possono
accedere sia a notizie o a documenti segreti
sia a notizie od a documenti riservati
sarebbe opportuno che l’accesso avvenisse
soltanto in modalità locale, mettendo a
disposizione dei consiglieri una o più
postazioni all’interno dell’ente. Non può
peraltro escludersi che l’ente, nell’ambito
della sua autonomia organizzativa e
–ovviamente- tenendo conto della relativa
spesa, possa prevedere forme di accesso
anche in modalità remota, e cioè da
specifiche postazioni esterne all’ente, in
grado di assicurare che terzi non
legittimati possano usufruirne.
6) L’esigenza di effettività della funzione
di controllo attribuita ai consiglieri
comunali postula che essi possano acquisire
tempestiva conoscenza di quanto ad essi
necessario per l’esercizio del loro mandato.
Deve quindi ritenersi che il temporaneo
vincolo di riservatezza previsto per alcune
tipologie di documenti (gare, appalti,
concorsi, ecc.) non operi anche nei
confronti dei consiglieri comunali
(Presidenza del Consiglio dei Ministri,
Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta
dell'01.02.2011 - link a
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ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Accesso: spese di estrazione di
copia.
Con la e-mail a riscontro il Sig. ... ha
comunicato che, recatosi presso gli uffici
del Comune di Monteverdi Marittimo per
ottenere copia di un’ordinanza consistente
in una sola pagina, gli sarebbe stato fatto
presente che non avrebbe potuto trascrivere
a mano il contenuto dell’ordinanza e che per
l’eventuale estrazione della copia avrebbe
dovuto pagare euro 25, per i diritti tecnici
e di segreteria disposti dalla delibera
consiliare 09.11.2005 n. 57.
Al riguardo la Commissione, premesso che la
delibera consiliare citata non attiene al
diritto d’accesso ma alle “tariffe da
applicare per servizi prestati dall’U.T.C.
nell’interesse di privati,” quali “gli
atti ed i provvedimenti soggetti a tassa
come concessioni comunali, …. le
autorizzazioni per abitabilità di nuove case
urbane e rurali, di edifici o parte di essi,
….. altri servizi, spesso effettuati su
domanda specifica degli interessati, che
comportano spese di vario genere per
istruttoria di pratiche” (ipotesi tutte
palesemente estranee a quella in esame), fa
presente che:
- ai sensi dell’art. 22 della legge n.
241/1990, il diritto d’accesso consiste nel
diritto “di prendere visione e di
estrarre copia di documenti amministrativi”,
e che nel diritto di visione è insito il
diritto di prendere brevi appunti ma non
anche quello di trascrivere a mano l’intero
contenuto del documento qualora ciò comporti
una inutile perdita di tempo dell’impiegato
che deve presenziare alla visione;
- che ai sensi del successivo art. 25 il
rilascio di copia in carta libera è
subordinato soltanto al rimborso del costo
di riproduzione (che questa Commissione ha
ritenuto potersi quantificare in euro 0,25
ogni due pagine, per le copie in carta
libera, ed in euro 0,00, per le copie in via
telematica) ed al pagamento degli eventuali
diritti di ricerca e di visura;
- che il rilascio di copia di un’ordinanza,
che oltre tutto, a quanto si desume
dall’esposto del Sig. ..., sarebbe tuttora
vigente, non sembra possa comportare oneri
tecnici o di ricerca (Presidenza del
Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta
dell'01.02.2011 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Diritto di accesso del
consigliere comunale alle liste dei
contribuenti comunali.
Il Sig. ..., consigliere di minoranza del
Comune di Praia a Mare, dopo aver illustrato
il conflitto che da qualche tempo si è
instaurato con l’amministrazione comunale
(in particolare con il dirigente
responsabile dell’Area Entrate e Tributi),
in merito al diritto di accesso ai documenti
detenuti dall’ente (ed in particolare alle
liste dei contribuenti morosi), conflitto
che lo ha costretto a rivolgersi
ripetutamente al Tar territorialmente
competente con esito al medesimo favorevole
(e con soccombenza del Comune in alcuni casi
al ristoro delle spese legali, circostanza
non trascurabile ai fini della possibile
esistenza di un danno erariale, n.d.r.),
chiede parere a questa Commissione in ordine
al diritto dell’amministrazione comunale di
poter sospendere o differire l’accesso ai
documenti da ultimo richiesti concernenti le
“liste di carico” e i “ruoli di
riscossione coattiva” di alcuni tributi
comunali. Allega alla richiesta fotocopia di
corrispondenza intrattenuta con il Comune e
delle decisioni adottate dal giudice
amministrativo sul precedente contenzioso.
Ritiene la Commissione che il preteso
diritto del Comune di Praia a Mare di
sospendere o differire l’istanza di accesso,
ancorché motivato dallo scrupolo di tutelare
la privacy dei cittadini contribuenti, non
abbia giuridico fondamento.
Il “diritto di accesso” ed il “diritto
di informazione” dei consiglieri
comunali nei confronti della P.A. trovano la
loro disciplina specifica nell’art. 43,
comma 2, del d.lgs. n. 267/2000 (TU degli
Enti locali) che riconosce ai consiglieri
comunali e provinciali il “diritto di
ottenere dagli uffici, rispettivamente, del
comune e della provincia, nonché dalle loro
aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie
e le informazioni in loro possesso, utili
all’espletamento del proprio mandato”.
Dal contenuto della citata norma si evince
il riconoscimento in capo al consigliere
comunale di un diritto dai confini più ampi
sia del diritto di accesso ai documenti
amministrativi attribuito al cittadino nei
confronti del Comune di residenza (art. 10,
T.U. enti locali) sia, più in generale, nei
confronti della P.A. quale disciplinato
dalla legge n. 241/1990.
Tale maggiore ampiezza di legittimazione è
riconosciuta in ragione del particolare
munus espletato dal consigliere
comunale, affinché questi possa valutare con
piena cognizione di causa la correttezza e
l’efficacia dell’operato
dell’Amministrazione, onde poter esprimere
un giudizio consapevole sulle questioni di
competenza della P.A., opportunamente
considerando il ruolo di garanzia
democratica e la funzione pubblicistica da
questi esercitata. A tal proposito, il
Giudice amministrativo individua la
situazione giuridica in capo ai consiglieri
comunali con l’espressione “diritto
soggettivo pubblico funzionalizzato”,
vale a dire un diritto che “implica
l’esercizio di facoltà finalizzate al pieno
ed effettivo svolgimento delle funzioni
assegnate direttamente al consiglio comunale”.
A tal fine il consigliere comunale non deve
motivare la propria richiesta di
informazioni, poiché, diversamente opinando,
la P.A. si ergerebbe ad arbitro delle forme
di esercizio delle potestà pubblicistiche
dell’organo deputato all’individuazione ed
al perseguimento dei fini collettivi.
Conseguentemente, gli Uffici comunali non
hanno il potere di sindacare il nesso
intercorrente tra l’oggetto delle richieste
di informazioni avanzate da un Consigliere
comunale e le modalità di esercizio del
munus da questi espletato e tanto
meno subordinare il rilascio della
documentazione richiesta al pagamento dei
costi di riproduzione.
Quanto alle modalità del rilascio della
stessa documentazione, il consigliere
comunale deve essere messo in grado di
conoscerla tempestivamente al fine di poter
svolgere le sue funzioni con piena
cognizione di causa, tanto più quando esse
si riferiscono ad argomenti posti all’ordine
del giorno delle sedute consiliari.
In ordine alla specifica richiesta di
accesso a documenti concernenti imposte e
tasse, ed in particolare le liste dei
contribuenti morosi o meno, questa
Commissione si è espressa anche recentemente
in senso positivo riconoscendo sia al
cittadino ex art. 10 del TUEL (parere del
16.11.2010), sia, e tanto più, al
consigliere comunale ex art. 43 dello stesso
TUEL (parere dell’11.01.2011) il diritto di
accesso ai documenti richiesti, atteso che
la salvaguardia della privacy è recessiva
rispetto al diritto del cittadino e, a
fortiori del consigliere comunale, di
vigilare sulla correttezza dell’azione
dell’amministrazione comunale, salvo la
responsabilità degli stessi derivante da una
diffusione contra legem dei dati
acquisiti (Presidenza del Consiglio dei
Ministri, Commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta
dell'01.02.2011 - link a
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ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Richiesta parere su
silenzio-rifiuto al rilascio di atti,
notizie ed informazioni opposto dal Comune
di Lauria.
Il Dott. ..., in qualità di procuratore
speciale del Condominio ..., nonostante
ripetuti documentati tentativi di richiesta
di accesso agli atti, notizie ed
informazioni, nonché di indicazione del
responsabile del procedimento, relativi ad
una domanda di rimborso IVA ai sensi della
l. n. 449/1997, art. 12 per interventi di
riparazione e miglioramento sismico, si è
visto sempre opporre il silenzio-rifiuto
dell’amministrazione comunale. Su tale
comportamento, che egli definisce gravemente
omissivo, chiede il parere di questa
Commissione, invitando la stessa a
sospendere il giudizio sul ricorso
presentato sullo stesso oggetto in data
09.12.2010 trattandosi di questioni
concernenti gli enti locali.
Il silenzio-rifiuto del Comune di Lauria è
illegittimo.
Infatti, l’art. 10, comma 2, TUEL assicura
al cittadino (e a qualunque altro soggetto
giuridico avente residenza nel Comune) il
più ampio diritto di accesso ed assicura
allo stesso l’informazione sullo stato degli
atti e delle procedure che comunque lo
riguardi. Nel caso di specie, pertanto,
oltre, al generale diritto di accesso del
cittadino agli atti comunali si aggiunge
l’interesse diretto del Condominio
rappresentato dal dott. ... a conoscere lo
stato della pratica relativa alla domanda di
rimborso in questione, rafforzato dalla
necessità di attivare le iniziative
finalizzate alla tutela dei diritti e dei
legittimi interessi dei condomini facenti
parte dell’…
Si rammenta che, in caso di perdurante
diniego del Comune di Lauria, l’eventuale
ricorso, trattandosi di un atto di ente
locale, potrà essere presentato al Difensore
Civico (Presidenza del Consiglio dei
Ministri, Commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta
dell'01.02.2011 - link a
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CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Accesso di consigliere comunale
a fatture di società mista partecipata dal
Comune.
Il Comune di Varallo chiede a questa
Commissione parere circa la legittimità del
diniego della richiesta di un consigliere
comunale (di minoranza) di avere copia delle
fatture emesse nel biennio 2009-2010 e del
bilancio 2009 di società mista a prevalente
partecipazione comunale (57%), “trattandosi
di atti non detenuti dal Comune ma dalla
società stessa e soprattutto in relazione al
fatto che si potrebbe ipotizzare la
violazione dei diritti del socio privato”.
Il quesito va affrontato e risolto alla luce
del disposto contenuto nell’art. 43, comma
2, del TUEL che riconosce al consigliere
comunale (e provinciale) il “diritto di
ottenere dagli uffici, rispettivamente, del
comune e della provincia, nonché dalle loro
aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie
e le informazioni in loro possesso, utili
all’espletamento del proprio mandato”.
La dizione letterale della disposizione
richiamata, sulla quale si è formata una
giurisprudenza consolidata, non lascia alcun
dubbio sul diritto del consigliere comunale
(e provinciale) ad accedere, in funzione del
proprio munus pubblico, a qualunque
documento e/o informazione relativi ad
aziende ed enti dipendenti dal Comune (o
dalla Provincia), come nel caso di specie di
società mista a prevalente capitale
pubblico.
Circa il rappresentato timore della
violazione dei diritti del socio privato, si
sottolinea come nel caso che ne occupa il
socio privato non ha una posizione giuridica
diversa dal socio pubblico quanto alla
salvaguardia della privacy -alla quale
presumibilmente vuole riferirsi la generica
espressione “diritti del socio privato”-
e che la salvaguardia della privacy è
recessiva rispetto al diritto del
consigliere comunale di vigilare sulla
correttezza dell’azione dell’amministrazione
comunale, salvo la responsabilità del
medesimo derivante da una diffusione
contra legem dei dati acquisiti
(Presidenza del Consiglio dei Ministri,
Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta
dell'01.02.2011 - link a
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ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Modalità di tutela del cittadino
in caso di inottemperanza da parte della PA
ad un parere reso dalla Commissione accesso.
L’istante, a seguito del favorevole parere
di questa Commissione, aveva richiesto
all’amministrazione comunale di Monsano (AN)
di poter accedere ai registri dello stato
civile, dei fogli di famiglia e del ruolo
matricolare. Tuttavia il Comune aveva
contestato il parere, non consentendo
l’accesso. Chiedeva pertanto se fosse
opportuno presentare un ricorso alla
Commissione sulla stessa questione.
La Commissione, esaminata la questione
prospettata dall’istante, si è già
pronunciata, rendendo il richiesto parere
nel plenum del 15.05.2010. Seppur in
astratto l’interessato ha facoltà di
proporre ricorso a questa Commissione sulla
stessa questione, tuttavia si rappresenta
sin da ora che, ai sensi dell’art. 25 della
legge n. 241 del 1990, la tutela
amministrativa avverso i dinieghi
all'accesso agli atti delle amministrazioni
comunali provinciali e regionali non rientra
nell'ambito di competenza di questa
Commissione (che decide i ricorsi contro le
amministrazioni centrali e periferiche dello
Stato) bensì del Difensore Civico.
Resta comunque salva la facoltà
dell’interessato di adire il TAR avverso sia
gli atti o i comportamenti
dell’Amministrazione che non si sia attenuta
alle indicazioni di questa Commissione
(Presidenza del Consiglio dei Ministri,
Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta
dell'01.02.2011 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Parere sul termine per la
conclusione del procedimento di accesso ai
documenti amministrativi ex lege n. 241/1990.
L’istante chiede a questa Commissione quale
sia il termine entro cui l’amministrazione,
nella specie il Genio Civile cui aveva
inoltrato una richiesta di accesso di alcuni
imprecisati atti, doveva provvedere al
rilascio dei documenti richiesti.
La Commissione premette che la risposta al
quesito è facilmente reperibile nelle FAQ (Frequently
Asked Question) consultabili sul sito
della commissione
(www.commissioneaccesso.it).
Ad ogni buon conto, rappresenta che ai sensi
dell’art. 25 della legge n. 241/1990,
qualora non sia possibile l’accoglimento
immediato della richiesta di accesso in via
informale (ex art. 5 d.P.R. n. 184/2006), il
procedimento di accesso deve concludersi nel
termine di 30 giorni decorrenti dalla
presentazione della richiesta all'ufficio
competente. L’amministrazione può rispondere
in modo positivo e permettendo così
l'accesso agli atti, sia in modo negativo,
rigettando la richiesta o facendo decorrere
inutilmente i 30 giorni che determinano la
formazione del silenzio rigetto.
Nella specie, l’interessato ha facoltà di
rivolgersi in via impugnatoria a questa
Commissione nel caso di diniego di accesso
agli atti di amministrazione centrale e
periferica statale (nei trenta giorni
successivi alla piena conoscenza del
provvedimento impugnato o alla formazione
del silenzio-rigetto amministrazione) ovvero
di adire in via giurisdizionale il Tar
competente per territorio (entro il termine
decadenziale di 30 gg.) (Presidenza del
Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta
dell'01.02.2011 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Richiesta di pagamento di
diritti di bollo sui documenti ammessi
all’accesso.
L’istante lamenta che il Comune di Mercato
San Severino ha subordinato il rilascio di
copia di documenti, attinenti ad una
procedura espropriativa, al pagamento dei
diritti di bollo, come previsto da una
delibera della G.C. del 17.11.2010 che
impone il rilascio di copie necessariamente
autenticate.
Questa Commissione ritiene che la richiesta
sia illegittima.
La previsione del rilascio esclusivo di
copie autenticate, con pagamento in forma
obbligatoria delle marche da bollo, anche
quando il soggetto che via abbia interesse
chieda copia semplice dei documenti stessi,
si pone in contrasto con l’art. 25, co. 1,
legge n. 241/1990 secondo cui “l’esame
dei documenti è gratuito. Il rilascio di
copia è subordinato soltanto al rimborso del
costo di riproduzione, salve le disposizioni
vigenti in materia di bollo, nonché i
diritti di ricerca e di visura” nonché
con la previsione di cui all’art. 7, c. 6,
del d.P.R. 12.04.2006, n. 184 che prevede: “in
ogni caso, la copia dei documenti è
rilasciata subordinatamente al pagamento
degli importi dovuti ai sensi dell'articolo
25 della legge secondo le modalità
determinate dalle singole amministrazioni.
Su richiesta dell'interessato, le copie
possono essere autenticate”.
Del resto, tali previsioni vanno integrate
con le specifiche disposizioni in materia di
bollo (ex d.P.R. n. 642/1972), come
interpretate dall’Agenzia delle Entrate, la
quale ha affermato che l’imposta di bollo
non è dovuta qualora oggetto dell’istanza di
accesso sia, oltreché l’esame degli atti,
anche il rilascio di copie semplici (non
conformi) degli stessi (Risoluzione n. 151/E
del 05.10.2001).
Nella fattispecie, poiché l’istante non ha
chiesto l’autentica delle copie rilasciate e
sussiste l’esenzione dall’imposta di bollo,
la sua istanza è sottoposta al pagamento dei
soli costi di riproduzione, di ricerca e
visura (Presidenza del Consiglio dei
Ministri, Commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta
dell'01.02.2011 - link a
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Oggetto: Accesso di consigliere comunale.
Fattispecie.
La Sig.ra ..., capogruppo consiliare nel
Comune di Verderio Inferiore, lamenta che in
occasione della predisposizione del nuovo
PGT, e della discussione per la sua
approvazione, la sua richiesta di avere
copia della relativa documentazione abbia
ricevuto il diniego della immediata messa a
disposizione (necessaria al suo gruppo per
esprimere un voto consapevole) da parte del
Sindaco, documentazione che comunque sarebbe
stata rilasciata appena tre giorni prima
della seduta consiliare previo pagamento
delle spese di riproduzione, secondo quanto
stabilito dal regolamento vigente. La stessa
capogruppo lamenta, infine, la reticenza da
parte del Sindaco nell’inserire nell’ordine
del giorno interrogazioni proposte dal suo
gruppo opponendo, per una di esse, la non
legittimazione del consigliere comunale ad
entrare nel merito dell’affidamento di
incarichi.
Il “diritto di accesso” ed il “diritto
di informazione” dei consiglieri
comunali nei confronti della P.A. trovano la
loro disciplina specifica nell’art. 43 del
d.lgs. n. 267/2000 (TU degli Enti locali)
che riconosce ai consiglieri comunali e
provinciali il “diritto di ottenere dagli
uffici, rispettivamente, del comune e della
provincia, nonché dalle loro aziende ed enti
dipendenti, tutte le notizie e le
informazioni in loro possesso, utili
all’espletamento del proprio mandato”.
Dal contenuto della citata norma si evince
il riconoscimento in capo al consigliere
comunale di un diritto dai confini più ampi
sia del diritto di accesso ai documenti
amministrativi attribuito al cittadino nei
confronti del Comune di residenza (art. 10,
T.U. enti locali) sia, più in generale, nei
confronti della P.A. quale disciplinato
dalla legge n. 241/1990.
Tale maggiore ampiezza di legittimazione è
riconosciuta in ragione del particolare
munus espletato dal consigliere
comunale, affinché questi possa valutare con
piena cognizione di causa la correttezza e
l’efficacia dell’operato
dell’Amministrazione, onde poter esprimere
un giudizio consapevole sulle questioni di
competenza della P.A., opportunamente
considerando il ruolo di garanzia
democratica e la funzione pubblicistica da
questi esercitata. A tal proposito, il
giudice amministrativo individua la
situazione giuridica in capo ai consiglieri
comunali con l’espressione “diritto
soggettivo pubblico funzionalizzato”,
vale a dire un diritto che “implica
l’esercizio di facoltà finalizzate al pieno
ed effettivo svolgimento delle funzioni
assegnate direttamente al consiglio comunale”.
A tal fine il consigliere comunale non deve
motivare la propria richiesta di
informazioni, poiché, diversamente opinando,
la P.A. si ergerebbe ad arbitro delle forme
di esercizio delle potestà pubblicistiche
dell’organo deputato all’individuazione ed
al perseguimento dei fini collettivi.
Conseguentemente, gli Uffici comunali non
hanno il potere di sindacare il nesso
intercorrente tra l’oggetto delle richieste
di informazioni avanzate da un Consigliere
comunale e le modalità di esercizio del
munus da questi espletato e tanto
meno subordinare il rilascio della
documentazione richiesta al pagamento dei
costi di riproduzione.
Quanto alle modalità del rilascio della
stessa documentazione, il consigliere
comunale deve essere messo in grado di
conoscerla tempestivamente al fine di poter
svolgere le sue funzioni con piena
cognizione di causa, tanto più quando esse
si riferiscono ad argomenti posti all’ordine
del giorno delle sedute consiliari.
In ordine, infine, all’inerzia dimostrata
dal Sindaco nell’inserimento all’ordine del
giorno di interrogazioni provenienti da un
consigliere o da un gruppo consiliare, la
Commissione può solo suggerire di far valer
nelle sedi competenti (giudice
amministrativo) l’eventuale violazione di
norme regolamentari di organizzazione dei
lavori del Consiglio comunale (Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta
dell'11.01.2011 - link a
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ATTI AMMINISTRATIVI:
Oggetto: Richiesta parere in ordine ad
istanza di accesso alla documentazione di
una pratica edilizia.
L’amministrazione comunale di Tortolì ha
ricevuto una domanda di accesso ad una
pratica edilizia relativa alla
ristrutturazione di un fabbricato da
destinare alla vendita di prodotti
alimentari. L’istanza è stata presentata dal
Sig. F.S. in qualità di amministratore di
una società del settore con la motivazione
di “accertare la conformità dei locali
alle concessioni edilizie e al rispetto
delle normative vigenti sul commercio”.
Il Comune di Tortolì chiede a questa
Commissione se sia tenuto al rilascio degli
elaborati progettuali allegati a permessi di
costruire già rilasciati ed anche a
procedimenti di autorizzazione edilizia
ancora non definiti.
Nella specie, trattandosi di atto emesso da
ente locale, si rende applicabile l’art. 10
del TUEL il quale consente un “indiscriminato”
(cioè svincolato dalla dimostrazione della
titolarità di un interesse diretto, concreto
ed attuale, così come previsto per i
soggetti interessati all’accesso a documenti
prodotti o detenuti da amministrazioni
centrali, ex art. 24, comma 1, lett. b),
della legge n. 241/1990) accesso documentale
al cittadino (diritto estensibile alle
persone giuridiche e associazioni) che sia
residente nello stesso Comune.
Nella specie, ove la società istante (e non
l’amministratore che ha presentato la
domanda) non avesse sede legale nel Comune
di Tortolì l’accesso sarebbe subordinato,
come detto, alla dimostrazione di un
interesse diretto (oltre che concreto ed
attuale) che non può configurarsi nella
generica motivazione dell’accertamento della
conformità dei locali alle norme edilizie e
a quelle vigenti nel settore del commercio.
Per quanto concerne la documentazione
afferente a procedimenti ancora in corso
-fermi restando i principi applicabili in
punto di legittimazione all’accesso come
sopra richiamati- l’amministrazione può
ricorrere al potere di differimento che gli
è consentito dall’art. 24, comma 4, legge n.
241/1990 (Presidenza del Consiglio dei
Ministri, Commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta
dell'11.01.2011 - link a
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Oggetto: Accesso di consigliere comunale
agli elenchi dei contribuenti locali e dei
cittadini morosi.
La dott.ssa ..., responsabile dell’area
entrate e tributi del Comune di Praia a
Mare, chiede se possa continuare a fornire
ad un consigliere comunale –che poi ne ha
fatto uso improprio divulgandoli anche a
mezzo stampa– elenchi di contribuenti morosi
nel pagamento dei tributi comunali, essendo,
fra l’altro, preoccupata che la reiterazione
della condotta divulgativa possa comportare
la sua stessa responsabilità nella qualità
di responsabile del trattamento dei dati.
La soluzione dei quesiti sottoposti deve
essere adottata alla luce della disposizione
contenuta nell’art. 43, comma 2, TUEL che,
nella prima parte, riconosce al consigliere
comunale il diritto di ottenere dagli uffici
comunali “tutte le notizie e le
informazioni utili all’espletamento del
proprio mandato" e, nella seconda parte
e proprio per bilanciare l’illimitato
diritto di accesso, gli impongono l’obbligo
del segreto “nei casi specificamente
determinati dalla legge”.
Ora, indipendentemente dall’inclusione della
divulgazione dei contribuenti morosi fra i
casi soggetti al segreto, sembra a questa
Commissione che gli Uffici comunali non
possano limitare in alcun caso il diritto di
accesso del consigliere comunale, ancorché
possa sussistere il pericolo della
divulgazione di dati di cui il medesimo
entri in possesso. La responsabilità di aver
messo in condizione il consigliere comunale
di conoscere dati sensibili cede di fronte
al diritto di accesso incondizionato del
medesimo, ma può essere invocata dal terzo
eventualmente danneggiato solo nei confronti
di chi (consigliere comunale) del suo
diritto ha fatto un uso contra legem
(Presidenza del Consiglio dei Ministri,
Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta
dell'11.01.2011 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Oggetto: Diritto del consigliere comunale
di minoranza di accedere agli atti
istituzionali mediante uso della posta
elettronica certificata (cd pec).
Un consigliere comunale di minoranza lamenta
che l’ente comunale, pur rilasciando copia
elettronica delle deliberazioni di consiglio
e di giunta, aveva addotto, per gli atti
preparatori, l’impossibilità di spedizione a
mezzo posta elettronica certificata,
rendendosi comunque disponibile ad altre
modalità di trasmissione (non informatica).
Tanto premesso chiede di conoscere il parere
della Commissione in ordine alla legittimità
dell’uso delle tecnologie informatiche per
l’esercizio del diritto di accesso ex art.
43 TUEL ed in particolare se possa chiedere
ed ottenere dall’amministrazione il rilascio
in formato digitale (a mezzo pec) delle
deliberazioni consiliari e di Giunta e dei
relativi atti preparatori, così da ottenere
in modo rapido ed economico la
documentazione necessaria all’espletamento
del mandato in vista delle riunioni
consiliari.
Il quesito sottoposto all’esame della
Commissione concerne una problematica
relativa all’impiego delle tecnologie
informatiche non strettamente ricompresa
nella sfera di competenza della Commissione,
che esprime pareri in materia di accesso ai
sensi dell’art. 11, co 1, lettera a) del
d.P.R. n. 184/2006 nell’esercizio della
vigilanza sull’attuazione del principio di
piena conoscibilità.
Tuttavia, posto che la questione formulata
concerne anche le modalità di esercizio del
diritto di accesso, disciplinato dall’art.
43 TUEL, la Commissione ritiene di svolgere
le seguenti considerazioni.
Preliminarmente, si osserva che, nell'ambito
del nostro ordinamento, esiste un complesso
"sistema" normativo in materia di
informatizzazione e digitalizzazione della
pubblica amministrazione, rivolta alla
promozione ed alla valorizzazione delle
risorse informatiche che semplificano lo
scambio di informazioni tra amministrazioni
nonché le modalità di accesso ai documenti.
Si pensi, in linea generale, al nuovo art.
3-bis della L. 241/1990 (introdotto dalla
legge n. 15/2005) secondo cui, per
conseguire maggiore efficienza nelle loro
attività, le amministrazioni pubbliche
incentivano l’uso della telematica nei
rapporti interni tra le diverse
amministrazioni e tra queste ed i privati.
Altri cardini della digitalizzazione della
p.a. sono costituiti dal D.lgs. n.42/2005,
sul c.d. sistema pubblico di connettività,
nonché dal regolamento sull’utilizzo della
posta elettronica certificata emanato con
d.P.R. 11.02.2005 n. 68 -che costituiscono
la base giuridica per l’attuazione del
progetto e-Government (con l’obiettivo di
implementare l’utilizzo delle tecnologie
dell’informazione e della comunicazione nei
servizi resi ai cittadini)- e dal d.lgs. n
82/2005, relativo al codice
dell’amministrazione digitale, che assicura
a cittadini e imprese il diritto di chiedere
ed ottenere l'uso delle tecnologie
telematiche (tra cui l’uso della pec) nelle
comunicazioni con le pubbliche
amministrazioni (cfr. art. 3, 4, 6) nonché
la possibilità per le singole
amministrazioni di disciplinare l'accesso
telematico a dati, documenti e procedimenti
(art. 52). Di recente, si noti l’art. 11, co.
5, d.lgs. n 150/2009 secondo cui al fine di
rendere effettivi i principi di trasparenza,
le pubbliche amministrazioni provvedono a
dare attuazione agli adempimenti relativi
alla posta elettronica certificata di cui
all’art. 16 d.lgs. n 82/2005 e 16-bis della
legge n 2/2009 nonché dell’art. 34, co. 1,
legge n. 69/2009.
Del resto, la possibilità di esercitare
l’accesso per via telematica è espressamente
prevista dall'art. 13 del regolamento di cui
al d.P.R. n. 184 del 12.04.2006, che rinvia
all’art. 38 d.P.R. n. 445/2000 per quanto
riguarda le modalità di invio telematico
delle domande e relative sottoscrizioni
nonché agli articoli 4 e 5 del d.P.R. n.
68/2005, recante disposizione per l’invio di
posta elettronica. Inoltre, le singole
amministrazioni, nell’esercizio dei poteri
organizzatori occorrenti per l'esercizio del
diritto di accesso previsto dall'art. 1,
comma 2, del suddetto d.P.R. n. 184/2006,
devono attenersi al contenuto minimo
stabilito dal successivo art. 8 dello stesso
regolamento le cui lett. c) e d) riguardano,
rispettivamente, l’ammontare dei diritti e
spese da corrispondere per il rilascio di
copie dei documenti e l’accesso ad
informazioni contenute in strumenti
informatici.
Più in particolare, per gli enti locali,
l'art. 12 d.lgs. n. 267/2000 dispone che
tali organismi esercitino i compiti
conoscitivi e informativi concernenti le
loro funzioni in modo da assicurare, anche
tramite sistemi informativo-statistici
automatizzati, la circolazione delle
conoscenze e delle informazioni fra le
amministrazioni, per consentirne, quando
prevista, la fruizione su tutto il
territorio nazionale.
In base al quadro normativo di riferimento e
alla ormai generalizzata diffusione degli
strumenti informatici presso i soggetti
pubblici e privati, questa Commissione
ritiene che l’accesso telematico “deve”
essere consentito, soprattutto ove
richiesto, non solo nei reciproci rapporti
posti in essere tra le pubbliche
amministrazioni medesime ed in quelli da
esse intrattenuti con l'utenza privata ma
anche nei rapporti tra le stesse
amministrazioni locali e i componenti eletti
nei loro organi consiliari.
Il diritto di accesso telematico va
garantito anche alla luce del generale
dovere della Pubblica Amministrazione di
ispirare la propria attività al principio di
buon andamento e conseguente economicità e
proficuità dell’azione (ex art. 97 Cost.)
nonché del principio di leale cooperazione
istituzionale tra soggetti pubblici (art.
120 Cost.).
E’ evidente, infatti, che la formazione e
l’invio di copie digitali (anziché cartacee)
degli atti amministrativi al consigliere
comunale consente non solo di risparmiare
denaro pubblico (pur a fronte dell'iniziale
investimento per le acquisizioni sia
dell'hardware che del software), ma anche
minori tempi di lavorazione delle richieste
di accesso, con più conveniente
utilizzazione del personale preposto alle
relative incombenze.
Inoltre, il principio di leale
collaborazione, che regola l’acquisizione
dei documenti tra soggetti pubblici, deve
essere estensivamente interpretato ed
applicato nell’ottica di favorire e
semplificare non solo i rapporti tra le
pubbliche amministrazioni ma anche i
rapporti interorganici nell’ambito della
singolo ente, soprattutto nel caso in cui
sia lo stesso consigliere istante che
richieda di esercitare l’accesso in via
digitale.
Pertanto, la Commissione ritiene che l'Ente
civico, nell’ambito della normale potestà
regolamentare ad esso spettante ex art. 117
Cost, abbia la possibilità di prevedere,
nelle modalità di rilascio di copia delle
deliberazioni e degli atri atti, l’uso della
tecnologia informatica, onde non
pregiudicare o appesantire l’ordinaria
attività amministrativa. Ad una disciplina
statutaria o regolamentare rinvia, del
resto, l'art. 125 TUEL a proposito delle
forme da osservarsi per la messa a
disposizione dei consiglieri dei testi delle
deliberazioni adottate dalla Giunta.
Si consideri, peraltro, che secondo la
giurisprudenza amministrativa gli Enti
Locali, al pari di tutte le pubbliche
amministrazioni, sono tenuti a curare tutti
gli adempimenti a loro carico e, quindi, a
dotarsi di tutti i mezzi (personale,
strumentazioni tecniche e materiali vari)
necessari all'assolvimento dei loro compiti
finalizzati a garantire il diritto di
accesso di cui all’art. 43, co. 2, del
T.U.E.L (cfr., su quest'ultimo punto, Cons.
Stato, Sez. V, 04.05.2004 n. 2716; cfr.
anche Cons. Stato, sez. V, 22.05.2007 n. 929
secondo cui il diritto di accesso agli atti
di un consigliere comunale non può subire
compressioni per pretese esigenze di natura
burocratica dell’Ente, tali da ostacolare
l’esercizio del suo mandato istituzionale).
Alla luce delle suesposte considerazioni, si
ritiene che l’ente comunale debba compiere
in modo responsabile ogni sforzo diligente e
tecnico per assicurare al consigliere
comunale l’esercizio del diritto di accesso
in via digitale mediante utilizzo della pec
per lo scambio di documenti e informazioni
(Presidenza del Consiglio dei Ministri,
Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta
dell'11.01.2011 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI:
Oggetto: Accesso a fatture di pagamento e
documenti di regolarità contributiva di
imprese aggiudicatarie di appalti pubblici.
L’ente civico istante espone che una società
cooperativa aveva chiesto il rilascio delle
determinazioni di aggiudicazione, delle
fatture di pagamento e relativi documenti
unici di regolarità contributiva (cd durc)
delle imprese affidatarie di appalti di
lavori comunali dall'01.05.2010 in poi. Pur
confermando l’accessibilità alle determine
di aggiudicazione (trattandosi peraltro di
atti pubblici), l’amministrazione manifesta
a questa Commissione alcune perplessità
sulla ostensione delle fatture e relativi “durc”,
stante la particolarità del tipo di
informazioni richieste.
Non risultando se la società istante abbia
partecipato o meno alle procedure di appalto
di lavori e servizi cui afferiscono i
documenti richiesti, la Commissione ritiene
che la questione prospettata vada risolta
alla stregua del doppio regime del diritto
di accesso (previsto per il cittadino
residente e non) dalla legge n. 241/1990 e
dal d.lgs. n. 267/2000.
Qualora l’istanza di accesso provenga da un
concorrente alle gare di appalto, il
partecipante ad un procedimento ha pieno
diritto ad accedere agli atti dello stesso
procedimento ai sensi dell’art. 10, legge n.
241/1990, senza necessità di dimostrare la
titolarità di un interesse diretto e
concreto e senza che la sua istanza sia
motivata, trattandosi di c.d. accesso
endoprocedimentale. L’unico limite
all’accesso è previsto dall’art. 24 della
citata legge per i documenti relativi a “interessi
industriali e commerciali” (come
peraltro confermato, in materia di
procedimenti ad evidenza pubblica, dall’art.
13 d.lgs. 163/2006 Codice dei contratti
pubblici), fatta salva comunque la
prevalenza dell’accesso ogniqualvolta la
conoscenza dei documenti sia necessaria per
curare o per difendere i propri interessi
giuridici.
Se invece l’istanza sia presentata da
soggetto estraneo alla procedura, opera
l’accesso cd “esoprocedimentale”
riconosciuto dall’art. 10, co. 1, d.lgs. n.
267/2000 ai cittadini residenti ed alle
ditte, aventi o meno personalità giuridica,
con sede legale nel territorio comunale.
Infatti, la richiamata disciplina sancisce
espressamente, ed in linea generale, per i
cittadini (ed analogamente per le società,
enti o associazioni) residenti (o aventi
sede nel comune) il principio della
pubblicità di tutti gli atti
dell’amministrazione comunale e provinciale,
ad eccezione di quelli riservati per
espressa indicazione di legge o per effetto
di una temporanea e motivata dichiarazione
del sindaco che ne vieti l’esibizione,
conformemente a quanto stabilito dal
regolamento, in quanto la loro diffusione
possa pregiudicare il diritto alla
riservatezza delle persone, dei gruppi o
delle imprese.
Nella specie, poiché la società istante ha
sede nel Comune (e dunque non rileverebbe
l’eventuale difetto di motivazione
dell’istanza) e non pare davvero che la
documentazione richiesta contenga davvero
segreti tecnici e commerciali (e cioè
fatture di pagamento e attestazioni di
regolarità nell’assolvimento degli obblighi
legislativi nei confronti degli enti
previdenziali), l’istanza di accesso deve
essere accolta (Presidenza del Consiglio dei
Ministri, Commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta
dell'11.01.2011 - link a
www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Sig. ...: denegato diritto
d’accesso.
Con e-mail del 04.11.2010 il Sig. ... ha
trasmesso una relazione, indirizzata anche
alle Autorità in indirizzo, con cui lamenta
di non aver potuto sinora esercitare, a
causa di ostacoli di varia natura oppostigli
da funzionari della Provincia di Potenza, il
diritto d’accesso ai documenti
amministrativi del progetto “Vie blu”
gestito dalla Provincia stessa, malgrado
tale diritto gli sia stato riconosciuto da
questa Commissione con parere del
04.03.2010. L’interessato chiede pertanto
un’ulteriore intervento da parte di questa
Commissione.
Al riguardo questa Commissione non può che
far presente che l’ordinamento vigente non
le attribuisce il potere di effettuare
ulteriori diretti interventi dopo
l’emissione del parere o della decisione su
ricorso amministrativo; e che pertanto la
richiesta dell’interessato non può essere
accolta.
Pur tuttavia la Commissione non può esimersi
dal rilevare che da quanto esposto
dall’interessato nell’indicata relazione
emergerebbe un quadro di sistematica
elusione del diritto d’accesso del ... e del
dovere di trasparenza dell’attività
amministrativa, in contrasto con i principi
generali sanciti rispettivamente dalla legge
n. 241/1990 e dal decreto legislativo n.
150/2009, principi che attengono entrambi al
“livello essenziale delle prestazioni
erogate dalle amministrazioni pubbliche ai
sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera
m), della Costituzione” (art. 29 della
legge n. 241/1990 ed art. 11 del decreto
legislativo n. 150/2009), e che pertanto,
per il loro rilievo di norme di diretta
integrazione della Costituzione,
costituiscono principi non derogabili da
parte della pubblica amministrazione.
Attesa pertanto l’esigenza di verificare la
fondatezza delle dichiarazioni
dell’interessato si invita il Presidente
della Provincia di Potenza a voler riferire
sulla questione, ai fini di un’eventuale
menzione di essa nella relazione annuale
sulla trasparenza della pubblica
amministrazione che questa Commissione è
tenuta a presentare alle Camere ed al
Presidente del Consiglio dei ministri, ai
sensi dell’art. 27, comma 5, della legge n.
241/1990.
La presente è inviata, per opportuna
conoscenza, anche alla Commissione per la
valutazione, la trasparenza e l’integrità
delle amministrazioni pubbliche, istituita
dal citato decreto legislativo, per le
eventuali valutazioni di competenza in
ordine ai comportamenti dei responsabili
degli uffici che hanno dato luogo alla
vicenda.
Si allega, ad ogni buon fine, copia della
relazione trasmessa dall’interessato
(Presidenza del Consiglio dei Ministri,
Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 14.12.2010
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CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Consiglieri comunali:
limitazioni all’esercizio del loro mandato
da parte del Sindaco - Quesito.
Con nota in data 11 novembre scorso il
gruppo consiliare di minoranza del Comune di
Sorianello ha fatto presente che il Sindaco
ha adottato misure atte ad ostacolare
l’esercizio del loro mandato, dal momento
che:
a) ha disposto che il diritto d’accesso dei
consiglieri comunali agli atti e alle
notizie in possesso dagli uffici comunali, e
l’eventuale estrazione di copia, possa
avvenire soltanto il giovedì dalle 8,30 alle
10,30;
b) in tali limiti, di fatto, il rapporto dei
consiglieri comunali di minoranza con gli
uffici comunali avverrebbe sempre alla
presenza o del Sindaco, o di assessori o di
consiglieri di maggioranza;
c) l’eventuale rilascio di copie sarebbe
sempre differito, entro un limite massimo di
30 giorni.
Al riguardo la Commissione osserva:
a) i consiglieri comunali hanno una
legittimazione all’accesso più ampia e non
già più ristretta di quella degli altri
cittadini. Di conseguenza, non esiste alcun
motivo per cui essi non possano acquisire
tutte le notizie ritenute necessarie anche
nel normale orario di apertura degli uffici
al pubblico. Pertanto l’arco temporale
disposto dal Sindaco per l’accesso dei
consiglieri comunali è giustificato soltanto
se inteso come periodo riservato ai
consiglieri comunali, con esclusione del
pubblico;
b) l’art. 43 del t.u. n. 267/2000 prevede
che i consiglieri comunali possano ottenere
tutte le notizie e le informazioni utili
all’espletamento del loto mandato
direttamente dagli uffici comunali. Quindi
non è richiesto né un assenso preventivo
all’accesso da parte del Sindaco né un
controllo concomitante sull’operato e sulle
dichiarazioni degli uffici da parte degli
esponenti della maggioranza; controllo
concomitante che, potendo condizionare il
comportamento degli uffici e quindi
compromettere la piena trasparenza
dell’azione amministrativa, deve ritenersi
contra legem;
c) il rilascio delle copie, ove i documenti
siano già immediatamente disponibili,
dovrebbe essere effettuato -di regola- lo
stesso giorno. In ogni caso, detto termine
non dovrebbe superare la settimana dalla
richiesta d’accesso (Presidenza del
Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 14.12.2010
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CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO:
Comune di Poggio Sannita: consiglieri
comunali: accesso ai tabulati telefonici del
Comune.
Con nota in data 08.11.2010, pervenuta il
successivo giorno 19, i consiglieri comunali
di Poggio Sannita Sigg. ..., ... e ... hanno
comunicato di avere chiesto al Sindaco
l’accesso ai tabulati telefonici di alcuni
uffici comunali e di averne ricevuto un
diniego.
Chiedono pertanto un parere di questa
Commissione sul comportamento del Sindaco.
Al riguardo, la Commissione fa presente che
vero è che i tabulati telefonici non sono
qualificabili come documenti amministrativi,
ai sensi dell’art. 22, comma 1, lett. d),
della legge n. 241/1990, dal momento che
essi costituiscono rappresentazione di
eventi materiali e non di atti detenuti
dalla Pubblica Amministrazione o di attività
da essa compiuti, ma l’art. 43 del Testo
unico degli enti locali n. 267 del 2000
attribuisce ai consiglieri comunali, in
considerazione della natura pubblica del
loro munus, non il semplice diritto
d’accesso previsto dalla legge n. 241 del
1990 ma il più ampio diritto di ottenere
dagli uffici del Comune “tutte le notizie
e le informazioni in loro possesso” che
siano utili all’esercizio del mandato dei
consiglieri stessi; con la conseguenza che
l’unico limite di tale diritto è costituito
dalla circostanza che si tratti di notizie e
di informazioni già acquisite dal Comune e
non già di notizie ed informazioni che il
Comune, a seguito della richiesta del
consigliere comunale, dovrebbe acquisire.
Si esprime pertanto il parere che il Sindaco
sia tenuto a consentire l’accesso ai
tabulati telefonici che il gestore del
servizio trasmette periodicamente al Comune
(Presidenza del Consiglio dei Ministri,
Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
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ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
OGGETTO: Accesso di organizzazione
sindacale all’organizzazione dell’orario di
lavoro del personale della Polizia
Municipale.
In data 01.10.2010 è pervenuta al Comune di
Ciriè la richiesta di accesso agli atti di
un’organizzazione sindacale del seguente
tenore: “La scrivente O.S., ai sensi
della vigente normativa, chiede le vengano
forniti tutti i dati necessari per la
verifica di una corretta applicazione dei
dispositivi contrattuali e concernenti
taluni aspetti dell’organizzazione
dell’orario di lavoro di tutto il personale
appartenente al Servizio della Polizia
Municipale.
A tal proposito si chiedono nello specifico
le bollature attestanti l’inizio e la fine
del servizio giornaliero, compresi gli
straordinari e tutte le prestazioni
lavorative effettuate a qualunque altro
titolo di ogni dipendente del succitato
Servizio a far data dall'01/01/2009.
Si chiede inoltre, per lo stesso periodo di
riferimento, il corrispettivo delle ore
straordinarie liquidate e/o messe a recupero
per ognuno, nonché la quanificazione dei
servizi ed il trattamento economico
riconosciuto per prestazione lavorativa in
giorno di riposo settimanale secondo la
disciplina dell’art. 24 CCNL 14/09/2000 e
s.m..”
In ordine all’accoglimento della richiesta
l’amministrazione comunale ha espresso le
seguenti perplessità:
1 – la richiesta sembra tendere ad un
controllo generalizzato dell’operato
dell’Ente, vietato dall’art. 24, comma 3,
della legge n. 241/1990 e s.m.i.;
2 – in alcune parti la richiesta è orientata
all’acquisizione di dati che devono essere
elaborati ad hoc dall’Ente, in quanto
non riportati in documenti amministrativi.
La vigente disciplina in tema di accesso
prevede che la legittimazione attiva spetti
a quanti “abbiano un interesse diretto,
concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto
l’accesso” (art. 22, 1° comma, legge n.
241 del 1990).
L’applicazione di tali previsioni alla
legittimazione attiva delle Organizzazioni
sindacali ha indotto il Consiglio di Stato
e, parallelamente, la Commissione (cfr.
parere del 14.01.2009), secondo un ormai
consolidato orientamento, ad affermare che
le Organizzazioni sindacali possono accedere
ai documenti amministrativi in materia di
gestione del personale solo quando l’istanza
è volta a tutelare un interesse proprio del
sindacato.
In altri termini, la giurisprudenza ha
interpretato il carattere della personalità
dell’interesse, ossia la riferibilità delle
situazioni a tutela delle quali l’interesse
è azionato concretamente ed immediatamente
alla sfera giuridica dell’istante, nel senso
che questo debba essere proprio
dell’Organizzazione e non dei singoli
associati.
Inoltre, affinché le Organizzazioni
sindacali siano legittimate è necessario che
esista un rapporto di strumentalità tra il
documento amministrativo oggetto della
richiesta e la situazione giuridica
soggettiva sostanziale di cui si è titolari,
in quanto il diritto di accesso deve essere
riferito, come si è detto, ad un interesse
proprio dell’Organizzazione sindacale.
In definitiva, le Organizzazioni sindacali,
quali soggetti rappresentativi di interessi
collettivi, non possono considerarsi
titolari di un potere generale di controllo
sull’attività amministrativa inteso come
connotato implicito dell’attività sindacale,
idoneo a consentire comunque l’accesso a
tutti i documenti amministrativi, altrimenti
si verrebbe ad estendere la latitudine dei
diritto di accesso ai documenti
amministrativi, fino a configurarlo come una
sorta di azione popolare, diretta a
consentire una forma di controllo
generalizzato sull’amministrazione (cfr.,
tra i tanti, TAR Emilia Romagna – Parma,
sentenza 10.01.2003, n. 16).
Nella fattispecie, la richiesta dell’O.S.
sembra diretta all’accertamento del rispetto
del CCNL nell’organizzazione dell’orario di
lavoro e del trattamento economico del
personale della Polizia Municipale, per cui
la motivazione che legittima all’accesso è
sussistente. Di contro, il contenuto della
richiesta e le modalità con le quali il
Comune di Ciriè dovrebbe soddisfarla
sembrano giustificare le perplessità
formulate nell’istanza di parere in quanto
effettivamente finalizzate ad un controllo
generalizzato ed implicanti un’attività
elaborativi da parte dell’amministrazione
comunale.
La richiesta dell’O.S. potrebbe,
conseguentemente, essere soddisfatta con una
informativa da parte del Comune
sull’applicazione in materia della
disciplina contenuta del CCNL corredata da
documentazione a campione di posizioni
lavorative di alcune unità di personale
ricadenti nelle fattispecie oggetto della
domanda di accesso.
Peraltro, qualora l’O.S. istante avesse sede
legale nel Comune di Ciriè, si renderebbe
applicabile l’art. 10 del TUEL, secondo il
quale l’accesso al cittadino (diritto
estensibile alle persone giuridiche e alle
associazioni) non incontra alcun limite
oggettivo per cui la richiesta pur così “invasiva”
dovrà essere accolta. Ovviamente i tempi del
rilascio della documentazione non potranno
pregiudicare lo svolgimento dell’ordinaria
attività amministrativa comunale (Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
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ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Quesito in merito alla
correttezza delle modalità di accesso ai
documenti amministrativi adottate dal Comune
di Boves (CN).
La signora ..., a seguito di una richiesta
presentata al Comune di Boves per accedere
ad alcuni atti di un concorso a cui ha
partecipato, ha chiesto il 12.10.2010 a
questa Commissione alcune delucidazioni in
merito all’esercizio del diritto di accesso,
ritenendo le modalità adottate dal Comune di
Boves non aderenti al dettato della legge
241/1990, e che, qualora così fosse, il
parere della Commissione venga trasmesso
all’Amministrazione.
In particolare la signora ... lamenta il
fatto che il Comune imponga, in caso di
richiesta di accesso a un documento, la
presentazione di due distinte istanze, una
per la sola visione e una per l’ottenimento
di copia, e riporta ad esempio quanto
accadutole l’08.09.2010, in sede di
esercizio del diritto di accesso agli atti:
avendo, dopo una rapida consultazione dei
documenti, chiesto che le venisse rilasciata
copia del materiale stesso, le è stato fatto
compilare un modulo di “Richiesta copia”
e le è stato comunicato che
l’Amministrazione avrebbe provveduto al
rilascio delle copie entro trenta giorni da
questa nuova istanza.
Non appare legittimo a questa Commissione
separare il procedimento a seguito del quale
viene concessa la visione dei documenti da
quello per ottenere l’estrazione di copia,
poiché l’esercizio del diritto di accesso
deve considerarsi unitario e comprensivo di
entrambe le modalità. Ciò emerge dalla
lettura dell’art. 25, c. 1, della legge 241
del 1990, il quale prevede che “il
diritto di accesso si esercita mediante
esame ed estrazione di copia dei documenti
amministrativi”, e dalla lettura
dell’art. 22, c. 1, lett. a), della legge
241 del 1990, il quale prevede che per
diritto di accesso deve intendersi “il
diritto degli interessati di prendere
visione ed estrarre copia di documenti
amministrativi”.
Pertanto, salvo il caso in cui sia lo stesso
accedente a voler esercitare il diritto
nella forma della sola visione del
documento, la disciplina dell’accesso
prevede l’esame e l’estrazione di copia come
modalità congiunte e ordinarie
dell’esercizio del diritto, senza richiamare
deroghe o eccezioni di sorta (cfr. ex
multis TAR Lazio, sez. III, 30.03.2006,
n. 2212).
Ciò non comporta, tuttavia, il diritto per
l’accedente alla completa contestualità di
visione e copia: va ricordato infatti che,
se tale ultima modalità del diritto di
accesso non può essere garantita
nell’immediatezza, ad esempio per la
notevole mole dei documenti chiesti,
rientrerà nelle facoltà del responsabile del
procedimento dilazionare opportunamente nel
tempo il rilascio delle copie richieste, al
fine di contemperare tale adempimento
straordinario con l’esigenza di assicurare
il normale funzionamento dell’attività
ordinaria degli uffici, fermo restando che
il diritto di accesso non può comunque
subire compressioni per pretese esigenze di
natura burocratica dell’ente, specie quando,
come nell’esempio odierno, ciò causa un
inutile aggravio di adempimenti e un
allungamento dei tempi di esercizio del
diritto (Presidenza del Consiglio dei
Ministri, Commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi,
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ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO:
Diritto di accesso di un condomino al
contenuto di una segnalazione inviata
dall’amministratore all’ASL.
Un condomino, abitante in un palazzo ove
l’amministratore pro tempore aveva segnalato
alla ASL gravi anomalie nel sistema di
evacuazione dei fumi provenienti dalle canne
fumarie collettive, riferiva di avere
inoltrato alla stessa ASL istanza di accesso
per acquisire copia della segnalazione in
quanto l’amministratore condominiale ne
aveva negato più volte il rilascio.
Sennonché, la competente ASL, pur
rilasciando copia dell’esposto, aveva
oscurato l’intestazione, la firma ed altri
particolari contenuti nella segnalazione.
Tanto premesso, l’istante chiedeva a questa
Commissione un parere per ottenere dalla ASL
la copia integrale della segnalazione fatta
dal condominio, senza le cancellature
apposte al documento.
E’ senza alcun dubbio sussistente un
interesse diretto, concreto, attuale
dell’istante ad avere copia della
segnalazione sia quale condomino, titolare
del potere di controllo sulla gestione delle
cose comuni (tra cui anche le canne fumarie
collettive di aspirazione dei fumi), sia
quale eventuale soggetto destinatario
dell’esposto in previsione di eventuali
procedimenti sanzionatori o ispettivi, tanto
che l’amministrazione ha rilasciato copia
della segnalazione al condomino istante.
In tale duplice ottica, non appaiono poi
sussistere ragioni giustificative
dell’oscuramento di alcune parti della
segnalazione (verosimilmente inerenti alle
generalità dei soggetti coinvolti),
prevalendo comunque il diritto di accesso
rispetto alla riservatezza.
Ed infatti, l’interesse alla riservatezza,
da un lato, non può essere invocato sul
contenuto e sugli autori di esposti,
segnalazioni o denunce, non costituendo
fatti circoscritti al solo autore e
all’Amministrazione competente al suo esame,
ma riguardando direttamente anche i soggetti
“denunciati”, i quali ne risultano
comunque incisi; dall’altro, essa recede
quando venga in rilievo l’accesso per le
necessità di cura e difesa degli interessi
giuridici del richiedente ai sensi dell’art.
24, co. 7, legge n. 241/1990, salvo i casi
di dati sensibili o supersensibili.
Alla luce di quanto esposto, non pare che la
p.a. possa opporre all’interessato esigenze
di riservatezza, oscurando dati inerenti il
contenuto o le generalità indicate
nell’esposto, non venendo peraltro in
apparente considerazione dati sensibili o
supersensibili (Presidenza del Consiglio dei
Ministri, Commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi,
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CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Richiesta di accesso di
consigliere comunale ad atti del Comune
inerenti il pagamento dei tributi per le
concessioni cimiteriali.
Un consigliere comunale -segnalando che
l’ente civico aveva negato l’accesso
all’elenco completo, per nominativo, delle
concessioni cimiteriali perpetue per le
quali l’amministrazione ha chiesto il
rinnovo del canone in quanto
implicherebbero, a dire
dell’amministrazione, la conoscenza di dati
riservati inaccessibili ai sensi del codice
di protezione dei dati personali approvato
con d.lgs. n. 196/2003- sottopone a questa
Commissione i seguenti quesiti al fine di
conoscere se:
1. l’accesso alle concessioni cimiteriali
rientri nell’ambito di quello previsto
dall’art. 43 TUEL;
2. l’accesso possa riguardare qualsiasi
informazione utile all’esercizio del
mandato;
3. l’istanza di accesso debba essere
motivata o necessariamente presentata per
iscritto e debbano essere indicati
specificamente gli estremi degli atti;
4. l’amministrazione possa sindacare
l’interesse del consigliere all’accesso agli
atti;
5. il diritto di accesso dei consiglieri
possa incontrare limiti per la natura
riservata delle informazioni;
6. il consigliere comunale, ai fini
dell’accesso, debba essere titolare di un
interesse diretto attuale e concreto.
Secondo un consolidato orientamento di
questa Commissione il “diritto di accesso”
ed il “diritto di informazione” dei
consiglieri comunali nei confronti della
P.A. trovano la loro disciplina specifica
nell’art. 43 del d.lgs. n. 267/2000 (TU
degli Enti locali) che riconosce ai
consiglieri comunali e provinciali il “diritto
di ottenere dagli uffici, rispettivamente,
del comune e della provincia, nonché dalle
loro aziende ed enti dipendenti, tutte le
notizie e le informazioni in loro possesso,
utili all’espletamento del proprio mandato”.
Dal contenuto della citata norma si evince
il riconoscimento in capo al consigliere
comunale di un diritto dai confini più ampi
sia del diritto di accesso ai documenti
amministrativi attribuito al cittadino nei
confronti del Comune di residenza (art. 10,
T.U. enti locali) sia, più in generale, nei
confronti della P.A. quale disciplinato
dalla legge n. 241/1990. Tale maggiore
ampiezza di legittimazione è riconosciuta in
ragione del particolare munus
espletato dal consigliere comunale, affinché
questi possa valutare con piena cognizione
di causa la correttezza e l’efficacia
dell’operato dell’Amministrazione, onde
poter esprimere un giudizio consapevole
sulle questioni di competenza della P.A.,
opportunamente considerando il ruolo di
garanzia democratica e la funzione
pubblicistica da questi esercitata (a
maggior ragione, per ovvie considerazioni,
qualora il consigliere comunale appartenga
alla minoranza, istituzionalmente deputata
allo svolgimento di compiti di controllo e
verifica dell’operato della maggioranza). A
tal proposito, il Giudice amministrativo
individua la situazione giuridica in capo ai
consiglieri comunali con l’espressione “diritto
soggettivo pubblico funzionalizzato”,
vale a dire un diritto che “implica
l’esercizio di facoltà finalizzate al pieno
ed effettivo svolgimento delle funzioni
assegnate direttamente al consiglio comunale”.
L’ampia accezione conferita al diritto di
accesso dei consiglieri comunali, tale da
involgere qualsiasi informazione ritenuta
dal richiedente utile all’espletamento del
mandato elettivo, con esclusione delle sole
richieste strumentali ed indeterminate,
svincola l’istanza sia dall’onere
motivazionale, e dunque dalla prova
dell’interesse diretto, concreto ed attuale
all’accesso ai documenti richiesti, che da
quello formale della espressione in forma
scritta, altrimenti la P.A. si ergerebbe ad
arbitro delle forme di esercizio delle
potestà pubblicistiche dell’organo deputato
all’individuazione ed al perseguimento dei
fini collettivi. Conseguentemente, gli
Uffici comunali non hanno il potere di
sindacare il nesso intercorrente tra
l’oggetto delle richieste di informazioni
avanzate da un Consigliere comunale e le
modalità di esercizio del munus da
questi espletato.
Anche il Giudice di secondo grado accredita
una nozione particolarmente lata di
informazioni utili all’espletamento del
mandato consiliare, precisando che dal
“termine "utili" contenuto nella norma in
oggetto non consegue, quindi, alcuna
limitazione al diritto di accesso dei
consiglieri comunali, bensì l’estensione di
tale diritto a qualsiasi atto ravvisato
utile all’espletamento del mandato”
(Consiglio di Stato, Sez. V, 09.10.2007, n.
5264). Né per altro verso può riconoscersi
all’Amministrazione uno spazio di sindacato
in punto all’interesse del consigliere alla
visione degli atti e all’ottenimento delle
informazioni, poiché "l’interesse del
consigliere comunale ad ottenere determinate
informazioni o copia di specifici atti
detenuti dall’amministrazione civica non si
presta, pertanto, ad alcuno scrutinio di
merito da parte degli uffici interpellati in
quanto, sul piano oggettivo, esso ha la
medesima latitudine dei compiti di indirizzo
e controllo riservati al Consiglio comunale
(al cui svolgimento è funzionale)”
(Consiglio di Stato, Sez. V, 02.09.2005, n.
4471; TAR Liguria, Sez. I, 01/07/2003, n.
827).
Nel caso di specie, le informazioni
richieste attengono formalmente
all’esercizio del mandato consiliare,
essendo esse preordinate a verificare
l’efficacia e l’imparzialità dell’azione
amministrativa in un settore particolarmente
nevralgico come quello dell’effettiva
riscossione delle imposte comunali da parte
dell’amministrazione competente (TAR
Abruzzo, 08/03/2002, sentenza n. 303); e
pertanto sono da ritenere accessibili dal
consigliere comunale.
Ed anche i dubbi che possono sorgere
riguardo alla tutela della riservatezza dei
dati richiesti dai consiglieri comunali
perdono di fondamento di fronte alla chiara
lettera del disposto normativo di cui al 2°
comma del medesimo art. 43, laddove
stabilisce che “essi sono tenuti al
segreto nei casi specificamente determinati
dalla legge” (cfr. C.d.S. n. 5879/2005;
C.d.S., Sez. V, 04.05.2004 n. 2716) nonché
di fronte alle previsioni del codice di
protezione dei dati personali che consente
il trattamento dei dati sensibili da parte
di soggetti pubblici, tra l’altro, per
funzioni di controllo e indirizzo politico,
direttamente connesse all’espletamento del
mandato elettivo (arg. ex art. 67, co. 1,
lett. a); art. 65, co. 4, lett. b). Inoltre,
le richieste di accesso ai documenti
avanzate dai Consiglieri comunali ai sensi
dell’art. 43, co. 2, d.lgs. n. 267/2000
devono rispettare il limite di carattere
generale –valido per qualsiasi richiesta di
accesso agli atti- della non genericità
della richiesta medesima, con la conseguenza
che, oltre alla necessità che l’interessato
alleghi la sua qualità, permane l’esigenza
che le istanze siano comunque formulate in
maniera specifica e dettagliata, recando
l’esatta indicazione degli estremi
identificativi degli atti e dei documenti o,
qualora siano ignoti tali estremi, almeno
degli elementi che consentano, come nella
specie è avvenuto, l’individuazione
dell’oggetto dell’accesso (cfr. C.d.S., Sez.
V, n. 4471 del 02.09.2005 e n. 6293 del
13.11.2002).
Infine, l’ampiezza del diritto di accesso
dei consiglieri comunali determina, di
riflesso, che l’accesso può in astratto
indirizzarsi, oltre che, in generale, verso
qualsiasi “notizia” o “informazione”,
soprattutto verso tutti “i documenti
amministrativi e non” formati o,
comunque, utilizzati ai fini dell’attività
amministrativa, ricomprendendo anche gli
atti istruttori interni in qualche modo
preparatori e/o propedeutici all’atto
definitivo. Al riguardo, la giurisprudenza
amministrativa –e in linea con essa quella
di questa Commissione– è consolidata
nell’ammettere, ai sensi dell’art. 22, comma
1, lett. d), della legge n. 241/1990,
l’accesso anche agli atti preparatori,
relazioni o pareri informali anche se non
hanno una autonoma rilevanza, estendendo
tale diritto anche a bozze o a brogliacci
(in questo senso, cfr., da ultimo, parere
Commissione 20.04.2009).
Si ritiene che i soprarichiamati principi
abbiano dato esauriente risposta ai quesiti
sottoposti (Presidenza del Consiglio dei
Ministri, Commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 14.12.2010
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CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO:
Consigliere comunale: rapporto diretto con
gli uffici comunali.
Con e-mail del 15.10.2010 il Sig. ...,
consigliere comunale di Montaldo Mondovì
(CN), ha comunicato a questa Commissione di
avere presentato, per l’espletamento del
proprio mandato, varie domande d’accesso a
documenti ed informazioni degli uffici
comunali e di avere ricevuto dal sindaco un
rifiuto, per la considerazione che le
domande erano indirizzate non personalmente
al sindaco, legale rappresentante
dell’amministrazione comunale, ma al
segretario comunale e agli uffici
competenti. Sulla questione l’interessato
chiede il parere di questa Commissione.
Al riguardo si fa presente che ai sensi
dell’art. 43, comma 2, del decreto
legislativo n. 267/2000 e del conforme art.
30, comma 1, del regolamento sull’accesso
del Comune di Montaldo Mondovì, i
consiglieri comunali hanno diritto di
ottenere tutti i documenti, le notizie e le
informazioni utili all’espletamento del loro
mandato “dagli uffici” comunali. La
normativa prevede quindi tra consigliere
comunale ed uffici comunali un rapporto
diretto, interno all’amministrazione
comunale.
Ne deriva che è estraneo al sistema che la
richiesta d’accesso debba essere indirizzata
personalmente al sindaco. Né a ciò osta che
il sindaco abbia la qualità di legale
rappresentante dell’amministrazione
comunale. Tale qualità, infatti, rileva
esclusivamente ai fini dei rapporti del
comune con soggetti terzi, esterni alla
struttura organizzativa comunale.
Si esprime pertanto il parere che il rifiuto
suddetto sia privo di fondamento giuridico
(Presidenza del Consiglio dei Ministri,
Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 16.11.2010
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ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO:
Diritto di accesso del cittadino. In
particolare, al bollettino di pagamento
della Tari di un terzo cittadino.
La Sig.ra ..., responsabile del Servizio
finanziario del Comune di Mamoiada,
sottopone a questa Commissione tre quesiti
del seguente tenore:
a – se un cittadino possa avere copia del
bollettino di pagamento della Tari di un
altro cittadino e, in caso positivo, se
debba essere informato il controinteressato;
b- se qualunque cittadino (anche se non
titolare di un interesse diretto, concreto
ed attuale) possa chiedere copia delle
determinazioni e dei relativi allegati
durante i 15 giorni di pubblicazione;
c – se il cittadino che abbia anche un
interesse diretto, concreto ed attuale abbia
diritto di prendere visione anche degli
allegati e se, in questo caso, si debba
tutelare la privacy o garantire la
trasparenza.
In ordine al primo quesito, questa
Commissione ha già avuto modo (cfr., parere
del 24.02.2009) di affrontare la
problematica relativa al diritto di accesso
all’elenco dei contribuenti soggetti
all’imposta sui redditi.
In quella occasione la Commissione osservava
che <<il fondamento normativo
dell’accesso in esame è da rinvenirsi
nell’art. 69 del d.P.R. 600/1973, come
modificato dall’art. 42 della legge n. 133
del 06.08.2008 (“accesso agli elenchi dei
contribuenti”). Il 1° comma del citato art.
69 prevede la pubblicazione con cadenza
annuale degli elenchi nominativi dei
contribuenti il cui reddito è stato
accertato dagli uffici delle imposte dirette
e di quelli sottoposti a controllo globale a
sorteggio.
Precedentemente alla parziale modifica
intervenuta con l’intervento legislativo del
2008, la disposizione assicurava, inoltre,
la conoscibilità da parte di chiunque di
tali elenchi al comma 6, laddove stabiliva
che gli elenchi “sono depositati per la
durata di un anno, ai fini della
consultazione da parte di chiunque, sia
presso lo stesso ufficio delle imposte, sia
presso i comuni interessati”.
Nel vigore della disposizione suddetta,
l’orientamento di questa Commissione era nel
senso che, relativamente al diritto
d’accesso ad imposte e tasse “i dati
anagrafici e gli elenchi dei contribuenti
che hanno presentato le dichiarazioni
annuali modello 740/770 ed IVA non hanno
nulla a che vedere con i documenti
amministrativi la cui accessibilità la l.
241/1990 vuole garantire e quindi esulano
dal suo ambito di applicazione”.
Il nuovo co. 6° dell’art. 69 in questione,
risultante dalla modifica apportata dal
ricordato art. 42 l. 133 del 2008,
riconduce, invece, l’accesso agli elenchi
dei contribuenti nell’ambito della
disciplina del diritto d’accesso ai
documenti amministrativi di cui alla legge
n. 241/1990, con una limitazione temporale
per l’esercizio dello stesso diritto
rispetto alla disciplina generale. Infatti,
dopo aver riaffermato che gli elenchi sono
depositati per la durata di un anno sia
presso lo stesso ufficio delle imposte, sia
presso i comuni interessati, la nuova
disposizione prevede che “…Nel predetto
periodo” (e cioè entro l’anno) “è ammessa la
visione e l’estrazione di copia degli
elenchi nei modi e con i limiti stabiliti
dalla disciplina in materia d’accesso di cui
agli artt. 22 e seguenti della legge
07.08.1990, n. 241……..”.>>
La stessa Commissione chiariva, inoltre, che
ancorché l’istanza fosse stata inoltrata ad
un Comune, esulava dallo speciale accesso
degli enti locali di cui al T.U.E.L. n. 267
del 2000, in quanto si trattava di accesso
nei confronti di atti non del Comune, bensì
dell’Agenzia delle entrate che si avvale dei
Comuni per la pubblicazione prevista
dall’art. 69 del d.P.R. 600/1973.
Nella fattispecie, invece, l’accesso è
richiesto nei confronti di un terzo
contribuente relativamente ad un tributo
locale (Tari). Il principio giuridico da
adottare in questa ipotesi per rispondere al
quesito è quello contenuto nell’art. 10,
TUEL che consente a qualsiasi cittadino di
avere conoscenza degli atti del Comune senza
limitazioni oggettive (tranne quelle imposte
con delibera sindacale) né soggettive
(l’accesso non è subordinato alla titolarità
di un interesse diretto, concreto ed
attuale, così come previsto invece per
l’accesso agli atti di amministrazioni
centrali) e pertanto a prendere non solo
visione e ad estrarre copia degli elenchi
dei contribuenti comunali, ma ad avere ogni
tipo di informazione in possesso
dell’amministrazione comunale, fra le quali
rientra certamente anche quella attinente al
pagamento del tributo locale da parte di
altro cittadino.
L’istanza, conseguentemente, deve essere
accolta riconoscendo al richiedente il
diritto all’informazione richiesta (cioè di
una risposta dell’amministrazione comunale
in ordine all’avvenuto pagamento o meno del
tributo), ma senza il rilascio di copia del
bollettino di pagamento del terzo. La
comunicazione al cittadino controinteressato
sembrerebbe opportuna, ma l’eventuale
opposizione non potrà incidere sul diritto
di accesso del richiedente nei limiti
sopraindicati.
Per quanto riguarda la legittimazione
all’accesso dei cittadini residenti, il
principio fondamentale che informa
l’orientamento consolidato della Commissione
sull’applicazione dell’art. 10, TUEL è
quello di “specialità:” il
legislatore ha, cioè, adottato una
disciplina specifica per gli enti locali
versata nel TUEL approvato con il d.lgs. n.
267/2000. Tale specialità comporta, in linea
generale, che le norme contenute nella legge
n. 241/90 si applicano al TUEL solo in via
suppletiva, ove necessario, e nei limiti in
cui siano con esso compatibile.
Nella materia che ne occupa, mentre l’art.
22, comma 1, lett. b), legge n. 241/1990
prevede che la legittimazione all’accesso
spetti soltanto ai soggetti titolari di un “interesse
diretto, concreto e attuale, corrispondente
ad una situazione tutelata e collegata al
documento al quale è chiesto l’accesso”,
l’art. 10 del TUEL non stabilisce invece
alcuna restrizione e si limita a prevedere
l’esistenza di un’area di atti (non
precisata) il cui accesso o è assolutamente
precluso per legge o è differibile (tale
essendo l’effetto pratico della necessaria
dichiarazione del Sindaco) nei casi previsti
da un apposito regolamento, a tutela della
riservatezza. Secondo la Commissione i
diversi contenuti delle due disposizioni
citate caratterizzano la specificità del
diritto di accesso dei cittadini comunali
configurandolo alla stregua di un’azione
popolare che non deve essere accompagnata né
dalla titolarità di una situazione
giuridicamente rilevante né da un’adeguata
motivazione.
Ne consegue la risposta positiva ai quesiti
sub 2 e 3, nel senso del riconoscimento del
diritto di accesso incondizionato ed
illimitato del cittadino ai documenti
indicati. La tutela della privacy va
circoscritta, secondo i principi generali,
ai dati sensibili dei terzi che riguardano
la propria sfera personale, secondo quanto
previsto dall’art. 24, comma 6, lett. d),
della legge n. 241/1990 e salva
l’operatività della salvaguardia del
successivo comma 7 (Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 16.11.2010
- link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO:
Richiesta di accesso a cartellini relativi
alla carta d’identità di un defunto.
L’istante ha rappresentato che, a fronte
della formale richiesta presentata in
qualità di erede per accedere alla copia dei
cartellini relativi alla carta d’identità
del defunto padre onde verificare
l’eventuale apposizione di firme apocrife su
atti stipulati dal proprio genitore, il
Comune aveva negato l’accesso alla predetta
documentazione, ostandovi un divieto
previsto da una specifica disposizione del
regolamento comunale.
Tanto premesso, ha chiesto a questa
Commissione di esprimere un parere sulla
legittimità del diniego di accesso,
precisando che aveva l’esigenza di tutelare
in sede giudiziaria i propri diritti di
erede -verosimilmente violati da condotte
illecite di terzi che, sottoscrivendo
falsamente contratti e documentazione
inerente i beni del proprio padre caduti poi
in successione- e che lo stesso regolamento
comunale (art. 3, co. 6) garantiva comunque
l’accesso ai documenti amministrativi per
curare o per difendere i propri interessi.
Alla stregua della situazione descritta, è
indubbio che l’istante vanti un interesse
diretto, concreto ed attuale ad accedere ai
documenti richiesti (e di ciò non pare
dubitare nemmeno l’amministrazione
comunale), in considerazione dell’esigenza
di curare il suo interesse giuridicamente
rilevante dedotto, esigenza cui
l’ordinamento giuridico attribuisce una
consistenza tale da garantire comunque
l’accesso in questione, ex art. 24, co. 7,
della legge n. 241/1990, come del resto
risulta ribadito dal regolamento comunale,
secondo cui “deve comunque essere
garantito ai richiedenti l’accesso ai
documenti amministrativi la cui conoscenza
sia necessaria per curare o per difendere i
propri interessi giuridici” (Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 16.11.2010
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CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO:
Diritto di accesso dei consiglieri comunali
ai dati anagrafici di cittadini.
Il Comune di Valle Aurina, a fronte di
richieste di accesso ai dati anagrafici dei
cittadini pervenute da strutture locali
(come il coro, la chiesa, l’orchestra, i
vigili del fuoco, ect.) per la promozione di
manifestazioni o eventi culturali o
ricreativi, ha chiesto a questa Commissione
di conoscere:
-) se i consiglieri comunali possano
accedere ai dati anagrafici dei cittadini
comunali, avvalendosi della generale
prerogativa loro riconosciuta dall’art. 43
d.lgs. n. 267/2000 ovvero se tale diritto
sia limitato dalla disciplina sulla tenuta
degli atti anagrafici ex art. 34 d.P.R. n.
223/1989 che consente la comunicazione degli
elenchi della popolazione residente
esclusivamente ad altre pubbliche
amministrazioni per usi di pubblica utilità
o per fini statistici e di ricerca;
-) se il responsabile dell'ufficio
anagrafico -responsabile del trattamento dei
dati personali ai sensi del d.lgs. 196/2003-
possa essere soggetto a sanzioni nel caso il
consigliere comunale divulghi i dati ai
terzi interessati a conoscere i dati
anagrafici dei cittadini.
A parere di questa Commissione i quesiti
formulati coinvolgono diverse problematiche
tra cui indubbiamente:
1) la compatibilità tra il trattamento dei
dati personali, operazione rientrante
nell’area disciplinata dal d.lgs. n.
196/2003 (Codice in materia di protezione di
dati personali), ed il diritto di
informazione del consigliere comunale e
provinciale previsto dall’art. 43 del TUEL,
tenuto conto che l’art. 59 d.lgs. n.
196/2003 fa salve espressamente le
disposizioni di legge in materia di accesso
ai documenti amministrativi contenenti dati
personali e quindi giustificherebbe la
trasmissione di dati personali al
consigliere comunale e provinciale alla luce
della specifica disposizione dell’art. 43,
co. 2, TUEL;
2) la coerenza dei limiti posti al
trattamento dei dati personali, essendo
richiesto che questi ultimi siano “raccolti
e registrati per scopi determinati”
(art. 11, comma 1, lett. b), rispetto alla
ampiezza del diritto all’informazione dei
consiglieri che parrebbe configurare una
sorta di controllo generalizzato. Tuttavia,
se il trattamento dei dati personali da
parte di soggetti pubblici è consentito
soltanto per lo svolgimento di funzioni
istituzionali (art. 18 co. 2 d.lgs. n.
196/2003) e nel rispetto dei principi di
pertinenza (art. 11, co. 1, lett. d), d.lgs.
cit.), allora ai consiglieri comunali e
provinciali dovrebbe essere consentito
l’accesso ai dati personali nella misura in
cui siano pertinenti ed utili effettivamente
allo svolgimento dei loro compiti, spettando
comunque alle Amministrazioni interessate
accertare se la richiesta di accesso sia
effettivamente funzionale al mandato
politico del consigliere;
3) il coordinamento tra il diritto dei
consiglieri comunali ad ottenere la
trasmissione dei dati personali dei
cittadini con i limiti posti dalla speciale
disciplina di cui all’art. 34 d.P.R.
223/1989 che consente l’uso di intere basi
dati anagrafici alle sole amministrazioni
pubbliche (ed al Comune per fini di
comunicazione istituzionale ex art. 177
d.lgs. n. 196/2003) e per esclusivo uso di
pubblica utilità, potendo detta disposizione
escludere gli amministratori locali o i
titolari di cariche elettive dall’uso di
tali elenchi di dati anagrafici per scopi
culturali o ricreativi.
Al riguardo, il Garante per la protezione
dei dati personali, per quanto noto, è già
intervenuto in altre occasioni sull’utilizzo
dei dati anagrafici da parte dei consiglieri
comunali (cfr tra gli altri, pareri del
12.02.2004; 20.05.1998; 08.02.2001,
07.03.2001 e da ultimo, parere 06.04.2010
reso dopo l’entrata in vigore del Codice di
protezione dei dati personali).
Tuttavia, posto che le questioni oggi
enucleate ineriscono ad una fattispecie
diversa da quelle affrontate dal Garante, la
Commissione ritiene opportuno acquisire in
proposito l’attuale parere del Garante per
la protezione dei dati personali, in
applicazione dei principi stabiliti
dall’art. 25, co. 4, della legge 241/1990
(Presidenza del Consiglio dei Ministri,
Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 16.11.2010
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CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO:
ASP Bruno Pai di Ostiano (CR): accesso
consiglieri comunali di Ostiano.
Con e-mail del 27.09.2010 l’ASP Bruno Pai di
Ostiano (CR), premesso di essere gestita da
un Consiglio di amministrazione composto da
cinque membri, di cui tre nominati dal
Comune di Ostiano e due nominati dalla
Regione Lombardia, ha riferito che due
consiglieri comunali di Ostiano, dichiarando
di agire “per espletamento del proprio
mandato elettorale”, hanno
rispettivamente chiesto copia di tutti i
bilanci dell’Ente a partire dall’anno 2000 e
tutte le deliberazioni dell’Ente a partire
dall’anno 2009.
Ciò premesso l’Azienda chiede se, a parere
di questa Commissione, i consiglieri
comunali di Ostiano:
1) possano esercitare nei confronti dell’ASP
gli speciali poteri d’accesso loro
attribuiti dall’art. 43 del decreto
legislativo n. 267/2000;
2) siano tenuti a corrispondere le somme
previste per il rilascio delle copie.
Preliminarmente, la Commissione rileva che
l'estensione del diritto di accesso
riconosciuto ai consiglieri comunali è
particolarmente ampia, dal momento che, a
norma del citato articolo 43, comprende
tutti i documenti amministrativi e tutte le
informazioni utili allo svolgimento del
mandato, senza necessità che venga indicata
una specifica motivazione; in caso contrario
l’Amministrazione comunale si ergerebbe ad
arbitro delle forme di esercizio delle
potestà pubblicistiche dell'organo deputato
all’individuazione ed al perseguimento dei
fini collettivi (Consiglio di Stato, Sez. V,
02/09/2005, n. 4471; TAR Liguria - Sez. I,
01/07/2003, n. 827).
Nel caso di specie le informazioni richieste
attengono formalmente all'esercizio del
mandato consiliare, essendo esse preordinate
a verificare l'efficacia e l'imparzialità
dell'azione amministrativa in un settore
particolarmente nevralgico qual è quello
della salute pubblica e privata.
Ciò premesso la Commissione osserva che il
citato articolo prevede che i consiglieri
comunali e provinciali hanno diritto di
ottenere non solo dai rispettivi uffici ma
anche “dalle loro aziende ed enti
dipendenti” tutte le notizie e le
informazioni utili all’espletamento del loro
mandato. Ora nel concetto di “enti
dipendenti” dal Comune rientrano
sicuramente non solo le aziende di cui il
Comune è esclusivo titolare ma anche le
aziende delle quali il Comune abbia –come
nel caso in esame- l’effettivo controllo.
Deve quindi ritenersi che i consiglieri
comunali di Ostiano abbiano diritto di
ottenere il chiesto accesso.
In proposito si precisa che, trattandosi di
accesso esercitato per l’adempimento di una
pubblica funzione e non per fini personali,
i richiedenti non sono tenuti a
corrispondere alcuna somma per il rilascio
delle copie (Presidenza del Consiglio dei
Ministri, Commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 26.10.2010
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ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO:
Pubblicazione su internet di atti del
consiglio e della giunta comunale.
Il Comune di Origgio, nella prospettiva di
modificare il proprio “Regolamento per il
funzionamento del Consiglio comunale”,
chiede a questa Commissione il parere circa
gli effetti sulla tutela della privacy della
pubblicazione su Internet dei testi delle
deliberazioni di Consiglio e di Giunta
comunali e della registrazione delle sedute
consiliari.
Innanzitutto, in ordine alla possibilità di
pubblicare in Internet tutte le
deliberazioni adottate dal Comune, la
normativa attualmente vigente non pone alcun
limite, se non quelli stabiliti dall’art.
24, L. n. 241/1990 che esclude dall’accesso
alcuni specifici documenti per motivi di
segretezza. Anzi, la più recente
legislazione (art. 11, d.lgs. n. 150/2009)
favorisce ed amplia la trasparenza
“intesa come accessibilità totale, anche
attraverso lo strumento della pubblicazione
sui siti istituzionali delle amministrazioni
pubbliche”.
E’ evidente che la decisione di pubblicare
su Internet i testi delle deliberazioni di
Consiglio e Giunta comunali e delle
registrazioni delle rispettive sedute può
andare incontro ai prospettati problemi di
tutela della riservatezza sia dei
consiglieri comunali (per il contenuto dei
loro interventi) che dei terzi destinatari o
indicati nelle deliberazioni (per i dati
sensibili personali esternalizzati).
Ove decidesse di mantenere ferma questa
iniziativa, il Comune potrebbe valutare la
possibilità di disciplinare in maniera
diversa la “pubblicizzazione” a
seconda della tipologia dell’atto che si
vuole esternare, cioè del suo contenuto
obiettivo.
La pubblicazione informatica degli atti di
interesse generale, che investono nel loro
complesso la comunità amministrata, non
dovrebbe generare problemi di tutela di
riservatezza, coincidendo tale tipologia di
atti con quelli generalmente esposti
nell’albo pretorio che contiene, come è
noto, gli atti destinati per legge,
regolamento o disposizione comunale, alla
conoscenza pubblica e che una recente norma
(art. 32, L. n. 69/2009) espressamente
impone anche per gli atti e provvedimenti
amministrativi la cui pubblicazione ha
effetto di pubblicità legale (l’albo
pretorio informatico è già utilizzato dai
Comuni).
Per gli atti a destinazione individuale sui
quali la potestà amministrativa incide nella
sfera giuridica del singolo cittadino
positivamente (concessioni, autorizzazioni)
o negativamente (espropriazioni,
occupazioni), non sembrano presentarsi
particolari problemi di riservatezza –quanto
al contenuto- scaturendo essi da
procedimenti amministrativi tipici con
presenza del contraddittorio (e di
controinteressati).
Per quanto riguarda, infine, la residua
categoria dei provvedimenti individuali
basati per lo più sulla titolarità di
requisiti soggettivi personali la tutela
della riservatezza acquista una funzione più
pregnante e più delicata proprio per la
esposizione di dati più sensibili che
bisognerebbe preservare dalla conoscenza
diffusa e libera quale è quella della rete
telematica.
Ovviamente, per le tre le tipologie di atti
sopra sinteticamente delineati il rischio di
affievolire la tutela della riservatezza
mediante l’accesso diretto al contenuto
degli interventi dei consiglieri comunali è
maggiore indistintamente per tutte.
Premesse tali considerazioni di ordine
generale, questa Commissione ritiene che un
più approfondito parere potrebbe essere
fornito dall’Autorità garante della Privacy,
che avrà certamente affrontato le
problematiche legate alla diffusione dei
dati via Internet e alla quale la richiesta
di parere risulta già indirizzata
(Presidenza del Consiglio dei Ministri,
Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 26.10.2010
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ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO:
Richiesta di accesso di un cittadino agli
atti della protezione civile.
L’istante, in qualità di cittadino del
comune di Villa Santa Lucia, ha lamentato
che l’ente civico aveva negato l’accesso ad
alcuni documenti (in particolare concernenti
delibere e regolamenti istitutivi della
protezione civile locale) ed informazioni
(tra l’altro, inerenti ai mezzi in
dotazione, sui nominativi dei responsabili
del controllo dei mezzi, sugli iscritti alla
protezione e sulla rendicontazione
dell’attività), difettando -a dire
dell’amministrazione- un interesse diretto,
concreto ed attuale ai sensi della legge n.
241/1990. Tanto premesso, ha chiesto a
questa Commissione di conoscere se il
diniego fosse illegittimo alla stregua del
diverso diritto sancito dall’art. 10 d.lgs.
n. 267/2000.
Ciò posto, la questione prospettata deve
essere necessariamente affrontata alla
stregua del doppio regime di accesso
(previsto per il cittadino residente e non)
sia quanto alla sussistenza dell’interesse
qualificato all’accesso sia quanto alla
possibilità del cittadino di accedere anche
a mere informazioni.
Quanto al primo aspetto, secondo
l’orientamento consolidato della
Commissione, il diritto di accesso agli atti
degli enti locali del cittadino-residente ex
art. 10 d.lgs. n. 267/2000 non è
condizionato (diversamente da quanto l’art.
22, comma 1, lett. b, legge n. 241/1990
prescrive per l’accesso ai documenti di
amministrazioni centrali dello Stato) alla
titolarità in capo al soggetto accedente di
una situazione giuridica differenziata,
atteso che l’esercizio di tale diritto è
equiparabile all’attivazione di un’azione
popolare finalizzata ad una più efficace e
diretta partecipazione del cittadino
all’attività amministrativa dell’ente locale
e alla realizzazione di un più immanente
controllo sulla legalità dell’azione
amministrativa.
Non è, dunque, possibile subordinare il
diritto di accesso del cittadino-residente
alla dimostrazione della titolarità di un
interesse giuridicamente rilevante. Nel caso
contrario, ossia qualora l’istante non fosse
cittadino residente, l’accesso potrà essere
consentito previa dimostrazione della
titolarità di una situazione giuridicamente
rilevante e sufficientemente qualificata ex
art. 22, co. 1, lett. b, della legge n.
241/1990.
Quanto al secondo aspetto, seppur la
speciale disciplina prevista dall’art. 10
del d.lgs. n. 267/2000 consenta al cittadino
l’accesso anche alle informazioni di cui è
in possesso l’amministrazione, tuttavia alla
stregua della consolidata giurisprudenza
amministrativa è possibile negare l’accesso
allorché la richiesta comporti per
l’amministrazione, come emerge dal tenore
dell’istanza di accesso in esame, un’opera
di elaborazione dei dati in suo possesso al
fine di soddisfare le richieste di accesso
(TAR Sicilia Catania, Sez. IV, 03.05.2008,
n. 715; TAR Marche Ancona Sez. I Sent.,
10-12-2008, n. 2096).
Da tali premesse, si può concludere come
alla stregua dell’art. 10 d.lgs. n. 267/2000
l’istanza di accesso debba essere accolta
solo in parte, rendendo disponibile la
documentazione inerente le delibere di
giunta ed i regolamenti comunali sulla
protezione civile (che peraltro dovrebbe
risultare già pubblicata) ma non anche le
restanti informazioni oggetto dell’istanza,
estranee all’ambito oggettivo dell’accesso
del cittadino residente (Presidenza del
Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 26.10.2010
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ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO:
Comunicazione del nominativo di autore di un
esposto.
A fronte di un’istanza di accesso presentata
al Comune di Trecate da parte del
proprietario di alcuni cani per conoscere le
generalità di chi aveva inoltrato una
segnalazione, da cui era stata avviata una
successiva verifica circa il preteso
disturbo della quiete pubblica e del riposo
derivante dal continuo abbaiare dei cani, il
Comando Polizia Municipale ha chiesto a
questa Commissione di sapere se possa dare
riscontro negativo a detta richiesta,
evitando di comunicare il nominativo
dell’autore dell’esposto.
L’ente istante ha precisato, altresì, che
l’accedente intende tutelare la propria
reputazione asseritamente lesa dalla
segnalazione, mentre il denunciante si è
opposto all’accesso, asserendo di temere
eventuali ritorsioni a danno della propria
incolumità.
La Commissione ribadisce il costante
orientamento giurisprudenziale secondo cui
il diritto alla riservatezza non può essere
invocato quando la richiesta di accesso ha
per oggetto, come nella presente
fattispecie, il nome di coloro che hanno
reso segnalazioni, denunce o rapporti
informativi nell’ambito di un procedimento
ispettivo (cfr., C.d.S. Sez. V, 27.05.2008
n. 2511; Sez. VI, 23.10.2007 n. 5569; Sez.
VI, 25.06.2007 n. 3601; Sez. VI, 12.04.2007,
n. 1699; Sez. V, 22.06.1998 n. 923; Ad. Plen.
04.02.1997 n. 5; cfr anche TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I, 29.10.2008 n.
1469).
Ed infatti, ai sensi dell’art. 24 della
legge n. 241 del 1990, nel testo novellato,
al comma 7, "deve comunque essere
garantito ai richiedenti l’accesso ai
documenti amministrativi la cui conoscenza
sia necessaria per curare o per difendere i
propri interessi giuridici. Nel caso di
documenti contenenti dati sensibili e
giudiziari, l’accesso è consentito nei
limiti in sia strettamente indispensabile e
nei termini previsti dall’art. 60 del
decreto legislativo 30.06.2003, n. 196, in
caso di dati idonei a rivelare lo stato di
salute e la vita sessuale".
Nel caso in esame, l’istanza di accesso è
diretta a conoscere le generalità di chi ha
effettuato la segnalazione al Comune,
segnalazione da cui è scaturita la
successiva verifica da parte degli uffici
comunali delle lamentele circa il disturbo
della quiete pubblica derivanti dai latrati
dei cani.
Non venendo quindi in rilievo i dati
sensibili o supersensibili di cui al
menzionato art. 60, sono irrilevanti i
timori manifestati dall’opponente di esporsi
ad eventuali azioni ritorsive, con la
conseguenza che deve essere riconosciuto
l’accesso al nominativo del denunciante
(Presidenza del Consiglio dei Ministri,
Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 26.10.2010
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CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO:
Accesso dei consiglieri comunali agli atti
di Società controllate.
Con nota n. 16922 del 19.08.2010 il Sindaco
di Castiglione dello Stiviere ha fatto
presente che il Comune è unico socio di una
S.r.l., che a sua volta è socia di
maggioranza di una seconda S.r.l. che opera
in campo ambientale e non ha rapporti
diretti con il Comune. Ciò premesso il
Sindaco ha chiesto di conoscere se, a parere
di questa Commissione, i consiglieri
comunali di Castiglione dello Stiviere
abbiano diritto di ottenere da tale seconda
Società le notizie e le informazioni
previste dall’art. 43, comma 2, del decreto
legislativo n. 267/2000.
Al riguardo si osserva che il citato
articolo prevede che i consiglieri comunali
e provinciali hanno diritto di ottenere dai
rispettivi uffici “nonché dalle loro
aziende ed enti dipendenti” tutte le
notizie e le informazioni utili
all’espletamento del loro mandato. Ora nel
concetto di “enti dipendenti” dal Comune
rientra sicuramente non solo la Società di
cui il Comune è unico socio ma anche la
Società alla quale il Comune abbia
esternalizzato proprie funzioni e della
quale abbia di diritto –come nel caso in
esame– o di fatto l’effettivo controllo.
Deve quindi ritenersi che i consiglieri
comunali di Castiglione delle Stiviere
abbiano a loro volta diritto di accedere
agli atti ed alle informazioni della Società
in questione, irrilevante restando la
circostanza che formalmente i rapporti tra
il Comune e quest’ultima non siano diretti
ma mediati dall’interposizione di un’altra
Società (Presidenza del Consiglio dei
Ministri, Commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 12.10.2010
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ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
OGGETTO: Accesso agli atti della
procedura di progressione economica
orizzontale.
Con nota del 30.07.2010 n. 0022686, il
Comando della Polizia Municipale di Caserta
ha comunicato che un proprio dipendente, che
aveva partecipato ad una procedura per
l’attribuzione della progressione economica
orizzontale per il 2009, risultando non
utilmente collocato in graduatoria, ha
chiesto l’accesso agli atti della procedura
stessa, ed in particolare alle schede di
valutazione di tutti i concorrenti collocati
in posizione utile.
Tale domanda è stata respinta, perché
ritenuta preordinata ad un controllo
generalizzato dell’operato
dell’Amministrazione. Sulla questione viene
chiesto il parere di questa Commissione,
facendo presente che la questione è stata
sottoposta al Difensore Civico (senza
peraltro precisare se ciò sia avvenuto
mediante formale ricorso, ai sensi dell’art.
25 della legge n. 241/1990, ovvero mediante
semplice richiesta di parere).
Al riguardo la Commissione osserva, in via
preliminare, che se la questione ha formato
oggetto di apposito ricorso al Difensore
Civico questa Commissione non ha alcuna
competenza per intervenire, poiché le
controversie in materia di accesso ad atti
comunali sono di esclusiva competenza del
Difensore Civico.
Se invece al Difensore Civico è stato
richiesto un semplice parere ciò non
preclude a questa Commissione di esprimere
il proprio avviso, nei seguenti termini. In
casi analoghi è stato costantemente ritenuto
che, trattandosi di accesso procedimentale,
ai sensi dell’art. 10 della legge n.
241/1990, l’interessato abbia diritto di
ottenere copia dei documenti della
procedura, ed in particolare delle schede
valutative dei concorrenti utilmente
graduati, dal momento che questi ultimi,
partecipando ad una selezione pubblica,
hanno implicitamente accettato che i loro
dati personali esposti nella graduatoria
stessa potessero essere resi conoscibili da
tutti gli altri concorrenti a ciò
interessati (quali sono senza dubbio i
concorrenti non utilmente graduati).
Né in ciò può ravvisarsi un controllo
generalizzato dell’attività della pubblica
Amministrazione, dal momento che in tali
casi l’accesso concerne i documenti
amministrativi di un singolo specifico
procedimento e non la generale attività
dell’Amministrazione (Presidenza del
Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 12.10.2010
- link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO:
Accesso a graduatoria interna per
progressione orizzontale.
Con e-mail del 22.08.2010, la Sig.ra ...,
dipendente comunale, premesso di avere
partecipato ad una selezione interna per
progressione orizzontale e di avere poi
chiesto copia della relativa graduatoria,
ottenendone un rifiuto, chiede se a parere
di questa Commissione:
1) possa inoltrare domanda di riesame al
Comune;
2) tutti gli altri partecipanti collocati in
graduatoria debbano ritenersi
controinteressati, dal momento che la
graduatoria espone i loro dati personali, e
debbano quindi essere preventivamente
invitati a comunicare la loro eventuale
opposizione.
Al riguardo la Commissione ritiene:
1) che l’interessato all’accesso, in caso di
rifiuto da parte dell’Amministrazione, possa
presentare domanda di riesame. Va però
tenuto presente, in primo luogo, che
l’Amministrazione, qualora tale domanda non
sia fondata su circostanze o interessi già
rappresentati nell’originaria domanda
d’accesso, non è tenuta a provvedere e, in
secondo luogo, che la domanda di riesame non
sospende né interrompe il termine stabilito
dall’art. 25, comma 4, della legge n.
241/1990 per proporre ricorso al difensore
civico, sicché l’interessato potrebbe
consumare inutilmente il termine per
proporre tale ricorso;
2) che, trattandosi di accesso
endoprocedimentale, ai sensi dell’art. 10,
della legge n. 241/1990 l’interessato abbia
diritto di ottenere copia della chiesta
graduatoria senza alcun necessità di una
preventiva notifica agli altri graduati, dal
momento che questi ultimi, partecipando ad
una selezione pubblica, hanno implicitamente
accettato che i loro dati personali esposti
nella graduatoria stessa potessero essere
resi conoscibili da tutti gli altri
concorrenti a ciò interessati (Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 12.10.2010
- link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO:
Richiesta di parere concernente l’accesso al
registro di protocollo da parte di un
consigliere comunale.
Con nota pervenuta il 09.09.2010 l’Arch.
..., capogruppo di minoranza del consiglio
comunale di Melizzano, ha rappresentato che
l’ente aveva negato l’accesso al protocollo
entrata/uscita dal 18.12.2009
all’11.01.2010. Chiede pertanto un parere a
questa Commissione sulla legittimità del
diniego in quanto lesivo delle prerogative
in materia d’accesso stabilite per i
consiglieri comunali.
La Commissione osserva, anzitutto, che il
Comune non pare abbia negato il diritto del
consigliere all’accesso al protocollo ma
anzi ha comunicato la possibilità di
accedere negli orari previsti dal
regolamento prendendo visione e richiedendo
copia degli atti.
Semmai, a fronte delle considerazioni
aggiuntive formulate in linea generale
dall’ente comunale sia sull’inammissibilità
di richieste che si traducano in eccessivo e
minuzioso controllo degli atti, determinando
la paralisi dell’attività amministrativa,
sia sulla necessità che il consigliere
comunale debba essere portatore di un
interesse diretto, concreto ed attuale,
questa Commissione ritiene di rammentare i
consolidati principi che regolano il diritto
di accesso dei consiglieri.
Il “diritto di accesso” ed il “diritto di
informazione” dei consiglieri comunali
nei confronti della P.A. trovano la loro
disciplina specifica nell’art. 43 del d.lgs.
n. 267/2000 (T.U. degli Enti locali) che
riconosce ai consiglieri comunali e
provinciali il “diritto di ottenere dagli
uffici, rispettivamente, del comune e della
provincia, nonché dalle loro aziende ed enti
dipendenti, tutte le notizie e le
informazioni in loro possesso, utili
all’espletamento del proprio mandato”.
Dal contenuto della citata norma si evince
il riconoscimento in capo al consigliere
comunale di un diritto dai confini più ampi
sia del diritto di accesso ai documenti
amministrativi attribuito al cittadino nei
confronti del Comune di residenza (art. 10,
T.U. Enti locali) sia, più in generale, nei
confronti della P.A. quale disciplinato
dalla legge n. 241/1990.
Tale maggiore ampiezza di legittimazione è
riconosciuta in ragione del particolare
munus espletato dal consigliere
comunale, affinché questi possa valutare con
piena cognizione di causa la correttezza e
l’efficacia dell’operato
dell’Amministrazione, onde poter esprimere
un giudizio consapevole sulle questioni di
competenza della P.A., opportunamente
considerando il ruolo di garanzia
democratica e la funzione pubblicistica da
questi esercitata (a maggior ragione, per
ovvie considerazioni, qualora il consigliere
comunale appartenga alla minoranza,
istituzionalmente deputata allo svolgimento
di compiti di controllo e verifica
dell’operato della maggioranza).
A tal fine il consigliere comunale non deve
motivare la propria richiesta di
informazioni, poiché, diversamente opinando,
la P.A. si ergerebbe ad arbitro delle forme
di esercizio delle potestà pubblicistiche
dell’organo deputato all’individuazione ed
al perseguimento dei fini collettivi.
Conseguentemente, gli Uffici comunali non
hanno il potere di sindacare il nesso
intercorrente tra l’oggetto delle richieste
di informazioni avanzate da un Consigliere
comunale e le modalità di esercizio del
munus da questi espletato.
In tale ottica, non appare compatibile con
l’art. 43 TUEL la disciplina di cui all’art.
22 della legge n. 241/1990 nel quale si fa
riferimento alla titolarità di un interesse
diretto, concreto ed attuale quale requisito
soggettivo per avere diritto all’accesso e
ai poteri dell’amministrazione di accertare
la presenza di tale condizione.
Infatti, “ogni limitazione all’esercizio
previsto dall’art. 43 interferisce
inevitabilmente con la potestà istituzionale
del consigliere comunali di sindacare la
gestione dell’ente onde assicurarne –in uno
con la trasparenza e la piena democraticità–
anche il buon andamento”.
Anche per quanto riguarda le modalità di
accesso alle informazioni e alla
documentazione richieste dal consigliere
comunale, costituisce principio
giurisprudenziale consolidato (cfr., fra le
molte, C.d.S., Sez. V, 22.05.2007 n. 929)
quello secondo cui il diritto di accesso
agli atti di un consigliere comunale non può
subire compressioni per pretese esigenze di
natura burocratica dell’Ente, tali da
ostacolare l’esercizio del suo mandato
istituzionale, con l’unico limite di poter
esaudire la richiesta (qualora essa sia di
una certa gravosità) secondo i tempi
necessari per non determinare interruzione
alle altre attività di tipo corrente e ciò
in ragione del fatto che il consigliere
comunale non può abusare del diritto
all’informazione riconosciutogli
dall’ordinamento pregiudicando la corretta
funzionalità amministrativa dell’ente civico
con richieste non contenute entro i limiti
della proporzionalità e della
ragionevolezza.
La non specificità della richiesta (che,
peraltro, riguarda il registro di protocollo
inerente ad un periodo di tempo delimitato)
e la gravosità della stessa (riguardando del
resto gli atti in entrata e in uscita
inerenti un brevissimo lasso di tempo dal
18.12.2009 all’11.01.2010) non costituiscono
validi motivi per limitare il diritto di
accesso in esame (Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 12.10.2010
- link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO:
Richiesta di parere concernente l’accesso
all’elenco delle determine di vari settori
del Comune da parte di Consiglieri comunali.
Con nota pervenuta il 09.09.2010, l’Arch.
..., capogruppo di minoranza del consiglio
comunale di Melizzano, ha rappresentato che
l’ente comunale:
a) aveva negato l’accesso all’elenco delle
determine di vari settori del Comune
dall’anno 2005 sino ad oggi, in quanto
riguardanti atti adottati precedentemente
alla elezione del consigliere;
b) aveva svolto considerazioni generali sia
sull’inammissibilità di richieste dei
consiglieri che si traducano in eccessivo e
minuzioso controllo degli atti sia sulla
necessità che il consigliere comunale debba
essere portatore di un interesse diretto,
concreto ed attuale.
Pertanto, l’istante ha chiesto a questa
Commissione un parere sulla condotta tenuta
dal Comune, ritenendo illegittimo il
comportamento descritto ai precedenti punti
sub a) e b) poiché lesivo delle prerogative
in materia d’accesso stabilite per i
consiglieri comunali.
Quanto al primo punto, si ricorda che non
v’è alcuna valida ragione per comprimere il
diritto di accesso dei consiglieri comunali
quando la richiesta riguardi atti relativi
ad anni precedenti l’elezione alla carica
poiché, secondo la giurisprudenza
consolidata e le precedenti pronunce di
questa Commissione (cfr in senso conforme
plenum 22.09.2009), le richieste di accesso
agli atti del Comune formulate dai
consiglieri comunali, qualora rientrino
nelle facoltà di esercizio del loro munus,
non possono essere irragionevolmente
limitate, attesa l’ampiezza del diritto di
accesso riconosciuto al consigliere
dall’art. 43 del d.lgs. 18.08.2000.
Quanto al secondo punto, la Commissione, nel
ribadire i principi generali espressi in
materia di accesso dei consiglieri comunali,
ritiene che:
1) ancorché anche le richieste di accesso ai
documenti avanzate dai Consiglieri comunali
ai sensi dell'art. 43, co. 2, d.lgs. n.
267/2000 debbano rispettare il limite di
carattere generale –valido per qualsiasi
richiesta di accesso agli atti– della non
genericità della richiesta medesima (cfr.
C.d.S., Sez. V, n. 4471 del 02.09.2005 e n.
6293 del 13.11.2002), nella fattispecie
l’istanza non appare inammissibile per
genericità atteso che il registro generale
di protocollo costituisce di per sé
documento autonomo –come tale suscettibile
di accesso– dalla lettura del quale il
consigliere comunale potrà acquisire tutte
le informazioni che, ai sensi dell’art. 43,
comma 2, T.U. n. 267/2000 ha diritto di
conoscere per poi, eventualmente, richiedere
l’accesso a specifici documenti.
In ogni caso, costituisce principio
giurisprudenziale consolidato (cfr., fra le
molte, C.d.S., Sez. V, 22.05.2007 n. 929)
quello secondo cui il diritto di accesso
agli atti di un consigliere comunale non può
subire compressioni per pretese esigenze di
natura burocratica dell’Ente, tali da
ostacolare l’esercizio del suo mandato
istituzionale, con l’unico limite di poter
esaudire la richiesta (qualora essa sia di
una certa gravosità) secondo i tempi
necessari per non determinare interruzione
alle altre attività di tipo corrente e ciò
in ragione del fatto che il consigliere
comunale non può abusare del diritto
all’informazione riconosciutogli
dall’ordinamento pregiudicando la corretta
funzionalità amministrativa dell’ente civico
con richieste non contenute entro i limiti
della proporzionalità e della
ragionevolezza;
2) il “diritto di accesso” ed il “diritto
di informazione” dei consiglieri
comunali nei confronti della P.A. trovano la
loro disciplina specifica nell’art. 43 del
d.lgs. n. 267/2000 (T.U. degli Enti locali)
che riconosce ai consiglieri comunali e
provinciali, in ragione del particolare
munus espletato, un diritto dai confini
più ampi sia del diritto di accesso ai
documenti amministrativi attribuito al
cittadino nei confronti del Comune di
residenza (art. 10, T.U. Enti locali) sia,
più in generale, nei confronti della P.A.
quale disciplinato dalla legge n. 241/1990.
A tal fine il consigliere comunale non deve
motivare la propria richiesta di
informazioni, poiché, diversamente opinando,
la P.A. si ergerebbe ad arbitro delle forme
di esercizio delle potestà pubblicistiche
dell’organo deputato all’individuazione ed
al perseguimento dei fini collettivi.
Conseguentemente, gli Uffici comunali non
hanno il potere di sindacare il nesso
intercorrente tra l’oggetto delle richieste
di informazioni avanzate da un Consigliere
comunale e le modalità di esercizio del
munus da questi espletato.
In tale ottica, non appare compatibile con
l’art. 43 TUEL la disciplina di cui all’art.
22 della legge n. 241/1990 nel quale si fa
riferimento alla titolarità di un interesse
diretto, concreto ed attuale quale requisito
soggettivo per avere diritto all’accesso e
ai poteri dell’amministrazione di accertare
la presenza di tale condizione. Infatti, “ogni
limitazione all’esercizio previsto dall’art.
43 interferisce inevitabilmente con la
potestà istituzionale del consigliere
comunale di sindacare la gestione dell’ente
onde assicurarne –in uno con la trasparenza
e la piena democraticità– anche il buon
andamento” (Presidenza del Consiglio dei
Ministri, Commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 12.10.2010
- link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO:
Richiesta di parere concernente il diritto
di accesso dei consiglieri comunali.
Con nota pervenuta il 09.09.2010 l’Arch.
..., capogruppo di minoranza del consiglio
comunale di Melizzano, ha comunicato che:
a) con deliberazione n. 26/2009 del
21.07.2009 sono stati approvati gli artt. 2
e 5 del regolamento consiliare per l’accesso
agli atti dei consiglieri comunali. Tali
modifiche avrebbero leso le prerogative in
materia d’accesso stabilite per i
consiglieri comunali e pertanto ne
sollecitava l’annullamento;
b) l’ente comunale ha, in più occasioni,
illegittimamente negato, in tutto o in
parte, in modo espresso o tacito, l’accesso
a copie di documenti vari (determine,
delibere, elaborati progettuali) richiesti
per lo svolgimento del proprio mandato
consiliare.
Quanto al punto sub a), si rileva
preliminarmente che il regolamento Comunale
non risulta a suo tempo trasmesso a questa
Commissione, in contrasto con quanto
stabilito dal d.P.R. 12.04.2006 n. 184, art.
1, co. 2. Si segnala pertanto l’esigenza che
a ciò venga provveduto.
In particolare, il regolamento comunale:
1) all’art. 2 ultimo comma ha disposto che
l’accesso non può riguardare “….atti e
delibere adottati precedentemente
all’elezione del consigliere comunale…”,
salvo per quelli presupposti o comunque
collegati ad atti da adottarsi
nell’espletamento del mandato;
2) all’art. 5, co. 1, sono stati aggiunti
gli orari “….nei giorni di martedì,
mercoledì, giovedì, venerdì dalle ore 8 alle
ore 14” in cui i consiglieri comunali
possono accedere agli uffici del comune;
3) all’art. 5, co. 5, è previsto che
l’accesso si esercita unicamente mediante
rilascio di copie “unicamente… in forma
cartacea…”;
4) all’art. 5, co. 6, è fissato il termine
di rilascio delle copie in “…trenta
giorni lavorativi…” per richieste di
oltre cinque atti ovvero di documenti con
fogli superiori a trenta.
In merito alle segnalazioni dell’istante, si
rappresenta che:
- sub 1) non v’è alcuna valida ragione per
comprimere il diritto di accesso dei
consiglieri comunali quando la richiesta
riguardi atti relativi ad anni precedenti
l’elezione alla carica poiché, secondo la
giurisprudenza consolidata e le precedenti
pronunce di questa Commissione (cfr in senso
conforme plenum 22.09.2009), le richieste di
accesso agli atti del Comune formulate dai
consiglieri comunali, qualora rientrino
nelle facoltà di esercizio del loro munus,
non possono essere irragionevolmente
limitate, attesa l’ampiezza del diritto di
accesso riconosciuto al consigliere
dall’art. 43 del d.lgs. 18.08.2000;
- sub 2) la limitazione dell’orario
d’accesso agli uffici (aperti ai consiglieri
6 ore al giorno per quattro giorni a
settimana, ad esclusione della giornata di
lunedì e del mercoledì pomeriggio) non è di
per sé sola lesiva delle prerogative del
consigliere comunale, dal momento che
l’esercizio della funzione di consigliere
comunale comporta il diritto ad ottenere i
documenti amministrativi e le notizie
richieste, senza subire compressioni per
pretese esigenze di natura burocratica
dell’ente, ma non a disporre senza limiti
del tempo del personale degli uffici.
Quindi, la disposizione non sembra contenere
irregolarità atteso che è ispirata
dall’esigenza di evitare ritardi e
disservizi nell’ordinaria attività
amministrativa;
- sub 3) la contrazione delle modalità di
accesso alla esclusiva forma cartacea non
appare conforme ai generali principi di
economicità ed efficienza dell’azione
amministrativa poiché l’ente ha il dovere di
corrispondere alla richiesta di accesso su
supporto informatico (ovvero mediante
password di servizio), tenendo conto sia
dell’esigenza di non appesantire
ingiustificatamente l’onere finanziario che
l’accoglimento della richiesta comporta sia
al fine di evitare che le continue richieste
di accesso si trasformino in un aggravio
della ordinaria attività amministrativa
dell’ente locale;
- sub 4) la previsione di un termine per
evadere la richiesta di accesso (ordinario
di 7 gg. e speciale di 30 gg. nei casi di
numerosi documenti) potrebbe in astratto
determinare la concreta soppressione delle
prerogative del consigliere nei casi di
procedimenti urgenti o che richiedano
l’espletamento delle funzioni politiche
entro un termine inferiore a quello
previsto. Onde scongiurare tale pericolo, è
necessario che l’ente garantisca l’accesso
al consigliere comunale nell’immediatezza, e
comunque nei tempi più celeri e ragionevoli
possibili. Nel caso in cui l’accesso non
possa essere garantito subito (per eccessiva
gravosità della richiesta), rientrerà nelle
facoltà del responsabile del procedimento
dilazionare opportunamente nel tempo il
rilascio delle copie, ferma restando la
facoltà del consigliere comunale di prendere
visione, nel frattempo, di quanto richiesto
negli orari stabiliti presso gli uffici
comunali competenti, anche con mezzi
informatici. In tale ottica, del resto, si
pone anche il regolamento in esame che
l’art. 5, co. 2, del regolamento assicura
sempre l’accesso, durante l’ordinario orario
di ufficio, alle proposte di deliberazioni
all’o.d.g. del Consiglio e alla
documentazione correlata.
Si fa, infine, presente che l’autorità
competente ad annullare eventuali
determinazioni amministrative illegittime è
il giudice amministrativo e non anche questa
Commissione, salve le iniziative di modifica
regolamentare (già attivate ma purtroppo
tramontate) rimesse alla autonoma
valutazione del Consiglio Comunale.
Quanto al punto sub b), si rammenta che alle
istanze di accesso formulate dai consiglieri
comunali in funzione del mandato non possono
essere opposti dinieghi di sorta –con le
poche eccezioni contingenti da motivare
puntualmente e salvo il caso, da comprovare
adeguatamente, che essi agiscano per un
interesse personale– determinandosi
altrimenti un illegittimo ostacolo
all'esercizio delle loro funzioni che
comprendono la verifica della correttezza
dell'operato degli organi comunali (cfr.
C.d.S., Sez. IV, 21.08.2006, n. 4855).
Con riguardo al caso di specie, essendo
esplicitato che i documenti sono utili allo
svolgimento del mandato politico e non
emergendo, prima facie, che la
richiesta sia indeterminata o irragionevole,
appare ingiustificato il diniego opposto in
forma espressa o tacita alle istanze di
accesso rivolte dal consigliere
(Presidenza del Consiglio dei Ministri,
Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta
del 12.10.2010
- link a www.commissioneaccesso.it). |
NEWS |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Ambiente.
Chiarite le modalità di presentazione del
Mud. La comunicazione Sistri anche con i
vecchi moduli.
Doppia abrogazione che conferma. Non
convenzionale, ma sicuramente pratica la
soluzione prospettata per superare il
dilemma sulle modalità di presentazione del
modello unico di dichiarazione ambientale (Mud),
un adempimento che coinvolge oltre 300mila
imprese e enti.
Sia i produttori iniziali di rifiuti sia i
gestori di impianti di recupero e
smaltimento potranno scegliere se comunicare
i dati relativi al 2011 per mezzo del
portale Sistri, compilando on-line il
cosiddetto "Mudino", o usando i tradizionali
moduli e le regole di presentazione definite
dal Dpcm 27.04.2010. La possibilità di
utilizzare anche quest'anno la vecchia
modulistica, abrogata prima dal Dlgs
205/2010 e poi dal Dpcm del 23.12.2011, è
indirettamente confermata dalla diffusione
del software per la compilazione tramite i
siti internet delle Camere di commercio.
Il temporaneo ripristino dei moduli
abrogati, che anche l'anno scorso era stato
legittimato dalla circolare del ministero
dell'Ambiente del 02.03.2011, supera le
difficoltà connesse alla "comunicazione
Sistri", introdotta dal Dm istitutivo
della tracciabilità dei rifiuti (articolo
12, comma 1, Dm 17.12.2009) e in seguito
confermata dal regolamento d'attuazione
Sistri (articolo 28, comma 1, Dm 52/2011),
come unica possibilità di adempiere
all'obbligo di comunicazione annuale al
catasto dei rifiuti. L'accesso al portale
Sistri per l'imputazione dei dati è
riservato ai delegati Sistri dell'impresa o
dell'ente e impone l'impiego delle chiavette
Usb con i certificati di firma digitale.
Questa scelta esclude perciò le associazioni
imprenditoriali, se non sono state delegate,
e i consulenti.
Il portale Sistri non consente neppure
l'acquisizione telematica dei file di dati
elaborati dai software gestionali utilizzati
dalle imprese, funzionalità da anni
garantita dal sito www.mudtelematico.it, un
sistema che consente alle associazioni e ai
consulenti delegati dalle imprese di
trasmettere le dichiarazioni
sottoscrivendole con la propria smart card.
I produttori iniziali di rifiuti, a
differenza dei gestori di impianti di
recupero o smaltimento per i quali è
prescritta la trasmissione dei dati su
supporto magnetico o l'invio telematico,
potranno scegliere anche di predisporre il
Mud definito dal Dpcm 27.04.2010 su supporto
cartaceo, spedendolo o consegnandolo alle
Camere di commercio.
Oltre al programma per la compilazione del
vecchio Mud, è stato rilasciato anche il
software che permette ai gestori di veicoli
fuori uso di elaborare il file di
dichiarazione conforme alle specifiche
definite dal Dpcm 23.12.2011, che quest'anno
può essere trasmesso solo tramite il sito
www.mudtelematico.it.
È disponibile anche il sito
www.mudcomuni.it, dedicato alla raccolta
dei Mud dei Comuni (o consorzi di Comuni e
Comunità montane) ai quali il Dpcm
23.12.2011 ha imposto per la prima volta la
compilazione on-line dei dati relativi alla
raccolta dei rifiuti urbani e speciali
raccolti sulla base di una convenzione,
prevedendo però che i Comuni privi di smart
card possano stampare la dichiarazione,
sottoscriverla e inviarla con raccomandata
alla Camera di commercio competente.
Innovativa anche la possibilità di immettere
automaticamente nel sito i dati già
predisposti per altre rilevazioni
statistiche introdotte da leggi regionali.
Confermate, infine, anche le consuete regole
per la comunicazione annuale sulle
apparecchiature elettriche immesse sul
mercato dai produttori e dagli importatori e
ai Raee raccolti, recuperati e smaltiti.
---------------
Le istruzioni
01|LE REGOLE
Il Dlgs 205/2010 e il Dpcm del 23.12.2011
avevano abrogato la vecchia modulistica, ma
non avevano predisposto una nuova procedura
02|LA PRASSI
Lo scorso anno l'utilizzo dei vecchi moduli
era stato previsto con circolare
ministeriale, quest'anno è indirettamente
confermato dalla diffusione dei software
ufficiali
03|LE CONSEGUENZE
L'accesso al portale Sistri è riservato ai
delegati dell'impresa, ed esclude quindi le
associazioni imprenditoriali e i consulenti
(articolo Il Sole 24
Ore del
25.03.2012). |
ENTI LOCALI - SEGRETARI COMUNALI: Piano
di prevenzione nella lotta alla corruzione
nella p.a.. Operazione pulizia.
Protagonisti i segretari degli enti.
Lotta alla corruzione nella p.a. a 360°. I
piani di prevenzione della corruzione
dovranno essere adottati anche da regioni ed
enti locali. Con la possibilità che, per
questi ultimi, la mancata adozione comporti
l'avvio di un procedimento di
commissariamento ad acta, al pari della
mancata adozione di altri atti fondamentali
quali il bilancio. Sarà il segretario
dell'ente locale inoltre a dover svolgere la
funzione di dirigente responsabile della
prevenzione della corruzione. Occorrerà
rivedere pertanto anche le norme che
regolano la sua nomina, oggi del tutto
fiduciaria.
È quanto si ricava dalla lettura
della
prima individuazione dei settori di
indagine sul fenomeno della lotta alla
corruzione, redatta dalla Commissione di
studio su trasparenza e corruzione nella
pubblica amministrazione, presieduta da
Roberto Garofoli. Particolare attenzione è
stata dedicata all'allargamento ad altri
settori della p.a. delle misure contenute
nel ddl anticorruzione e alle sinergie tra
le prefetture e il segretario comunale o
provinciale.
Il Piano di prevenzione. Innanzitutto, la
Commissione ha proposto di emendare al
predetto ddl che le amministrazioni centrali
trasmettano alla Funzione pubblica un
apposito Piano di prevenzione della
corruzione che sia predisposto da un
dirigente appositamente nominato quale
«responsabile». È ovvio che un progetto non
può restare solo incardinato a livello di
p.a. centrale. Ecco, pertanto, la proposta
di «allargare» le disposizioni in materia di
anticorruzione anche alle amministrazioni
indicate all'art. 1, comma del Testo unico
sul pubblico impiego. Se, da un lato, a
vigilare sulle p.a. centrali (agenzie ed
enti pubblici inclusi) sorgerà infatti
l'Autorità nazionale anticorruzione, ci si
pone il problema di come coordinare tali
compiti per la «galassia» del sistema
amministrativo pubblico. In particolare per
regioni, province, comuni e le loro forme
associative.
Regioni. Per quanto riguarda le regioni, la
Commissione ha proposto che il ddl preveda
obbligatoriamente l'adozione del Piano
anticorruzione rinviando in sede di intesa
con le stesse regioni all'individuazione del
dirigente responsabile con compiti ben
precisi e con uno status di maggiore
indipendenza.
Enti locali. Sul fronte enti locali invece
la Commissione individua nel prefetto la
figura da valorizzare per dare piena
efficacia al Piano. Il prefetto potrà
supportare le amministrazioni locali al
momento di redigere il Piano anticorruzione
ma anche di monitorarne la reale
approvazione.
A tal fine, si legge nel testo
in esame, in considerazione dell'importanza
che il Piano assume nella vita
politico-amministrativa dell'ente, valuti il
legislatore di inserire una norma ad hoc che
preveda, in caso di mancata adozione del
Piano, l'avvio di un procedimento di nomina
di commissario ad acta, così come oggi si
prevede nel Tuel, per esempio nel caso di
mancata approvazione del bilancio o del
rendiconto di gestione.
Il segretario dell'ente. Per le province e i
comuni si pone il problema di chi possa
svolgere la figura del dirigente
responsabile della prevenzione della
corruzione con i compiti di redigere il
Piano della prevenzione. Il documento
redatto ieri individua tale figura in quella
del segretario dell'ente, in quanto «è
sempre stato strumento di garanzia della
legalità e dell'imparzialità nelle
amministrazioni locali». Questi nuovi
compiti comporteranno, anche con norme ad
hoc nel testo del ddl, di apporre delle
modifiche allo status di segretario, così da
garantirne una sua maggiore indipendenza
dall'organo politico.
Quindi, per la
Commissione, si dovrebbe tornare all'antico,
rivedendo le procedure di nomina dei
segretari «al fine di ridurne l'attuale
tasso di fiduciarietà». La Commissione
propone che sia il Viminale a proporre al
sindaco una rosa di nomi, selezionati sulla
base di una domanda da parte degli
interessati e in possesso di specifici
requisiti. Da questa rosa, il primo
cittadino poi nominerà «il prescelto»
(articolo ItaliaOggi del
24.03.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il
licenziamento economico già esiste per gli
statali. È il caso del personale in esubero
rispetto alle esigenze funzionali o finanziarie.
La riforma dell'articolo 18 dello Statuto
dei lavoratori avrà effetti anche nella
pubblica amministrazione, sebbene alcuni di
essi siano in buona parte già operativi, per
effetto della legge 183/2011. Il nuovo
articolo 18 (si veda ItaliaOggi di ieri),
una volta entrata in vigore la riforma,
varrà anche per il lavoro pubblico, per
effetto dell'articolo 51, comma 2, del d.lgs
165/2001, ai sensi del quale «La legge 20.05.1970, n. 300, e successive
modificazioni ed integrazioni, si applica
alle pubbliche amministrazioni a prescindere
dal numero dei dipendenti».
Nessun dubbio,
dunque, che per i dipendenti pubblici
valgano le regole di volta in volta vigenti
poste dallo Statuto dei lavoratori. Dunque,
anche i dipendenti pubblici non potranno
ottenere il reintegro nel posto di lavoro,
qualora siano stati coinvolti in
licenziamenti individuali per «ragioni
economiche».
Nel caso del lavoro privato la
fattispecie del licenziamento dovuto a
ragioni economiche è ancora da definire. Per
la pubblica amministrazione è già operante
da qualche mese il nuovo testo dell'articolo
33 del d.lgs 165/2001, come modificato
dall'articolo 16 della legge 183/2011, a
mente del quale le pubbliche amministrazioni
debbono effettuare annualmente la
ricognizione del personale eventualmente in
esubero; laddove rilevino situazioni di
soprannumero o comunque eccedenze di
personale, «in relazione alle esigenze
funzionali o alla situazione finanziaria»
sono tenute ad osservare le procedure
previste dai successivi commi dell'articolo
33: le amministrazioni entro 90 giorni dalla
comunicazione ai sindacati della situazione
di esubero, devono verificare se il
personale interessato possa essere
reimpiegato all'interno del medesimo ente, o
possa andare in mobilità (cioè essere
trasferito) verso altri enti della provincia
o della regione. In mancanza di ciò, essere
inserito nelle liste dei lavoratori in
disponibilità: cioè dei lavoratori
sostanzialmente licenziati, che restano per
24 mesi al massimo inseriti nella lista, con
il trattamento economico pari all'80% dello
stipendio, dell'indennità integrativa
speciale e dell'assegno per il nucleo
familiare.
É evidente che «la situazione
finanziaria» come giustificativo della norma
pubblicistica di rapporto del lavoro alle
dipendenze della p.a. risulta analoga e
sovrapponibile alle «esigenze economiche» di
cui parla la riforma dell'articolo 18. Nel
caso delle amministrazioni locali, lo stato
di dissesto finanziario o la violazione
delle soglie di spesa per il personale, come
la violazione del patto di stabilità,
possono essere ragioni sufficienti per la
risoluzione del rapporto di lavoro, senza
possibilità di reintegro.
In quanto ai
licenziamenti disciplinari, anch'essi sono
previsti nel lavoro pubblico dall'articolo
55-quater del d.lgs 165/2001. Si estenderà,
dunque, ai lavoratori pubblici la previsione
che rimetterà al giudice la scelta se
condannare al reintegro, o al pagamento
dell'indennizzo, il lavoratore licenziato in
esito ad un procedimento disciplinare,
riconosciuto privo di fondamento in sede
giudiziale. Ai dipendenti pubblici si
applicherà anche l'Aspi, la nuova indennità
sostitutiva della disoccupazione ordinaria e
della mobilità. Che però,varrà solo per i
lavoratori pubblici assunti con contratti a
tempo determinato. Per gli altri l'unico «ammortizzatore»
è l'indennità del periodo di disponibilità
(articolo ItaliaOggi del
23.03.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Sanabile il durc
negativo.
Il committente paga i premi dell'appaltatore.
L'Inail spiega l'intervento sostitutivo:
serve una comunicazione preventiva.
Il committente che intenda sostituirsi
all'appaltatore nel pagare il debito Inail
deve preventivamente informare l'istituto
assicuratore, al fine di verificare
l'attualità dell'inadempienza contributiva.
Lo precisa l'Inail nella
nota
21.03.2012 n. 2029 di prot. in
merito all'intervento sostitutivo della
stazione appaltante in caso di Durc
negativo.
Intervento sostitutivo.
L'articolo 4 del dpr n. 207/2010 prevede
che, in presenza di un Durc negativo (cioè
con irregolarità nei versamenti dovuti agli
istituti previdenziali e/o alle casse
edili), le stazioni appaltanti si
sostituiscano al debitore (appaltatore e/o
subappaltare del quale abbiano avuto il Durc
negativo) e procedano a pagare, in tutto o
in parte, il debito contributivo trattenendo
il relativo importo dal corrispettivo
dovuto.
Ambito di intervento. Ai fini
dell'applicazione dell'intervento
sostitutivo, l'Inail spiega che
l'inadempienza indicata nel Durc riguarda un
determinato «operatore economico», termine
con cui si intende qualsiasi soggetto, sia
persona fisica sia giuridica, che sia parte
di un rapporto contrattuale soggetto alla
disciplina del codice dei contratti pubblici
e che ai fini Durc sia tenuto all'obbligo
assicurativo nei confronti di Inail e Inps
e, nel caso di imprese edili, anche nei
confronti della cassa edile.
Inoltre, il
termine «contratto pubblico» comprende tutte
le tipologie di appalti pubblici, i servizi
e le attività in convenzione e/o
concessione, nonché tutti gli altri
contratti, assoggettati a una procedura di
evidenza pubblica e disciplinati dal codice
dei contratti pubblici, avente a oggetto un
dare o un facere funzionale alla
realizzazione di un risultato e/o di un
vantaggio e dietro pagamento di un
corrispettivo.
Indicazioni operative. Sotto il profilo
procedurale, l'Inail spiega che, ricevuto il Durc attestante l'irregolarità, la stazione
appaltante deve comunicare preventivamente
alla sede Inail che ha accertato
l'inadempienza, per posta elettronica o
posta elettronica certificata, la volontà di
attivare l'intervento sostitutivo. A tal
fine va utilizzato un modello appositamente
predisposto in cui va indicato l'importo che
si intende versare all'Inail.
Ricevuta la
richiesta della stazione appaltante, la sede
Inail procede tempestivamente a verificare
l'attualità dell'inadempienza contributiva
attestata sul Durc al fine di tenere conto
di eventuali pagamenti o di variazioni
relative al dovuto intervenuti tra la data
di emissione del Durc e la data di ricezione
della comunicazione preventiva.
Inoltre, la
stessa sede Inail comunicherà al
responsabile del procedimento della stazione
appaltante il codice Iban e, se nel
frattempo l'inadempienza Inail si è ridotta
rispetto all'importo indicato dalla stazione
appaltante nella comunicazione preventiva,
anche il minor ammontare del debito ancora
da versare all'Inail
(articolo ItaliaOggi del
23.03.2012). |
ENTI LOCALI:
Controlli contabili doc in comune.
L'incarico ai soli revisori regolarmente
iscritti al registro. La circolare del
ministro Cancellieri ribadisce il pieno
riconoscimento professionale della categoria.
Saranno «solo» i revisori legali
regolarmente iscritti al Registro ad avere
la titolarità dell'incarico presso gli 8
mila comuni italiani e tutti gli enti locali
obbligati per legge a nominare i revisori
per il monitoraggio contabile dei loro
bilanci.
«È il pieno riconoscimento della categoria
professionale», sottolinea il presidente
dell'Inrl Virgilio Baresi, «che assume
un'importanza rilevante nell'imminenza dei
decreti attuativi del dlgs 39/2010 in
materia di revisione attualmente all'esame
di apposite commissioni istituite presso il
Mef e nelle quali l'Istituto è presente e
parte propositiva con i suoi delegati
incaricati dalla presidenza dell'Inrl.
Determinante l'attenzione mostrata dal
ministro Cancellieri che, attraverso la
fattiva collaborazione del prefetto Frattasi,
ha emanato la circolare. Si tratta di una
attestazione istituzionale che segue di
poche settimane un altro riconoscimento a
livello locale, ovvero il provvedimento del
presidente della regione Abruzzo Chiodi che
ha indicato proprio nei revisori i referenti
per i consorzi preposti alla ricostruzione».
A questo punto il contesto professionale nel
quale operano gli oltre 150 mila revisori
legali italiani, di cui la maggioranza non
iscritta a ordini professionali, è delineato
e certificato da una specifica direttiva del
governo.
Appare evidente a tutti che oltre
all'esclusività del ruolo super partes
assegnato, la specifica che «soltanto» i
revisori legali con titolarità certificata
possono ricoprire questi incarichi negli
enti locali e nelle regioni, rappresenta un
definitivo chiarimento sul fatto che nessun
ordine professionale può vantare paternità
esclusive su questa categoria che tra
l'altro è composta prevalentemente da liberi
professionisti non appartenenti al sistema ordinistico ed inoltre da dottori
commercialisti, consulenti del lavoro e da
avvocati.
«Chi perservera nel confondere i ruoli o
peggio si arroga esclusive rappresentanze»,
conclude il presidente dell'Inrl, «va contro
l'evidenza della legge italiana e i dettami
europei».
Il reale contesto legislativo. Il decreto n.
1 firmato il 15.02.2012 dal ministro
dell'interno è, nella sostanza, un atto
previsto e dovuto nella parte in cui si
limita a dare attuazione ai principi
introdotti dalla legge 14 settembre 2011 n.
148 (art. 16, comma 25) a proposito della
costituzione degli organi di revisione negli
enti locali. Il suo contenuto, dunque, non
sorprende.
«Il problema», osserva Giovanni
Cinque consulente legale dell'Inrl, «deriva
invece dal fatto che il predetto impianto
normativo, che mette sullo stesso piano i
revisori iscritti al registro, i
commercialisti e gli esperti contabili, è
assolutamente incompatibile con il decreto
legislativo 39/2010 che, come sappiamo, ma
come evidentemente non tutti sanno a livello
istituzionale, riserva l'attività di
revisione legale solo ed esclusivamente ai
professionisti iscritti nell'apposito
registro. L'attuale situazione di caos
normativo raggiunge vette ancora più alte se
si pensa che, a livello regionale, la stessa
legge 14.09.2011 n. 148 (art. 14, lett. e)
prevede invece che l'organo di revisione sia
costituito solo ed esclusivamente da
soggetti iscritti al registro dei revisori
legali, in coerenza con la legge n. 39.
Siamo dunque lontanissimi dall'osservanza di
quei principi di armonizzazione dei sistemi
contabili pubblici che sono di casa in
Europa ma che da noi, per il momento,
vengono soltanto sbandierati. Non sembra
infine secondario sottolineare che, a causa
di un contesto legislativo così
disarticolato, vi è confusione totale anche
sui requisiti di formazione necessari per
competere a livello locale. L'auspicio è che
il dialogo avviato dall'Istituto e dal suo
presidente con i ministeri coinvolti possa
portare a una soluzione concordata e
definitiva di una situazione tanto confusa
da apparire intollerabile»
(articolo ItaliaOggi del
23.03.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI - VARI: Dl
liberalizzazioni approvato in via
definitiva. Tutte le novità per le
amministrazioni locali. Enti, la tesoreria
unica è legge.
Più concorrenza nelle utility, revisione Imu,
poteri sui taxi.
Ritorno al vecchio sistema di tesoreria
unica. Nuova iniezione di concorrenza nei
servizi pubblici locali. Revisione della
disciplina dell'Imu, con restrizione delle
agevolazioni per gli enti non commerciali e
introduzione di una nuova fattispecie
agevolativa a favore del settore edile.
Attribuzione ai comuni del potere di
incrementare le licenze per i taxi.
Previsione della possibilità di emettere
obbligazioni di scopo garantite da beni
immobili ai fini della realizzazione di
opere pubbliche.
Sono queste le principali
misure per gli enti locali contenute nel dl
liberalizzazioni (n. 1/2012) che ieri ha
ricevuto il via libera definitivo dalla
camera (i sì sono stati 365, i no 61, gli
astenuti 6). Poche, ma significative, le
novità rispetto al testo originario, fra cui
quella che consente alle p.a. di saldare i
propri debiti anche attraverso l'istituto
della compensazione, su cui, peraltro, si
sono appuntati i rilievi critici (al momento
non superati) della Ragioneria generale
dello stato.
Tesoreria unica. Le relative norme hanno
subito solo modifiche marginali. I termini
per il trasferimento delle somme alla
tesoreria statale diventano un po' meno
stringenti: non più «entro il» ma «alla data
del» 29 febbraio e del 16 aprile. La
sostanza, però, non cambia di molto. Nel
corso dei lavori parlamentari, si era
cercato di trovare una soluzione al problema
della differenza fra gli interessi all'1%
garantiti dalla tesoreria statale e quelli,
spesso superiori, previsti dalle convenzioni
di tesoreria in essere, ma l'emendamento è
stato stralciato per mancanza di copertura
finanziaria.
Positiva, invece, la previsione
in base alla quale i tesorieri e i cassieri
provvedono ad adeguare la propria
operatività alle disposizioni della
tesoreria unica il giorno successivo a
quello del versamento, ma, nelle more di
tale adeguamento, continuano ad adottare i
vecchi criteri gestionali.
Servizi pubblici locali. Gli enti locali,
dopo aver individuato i contenuti specifici
degli obblighi di servizio pubblico e
universale, dovranno valutare la
realizzabilità di una gestione
concorrenziale, adottando un'apposita
deliberazione quadro con i crismi che
saranno definiti da un decreto ministeriale
e limitando i diritti di esclusiva alle
ipotesi in cui l'iniziativa privata risulti
inadeguata. Il parere dell'Antitrust sarà
obbligatorio solo per gli enti con più di
10.000 abitanti e comunque mai vincolante.
Confermati l'obbligo di gara per gli
affidamenti superiori ai 200.000 euro e la
ridefinizione del calendario delle scadenze
per le gestioni esistenti, con dead line che
nella maggior parte dei casi si colloca tra
la fine del 2012 e la primavera del 2013, ma
con la previsione di una clausola di
salvaguardia che garantisce la continuità
delle prestazioni qualora le procedure per i
nuovi affidamenti vadano per le lunghe. I
bacini territoriali ottimali non dovranno
più avere obbligatoriamente l'estensione
minima del territorio provinciale, poiché le
regioni potranno definire ambiti
territoriali più limitati, motivando la
scelta in base a criteri di differenziazione
territoriale e socio-economica.
Imu. L'esenzione a favore degli immobili
degli enti non commerciali viene
circoscritta alle fattispecie in cui essi
operano «con modalità non commerciali».
Qualora l'unità immobiliare abbia
un'utilizzazione mista (commerciale e non),
l'esenzione si applica solo alla frazione di
unità nella quale si svolge l'attività di
natura non commerciale.
Confermata anche la
previsione che consente ai comuni di ridurre
l'aliquota di base dell'Imu fino allo 0,38%
per i fabbricati costruiti e destinati
dall'impresa costruttrice alla vendita,
fintanto che permanga tale destinazione e
non siano in ogni caso locati, e comunque
per un periodo non superiore a tre anni
dall'ultimazione dei lavori.
Taxi.
Saranno i comuni a decidere sull'eventuale
incremento del numero di licenze, previo
parere della nuova Autorità dei trasporti
(articolo ItaliaOggi del
23.03.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI: Piccoli
comuni alle urne tra dubbi (sui gettoni) e certezze. Mini-enti falcidiati.
Scattano subito i tagli alle poltrone.
I piccoli comuni si avviano alle elezioni
amministrative con la certezza dei tagli
alle poltrone e qualche dubbio sul
trattamento economico dei consiglieri.
Sul primo versante, la manovra di Ferragosto
(dl 138/2011) ha usato la mano pesante,
sforbiciando sia le giunte sia i consigli in
tutti i municipi fino a 10.000 abitanti.
Il decreto milleproroghe (dl 216/2011) ha
confermato che il taglio scatterà dal primo
rinnovo amministrativo e, quindi, fin da
subito per i quasi 800 comuni di tale fascia
demografica che andranno alle elezioni a
maggio.
Nei comuni fino a 1.000 abitanti, scompare
la figura degli assessori e il numero di
consiglieri è ridotto a 6. Come chiarito
dalla circolare del ministero dell'interno
n. 2379/2011 (si veda ItaliaOggi del 23
febbraio), tutte le funzioni oggi assegnate
alle giunte spetteranno ai sindaci, che
potranno delegarle (come previsto dall'art.
2, c. 186, lett. c), della legge 191/2009,
come modificata dalla legge 42/2010) a non
più di 2 consiglieri. Sempre fra i
consiglieri dovrà obbligatoriamente essere
scelto il vicesindaco.
Fra 1.001 e 3.000
abitanti, la delega delle funzioni del
sindaco ai consiglieri è solo facoltativa;
in alternativa, potranno essere nominati non
più di 2 assessori «veri», mentre il numero
dei consiglieri sarà, anche in tal caso,
pari a 6 (oltre al sindaco).
Fra 3.001 e
5.000 abitanti, i consiglieri salgono a 7
più il sindaco con 3 assessori, mentre fra
5.001 e 10.000 ci saranno 10 consiglieri e 4
assessori.
Emolumenti dei consiglieri. Sul punto si
registra qualche incertezza. L'art. 16,
comma 18, del dl 138 ha previsto
l'eliminazione dei gettoni di presenza per i
consiglieri dei comuni fino a 1.000
abitanti. In origine, la decorrenza di tale
misura era allineata a quella prevista dal
precedente comma 9, che detta i tempi per
l'avvio delle unioni attraverso le quali i
mini-comuni dovranno obbligatoriamente (e i
comuni fra 1.000 e 5.000 abitanti
facoltativamente, in alternativa all'obbligo
di gestione associata delle sole funzioni
fondamentali) esercitare tutte le funzioni
amministrative e tutti i servizi pubblici
loro spettanti.
Prima dell'intervento del milleproroghe, il comma 9 individuava come
spartiacque il «giorno della proclamazione
degli eletti negli organi di governo del
comune che, successivamente al 13.08.2012, sia per primo interessato al rinnovo»
fra quelli facenti parte di ciascuna unione
ex art. 16. Successivamente, il dl 216/2011
(o meglio, la relativa legge di conversione,
legge 14/2012) ha prorogato tale termine di
nove mesi, facendolo slittare al 13.05.2013. Tale proroga non ha riguardato, però,
il comma 18, il quale, tuttavia, rinvia
espressamente alla «data» fissata dal comma
9.
Pertanto, si pongono due problemi
interpretativi: da un lato, individuare
quale sia, ai fini del comma 18, la «data»
di cui al comma 9 (il 13.05.2013 o
quella successiva nella quale il primo
comune dell'unione va a elezioni);
dall'altro, capire se la proroga di tale
«data» valga anche rispetto al divieto di
corrispondere i gettoni. In ordine al primo
punto, sembra chiaro che il legislatore
abbia inteso collegare l'azzeramento dei
gettoni dei consiglieri comunali alla
partenza della nuova governance delle
unioni, nella quale il ruolo dei consigli
comunali è destinato a divenire marginale
rispetto a quello degli omologhi organi
delle nuove forme associative.
Più delicata la seconda questione: da parte
dei primi commentatori, la mancata
enunciazione del comma 18 da parte del «milleproroghe»
è stata interpretata come una conferma del
termine originario, per cui il divieto di
erogare i gettoni scatterebbe dal primo
rinnovo successivo al 13.08.2012 (e non al
13.05.2013). Sembra invece più corretto
affermare che la proroga del termine di cui
al comma 9 comporta implicitamente anche lo
slittamento di quello previsto dal comma 18,
trattandosi di fatto, come detto, dello
stesso termine
(articolo ItaliaOggi del
23.03.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Se non c'è un regolamento
il sindaco non può comprimere i poteri dei
consiglieri. Diritto di accesso illimitato.
Ma non bisogna intralciare il lavoro degli
uffici.
In assenza di apposite norme regolamentari
di disciplina del diritto di accesso dei
consiglieri, il sindaco può individuare
autonomamente delle limitazioni al suddetto
diritto, anche con riferimento a esigenze di
tutela dei dati personali?
L'esercizio del diritto di accesso è
previsto dal secondo comma dell'articolo 43
del dlgs 267/2000, definito dal Consiglio di
stato (sent. n. 4471/2005) «diritto
soggettivo pubblico funzionalizzato»,
finalizzato al controllo
politico-amministrativo sull'ente
nell'interesse della collettività e, come
tale, diverso dal diritto di accesso
previsto dalla legge n. 241/1990,
riconosciuto ai soggetti interessati allo
scopo di predisporre la tutela di posizioni
soggettive lese. Il diritto del consigliere
comunale di ottenere dall'ente tutte le
informazioni utili all'espletamento del
mandato non incontra neppure alcuna
limitazione derivante dalla loro eventuale
natura riservata, in quanto il consigliere è
vincolato al segreto d'ufficio.
Gli unici limiti all'esercizio del diritto
di accesso dei consiglieri comunali possono
rinvenirsi, per un verso, nel fatto che esso
deve avvenire in modo da comportare il minor
aggravio possibile per gli uffici comunali
e, per altro verso, che esso non deve
sostanziarsi in richieste assolutamente
generiche, ovvero meramente emulative, fermo
restando tuttavia che la sussistenza di tali
caratteri deve essere attentamente e
approfonditamente vagliata in concreto al
fine di non introdurre surrettiziamente
inammissibili limitazioni al diritto stesso
(Consiglio di stato, sez. V, n. 6963/2010).
Anche la Commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi ha richiamato il
consolidato principio giurisprudenziale (ex multis Consiglio di stato, sez. V. n.
929/2007) secondo cui il diritto del
consigliere di accesso agli atti «non può
subire compressioni per pretese esigenze di
natura burocratica dell'ente con l'unico
limite di poter esaudire la richiesta,
qualora sia di una certa gravosità, secondo
i tempi necessari per non determinare
interruzione delle altre attività di tipo
corrente».
Il consigliere deve quindi contemperare il
diritto di accesso con l'esigenza di non
intralciare lo svolgimento dell'attività
amministrativa e il regolare funzionamento
degli uffici comunali, comportando ad essi
il minor aggravio possibile, sia dal punto
di vista organizzativo che economico (Corte
dei conti, sez. Liguria n. 1/2004). Sul tema
dell'esercizio del diritto di accesso ad
atti dell'amministrazione comunale da parte
del consigliere comunale si è espressa la
Commissione per l'acceso ai documenti
amministrativi. Relativamente
all'ammissibilità dell'accesso ad atti
istituzionali del comune mediante uso di
tecnologie informatiche, nonché
all'acquisizione in formato digitale (a
mezzo Pec) delle deliberazioni consiliari e
di giunta e dei relativi atti preparatori,
la Commissione ha ritenuto che, sulla base
del quadro normativo vigente e della oramai
generalizzata diffusione degli strumenti
informatici presso i soggetti pubblici e
privati, «l'accesso telematico debba essere
sempre consentito, soprattutto ove
richiesto, non solo nei reciproci rapporti
posti in essere tra le pubbliche
amministrazioni e in quelli da esse
intrattenuti con l'utenza privata, ma anche
nei rapporti tra le stesse amministrazioni
locali e i componenti eletti nei loro organi
consiliari».
Il secondo parere verte sulla problematica
relativa all'accesso di un consigliere
comunale agli elenchi dei contribuenti
locali e dei cittadini morosi nel pagamento
dei tributi comunali. Al riguardo, la
Commissione osserva che «la disposizione
contenuta nell'art. 43 comma 2, Tuel
riconosce al consigliere comunale il diritto
di ottenere dagli uffici comunali tutte le
notizie e le informazioni utili
all'espletamento del proprio mandato e gli
impone l'obbligo del segreto nei casi
specificatamente determinati dalla legge.
Indipendentemente dall'inclusione, fra i
casi soggetti al segreto, della divulgazione
dei contribuenti morosi, gli uffici comunali
non possono limitare in alcun caso il
diritto di accesso del consigliere comunale,
ancorché possa sussistere il pericolo della
divulgazione dei dati di cui il medesimo
entri in possesso. La responsabilità di aver
messo in condizione il consigliere comunale
di conoscere dati sensibili cede di fronte
al diritto di accesso incondizionato del
medesimo, ma può essere invocata dal terzo
eventualmente danneggiato solo nei confronti
di chi (consigliere comunale) del suo
diritto abbia fatto un uso contra legem».
Circa la possibilità che il sindaco sia
facoltizzato, in assenza di puntuali
disposizioni regolamentari, ad individuare
autonomamente i limiti al diritto di accesso
dei consiglieri, appare dirimente la
sentenza del Tar Campania n. 19672/2008 con
la quale è stato accolto il ricorso avverso
un decreto sindacale recante la disciplina
delle modalità di esercizio del diritto di
accesso. Il Tar ha ritenuto sussistente il
vizio di incompetenza, considerato che la
materia del diritto di accesso dei
consiglieri avrebbe dovuto trovare la
propria disciplina nel regolamento
(articolo ItaliaOggi del
23.03.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: Sulla
nomina dei revisori locali non decide più la
politica.
Massima trasparenza sul procedimento di
scelta del revisore legale degli enti
locali. Infatti, il relativo elenco,
articolato su base regionale, deve essere
reso pubblico attraverso un'apposita sezione
sulla home page del sito internet del
ministero dell'interno. Lo stesso Viminale,
poi, è obbligato a rendere nota, con avviso
da pubblicarsi sulla Gazzetta Ufficiale, la
data di effettivo avvio del nuovo
procedimento per la scelta dei revisori in
scadenza di incarico.
È quanto si ricava
dalla lettura del decreto Mininterno
15.02.2012 (si veda ItaliaOggi del 17 marzo
scorso), che è stato pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale del 20 marzo, in merito
alle disposizioni previste dalla manovra di
Ferragosto 2011. Un procedimento del tutto
rivoluzionario, che, di fatto, sottrae
all'organo politico la scelta dei nominativi
che devono comporre il collegio dei revisori
dei conti (ovvero il revisore unico).
Criteri di trasparenza, innanzitutto. Dopo
la verifica dei presupposti, diversi in base
alla fascia demografica di appartenenza
dell'ente locali, il Dm in esame dispone che
ogni elenco, uno per ogni articolazione
regionale, deve necessariamente riportare,
per ciascun revisore in ordine rigorosamente
alfabetico, i dati anagrafici, la residenza
e la data ed il numero di iscrizione nel
registro dei revisori legali o all'Ordine
dei dottori commercialisti e degli esperti
contabili. Della composizione degli elenchi,
come detto, se ne dovrà dare la massima
pubblicità. Infatti, si dovranno pubblicare
sul sito www.interno.it, dipartimento per
gli affari interni e territoriali, con
effetti di pubblicità legale ai sensi
dell'articolo 32 della legge n. 69/2009.
Trasparenza anche nel procedimento di
effettivo avvio del nuovo procedimento di
scelta, mediante estrazione a sorte. Come si
ricorderà, il procedimento di scelta avviene
«pescando» con modalità «random»
i nominativi dagli elenchi, attraverso un
procedimento telematico che si svolgerà
presso la sede di ogni prefettura.
L'articolo 5 del dm precisa che, una volta
completata la fase di formazione
dell'elenco, il Viminale dovrà pubblicare
sulla Gazzetta Ufficiale (oltre che sulle
proprie pagine internet), da quando saranno
avviate le nuove procedure.
Gli enti locali, poi, sono tenuti a dare
comunicazione della scadenza dell'incarico
del proprio organo di revisione alla
Prefettura della provincia di appartenenza «con
almeno 15 giorni di anticipo nel primo mese
di effettivo avvio del nuovo procedimento di
scelta» e, successivamente, almeno due
mesi prima della scadenza stessa. Sarà poi
cura di ogni Prefettura, rendere noto agli
enti locali il giorno in cui si procederà
alla scelta dei revisori. Di tutto il
procedimento di estrazione verrà redatto
apposito verbale e comunicato all'ente
locale affinché provveda alla nomina del
collegio o del revisore legale scelto.
Infine, l'articolo 6 del Dm precisa che, in
caso di composizione collegiale dell'organo
di revisione, le funzioni di presidente sono
svolte dal revisore che, in carriera, ha
ricoperto il maggior numero di incarichi di
revisore presso enti locali e, in caso di
ulteriore parità, sarà data preferenza alla
maggiore dimensione demografica degli enti
in cui si è ricoperto l'incarico
(articolo ItaliaOggi del
22.03.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: L'Inps
pretende il biglietto bus da chi assiste un
disabile.
Chi assiste un disabile grave distante 150
chilometri dalla propria dimora e vuole
fruire dei premessi previsti dalla legge
104/92 è meglio che ci vada in treno o in
autobus. Perché se copre in auto la distanza
da casa alla dimora del disabile, a meno che
no esibisca al ritorno uno scontrino di
pedaggio autostradale, rischia di vedersi
contestare l'assenza ingiustificata dal
lavoro.
É quanto si evince dalla
circolare 06.03.2012 n. 32
dell'Inps
che reca i primi chiarimenti su come
applicare le novità introdotte dal decreto
legislativo 119/2011 alle disposizioni sui
permessi per chi assiste un portatore di
handicap.
Il provvedimento non è vincolante
per l'amministrazione scolastica. Ma
proviene comunque da fonte autorevole. E
dunque, i chiarimenti in esso contenuti
possono essere comunque utili a dissipare lo
stato di incertezza in cui versano gli
addetti ai lavori a causa dell'estrema
complessità delle nuove norme. La nuova
stesura dell'art. 33 della legge 194/1992,
infatti, prevede che se il disabile da
assistere risiede o dimora ad una distanza
superiore ai 150 chilometri dal luogo dove
vive l'assistente, quest'ultimo, ogni volta
che fruisce un permesso per adempiere alla
prestazione di assistenza, al ritorno deve
provare di esserci andato, esibendo un
titolo di viaggio o altro documento idoneo.
In buona sostanza, come spiega anche l'Inps,
si tratta di una delle rare disposizioni di
legge che impongono espressamente
l'inversione dell'onere della prova. E qui
la faccenda si complica. Perché la legge fa
riferimento al mero titolo di viaggio, quale
mezzo di prova. Il che vuol dire che bisogna
tirare fuori il biglietto di un mezzo
pubblico per giustificare il permesso. Va
detto subito, peraltro, che il biglietto di
per sé non è utile a provare che il latore
del medesimo lo abbia effettivamente
utilizzato.
Ma in ogni caso è l'unica
ipotesi espressamente prevista dalla legge.
E quindi l'Inps ha consigliato agli
interessati di viaggiare con i mezzi
pubblici se intendono fruire del permesso.
Anche se bisogna raggiungere zone interne.
Pazienza se ciò comporta un ulteriore onere,
che si aggiunge a quello della prestazione
di assistenza a distanza di oltre 150
chilometri da casa
(articolo ItaliaOggi del
20.03.2012). |
PUBBLICO IMPIEGO: Congedi
retribuiti e non Adesso si cumula tutto.
I congedi retribuiti biennali per assistere
i portatori di handicap si cumulano con
quelli non retribuiti. E la somma di tutti i
periodi di premesso così fruiti non può
eccedere i 24 mesi per singolo lavoratore.
Il disabile però ha comunque diritto a
giovarsi di due anni di assistenza con
esonero dal servizio del lavoratore
interessato. Pertanto, se l'assistente
esaurisce il biennio, cumulando le
differenti tipologie di permesso, la
restante parte del biennio può essere fruito
da un altro lavoratore.
Lo prevede LA
circolare 28.02.2012 n. 28
emanata dall'Inps.
Il provvedimento è vincolante solo per i
lavoratori delle varie sedi dell'ente
previdenziale, ma proviene comunque da una
fonte autorevole. E quindi può essere utile
anche alle scuole, in sede di applicazione
della normativa sui congedi. Che ha subito
recenti modifiche da parte del legislatore,
con le quali sono state recepite anche
alcune sentenza additive della Corte
costituzionale. Dunque, il biennio di
congedo si applica una volta sola
nell'ambito della vita lavorativa.
Conseguentemente i congedi previsti
dall'art. 42 del decreto legislativo
151/2001 si sommano a quelli dell'art. 4
della legge 53/2000 ai fini del biennio.
Pertanto, se un lavoratore esaurisce il
biennio, per esempio, se utilizza 6 mesi del
congedo non retribuito e 18 mesi del congedo
retribuito, non ha diritto a fruire di altri
periodi di assenza. Fermo restando che si fa
riferimento solo ai periodi previsti
dall'art. 4 della legge 53/2000 e a quelli
dell'art. 42 del decreto legislativo
151/2001. La preclusione, infatti, non vale
per altre tipologie di assenze tipiche
previste dalla legge o dal contratto. Come
per esempio i permessi previsti dall'art. 33
dalla legge 104/1992.
Tornando all'esempio di prima, dunque, al
disabile rimangono 6 mesi di congedo
retribuito da far sfruttare al proprio
assistente. E dunque, se l'assistente
esaurisce il congedo di sua spettanza, la
parte residua può essere fruita dal soggetto
che lo sostituisce. Tale soggetto va
individuato secondo una scala di priorità
tassativa che risulta così costituita:
coniuge, genitore, figlio, fratello (o
sorella). Lo scorrimento della scala di
priorità va effettuato secondo il criterio
della supplenza
(articolo ItaliaOggi del
20.03.2012). |
APPALTI SERVIZI: Servizi
pubblici. Le conseguenze della bozza di Dm
attuativo delle liberalizzazioni.
Delibera quadro «estesa» a tutti i settori
economici.
Anche gli ambiti devono effettuare la
verifica pre-affidamenti
L'INDAGINE/
La possibilità di concedere esclusive
dipende dall'analisi delle modalità
gestionali di ogni aspetto dell'attività.
Cominciano a delinearsi i criteri che gli
enti locali e i soggetti istituzionali
individuati come enti di governo degli
ambiti territoriali ottimali dovranno
seguire nell'istruttoria per l'attribuzione
dell'esclusiva nella gestione dei servizi
pubblici locali con rilevanza economica; il
passo fondamentale è dato dalla bozza del Dm
che illustra i parametri e i contenuti della
delibera-quadro (si veda Il Sole 24 Ore del
13 marzo).
Le amministrazioni locali devono svolgere
una verifica preliminare per acquisire tutti
gli elementi utili per individuare quanti
fra i "loro" servizi pubblici sono di
rilevanza economica. Molte attività,
infatti, sono facilmente riconducibili
all'ambito dell'articolo 4 della legge
148/2011, in quanto le caratteristiche di
rilevanza economica sono codificate dalla
normativa di settore (come nel caso della
gestione dei rifiuti o del trasporto
pubblico locale), ma molte altre vanno
analizzate caso per caso nel rispetto del
principio comunitario.
Si pensi, ad esempio, alla ristorazione
scolastica, in cui la tariffa è in media
inferiore del 30/40% del costo di produzione
e sulla gestione pesa molto l'intervento
pubblico. In questo quadro, il servizio può
risultare privo di rilevanza economica (come
evidenziato dal Consiglio di Stato nella
sentenza n. 6529/2010).
La verifica sulle condizioni per attribuire
i diritti di esclusiva deve analizzare il
quadro storico e l'attuale modello
gestionale del servizio, individuando le
attività principali e quelle complementari,
con l'indicazione delle eventuali
compensazioni economiche ai gestori. Il
primo focus deve puntare sull'articolazione
operativa del servizio, distinguendo le
possibili fasi di gestione separata e
rilevando l'eventuale offerta di servizi
sostituivi.
Il punto centrale è costituito dall'analisi
delle esigenze della comunità, con
riferimento alle caratteristiche sociali e
demografiche, economiche, ambientali e
geomorfologiche dell'ambito territoriale di
riferimento.
Questi elementi possono risultare
determinanti per la statuizione degli
obblighi di servizio pubblico, per la
definizione degli standard zonali minimi e
per il conseguente orientamento verso una
gestione unitaria.
L'istruttoria deve evidenziare anche il
valore del servizio (che può risultare
decisivo, ad esempio, per l'affidamento in
house) e gli investimenti da programmare.
Le risultanze della verifica devono essere
quindi sottoposte al confronto con il
mercato, con una consultazione per acquisire
manifestazioni di interesse degli operatori
sulla gestione in concorrenza del servizio.
Questa fase dovrebbe permettere anche di
rilevare la sussistenza di situazioni di
monopolio naturale o, all'opposto, la
possibilità di liberalizzare il servizio o
singole sue fasi.
La consultazione con gli operatori permette
comunque di riscontrare l'incidenza sulla
gestione imprenditoriale degli obblighi di
servizio pubblico e universale e degli
standard minimi delle prestazioni, oltre che
delle caratteristiche della domanda
dell'utenza e di tariffe sostenibili per
realizzare e mantenere la coesione sociale,
al fine della verifica della redditività.
Lo schema di decreto individua anche dei
parametri integrativi per il settore dei
trasporti pubblici locali e per quello dei
rifiuti, richiedendo per questi ultimi la
valutazione distinta delle operazioni di
spazzamento, raccolta, raccolta
differenziata, trasporto,
commercializzazione, gestione degli impianti
di trattamento, recupero, riciclo e
smaltimento di tutti i rifiuti urbani e
assimilati, nonché la proiezione gestionale
con riferimento alle singole fasi ed alla
possibile gestione congiunta.
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Le istruzioni per l'uso
01|ANALISI DELLA
QUALIFICAZIONE DEI SPL
L'ente locale deve rilevare la
qualificazione dei servizi pubblici locali
affidati in chiave di rilevanza economica o
meno.
Tale analisi preliminare deve essere
effettuata mediante applicazione del
principio relativistico.
02|ISTRUTTORIA PER
L'ATTRIBUZIONE DEI DIRITTI DI ESCLUSIVA
L'ente locale la deve sviluppare per i Spl
(Servizi pubblici locali) con rilevanza
economica in base all'articolo 4, commi 1 e
2 della legge 148/2011.
L'istruttoria deve essere sviluppata
seguendo lo schema di percorso e i contenuti
essenziali previsti nel decreto ministeriale
attuativo e può già essere avviata.
03|ANALISI STORICA DELLA
SITUAZIONE DEL SPL AFFIDATO
Analisi dello stato storico del servizio.
Possibile confronto con piano industriale
del soggetto gestore.
04|FOCUS ASSETTO SPL
Rilevazione dell'articolazione operativa del
Spl (Servizi pubblici locali) anche per
singole fasi.
Analisi delle esigenze della comunità locale.
Definizione degli obblighi di servizio
pubblico e degli standard prestazionali.
Individuazione delle compensazioni.
Analisi del valore del servizio.
05|CONSULTAZIONE CON IL
MERCATO
Confronto con gli operatori di mercato per
rilevare possibile quadro concorrenziale.
Analisi delle situazioni di monopolio o
degli spazi di effettiva liberalizzazione.
Riscontro dell'incidenza degli obblighi di
servizio pubblico sulla gestione
imprenditoriale e sulla redditività della
stessa.
06|FORMALIZZAZIONE
DELL'ISTRUTTORIA
Formalizzazione degli elementi elaborati e
richiesta di parere all'Agcm (Garante della
concorrenza) da produrre entro 60 giorni.
Adozione della delibera-quadro entro 30
giorni dal parere dell'Agcm (Garante della
concorrenza).
L'anticipazione.
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Appalti. Decreto in
vigore dal 21 marzo.
Beni e servizi da programmare anno per anno.
Anche gli acquisti di beni e servizi vanno
programmati dalle amministrazioni, anno per
anno, insieme al bilancio. L'elencazione
dell' attività contrattuale della Pa infatti
non è più limitata ai lavori pubblici, ma
dal prossimo 21 marzo si estende anche ai
servizi e alle forniture.
Dando attuazione a quanto previsto dal
Codice degli appalti entra in vigore,
proprio mercoledì, il Dm Infrastrutture
dell'11.11.2011 (pubblicato sulla
«Gazzetta» del 6 marzo scorso) con gli
schemi tipo per la programmazione triennale
e l'elenco annuale dei contratti pubblici.
Il provvedimento sostituisce i modelli
precedenti, datati 2005, pensati prima del
Codice dei contratti (Dlgs 163/2006) che ha
unificato le procedure per tutti gli
appalti, di lavori , servizi e forniture.
Ecco perché i nuovi modelli di
programmazione si estendono per la prima
volta anche ai beni e ai servizi.
A queste ultime due tipologie di contratti
pubblici è riservata la scheda 4
dell'Allegato, quella appunto con il
«Programma annuale forniture e servizi
dell'amministrazione» che va compilata
indicando la tipologia di contratto, il
responsabile del procedimento, l'importo e
le risorse finanziarie disponibili.
Ma in realtà gli enti locali hanno
possibilità di discostarsene: sia perché il
Ministero precisa che sono «fatte salve le
competenze legislative e regolamentari delle
Regioni e delle Province autonome» come
riconosce in modo esplicito il
provvedimento, sia perché la norma sulla
programmazione annuale per servizi e
forniture non è vincolante. Si chiarisce
infatti che le amministrazioni
aggiudicatrici «possono» adottare il
modello, rendendo quindi la scelta una
semplice facoltà.
Unica condizione è che per inserire un
acquisto da programmare nell'anno l'ente
deve aver completato la progettazione, cioè
, deve avere disponibile: una relazione
tecnico-illustrativa del contesto in cui va
inserito il contratto, le prescrizioni per i
documenti della sicurezza, il calcolo della
spesa e degli oneri complessivi, il
capitolato e lo schema di contratto.
Ma quella sui servizi e le forniture non è
l'unica novità che gli enti locali dovranno
affrontare nel mettere mano alla
programmazione degli appalti: il nuovo
decreto è molto più stringente sui vincoli
per inserire un lavoro nell'elenco annuale.
Rispetto al modello del 2005 non basta più
indicare il livello raggiunto dalla
progettazione, i vincoli ambientali e le
finalità. Occorre avere già in mano la
conformità urbanistica che -specifica
l'articolo 3- «deve essere perfezionata
entro la data di approvazione del programma
triennale e relativo elenco annuale».
In
altre parole, mentre in base al Dm del 2005
era sufficiente indicare una vaga
«conformità urbanistica» dell'opera per
inserirla nell'elenco annuale, dal 21 marzo
invece l'effettiva fattibilità dell'opera
(permessi, coerenza con il Prg e con la
destinazione d'uso dell'area) va verificata
e acquisita a monte, fin dall'inserimento di
quell'intervento nel programma triennale che
viene compilato molto tempo prima. Un
paletto pensato per rendere più realistico
l'elenco annuale che, appunto, potrà
contenere solo i progetti realmente
fattibili, sui quali sono già state
acquisite tutte le autorizzazioni, ma che
rischia di rallentare, e di molto, la
programmazione dei lavori, visto che proprio
la fase delle autorizzazioni e della
localizzazione dell'opera è tra le più
lunghe e complesse di quelle dell'iter
realizzativo.
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Le verifiche
Documenti necessari per
inserire un contratto di fornitura
nell'elenco annuale:
1) Relazione illustrativa
2) Documenti per la sicurezza
3) Calcolo della spesa
4) Capitolato
5) Schema di contratto
(articolo Il Sole 24
Ore del 19.03.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: Risorse
umane. Effetti paradossali dal cambio di
regole.
L'incognita Patto sui piccoli blocca anche
il personale.
Dal 2013 i piccoli Comuni tra 1.001 e 5mila
abitanti precipiteranno tra i limiti e le
rigide regole del Patto di stabilità. La
questione non è solamente finanziaria, ma
abbraccia anche la gestione delle risorse
umane. Infatti, attualmente, il contenimento
della spesa di personale ha due binari.
Da una parte ci sono i Comuni sopra i 5mila
abitanti e le Province, che devono ridurre i
costi rispetto all'anno precedente ai sensi
del comma 557 della legge Finanziaria 2007;
dall'altra gli enti non soggetti a Patto,
che devono contenere le spese nel limite di
quelle sostenute nel 2004 (comma 562 stessa
legge). Dal 2013 anche questi enti
rientreranno di conseguenza nella prima
casistica.
I dubbi sollevati dalla normativa sono molto
consistenti, come mostra fra l'altro il
fatto che la Corte dei conti del Veneto
(delibera 98/2012) ha rimesso la questione
alle Sezioni riunite. Tra le altre cose, gli
operatori si chiedono se ci siano scelte da
fare nel corso di questo esercizio, e come
programmare la gestione del personale per
evitare che, dal 2013, si rimanga ingessati?
La prima idea è certamente quella di fare in
modo che la spesa del 2012 risulti la più
alta possibile, così da diventare base di
riferimento per l'anno futuro. Ragionare in
questo modo non sembra però molto virtuoso.
Infatti, le assunzioni andrebbero
programmate sulla base delle effettive
esigenze e non esclusivamente su vincoli di
natura finanziaria. Purtroppo, però, è il
legislatore che con i suoi tagli lineari ed
orizzontali abitua a simili comportamenti.
Si pensi solamente ai limiti sul lavoro
flessibile: va tagliata del 50% la spesa
sostenuta nell'anno 2009, a prescindere
dalle eventuali e reali necessità operative
(e senza le deroghe sulla polizia locale e
servizi educativi/scolastici del 2012).
Tra l'altro, proprio queste assunzioni a
tempo determinato o con altre forme
flessibili, erano il naturale metodo per la
sostituzione dei dipendenti assenti dal
servizio permettendo anche di mantenere
adeguati livelli di spesa di personale per
il futuro.
A meno che questa non sia l'occasione buona
per rimettere mano all'interpretazione che,
se anche non chiaramente condivisa dalla
Ragioneria dello Stato, è stata suggellata
dalla Corte dei conti, Sezione Autonomie.
Questa interpretazione prevede che l'obbligo
di riduzione della spesa di personale debba
avvenire in termini progressivi e costanti
rispetto all'anno precedente (Deliberazioni
n. 1 e 3 del 2010).
È evidente che regole sul turn-over e spese
di personale da ridurre di anno in anno
collidono e portano al collasso la gestione
del personale.
E proprio il turn-over sarà un'altra sfida
per gli enti minori. Infatti, ad oggi, chi
non è soggetto a Patto può assumere nel
limite delle cessazioni dell'anno
precedente. Dal 2013, anche queste
amministrazioni, potranno invece assumere
nel limite del 20% delle cessazioni
dell'anno precedente.
Un bel pasticcio. Se infatti un piccolo
Comune avrà una cessazione nel 2012 e non
potrà ricoprirla in quanto nel 2011 non vi
era alcuna fuoriuscita di personale,
difficilmente riuscirà a portarla a termine
anche nel 2013, quando scatterà il 20 per
cento.
Certo, rimane sempre la mobilità,
considerata neutra (né assunzione, né
cessazione) quando avviene tra
amministrazioni che hanno limitazioni alle
assunzioni. Ma già in questi mesi ci si
rende conto che la cessione di contratti tra
un ente e l'altro è diventata molto
complicata, perché ognuno si aggrappa
fortemente alle proprie risorse umane. Una
possibile, ulteriore, alternativa potrebbe
arrivare dalla gestione associata delle
funzioni fondamentali (rinviata di nove
mesi) e le convenzioni per l'utilizzo a
tempo parziale del personale, disciplinate
dall'articolo 14 del contratto nazionale del
2004.
Rapporto tra spese di personale e spese
correnti al di sotto del 50% e vincoli sul
fondo delle risorse decentrate chiudono il
quadretto delle norme che renderanno
impossibile l'applicazione delle regole per
i comuni che transiteranno nel patto di
stabilità.
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I paletti
01|LA REGOLA
Dal 2013 il Patto di stabilità si estende
anche ai Comuni compresi fra 1.001 e 5mila
abitanti
02|SPESE DI PERSONALE
I Comuni soggetti al Patto devono rispettare
regole diverse nella gestione della spesa di
personale rispetto agli enti esclusi. I
Comuni soggetti al Patto, per esempio,
devono ridurre le uscite rispetto all'anno
precedente, mentre quelli esclusi sono
tenuti solo a mantenere i livelli del 2004
03|TURN-OVER
I Comuni soggetti al Patto devono rispettare
le regole del turn-over, mentre quelli
esclusi hanno la possibilità di assumere nel
limite delle cessazioni dell'anno precedente
(articolo Il Sole 24
Ore del 19.03.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI: Bilanci 2012 a rischio con le elezioni.
Scadenze. Dopo la proroga a giugno non è
certo che siano atti «indifferibili»
Il Testo unico degli enti locali (articolo
38, comma 5) stabilisce che i consigli
durano in carica sino all'elezione dei
nuovi, limitandosi, dopo la pubblicazione
del decreto di indizione dei comizi
elettorali, ad adottare gli atti urgenti ed
improrogabili. Fissate le elezioni per il 6
e 7 maggio, i consigli comunali in scadenza
si ritroveranno a dover decidere se
deliberare il rendiconto di gestione con
scadenza prevista al 30.04.2012 e il
bilancio di previsione con scadenza prevista
il 30 giugno.
Al riguardo non vi sono dubbi sul fatto che
l'approvazione del rendiconto di gestione
costituisca atto urgente e improrogabile, in
quanto atto la cui scadenza è prefissata per
legge (si veda la circolare del ministero
dell'Interno FL 6/2009 e la circolare Anci
36/2009), e anche in considerazione degli
effetti negativi che la mancata approvazione
del rendiconto nei termini comporta.
Qualche problema invece sembra sorgere per
l'approvazione, da parte del consiglio in
scadenza, del bilancio di previsione 2012,
dal momento che la scadenza è stata
prorogata al 30 giugno e quindi quasi due
mesi dopo lo svolgimento delle elezioni. Al
riguardo deve evidenziarsi la presenza di
giurisprudenza amministrativa (Tar
Lombardia) che si è orientata nel senso che
la limitazione delle funzioni del Consiglio
Comunale, nei 46 giorni antecedenti la data
fissata per le elezioni, ai soli atti che
siano «urgenti e improrogabili» e non
possano pertanto attendere di essere portati
all'attenzione del nuovo consiglio, trova
inderogabile applicazione soprattutto
laddove il potere esercitato in prossimità
del suo spirare regoli situazioni future che
sono in grado di produrre effetti permanenti
e che vincolano nelle scelte discrezionali
il successivo titolare della potestà
amministrativa.
Per il bilancio 2012, vista la sua
possibilità di approvazione entro il 30.06.2012 e quindi ad opera della nuova
amministrazione, una sua approvazione da
parte del consiglio comunale in scadenza
sembra porre il problema del rispetto dei
requisiti di urgenza e improrogabilità; ciò
tenuto conto soprattutto del fatto che si
tratterebbe di scelte che vincolerebbero o
condizionerebbero anche la nuova
amministrazione (vi veda Tar Puglia n.
382/2004), anche alla luce della
giurisprudenza più recente che appare
restrittiva al riguardo.
A tal fine va segnalata, tra le altre la
sentenza della Corte Costituzionale, la n.
68/2010 che, pur intervenendo in materia
regionale (ma con principi validi per
l'intero ordinamento delle autonomie), ha
sancito chiaramente il principio che
nell'immediata vicinanza al momento
elettorale, pur restando ancora titolare
della rappresentanza del corpo elettorale,
il Consiglio non solo deve limitarsi ad
assumere determinazioni del tutto urgenti o
indispensabili, ma deve comunque astenersi,
al fine di assicurare una competizione
libera e trasparente, da ogni intervento che
possa essere interpretato come una forma di
captatio benevolentiae nei confronti
degli elettori; interessante sul punto è poi
la sentenza 578/2011 del Tar Friuli, che ha
escluso la validità di delibere adottate in
pendenza di elezioni in assenza di un
termine di necessaria esecuzione.
Su questa falsariga è intervenuta in queste
settimane anche la circolare della Regione
Friuli Venezia Giulia n. 2/2012, del 5
marzo, dove si dice che a decorrere da
quella data i Consigli comunali,
nell'esercizio della loro discrezionalità
amministrativa, potranno autonomamente,
individuare i casi in cui ricorrono gli
estremi dell'urgenza e improrogabilità
richiesti dalla normativa per giustificare
l'esercizio delle funzioni loro proprie.
La circolare aggiunge che «si reputa
conveniente» -ricordare che questi casi sono
senz'altro da rinvenire «ogniqualvolta
l'inattività degli organi comporti un danno
per l'ente o si configuri come un
inadempimento in relazione a precisi
obblighi derivanti da leggi, provvedimenti
amministrativi o comunque collegati a
vincoli contrattuali; si evidenzia, inoltre,
la necessità che l'improrogabilità e
l'urgenza vengano adeguatamente motivate,
specialmente quando sono atti per il cui
compimento non è prescritto un termine».
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L'incognita
01|LA REGOLA
Nei 46 giorni precedenti alle elezioni
amministrative, il consiglio comunale può
occuparsi solo degli atti indifferibili e
urgenti, cioè quelli che non possono essere
lasciati all'amministrazione subentrante
perché obbligati da scadenze vincolanti
02|LA PROROGA
Per il 2012, il termine di presentazione dei
bilanci preventivi di Comuni e Province è
stato fissato al 30.06.2012, cioè due
mesi dopo il turno elettorale
03|LA CONSEGUENZA
L'approvazione dei preventivi 2012 da parte
dei consigli uscenti può essere contestata
dove i Comuni sono interessati dalle
elezioni del 6 e 7 maggio
(articolo Il Sole 24
Ore del 19.03.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI FORNITURE: Fornitore
inadempiente? Al comune va risarcito anche
il danno all'immagine.
Il comune incassa anche il danno alla
«credibilità politica» per l'inadempimento
del fornitore: la risoluzione del contratto
impone di ristorare la lesione all'immagine
dell'amministrazione presso i
cittadini-elettori. Non paga soltanto i
danni patrimoniali il fornitore del comune
che si vede risolvere il contratto per
inadempimento: l'impresa rivelatasi
negligente nell'esecuzione della prestazione
pattuita è tenuta anche a rifondere il
pregiudizio arrecato all'immagine
dell'amministrazione locale, che viene lesa
nella sua credibilità politica presso i
cittadini.
Lo precisa la
sentenza
22.03.2012 n. 4542 della III Sez.
civile della Corte di Cassazione.
Danno alla popolarità. Confermata la
condanna a carico di un'azienda rea di aver
noleggiato al comune una tensostruttura che
alla prova dei fatti si è dimostrata
fatiscente, nonostante gli «altolà» della
commissione provinciale di vigilanza.
Insomma: l'amministrazione ci ha messo la
faccia e ha rimediato una figuraccia perché
la struttura inadeguata è stata utilizzata
per spettacoli organizzati nell'ambito di
una manifestazione culturale su cui pure la
giunta puntava molto. E la società dovrà
pagare 100 mila euro di danni all'ente
locale per aver compromesso lo svolgimento
della stagione teatrale all'aperto. Vediamo
perché.
È pacifico, intanto, che anche le
persone giuridiche, accanto a quelle
fisiche, possano ottenere il risarcimento
del danno non patrimoniale: non conta,
peraltro, se la lesione scaturisce da una
responsabilità contrattuale o aquiliana. È
vero: nel caso di enti collettivi il
risarcimento scatta per la «lesione di
diritti della personalità che altrettanto
garantiti delle persone fisiche che
compongono l'ente». Ma proprio per questo
sbaglia l'azienda inadempiente a dolersi del
risarcimento liquidato all'amministrazione:
la decisione di noleggiare la tensostruttura
per realizzare un'iniziativa culturale
scaturisce dall'esigenza acquisire una
maggiore considerazione presso i
cittadini-elettori: è allora evidente che la
reputazione e il prestigio costituiscono
beni essenziali anche per il comune, che sul
rapporto con gli amministrati si gioca la
sua credibilità da portare «all'incasso»
alle successive elezioni.
Insomma: non c'è
dubbio che il calo di popolarità, inteso
come diminuzione della considerazione presso
i consociati, sia un danno non patrimoniale
immediatamente risarcibile per gli enti
territoriali rappresentativi.
Due profili. La spiegazione è offerta dagli
stessi giudici con l'ermellino: anche le
persone giuridiche, tra cui vanno compresi
gli enti territoriali esponenziali, come per
esempio i comuni, possono essere lesi in
quei diritti immateriali della personalità,
che sono compatibili con «l'assenza di
fisicità».
Qualche esempio? I diritti
all'immagine, alla reputazione, all'identità
storica, culturale, e politica che sono
protetti dalla Costituzione: ecco perché in
tale ipotesi le amministrazioni ben possono
agire per il ristoro del danno. Va ricordato
poi che nell'ipotesi di lesione
dell'immagine della persona giuridica o di
un ente territoriale, il danno non
patrimoniale, in quanto tale, deve essere
necessariamente liquidato alla persona
giuridica o all'ente in via equitativa,
tenendo conto di tutte le circostanze del
caso concreto. Insomma: il giudice di
secondo grado non ha sbagliato a condannare
l'impresa.
Il danno alla «credibilità politica» risulta
liquidabile come conseguenza della
diminuzione della considerazione del comune
da due punti di vista: sotto il profilo
dell'incidenza negativa che la diminuzione
comporta nell'agire del sindaco e della
giunta e anche rispetto al calo di
popolarità presso i cittadini in genere o
presso settori o categorie di essi con le
quali l'ente di interagisce di solito. Il
danno non patrimoniale, dunque, va inteso
come un classico danno-conseguenza previsto
dall'ordinamento giuridico. All'azienda non
resta che pagare le spese processuali
(articolo ItaliaOggi del
23.03.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Solo
peculiari e straordinarie esigenze di
interesse pubblico possono derogare alla
regola generale che subordina
l'instaurazione di un rapporto d'impiego con
un ente pubblico alla partecipazione ad un
concorso pubblico.
A termini dell’art. 5, comma 18, della legge
08.01.1979, n. 3, per la instaurazione di un
valido rapporto di impiego con un ente
pubblico è necessaria la partecipazione ad
un concorso o ad una prova selettiva
pubblica, perché il concorso pubblico, quale
meccanismo imparziale di selezione tecnica e
neutrale dei più capaci sulla base del
criterio del merito, costituisce la forma
generale e ordinaria di reclutamento per le
pubbliche amministrazioni, nonché un
ineludibile presidio delle esigenze di
trasparenza e di efficienza dell'azione
amministrativa.
Le eccezioni a tale regola consentite
dall'art. 97 della Costituzione possono
essere disposte solo con legge e debbono
rispondere a “peculiari e straordinarie
esigenze di interesse pubblico” (Corte
Costituzionale, sentenza n. 81, del
22.02.2006) … ”altrimenti la deroga si
risolverebbe in un privilegio a favore di
categorie più o meno ampie di persone”
(Corte Costituzionale, sentenza n. 205 del
17.05.2006) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 22.03.2012 n.
1625
- massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Dipendenti
degli enti locali: nessun riconoscimento
giuridico ed economico alle mansioni
superiori esercitate di fatto.
L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato,
con decisione n. 22 del 18.11.1999, ha
rimarcato che le mansioni svolte, superiori
a quelle dovute sulla base del provvedimento
di nomina o di inquadramento, sono del tutto
irrilevanti ai fini economici e di
progressione di carriera, salvo che la legge
non disponga altrimenti e che l’attribuzione
della mansioni e del relativo trattamento
economico devono trovare presupposto nel
provvedimento stesso di nomina o di
inquadramento. Nel pubblico impiego, in
sostanza, è la qualifica e non le mansioni
il parametro di riferimento per la
retribuzione, considerata la rigidità
organizzatoria propria della pubblica
amministrazione, legata anche ad esigenze
fondamentali di controllo della spesa
pubblica, così come previsto dall’articolo
97 della Costituzione.
In ordine al disposto dell’articolo 36 della
Costituzione, richiamato nel caso di specie
dall’appellante unitamente alla sentenza
della Corte Costituzionale n. 296/19909,
come da giurisprudenza ricorrente deve
osservarsi che la norma trova applicazione
nel pubblico impiego in concorso con altri
principi di pari rilevanza, quali il buon
andamento e l’imparzialità
dell’amministrazione e la rigida
determinazione delle attribuzioni e
responsabilità dei funzionari. Tali principi
non consentono di dare riconoscimento
giuridico ed economico alle mansioni
superiori esercitate di fatto (Cons., Stato,
sez. VI, 18.09.2009, n. 5605).
Giova rilevare che tale limite ha carattere
di generalità nel pubblico impiego, tanto
che per i dipendenti degli enti locali la
possibilità di riconoscimento delle mansioni
superiori è stata esclusa dai vari D.P.R.
che hanno recepito gli accordi collettivi di
categoria, per evitare che con tale
conferimento si potesse far luogo dello
slittamento in alto delle varie qualifiche,
con conseguenti squilibri e lievitazione
della spesa pubblica.
Deve osservarsi, da ultimo, che gli artt. 56
e 57 del D.lgs. n. 29 del 31.03.1993, pure
evocati dall’appellante, escludono la
rilevanza delle mansioni superiori svolte di
fatto da un pubblico dipendente, in quanto
il divieto di riconoscimento delle stesse ai
fini di un diverso inquadramento è coerente
ai dettati costituzionali, in particolare
all’articolo 97 che, per il principio di
imparzialità obbliga alla osservanza delle
regole di selezione e di accesso al pubblico
impiego, per il buon andamento della
pubblica amministrazione e per dare ad essa
certezze sul piano organizzativo e
finanziario (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 22.03.2012 n.
1623 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Sebbene
l’art. 90, comma 8, del codice dei contratti
pubblici sancisca l’incompatiblità fra
esecuzione dei lavori ed attività di
progettazione degli stessi, il medesimo
principio deve ritenersi applicabile anche
agli appalti di servizi di progettazione,
con conseguente divieto di aggiudicazione
dell’incarico di progettazione definitiva ai
professionisti che abbiano elaborato o
concorso ad elaborare la progettazione
preliminare, qualora da ciò possa derivare
in capo agli stessi una posizione di
vantaggio rispetto ai concorrenti.
La giurisprudenza del Giudice amministrativo
d’appello ha di recente sancito che, sebbene
l’art. 90, comma 8, del codice dei contratti
pubblici sancisca l’incompatiblità fra
esecuzione dei lavori ed attività di
progettazione degli stessi, il medesimo
principio deve ritenersi applicabile anche
agli appalti di servizi di progettazione,
con conseguente divieto di aggiudicazione
dell’incarico di progettazione definitiva ai
professionisti che abbiano elaborato o
concorso ad elaborare la progettazione
preliminare, qualora da ciò possa derivare
in capo agli stessi una posizione di
vantaggio rispetto ai concorrenti (Cons.
Stato, IV, 03/05/2011, n. 2650)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 22.03.2012 n. 890 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO:
La previsione del bando, quale
lex specialis della procedura, non può
disapplicarsi nemmeno se in contrasto con la
normativa primaria, essendo necessaria la
previa impugnazione della stessa e la sua
caducazione ad opera del giudice o della
stessa Amministrazione in sede di
autotutela.
La previsione del bando, quale lex
specialis della procedura, non può
disapplicarsi nemmeno se in contrasto con la
normativa primaria –come pare evidente in
questo caso, atteso il chiaro disposto degli
artt. 46 e ss. del D.P.R. n. 445 del 2000–
essendo necessaria la previa impugnazione
della stessa e la sua caducazione ad opera
del giudice o della stessa Amministrazione
in sede di autotutela (cfr. Consiglio di
Stato, V, 11.01.2012, n. 82) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 22.03.2012 n. 887 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sulla mancata indicazione dei concreti
soggetti per i quali la dichiarazione viene
resa.
Le dichiarazioni relative all'assenza di
condanne penali, da parte degli
amministratori e direttori tecnici sono da
questi rese non nel proprio interesse, bensì
nell'interesse dell'impresa concorrente,
sicché è possibile che l'amministratore che
sottoscrive gli atti di gara renda le
dichiarazioni anche in vece degli altri
soggetti coinvolti, osservando le
prescrizioni di cui all'art. 47, commi 1 e 2, d.P.R. n. 445 del 2000 (nel caso di specie,
il disciplinare di gara, correttamente
inteso, commina l'esclusione per la sola
ipotesi che la dichiarazione ex art. 38,
d.lgs. n. 163 del 2006 sia stata del tutto
omessa, mentre non può farsene discendere la
sanzione dell'esclusione nel caso in cui il
legale rappresentante dell'impresa
capogruppo abbia sottoscritto la
dichiarazione anche per conto degli altri
amministratori, le cui generalità sono
peraltro desumibili dal certificato di
iscrizione al registro delle imprese, che lo
stesso disciplinare impone di allegare
all'offerta)
(massima tratta da
www.dirittodegliappaltipubblici.it - TAR
Sicilia-Catania, Sez. III,
sentenza 22.03.2012 n. 749
- link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
I consiglieri comunali possono
impugnare gli atti del consiglio nel quale
siedono esclusivamente quando questi
incidano sulla possibilità di esercitare
adeguatamente il mandato.
Nel caso di specie due consiglieri comunali
hanno impugnato innanzi al Consiglio di
Stato la sentenza del giudice di primo grado
che aveva dichiarato inammissibile il
ricorso dai medesimi proposto avverso alcune
deliberazioni del Consiglio Comunale con le
quali per esempio erano stati riconosciuti
ed approvati debiti fuori bilancio ai sensi
dell’art. 194, primo comma, lett. a ed e,
d.lgs. n. 267/2000.
Il Consiglio di Stato ha rigettato l'appello
sulla base del pacifico orientamento
giurisprudenziale secondo il quale i
consiglieri di ente locale sono legittimati
all’impugnazione degli atti del consiglio
nel quale siedono esclusivamente quando
questi incidano sulla possibilità di
esercitare adeguatamente il mandato (C. di
S., VI, 19.05.2010, n. 3130; V, 19.02.2007,
n. 826; 15.12.2005, n. 7122; 31.01.2001, n.
358).
Inoltre si precisa nella sentenza che
l’omissione o il ritardo nel fornire ai
consiglieri dell’ente locale gli atti
presupposti ad una proposta di delibera non
costituisce lesione del diritto allo “jus
ad officium” e quindi non legittima il
consigliere alla proposizione del ricorso,
restando la sua tutela affidata
all’espressione a verbale del proprio
dissenso in quanto corollario del più
generale principio sopra affermato
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
21.03.2012 n. 1610 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Non è necessario che vengano
redatti i verbali di gara in contestualità.
Il
Consiglio di Stato nella sentenza in
commento per ciò che riguarda la
contestualità della verbalizzazione ha
affermato che questa non è necessaria: essa
può essere redatta anche in un secondo
momento, purché in sede di procedura di
gara, il segretario verbalizzante prenda i
necessari appunti per poter in un secondo
momento redigere con attenzione il relativo
verbale, non essendo certamente possibile
durante le convulse e veloci fasi della gara
la compiuta ed esatta verbalizzazione degli
accadimenti.
Quanto, poi, al fatto che alcune
contestazioni dell’appellante non sono state
verbalizzate, al di là del fatto che una
tale pratica è irregolare, ciò non può però
considerarsi un “vulnus”, in quanto
in ogni caso, anche in mancanza di
verbalizzazione, è sempre possibile far
valere eventuali ritenute illegittimità
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 21.03.2012 n.
1599
- massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La sigillazione, prevista con
varie modalità dalla “lex specialis” ha la
sua ragione sia nel dimostrare la
provenienza della busta e sia nell’evitare
che la stessa possa essere manomessa,
potendo procedersi ad estrarre il contenuto
della stessa e modificarlo in un secondo
momento e, proprio per ciò, il bando ha
previsto una serie di modalità alternative
tra loro (ceralacca, nastro antistrappo o
strumenti equivalenti), tutte capaci di
garantire la finalità sopra indicata.
Nel caso di specie, la presenza di una busta
già presigillata dal fornitore, non poteva
essere chiusa in altro modo e la
sovrapposizione di un timbro e di una sigla
da parte del presentatore garantisce, da un
lato, la provenienza della busta medesima da
parte dell’impresa partecipante, e,
dall’altro, individua una garanzia di
sigillazione tale da non poter essere
manomessa, a pena di alterare l’originalità
della chiusura e i simboli sopra apposti dal
presentatore.
Né si dica che tali modalità avrebbero
permesso la manomissione e la ricomposizione
con altra busta, in quanto ciò,
astrattamente sarebbe stato possibile, con
qualunque sigillazione.
Pertanto, le modalità di sigillazione
rispondono alle indicazioni del bando di
gara e vanno ritenute coerenti con esse, in
quanto strumenti equivalenti (ammessi dalla
disciplina di gara).
Il punto
fondamentale della questione, già rilevato
in primo grado e sul quale l’appellante
ritiene che la sentenza appellata non si sia
adeguatamente pronunciata, concerne la
mancata sigillazione della busta “a
sacchetto” conformemente a quanto
previsto dal bando.
Ora, la sigillazione, prevista con varie
modalità dalla “lex specialis” ha la
sua ragione sia nel dimostrare la
provenienza della busta e sia nell’evitare
che la stessa possa essere manomessa,
potendo procedersi ad estrarre il contenuto
della stessa e modificarlo in un secondo
momento e, proprio per ciò, il bando ha
previsto una serie di modalità alternative
tra loro (ceralacca, nastro antistrappo o
strumenti equivalenti), tutte capaci di
garantire la finalità sopra indicata.
Nel caso di specie, la presenza di una busta
già presigillata dal fornitore, non poteva
essere chiusa in altro modo e la
sovrapposizione di un timbro e di una sigla
da parte del presentatore garantisce, da un
lato, la provenienza della busta medesima da
parte dell’impresa partecipante, e,
dall’altro, individua una garanzia di
sigillazione tale da non poter essere
manomessa, a pena di alterare l’originalità
della chiusura e i simboli sopra apposti dal
presentatore.
Né si dica che tali modalità avrebbero
permesso la manomissione e la ricomposizione
con altra busta, in quanto ciò,
astrattamente sarebbe stato possibile, con
qualunque sigillazione.
Pertanto, le modalità di sigillazione
rispondono alle indicazioni del bando di
gara e vanno ritenute coerenti con esse, in
quanto strumenti equivalenti (ammessi dalla
disciplina di gara)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 21.03.2012 n.
1599
- link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - SEGRETARI COMUNALI:
Procedimento di nomina del Segretario
comunale o provinciale.
E'
inequivocabile che il Sindaco (o il
Presidente della Provincia) può provvedere
alla nomina “solo in presenza e dopo
l’intervenuta assegnazione, da parte dell’Ages,
del Segretario in precedenza individuato;
ove manchi l’assegnazione, non può farsi
luogo ad alcuna nomina e quella
eventualmente disposta deve stimarsi tamquam
non esset per carenza del suo unico ed
indefettibile presupposto.
Detto altrimenti, la nomina del Segretario
procede dal perfezionamento di una
fattispecie a formazione progressiva, di cui
l’assegnazione da parte dell’Agenzia è un
elemento essenziale e costitutivo: non è
pensabile, infatti, alla luce dei principi
generali, che un ente pubblico (nello
specifico, la Provincia o il Comune) possa
avvalersi di un impiegato appartenente al
ruolo di una differente amministrazione,
senza aver preventivamente raggiunto con
quest’ultima una specifica intesa (il
termine, qui ovviamente utilizzato in senso
atecnico, allude alla convergenza oggettiva
che deve necessariamente realizzarsi, in
sede procedimentale, tra le richieste
formulate dall’ente locale e l’esito delle
verifiche delegate istituzionalmente
all’Agenzia)”.
Ai fini del
decidere, appare opportuno richiamare la
normativa che disciplina la materia e
precisamente il D.Lgs. n. 267 del 2000, il
D.P.R. 04.12.1997, n. 465 nonché il
contratto collettino nazionale di lavoro dei
segretari comunali e provinciali siglato il
16.05.2001, i quali –per quanto di rilevanza
in questa sede– prevedono che:
- “il comune e la provincia hanno un
segretario titolare dipendente dell’Agenzia
autonoma per la gestione dell’albo dei
segretari comunali e provinciali, di cui
all’art. 102 e iscritto all’albo di cui
all’art. 98” (art. 97, comma 1, D.Lgs.
n. 267 del 2000);
- “l’iscrizione all’albo è subordinata al
possesso dell’abilitazione concessa dalla
Scuola superiore per la formazione e la
specializzazione dei dirigenti della
pubblica amministrazione locale ovvero dalla
sezione autonoma della Scuola superiore
dell’amministrazione dell’Interno” (art.
98, comma 4, D.Lgs. n. 267 del 2000);
- “al relativo corso si accede mediante
concorso nazionale a cui possono partecipare
i laureati in giurisprudenza, scienze
politiche, economia” (art. 98, comma 5,
D.Lgs. n. 267 del 2000);
- il consiglio nazionale di amministrazione
dell’Agenzia autonoma per la gestione
dell’albo dei segretari comunali e
provinciali dispone l’iscrizione nell’albo,
nella prima fascia professionale, degli
idonei ai concorsi all’uopo espletati (art.
12 D.P.R. n. 465 del 1997);
- i segretari comunali e provinciali
risultano iscritti in specifiche fasce
professionali (art. 12 D.P.R. n. 465 del
1997);
- “il sindaco e il presidente della
provincia nominano il segretario, che
dipende funzionalmente dal capo
dell’amministrazione, scegliendo tra gli
iscritti all’albo di cui all’art. 98”
(art. 99, comma 1, D.Lgs. n. 267 del 2000;
art. 15 del D.P.R. n. 465 del 1997);
- “la nomina è disposta non prima di 60
giorni e non oltre 120 giorni dalla data di
insediamento del sindaco e del presidente
della provincia, decorsi i quali il
segretario è confermato” (art. 99, comma
3, D.Lgs. n. 267 del 2000; art. 15 D.P.R. n.
465 del 1997);
- “l’avvio della procedura di nomina è
pubblicizzato nelle forme stabilite dal
consiglio nazionale di amministrazione.
L’Agenzia fornisce, a richiesta i curricula
relativi alle caratteristiche professionali
dei segretari. La nomina del segretario ha
effetto dall’accettazione” (art. 15,
comma 4, D.P.R. n. 465 del 1997);
- “1. la nomina a segretario avviene nel
rispetto delle previsioni del T.u.e.l. n.
267/2000 e del DPR n. 465/1997. 2. A tal
fine, a seguito dell’avvio della procedura
che deve essere pubblicizzato nelle forme
stabilite dal Consiglio nazionale di
amministrazione, la Sezione regionale
dell’Agenzia competente trasmette ai sindaci
che ne hanno fatto richiesta l’elenco dei
segretari iscritti e che non siano già
titolari di incarichi presso altri enti, con
i relativi curricula” (art. 17 CCNL);
- “il rapporto di lavoro dei segretari
comunali e provinciali è costituito e
regolato da contratti individuali, secondo
le disposizioni di legge, della normativa
comunitaria e del presente contratto
collettivo di lavoro. Il rapporto di lavoro
con l’Agenzia nazionale si instaura con la
sottoscrizione del contratto individuale con
la prima nomina a segretario generale”
(art. 15 CCNL);
- l’eventuale “mancata accettazione della
prima nomina comporta automaticamente la
cancellazione dall’albo” (art. 13 del
D.P.R. n. 465 del 1997; art. 17 CCNL).
Come già si evince da quanto riportato:
- risultava istituita un’Agenzia autonoma
per la gestione dell’albo dei segretari
comunali e provinciali, “avente
personalità giuridica di diritto pubblico e
sottoposta alla vigilanza del Ministero
dell’Interno” (art. 102 D.Lgs. n. 267
del 2000; art. 1 del D.P.R. n. 465 del
1997), poi venuta meno a seguito
dell’entrata in vigore del D.L. 31.05.2010,
n. 78;
- in linea con le previsioni dell’art. 12
del D.P.R. n. 465 del 1997, il contratto
collettivo nazionale del 2001 ha previsto
tre fasce professionali per l’iscrizione
all’albo dei segretari comunali e
provinciali e precisamente la fascia C,
attinente ai segretari idonei alla
titolarità di comuni fino a 3.000 abitanti,
i quali abbiano superato il concorso ed il
corso previsti per l’accesso in carriera
(art. 13 D.P.R. n. 465 del 2001), la fascia
B, in cui sono inseriti i segretari
risultati idonei, a seguito del superamento
del corso di specializzazione della Scuola
Superiore di cui all’art. 14 del D.P.R. n.
467 del 1997, alla titolarità di sedi di
comuni fino a 65.000 abitanti, e, infine, la
fascia A, ricomprendente i segretari idonei,
a seguito del superamento del secondo corso
di specializzazione della Scuola Superiore,
alla titolarità di comuni con popolazione
superiore a 65.000 abitanti, nonché di
comuni capoluogo di provincia e di province,
con la precisazione che per l’ammissione ai
corsi di specializzazione è richiesta una
specifica anzianità di servizio pari ad
almeno due anni nella fascia C o, in
relazione al corso previsto per la fascia A,
“in comuni di classe II o superiore”
(cfr., tra l’altro, accordo sottoscritto il
13.01.2009 e, in precedenza, art. 31 CCNL).
Tutto ciò premesso, appare evidente che la
nomina del segretario comunale costituisce
il risultato di un iter complesso, il quale
–all’epoca della vicenda della ricorrente-
vedeva primariamente coinvolti l’Agenzia
sopra indicata ed il Sindaco.
A seguito delle riforme varate sul finire
degli anni novanta del secolo scorso (cc.dd.
“riforme Bassanini”), i segretari
comunale e provinciali sono, infatti,
divenuti dipendenti dell’Agenzia (cfr. art.
97, comma 1, del TUEL, già richiamato) ma si
tratta comunque di funzionari che
intrattengono un rapporto funzionale di
servizio con gli enti locali di
assegnazione.
Come osservato dal Consiglio di Stato (cfr.
Sez. V, 31.07.2006, n. 4694), sussiste “embricazione”
tra due rapporti, da identificare con quello
di impiego e quello di servizio, la quale
chiaramente rivela che l’atto di
assegnazione dell’Agenzia costituisce uno
snodo fondamentale del procedimento di
nomina.
La procedura –così come desumibile dalle
previsioni di cui sopra ma anche dalla
deliberazione del Consiglio Nazionale di
Amministrazione n. 150 del 15.07.1999–
risulta, infatti, così articolata:
- avvio del procedimento di nomina da parte
del Sindaco (o dal Presidente della
Provincia) tramite richiesta all’Agenzia di
pubblicare avviso di ricerca di un
segretario per l’ente;
- pubblicazione dell’avviso di vacanza sul
sito internet dell’Agenzia;
- individuazione da parte
dell’amministrazione richiedente del
nominativo del segretario da nominare e
conseguente richiesta di assegnazione
indirizzata all’Agenzia;
- assegnazione da parte dell’Agenzia, una
volta accertato il possesso, in capo al
segretario individuato, dei requisiti
prescritti per l’assunzione dell’incarico;
- adozione da parte del Sindaco (o del
Presidente della Provincia) del
provvedimento di nomina del segretario
assegnato;
- accettazione da parte del nominato ed
assunzione in servizio dello stesso.
Ciò detto, è inequivocabile che il Sindaco
(o il Presidente della Provincia) può
provvedere alla nomina “solo in presenza
e dopo l’intervenuta assegnazione, da parte
dell’Ages, del Segretario in precedenza
individuato; ove manchi l’assegnazione, non
può farsi luogo ad alcuna nomina e quella
eventualmente disposta deve stimarsi tamquam
non esset per carenza del suo unico ed
indefettibile presupposto. Detto altrimenti,
la nomina del Segretario procede dal
perfezionamento di una fattispecie a
formazione progressiva, di cui
l’assegnazione da parte dell’Agenzia è un
elemento essenziale e costitutivo: non è
pensabile, infatti, alla luce dei principi
generali, che un ente pubblico (nello
specifico, la Provincia o il Comune) possa
avvalersi di un impiegato appartenente al
ruolo di una differente amministrazione,
senza aver preventivamente raggiunto con
quest’ultima una specifica intesa (il
termine, qui ovviamente utilizzato in senso
atecnico, allude alla convergenza oggettiva
che deve necessariamente realizzarsi, in
sede procedimentale, tra le richieste
formulate dall’ente locale e l’esito delle
verifiche delegate istituzionalmente
all’Agenzia)” (cfr. C.d.S., dec.
citata).
Stante quanto precisato, il Collegio ritiene
di poter affermare che –in carenza del
rispetto della procedura di cui sopra ed, in
particolare, dell’espletamento da parte
dell’Agenzia dell’attività alla stessa
spettante– alcun valido rapporto di servizio
potrà mai instaurarsi tra il Sindaco ed il
Segretario Comunale e, dunque, non potrà
utilmente maturare e, conseguentemente,
essere ravvisato il periodo di servizio
richiesto per l’ammissione al corso di
specializzazione interno per il
conseguimento dell’idoneità a segretario di
fascia più alta
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-ter,
sentenza 20.03.2012 n. 2682 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nessuna
sanatoria di abusi edilizi per il
richiedente che non provi la data di
realizzazione delle opere.
Nel caso di proposizione di una istanza di
sanatoria di un immobile abusivo, il
richiedente ha l’onere di dimostrare la
sussistenza dei presupposti previsti dalla
legge e, in particolare, quale sia stata la
data di realizzazione delle opere.
Ove poi
un interessato intenda far rilevare
dall’amministrazione comunale che l’edificio
è stato realizzato in un’epoca in cui ancora
la normativa allora vigente non richiedeva
titoli edilizi (e pertanto chieda un atto accertativo
in alternativa a quello di sanatoria che
presuppone l’abusività delle opere), egli
comunque abbia l’onere di dimostrare tutte
le relative circostanze di fatto
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza
20.03.2012 n. 1563
- massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
I vincoli espropriativi imposti
su beni determinati dallo strumento
urbanistico hanno, per legge, durata
limitata a cinque anni. Alla scadenza, se
non è intervenuta dichiarazione di pubblica
utilità dell'opera prevista, il vincolo
preordinato all'esproprio decade.
La decadenza dei vincoli urbanistici
espropriativi o che, comunque, privano la
proprietà del suo valore economico, comporta
l'obbligo per il Comune di "reintegrare" la
disciplina urbanistica dell'area interessata
dal vincolo decaduto con una nuova
pianificazione. Ne consegue che il
proprietario dell'area interessata può
presentare un'istanza, volta a ottenere
l'attribuzione di una nuova destinazione
urbanistica e l'amministrazione è tenuta a
esaminarla, anche nel caso in cui la
richiesta medesima non sia suscettibile di
accoglimento, con l'obbligo di motivare
congruamente tale decisione, fermo restando,
naturalmente, il potere discrezionale
dell'amministrazione comunale in ordine alla
verifica e alla scelta della destinazione,
in coerenza con la più generale disciplina
del territorio e con l'interesse pubblico al
corretto e armonico suo utilizzo.
Pertanto, la giurisprudenza amministrativa
ha costantemente affermato:
a) l’illegittimità del "silenzio serbato
dall'Amministrazione rispetto alla diffida
volta ad ottenere l'emanazione degli atti
necessari a conferire una nuova destinazione
urbanistica all'area dell'istante";
b) che l'Amministrazione ha l'obbligo di
"attribuire una nuova destinazione all'area
interessata e, in caso di inerzia, il
privato potrà agire in via giurisdizionale
mediante gli strumenti previsti contro il
silenzio-rifiuto dall'art. 2, l. n.
205/2000";
c) che l'accoglimento del gravame proposto
contro il silenzio-rifiuto formatosi su una
diffida a provvedere sulla definizione
urbanistica di un'area già oggetto di
vincolo espropriativi scaduto comporta
esclusivamente l'obbligo
dell'Amministrazione di provvedere
sull'istanza del soggetto interessato e di
attribuire all'area una specifica e
appropriata destinazione urbanistica.
Va ricordato che i vincoli espropriativi
imposti su beni determinati dallo strumento
urbanistico hanno, per legge, durata
limitata a cinque anni. Alla scadenza, se
non è intervenuta dichiarazione di pubblica
utilità dell'opera prevista, il vincolo
preordinato all'esproprio decade (cfr.
l’art. 2 L. n. 1187 del 1968 ed ora l’art. 9
del T.U. delle norme in materia di
espropriazione per pubblica utilità,
approvato con D.P.R. 08.06.2001, n. 327).
Secondo il consolidato orientamento della
giurisprudenza, la decadenza dei vincoli
urbanistici espropriativi o che, comunque,
privano la proprietà del suo valore
economico, comporta l'obbligo per il Comune
di "reintegrare" la disciplina
urbanistica dell'area interessata dal
vincolo decaduto con una nuova
pianificazione. Ne consegue che il
proprietario dell'area interessata può
presentare un'istanza, volta a ottenere
l'attribuzione di una nuova destinazione
urbanistica e l'amministrazione è tenuta a
esaminarla, anche nel caso in cui la
richiesta medesima non sia suscettibile di
accoglimento, con l'obbligo di motivare
congruamente tale decisione (cfr. Cons. St.,
Sez. IV, 22.06.2004 n. 4426; TAR Campania,
Salerno, Sez. I, 03.06.2009, n. 2825; TAR
Sicilia, Palermo, Sez. III, 25.06.2009 n.
1167; Catania, Sez. I, 13.03.2008 n. 467;
18.07.2006 n. 1183; 21.06.2004 n. 1733),
fermo restando, naturalmente, il potere
discrezionale dell'amministrazione comunale
in ordine alla verifica e alla scelta della
destinazione, in coerenza con la più
generale disciplina del territorio e con
l'interesse pubblico al corretto e armonico
suo utilizzo (cfr. Cons. St., sez. IV,
08.06.2007, n. 3025).
Pertanto, la giurisprudenza amministrativa
ha costantemente affermato:
a) l’illegittimità del "silenzio serbato
dall'Amministrazione rispetto alla diffida
volta ad ottenere l'emanazione degli atti
necessari a conferire una nuova destinazione
urbanistica all'area dell'istante" (cfr.
TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 19.05.2005 n.
860; TAR Napoli, Sez. VIII, 16.09.2008 n.
10204);
b) che l'Amministrazione ha l'obbligo di "attribuire
una nuova destinazione all'area interessata
e, in caso di inerzia, il privato potrà
agire in via giurisdizionale mediante gli
strumenti previsti contro il
silenzio-rifiuto dall'art. 2, l. n. 205/2000"
(cfr. Cons. St., Sez. IV, 28.01.2002 n.
456);
c) che l'accoglimento del gravame proposto
contro il silenzio-rifiuto formatosi su una
diffida a provvedere sulla definizione
urbanistica di un'area già oggetto di
vincolo espropriativi scaduto comporta
esclusivamente l'obbligo
dell'Amministrazione di provvedere
sull'istanza del soggetto interessato e di
attribuire all'area una specifica e
appropriata destinazione urbanistica (cfr.
TAR Veneto, Sez. I, 12.03.2004 n. 639)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 20.03.2012 n. 454 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Sono al
di fuori dello schema
ablatorio-espropriativo con le connesse
garanzie costituzionali (e quindi non
necessariamente con l'alternativa di
indennizzo o di durata predefinita) i
vincoli che importano una destinazione
(anche di contenuto specifico) realizzabile
ad iniziativa privata o promiscua
pubblico-privata, che non comportino
necessariamente espropriazione o interventi
ad esclusiva iniziativa pubblica e quindi
siano attuabili anche dal soggetto privato e
senza necessità di previa ablazione del
bene. Ciò può essere il risultato di una
scelta di politica programmatoria tutte le
volte che gli obiettivi di interesse
generale, di dotare il territorio di
attrezzature e servizi, siano ritenuti
realizzabili (e come tali specificatamente
compresi nelle previsioni pianificatorie)
anche attraverso l'iniziativa economica
privata - pur se accompagnati da strumenti
di convenzionamento. Si fa riferimento, ad
esempio, ai parcheggi, impianti sportivi,
mercati e complessi per la distribuzione
commerciale, edifici per iniziative di cura
e sanitarie o per altre utilizzazioni quali
zone artigianali o industriali o
residenziali; in breve, a tutte quelle
iniziative suscettibili di operare in libero
regime di economia di mercato.
---------------
Sono vincoli preordinati all'espropriazione
o di carattere sostanzialmente espropriativo
solo quelli che implicano uno svuotamento
incisivo della proprietà, mentre non lo sono
i vincoli di destinazione imposti dal piano
regolatore per attrezzature e servizi
realizzabili anche ad iniziativa privata o
promiscua, in regime di economia di mercato,
anche se accompagnati da strumenti di
convenzionamento (ad esempio parcheggi,
impianti sportivi, mercati e strutture
commerciali, edifici sanitari, zone
artigianali, industriali o residenziali).
In questa prospettiva, le destinazioni a
parco urbano, a verde urbano, a verde
pubblico, a verde pubblico attrezzato, a
parco giochi e simili si pongono al di fuori
dello schema ablatorio-espropriativo e
costituiscono espressione di potestà
conformativa (avente validità a tempo
indeterminato), quando lo strumento
urbanistico consente di realizzare tali
previsioni, non già ad esclusiva iniziativa
pubblica, ma ad iniziativa privata o
promiscua pubblico-privata, senza necessità
di ablazione del bene.
Va rammentato che la Corte costituzionale
(con la fondamentale sentenza 20.05.1999, n.
179) ha affermato (al p. 5.) che sono al di
fuori dello schema ablatorio-espropriativo
con le connesse garanzie costituzionali (e
quindi non necessariamente con l'alternativa
di indennizzo o di durata predefinita) i
vincoli che importano una destinazione
(anche di contenuto specifico) realizzabile
ad iniziativa privata o promiscua
pubblico-privata, che non comportino
necessariamente espropriazione o interventi
ad esclusiva iniziativa pubblica e quindi
siano attuabili anche dal soggetto privato e
senza necessità di previa ablazione del
bene. Ciò può essere il risultato di una
scelta di politica programmatoria tutte le
volte che gli obiettivi di interesse
generale, di dotare il territorio di
attrezzature e servizi, siano ritenuti
realizzabili (e come tali specificatamente
compresi nelle previsioni pianificatorie)
anche attraverso l'iniziativa economica
privata - pur se accompagnati da strumenti
di convenzionamento. Si fa riferimento, ad
esempio, ai parcheggi, impianti sportivi,
mercati e complessi per la distribuzione
commerciale, edifici per iniziative di cura
e sanitarie o per altre utilizzazioni quali
zone artigianali o industriali o
residenziali; in breve, a tutte quelle
iniziative suscettibili di operare in libero
regime di economia di mercato.
In tal senso si è consolidato un vasto
orientamento giurisprudenziale (cfr. Cons.
St. Sez. IV 29.08.2002 n. 4340, idem
30.06.2005 n. 3524; idem 12.05.2010 n. 2843;
Tar Milano, Sez. II, 29.01.2009, n. 989; TAR
Salerno, Sez. II, 27.04.2011 n. 764) che ha
affermato che sono vincoli preordinati
all'espropriazione o di carattere
sostanzialmente espropriativo solo quelli
che implicano uno svuotamento incisivo della
proprietà, mentre non lo sono i vincoli di
destinazione imposti dal piano regolatore
per attrezzature e servizi realizzabili
anche ad iniziativa privata o promiscua, in
regime di economia di mercato, anche se
accompagnati da strumenti di
convenzionamento (ad esempio parcheggi,
impianti sportivi, mercati e strutture
commerciali, edifici sanitari, zone
artigianali, industriali o residenziali).
In questa prospettiva, le destinazioni a
parco urbano, a verde urbano, a verde
pubblico, a verde pubblico attrezzato, a
parco giochi e simili si pongono al di fuori
dello schema ablatorio-espropriativo e
costituiscono espressione di potestà
conformativa (avente validità a tempo
indeterminato), quando lo strumento
urbanistico consente di realizzare tali
previsioni, non già ad esclusiva iniziativa
pubblica, ma ad iniziativa privata o
promiscua pubblico-privata, senza necessità
di ablazione del bene.
Pertanto, una volta esclusa per l'area di
cui si tratta la qualità di vincolo di
natura espropriativa nella destinazione ad
essa impressa dall'impugnato P.G.T, va
applicata la regola generale secondo cui le
scelte effettuate dall'Amministrazione
all'atto di adozione del piano regolatore
costituiscono apprezzamenti di merito
sottratti come tali al sindacato di
legittimità, salvo che non siano inficiate
da errori di fatto o abnorme illogicità
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 20.03.2012 n. 449 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Condizioni
per la formazione del silenzio assenso.
Per invocare la formazione del silenzio
assenso ai sensi dell’art. 20 della legge n.
241/1990 va dimostrato, oltre al decorso del
tempo, il possesso di tutte le condizioni di
carattere oggettivo e dei requisiti
soggettivi necessari per lo svolgimento
dell’attività per la quale vi è richiesta di
autorizzazione amministrativa (vedi C.d.S.,
sez. V, 11.02.1999, n. 145) (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 19.03.2012 n. 1545 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nessuna durata predefinita per le
autorizzazioni all'esercizio di impianti di
distribuzione del carburante, ma verifica
del Comune del permanere dei requisiti di
compatibilità.
A seguito dell’entrata in vigore del d.lgs.
n. 32/1998, è cambiata radicalmente la
natura del titolo in base al quale il
privato esercita l’attività di esercizio di
impianto di distribuzione carburanti, con la
conseguenza che la disciplina di tale
attività dovrà ritrovarsi per intero
nell’autonoma e diversa disciplina
dell’autorizzazione, senza che possa
ritenersi automaticamente in questa trasfuso
(non essendovi, peraltro, disposizione
alcuna in tal senso) il contenuto
dispositivo della precedente e non più
sussistente concessione.
Ed in questo senso, va rilevato come il
sopravvenuto d.lgs. abbia nella sostanza
sostituito al termine diciottennale, che
assisteva le cessate concessioni, un termine
determinato in ragione del suo tempo massimo
pari a quindici anni dalla prima verifica di
compatibilità, entro il quale il Comune deve
rinnovare la stessa verifica con un
procedimento apposito il cui esito può
essere:
1) o la rinnovata pronuncia di
compatibilità;
2) ovvero quella di incompatibilità, con il
conseguente iter procedurale che può
condurre alla chiusura dell’impianto,
laddove il titolare dello stesso non chieda
ovvero non presenti un piano di adeguamento,
ovvero presentandolo non ne consegua
l’approvazione.
Da ciò consegue che l’autorizzazione è
sottoposta, quanto alla sua efficacia
temporale, non ad una durata specificamente
predefinita, bensì alla verifica del
permanere dei requisiti di compatibilità ex
art. 1 cit. D.lgs., da effettuarsi da parte
della pubblica amministrazione (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 19.03.2012 n. 1543 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
sentenza che accoglie la domanda volta ad
obbligare la P.A. a concludere il
procedimento con provvedimento espresso non
determina anche la sussistenza della
competenza dell'autorità inerte.
Quando l’interessato presenti una istanza ad
una Amministrazione e poi chieda al giudice
amministrativo una sentenza che dichiari
l’obbligo di provvedere perché l’istanza non
è stata esaminata, la sentenza di
accoglimento di tale domanda non determina
anche la sussistenza della competenza
dell’autorità inerte, che si pronuncia
sull’istanza anche declinando la propria
competenza (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 19.03.2012 n.
1539 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Gare d'appalto: segretezza delle offerte.
E' legittima l'operazione di
gara nel caso in cui un commissario abbia
inavvertitamente provocato un taglio di 26
centimetri nella busta contenente l’offerta
economica di un concorrente.
Il taglio, infatti, "non offre alcuna
possibilità né di estrarre né tantomeno di
visionare , anche parzialmente, il contenuto
di detta busta" e che "al fine di evitare
che, anche in astratto sia minacciata la
segretezza del relativo contenuto ed al
contempo per consentire la verifica pubblica
dell’entità della lacerazione, la stessa
viene immediatamente riposta all’interno
della busta chiusa con colla e controfirmata
…".
Pertanto, ritiene il Collegio, non vi è
stata commistione tra busta contenente
offerta economica ed offerta tecnica, non
risulta che la Commissione (e nemmeno un
singolo membro della stessa ) sia venuta
preventivamente all’apertura delle buste a
conoscenza dell’offerta economica del
concorrente e deve comunque darsi atto che
tale offerta economica ha mantenuto
formalmente e sostanzialmente, ad onta della
lacerazione della busta in essa contenuta,
le caratteristiche della segretezza.
La vicenda in
controversia è incentrata su un episodio
accaduto durante i lavori della Commissione
giudicatrice della gara di appalto di che
trattasi in cui veniva (involontariamente)
operato un taglio di circa 26 cm sulla busta
contenente il plico economico della
concorrente Acciona Agua, lì dove tale
circostanza di fatto, pacificamente avvenuta
e documentata come da constatazione
riportata in apposito verbale da parte della
Commissione in questione, costituirebbe, ad
avviso di parte appellante ragione idonea ad
invalidare gli atti tutti del procedimento
concorsuale nonché quelli successivi
dell’Amministrazione in quanto assunti in
violazione dei principi della segretezza
delle offerte , della pubblicità delle
sedute di gara nonché della par condicio dei
concorrenti.
Le doglianze formulate non meritano positiva
considerazione perché frutto di una
(erronea) lettura e qualificazione del fatto
sopra evidenziato, circostanza che
contrariamente a quanto dedotto con gli atti
di gravame all’esame costituisce indice di
un operato della Commissione giudicatrice
che non ha affatto “falsato” la
procedura e gli esiti della gara , non si
pone in contrasto con i principi di
segretezza e parità di trattamento, ma anzi
contrassegna, come acutamente oltreché
correttamente osservato dal primo giudice,
un percorso amministrativo lineare e
trasparente.
Ove si proceda ad individuare e precisare
con esattezza i contorni entro cui far
rientrate l’accadimento in questione, ci si
avvede come l’assunto interpretativo
sostenuto dalla parte appellante sia privo
di giuridico fondamento.
Invero, quanto alla sua fisiologica
esistenza, non è certamente messo in
discussione l’intervenuto taglio della
busta, ma esso è pur sempre consistito in
una “mera” lacerazione della busta
per una misura , 26 cm, inidonea a
permettere l’estrazione del documento ivi
contenuto e/o a consentire la lettura del
documento stesso. Il Collegio è ben a
conoscenza dell’orientamento
giurisprudenziale secondo cui la possibilità
anche solo di fatto di prendere visione del
contenuto delle buste non ancòra
ufficialmente aperte compromette
l’imparzialità dell’operato della
Commissione (Cons. Stato Sez. V 19.05.2009;
idem Sez. VI 02/03/2009 n. 1180) ma non è
questo il caso che ci occupa.
Nella specie, in pratica non si è verificata
una vera e propria apertura della busta, ma
unicamente una lesione della stessa di una
consistenza tale da far rimanere intonso il
contenuto documentale ivi riposto, sì che
dal verificarsi di un siffatto accadimento
non è dato inferire l’avvenuta previa
conoscenza da parte della Commissione di
gara della offerta economica, non potendosi
conseguentemente ipotizzare, contrariamente
a quanto sostenuto dalla parte appellante,
che sia, intervenuta una qualche violazione,
neanche potenziale, delle regulae iuris
che sovraintendono alla procedura di
espletamento delle gare di appalto,
costituite dalla segretezza delle offerte e
dalla par condicio dei concorrenti.
La regolarità formale e sostanziale
dell’operato della Commissione è attestata
dalle risultanze che emergono dai processi
verbali redatti e sottoscritti dalla
Commissione stessa, da individuarsi
precisamente in:
● quello stilato nella seduta tecnica del
12.01.2010 in cui si constata,
contestualmente all’accaduto, il taglio
inavvertitamente prodotto con il taglierino
da uno dei commissari e si dà altresì atto
che il suddetto taglio “non offre alcuna
possibilità né di estrarre né tantomeno di
visionare , anche parzialmente, il contenuto
di detta busta” e che “al fine di
evitare che, anche in astratto sia
minacciata la segretezza del relativo
contenuto ed al contempo per consentire la
verifica pubblica dell’entità della
lacerazione, la stessa viene immediatamente
riposta all’interno della busta chiusa con
colla e controfirmata …”;
● quello della seduta pubblica del
31.03.2010 con cui si comunica quanto
accaduto, dandosi atto che il plico
contenente l’offerta economica era
regolarmente chiuso , non essendo stato
necessario aprirlo. Dallo stesso verbale
risulta altresì che si è proceduto
all’apertura della busta contenente il plico
lacerato e che “il Presidente richiama
l’attenzione dei tutti i presenti , facendo
contestualmente avvicinare il rappresentante
della Società Acciona Agua, che dal taglio
della busta non si sarebbe mai potuto
evincere il contenuto dell’offerta, giacché
i fogli ivi custoditi hanno dimensioni
maggiori rispetto al taglio inavvertitamente
prodotto. Non essendovi alcuna obiezione da
parte dei presenti, si procede alla
risigillatura della busta”.
Ora, non v’è dubbio che quanto ivi
attestato, avuto riguardo alla qualità e
valenza di atto pubblico fidefacente propria
del verbale (vedi artt. 2699 e ss codice
civile), dà contezza e fa piena prova della
veridicità e dell’entità dei fatti compiuti,
nonché delle modalità di svolgimento
dell’attività della stessa Commissione
(Cons. Stato Sez. IV 12/02/2010 n. 805; Sez.
V 1973/2001 n. 1642). Dalle circostanze come
riferite non sono evincibili elementi di
giudizio che facciano ritenere essere stata
compromessa, in ragione ed a seguito
dell’episodio in contestazione,
l’imparzialità dell’attività amministrativa
espletata e/o la trasparenza delle
operazioni poste in essere come
compiutamente descritte.
Nondimeno la società appellante insiste nel
dedurre alcune circostanze qualificate come
manchevolezze che inficerebbero la procedura
concorsuale, ed in primo luogo il fatto che
la Commissione non avrebbe adottato le
dovute cautele atte a scongiurare “accidentali”
manomissioni dei plichi.
La doglianza non ha fondamento, dal momento
che non è ravvisabile dalla disamina degli
atti la mancanza da parte della Commissione
di cautele in ordine alla conservazione dei
plichi e non risulta che la documentazione
di gara sia rimasta esposta al rischio di
manomissione; in ogni caso, non vi è stata
alcuna alterazione documentale, e
dall’incidente accaduto involontariamente
non è evincibile in concreto e neppure
potenzialmente una qualche compromissione
degli aspetti di segretezza e tutto ciò non
può andare a disdoro della legittimità delle
operazioni di gara poste in essere.
Lamenta poi parte appellante nei confronti
dell’avvenuta verbalizzazione altri “vizi”
che a suo avviso, darebbero luogo a veri
proprie inadempienze, come il non aver
riferito circa il tempo trascorso tra il
taglio e l’approntamento delle cautele
nonché in ordine alle modalità con cui si
sarebbe verificato l’accidentale taglio e se
questo sia stato procurato in presenza di
tutta la Commissione.
Ora, a prescindere dal fatto che la parte
interessata non risulta abbia presentato
querela di falso volta ad inficiare ab
imis fundamentis il contenuto dei
verbali di che trattasi, va qui ricordata la
funzione strumentale e di carattere
probatorio che ha la verbalizzazione ( cfr
Cons. Stato Sez. IV n. 805/2010 già citata )
per cui le dedotte eventuali irregolarità
avuto riguardo al carattere sicuramente
marginale delle dedotte “deficienze”
non valgono ad invalidare i processi verbali
stilati dalla Commissione, non senza far
rilevare che comunque i rilievi mossi non
sono idonei ad evidenziare la compromissione
della procedura di gara sotto il profilo
della correttezza e dell’osservanza delle
modalità procedurali di espletamento della
gara.
Per concludere sul punto, non vi è stata
commistione tra busta contenente offerta
economica ed offerta tecnica, non risulta
che la Commissione (e nemmeno un singolo
membro della stessa) sia venuta
preventivamente all’apertura delle buste a
conoscenza dell’offerta economica di Acciona
Agua e deve comunque darsi atto che tale
offerta economica ha mantenuto formalmente e
sostanzialmente, ad onta della lacerazione
della busta in essa contenuta, le
caratteristiche della segretezza
(Consiglio di Stato. Sez. IV,
sentenza
16.03.2012 n. 1506 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Appalti pubblici e dichiarazioni ex art. 38.
I rappresentanti delle società concorrenti
in procedure ad evidenza pubblica devono
rendere, a pena di esclusione, le
dichiarazioni di cui all’art. 38 D.lgs.
163/2006 (Codice dei contratti), a
prescindere da qualsiasi verifica in ordine
alla ripartizione interna dei compiti
societari.
Questo il principio ribadito dal Consiglio
di Stato, Sez. III, con la
sentenza 16.03.2012 n.
1471, chiamato a pronunciarsi sulla
legittima partecipazione ad una gara per
l’affidamento del servizio di pulizia di una
società che non aveva provveduto a
presentare la dichiarazione ex art. 38 di un
suo amministratore.
I Giudici di Palazzo Spada, confermando la
decisione assunta in primo grado, affermano
che: “in applicazione del chiaro disposto
dell’articolo 38 Codice Contratti, gli
amministratori muniti di potere di
rappresentanza devono necessariamente
rendere la dichiarazione richiesta dalla
legge a prescindere dal fatto, peraltro di
difficile (e dubbia) prova, che nella
sostanza non svolgano attività.
Occorre ora
aggiungere che il riferimento ai poteri
sostanziali è stato utilizzato da parte
della giurisprudenza, non già per
restringere –come vorrebbe l'appellante– il
novero dei soggetti chiamati a rendere la
dichiarazione ma, al contrario, per
ampliarlo anche a coloro che, pur non
rivestendo formalmente la carica di
amministratore, sono investiti di
sostanziali poteri di rappresentanza; in
tale ultima direzione si muove anche la
sentenza 16.11.2010 n. 8059 del
Consiglio di Stato, (….) («…La mancanza
della formale qualifica di amministratore
della società non può essere considerata
sufficiente per sottrarsi all'applicazione
degli obblighi dichiarativi imposti dalla
norma richiamata. La prevalente
giurisprudenza del Consiglio di Stato,
condivisa dal Collegio, ha, infatti,
chiarito che, per l'individuazione dei
soggetti tenuti alle dichiarazioni
sostitutive finalizzate alla verifica del
possesso dei requisiti di moralità, quando
si tratti di titolari di organi di persone
giuridiche, al fine di ricomprenderli nella
nozione di "amministratori muniti di poteri
di rappresentanza" occorre esaminare i
poteri, le funzioni e il ruolo
effettivamente e sostanzialmente attribuiti
al soggetto considerato, al di là delle
qualifiche formali rivestite (in tal senso
cfr. Cons. St., sez. VI, 08.02.2007, n.
523, che nella categoria degli
amministratori, ai fini dell'art. 38 cit.,
fa rientrare sia i "soggetti che abbiano
avuto un significativo ruolo decisionale e
gestionale societario" sia i procuratori ai
quali siano conferiti poteri di "partecipare
a pubblici appalti formulando le relative
offerte"; sez. VI, 12.10.2006, n. 6089;
sez. V, 28.06.2004, n. 4774; sez. V, 28.05.2004, n. 3466) …»).”
Un eventuale giudizio sull’effettiva
ripartizione dei poteri in seno alla società
interessata deve invece necessariamente
riguardare i procuratori speciali e gli
institori.
Nei confronti di questi ultimi soggetti non
vige infatti un obbligo incondizionato di
presentare le dichiarazioni ex art. 38 del
Codice dei contratti e soltanto nel caso in
cui abbiano il potere di rappresentare
l’ente verso l’esterno sono tenuti a rendere
le dichiarazioni in esame.
In conclusione, nel ribadire che il c.d.
potere di soccorso deve ritenersi
esercitabile soltanto quando le prescrizioni
formali della lex specialis sono state
formulate in modo impreciso ed equivoco e
non anche quando sussista una chiara e
precisa previsione di legge, la sentenza
afferma che la funzione principale dell’art.
38 del D.lgs. 163/2006 è quella di attuare
un “controllo effettivo sull’idoneità morale
degli operatori economici con riferimento a
tutti i soggetti in grado di impegnare
all’esterno l’impresa.” (commento tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Ogni
provvedimento amministrativo deve essere
motivato salvo che nelle ipotesi di atti
normativi e di atti a contenuto generale. La
motivazione deve indicare i presupposti di
fatto e le ragioni giuridiche che hanno
determinato la decisione
dell'amministrazione in relazione alle
risultanze dell'istruttoria.
Si ritiene necessaria una motivazione
approfondita quando la stazione appaltante
considera l’offerta nel complesso
inaffidabile. L’onere motivazionale nel
provvedimento negativo è stato tuttavia
inteso con una certa flessibilità
permettendo all’amministrazione di
effettuare una valutazione di tutti gli
elementi dell’offerta ritenendola nel
complesso inaffidabile oppure di soffermarsi
anche solo su singole, ma essenziali,
componenti dell’offerta; se tali elementi
essenziali non risultano congrui, in
ossequio ad una concezione ‘sostanziale’
dell’agire amministrativo, non si reputa
necessario esaminare le giustificazioni
riguardanti le altre componenti, meno
rilevanti, dell’offerta stessa "… in quanto
è da presumere che quelle voci incidano
sulla serietà ed affidabilità dell'intera
offerta, di modo che, accertata
l'incongruità degli elementi giustificativi
presentati e di conseguenza delle
sottostanti voci di prezzo, non occorre che
quel giudizio di incongruità sia anche
suffragato da un ulteriore, separato,
giudizio di incongruità della globalità
dell'offerta…”.
---------------
L'orientamento giurisprudenziale che nel
caso di positiva valutazione di congruità
dell'offerta sospettata di anomalia ritiene
sufficiente la motivazione per relationem,
non esclude che vada comunque garantita la
possibilità ai soggetti interessati di
ricostruire l'iter logico giuridico seguito
dalla stazione appaltante per l'adozione del
provvedimento. In altri termini, per un
verso, non v'è dubbio che il richiamo alle
giustificazioni fornite dall'operatore
economico può essere utilmente effettuato
per spiegare le ragioni della valutazione di
congruità; tuttavia, per altro verso, tale
facilitazione non esonera la stazione
appaltante dall’obbligo di mettere la parte
interessata in condizione di apprezzare
l'iter logico giuridico seguito
dall’amministrazione.
Nel caso di specie, in presenza di
giustificazioni e di una relazione negativa
da parte del RUP, sarebbe stato necessario
una motivazione più approfondita del
giudizio di congruità perché:
a) la motivazione in generale deve avere
un’ampiezza maggiore o minore a seconda
delle acquisizioni istruttorie, in ogni caso
deve fare comprendere il percorso
logico-giuridico compiuto
dall’amministrazione;
b) il richiamo per relationem può anche
assolvere all’obbligo di motivazione, nel
caso di decisione di congruità, ma non per
questo esime l’amministrazione da una
valutazione complessiva di tutto ciò che è
emerso nella fase istruttoria del
procedimento;
c) deve trovare, anche solo in via
analogica, applicazione l’articolo 6, comma
1, lett. e), l. 07.08.1990 n. 241 a tenore
del quale “l'organo competente per
l'adozione del provvedimento finale, ove
diverso dal responsabile del procedimento,
non può discostarsi dalle risultanze
dell'istruttoria condotta dal responsabile
del procedimento se non indicandone la
motivazione nel provvedimento finale”; con
riferimento all’odierna fattispecie, l’atto
di aggiudicazione, certamente di competenza
di soggetto diverso dal RUP, non poteva
ignorare, senza motivare, quanto
rappresentato da quest’ultimo proprio in
vista della scelta relativa
all’aggiudicazione o meno;
d) ragionando diversamente il
controinteressato non verrebbe posto in
condizione di capire la ragione per cui la
stazione appaltante abbia valutato
positivamente le giustificazioni e non
favorevolmente quelle espresse dal RUP.
---------------
Il responsabile del procedimento
nell'attuale sistema costituisce il "motore"
del sub-procedimento di valutazione di
congruità delle offerte sospette di
anomalia. Conseguentemente non sussiste il
paventato vizio di incompetenza del RUP con
riferimento all’attività da questi compiuta
nella fase di valutazione della congruità
dell’offerta sospettata di anomalia perché,
nel caso di specie, il RUP ha doverosamente
manifestato alla stazione appaltante le sue
perplessità in ordine alla conformità
dell’offerta lasciando a quest'ultima le
determinazioni finali.
Come è noto, ogni provvedimento
amministrativo deve essere motivato salvo
che nelle ipotesi di atti normativi e di
atti a contenuto generale. La motivazione
deve indicare i presupposti di fatto e le
ragioni giuridiche che hanno determinato la
decisione dell'amministrazione in relazione
alle risultanze dell'istruttoria.
Con riferimento specifico alla materia
oggetto di esame, si ritiene necessaria una
motivazione approfondita (Cons. St., V,
23.08.2006, n. 4949) quando la stazione
appaltante considera l’offerta nel complesso
inaffidabile. L’onere motivazionale nel
provvedimento negativo è stato tuttavia
inteso con una certa flessibilità
permettendo all’amministrazione di
effettuare una valutazione di tutti gli
elementi dell’offerta ritenendola nel
complesso inaffidabile oppure di soffermarsi
anche solo su singole, ma essenziali,
componenti dell’offerta; se tali elementi
essenziali non risultano congrui, in
ossequio ad una concezione ‘sostanziale’
dell’agire amministrativo, non si reputa
necessario esaminare le giustificazioni
riguardanti le altre componenti, meno
rilevanti, dell’offerta stessa "… in
quanto è da presumere che quelle voci
incidano sulla serietà ed affidabilità
dell'intera offerta, di modo che, accertata
l'incongruità degli elementi giustificativi
presentati e di conseguenza delle
sottostanti voci di prezzo, non occorre che
quel giudizio di incongruità sia anche
suffragato da un ulteriore, separato,
giudizio di incongruità della globalità
dell'offerta…” (Cons. St., V,
18.09.2008, n. 4493).
---------------
Più complessa invece appare la questione
–come nella fattispecie sottoposta a
giudizio– relativa alla valutazione positiva
operata dall’amministrazione all’esito del
procedimento di verifica perché, per un
primo orientamento, l’atto che decreta
l’aggiudicazione dell’offerta non richiede
una motivazione approfondita sostanzialmente
ripetitiva delle giustificazioni valutate
favorevolmente dall’amministrazione, potendo
in tal caso trovare sostegno "per
relationem" nelle stesse giustificazioni
presentate dal concorrente (Cons. St., V,
20.05.2008, n. 2348; Cons. St., V,
23.08.2006, n. 4949); incombe sull’impresa
interessata, dunque, l’onere di contestare
l’esito della gara, di ricercare e
prospettare al giudice gli specifici
elementi da cui evincere l’illegittimità
dell’operato della stazione appaltante
(Cons. St., V, 10.02.2009, n. 748).
Per altro orientamento, invece, anche il
giudizio positivo deve essere motivato sia
in ossequio all’obbligo generale di
motivazione dei provvedimenti amministrativi
sia a tutela della par condicio dei
concorrenti (Cons. St., IV, 22.03.2005, n.
1231).
A giudizio del Collegio l'orientamento
giurisprudenziale che nel caso di positiva
valutazione di congruità dell'offerta
sospettata di anomalia ritiene sufficiente
la motivazione per relationem, non
esclude che vada comunque garantita la
possibilità ai soggetti interessati di
ricostruire l'iter logico giuridico seguito
dalla stazione appaltante per l'adozione del
provvedimento. In altri termini, per un
verso, non v'è dubbio che il richiamo alle
giustificazioni fornite dall'operatore
economico può essere utilmente effettuato
per spiegare le ragioni della valutazione di
congruità; tuttavia, per altro verso, tale
facilitazione non esonera la stazione
appaltante dall’obbligo di mettere la parte
interessata in condizione di apprezzare
l'iter logico giuridico seguito
dall’amministrazione.
Nel caso di specie, in presenza di
giustificazioni e di una relazione negativa
da parte del RUP, sarebbe stato necessario
una motivazione più approfondita del
giudizio di congruità perché:
a) la motivazione in generale deve avere
un’ampiezza maggiore o minore a seconda
delle acquisizioni istruttorie, in ogni caso
deve fare comprendere il percorso
logico-giuridico compiuto
dall’amministrazione;
b) il richiamo per relationem può
anche assolvere all’obbligo di motivazione,
nel caso di decisione di congruità, ma non
per questo esime l’amministrazione da una
valutazione complessiva di tutto ciò che è
emerso nella fase istruttoria del
procedimento;
c) deve trovare, anche solo in via
analogica, applicazione l’articolo 6, comma
1, lett. e), l. 07.08.1990 n. 241 a tenore
del quale “l'organo competente per
l'adozione del provvedimento finale, ove
diverso dal responsabile del procedimento,
non può discostarsi dalle risultanze
dell'istruttoria condotta dal responsabile
del procedimento se non indicandone la
motivazione nel provvedimento finale”;
con riferimento all’odierna fattispecie,
l’atto di aggiudicazione, certamente di
competenza di soggetto diverso dal RUP, non
poteva ignorare, senza motivare, quanto
rappresentato da quest’ultimo proprio in
vista della scelta relativa
all’aggiudicazione o meno;
d) ragionando diversamente il
controinteressato non verrebbe posto in
condizione di capire la ragione per cui la
stazione appaltante abbia valutato
positivamente le giustificazioni e non
favorevolmente quelle espresse dal RUP.
Va quindi confermata la sentenza nella parte
in cui ha rilevato l’illegittimità per
difetto di motivazione dell’atto impugnato
in primo grado.
---------------
Occorre in
ultimo soffermarsi sulla questione
adombrata, nell’atto di appello avverso il
dispositivo della sentenza (si vedano in
particolare le pagine n. 11-12), relativa
all’incompetenza del responsabile del
procedimento ad esprimere un giudizio
definitivo sul carattere anomalo o meno
delle offerte, trattandosi di attività di
competenza della commissione giudicatrice.
Con specifico riferimento al ruolo del
responsabile del procedimento, va ricordato
che il regolamento, all’art. 121, comma 2,
prevede, nel caso di aggiudicazione con il
criterio del prezzo più basso, la
sospensione della seduta pubblica da parte
del soggetto che presiede la gara e la
comunicazione al responsabile del
procedimento; quest’ultimo procederà alla
verifica delle giustificazioni presentate
dai concorrenti ai sensi dell'articolo 86,
comma 5, del codice avvalendosi degli uffici
o organismi tecnici della stazione
appaltante ovvero della commissione di gara,
ove costituita. Il successivo comma 4
precisa che il responsabile del
procedimento, oltre ad avvalersi degli
uffici o organismi tecnici della stazione
appaltante o della stessa commissione di
gara, ove costituita, qualora lo ritenga
necessario può richiedere la nomina della
specifica commissione prevista dall'articolo
88, comma 3, del codice. Nel caso di
selezione mediante il criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa, è l’art.
121, comma 9, a disciplinare il procedimento
e ad individuare gli organi competenti.
Per queste ragioni non v'è dubbio che il
responsabile del procedimento nell'attuale
sistema costituisce il "motore" del
sub-procedimento di valutazione di congruità
delle offerte sospette di anomalia.
Conseguentemente non sussiste il paventato
vizio di incompetenza del RUP con
riferimento all’attività da questi compiuta
nella fase di valutazione della congruità
dell’offerta sospettata di anomalia perché,
nel caso di specie, il RUP ha doverosamente
manifestato alla stazione appaltante le sue
perplessità in ordine alla conformità
dell’offerta lasciando a quest'ultima le
determinazioni finali (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 16.03.2012 n. 1467 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Diritto
di accesso: la veste societaria è
ininfluente atteso che in materia di accesso
nel novero delle ‘pubbliche amministrazioni’
rientrano tutti i soggetti di diritto
pubblico e i soggetti di diritto privato
limitatamente alla loro attività di pubblico
interesse, disciplinata dal diritto
nazionale o comunitario.
L’attività amministrativa, cui gli artt. 22
e 23 della legge n. 241 del 1990 correlano
il diritto d’accesso, ricomprende non solo
quella di diritto amministrativo, ma anche
quella di diritto privato posta in essere
dai soggetti gestori di pubblici servizi
che, pur non costituendo direttamente
gestione del servizio stesso, sia collegata
a quest’ultima da un nesso di strumentalità
derivante anche, sul versante soggettivo,
dalla intensa conformazione pubblicistica
(Cons. St., sez. VI, 26.01.2006 n. 229;
id., 30.12.2005 n. 7624; id., 07.08.2002 n. 4152; id.,
08.01.2002 n. 67) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza
12.03.2012 n. 1403 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: Il
Comune per sopravvenute ragioni di interesse
pubblico può revocare unilateralmente la
concessione del servizio di gestione di
parcheggi pubblici rilasciata al privato.
L’istituto della concessione amministrativa
(pacificamente ricorrente nel caso di specie
di concessione del servizio di gestione dei
parcheggi pubblici del Comune), vale a dire
la presenza di un provvedimento
amministrativo a monte, con il quale sono
esternate le ragioni di interesse pubblico
sottostanti all’attribuzione ad uso
esclusivo ad un soggetto privato di un bene
pubblico, doppiato a valle dal regolamento
convenzionale del rapporto concessorio,
sorto per effetto dell’atto autoritativo, a
mezzo di un contratto.
Ne consegue che la
pubblica amministrazione concedente conserva
per tutta la durata del rapporto il potere
di incidere unilateralmente sulla posizione
giuridica del privato concessionario
attraverso l’atto di ritiro del
provvedimento concessorio, per sopravvenute
esigenze di interesse pubblico, come del
resto stabilito in via generale dall’art.
21-quinquies l. n. 241/1990, ancorché
introdotto successivamente ai fatti di
causa, ed in particolare dal comma 1-bis di
tale disposizione, riferito specificamente
agli effetti della revoca “su rapporti
negoziali”
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
12.03.2012 n. 1381 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Principi
consolidati in materia di interpretazione
delle clausole del bando di gara.
"Le regole contenute nella lex specialis di
una gara vincolano non solo i concorrenti,
ma anche la stessa Amministrazione, che non
conserva alcun margine di discrezionalità
nella loro concreta attuazione. Il rigore
formale che caratterizza la disciplina delle
procedure di gara risponde, per un verso, ad
esigenze pratiche di certezza e celerità, e
per altro verso alla necessità di garantire
l'imparzialità dell'azione amministrativa e
la parità di condizioni tra i concorrenti,
da ciò scaturendo la conseguenza che solo in
presenza di una equivoca formulazione della
lettera di invito o bando di gara può
ammettersi una interpretazione diversa da
quella letterale (cfr. C.d.S., V, 02.08.2010, n. 5075).
Le preminenti esigenze di
certezza connesse allo svolgimento delle
procedure concorsuali di selezione dei
partecipanti impongono di ritenere di
stretta interpretazione le clausole del
bando di gara, delle quali va preclusa
qualsiasi esegesi non giustificata da
un'obiettiva incertezza del loro
significato; parimenti, si devono reputare
comunque preferibili, a tutela
dell'affidamento dei destinatari, le
espressioni letterali delle previsioni da
chiarire, evitando che il procedimento
ermeneutico conduca all'integrazione delle
regole di gara palesando significati del
bando non chiaramente desumibili dalla sua
lettura testuale (C.d.S., IV, 05.10.2005, n.
5367; V, 15.04.2004, n. 2162).
Nell'interpretazione delle clausole del
bando per l'aggiudicazione di un contratto
della P.A. deve darsi, pertanto, prevalenza
alle espressioni letterali in esse
contenute, escludendo ogni procedimento
ermeneutico in funzione integrativa diretto ad evidenziare pretesi
significati e ad ingenerare incertezze
nell'applicazione (C.d.S., V, 30.08.2005, n.
4413).” (Cons. St. Sez. V,
19.09.2011, n. 5282)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
12.03.2012 n. 1372 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Vademecum sui certificati medici.
Tutti i modi in cui è possibile la
contestazione da parte del datore. Parere
della Fondazione Studi dei consulenti del
lavoro fa luce su una materia complessa.
Il datore di lavoro può contestare i
certificati medici trasmessi dal lavoratore
in presenza di uno stato di malattia che si
presume falso? E in che modo?
Il parere n.
10 della Fondazione Studi del Consiglio
nazionale dei consulenti del lavoro fornisce
una disamina di un tema complesso, anche
alla luce della recente sentenza
09.03.2012 n. 3705 della Corte di Cassazione.
1. IL QUADRO NORMATIVO.
Come è noto, l'art. 2110 c.c. prevede che –in ipotesi di infortunio, di malattia, di
gravidanza o di puerperio– si realizza una
sospensione del rapporto di lavoro,
caratterizzata dal perdurare
dell'obbligazione retributiva o indennitaria,
entro un certo limite temporale (c.d.
comporto). In particolare, l'art. 2110,
c.c., comma 1 stabilisce che: «In caso di
infortunio, di malattia, di gravidanza o di
puerperio, se la legge (o le norme
corporative] non stabiliscono forme
equivalenti di previdenza o di assistenza, è
dovuta al prestatore di lavoro la
retribuzione o un'indennità nella misura e
per il tempo determinati dalle leggi
speciali [dalle norme corporative) dagli usi
o secondo equità».
A sua volta, in merito al
controllo dello stato di malattia del
lavoratore, l'art. 5, legge n. 300 del 1970,
prevede che: «Sono vietati accertamenti da
parte del datore di lavoro sulla idoneità e
sulla infermità per malattia o infortunio
del lavoratore dipendente. Il controllo
delle assenze per infermità può essere
effettuato soltanto attraverso i servizi
ispettivi degli istituti previdenziali
competenti, i quali sono tenuti a compierlo
quando il datore di lavoro lo richieda. Il
datore di lavoro ha facoltà di far
controllare la idoneità fisica del
lavoratore da parte di enti pubblici ed
istituti specializzati di diritto pubblico».
Pertanto:
a) il datore di lavoro non può eseguire
personalmente, o attraverso medici di sua
fiducia, accertamenti sullo stato di salute
del dipendente;
b) lo stesso datore di lavoro conserva,
però, la facoltà di controllo sull'idoneità
fisica e sull'infermità del dipendente ma –diversamente dal controllo dell'attività
lavorativa– non può esercitarla
direttamente, bensì avvalendosi di enti
pubblici ed enti specializzati di diritto
pubblico.
La centralità dell'utilizzo del servizio
sanitario pubblico nell'accertamento della
malattia del dipendente è stata di recente
ribadita dall'art. 25, legge 04.11.2010, n. 183 (c.d. Collegato lavoro), il
quale ha uniformato il regime legale del
rilascio e della trasmissione delle
certificazioni per il caso di assenza per
malattia dei dipendenti pubblici e di quelli
privati, disponendo che la malattia
protratta per un periodo superiore a dieci
giorni e, in ogni caso, il secondo evento
morboso nell'anno solare (1°gennaio-31
dicembre) devono essere giustificati (a
partire, quindi, dal terzo evento)
esclusivamente mediante certificazione
medica rilasciata da:
a) una struttura sanitaria pubblica;
b) un medico convenzionato con il Servizio
sanitario nazionale.
Peraltro, alla luce della recente sentenza
della Corte di cassazione (n. 3705 del il 09.03.2012), il certificato medico può
essere rilasciato solo a seguito di visita
al paziente, essendo esclusa l'ammissibilità
di certificati di tipo «anamnestico», in cui
il sanitario si limita ad attestare quanto
sostenuto dal dipendente rispetto al proprio
stato di salute.
2. LA CONTESTAZIONE DELLO STATO DI MALATTIA
DEL DIPENDENTE DA PARTE DEL DATORE DI LAVORO.
La giurisprudenza consolidata ritiene che il
certificato medico attestante lo stato di
malattia del dipendente può essere
contestato dal datore di lavoro, che abbia
motivo di ritenere insussistente la
denunciata malattia del lavoratore (v. ad
es. Cass. civ. Sez. lavoro, 10.05.2000,
n. 6010, in Notiz. Giur. Lav., 2000; Trib.
Milano, 16.09.1998, in Orient. Giur.
Lav., 1998, I, 648).
In particolare, il
datore di lavoro può domandare in giudizio
la verifica dell'attendibilità della
certificazione prodotta dal lavoratore,
anche laddove non abbia richiesto una visita
di controllo (Cass. civ. Sez. lavoro, 27.12.1997, n. 13056, in Mass. Giur. It.,
1997; nel senso che tale diritto di
contestazione spetta anche al lavoratore, v.
Trib. Parma, 14.01.2000, in Riv. It.
Dir. Lav., 2001, II, 70).
Infatti, il
controllo delle assenze del lavoratore per
infermità previsto dall'art. 5, legge 20.05.1970, n. 300, non costituisce l'unico
mezzo concesso al datore di lavoro per
contestare l'attendibilità del certificato
medico prodotto dal lavoratore, che può
sempre mettere in dubbio tale certificazione
mediante il ricorso all'autorità giudiziaria
(Cass. Sez. lavoro, 13.02.1990, n.
1044, in Notiz. Giur. Lav., 1990, 228).
Ciò in quanto la natura di atti pubblici dei
certificati redatti da medici appartenenti
al servizio sanitario nazionale conferisce a
tali documenti la fede pubblica, fino a
querela di falso, per ciò che concerne i
seguenti fatti:
- la provenienza del documento dal pubblico
ufficiale che lo ha formato;
- i fatti che il pubblico ufficiale medesimo
attesta di aver compiuto o essere avvenuti
in sua presenza (Cass. Sez. lavoro, 22.05.1999, n. 5000; Cass. Sez. lavoro, 14.01.1987, n. 217).
Viceversa, la fede pubblica non si estende
alla diagnosi, e dunque ai giudizi del
sanitario relativi allo stato di malattia ed
all'impossibilità temporanea della
prestazione lavorativa. Tali valutazioni,
pur essendo dotate di un elevato grado di
attendibilità in ragione della qualifica
funzionale e professionale del pubblico
ufficiale, non sono vincolanti per il
giudice, che può anche decidere di
sconfessarle in presenza di elementi
probatori di segno contrario.
Si ritiene,
infatti, che l'art. 5, comma 3, legge 20.05.1970 n. 300, nella parte in cui
demanda solo ad enti pubblici il controllo
della idoneità fisica del lavoratore su
richiesta del datore di lavoro, lascia
integro il potere-dovere del giudice di
merito di controllare l'attendibilità degli
accertamenti sanitari, avvalendosi dei
poteri istruttori che gli conferisce il rito
del lavoro; deve quindi escludersi che la
norma citata -che ha inteso garantire
l'imparzialità della valutazione tecnica
affidandola ad organi pubblici- abbia
attribuito a dette indagini una particolare
insindacabile efficacia probatoria (Cass.
Sez. lavoro, 11.05.2000, n. 6045, in Notiz. Giur. Lav., 2000; Cass. Sez. lavoro,
03.07.1987, n. 5830; Cass. civ., 05.11.1985, n. 5387; Cass. civ., 18.04.1985, n. 2572; Cass. civ., 11.08.1983, n. 5356).
3. LE MODALITÀ DI CONTESTAZIONE DEL
CERTIFICATO MEDICO.
Nel giudizio di valutazione attestante
l'effettivo stato di malattia del
dipendente, è stato accordato rilievo alle
seguenti circostanze.
A) L'incongruenza tra la prognosi (ad es.,
numerose settimane di malattia) e la
diagnosi: ad es., per un caso di
lombosciatalgia, Cass. Sez. lavoro, 05.05.2000, n. 5622 ha ritenuto ingiustificata
l'assenza di tre mesi autorizzata dal medico
curante, in quanto «... il disturbo
certificato non [era] di entità tale da
poter costituire impedimento totale al
lavoratore rilevante per un periodo
relativamente lungo...» (v. anche: Pret.
Parma, 22.07.1995, in Riv. It. Dir. Lav.,
1995, II, 876; Trib. Parma, 07.11.1996,
ivi, 1997, II, 120; Trib. Parma, 14.01.2000, in Riv. Critica Dir. Lav., 2000, 409).
B) Anche l'incongruenza tra la prognosi (o
la diagnosi) e la terapia prescritta al
lavoratore può invalidare la certificazione
medica, come è stato affermato nel caso di
una «sindrome ansioso-depressiva» che il
giudice non ha considerato di gravità tale
da impedire il lavoro per mesi, tanto più
che il medico stesso non aveva prescritto
alcuna terapia farmacologica (Pret. Torino,
19.01.1989, in Riv. It. Dir. Lav.,
1989, II, 298).
C) Ancora, è stato accordato rilevo alla
tardività della visita medica rispetto
all'inizio della malattia, che ha privato di
attendibilità una diagnosi riferita ai
periodi pregressi (Trib. Roma, 02.06.2000, in Riv. It. Dir. Lav., 2000, II, 695).
D) Le circostanze complessive di fatto e il
comportamento del lavoratore (giudizio di
tipo presuntivo, ex art. 2729 c.c.).
1) Ad esempio, il giudice può rilevare
l'incompatibilità tra la malattia denunciata
e la condotta del lavoratore, sorpreso a
svolgere un'altra attività lavorativa (Cass.
civ. Sez. lavoro, 03.03.2001, n. 6236, in
Lavoro nella Giur., 2001: nel caso la Corte
ha valutato anche la rilevanza disciplinare
del comportamento per la violazione da parte
del lavoratore del dovere di non ritardare
la propria guarigione).
2) Ancora, è stata ritenuta ingiustificata
l'assenza di un giorno di una dipendente in
quanto ella aveva reiteratamente domandato
di assentarsi dal servizio nella medesima
giornata della presunta malattia, ma tale
richiesta era stata respinta dal datore di
lavoro; nel caso, poi, il certificato non
era stato rilasciato da un medico del
Servizio sanitario nazionale e non indicava
l'esecuzione di nessuna visita alla paziente
(Trib. Milano, 03.07.1991, in Orient. Giur. Lav., 1991, 754).
E) Il contrasto di valutazioni tra il
contenuto del certificato del medico curante
del lavoratore e gli accertamenti compiuti
dal medico di controllo: in tal caso, il
giudice di merito non deve recepire
acriticamente la certificazione ufficiale,
ma deve compiere un esame comparativo tra i
due certificati al fine di stabilire quale
delle due contrastanti certificazioni sia
maggiormente attendibile (Cass. Sez. lavoro,
05.09.1988, n. 5027, in Dir. Lav.,
1988, II, 371; Cass. civ., 11.11.1982,
n. 5969).
F) Infine, come anticipato, anche l'omessa
visita al paziente può costituire un valido
motivo di contestazione del certificato
medico (Cass. sent. n. 3705, 09.03.2012,
cit.)
(articolo ItaliaOggi del
20.03.2012). |
APPALTI: R.t.i. di tipo orizzontale: il TAR fornisce
i chiarimenti.
Il TAR Emilia
Romagna-Bologna, Sez. II, con
sentenza
27.02.2012 n. 159, si e'
pronunciato su un ricorso di un RTI
(raggruppamento temporaneo di impresa) con
riferimento ad una gara pubblica di
rilevante importanza.
La sentenza in
commento è di ampia vastità e complessità;
diverse le questioni sollevate.
Il ricorso.
La ricorrente R.T.I. - Raggruppamento
Temporaneo di Imprese, (di seguito RTI
ricorrente) costituita da una cooperativa e
una società ricorreva avverso
l’aggiudicazione ad un RTI concorrente in
via definitiva di una gara che l’Azienda
Ospedaliero – Universitaria di una città
emiliana aveva indetto ai sensi dell’art.
153 commi 1-14 del D.Lgs. n. 163 del 2006
(c.d. “finanza di progetto”), per
l’affidamento della concessione avente ad
oggetto la progettazione e la costruzione di
una nuova centrale tecnologica, inclusi gli
interventi edili, di un impianto di tri/cogenerazione,
di nuovi cunicoli tecnologici nonché la
gestione del patrimonio impiantistico ed
immobiliare del Policlinico. Il bando
prevede una gara a procedura ristretta ex
art. 55 del D.Lgs. n. 163/2006 da
aggiudicare con il criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa.
In materia di finanza di progetto si
evidenzia brevemente che il D.Lgs. 163/2006
prevede che per la realizzazione di lavori
pubblici o di lavori di pubblica utilità,
inseriti nella programmazione triennale e
nell'elenco annuale, ovvero negli strumenti
di programmazione formalmente approvati
dall'amministrazione aggiudicatrice sulla
base della normativa vigente, finanziabili
in tutto o in parte con capitali privati, le
amministrazioni aggiudicatrici possono, in
alternativa all'affidamento mediante
concessione, assegnare una concessione
ponendo a base di gara uno studio di
fattibilità, mediante pubblicazione di un
bando finalizzato alla presentazione di
offerte che contemplino l'utilizzo di
risorse totalmente o parzialmente a carico
dei soggetti proponenti.
Con riferimento alla sentenza oggetto del
presente commento la RTI ricorrente impugna,
oltre al provvedimento di aggiudicazione
definitiva, anche i seguenti atti relativi :
1. alla nota di comunicazione
dell’aggiudicazione ;
2. alla deliberazione del Direttore Generale
di aggiudicazione provvisoria;
3. agli atti e i verbali di gara nelle parti
in cui o non escludono la RTI aggiudicatrice
dalla gara, o attribuiscono a tale
concorrente un punteggio migliore o, infine,
attribuiscono a RTI ricorrente principale un
punteggio illegittimamente inferiore a
quello dovuto.
L’analisi del TAR.
Secondo la RTI ricorrente, la RTI
aggiudicatrice avrebbe dovuto essere esclusa
dalla gara perché la quota di partecipazione
all’esecuzione dei lavori nella categoria
prevalente dell’impresa mandante , essendo
pari al 8,5%, é inferiore alla quota minima
del 10%, prescritta dall’art. 95, comma 2,
del D.P.R. n. 554 del 1999; norma, questa,
espressamente richiamata nel bando di gara.
Tale disposizione recita: “Per le
associazioni temporanee di imprese e per i
consorzi di cui all’art. 10, primo comma,
lett. d), e) ed e-bis), della legge, di tipo
orizzontale, i requisiti
economico-finanziari e tecnico-organizzativi
richiesti nel bando di gara per le imprese
singole devono essere posseduti dalla
mandataria o da una impresa consorziata
nelle misure minime del 40%; la restante
percentuale è posseduta cumulativamente
dalle mandanti o dalle altre imprese
consorziate ciascuna nella misura minima del
10% di quanto richiesto all’intero
raggruppamento. L’impresa mandataria in ogni
caso possiede i requisiti in misura
maggioritaria.”.
Per i giudici amministrativi dalla chiarezza
della norma si evince con nitidezza che la
misura minima percentuale del 10% di cui
deve essere in possesso ciascuna impresa
mandante costituita in RTI di tipo
orizzontale è riferita unicamente al
possesso dei “requisiti economico–finanziari e tecnico–organizzativi” per la
partecipazione alla gara.
Il TAR condivide, inoltre, quanto stabilito
dalla giurisprudenza amministrativa in
riferimento ai RTI di tipo orizzontale,
laddove ha precisato che, in generale, “(…)
nei casi di raggruppamento temporaneo di
imprese di tipo orizzontale, non vi è una
correlazione logica tra il possesso dei
requisiti e la misura della partecipazione
individuale all'esecuzione stessa, tanto è
vero che l'offerta congiunta comporta la
responsabilità solidale nei confronti della
amministrazione di tutte le imprese
raggruppate; per cui la ripartizione tra i
partecipanti dell'aliquota che ciascuno di
essi s'impegna ad effettuare, mentre assume
un valore significativo all'interno, del
raggruppamento, non incide sul rapporto
contrattuale con l'amministrazione
appaltante”.
Da tali premesse logicamente discende che
detta disposizione in alcun modo preclude
che un’impresa mandante di RTI orizzontale
in possesso del predetto requisito minimo di
partecipazione alla gara, possa poi, in fase
di esecuzione dei lavori, realizzarne una
quota inferiore; fermo restando, però, che
tale quota corrisponda a quella di
partecipazione della stessa mandante al
Raggruppamento, secondo quanto espressamente
prescrive l’art. 37, comma 13, del D.Lgs.
n. n. 163 del 2006. Tale norma prevede che
“I concorrenti riuniti in raggruppamento
temporaneo devono eseguire le prestazioni
nella percentuale corrispondente alla quota
di partecipazione al raggruppamento”.
Un altro aspetto contestato dalla RTI
ricorrente è quello che la Commissione di
gara avrebbe dovuto escludere RTI
aggiudicataria perché ha presentato una
cauzione provvisoria di importo dimezzato
senza averne diritto, stante che la mandante
è esecutrice di categorie di lavori in
riferimento alle quali non è in possesso
della relativa certificazione di qualità
richiesta ai sensi dell’art. 40, comma 7, D.Lgs. n. 163 del 2006.
Il TAR rileva che anche tale motivo é
infondato; la giurisprudenza amministrativa
ha osservato in proposito che, "(…) poiché
la riduzione dell'importo cauzionale è
giustificata dalla maggiore affidabilità
strutturale ed operativa dell'impresa, è
necessario che tale requisito sia posseduto
con riferimento all'oggetto specifico
dell'appalto, ma che tale collegamento
significa che, nel caso l’appalto
ricomprenda una pluralità di lavori o
servizi, debba esservi corrispondenza solo
tra la categoria prevalente dei lavori posti
in gara e quella a cui si riferisce la
certificazione di qualità".
In sostanza il Tribunale amministrativo
respinge il ricorso ritenendo, tuttavia, che
vi siano i giusti motivi per disporne
l’integrale compensazione delle spese,
tenuto conto della peculiarità delle
questioni trattate
(commento tratto da www.ipsoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di costruire e prescrizioni da
osservare.
E' reato non dire quando iniziano i lavori
edilizi ed il nome di chi li esegue.
Rientra tra le prescrizioni previste dal
permesso di costruire, la cui inosservanza
integra il reato di cui all'art. 44, comma
primo, lett. a), d.P.R. 06.06.2001, n.
380, anche l'obbligo di comunicazione della
data di inizio lavori e del nominativo
dell'impresa costruttrice.
La Suprema Corte si pronuncia per la prima
volta, con la sentenza in commento, su una
questione particolare che investe un reato
invero non molto approfondito nella
giurisprudenza di legittimità, quello
previsto e sanzionato dall'art. 44, comma
primo, lett. a), del d.P.R. 06.06.2001,
n. 380.
La Corte, nell'affrontare il tema sottoposto
alla sua attenzione, ha affermato che la
fattispecie di inosservanza delle
prescrizioni contenute nel titolo edilizio,
da tale disposizione sanzionata, è
applicabile anche nel caso in cui chi abbia
ottenuto il rilascio del titolo edilizio non
provveda a comunicare all'autorità comunale
il nominativo della ditta esecutrice dei
lavori ovvero non indichi quando questi
ultimi avranno inizio.
Il fatto
La vicenda processuale che ha costituito
l'occasione per la Cassazione per occuparsi
della questione giuridica in esame, traeva
origine da una condanna inflitta al titolare
di un permesso di costruire il quale, anche
nella qualità di committente dei lavori per
la realizzazione di un complesso
residenziale, aveva eseguito la demolizione
di alcuni fabbricati preesistenti, senza
osservare le prescrizioni contenute nel
titolo abilitativo che, in particolare,
imponevano la comunicazione, con congruo
anticipo, della data di inizio lavori e del
nominativo dell'impresa costruttrice,
ritenendo dunque integrata la violazione
della lett. a) dell'art. 44 del T.U.
edilizia.
Il ricorso
Il verdetto veniva confermato dal giudice
chiamato a pronunciarsi sull'opposizione al
decreto penale di condanna emesso in prima
battuta dal G.i.p., così costringendo
l'imputato ha proporre ricorso per
cassazione contro la condanna alla pena
dell'ammenda inflittagli. In particolare, il
ricorrente deduceva la violazione di legge
rilevando che, per errore, il giudice di
merito aveva ritenuto sussistere la
violazione in esame per la violazione delle
prescrizioni contenute nel permesso di
costruire, in realtà non effettivamente
inerenti l'attività edilizia, da
individuarsi tenendo conto del disposto
dell'art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001.
La decisione della Cassazione
La Corte Suprema ha, però, disatteso la tesi
difensiva, ritenendo, invece, configurabile
il reato in esame in caso di violazione
delle prescrizioni contenute nel titolo
abilitativo edilizio quali, in particolare,
quelle relativa alla mancata comunicazione
del nominativo della ditta esecutrice dei
lavori e della data di inizio di questi
ultimi.
Come di consueto è utile, per il lettore, un
breve inquadramento normativo della
questione.
L'art. 44, comma primo, lett. a) del d.P.R.
06.06.2001, n. 380, prevede "Salvo che il
fatto costituisca più grave reato e ferme le
sanzioni amministrative" l'applicazione
della pena dell'ammenda fino a 10.329 euro
per l'inosservanza delle norme, prescrizioni
e modalità esecutive previste dal presente
titolo, in quanto applicabili, nonché dai
regolamenti edilizi, dagli strumenti
urbanistici e dal permesso di costruire".
La giurisprudenza di legittimità, già sotto
la vigenza della legge n. 47 del 1985 (che,
all'art. 20, lett. a), conteneva una
previsione di identico contenuto), aveva
affermato che la disposizione in esame ha un
contenuto estremamente generico e si presta
ad una pluralità indiscriminata di
utilizzazioni con conseguente insufficienza
della interpretazione letterale, se non
altro perché urta con il principio della
tassatività delle fattispecie legali penali.
Da qui, dunque, la necessità di procedere
alla delimitazione dell'ambito applicativo
della fattispecie in esame, facendo in
particolare riferimento alla collocazione di
esso in un contesto normativo volto a
disciplinare l'attività edilizia. In base
alla ratio che si enuclea da tale contesto,
secondo la Cassazione "le norme,
prescrizioni e modalità esecutive" indicate
dalla lett. a) devono intendersi riferite
soltanto a quelle regole di condotta che
sono direttamente afferenti all'attività
edilizia (Cass., Sez. III, n. 8965 del
23/05/1990, dep. 21/06/1990, imp. G., in Ced
Cass., n. 184671, fattispecie relativa ad
annullamento, perché il fatto non è
preveduto dalla legge come reato, di
sentenza con la quale il pretore aveva
motivato il giudizio di colpevolezza
ritenendo che l'apposizione di insegna
luminosa all'esterno di un esercizio
commerciale è disciplinata dal regolamento
edilizio ed, essendo attinente alla estetica
edilizia urbana, la relativa mancanza di
autorizzazione prevista dal medesimo
regolamento si traduce nella violazione
della lett. a).
Le Sezioni Unite penali della Cassazione,
peraltro, ebbero modo di affermare, sotto la
vigenza dell'abrogata fattispecie dell'art.
20 della legge n. 47 del 1985, che l'art. 4,
comma quarto, l. 28.02.1985 n. 47
prevede due obblighi a carico di coloro che
costruiscono:
1) la tenuta in cantiere della concessione
edilizia;
2) la esposizione di un cartello contenente
gli estremi della concessione e degli autori
dell'attività costruttiva.
La violazione di tali obblighi è penalmente
sanzionata a norma della lett. a), ma solo a
condizione che gli stessi siano
espressamente previsti dai regolamenti
edilizi o dalla concessione (Cass., Sez. U,
n. 7978 del 29/05/1992, dep. 14/07/1992,
P.M. in proc. Aramini ed altro, in Ced
Cass., n. 191176).
Sempre le Sezioni Unite penali, con una
decisione altrettanto importante (Cass.,
Sez. U, n. 11635 del 12/11/1993, dep.
21/12/1993, P.M. in proc. Borgia ed altri,
in Ced Cass., n. 195358), ebbero ad
affermare che la previsione della lett. a),
configura una ipotesi di norma penale in
bianco, atteso che per la determinazione del
precetto viene fatto rinvio a dati
prescrittivi, tecnici e provvedimentali, di
fonte extrapenale.
Il precetto, infatti, comprende, oltre alle
parziali difformità delle opere eseguite, la
violazione degli strumenti urbanistici e del
regolamento edilizio, l'inosservanza delle
prescrizioni della concessione edilizia e
l'inosservanza delle modalità esecutive
dell'opera risultanti dai suddetti strumenti
e dalla concessione edilizia stessa, oltre
che dalla legge.
La Cassazione, nella medesima occasione, ha
rilevato che l'accertamento che il giudice
penale è chiamato a compiere con riferimento
alla suddetta fattispecie contravvenzionale
consiste nel verificare la conformità tra
l'ipotesi di fatto, ossia l'opera eseguenda
od eseguita, e la fattispecie legale, quale
risultante dagli elementi extrapenali
indicati in massima.
Più di recente, la Corte ha precisato che le
inosservanze penalmente sanzionate dalla
lett. a) devono riguardare la condotta di
trasformazione urbanistica o edilizia del
territorio, non potendosi estendere il campo
di applicazione della norma sanzionatoria a
violazioni afferenti ad adempimenti
amministrativi; per tale ragione, ha escluso
che rientrasse tra le prescrizioni, la cui
inosservanza integra il reato di cui
all'art. 44, comma primo lett. a), d.P.R. n.
380 del 2001, la presentazione, da parte del
committente o del responsabile dei lavori
appaltati, del documento unico di regolarità
contributiva delle imprese o dei lavoratori
autonomi (cosiddetto D.U.R.C.), prima che
abbiano inizio i lavori oggetto del permesso
di costruire o della denuncia di inizio
attività (Cass., Sez. III, n. 21780 del
27/04/2011, dep. 31/05/2011, imp. C. e
altro, in Ced Cass., n. 250390).
Tenuto conto dell'esegesi della norma in
questione, ben può comprendersi la soluzione
offerta dalla Suprema Corte nel caso in
esame.
Ed infatti, la specifica prescrizione,
contenuta nel permesso di costruire, che
obbligava a comunicare con congruo anticipo
la data di inizio lavori e la ditta
assuntrice degli stessi aveva certamente
attinenza con l'attività edilizia, in quanto
scopo della comunicazione è quello di
agevolare la verifica, da parte
dell'amministrazione comunale, dell'inizio
dell'intervento nei termini e consentire una
tempestiva verifica sull'attività edilizia
posta in essere.
Non si tratta dunque, come sottolineano gli
Ermellini, di una semplice formalità
amministrativa, ma di un adempimento
strettamente connesso ai contenuti ed alle
finalità del permesso di costruire ed agli
obblighi di vigilanza di cui all'art. 27
T.U. edilizia, imposti al dirigente ed al
responsabile dell'ufficio comunale
competente, cosicché la correlazione con
l'attività edilizia assentita risulta del
tutto evidente (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di
Cassazione civile,
sentenza 23.02.2012 n.
7070 - sentenza tratta da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
la giurisprudenza amministrativa, In ordine
al titolo abilitativo per la realizzazione
di soppalchi interni alle abitazioni occorre
distinguere i casi nei quali, in relazione
alla tipologia e alla dimensione
dell'intervento, può essere sufficiente una
denuncia di inizio di attività, dai casi nei
quali occorre una vera e propria concessione
edilizia, oggi permesso di costruire; deve
infatti ritenersi sufficiente una d.i.a. nel
caso in cui il soppalco sia di modeste
dimensioni e al servizio della preesistente
unità immobiliare mentre, viceversa, deve
ritenersi necessario il permesso di
costruire quando il soppalco sia di
dimensioni non modeste e comporti una
sostanziale ristrutturazione dell'immobile
preesistente, ai sensi dell'art. 3, comma 1,
d.P.R. 06.06.2001 n. 380, comportando un
incremento delle superfici dell'immobile e
quindi anche un ulteriore possibile carico
urbanistico.
Seconda la giurisprudenza della Cassazione
penale, l'esecuzione di soppalchi nella
ristrutturazione interna di un edificio,
pure se non realizzi un mutamento di
destinazione d'uso, costituisce opera che
richiede il permesso a costruire o, in
alternativa, la denuncia d'inizio di
attività, poiché comporta modifica delle
superfici interne, la quale, a norma
dell'art. 10, comma 1, lett. c) T.U.
dell'edilizia (D.P.R. n. 380 del 2001) è
necessaria e sufficiente a far sorgere tale
obbligo, indipendentemente, quindi, da una
contemporanea modifica della sagoma o del
volume.
6b-
Venendo ai soppalchi, la questione va
risolta alla luce dei convergenti principi
fissati dalla giurisprudenza amministrativa
e da quella della Cassazione penale, di cui
alle statuizioni qui di seguito riprodotte:
● quanto alla giurisprudenza amministrativa:
“In ordine al titolo abilitativo per la
realizzazione di soppalchi interni alle
abitazioni occorre distinguere i casi nei
quali, in relazione alla tipologia e alla
dimensione dell'intervento, può essere
sufficiente una denuncia di inizio di
attività, dai casi nei quali occorre una
vera e propria concessione edilizia, oggi
permesso di costruire; deve infatti
ritenersi sufficiente una d.i.a. nel caso in
cui il soppalco sia di modeste dimensioni e
al servizio della preesistente unità
immobiliare mentre, viceversa, deve
ritenersi necessario il permesso di
costruire quando il soppalco sia di
dimensioni non modeste e comporti una
sostanziale ristrutturazione dell'immobile
preesistente, ai sensi dell'art. 3, comma 1,
d.P.R. 06.06.2001 n. 380, comportando un
incremento delle superfici dell'immobile e
quindi anche un ulteriore possibile carico
urbanistico” (Tar Campania, Napoli, sez.
IV, 10.12.2007, n. 15871 e 27.06.2005, n.
8681).
● quanto a quella della Cassazione penale,
in una vicenda aventi contenuti analoghi a
quella qui data sia in fatto che in diritto
e che, in ragione di tanto, appare il caso
di riportare di seguito nella sua interezza:
“La questione relativa alla costruzione
di soppalchi, nell'eseguire opere interne in
preesistenti costruzioni, veniva risolta nel
senso che non occorressero né concessione né
autorizzazione nel vigore della l. n. 47 del
1985, art. 26 e della l. n. 493 del 1993,
art. 4, come modificato dalla l. n. 662 del
1996, art. 2, comma 60 (v. Cass., 3^,
4746/1998; id., 6189/2000); si riteneva,
quindi, sufficiente la DIA, la cui mancanza
era punita con una sanzione pecuniaria.
Intervenuta la nuova normativa, col D.P.R.
n. 380 del 2001, Cass., 3^, 40829/2005 ha
confermato tale indirizzo -con riguardo a
fattispecie analoga a quella in esame,
regolata dalla medesima legislazione
regionale-, sulle seguenti considerazioni:
"La realizzazione di opere interne anche in
base al testo unico deve ritenersi
consentita, come avveniva nella legislazione
previgente, previa mera denunzia di inizio
dell'attività a condizione che non integri
veri e propri interventi di ristrutturazione
comportanti modifiche della sagoma o della
destinazione d'uso (cfr. Cass. 3577 del
2001) e ciò perché in base all'attuale
disciplina sono assentibili con la denuncia
d'inizio dei lavori, cosiddetta semplice
ossia quella prevista dal D.P.R. 06.06.2001,
n. 380, art. 22, commi 1 e 2 (...), tutti
quegli interventi per i quali non è
richiesto il permesso a costruire e per
quello in questione tale permesso, alle
condizioni sopra indicate, non è richiesto
giacché, anche se è aumentata la superficie
in concreto utilizzabile, non sono stati
modificati volume e sagoma. La L.R. Campania
citata nella decisione impugnata per quanto
concerne la questione in esame ossia la
realizzabilità delle opere interne, in base
a semplice denuncia d'inizio attività, alle
condizioni dianzi evidenziate, è conforme
alla disciplina statale".
L'orientamento (relativo a fatti accertati
il (omissis), cui la sentenza impugnata si è
attenuta, non può, con riguardo alla
fattispecie in esame (fatti protrattisi fino
al (omissis), essere condiviso.
Il D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 10, comma
3, lett. c), (T.U. dell'edilizia) definisce
infatti interventi di trasformazione
urbanistica ed edilizia del territorio,
subordinati a permesso a costruire, "gli
interventi di ristrutturazione edilizia che
portino ad un organismo edilizio in tutto o
in parte diverso dal precedente e che
comportino aumento di unità immobiliari,
modifiche del volume, della sagoma, dei
prospetti o delle superfici, ovvero che,
limitatamente agli immobili compresi nelle
zone omogenee A, comportino mutamenti della
destinazione d'uso".
Le opere interne, dunque, non sono più
autonomamente regolate, e, nell'assetto
dello stesso T.U. possono essere eseguite
previa mera DIA, a condizione che: a) non
integrino veri e propri interventi di
ristrutturazione edilizia comportanti
aumento di unità immobiliari, ovvero
modifiche dei volumi, dei prospetti o delle
superfici; b) non integrino veri e propri
interventi di ristrutturazione edilizia con
mutamento di destinazione d'uso; c) non
comportino comunque mutamenti di
destinazione d'uso di immobili compresi
nelle zone omogenee A). E, nell'ipotesi
considerata, il carattere minore
dell'intervento appare da escludere,
essendosi realizzato -come nessuno dubita-
un aumento delle superfici, necessario e
sufficiente ad imporre il permesso a
costruire (o, in alternativa, la cd.
superdia).
L'idea che la nuova normativa ancora
richieda -perché debba considerarsi
insufficiente la semplice DIA- una
contemporanea modifica di volume e sagoma
costituisce, in realtà, un riflesso
dell'impostazione precedente, e,
segnatamente, della disciplina contenuta
nella l. n. 662 del 1996, art. 2, comma 60,
là dove, al comma 7, lett. e), del
sostituito dalla L. n. 493 del 1993, art. 4,
si richiede la sola denuncia di inizio
attività per le "opere interne di singole
unità immobiliari che non comportino
modifiche della sagoma e dei prospetti e non
rechino pregiudizio alla statica
dell'immobile", apparendo peraltro chiaro,
in termini definitori, che una qualche
modifica in tal senso avrebbe escluso il
carattere interno dell'intervento.
La nuova disciplina comporta invece che, in
caso di interventi di ristrutturazione,
l'organismo edilizio risulti in parte
diverso per effetto della diversità di
disposizione interna degli spazi, e che, ai
fini della necessità del permesso a
costruire (od, in alternativa, della
denuncia di inizio dell'attività) debba
aversi riguardo -a parte le ipotesi di
mutamento di destinazione d'uso- alle
"modifiche del volume, della sagoma, dei
prospetti o delle superfici". Ciascuna
modifica, dunque, autonomamente realizza la
fattispecie, senza possibilità di
sovrapposizione, come si deduce dalla
disgiuntiva finale (v., negli stessi sensi,
Cass., 3^, ud. 20.09.2006, Montilli).
Né la conclusione può essere influenzata
dalla normativa regionale, solo evocata nel
provvedimento impugnato. La L.R. Campania n.
19 del 2001, art. 2, comma 1, lett. a),
invero, autorizza, in base a semplice
denuncia d'inizio attività, "gli interventi
edilizi, di cui al D.L. 05.10.1993, n. 398,
art. 4, convertito, con modificazioni, dalla
l. 04.12.1993, n. 493, come sostituito dalla
l. 23.12.1996, n. 662, art. 2, comma 60,
lettere a), b), c), d) e) f)", così
richiamando proprio la previgente
disciplina.
Al riguardo, deve osservarsi che
l'abolizione della categoria delle opere
interne, nel T.U. dell'edilizia, appare
significativamente ribadita dalla
abrogazione espressa di cui all'art. 136,
comma 2, lett. f), riguardante, in generale,
la l. n. 47 del 1985, art. 26, lett. h),
relativa al medesimo complesso normativo
riprodotto dalla legge regionale. Il
carattere formale del rinvio, desumibile
dalla stessa formulazione letterale della
disposizione unitariamente considerata,
comporta, con riguardo alla ipotesi prevista
nella lett. e) più sopra interamente
riprodotta, che quella abrogazione non possa
non essersi riflettuta sulla corrispondente
previsione della legislazione regionale:
sicché il regime delle opere interne resta
correlato a quello dell'intervento edilizio
complessivo che, attraverso l'esecuzione
delle stesse, viene posto in essere (nella
specie, di ristrutturazione edilizia).
Da ciò discende il principio di diritto
secondo cui "l'esecuzione di soppalchi nella
ristrutturazione interna di un edificio,
pure se non realizzi un mutamento di
destinazione d'uso, costituisce opera che
richiede il permesso a costruire o, in
alternativa, la denuncia d'inizio di
attività, poiché comporta modifica delle
superfici interne, la quale, a norma
dell'art. 10, comma 1, lett. c) T.U.
dell'edilizia (D.P.R. n. 380 del 2001) è
necessaria e sufficiente a far sorgere tale
obbligo, indipendentemente, quindi, da una
contemporanea modifica della sagoma o del
volume.
Tale disciplina è applicabile pure in
presenza della disposizione dell'art. 2 L.R.
Campania, che dichiara sufficiente la
semplice denuncia d'inizio attività in
ipotesi di opere interne di singole unità
immobiliari che non comportino modifiche
della sagoma e dei prospetti e non rechino
pregiudizio alla statica dell'immobile,
risultando la corrispondente disposizione
della legislazione statale richiamata (l. n.
662 del 1996, art. 2, comma 60) abrogata
dall'art. 36, comma 2, lett. h), dello
stesso T.U. La sentenza impugnata va dunque
annullata, con rinvio al Tribunale di
Napoli, il cui G.I.P. si atterrà
all'enunciato principio.” (Cass. penale,
sez. III, 22.09.2006, n. 37705).
6c-
Quanto ai “sopralzi”, è ben vero che
la loro realizzazione è stata resa possibile
a mezzo di “semplice denuncia di inizio
attività” dall’art. 1, comma 6, lettera
d, della l. 21.12.2001, n. 443, ma ancora
vero che il ricorso ad essa è consentito
solo “in diretta esecuzione di idonei
strumenti urbanistici diversi da quelli
indicati alla lettera c), ma recanti
analoghe previsioni di dettaglio” ed
ancora vero che negli stessi sensi, in
conformità alla norma statale, recita quella
regionale (art. 2, comma 1, lettera d, l.r.
n. 19 del 2001).
Conformità alla strumentazione urbanistica
di dettaglio, qui non solo non comprovata,
ma cui non è fatto cenno alcuno.
6d-
E ciò a tacersi dei profili paesaggistici
che, ancorché solo genericamente evocati in
seno al provvedimento, non appaiono estranei
alla fattispecie (nella sua interezza) ove
si abbia presente il contesto di
ristrutturazione qui dato (in presenza,
cioè, di “un'unità immobiliare allo stato
grezzo…..”, implicante distribuzione
degli spazi e delle superfici) incidente,
nel suo coacervo, su esterni ed interni
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 22.02.2012 n. 908 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'obbligo
di motivazione, normalmente attenuato nei
casi di atti dovuti ed a contenuto
vincolato, si riespande quando la sola
descrizione degli abusi accertati non
rifletta di per sé l'illecito contestato,
occorrendo, in siffatte evenienze, in
aggiunta ad una descrizione materiale delle
opere accertate, una qualificazione
giuridica dell'intervento abusivo, onde
consentirne la sussunzione in una delle
diverse, e tra loro alternative, fattispecie
incriminatici e nella corrispondente
sanzione.
---------------
La costruzione di un soppalco di modeste
dimensioni ad uso deposito all'interno di un
appartamento è, di regola, opera che, non
comportando aumento di volume né aumento
della superficie utile né modifica della
destinazione d'uso dell'immobile, non è
riconducibile alla categoria della
ristrutturazione edilizia e quindi non
necessita di permesso di costruire, ma di
semplice denuncia di inizio attività.
-------------
Il permesso di costruire non occorre
allorquando la costruzione di una scala non
determini una significativa trasformazione
urbanistica ed edilizia del territorio e, al
contrario, si tratti di mera pertinenza,
essendo preordinata ad un'oggettiva esigenza
dell'edificio principale, funzionalmente
inserita al servizio dello stesso, sfornita
di un autonomo valore di mercato e
caratterizzata da un volume minimo, tale da
non consentire una destinazione autonoma e
diversa da quella a servizio dell'immobile
al quale accede e, comunque, tale da non
comportare un aumento del carico
urbanistico.
Preliminarmente, giova rammentare che il
Testo Unico sull'Edilizia, referente
normativo anche in materia di vigilanza e
repressione degli abusi edilizi, sanziona,
sul piano amministrativo, la condotta di
realizzazione di manufatti edilizi abusivi
in una pluralità di disposizioni
incriminatici (art. 27, 31, 32 comma 3, 33,
34, 35, 37), ciascuna delle quali
corrispondente ad un'autonoma fattispecie di
illecito, caratterizzata da propri
presupposti e per esse, in relazione alla
gravità dell'abuso, prevede tre tipi diversi
di sanzione: la demolizione, la sanzione
pecuniaria, l'acquisizione gratuita al
patrimonio comunale o anche la confisca
amministrativa, tutte strumentali rispetto
alla precipua funzione riparatoria
dell'ordine urbanistico violato e
tendenzialmente applicabili in via
alternativa ovvero consequenziale.
In siffatto contesto, appare di evidenza
intuitiva come l'obbligo di motivazione,
normalmente attenuato nei casi di atti
dovuti ed a contenuto vincolato, si
riespanda quando la sola descrizione degli
abusi accertati non rifletta di per sé
l'illecito contestato, occorrendo, in
siffatte evenienze, in aggiunta ad una
descrizione materiale delle opere accertate,
una qualificazione giuridica dell'intervento
abusivo, onde consentirne la sussunzione in
una delle diverse, e tra loro alternative,
fattispecie incriminatici e nella
corrispondente sanzione (TAR Campania,
Napoli, Sez. II, 23.09.2008 n.
10617).
Applicando tale principio al caso in esame,
il difetto di motivazione appare
particolarmente evidente, tenuto conto della
dubbia riconducibilità di alcune delle opere
contestate ad interventi la cui
realizzazione richiede il previo rilascio
del permesso di costruire.
Ciò è tanto più evidente per la
realizzazione del tubo in pvc e all’intonaco
al piano terra: infatti, gli interventi
edilizi prima citati rientrano nella nozione
di manutenzione ordinaria, ex art. 3, comma
1, lett. a), D.P.R. n. 380/2001 (secondo cui
si intendono per "interventi di manutenzione
ordinaria... gli interventi edilizi che
riguardano le opere di riparazione,
rinnovamento e sostituzione delle finiture
degli edifici e quelle necessarie ad
integrare o mantenere in efficienza gli
impianti tecnologici esistenti"), per i
quali il successivo l'art. 6, comma 1, lett.
a), dispone che sono eseguiti senza alcun
titolo abilitativo (TAR Campania,
Salerno, Sez. I, 24.05.2011 n. 967).
Si aggiunga che, dall’esame degli atti, non
risulta che tali opere abbiano comportato la
benché minima modificazione di superfici,
volumi, altezze, aspetto esteriore e
destinazione funzionale, ma si sono risolti
in una mera attività manutentiva rivolta
esclusivamente a conservare in condizioni di
funzionalità e fruibilità il preesistente
manufatto.
Quanto al soppalco (per il quale la
ricorrente ha escluso qualsiasi incremento
di superficie utilizzabile o di volumetria),
deve richiamarsi l’orientamento espresso da
questo TAR, secondo cui la costruzione di
un soppalco di modeste dimensioni ad uso
deposito all'interno di un appartamento è,
di regola, opera che, non comportando
aumento di volume né aumento della
superficie utile né modifica della
destinazione d'uso dell'immobile, non è
riconducibile alla categoria della
ristrutturazione edilizia e quindi non
necessita di permesso di costruire, ma di
semplice denuncia di inizio attività (TAR
Campania, Napoli, Sez. IV, 20.04.2010 n.
2040 e 27.03.2007, n. 2859).
-------------
Con
riferimento alla realizzazione della scala
di n. 6 gradini, l’amministrazione non ha
fornito alcun elemento motivazionale a
sostegno della necessità del previo rilascio
del permesso di costruire, specie tenuto
conto dell’indirizzo pretorio secondo cui
tale titolo edilizio non occorre allorquando
la costruzione di una scala non determini
una significativa trasformazione urbanistica
ed edilizia del territorio e, al contrario,
si tratti di mera pertinenza, essendo
preordinata ad un'oggettiva esigenza
dell'edificio principale, funzionalmente
inserita al servizio dello stesso, sfornita
di un autonomo valore di mercato e
caratterizzata da un volume minimo, tale da
non consentire una destinazione autonoma e
diversa da quella a servizio dell'immobile
al quale accede e, comunque, tale da non
comportare un aumento del carico urbanistico
(TAR Campania Napoli, Sez. VII, 27.05.2009 n. 2945 e 20.11.2007 n. 14443;
TAR Lazio, Latina, Sez. I, 07.05.2010
n. 740; TAR Piemonte, Sez. I, 25.03.2008 n.
505) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 22.02.2012 n. 872 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
caso di ordine di demolizione delle opere
abusive non è necessaria la comunicazione di
avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7
della L. 241/1990, trattandosi di atto
dovuto, sicché non sono richiesti apporti
partecipativi del soggetto destinatario.
Per costante giurisprudenza, in caso di
ordine di demolizione delle opere abusive
non è necessaria la comunicazione di avvio
del procedimento ai sensi dell’art. 7 della
L. 241/1990, trattandosi di atto dovuto,
sicché non sono richiesti apporti
partecipativi del soggetto destinatario
(Consiglio di Stato, Sez. VI, 24.09.2010 n.
7129; TAR Campania, Napoli, Sez. IV,
13.01.2011 n. 84 e Sez. VIII, 29.01.2009 n.
5001; TAR Campania, Salerno, Sez. II,
13.04.2011 n. 702)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 22.02.2012 n. 872 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Società
partecipate, incarichi di consulenza con
procedure Ue.
I principi comunitari della gara devono
essere applicati anche agli incarichi di
consulenza delle società partecipate sebbene
non siano appalti di servizi.
Lo ha sancito
il TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
con la
sentenza 17.02.2012 n. 130.
Nel caso in esame una società con
partecipazione di capitale pubblica
totalitaria, costituita secondo il modello
societario in house, avente a oggetto la
riqualificazione di un vasto ambito urbano,
aveva indetto una gara pubblica per il
conferimento di un incarico di consulenza a
un esperto con competenze specialistiche in
materia di pianificazione urbana.
All'esito della procedura di valutazione
comparativa il secondo classificato aveva
contestato gli atti di gara deducendone
l'illegittimità dal momento che non si
trattava di un appalto di servizi bensì di
un contratto d'opera professionale,
inquadrabile tra i contratti di cui
all'articolo 2230 c.c.: per questo motivo,
secondo il ricorrente, la gara espletata non
era doverosa e la procedura non doveva
essere soggetta alle norme del codice dei
contratti di cui al dlgs 163 del 2006.
Il Collegio respinge il ricorso.
Innanzitutto, i giudici amministrativi
precisano che ciò che caratterizza l'appalto
è l'assunzione del compimento di un
servizio, con assunzione dei mezzi necessari
e con gestione a proprio rischio, ai sensi
dell'articolo 1655 c.c.: si tratta, pertanto
di un'obbligazione di risultato che, di
regola avviene mediante un'organizzazione di
media o grande impresa.
La mancanza degli elementi sopraccitati
nella fattispecie in oggetto, invece,
comporta la qualificazione del rapporto in
termini di contratto d'opera professionale,
non sussistendo alcuna assunzione di rischio
e tenuto conto del contenuto della
prestazione richiesta che costituisce
un'attività individuale di assistenza e
consulenza con la quale il professionista
mette a disposizione i propri mezzi e
capacità professionali, indipendentemente
dal raggiungimento di un risultato.
Tuttavia, anche se d'accordo con il
ricorrente nella qualificazione del
contratto, il Collegio chiarisce che anche
per i contratti di consulenza debbano essere
applicati i principi del Trattato dell'Ue
ossia il principio di concorrenza e di
quelli, che ne rappresentano attuazione e
corollario, di trasparenza, adeguata
pubblicità, non discriminazione e parità di
trattamento. «Tali principi, infatti, si
elevano a principi generali di tutti i
contratti pubblici, e sono direttamente
applicabili, a prescindere dalla ricorrenza
di specifiche norme comunitarie o interne e
in modo prevalente su eventuali disposizioni
interne di segno contrario»
(articolo ItaliaOggi del
24.03.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
CONDOMINIO: È ammessa la tenda in terrazza.
Tutto ciò che è removibile non lede il
decoro architettonico. La Cassazione:
estetica compromessa solo per effetto di
modifiche strutturali visibili dall'esterno.
Non può essere ritenuto colpevole di lesione
del decoro architettonico del caseggiato il
condomino che abbia trasformato una soffitta
in un appartamento, ricorrendo solo a opere
interne e utilizzando tendaggi e altri
oggetti rimuovibili, in quanto in tal caso
non può dirsi compromessa l'estetica del
fabbricato, che si verifica solo per effetto
di modifiche sulla struttura dell'edificio
che siano visibili e apprezzabili
dall'esterno.
È quanto ha chiarito la
Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con
ordinanza 30.01.2012 n. 1326.
La vicenda. La questione ha inizio quando
una condomina trasforma una soffitta, posta
all'ultimo piano del caseggiato, in un
appartamento a uso residenziale, suscitando
la reazione di altri due condomini i quali,
nella convinzione che le opere di
trasformazione eseguite avessero alterato il
decoro dell'edificio, non solo impedivano
l'allaccio del locale agli impianti di luce
e gas ma, successivamente, si rivolgevano al
tribunale competente per richiedere la
rimozione dei manufatti illecitamente
costruiti.
Secondo gli attori, inoltre, il
decoro dell'edificio condominiale era stato
compromesso anche dall'abusivo deposito di
materiale sul terrazzo comune, nonché
dall'affissione di alcuni tendaggi. Le
circostanze in tal modo denunciate erano
però state considerate irrilevanti dal
tribunale interpellato, il quale aveva
ordinato l'allaccio delle utenze e
condannato gli attori al risarcimento dei
danni subiti dalla condòmina che non aveva
potuto affittare l'immobile privo delle
essenziali utenze.
Tale decisione era stata poi confermata
dalla Corte di appello. E alle stesse
conclusioni è pervenuta la Suprema corte,
nella citata ordinanza dello scorso mese di
gennaio. La sesta sezione della Corte di
cassazione ha infatti precisato come la
trasformazione della soffitta in locale
abitabile era stata effettuata solo mediante
opere interne, senza variazione né
ampliamento di volume dei locali originari
e, comunque, in modo tale da evitare che
fosse compromesso l'accesso al lastrico
solare di proprietà condominiale. Per quanto
sopra i giudici supremi hanno escluso la
lesione del decoro architettonico del
fabbricato, che è logicamente incompatibile
con l'insussistenza di modifiche esterne
dello stabile.
Il principio. L'alterazione del decoro del
fabbricato, per essere validamente
contestata, deve essere apprezzabile,
situazione che ricorre allorché le modifiche
siano visibili dall'esterno. In altre
parole, il condomino non può mai (senza
autorizzazione del condominio) modificare
solo quelle parti esterne, siano esse comuni
o di proprietà individuale, che incidano sul
decoro architettonico dell'intero corpo di
fabbrica o di parti significative di esso.
Del resto la Suprema corte ha precisato
anche come, ai fini del decoro
architettonico, non può essere rilevante
l'apposizione di tendaggi e stracci sul
terrazzo dell'edificio (che sono
rimovibili), in quanto tale comportamento
non è in grado di alterare, in modo visibile
e significativo, la particolare struttura e
la complessiva armonia che conferiscono al
fabbricato una propria specifica identità.
In altre parole, tali comportamenti non
meritano di essere considerati ai fini della
lesione del decoro architettonico, cioè
delle linee e delle strutture che connotano
lo stabile stesso e gli imprimono una
determinata, armonica fisionomia e una
specifica identità, perché non riguardano
opere edili incidenti sulla sagoma o la
facciata dell'edificio, bensì la posa di
oggetti rimovibili, che non possono quindi
pregiudicarne il decoro architettonico.
Allo stesso modo la Cassazione ha
sottolineato come dalla richiesta della
condòmina di poter allacciare il nuovo
appartamento alle utenze di luce e gas non
potesse derivare alcun danno agli altri
condomini, in quanto tale operazione non
comportava modifiche murarie strutturali o
alterazioni delle linee architettoniche
dell'edificio, ma adeguamenti e aggiunte
funzionali che, come tali, non rilevano
sulla estetica del fabbricato.
In ogni caso
la Suprema corte ha affrontato anche la
questione del risarcimento del danno
richiesto dalla condòmina per la
compromissione dell'usufruibilità della
soffitta trasformata in appartamento per la
mancata disponibilità degli allacciamenti
conseguente agli impedimenti
illegittimamente posti in essere dai propri
vicini. A questo proposito è stato ricordato
che in casi del genere il danno non può che
riferirsi esplicitamente e
inequivocabilmente alla mancata
utilizzazione locatizia del locale divenuto
abitabile
---------------
La nozione. Il pregiudizio deve tradursi in
un'alterazione incisiva.
La nozione di decoro architettonico, come
meglio chiarita nel tempo dalle numerose
decisioni di merito e di legittimità che si
sono prodotte sul tema, viene in rilievo in
materia di innovazioni condominiali vietate
e denota una qualità positiva dell'edificio,
derivante dal complesso delle sue
caratteristiche costruttive principali e
secondarie, di modo che una modifica
strutturale di una parte del medesimo, anche
di modesta consistenza, pur non incidendo
sulle linee architettoniche preesistenti,
può essere idonea a far venir meno quelle
caratteristiche influenti sull'estetica del
fabbricato e, quindi, sullo stesso decoro
architettonico.
Quella del decoro architettonico è spesso
una strada obbligata per quei condomini che
vogliano comunque opporsi a innovazioni
decise dalla maggioranza assembleare perché,
ai sensi dell'art. 1120, secondo comma,
c.c., le stesse possono essere considerate
legittime soltanto ove non rechino
pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza
dell'edificio, non ne modifichino, appunto,
il decoro architettonico o non rendano
alcune parti comuni inservibili all'uso cui
sono destinate.
In questi casi, affinché l'opposizione dei
condomini sia legittima, il pregiudizio
all'aspetto architettonico deve tradursi in
un'alterazione di particolare incidenza
sullo stile architettonico dell'edificio e
sulle linee caratteristiche principali di
esso, idonea di per sé a diminuire il pregio
estetico del fabbricato e, quindi, il valore
economico dello stesso, riferito sia
all'unità complessiva sia alle singole unità
in proprietà esclusiva. La difformità deve
quindi essere immediatamente apprezzabile
ictu oculi da parte delle persone di media
preparazione culturale e tecnica che si
trovino a passare sulla strada, in quanto
tali condizioni sono quelle che ricorrono in
occasione dell'apprezzamento del pregio
estetico di un edificio, nonché in occasione
della valutazione economica dello stesso sia
in termini di insieme che di singole
porzioni.
Al fine di stabilire se le opere di modifica
del fabbricato abbiano pregiudicato il
decoro architettonico, come opportunamente
specificato dalla Suprema corte, devono
comunque essere tenute presenti le
condizioni in cui quest'ultimo si trovava
prima dell'esecuzione delle opere stesse,
con la conseguenza che una modifica non può
essere ritenuta pregiudizievole per il
decoro architettonico se apportata a un
edificio la cui estetica sia stata già
menomata a seguito di precedenti lavori
ovvero che sia di mediocre livello
architettonico (Cassazione civile, sezione
seconda, sentenza 29.07.1989, n. 3549).
Dal punto di vista economico, l'alterazione
del decoro architettonico dell'edificio in
condominio postula un mutamento estetico
implicante un pregiudizio economicamente
valutabile. Tuttavia, secondo la Cassazione,
quando la modifica non sia del tutto
trascurabile e non abbia arrecato anche un
vantaggio, deve sempre ritenersi insito nel
pregiudizio estetico quello economico, senza
necessità di un'espressa motivazione sotto
tale profilo tutte le volte in cui non sia
stato espressamente eccepito e provato che
la modifica ha anche arrecato un vantaggio
economicamente valutabile (Cassazione
civile, sezione seconda, sentenza 06.10.1997, n. 9717).
Il diritto di opposizione alle opere
eseguite con pregiudizio delle
caratteristiche architettoniche
dell'edificio spetta a tutti i condomini, i
quali possono chiedere la riduzione in
pristino del fabbricato e il risarcimento
dei danni. Anche all'amministratore è
riconosciuto il potere di agire in giudizio
per chiedere la demolizione delle modifiche
pregiudizievoli alla statica e all'estetica
dell'edificio.
Sul punto la giurisprudenza, annoverando
detta facoltà dell'amministratore tra gli
atti conservativi dei diritti inerenti alle
parti comuni, ha per esempio riconosciuto la
legittimazione attiva dell'amministratore ad
agire in giudizio senza l'autorizzazione
dell'assemblea per conseguire la demolizione
della soprelevazione realizzata in
violazione delle prescrizioni e delle
cautele fissate dalle norme speciali
antisismiche ovvero per conseguire la
rimozione delle modifiche dell'edificio che
importino l'alterazione dell'estetica
(Cassazione civile, sezione seconda,
sentenza 12.10.2000, n. 13611)
(articolo ItaliaOggi
Sette del 19.03.2012). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Integra il reato di omissione di
atti d'ufficio (art. 328, comma secondo cod.
pen.) la condotta del segretario comunale
che, a fronte della richiesta di un
consigliere comunale di accesso agli atti,
ometta di fornirgli e di rispondere nei
termini di legge, essendo irrilevante che
gli atti richiesti non rientrino nelle
competenze deliberative del Consiglio (in
motivazione, la Corte ha chiarito che il
potere di sindacato ispettivo, di stimolo e
controllo sull'attività degli organi
comunali previsto dall'art. 42 T.U.E.L dà
diritto ai consiglieri di ottenere qualsiasi
informazione necessaria per il suo
esercizio).
---------------
Svolgimento del processo
Con la sentenza in epigrafe, la Corte
d'appello di Brescia, a seguito di
impugnazione della parte civile C.O., ha
riformato in toto quella di primo grado del
giorno 22.09.2004 del Tribunale di Bergamo,
emessa a seguito di giudizio abbreviato,
condannando G.G. per due episodi del reato
di cui all'art. 328 c.p., comma 2, al
risarcimento dei danni in favore della parte
civile, liquidati in complessivi Euro
4.000,00 (fatti del (OMISSIS)).
Al G. era stato contestato detto reato
perché, quale Segretario comunale del Comune
di (OMISSIS), richiesto legittimamente dal
consigliere comunale C.O. in data (OMISSIS)
di ottenere atti del Comune, ometteva di
fornirli e di rispondere nel termine di
legge.
Con la sentenza impugnata i giudici del
gravame hanno osservato, anzitutto, sul
dedotto impedimento del difensore
dell'imputato, che non è applicabile la
disciplina di cui all'art. 420-ter del
giudizio ordinario a quello in camera di
consiglio davanti alla Corte d'appello. Ha
poi rilevato che la disposizione del D.Lgs.
18.08.2000, n. 267, art. 42 (T.U.E.L.), che
contiene l'elencazione della materie nelle
quali è esercitabile da parte del consiglio
comunale il sindacato politico
amministrativo sulla attività del Comune,
non limita, esaurendolo, il potere di tale
sindacato. Quel limite potrà valere per
l'attività deliberativa, ma l'attività di
controllo del consigliere comunale si
estende a ogni materia di competenza della
amministrazione. Tale interpretazione è
confermata proprio dal testo dell'art. 22
dello Statuto del Comune di (OMISSIS) e
dall'art. 48 del Regolamento del consiglio
comunale, il primo dei quali stabilisce che
i consiglieri comunali hanno diritto di
ottenere tutte le informazioni in possesso
degli uffici comunali e tutti gli atti
pubblici utili all'espletamento del loro
mandato, ribadendo il potere di
interpellanza, di mozione e di altre istanze
di controllo. Una corretta ermeneusi del
citato art. 48, comma 4, induce a far
ritenere che il diritto dei consiglieri
all'informazione riguarda oltre che le
materie di competenza del consiglio comunale
anche quelle ricomprese nell'espletamento
del mandato di cui al comma 1, laddove i
commi 2 e 3 fanno riferimento ad atti e non
a materie. Tutto ciò consentiva di escludere
la mancanza di dolo dell'imputato, non solo
per la sua qualità. Esclusione peraltro già
evidente dalla risposta irridente che G.,
rivendicando un appartenenza politica, aveva
dato al C..
Avverso la predetta sentenza propone ricorso
per cassazione il difensore dell'imputato,
deducendo i seguenti motivi di ricorso.
1) Inosservanza dell'art. 420-ter in quanto
la Corte d'appello all'udienza (camerale)
del 22.11.2005 aveva rigettato la richiesta
di differimento del procedimento per
legittimo impedimento del difensore, le cui
ragioni erano state adeguatamente comprovate
con certificato medico attestante l'avvenuto
ricovero in data (OMISSIS) per un intervento
chirurgico con prognosi di 25 giorni;
richiesta tempestivamente inviata a mezzo
telefax in data 15.11.2005. L'indicazione
del tipo di intervento era stata omessa per
ragioni di privacy (l'intervento aveva poi
comportato una degenza fino al (OMISSIS) e
una convalescenza di 60 giorni). Osserva il
ricorrente che il difensore non aveva alcun
obbligo di farsi sostituire da altro
professionista e che orientamenti
giurisprudenziali (cita Cass. 11.10.2000 e
Cass., 10.10.2000) e dottrinali si sono
espressi nel senso della estensione
dell'art. 420-ter c.p.p. anche ai giudizi
camerali.
2) Inosservanza degli artt. 576 e 538 c.p.p..
La Corte d'appello aveva liquidato il danno
in Euro 4.000,00, peraltro senza alcuna
prova e senza motivazione sul punto (cita
Cass., 06.04.1995 e Cass., 14.06.2006),
motivazione certamente necessaria anche in
caso di danno non patrimoniale (cita Cass.,
01.10.1999 e Cass., 23.01.1997). In
proposito rileva ancora che nelle ipotesi,
come quella di specie, in cui il giudice
penale deve decidere ai soli effetti civili,
egli deve limitarsi a rimuovere l'effetto
extrapenale, ma il proscioglimento
pronunciato in primo grado rimane
irrevocabile, con la conseguenza che il
giudice penale non può provvedere sul
risarcimento del danno. La pronuncia del
giudice penale potrebbe solo aprire la
strada a un'azione davanti al giudice civile
(cita Cass., 07.04.1997 e Cass.,
30.10.1997).
3) Inosservanza ed erronea applicazione
dell'art. 328 c.p., comma 2, e mancanza e
manifesta illogicità della motivazione.
Nella specie, la documentazione richiesta
dal consigliere comunale C. esulava dalle
materie di competenza del consiglio
comunale, trattandosi di materia edilizia (D.Lgs.
18.08.2000, n. 267, art. 42 (T.U. Enti
Locali)). L'art. 48, comma 4, del
Regolamento del consiglio comunale e della
Commissioni consiliari di (OMISSIS) prevede
che il diritto di accesso a notizie e
informazioni utili per l'espletamento del
mandato riguarda solo le materie di
competenza consiliare, mentre l'art. 21
prevede che il responsabile del procedimento
debba negare l'informazione qualora la
richiesta sia presentata per scopi diversi
da quelli attinenti al mandato:
C., peraltro, non aveva detto quali fossero
le finalità per le quali intendeva esplicare
il suo diritto di accesso. Ciò aveva
specifici riflessi in ordine alla mancanza
del dolo del reato contestato.
In data 13.03.2009 ha depositato memoria il
difensore della parte civile ai sensi
dell'art. 611 c.p.p.. Contesta il fondamento
di tutti i motivi, osservando, sul primo,
che le norme che disciplinano il rito
ordinario e in particolare le norme sulla
obbligatorietà della presenza del difensore
non sono estensibili al rito camerale con
cui proceda la Corte d'appello (Cita Cass.,
sez. u., 26.06.2006 n. 3146 e Corte cost.
del 1998, n. 373). Peraltro, il certificato
medico non attestava l'assoluta
impossibilità a comparire e impediva ogni
valutazione sulla ricorrenza
dell'impedimento. Sul secondo motivo di
ricorso, replica nel senso che è infondata
la doglianza sulla pronuncia della condanna
al risarcimento dei danni e sulla
liquidazione del danno da parte della Corte
d'appello, non potendosi negare il relativo
potere del giudice del gravame che decide
sulla responsabilità penale ai soli effetti
civili (cita Cass., 09.07.2007 n. 36079 e
Cass., 27.10.2006 n. 38948). Infine, con
riferimento al terzo motivo di ricorso,
osserva che, come correttamente ritenuto
dalla Corte di merito, la norma del
regolamento del Comune di (OMISSIS) (art.
42, citato dal ricorrente) riproduce
esattamente il D.Lgs. 18.08.2000, n. 267,
art. 43.
Entrambi le norme tutelano i diritti dei
consiglieri comunali di ottenere qualsiasi
atto o qualsiasi informazione utile
all'espletamento del loro mandato in
generale (quindi anche il potere di
interpellanza, mozione e di ogni altro atto
di sindacato); onde neppure è necessario che
il consigliere comunale specifichi le
ragioni della sua richiesta. Si tratta di
concetti più volte ribaditi dalla
giurisprudenza amministrativa (cita Cons.
Stato, sez. 5, 21.02.1994, n. 119).
Motivi della decisione
Il ricorso non merita accoglimento.
...
Infine, neppure il terzo motivo
merita accoglimento.
Va premesso che i precedenti di questa Corte
citati dalla difesa del ricorrente, i quali
sarebbero favorevoli al G., o sono del tutto
estranei all'oggetto del presente giudizio,
oppure non sono condivisibili per non
affrontare il problema nei sui corretti
termini. Infatti, mentre la sentenza Cass.,
sez. 6, n. 18033 dep. 04.05.2001, Gremmo
riguarda una fattispecie di richiesta di
atti da parte di un consigliere comunale a
organismo del tutto estraneo al comune, la
pronuncia Cass., sez. 6, n. 21735 - dep.
29.05.2008, Vitellaro riguarda una richiesta
di accesso di un privato fatta a uffici
comunali. La sentenza Cass., sez. 6, n.
43492, - dep. il 13.11.2003, Biondi
riguarda, sì, una richiesta di un
consigliere comunale di copia di alcune
delibere, ma rivolta al vicesindaco;
quest'ultima decisione, peraltro, come
emerge dalla motivazione, non si confronta
minimamente con la normativa speciale che
riguarda i consiglieri comunali, omettendo
di prenderla in considerazione.
Ciò premesso, osserva la Corte che
indubbiamente, il D.Lgs. 18.08.2000, n. 267,
art. 42 (Testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali), recante
la rubrica "Attribuzioni dei consigli",
dopo avere stabilito che il consiglio è
l'organo di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo, elenca gli atti che
rientrano nelle competenze deliberative dei
consigli comunali. Tra essi certamente non
rientrano gli atti concernenti l'attività
edilizia. Il successivo art. 43 ("Diritti
dei consiglieri") riconosce ai
consiglieri comunali il diritto di accesso
e, nel ricalcare in modo pedissequo la L.
12.06.1990, n. 142, art. 31, che già
riproduceva, con diversa formulazione, i
contenuti della L. 27.12.1985, n. 816, art.
24 (norme entrambe rimaste abrogate dalla
entrata in vigore del T.U.E.L.) prevede, nel
quadro del più ampio diritto di accesso di
cui all'art. 10 del testo unico, assicurato
a ogni cittadino, il cosiddetto diritto di
accesso conoscitivo dei consiglieri
comunali, i quali "...hanno diritto di
ottenere dagli uffici, rispettivamente, del
comune e della provincia, nonché dalle loro
aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie
e le informazioni in loro possesso, utili
all'espletamento del proprio mandato"
anche se "sono tenuti al segreto nei casi
specificamente determinati dalla legge".
E la dottrina individua i soggetti chiamati
a collaborare con i consiglieri comunali nei
funzionari del comune e, prima di ogni
altro, nel Segretario comunale.
Sarebbe del tutto riduttivo ed errato
ritenere, come ritiene il ricorrente, che il
diritto di accesso del consigliere comunale,
e quindi il suo diritto di ottenere
qualsiasi notizia o informazione, sia
limitato alle materie cui si riferiscono gli
atti previsti dal citato art. 42, cioè alle
materie sulle quali il consiglio ha un
potere deliberativo. Quest'ultima norma va,
infatti, letta parallelamente all'art. 43
dello stesso testo unico, secondo cui "I
consiglieri comunali e provinciali hanno
diritto di iniziativa su ogni questione
sottoposta alla deliberazione del consiglio.
Hanno inoltre il diritto di chiedere la
convocazione del consiglio secondo le
modalità dettate dall'art. 39, comma 2, e di
presentare interrogazioni e mozioni". E
il sindaco o gli assessori da lui delegati
devono rispondere, entro 30 giorni, alle
interrogazioni e ad ogni altra istanza di
sindacato ispettivo presentata dai
consiglieri (art. 43, comma 3).
I cosiddetti diritti di sindacato ispettivo,
di stimolo e di controllo, sull'attività
degli organi comunali garantiti da
quest'ultima norma, danno conto dell'ampio
spettro di tale diritto dei consiglieri
comunali, funzionale, dunque, non solo a
ottenere qualsiasi notizia o informazione ai
fini del consapevole esercizio dei poteri e
diritti relativi alle materie previste
dall'art. 42, ma anche alla informazione
necessaria per l'esercizio dei poteri e
diritti rientranti nel sindacato ispettivo
degli organi comunali (Cons. Stato, sez. 5,
21.02.1994, n. 119): poteri e diritti che
configurano, dal lato passivo, un vero e
proprio dovere di supporto dei consiglieri
comunali nella esecuzione del proprio
mandato, da parte dei funzionari degli
uffici dell'ente. L'ampiezza del diritto è,
d'altra parte confermata dalla
giurisprudenza amministrativa la quale ha
ritenuto che nessuna norma prevede che
l'istanza di accesso -che si estendevi
rilascio di copia dei documenti richiesti
secondo le procedure d'accesso ex L.
07.08.1990, n. 241- debba contenere le
ragioni della singola richiesta, in quanto,
in caso contrario si giungerebbe all'assurdo
di permettere ai controllati di esercitare
un controllo sulla attività dei controllanti
(Cons. Stato, Sez. 5, 22.02.2000, n. 940;
Cons. Stato, sez. 5, 07.05.1996, n. 528):
esattamente ciò che intendeva fare
l'imputato nel caso di specie.
E non v'è dubbio che la norma penale di cui
all'art. 328 c.p., comma 2, si estenda alla
tutela del diritto di informazione e di
accesso del consigliere comunale previsti
dalle disposizioni di cui si è fatto cenno,
al pari della tutela spettante a qualsiasi
cittadino introdotta nel codice penale con
la riforma dei diritti dei pubblici
ufficiali contro la pubblica amministrazione
(L. 26.04.1990, n. 86, art. 16) pressoché
coeva alla emanazione della L. 07.08.1990,
n. 241 contenente le nuove norme sul
procedimento amministrativo e sul diritto di
accesso ai documenti amministrativi.
Né l'imputato può sostenere che, nel caso,
norme regolamentari del Comune di (OMISSIS)
prevedono limitazioni del diritto di
informazione del consigliere comunale alle
materie di cui al D.Lgs. 18.08.2000, n. 267,
art. 42, in quanto è noto a tutti che una
norma sub primaria non può contenere
previsioni difformi da quella primaria, che,
nella specie, non poteva non trovare
applicazione.
Considerazione quest'ultima che ha indotto
la Corte d'appello a ritenere la sussistenza
del dolo da parte del segretario comunale,
che proprio per la sua qualità, e
contrariamente a quanto sostenuto dalla
difesa anche nel ricorso per cassazione, ha
inteso sostenere la buona fede del
ricorrente basandola sulle norme
regolamentari del Comune di (OMISSIS), in
piena antitesi con quanto si è sinora detto.
Per tutte le considerazioni esposte il
ricorso del G. deve essere rigettato.
Consegue la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese processuali nonché al
rimborso delle spese sostenute dalla parte
civile C.O., liquidate, come da nota spese,
in Euro 2.761,00.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente
al pagamento delle spese processuali nonché
al rimborso delle spese sostenute dalla
parte civile C.O., liquidate, come da nota
spese, in Euro 2.761,00 (Corte di
Cassazione, Sez. VI penale, sentenza
20.05.2009 n. 21163). |
COMPETENZE GESTIONALI: La
procura alle liti può essere conferita al
difensore direttamente dal Sindaco, cui è
attribuita la rappresentanza dell’Ente,
senza previa autorizzazione della Giunta
Municipale, spettando a quest’ultima solo
una competenza residuale, per le materie non
riservate al Sindaco dalla legge o dallo
statuto del Comune interessato; quanto ai
poteri del dirigente, disciplinati dall’art.
107 del citato Testo Unico, sembra corretto
ritenere che tra essi non rientri in via
generale –salvo esplicita previsione
statutaria in tal senso– l’autorizzazione a
stare in giudizio.
Il Collegio non condivide la tesi della
difesa della ... s.p.a., secondo cui, a
norma del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 (Testo
Unico delle leggi sull’ordinamento degli
enti locali), non sarebbe “la Giunta
comunale, bensì…il Dirigente del competente
ufficio a dover autorizzare, con propria
determina, il Sindaco a promuovere o a
resistere ad una determinata lite, a pena
della inammissibilità della costituzione in
giudizio”.
A quest’ultimo riguardo, infatti, il
Collegio stesso non ritiene di doversi
discostare dal proprio precedente
orientamento (Cons. St., sez. VI,
09.06.2006, n. 3452) –conforme sul punto ad
autorevole indirizzo della Cassazione (Cass.
SS.UU. nn. 186/2001 e 17750/2002)– secondo
cui la procura alle liti può essere
conferita al difensore direttamente dal
Sindaco, cui è attribuita la rappresentanza
dell’Ente, senza previa autorizzazione della
Giunta Municipale, spettando a quest’ultima
solo una competenza residuale, per le
materie non riservate al Sindaco dalla legge
o dallo statuto del Comune interessato;
quanto ai poteri del dirigente, disciplinati
dall’art. 107 del citato Testo Unico, sembra
corretto ritenere che tra essi non rientri
in via generale –salvo esplicita previsione
statutaria in tal senso– l’autorizzazione a
stare in giudizio (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 01.10.2008 n. 4744 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI:
A prescindere dalla dubbia
legittimità di una disposizione statutaria
secondo cui si attribuisce ai dirigenti il
potere di promuovere e resistere alle liti
-considerato che, secondo un fermo
orientamento della Corte di Cassazione, la
rappresentanza in giudizio del comune è
riservata, in via esclusiva, al Sindaco e
non può essere esercitata dal dirigente
titolare della direzione di un ufficio o di
un servizio neppure se così preveda lo
statuto comunale- il riconosciuto potere dei
dirigenti di promuovere o resistere alle
liti riguarda la loro legittimazione
processuale e non già la rappresentanza
dell’ente, che è l’elemento rilevante in
materia di notifica degli atti.
---------------
Per quanto concerne l’eccezione di
inammissibilità dell’appello, per essere
stato proposto dal sindaco senza la previa
delibera del competente dirigente comunale,
si deve convenire che, al riguardo, non solo
da questo Consiglio ma, in epoca più
recente, anche dalla Corte di Cassazione è
stato affermato che occorre la previa
determinazione del dirigente in ordine alla
opportunità di promuovere una lite o
resistere in giudizio.
In particolare, la Corte di Cassazione ha
chiarito che, nel vigore dell’ordinamento
degli enti locali approvato con il d.lgs.
18.08.2000 n. 267, la norma dello statuto
comunale che attribuisce al dirigente la
funzione di gestione amministrativa deve
ritenersi comprensiva dell’attribuzione al
medesimo del potere di determinazione -in
luogo della delibera autorizzativa della
giunta municipale- in ordine alla
opportunità di promuovere o resistere ad una
lite, atteso che tale determinazione non
appartiene all’attuazione dell’indirizzo
politico-amministrativo generale del Comune
(spettante al sindaco ed alla giunta), ma
alla gestione amministrativa del singolo
caso, ed assume il carattere di una proposta
e di una valutazione di natura tecnica, la
quale viene accolta discrezionalmente dal
sindaco, quale capo dell’amministrazione ed
esclusivo rappresentante dell’ente locale
dinanzi agli organi giudiziari.
La notifica del ricorso introduttivo del
giudizio di primo grado è, infatti,
avvenuta, come si è appena visto, al Comune
di Roma presso il II Dipartimento Ufficio
Contravvenzioni, nella persona del dirigente
pro tempore, anziché al Comune di Roma
-nella persona del sindaco, legale
rappresentante dell’ente- presso la sua
sede, e, pertanto, in difformità da quanto
disposto dall’art. 145 c.p.c. per le
notifiche alle persone giuridiche.
Né ha alcun fondamento la tesi
dell’appellato, secondo la quale la notifica
sarebbe rituale, perché il vigente (anche
all’epoca in cui il ricorso è stato
proposto) statuto comunale attribuisce ai
dirigenti il potere di promuovere e
resistere alle liti.
Invero, a prescindere dalla dubbia
legittimità di una disposizione siffatta
-considerato che, secondo un fermo
orientamento della Corte di Cassazione, la
rappresentanza in giudizio del comune è
riservata, in via esclusiva, al Sindaco e
non può essere esercitata dal dirigente
titolare della direzione di un ufficio o di
un servizio neppure se così preveda lo
statuto comunale (cfr., tra le sentenze più
recenti, Cass. civ., Sez. Trib., 07.06.2004
n. 10787)- il riconosciuto potere dei
dirigenti di promuovere o resistere alle
liti riguarda la loro legittimazione
processuale e non già la rappresentanza
dell’ente, che è l’elemento rilevante in
materia di notifica degli atti.
Per quanto concerne, poi, l’eccezione di
inammissibilità dell’appello, per essere
stato proposto dal sindaco senza la previa
delibera del competente dirigente comunale,
si deve convenire che, al riguardo, non solo
da questo Consiglio, con il precedente
invocato a sostegno di detta argomentazione
(Sez. IV, 05.07.1999 n. 1164), ma, in epoca
più recente, anche dalla Corte di Cassazione
(cfr. Cass. Civ., Sez. Trib., 17.12.2003 n.
19380) è stato affermato che occorre la
previa determinazione del dirigente in
ordine alla opportunità di promuovere una
lite o resistere in giudizio.
In particolare, la Corte di Cassazione ha
chiarito che, nel vigore dell’ordinamento
degli enti locali approvato con il d.lgs.
18.08.2000 n. 267, la norma dello statuto
comunale che attribuisce al dirigente la
funzione di gestione amministrativa deve
ritenersi comprensiva dell’attribuzione al
medesimo del potere di determinazione -in
luogo della delibera autorizzativa della
giunta municipale- in ordine alla
opportunità di promuovere o resistere ad una
lite, atteso che tale determinazione non
appartiene all’attuazione dell’indirizzo
politico-amministrativo generale del Comune
(spettante al sindaco ed alla giunta), ma
alla gestione amministrativa del singolo
caso, ed assume il carattere di una proposta
e di una valutazione di natura tecnica, la
quale viene accolta discrezionalmente dal
sindaco, quale capo dell’amministrazione ed
esclusivo rappresentante dell’ente locale
dinanzi agli organi giudiziari
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 25.01.2005 n. 155 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI:
Il ricorso per Cassazione deve
essere considerato ammissibile. Esso è stato
proposto dal Sindaco pro-tempore previa
delibera del dirigente degli affari legali,
organo tecnico preposto alla valutazione di
proponibilità del ricorso stesso.
E’ noto che, a seguito dell’emanazione del
d.lgs. n. 267/2000 e del d.lgs. n. 165/2001,
sono state apportate innovazioni in materia
di decentramento amministrativo e di poteri
degli organi amministrativi locali. Mentre
appartiene al Sindaco ed alla Giunta
l’attuazione dell’indirizzo
politico-amministrativo dell’ente, il
dirigente è preposto all’attuazione
dell’indirizzo amministrativo. Orbene, la
valutazione di opportunità e di
proponibilità della proposizione di un
ricorso per Cassazione contro una decisione
della Commissione tributaria regionale non
appartiene all’indirizzo amministrativo
generale del Comune, ma alla gestione del
singolo caso.
Nella fattispecie, la determinazione del
dirigente degli affari legali assume il
carattere di una proposta e di una
valutazione tecnica, la quale viene accolta
discrezionalmente dal Sindaco, quale capo
dell’Amministrazione e rappresentante
pro-tempore dell’ente locale dinanzi agli
organi giudiziari. Appare evidente che il
regolamento generale delle entrate comunali,
emanato nel 1999, è superato quanto alla
necessità di delibera della Giunta per
proporre ogni singolo ricorso.
La giurisprudenza di questa Corte di
Cassazione considera tuttora il Sindaco come
legale rappresentante pro-tempore del Comune
per quanto attiene alla capacità di stare in
giudizio, previa delibera della Giunta,
mentre il dirigente amministrativo degli
affari legali è configurabile quale organo
tecnico deputato a proporre ogni iniziativa
giudiziaria, apparendo incongruo che detto
dirigente “autorizzi” il Sindaco a stare in
giudizio.
---------------
DIRITTO
Deve essere preliminarmente presa in esame
l’eccezione di inammissibilità del ricorso,
proposta per la prima volta dalla difesa del
C.Z.A.I. di Verona con la discussione orale
e relative “note di udienza”. Il
Consorzio resistente deduce che la delibera
intesa alla proposizione del ricorso per
Cassazione doveva essere assunta dalla
Giunta Comunale e non per determinazione del
dirigente del settore affari legali del
Comune.
6.
L’eccezione è infondata e il ricorso per
Cassazione deve essere considerato
ammissibile. Esso è stato proposto dal
Sindaco pro-tempore previa delibera del
dirigente degli affari legali, organo
tecnico preposto alla valutazione di
proponibilità del ricorso stesso. E’ noto
che, a seguito dell’emanazione del d.lgs. n.
267/2000 e del d.lgs. n. 165/2001, sono
state apportate innovazioni in materia di
decentramento amministrativo e di poteri
degli organi amministrativi locali. Mentre
appartiene al Sindaco ed alla Giunta
l’attuazione dell’indirizzo
politico-amministrativo dell’ente, il
dirigente è preposto all’attuazione
dell’indirizzo amministrativo. Orbene, la
valutazione di opportunità e di
proponibilità della proposizione di un
ricorso per Cassazione contro una decisione
della Commissione tributaria regionale non
appartiene all’indirizzo amministrativo
generale del Comune, ma alla gestione del
singolo caso.
Orbene, in questo caso la determinazione del
dirigente degli affari legali assume il
carattere di una proposta e di una
valutazione tecnica, la quale viene accolta
discrezionalmente dal Sindaco, quale capo
dell’Amministrazione e rappresentante
pro-tempore dell’ente locale dinanzi agli
organi giudiziari. Appare evidente che il
regolamento generale delle entrate comunali,
emanato nel 1999, è superato quanto alla
necessità di delibera della Giunta per
proporre ogni singolo ricorso.
7.
La giurisprudenza di questa Corte di
Cassazione considera tuttora il Sindaco come
legale rappresentante pro-tempore del Comune
per quanto attiene alla capacità di stare in
giudizio, previa delibera della Giunta,
mentre il dirigente amministrativo degli
affari legali è configurabile quale organo
tecnico deputato a proporre ogni iniziativa
giudiziaria, apparendo incongruo che detto
dirigente “autorizzi” il Sindaco a
stare in giudizio.
8.
Per vero, Cass. 11.05.2001, n. 6546, cui la
difesa del C.Z.A.I. di Verona ha fatto
riferimento, mentre afferma il principio che
solo il Sindaco può stare in giudizio ed è
necessaria la delibera della Giunta, fa
carico al Comune di produrre lo Statuto, “alla
cui sola stregua si sarebbe potuta
ipotizzare la potestà autorizzatoria”,
lasciando intendere come sulla base dello
statuto comunale o dei relativi regolamenti
sia possibile conferire al dirigente il
potere di proporre se stare in giudizio
nelle liti passive.
Cassazione 05.04.2002, n. 4845 ritiene che
la rappresentanza del Comune spetta in via
primaria al Sindaco, ma i dirigenti di
Uffici generali possono essere incaricati di
promuovere le liti e resistervi, mediante
trasposizione nello statuto comunale o in un
regolamento della norma secondo la quale i
dirigenti stanno in giudizio per il Comune.
9.
Ed è quanto operato dal Comune di Verona, il
quale col proprio statuto -art. 80, comma 4-
ha attribuito alla dirigenza la funzione di
gestione amministrativa, nella quale deve
essere ricompresa anche la delibera-proposta
al Sindaco di resistere ad un ricorso in
materia tributaria.
Vale la pena di puntualizzare che, nel caso
di specie, sta in giudizio dinanzi alla
Corte di Cassazione il Sindaco e che la
questione si pone unicamente in ordine
all’atto presupposto, vale a dire alla
delibera preliminare alla proposizione del
ricorso per Cassazione, laddove nei casi
sopra ricordati si poneva (anche) la
questione se il Comune potesse essere
rappresentato in giudizio dal dirigente.
10.
Non risultano utilizzabili nel caso di
specie i precedenti di questa Corte
10.02.2003, n. 1949 e 26.02.2003, n. 2878,
nei quali la sez. III ha ritenuto che la
legittimazione a rappresentare il Comune in
giudizio spetti al Sindaco, al vice-sindaco
in caso di suo impedimento e al Segretario
generale in caso di delega del Sindaco o di
attribuzione per statuto o regolamento:
infatti non si discute della rappresentanza
in giudizio del Comune da parte del Sindaco
(che in questo caso è costituito in giudizio
quale legale rappresentante pro-tempore
dell’ente) ma della delibera preliminare.
Lo stesso è a dirsi per la sentenza n.
2878/2003, la quale si occupa della
legittimazione a stare in giudizio -per
negarla in capo al dirigente- ma non della
delibera preliminare. Può quindi passarsi
all’esame del merito. ... (Corte di
Cassazione, Sez. civile, sentenza
17.12.2003 n. 19380). |
AGGIORNAMENTO AL 19.03.2012 |
ã |
QUESITI &
PARERI |
EDILIZIA PRIVATA: Sull'accertamento
della compatibilità paesaggistica senza il
parere obbligatorio e vincolante della
Soprintendenza
(Regione Lombardia, D.G. Sistemi Verdi e
Paesaggio, Coordinamento Giuridico e
Amministrativo,
parere 16.03.2012).
---------------
Anche la Regione Lombardia conferma, in
risposta ad un quesito formulato da un
comune del varesotto, quanto statuito dal
TAR Lombardia-Brescia, di cui ne davamo
notizia con l'aggiornamento
dello scorso 02.02.2012.
Ora, staremo a vedere se alcuni funzionari
della Soprintendenza saranno ancora "duri di
comprendonio" nel non rilasciare il
richiesto parere obbligatorio e vincolante
!!
19.03.2012 - LA SEGRETERIA PTPL |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA: L.
Spallino,
Piano Casa Regione Lombardia: genesi e
quadro generale edizione 2012
(link a www.studiospallino.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L.
Spallino,
Piano Casa Regione Lombardia 2012:
timeline
(link a www.studiospallino.it). |
ESPROPRIAZIONE:
R. G. Vaccari,
L’espropriazione indiretta (link
a http://venetoius.myblog.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
S. Liali,
Novità su congedi, aspettative e permessi (link a www.ipsoa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
L. Oliveri,
La configurazione delle consulenze e delle
prestazioni d'opera ai fini
dell'applicazione del codice dei contratti -
le procedure comparative per gli incarichi
di collaborazione (dicembre
2006 - link a www.lexitalia.it). |
CORTE DEI
CONTI |
SEGRETARI COMUNALI:
Agenzia
segretari, tutto un bluff.
Soppressione solo sulla carta. In due anni
spesi 2 milioni. Corte dei conti sugli enti
cancellati dal dl 78/2010. Non c'è volontà
di eliminare l'Ages.
A distanza di quasi due anni, l'iter di
soppressione dell'Agenzia per la gestione
dell'albo dei segretari comunali e
provinciali (Ages) incontra notevoli
risvolti critici sia sotto il profilo
dell'economicità che dell'efficienza. Anzi,
la scarsa attenzione dedicata al problema
dall'amministrazione subentrante, ovvero il
ministero dell'interno, nonché il lungo
perpetrarsi di modalità ancora provvisorie,
induce a dubitare che si voglia portare a
compimento il processo di soppressione
statuito dal decreto legge n. 78/2010.
Nel frattempo, tra spese di personale e
quelle relative a servizi vari, l'ex Ages ha
sostenuto costi per poco più di 2 milioni di
euro.
È il j'accuse che la sezione centrale di
controllo sugli enti della Corte dei Conti,
Sez. centrale di controllo,
ha messo nero su bianco nel testo della
deliberazione
08.03.2012 n. 1, avente
per oggetto la verifica sullo stato di
attuazione del processo di soppressione e
incorporazione di enti e organismi pubblici
previsto dall'articolo 7 della manovra
varata nel maggio 2010. Un processo che
oltre a coinvolgere l'Ages comprende, tra
gli altri, l'ente teatrale italiano,
l'Istituto per la promozione industriale e
l'Istituto di studi e analisi economica.
Con riferimento all'Ages, la Corte ha
sottolineato che, in tempi brevi, il
Viminale, con decreto del 31.07.2010, ha
istituito un'unità di missione con il
compito di svolgere le attività gestionali
per sei mesi. Ma, di proroga in proroga,
tale unità sarà attiva sino al prossimo 30
giugno. Tralasciando le vicissitudini
riportate, che hanno comunque condotto al
mancato varo del rendiconto, per effetto
della mancanza dell'organo di revisione, la
Corte sottolinea che, a oggi, «è ancora in
via di definizione il dm interno che
contenga le date di effettivo esercizio
delle funzioni trasferite e l'individuazione
delle risorse umane, strumentali e
finanziare».
La Corte ha anche messo nero su bianco i
costi dell'Ages, nonostante la disposta
soppressione. Interessanti le voci relative
ai servizi. Da un lato i servizi legati al
funzionamento degli uffici dell'ex Agenzia,
quali, tra gli altri, l'elaborazione e
stampa degli stipendi, la cui spesa
sostenuta dall'01/08/2010 al 31/12/2011 è
stimata in oltre 90 mila euro e la tenuta
della contabilità economico patrimoniale che
viene stimata in oltre 174 mila euro.
Sommando altre voci, la spesa sostenuta dopo
la soppressione ammonta a 292 mila euro
oltre Iva. Vi è però un secondo gruppo messo
a fuoco dalla Corte, ovvero quello delle
spese strutturali.
Tra queste, i servizi
informativi, la cui spesa per il periodo 01/08/2010-31/12/2011 è stimata in poco più
di 510 mila euro, una voce di spesa «Global
service agenzia in Roma» stimata in circa
500 mila euro più Iva, la fornitura di buoni
pasto, costata 304 mila euro, servizi
assicurativi per 227 mila euro, servizi
esterni per l'informatica della sede
centrale (52 mila euro), servizi legati
all'espletamento dell'ultimo concorso dei
segretari comunali e provinciali, pari a 186
mila euro. Aggiungendo altre voci, la Corte
mette nero su bianco che tali servizi, detti
strutturali, ammontano a 1,7 milioni di
euro.
In definitiva, per la Corte, il processo di
soppressione dell'Ages, ancora oggi non
definito, sembra celare difficoltà
nell'adozione di decisioni definitive legate
alle sorti dell'ente, ma non si può non
vedere che, di fatto, si sono prodotte
situazioni e circostanze che mostrano gravi
criticità per i profili dell'economicità e
dell'efficienza. Una gestione transitoria
che per sua natura si deve risolvere in
tempi brevi, gestisce l'ordinarietà da quasi
due anni in quanto sono assenti gli
strumenti, giuridici e finanziari, per porre
fine alla vicenda (articolo ItaliaOggi
del 16.03.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICI:
Niente scappatoie sul Patto.
Opere urgenti? Risorse da risparmi o tasse.
Gli enti locali hanno l'obbligo di
rispettare i limiti alla capacità di
indebitamento imposti, da ultimo,
dall'articolo 8 della legge di stabilità
2012, in quanto principi di coordinamento
della finanza pubblica. Ne consegue che,
anche in presenza di opere pubbliche il cui
avvio è di somma urgenza, l'ente ha l'onere
di reperire le necessarie risorse attraverso
la contrazione di altre voci di spesa o
aumentando il livello delle entrate.
È
quanto ha messo nero su bianco la sezione
regionale di controllo della Corte dei Conti
per la Lombardia, nel testo del
parere 06.03.2012 n. 56, con cui sono
stati forniti, per la prima volta, i
necessari chiarimenti alla disposizione
contenuta nell'articolo 8 della legge n.
183/2011.
Nel merito, il comune di Tremenico,
evidenziava la possibilità di avviare con
urgenza di un'opera pubblica volta a
eliminare pericoli per l'incolumità e la
sicurezza urbana, assumendo un nuovo mutuo,
conciliandole con le limitazioni
all'indebitamento imposte dalla citata legge
di stabilità. Come si ricorderà, la norma
precisa che l'ente locale può assumere nuovi
mutui e accedere ad altre forme di
finanziamento solo se l'importo annuale
degli interessi, sommato a quello dei mutui
precedentemente contratti, ai prestiti
obbligazionari emesse e alle aperture di
credito stipulate, non superi il 12% nel
2011, l'8% nel 2012, il 6% nel 2013 e il 4%
nel 2014, riferito alle entrate relative ai
primi tre titoli delle entrate del
rendiconto del penultimo anno precedente
quello in cui viene prevista l'assunzione
dei mutui.
La Corte ha, pertanto, rilevato che tali
disposizioni in materia di debito pubblico
degli enti locali costituiscono principi
fondamentali di coordinamento della finanza
pubblica, sottolineando che la natura delle
disposizioni sopra richiamate riguarda non
solo il rispetto del limite della capacità
di indebitamento ma anche l'andamento
decrescente tra il peso dei mutui (o delle
altre obbligazioni) e le entrate poste nei
bilanci degli enti locali. Ne consegue che
l'ente ha il dovere di rispettare la
normativa che disciplina l'indebitamento e,
in presenza di opere urgenti, ha l'onere di
reperire ulteriori risorse proprie ovvero
procedere a economie di spesa.
L'inderogabilità della norma, infatti,
proiettandosi sui bilanci futuri dell'ente,
comporta che, anche nell'ipotesi di assoluta
necessità di realizzare un'opera pubblica,
l'ente locale deve, in primo luogo, cercare
di individuare altre modalità di
finanziamento della spesa, contraendo altre
voci di spesa oppure aumentando il livello
delle entrate, nei limiti della normativa
vigente. Ma queste sono scelte rimesse alla
esclusiva valutazione e competenza dell'ente (articolo ItaliaOggi
del 16.03.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Presupposti indispensabili per
considerare lecito il ricorso agli incarichi
esterni sono: 1) che si tratti di esigenze
alle quali non si può far fronte con
personale in servizio; 2) che l’incarico
venga conferito ad un esperto di particolare
e comprovata competenza; 3) che vengano
preventivamente determinati la durata, il
luogo, l’oggetto ed il compenso della
collaborazione.
... Per quanto riguarda il conferimento
dell’incarico, l’articolo 7, comma 6, del
decreto legislativo 165/2001, nel testo
vigente all’epoca dei fatti, stabiliva che “per
esigenze cui non possono far fronte con
personale in servizio, le amministrazioni
pubbliche possono conferire incarichi
individuali ad esperti di provata
competenza, determinando preventivamente
durata, luogo, oggetto e compenso della
collaborazione”.
Pertanto, presupposti indispensabili per
considerare lecito il ricorso agli incarichi
esterni sono:
1) che si tratti di esigenze alle quali non
si può far fronte con personale in servizio;
2) che l’incarico venga conferito ad un
esperto di particolare e comprovata
competenza;
3) che vengano preventivamente determinati
la durata, il luogo, l’oggetto ed il
compenso della collaborazione (Corte di
Conti, Sez. II giurisdiz. centrale
d'appello,
sentenza 29.07.2008 n. 256 - link
a www.corteconti.it). |
NEWS |
ENTI LOCALI: Revisori
degli enti locali, ultimi giorni per le
istanze.
Professionisti. Decreto atteso per martedì
in «Gazzetta».
LA SCADENZA/ Chi non ha mai svolto la
funzione in precedenza deve presentare
domanda entro l'entrata in vigore del nuovo
regolamento.
Ancora pochi giorni di tempo per i
professionisti che vogliono debuttare nel
ruolo di revisori dei conti degli enti
locali e devono presentare la richiesta di
essere inseriti negli elenchi regionali
previsti dalla riforma.
Il
decreto attuativo
del ministero dell'Interno, firmato il 15
febbraio scorso, è ormai arrivato all'ultimo
miglio del proprio iter e dovrebbe approdare
in «Gazzetta Ufficiale» a breve,
probabilmente martedì prossimo. Il
provvedimento del Viminale, all'articolo 4,
prevede che i revisori al debutto debbano
presentare la richiesta di iscrizione «entro
la data di entrata in vigore» dello stesso
decreto attuativo: anche per questo nelle
settimane scorse il Consiglio nazionale dei
dottori commercialisti ed esperti contabili
ha esortato gli interessati a presentare
domanda in un Comune (a prescindere dal
fatto che nell'ente locale fosse o meno in
scadenza il revisore o il collegio attuale).
«Naturalmente –spiega Giosuè Boldrini,
consigliere delegato agli Enti pubblici nel
Cndcec– si tratta di un meccanismo
irrazionale, ma l'esigenza principale è ora
quella di evitare che una serie di
professionisti interessati siano tagliati
fuori per le incertezze applicative».
Incertezze che proprio non mancano, come
mostra anche il comunicato diffuso ieri dal
Viminale, in cui si spiega che il ministero
provvederà a «diramare istruzioni di
dettaglio» sui passaggi applicativi della
riforma che ha cambiato le procedure di
nomina, appena il decreto attuativo «in
corso di pubblicazione in Gazzetta
Ufficiale» terminerà il proprio iter. Prima
non si può.
La nebbia da diradare è fitta, dopo
l'incrocio sfortunato tra il decreto
attuativo della riforma (scritta
all'articolo 16, comma 25 della manovra-bis
di Ferragosto; Dl 138/2011) e la norma del
Milleproroghe che negli stessi giorni in cui
veniva firmato il provvedimento ha rimandato
di nove mesi, cioè a fine settembre 2012, il
debutto della stessa riforma (articolo 29,
comma 11-bis, del Dl 216/2011).
I nodi da sciogliere non sono pochi. La
riforma toglie al consiglio comunale il
proprio ruolo nella nomina dei revisori, per
sottrarre la scelta dei controllori dalla
volontà dei controllati, e affida il tutto a
un'estrazione da elenchi regionali tenuti
dalle Prefetture.
Per essere inseriti negli elenchi occorre
fare una richiesta, dopo di che sarà il
possesso dei diversi requisiti (in termini
di curriculum e di anzianità di iscrizione
al registro dei revisori contabili o
all'ordine dei dottori commercialisti ed
esperti contabili) a indirizzare l'aspirante
revisore a una delle tre fasce demografiche
previste dalla riforma: la prima è dedicata
agli enti fino a 4.999 abitanti (ed è
l'unica opzione per chi si trova alla prima
esperienza di revisione in un Comune o in
una Provincia), la seconda è rivolta agli
enti fra 5 e 14.999 abitanti (servono almeno
5 anni di iscrizione, un mandato pieno già
svolto da revisore e 10 crediti formativi
sul tema accumulati fra gennaio e novembre
dell'anno precedente; in prima applicazione
i crediti richiesti sono 15 nell'ultimo
triennio) e la terza, riservata a chi ha
almeno 10 anni di iscrizione e due
esperienze da revisore locale (oltre ai
crediti), permette di operare in tutti gli
enti locali.
Oltre alla pubblicazione del provvedimento,
c'è poi da mettere in piedi l'architettura
informatica che guiderà istanze ed
estrazioni. Anche su questo aspetto, oltre
che sulle precise tappe applicative del
nuovo sistema, arriveranno nelle prossime
settimane i chiarimenti del Viminale.
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Il quadro.
01|LA RIFORMA
L'articolo 16, comma 25, del Dl 138/2011
cambia il sistema di nomina dei revisori dei
conti in Comuni e Province. La scelta è
sottratta ai consigli comunali e
provinciali, e affidata all'estrazione da
elenchi regionali, suddivisi in tre fasce:
la prima fascia, che consente di svolgere la
funzione negli enti fino a 4.999 abitanti, è
riservata ai revisori al debutto
02|L'ISTANZA
Chi non ha in curriculum precedenti mandati
da revisore dei conti, deve presentare una
«richiesta di svolgere la funzione» entro la
data in vigore del decreto attuativo
03|L'ATTUAZIONE
Il decreto sarà pubblicato in «Gazzetta
Ufficiale» nei prossimi giorni,
probabilmente martedì; per questa ragione il Cndcec ha invitato tutti gli interessati a
presentare richiesta in un Comune, a
prescindere dal fatto che lì il mandato sia
in scadenza
(articolo Il Sole 24
Ore
del 17.03.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Testamento politico in naftalina.
Slitta la relazione di fine mandato per i
sindaci ricandidati. Il ministro
dell'interno congela il regolamento atteso
dalla Conferenza stato-città.
La relazione di fine mandato può attendere. I
sindaci in scadenza che si ricandideranno
alle elezioni amministrative del 6 e 7
maggio saranno dunque esonerati dall'obbligo
di informare i cittadini su cosa hanno fatto
e come hanno speso i soldi pubblici.
L'obbligo di redigere (e di rendere pubblico
sul sito internet del comune) quello che da
più parti è stato definito come una sorta di
«testamento politico» del primo cittadino
costituisce uno dei fiori all'occhiello
dell'ultimo decreto legislativo attuativo
del federalismo fiscale, il dlgs n. 149/2011,
che è anche uno degli ultimi provvedimenti
approvati dal governo Berlusconi.
La relazione di fine mandato avrebbe dovuto
debuttare dalle prossime elezioni di maggio
se il governo presieduto da Mario Monti
avesse deciso di rispettare il timing
previsto nello stesso dlgs.
Entro 90 giorni dall'entrata in vigore del
dlgs (05.10.2011), e dunque entro il 05.01.2012, il ministero dell'interno,
d'intesa col Mef, avrebbe dovuto approvare,
previo accordo in Conferenza stato-città, lo
schema tipo per la redazione del testamento
politico dei sindaci, nonché uno schema
semplificato per i comuni con meno di 5.000
abitanti.
Fatto sta che i tecnici del dicastero
guidato da Anna Maria Cancellieri si sono
subito messi al lavoro per predisporre una
bozza di provvedimento da portare in
Stato-città in tempo utile per le prossime
amministrative.
Ma con sorpresa nell'ultima riunione della
Conferenza (quella del 1° marzo in cui tra
l'altro è stato raggiunto l'accordo sulla
ripartizione del fondo di riequilibrio dei
comuni e delle province) dello schema di
relazione di fine mandato non c'è stata
traccia. Il testo, atteso per l'esame, è
stato alla fine cancellato dall'ordine del
giorno, tutto dedicato invece alla finanza
locale.
Il decreto è stato però esaminato lo stesso
«fuori sacco» su richiesta degli stessi enti
locali (evidentemente preoccupati per
l'entrata in vigore dell'obbligo di
trasparenza) e la Cancellieri è stata
chiara: slitta tutto. «E' bene
soprassedere», ha detto il ministro, «per
quest'anno si deroga in attesa che il
Viminale definisca gli ultimi dettagli dello
schema tipo». Un vero e proprio time-out,
quello chiesto dal ministro, che renderà
però impossibile l'applicazione delle nuove
regole sin dalle prossime elezioni
amministrative nelle quali sarà coinvolto un
campione significativo di comuni (1017
comuni, in pratica uno su otto).
Ma cosa c'è (o meglio ci sarebbe dovuto
essere) nella relazione di fine mandato di
così «compromettente»? Nulla per un sindaco
che non abbia niente da nascondere. Il
decreto attuativo del federalismo chiede di
far luce su:
- sistema ed esiti dei controlli interni;
- eventuali rilievi della Corte dei conti;
- azioni intraprese per il rispetto dei
saldi di finanza pubblica programmati e
stato del percorso di convergenza verso i
fabbisogni standard;
- situazione finanziaria e patrimoniale del
comune e delle società controllate;
- quantificazione dell'indebitamento.
Il dlgs n. 149/2011 impone la sottoscrizione della
relazione non oltre il novantesimo giorno
antecedente la data di scadenza del mandato.
Entro e non oltre dieci giorni successivi
alla sottoscrizione il documento deve essere
certificato dall'organo di revisione del
comune.
Il sindaco inadempiente, prosegue il
decreto, deve spiegare le ragioni della
mancata compilazione dandone notizia sul
sito istituzionale del comune. Una gogna
mediatica da cui per quest'anno i sindaci
saranno al riparo.
Fondo di riequilibrio e Imu. Intanto a
tenere banco nella dialettica governo-comuni
c'è il problema della ripartizione del fondo
di riequilibrio (che quest'anno ammonta a
6,8 miliardi, si veda ItaliaOggi del
02/03/2012).
I conti infatti sembrano non
tornare per molti comuni e a far saltare il
banco per i sindaci è l'incerta
quantificazione del gettito Imu che nelle
attese di Monti dovrebbe compensare i tagli
al fondo. Tuttavia, le prime cifre circolate
sulla ripartizione delle spettanze sono
largamente inferiori alle attese dei singoli
enti (il che per il momento ne impedisce la
pubblicazione sul portale dell'Ifel)
nonostante sulla quantificazione del fondo
l'Anci abbia espresso parere favorevole
nella Stato-città del 1° marzo.
Il
presidente dell'Anci, Graziano Delrio, ha
chiesto alla Conferenza «l'urgente
convocazione del tavolo tecnico sulla
finanza locale» per verificare «il percorso
di attuazione del decreto salva Italia ed i
suoi riflessi sulla predisposizione del
bilancio di previsione per il 2012». Una
richiesta di incontro è stata anche inviata
ai relatori del dl fiscale, Antonio Azzolini
e Mario Baldassarri (articolo ItaliaOggi
del 16.03.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Liberalizzazioni cum
grano salis.
Vanno verificati gli standard di qualità e
l'offerta sostitutiva. Le novità del
regolamento degli Affari regionali
sull'apertura al mercato dei servizi
pubblici locali.
La possibilità di liberalizzare i servizi
pubblici locali di rilevanza economica sarà
verificata con riguardo alle esigenze delle
comunità locali, all'offerta di servizi
sostitutivi, agli standard minimi di qualità
e sarà conseguente a una consultazione
pubblica aperta agli operatori del settore
interessati alla gestione del servizio;
soltanto dopo aver effettuato la verifica
l'ente potrà decidere se sia opportuno
mantenere sistemi di esclusiva.
Sono questi alcuni dei profili di maggiore
rilievo dello schema di regolamento, di
iniziativa del ministro per gli affari
regionali, di concerto con quello
dell'economia e dell'interno, sulla verifica
della concorrenzialità nell'ambito delle
gestioni dei servizi pubblici locali di
rilevanza economica. Il provvedimento,
ancora non definitivo e in attesa di
iniziare l'iter dei pareri, attua il
contenuto dell'articolo 4 del decreto legge
13.08.2011, n. 138, che impone ai comuni
di liberalizzare tutte le attività
economiche, compatibilmente con le
caratteristiche di universalità e
accessibilità del servizio e limitando,
negli altri casi, l'attribuzione di diritti
di esclusiva alle ipotesi in cui, in base ad
una analisi di mercato, la libera iniziativa
economica privata non risulti idonea a
garantire un servizio rispondente ai bisogni
della comunità.
Il regolamento, che si
applicherà a tutti gli enti territoriali
anche associati o consorziati, disciplina
quindi i criteri per la verifica di mercato
e per l'adozione della relativa delibera
quadro, oltre alle modalità di pubblicità
dei dati relativi alla gestione dei servizi.
Si prevede in particolare che la verifica,
da concretizzare in una relazione
istruttoria, debba in primo luogo prendere
in considerazione le attuali modalità di
gestione del servizio pubblico, facendo
quindi una fotografia della situazione
presente sul mercato e mettendo in risalto
eventuali compensazioni economiche
riconosciute ai gestori del servizio.
La
verifica dovrà poi prendere in
considerazione una pluralità di elementi fra
i quali l'articolazione operativa del
servizio e le eventuali distinte fase di
gestione separata e, dall'altro lato,
l'eventuale offerta di servizi sostitutivi;
le esigenze della comunità locale facendo
riferimento alle caratteristiche sociali,
demografiche, economiche, ambientali del
territorio sul quale insiste la gestione.
Altri profili da prendere in esame sono
quelli concernenti gli obblighi di servizio
pubblico, gli standard minimi delle
prestazioni, il valore economico stimato del
servizio pubblico locale, gli eventuali
investimenti da programmare, anche per opere
infrastrutturali, con i relativi tempi di
attuazione.
La verifica dovrà essere
effettuata attraverso una procedura di
consultazione del mercato, adeguatamente
pubblicizzata per raccogliere le
manifestazioni di interesse degli operatori
del settore di riferimento alla gestione in
concorrenza del servizio, ovvero di sue
singole fasi suscettibili di gestione
separata. Nella verifica si dovrà
evidenziare la sussistenza di situazioni di
monopolio naturale, anche con riferimento
alla gestione delle opere infrastrutturali e
degli impianti fissi, nonché la possibilità
di liberalizzare il servizio o singole fasi
dello stesso, l'incidenza, sulla gestione
degli standard minimi delle prestazioni e
delle caratteristiche della domanda
dell'utenza e di tariffe sostenibili per
realizzare e mantenere la coesione sociale,
al fine della verifica della redditività.
Si
dovrà infine fare riferimento anche alle
esperienze di altre aree geografiche. A
queste caratteristiche generali il
regolamento aggiunge alcune specifiche per
il settore del trasporto pubblico e dei
rifiuti. Una volta effettuata la verifica
l'ente locale adotterà la delibera che, a
sua volta, sarò trasmessa all'Antitrust per
il parere da rendere entro 60 giorni in
merito alle ragioni per un'eventuale
attribuzione di diritti di esclusiva e alla
correttezza della scelta eventuale di
procedere all'affidamento simultaneo con
gara di una pluralità di servizi pubblici
locali. Ricevuto il parere la delibera
quadro verrà adottata entro i trenta giorni
successivi.
Il regolamento istituisce anche
l'Osservatorio dei servizi pubblici locali,
presso la Conferenza unificata, che dovrà
assicurare, mediante un sistema di benchmarking,
il progressivo miglioramento della qualità
ed efficienza di gestione dei servizi (articolo ItaliaOggi
del 16.03.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: Sull'acquisizione d'ufficio del Durc
repetita non iuvant.
Durc da acquisire d'ufficio. Dopo la
conversione in legge del dl 5/2012 sulle
semplificazioni, divengono ben quattro le
disposizioni che ripetono la stessa
previsione, ma non risolvono il problema
creato dal ministero del lavoro sull'autocertificabilità
del documento.
La legge di conversione del
decreto semplificazioni ha introdotto
nell'articolo 14 un nuovo comma 6-bis, ai
sensi del quale «nell'ambito dei lavori
pubblici e privati dell'edilizia, le
amministrazioni pubbliche acquisiscono
d'ufficio il documento unico di regolarità
contributiva con le modalità di cui
all'articolo 43 del decreto del presidente
della Repubblica 28.12.2000, n. 445».
È un raro caso nel quale il legislatore si
mostra molto incerto o della chiarezza o
della efficacia delle proprie disposizioni.
Infatti, norme in tutto e per tutto analoghe
sono già vigenti. La prima disposizione a
prevederlo è stato l'articolo 16-bis, comma
10, del dl 185/2008, convertito in legge
2/2009: «Le stazioni appaltanti pubbliche
acquisiscono d'ufficio, anche attraverso
strumenti informatici, il documento unico di
regolarità contributiva (Durc) dagli
istituti o dagli enti abilitati al rilascio
in tutti i casi in cui è richiesto dalla
legge». Poi, è intervenuto l'articolo 6,
comma 3, del dpr 207/2010: «Le
amministrazioni aggiudicatrici acquisiscono
d'ufficio, anche attraverso strumenti
informatici, il documento unico di
regolarità contributiva in corso di
validità». Da ultimo l'articolo 44-bis del
dpr 445/2000, introdotto dall'articolo 15,
comma 1, lettera d), della legge 183/2011:
«Le informazioni relative alla regolarità
contributiva sono acquisite d'ufficio».
Insomma, dovrebbe essere chiaro: il Durc non
può essere chiesto alle imprese, ma le
pubbliche amministrazioni debbono acquisirlo
d'ufficio. In cosa l'articolo 14, comma
6-bis, della legge di conversione del
decreto semplificazioni dovrebbe
rappresentare una semplificazione, tuttavia,
è difficile capire. La disposizione,
infatti, non aiuta in alcun modo, come
invece sarebbe stato opportuno, a superare i
problemi posti dalla «decertificazione»
operata con la citata legge 183/2011. Il
Durc, infatti, è senza alcuna ombra di dubbi
un certificato e, dunque, non potrebbe
essere utilizzato dalle amministrazioni
appaltatrici.
Il decreto semplificazioni non
ha risolto questa situazione, esentando, ad
esempio, espressamente il Durc dalla
decertificazione. Il ministero del lavoro
con nota 16.01.2012, n. 619, poi
confermata da Inps e Inail, ha ritenuto che
il Durc non sia nemmeno autocertificabile,
in chiaro contrasto con quanto prevede,
invece, l'articolo 38, comma 2, del dlgs
163/2006. Anche su questo la conversione del
dl semplificazioni tace. L'ennesima
ripetizione del dovere di acquisire
d'ufficio il Durc sta già creando problemi
interpretativi e operativi. Sono già state
avanzate teorie secondo le quali, stando al
tenore letterale dell'articolo 14, comma
6-bis, del dl semplificazioni la richiesta
del Durc d'ufficio dovrebbe considerarsi
obbligatoria solo per lavori pubblici ed
attività edilizie, ad esclusione, allora,
delle procedure di acquisizione di servizi e
forniture.
Tale tesi non appare accoglibile,
perché il dovere di acquisire d'ufficio il
Durc è fissato da più norme, nessuna delle
quali appare modificata o derogata
dall'articolo 14, comma 6-bis e, per altro,
detto dovere è conforme al principio
generale dell'articolo 43 del dpr 445/2000 (articolo ItaliaOggi del
16.03.2012). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
P.a., ai
raggi X personale e spesa. Circolare Rgs con le indicazioni.
Definito il cronoprogramma relativo al
monitoraggio sull'andamento annuale della
consistenza del personale pubblico e sulla
relativa spesa, nonché le modalità operative
per la relazione allegata al conto annuale
del 2011.
Lo ha messo nero su bianco la Ragioneria
generale dello stato nella
circolare
09.03.2012 n. 8, con la quale, d'intesa
con la funzione pubblica, ha fornito le
indicazioni operative in merito alle
rilevazioni obbligatorie previste dal titolo
V del testo unico sul pubblico impiego.
Monitoraggio
Per il corrente anno parteciperanno al
monitoraggio, che comporta l'invio
trimestrale dei dati mensili relativi
all'andamento delle spese e
dell'occupazione, un campione di 598 comuni,
le province, le aziende sanitarie, quelle
ospedaliere universitarie, nonché gli enti
pubblici non economici con più di 200 unità
di personale e gli enti di ricerca e
sperimentazione. Rispetto allo scorso anno,
il monitoraggio 2012 si caratterizza per la
sostanziale riduzione del campione di enti
locali che vi partecipano. Rispetto agli 840
enti del 2011, si passa al campione attuale
di 598, sostituendo, in gran parte, molti
enti locali con un numero di dipendenti
inferiore alle duecento unità.
Per la trasmissione dei dati, gli enti
interessati dovranno utilizzare l'apposito
portale Sico (www.sico.tesoro.it), secondo
un calendario prestabilito. In pratica, i
dati afferenti al primo trimestre 2012
dovranno essere trasmessi entro il 30
aprile, i dati del secondo semestre entro il
31 luglio, quelli relativi al terzo
trimestre entro il 31 ottobre e, infine, i
dati dell'ultimo trimestre 2012 dovranno
essere inviati entro il 31.01.2013.
Relazione conto annuale
Secondo la circolare firmata dal ragioniere
generale Mario Canzio, per quanto riguarda
gli enti locali (ovvero comuni, Unioni di
comuni e province), l'invio dei dati da
allegare al conto annuale del 2011 avverrà
in una «sostanziale invarianza» di contenuto
rispetto alla rilevazione operata per il
2010. Per i ministeri, le Agenzie fiscali e
la presidenza del Consiglio, invece, le
informazioni sulla localizzazione e sul tipo
di struttura dell'unità organizzativa che
rileva, saranno riportate nell'apposita
maschera di rilevazione. Novità in arrivo,
invece, per le aziende e gli enti del
Servizio sanitario nazionale. Queste
amministrazioni, per la prima volta,
trasmetteranno i dati direttamente nel
predetto portale Sico.
Anche per la relazione in oggetto, la
Ragioneria definisce un preciso
crono-programma. In dettaglio, gli enti
locali trasmetteranno i dati 2011, nell'arco
temporale che va dal 15 marzo al 07.05.2012. Le aziende sanitarie saranno invece
impegnate dal 1° giugno al 31 luglio e,
infine, ministeri, agenzie fiscali e
presidenza del consiglio procederanno alla
rilevazione dal 2 luglio al 31 agosto. In
nessun caso, si precisa nella circolare, le
rilevazioni dovranno essere trasmesse in
forma cartacea.
A tal fine, la stessa Ragioneria mette a
disposizione degli enti interessati un
servizio di help desk all'indirizzo di posta
elettronica assistenza.pi@tesoro.it (per
assistenza relativa monitoraggio) e
relazione.sico@tesoro.it (per problematiche
relative alla relazione) (articolo ItaliaOggi
del 16.03.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Le determine su
internet.
Anche gli atti dirigenziali da pubblicare
online. Il sito web
istituzionale sostituisce l'affissione
all'albo pretorio del comune.
Quali sono gli adempimenti che il comune
deve espletare in ordine alla pubblicazione
delle determinazioni dirigenziali sui siti
informatici, a seguito dell'emanazione
dell'art. 32 della legge 28.06.2009, n.
69, recante norme per l'eliminazione degli
sprechi relativi al mantenimento di
documenti in forma cartacea?
L'art. 32, comma 1, della legge 28.06.2009, n. 69 dispone che «gli obblighi di
pubblicazione di atti e provvedimenti
amministrativi aventi effetto di pubblicità
legale si intendono assolti con la
pubblicazione nei propri siti informatici da
parte delle amministrazioni e degli enti
pubblici obbligati», e il successivo comma 5
prevede che a decorrere dall'01.01.2011
le pubblicità effettuate in forma cartacea
non hanno effetto di pubblicità legale.
La disciplina ha implicitamente modificato
l'art. 124 del dlgs n. 267/2000 nella parte
in cui dispone che la pubblicazione avvenga
«mediante affissione all'albo pretorio nella
sede dell'ente», sostituita dalla
pubblicazione sul sito istituzionale
dell'ente, fermo restando il termine di 15
giorni consecutivi salvo specifiche
disposizioni di legge.
In merito il Consiglio di stato, con
sentenza n. 1370 del 15.03.2006, ha
stabilito che «la pubblicazione all'albo
pretorio del comune è prescritta dall'art.
124, T.u. n. 267/2000 per tutte le
deliberazioni del comune e della provincia
ed essa riguarda non solo le deliberazioni
degli organi di governo (consiglio e giunta
municipali) ma anche le determinazioni
dirigenziali».
Lo strumento informatico ha sostituito,
dunque, il tradizionale albo pretorio,
rimanendo inalterati, sotto la nuova forma,
gli obblighi di pubblicazione.
L'ente nazionale per la digitalizzazione
della pubblica amministrazione - Digit P.a.,
nelle due linee guida per i siti web della
pubblica amministrazione ed in particolare
nel «Vademecum sulle modalità di
pubblicazione dei documenti nell'albo
online», predisposto sulla base della
direttiva n. 8 del 26.11.2009 del
ministro per la pubblica amministrazione e
l'innovazione, ha specificato che «per gli
enti locali l'attività dell'albo consiste
nella pubblicazione di tutti quegli atti sui
quali viene apposto il referto di
pubblicazione», includendo tra tali atti
le deliberazioni ed altri provvedimenti
comunali tra cui anche le determinazioni in
argomento (articolo ItaliaOggi
del 16.03.2012). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Nomina del
capogruppo.
Come viene disciplinata la nomina di un
capogruppo consiliare nel caso in cui,
all'interno di un gruppo consiliare composto
da due consiglieri, pur in presenza di
regolare designazione del capogruppo
consiliare con presa d'atto del Consiglio
comunale, il secondo consigliere abbia
rivendicato il proprio diritto alla
designazione di capogruppo, avendo riportato
il maggior numero di voti nella lista?
L'esistenza dei gruppi consiliari non è
espressamente prevista dalla legge, ma si
desume implicitamente da quelle disposizioni
normative che contemplano diritti e
prerogative in capo ai gruppi o ai
capigruppo (in particolare, art. 38, comma 3
– art. 39, comma 4 e art. 125 del dlgs n.
267/2000). Pertanto, la materia dei gruppi
consiliari è regolata primariamente dalle
norme statutarie e regolamentari proprie di
ogni singolo ente locale, per cui è alla
stregua di tali norme che occorre valutare e
risolvere le questioni ad essa afferenti.
Se, nel caso di specie, lo statuto comunale
prevede che il capogruppo è «eletto dagli
appartenenti al gruppo», rinviando al
regolamento la disciplina della formazione,
del funzionamento e delle attribuzioni dei
gruppi consiliari e questo prevede che i
singoli gruppi devono comunicare, per
iscritto, al presidente ed al segretario
comunale il nome del proprio capogruppo alla
prima riunione del consiglio neo eletto; che
con la stessa procedura dovranno segnalarsi
le successive variazioni della persona del
capogruppo; che in mancanza di tali
comunicazioni viene considerato capogruppo
ad ogni effetto il consigliere del gruppo
che abbia riportato il maggior numero di
voti nelle liste di appartenenza, appare
evidente che le variazioni della persona del
capogruppo debbano essere comunicate con
nota sottoscritta «dai singoli gruppi»,
stante la necessità di seguire «la stessa
procedura» utilizzata per la prima
designazione.
L'automatica individuazione del capogruppo
nel consigliere che abbia riportato il
maggior numero di voti nelle liste di
appartenenza è un criterio residuale che può
essere utilizzato solo all'atto
dell'insediamento del consiglio comunale e
in mancanza di comunicazioni (articolo ItaliaOggi
del 16.03.2012). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: L’attività
della Pubblica Amministrazione, volta alla
verifica del titolo di proprietà del
soggetto richiedente un permesso di
costruire o presentante una DIA (ai sensi
degli articoli 11 e 23 del DPR 380/2001),
non può spingersi al punto di imporre
all’Amministrazione stessa minuziose analisi
dei titoli civilistici o tanto meno la
risoluzione di controversie fra privati
proprietari.
L’attività della Pubblica Amministrazione, volta alla verifica del titolo
di proprietà del soggetto richiedente un
permesso di costruire o presentante una DIA
(ai sensi degli articoli 11 e 23 del DPR
380/2001), non può spingersi al punto di
imporre all’Amministrazione stessa minuziose
analisi dei titoli civilistici o tanto meno
la risoluzione di controversie fra privati
proprietari (cfr., fra le tante, TAR
Lombardia, Milano, sez. II, 10.2.2012, n.
496)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 15.03.2012 n. 855 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Nelle
more della classificazione del territorio
comunale, ai sensi dell'art. 6,
comma 1, lett. a), l. n. 447 del 1995, sono
operativi i limiti c.d. "assoluti" di
rumorosità ma non anche quelli c.d.
"differenziali", in ragione dell'univoca
formulazione dell'art. 8, comma 1, d.P.C.M.
14.11.1997, secondo cui, ove si fosse
voluto far sopravvivere integralmente il
regime transitorio di cui all'art. 6, d.P.C.M.
01.03.1991 (comma 1 relativo ai
c.d. limiti "assoluti" e comma 2 relativo ai
c.d. limiti "differenziali"), si sarebbe
dovuto operare il rinvio ad entrambe le
fattispecie e, quindi, non al solo comma 1.
Appare, infatti, non persuasiva la tesi che
afferma, per giustificare il richiamo
parziale al solo comma 1 dell'art. 6, d.P.C.M.
01.03.1991, cit., la diretta
applicabilità dei limiti "differenziali" in
quanto ancorati, per il loro ambito di
riferimento, ad una suddivisione del
territorio ricavabile dalla disciplina
urbanistica (pertanto, non esigente una
specifica norma autorizzante la sua
operatività nella fase transitoria, per i
comuni sprovvisti del piano di zonizzazione
acustica), posto che già nella vigenza di
quel decreto i limiti "differenziali" erano
circoscritti alle zone non esclusivamente
industriali e, ciò nonostante, si era
avvertita la necessità di effettuarne un
esplicito richiamo, al fine di garantirne
l'operatività fin dalla fase transitoria,
con la conseguenza che il rinvio operato al
solo comma 1 dell'art. 6, cit., depone
inequivocabilmente per una scelta normativa
che subordina, a partire dal 1997,
l'applicabilità del criterio "differenziale" all'introduzione della disciplina a regime
e cioè all'adozione del piano comunale di
zonizzazione acustica: donde l'illegittimità
dei provvedimenti amministrativi che, nei
comuni sprovvisti di zonizzazione acustica,
come nel caso di specie, configurino come
ipotesi di "inquinamento acustico" i casi di
accertato superamento del solo limite
"differenziale" d'immissione sonora.
Deve premettersi che il comune di Giussano non era dotato, all’epoca dei
fatti, di un piano di zonizzazione acustica
del territorio comunale.
In proposito, la giurisprudenza
amministrativa è costante nell’affermare
che, nelle more della classificazione del
territorio comunale, ai sensi dell'art. 6,
comma 1, lett. a), l. n. 447 del 1995, sono
operativi i limiti c.d. "assoluti" di
rumorosità ma non anche quelli c.d.
"differenziali", in ragione dell'univoca
formulazione dell'art. 8, comma 1, d.P.C.M.
14.11.1997, secondo cui, ove si fosse
voluto far sopravvivere integralmente il
regime transitorio di cui all'art. 6, d.P.C.M.
01.03.1991 (comma 1 relativo ai
c.d. limiti "assoluti" e comma 2 relativo ai
c.d. limiti "differenziali"), si sarebbe
dovuto operare il rinvio ad entrambe le
fattispecie e, quindi, non al solo comma 1;
appare, infatti, non persuasiva la tesi che
afferma, per giustificare il richiamo
parziale al solo comma 1 dell'art. 6, d.P.C.M.
01.03.1991, cit., la diretta
applicabilità dei limiti "differenziali" in
quanto ancorati, per il loro ambito di
riferimento, ad una suddivisione del
territorio ricavabile dalla disciplina
urbanistica (pertanto, non esigente una
specifica norma autorizzante la sua
operatività nella fase transitoria, per i
comuni sprovvisti del piano di zonizzazione
acustica), posto che già nella vigenza di
quel decreto i limiti "differenziali" erano
circoscritti alle zone non esclusivamente
industriali e, ciò nonostante, si era
avvertita la necessità di effettuarne un
esplicito richiamo, al fine di garantirne
l'operatività fin dalla fase transitoria,
con la conseguenza che il rinvio operato al
solo comma 1 dell'art. 6, cit., depone
inequivocabilmente per una scelta normativa
che subordina, a partire dal 1997,
l'applicabilità del criterio "differenziale" all'introduzione della disciplina a regime
e cioè all'adozione del piano comunale di
zonizzazione acustica: donde l'illegittimità
dei provvedimenti amministrativi che, nei
comuni sprovvisti di zonizzazione acustica,
come nel caso di specie, configurino come
ipotesi di "inquinamento acustico" i casi di
accertato superamento del solo limite
"differenziale" d'immissione sonora (cfr.
TAR Emilia Romagna, sez. Parma, 12.01.2012, n. 7; TAR Puglia, sez. I, 14.05.2010, n. 1896).
Nella fattispecie in questione deve,
inoltre, considerarsi la situazione di fatto
ed in particolare la destinazione
commerciale e produttiva della zona di
esercizio dell’attività, che non poteva,
quindi, contemplare in alcun modo una
porzione di immobile adibita ad abitazione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 14.03.2012 n. 851 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Le
precedenti autorizzazioni ottenute dal
ricorrente allo scarico in acque
superficiali non rendono irragionevole
l'ordinanza comunale con la quale si intima
alla ricorrente stessa il convogliamento
nella fognatura comunale di tutti i reflui
provenienti dall'immobile di sua proprietà.
Invero, l’art. 7, co. III, Regolamento della
Regione Lombardia 3/2006 prevede l’obbligo
di allacciamento alla rete fognaria e solo
se ciò non è possibile, è ammissibile lo
scarico in acque superficiali nel rispetto
dei limiti di emissione. Emerge, quindi,
evidente un obbligo di allacciamento alla
rete fognaria laddove possibile, anche se in
precedenza il ricorrente era stato
autorizzato ad effettuare scarichi in acque
superficiali.
... per l'annullamento dell’Ordinanza del
Comune di Solbiate Olona con cui Il
Responsabile del Settore ha ordinato alla
ricorrente il convogliamento nella fognatura
comunale di tutti i reflui provenienti
dall'immobile di sua proprietà ...
...
Ciò premesso, va evidenziato che l’art. 7,
co. III, Regolamento della Regione Lombardia
3/2006 prevede l’obbligo di allacciamento alla
rete fognaria e solo se ciò non è possibile,
è ammissibile lo scarico in acque
superficiali nel rispetto dei limiti di
emissione. Emerge, quindi, evidente un
obbligo di allacciamento alla rete fognaria
laddove possibile, anche se in precedenza il
ricorrente era stato autorizzato ad
effettuare scarichi in acque superficiali.
Ne deriva che le precedenti autorizzazioni
ottenute dal ricorrente allo scarico in
acque superficiali non rendono irragionevole
il provvedimento in questa sede impugnato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 14.03.2012 n. 839 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell'art.
8, comma 6, L. 22.02.2001 n. 36, pur se
i Comuni possono adottare un regolamento
atto ad assicurare il corretto insediamento
urbanistico e territoriale degli impianti e
minimizzare l'esposizione della popolazione
ai campi elettromagnetici, tuttavia, ciò non
implica la fissazione di limiti di
esposizione ai campi elettromagnetici
diversi da quelli stabiliti dallo Stato, non
rientrando tale potere nelle competenze
comunali; pertanto, il Comune, mediante il
formale utilizzo degli strumenti di natura
edilizia-urbanistica, non può adottare
misure derogatorie ai predetti limiti di
esposizione fissati dallo Stato, quali il
generalizzato divieto di installazione delle
stazioni radiobase per telefonia cellulare
in tutte le zone territoriali omogenee a
destinazione residenziale ovvero introdurre
misure che, pur essendo tipicamente
urbanistiche (distanze, altezze, etc.), non
siano funzionali al governo del territorio,
ma alla tutela della salute dai rischi
dell'elettromagnetismo.
... per l'annullamento del provvedimento del
Dirigente del Settore Sportello per
l'Edilizia Centro Storico ed Isole del
Comune di Venezia 19/12/2011 prot. n.
527063, con cui si ordina a Vodafone di non
effettuare l'intervento di cui alla D.I.A.
presentata in data 29/09/2011 e si dichiara improcedibile la domanda di autorizzazione
paesaggistica presentata contestualmente,
nonché della istruttoria in data 07/12/2011,
non conosciuta e dell'art. 50 del
Regolamento Edilizio Comunale, di cui alla
Variante al P.R.G., adottata con
deliberazione di Consiglio Comunale
13/10/2003 n. 158, modificata ed integrata
con delibera di Consiglio Comunale 13/06/2006
n. 83 e approvata con deliberazione della
Giunta Regionale del Veneto 28/07/2009 n.
2311 nonché delle deliberazioni medesime,
nella parte in cui vieta la installazione
delle S.R.B. nella fascia di rispetto dei
c.d. siti sensibili.
...
Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
Infatti, l’art. 50 del regolamento edilizio
del Comune di Venezia, posto a fondamento
del provvedimento di diffida impugnato, deve
essere ritenuto illegittimo per le seguenti
ragioni.
- La legge 22.02.2001 n. 36, in
materia di protezione dalle esposizioni ai
campi elettrici, magnetici ed
elettromagnetici, all’art. 4, stabilisce che
sono riservate allo Stato “le funzioni
relative alla determinazione dei limiti di
esposizione, dei valori di attenzione e
degli obiettivi di qualità…in considerazione
del preminente interesse nazionale alla
definizione di criteri unitari e di
normative omogenee in relazione alle
finalità di cui all’art. 1”. Tali limiti,
valori e obiettivi sono stati posti con il D.P.C.M.
08.07.2003, sulla base del
criterio dei limiti di immissione delle
irradiazioni nei luoghi particolarmente
protetti. Viceversa, l’art. 8 della legge n.
36/2001, stabilisce le competenze in materia
delle Regioni, cui spetta determinare i
criteri localizzativi degli impianti di
telefonia, e dei Comuni (comma 6), i quali
“possono adottare un regolamento per
assicurare il corretto insediamento
urbanistico e territoriale degli impianti e
minimizzare l’esposizione della popolazione
ai campi elettromagnetici”.
- La circolare regionale n. 12 del 12.07.2001 nel fissare i criteri e gli indirizzi
ai quali il regolamento comunale si dovrà
attenere nel dare applicazione all’art. 8,
comma 6, della legge n. 36 del 2001, ha
stabilito che il regolamento comunale,
mentre “potrà definire i siti sensibili
(scuole, asili, ospedali, case di cura,
parchi e aree per il gioco e lo sport), in
corrispondenza dei quali può essere esclusa
l’installazione d’impianti di
telecomunicazione”, “in nessun caso potrà
prevedere deroghe ai parametri del D.M. n.
381/1998 perché i limiti di tutela sanitaria
sono di competenza dello Stato (art. 4 comma
2, della legge quadro)”, quindi non è
consentito imporre delle distanze di
rispetto predeterminate che gli impianti
devono osservare”. Pertanto, la circolare
regionale, da una parte vieta la
localizzazione degli impianti di telefonia
in corrispondenza dei siti sensibili,
dall’altro, preclude al Comune l’adozione
del criterio distanziale.
- Da tale quadro normativo si evince che non
spetta ai Comuni la competenza a stabilire
criteri, volti a proteggere la salute dei
cittadini dall’esposizione ai campi
elettromagnetici, diversi da quelli
stabiliti dallo Stato.
- Sul punto si è più volte pronunciato anche
il Coniglio di Stato: si veda tra le ultime,
la sentenza n. 2371 del 27.04.2010, VI
sez., secondo la quale: “ai sensi dell'art.
8, comma 6, L. 22.02.2001 n. 36, pur se
i Comuni possono adottare un regolamento
atto ad assicurare il corretto insediamento
urbanistico e territoriale degli impianti e
minimizzare l'esposizione della popolazione
ai campi elettromagnetici, tuttavia, ciò non
implica la fissazione di limiti di
esposizione ai campi elettromagnetici
diversi da quelli stabiliti dallo Stato, non
rientrando tale potere nelle competenze
comunali; pertanto, il Comune, mediante il
formale utilizzo degli strumenti di natura
edilizia-urbanistica, non può adottare
misure derogatorie ai predetti limiti di
esposizione fissati dallo Stato, quali il
generalizzato divieto di installazione delle
stazioni radiobase per telefonia cellulare
in tutte le zone territoriali omogenee a
destinazione residenziale ovvero introdurre
misure che, pur essendo tipicamente
urbanistiche (distanze, altezze, etc.), non
siano funzionali al governo del territorio,
ma alla tutela della salute dai rischi
dell'elettromagnetismo".
- Nel caso di specie, la disposizione
impugnata, avendo l’effetto di sovrapporre
una determinazione cautelativa, ispirata al
principio di precauzione, alla normativa
statale che ha fissato i limiti di
radiofrequenza, deve essere ritenuta
illegittima, sia per violazione della legge
36/2001 e del DPCM 08.07.2003, sia per
eccesso di potere per violazione della
circolare citata, e deve, pertanto essere
annullata.
- Segue, per invalidità derivata,
l’annullamento del provvedimento impugnato
di diffida a non effettuare l’intervento di
cui alla DIA, non trovandosi, peraltro,
l’impianto in questione, in corrispondenza
di un sito sensibile (il che sarebbe vietato
dalla circolare regionale e dal regolamento
edilizio comunale), bensì a distanza di
esso
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza
14.03.2012 n.
377 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La validità ovvero l'efficacia
dell'ordine di demolizione non risultano
pregiudicate dalla successiva presentazione
di un'istanza ex art. 36 del D.P.R. n. 380
del 2001, posto che nel sistema non è
rinvenibile una previsione dalla quale possa
desumersi un tale effetto, sicché, se, da un
lato, la presentazione dell'istanza ex art.
36 D.P.R. n. 380 del 2001 cit. determina
inevitabilmente un arresto dell'efficacia
dell'ordine di demolizione, all'evidente
fine di evitare, in caso di accoglimento
dell'istanza, la demolizione di un'opera
che, pur realizzata in assenza o difformità
dal permesso di costruire, è conforme alla
strumentazione urbanistica vigente,
dall'altro, occorre ritenere che l'efficacia
dell'atto sanzionatorio sia soltanto
sospesa, cioè che l'atto sia posto in uno
stato di temporanea quiescenza.
All'esito del procedimento di sanatoria, in
caso di accoglimento dell'istanza, l'ordine
di demolizione rimarrà privo di effetti in
ragione dell'accertata conformità
dell'intervento alla disciplina urbanistica
ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso sia al momento
della presentazione della domanda, con
conseguente venir meno dell'originario
carattere abusivo dell'opera realizzata. Di
contro, in caso di rigetto dell'istanza,
l'ordine di demolizione riacquista la sua
efficacia.
Sul punto va ricordato quanto affermato
dalla Giurisprudenza prevalente (da ultimo
TAR Campania Napoli Sez. II, Sent. del
02-03-2012, n. 1081), orientamento condiviso
da questo Collegio, nella parte in cui ha
sancito che la …."validità ovvero
l'efficacia dell'ordine di demolizione non
risultano pregiudicate dalla successiva
presentazione di un'istanza ex art. 36 del
D.P.R. n. 380 del 2001, posto che nel
sistema non è rinvenibile una previsione
dalla quale possa desumersi un tale effetto,
sicché, se, da un lato, la presentazione
dell'istanza ex art. 36 D.P.R. n. 380 del
2001 cit. determina inevitabilmente un
arresto dell'efficacia dell'ordine di
demolizione, all'evidente fine di evitare,
in caso di accoglimento dell'istanza, la
demolizione di un'opera che, pur realizzata
in assenza o difformità dal permesso di
costruire, è conforme alla strumentazione
urbanistica vigente, dall'altro, occorre
ritenere che l'efficacia dell'atto
sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che
l'atto sia posto in uno stato di temporanea
quiescenza.
All'esito del procedimento di sanatoria, in
caso di accoglimento dell'istanza, l'ordine
di demolizione rimarrà privo di effetti in
ragione dell'accertata conformità
dell'intervento alla disciplina urbanistica
ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso sia al momento
della presentazione della domanda, con
conseguente venir meno dell'originario
carattere abusivo dell'opera realizzata. Di
contro, in caso di rigetto dell'istanza,
l'ordine di demolizione riacquista la sua
efficacia…" (in termini, Cons. St., sez.
IV, 19.02.2008, n. 849; TAR, Campania,
Napoli, sez. II, 14.09.2009, n. 4961)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza
14.03.2012 n.
374 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Gare, in commissione no ad esterni per
sostituire i funzionari in ferie.
Illegittimo comporre la commissione di gara
con commissari esterni per sostituire i
funzionari impossibilitati a partecipare ai
lavori, perché in ferie.
Lo chiarisce il TAR
Piemonte, Sez. I con la
sentenza 10.03.2012 n. 336, che ha
annullato gli atti di approvazione di una
gara d'appalto svolta col criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa,
valutata da una commissione composta
irregolarmente e in violazione dell'articolo
84 del dlgs 163/2006.
Tale ultima
disposizione stabilisce al comma 3 che «la
commissione è presieduta di norma da un
dirigente della stazione appaltante». Al
successivo comma 8 il medesimo articolo
dispone che «i commissari diversi dal
presidente sono selezionati tra i funzionari
della stazione appaltante. In caso di
accertata carenza in organico di adeguate
professionalità, nonché negli altri casi
previsti dal regolamento in cui ricorrono
esigenze oggettive e comprovate, i
commissari diversi dal presidente sono
scelti tra funzionari di amministrazioni
aggiudicatrici di cui all'articolo 3, comma
25, ovvero con un criterio di rotazione» tra
professionisti o professori universitari di
ruolo.
Dunque, il codice dei contratti restringe a
casi molto precisi la possibilità per le
amministrazioni appaltanti di avvalersi di
professionisti esterni, per comporre le
commissioni di gara. Lo scopo è garantire il
più possibile l'imparzialità dell'azione
amministrativa e, ovviamente, anche il
corretto impiego di risorse pubbliche. È
inutile la duplicazione della spesa per
professionisti esterni, se l'ente dispone
delle professionalità necessarie a svolgere
le funzioni di commissario di gara.
Nel caso di specie, l'ente appaltante doveva
svolgere le operazioni di gara nel corso di
una settimana del mese di luglio, proprio
quando i funzionari qualificati
professionalmente per svolgere il ruolo di
commissari erano in ferie. La soluzione
escogitata, dunque, è consistita
nell'incaricare professionisti esterni. Ma,
osserva il Tar, in questo modo si è
giustificato l'incarico a esterni per fare
fronte non alla carenza assoluta di
professionalità, bensì per rimediare ad
un'esigenza contingente dipendente da scelte
organizzative dell'ente, che avrebbe potuto
collocare le operazioni di gara in un altro
periodo dell'anno o disporre diversamente le
ferie.
Non solo si è palesemente violata la norma
del codice dei contratti, ma, aggiunge la
sentenza, se si ammettesse la possibilità di
incaricare esterni per «sostituzione ferie»
si consentirebbe di avvalersi di
professionisti ad arbitrio dell'ente.
Sono evidenti anche aspetti non considerati
dalla sentenza del Tar, inerenti la
responsabilità erariale. Infatti, l'ente ha
utilizzato incarichi esterni in totale
assenza dei presupposti non solo previsti
dal codice dei contratti, ma anche
dall'articolo 7, comma 6, del dlgs 165/2001,
dando vita ad una spesa non giustificabile
ed illegittima. Per altro, se fosse
possibile sostituire i dipendenti assenti
per ferie con incarichi esterni, gli enti
sarebbero legittimati a creare una sorta di
apparato amministrativo parallelo (articolo ItaliaOggi
del 16.03.2012). |
APPALTI: L’esatta
interpretazione delle norme di cui all'art.
86, comma 3-bis, e 87, comma 4, del dlgs
163/2206 comporta, sempre, l’obbligo per i
concorrenti di segnalare l’importo degli
oneri economici imputati esclusivamente alle
misure di sicurezza sul lavoro, anche se ciò
non è previsto dal bando, così da consentire
alla stazione appaltante di valutare la
congruità dell’importo destinato ai citati
costi.
--------------
L’art. 131 del codice dei contratti pubblici
prevede -per i bandi di gara relativi agli
appalti di lavori- la necessità di
evidenziare gli oneri di sicurezza non
soggetti a ribasso.
Tale evenienza normativa comporta, in via
analogica, anche per le altre procedure di
gara, in cui la stazione appaltante ha
omesso di specificare e prevede i costi per
la sicurezza, che il relativo importo venga,
comunque, scorporato nelle offerte dei
singoli concorrenti e sottoposto a verifica
per valutare la sua congruità rispetto alle
esigenze di tutela dei lavoratori.
Al riguardo, è stato statuito che ”…La
mancanza di una specifica previsione sul
tema in seno alla lex specialis non toglie,
quindi, che la norma primaria,
immediatamente precettiva ed idonea ad
eterointegrare le regole procedurali,
imponesse agli offerenti di indicare
separatamente i costi per la sicurezza per
le ragioni precedentemente esposte“.
L’art. 87, comma 4, ultimo periodo, del
codice dei contratti pubblici, testualmente
prevede che i costi relativi alla sicurezza
“devono essere specificamente indicati
nell’offerta e risultare congrui rispetto
all’entità e alle caratteristiche dei
servizi o delle forniture”.
Non solo.
Il comma 3-bis del precedente art. 86
recita: “nella predisposizione delle gare
di appalto e nella valutazione dell'anomalia
delle offerte nelle procedure di affidamento
di appalti di lavori pubblici, di servizi e
di forniture, gli enti aggiudicatori sono
tenuti a valutare che il valore economico
sia adeguato e sufficiente rispetto al costo
del lavoro e al costo relativo alla
sicurezza, il quale deve essere
specificamente indicato e risultare congruo
rispetto all'entità e alle caratteristiche
dei lavori, dei "servizi o delle forniture”.
L’esatta interpretazione delle due citate
norme, secondo autorevole e costante
giurisprudenza, comporta, sempre, l’obbligo
per i concorrenti di segnalare l’importo
degli oneri economici imputati
esclusivamente alle misure di sicurezza sul
lavoro, anche se ciò non è previsto dal
bando, così da consentire alla stazione
appaltante di valutare la congruità
dell’importo destinato ai citati costi.
Infine si deve osservare che l’art. 131 del
codice dei contratti pubblici prevede -per i
bandi di gara relativi agli appalti di
lavori- la necessità di evidenziare gli
oneri di sicurezza non soggetti a ribasso.
Tale evenienza normativa comporta, in via
analogica, anche per le altre procedure di
gara, in cui la stazione appaltante ha
omesso di specificare e prevede i costi per
la sicurezza, che il relativo importo venga,
comunque, scorporato nelle offerte dei
singoli concorrenti e sottoposto a verifica
per valutare la sua congruità rispetto alle
esigenze di tutela dei lavoratori.
Al riguardo il Consiglio di Stato ha
precisato che: ”…La mancanza di una
specifica previsione sul tema in seno alla
lex specialis non toglie, quindi, che la
norma primaria, immediatamente precettiva ed
idonea ad eterointegrare le regole
procedurali, imponesse agli offerenti di
indicare separatamente i costi per la
sicurezza per le ragioni precedentemente
esposte“ (Cons. di St. 4849/2010).
Da tale insegnamento il Collegio non ha
motivo di discostarsi, così che la mancanza
di una previsione espressa, nella disciplina
speciale di gara, della prescrizione
contenuta nella norma primaria circa la
necessità di indicare separatamente i costi
di sicurezza, comporta, conseguentemente ed
automaticamente, la sanzione dell’esclusione
dalla gara, proprio perché l’offerta è,
sotto diversi profili, non ultimo quello
costituzionale, incompleta, ed impedisce
alla stazione appaltante un concreto e
puntuale controllo circa la sua
affidabilità.
Diversamente si verrebbe ad autorizzare
un’integrazione dell’offerta originaria,
alterando irreversibilmente (non solo la par
condicio tra i concorrenti, ma anche) la
procedura in contraddittorio che, invece, è
riservato, esclusivamente, alla verifica ed
al controllo sulle offerte anomale di cui
all’art. 88 del codice dei contratti
pubblici.
In altre parole, così facendo, si avrebbe
una vera e propria interpretatio abrogans
della disciplina normativa inerente ai costi
della sicurezza che, invece, impone, per le
ragioni sopra esposte, tale formale
indicazione già in sede di offerta
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 09.03.2012 n.
341 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: E’
principio normativamente statuito dal D.lgs.
163/2006 quello della intangibilità ed
immodificabilità del bando di gara una volta
reso pubblico, con la sola possibilità per
la stazione appaltante di agire in
autotutela cassando in radice la stessa lex
specialis. Ogni eventuale integrazione,
anche se migliorativa è vietata proprio per
la tutela della par condicio tra i
concorrenti.
Quindi inserire, a posteriori, criteri
tecnici di valutazione dell’offerta,
costituisce un vizio insanabile della
procedura.
---------------
E' illegittima la procedura di gara secondo
cui il RUP ha assunto un ruolo attivo ed
esclusivo nella determinazione circa la
congruità dell’offerta e tale attività è
stata, poi, pedissequamente mutuata dalla
Commissione di gara, così che la stessa ha
delegato al RUP non solo accertamenti e
verifiche di natura tecnica, ma anche la
valutazione di tali operazioni.
La disamina del bando di gara e del
conseguente capitolato permette di rilevare
che la stazione appaltante, mentre
rappresenta e definisce in modo tecnico e
puntuale il servizio oggetto di gara,
nondimeno non fornisce alcun dimensionamento
dello stesso, così che lo stesso è rimesso
ad una ponderata e quanto mai soggettiva
valutazione circa i tempi, le modalità e la
quantità delle prestazioni richieste.
Ciò è confermato proprio dal quesito, al
riguardo, avanzato dalla parte ricorrente
alla stazione appaltante circa il
dimensionamento del servizio complessivo
oggetto di gara.
Risulta dagli atti prodotti che la stazione
appaltante non ha ritenuto necessario
indicare tale dato quantitativo, rinviando
alle generiche indicazioni fornite nella
lex specialis.
In difetto di un obiettivo metro di paragone
cui valutare la congruità dell’offerta, la
stazione appaltante ha, nel procedimento di
verifica, utilizzato proprio tale criterio
ponderato con i dati strutturali ed
organizzativi della società ricorrente.
E’ principio normativamente statuito dal
D.lgs. 163/2006 quello della intangibilità ed
immodificabilità del bando di gara una volta
reso pubblico, con la sola possibilità per
la stazione appaltante di agire in
autotutela cassando in radice la stessa
lex specialis. Ogni eventuale
integrazione, anche se migliorativa è
vietata proprio per la tutela della par
condicio tra i concorrenti.
Quindi inserire, a posteriori, criteri
tecnici di valutazione dell’offerta,
costituisce un vizio insanabile della
procedura.
Non solo.
La disamina dei verbali di gara, in atti,
evidenzia che l’intera procedura di verifica
dell’offerta della società SIBI è stata
realizzata e condotta dal RUP, il quale, al
termine del procedimento, ha, di fatto,
escluso la concorrente.
Non vi è prova che la commissione
giudicatrice, unico organo deputato a
valutare l’esclusione, ha partecipato a tale
istruttoria, né che la stessa abbia
criticamente valutato l’attività tecnica
operata dal RUP, limitandosi pedissequamente
a recepire i risultati da questi proposti.
Invero anche la sussistenza di un rapporto
fiduciario e la totale stima delle capacità
tecniche che la commissione ha riposto nel
RUP, non esime la prima ad assumere autonome
determinazioni in merito alla verifica, che
possono coincidere totalmente con i
risultati proposti dal RUP, nondimeno
esigono una autonoma e formale
determinazione che, sostanzialmente,
dimostri tale essenziale attività critica,
che certamente non può limitarsi ad una
presa d’atto, nei tempi limitatissimi di cui
al verbale della commissione in atti, in cui
i citati lavori hanno impegnato la
commissione per circa 15 minuti.
Il Collegio ritiene, in conformità ad un
consolidato orientamento al quale aderisce
(Cons. st., sez. V, 22.01.2008, n. 3108),
che assume valore dirimente il fatto
obiettivo che il RUP, come emerge da tutta
la documentazione versata in atti, ha
assunto un ruolo attivo ed esclusivo nella
determinazione circa la congruità
dell’offerta e tale attività è stata, poi,
pedissequamente mutuata dalla Commissione di
gara, così che la stessa ha delegato al RUP
non solo accertamenti e verifiche di natura
tecnica, ma anche la valutazione di tali
operazioni.
Per tali motivi il ricorso va accolto, le
spese seguono la soccombenza e si liquidano
in dispositivo
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 09.03.2012 n.
340 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: La buca in strada è
omicidio colposo. Cassazione condanna un dirigente.
Dirigente della provincia, assunto da soli
due mesi, viene condannato per omicidio
colposo a seguito di omessa manutenzione
stradale. La responsabilità per i sinistri
occorsi sulle strade provinciali, anche
quelli mortali, grava su di lui, e non può
essere «alleggerita» dalla «presenza in
organico di cantonieri».
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione,
IV Sez. penale, con la
sentenza
08.03.2012 n.
9175.
Nel caso di specie il dirigente è stato
ritenuto responsabile per un incidente da
doversi attribuire, secondo i giudici, agli
omessi controlli sulla strada, con
particolare riferimento alla «pulizia dei
fossi adiacenti la carreggiata». Le piogge
abbondanti, infatti, hanno determinato la
formazione di una grossa pozzanghera, che, a
sua volta, ha provocato lo sbandamento di un
veicolo che percorreva la strada allagata.
Ne è derivata la morte del conducente, a
seguito di un impatto con un furgone
blindato che stava provenendo dal senso
opposto.
L'omesso controllo sulla strade provinciali
è costato al dirigente una condanna al
pagamento di una multa, oltre al
risarcimento dei danni della parte civile.
L'imputato, durante il processo, ha cercato
di difendersi affermando che l'incidente
dovesse ricondursi, oltre che all' elevata
velocità del conducente, ad alcuni lavori di
manutenzione di un passo carrabile privato,
situato proprio in corrispondenza del luogo
dell'impatto, che avrebbero determinato una
deviazione fatale delle acque piovane.
I giudici, tuttavia, basandosi sugli
accertamenti tecnici, hanno ritenuto che la
(prevalente) causa dell'incidente fosse la
cattiva manutenzione dei canali di scolo
(del tutto ostruiti), da cui è scaturito
l'allagamento della strada. Non importa,
spiegano i giudici, che il dirigente avesse
preso servizio da soli due mesi. La sua
responsabilità, infatti, inizia con il primo
giorno di lavoro.
Inoltre la presenza di cantonieri addetti ai
lavori di manutenzione non può mai
alleggerire la responsabilità del dirigente,
il quale risponde autonomamente di tutti gli
incidenti riconducibili alle cattive
condizioni delle strade di proprietà
dell'ente di appartenenza
(articolo ItaliaOggi
del 17.03.2012). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L'obbligo
di provvedere dell'Amministrazione
presuppone che l'istanza del richiedente sia
rivolta ad ottenere un provvedimento cui
questi abbia un diretto interesse e che essa
non appaia subito irragionevole ovvero
risulti all'evidenza infondata.
Pertanto, scopo del ricorso contro il
silenzio-rifiuto è ottenere un provvedimento
esplicito dell'Amministrazione, che elimini
lo stato di inerzia ed assicuri al privato
una decisione che investe la fondatezza o
meno della sua pretesa.
La fonte dell'obbligo giuridico di
provvedere consiste, di solito, in una norma
di legge, di regolamento od in un atto
amministrativo, ma non necessariamente deve
derivare da una disposizione puntuale e
specifica, potendosi, talora, desumere anche
da prescrizioni di carattere generale e/o
dai principi generali regolatori dell'azione
amministrativa.
------------
Il rimedio giurisdizionale previsto
dall'art. 117 c.p.a. è volto esclusivamente
a far accertare l'inerzia
dell'Amministrazione nel pronunziarsi in
ordine ad una istanza, a fronte della quale
-a carico della stessa Amministrazione-
sussiste un obbligo a provvedere; di
conseguenza il giudice investito della
relativa cognitio deve limitarsi a
constatare l'illegittimità del comportamento
omissivo con conseguente dichiarazione
dell'obbligo a provvedere, senza peraltro
poter entrare nel merito della fondatezza o
meno della pretesa sostanziale sottesa
all'istanza di provvedere.
Pertanto, si può ritenere che, a prescindere
dall'esistenza di una specifica disposizione
normativa impositiva, l'obbligo di
provvedere sussiste in tutte quelle ipotesi
in cui, in relazione al dovere di
correttezza e di buona amministrazione della
parte pubblica, sorga per il privato una
legittima aspettativa a conoscere il
contenuto e le ragioni delle determinazioni
(qualunque esse siano) di quest'ultima.
Occorre premettere che il presupposto per
l'applicazione del rito speciale è il
silenzio della P.A. e, in particolare,
l'omissione di provvedimento che acquista
rilevanza come ipotesi di silenzio-rifiuto,
attraverso il relativo, caratteristico
procedimento, quando la medesima si sia resa
inadempiente, restando inerte, ad un obbligo
di provvedere. Quest'ultimo può scaturire
dalla legge, o dalla peculiarità della
fattispecie, per la quale ragioni di equità
impongono l'adozione di un provvedimento al
fine, soprattutto, di consentire al privato
(data la particolarità del processo
amministrativo, che è sostanzialmente un
processo sull'atto) di adire la
giurisdizione per far valere le proprie
ragioni. L'obbligo di provvedere
dell'Amministrazione, poi, a sua volta,
presuppone che l'istanza del richiedente sia
rivolta ad ottenere un provvedimento cui
questi abbia un diretto interesse e che essa
non appaia subito irragionevole ovvero
risulti all'evidenza infondata (cfr. TAR
Lazio Roma, sez. I, 01.12.2010, n. 34860).
Pertanto, scopo del ricorso contro il
silenzio-rifiuto è ottenere un provvedimento
esplicito dell'Amministrazione, che elimini
lo stato di inerzia ed assicuri al privato
una decisione che investe la fondatezza o
meno della sua pretesa (ex multis:
Cons. Stato: Sez. VI 10.06.2003 n. 3279;
Sez. V 12.10.2004 n. 6528; Sez. V
26.04.2005, n. 1913; Sez. V 05.02.2007, n.
457).
La fonte dell'obbligo giuridico di
provvedere consiste, di solito, in una norma
di legge, di regolamento od in un atto
amministrativo, ma non necessariamente deve
derivare da una disposizione puntuale e
specifica, potendosi, talora, desumere anche
da prescrizioni di carattere generale e/o
dai principi generali regolatori dell'azione
amministrativa ( cfr. Tar Calabria-Catanzaro
n. 939/2009)
Il rimedio giurisdizionale previsto
dall'art. 117 c.p.a. è volto esclusivamente
a far accertare l'inerzia
dell'Amministrazione nel pronunziarsi in
ordine ad una istanza, a fronte della quale
-a carico della stessa Amministrazione-
sussiste un obbligo a provvedere; di
conseguenza il giudice investito della
relativa cognitio deve limitarsi a
constatare l'illegittimità del comportamento
omissivo con conseguente dichiarazione
dell'obbligo a provvedere, senza peraltro
poter entrare nel merito della fondatezza o
meno della pretesa sostanziale sottesa
all'istanza di provvedere (cfr. Consiglio
Stato, sez. IV, 02.03.2011, n. 1345).
Pertanto, si può ritenere che, a prescindere
dall'esistenza di una specifica disposizione
normativa impositiva, l'obbligo di
provvedere sussiste in tutte quelle ipotesi
in cui, in relazione al dovere di
correttezza e di buona amministrazione della
parte pubblica, sorga per il privato una
legittima aspettativa a conoscere il
contenuto e le ragioni delle determinazioni
(qualunque esse siano) di quest'ultima
(cfr.: Cons. Stato Sez. V 22-11-1991 n.
1331).
Orbene, applicando i suesposti principi al
caso di specie, si può ritenere fondata la
pretesa della ricorrente ad ottenere la
declaratoria di illegittimità del silenzio
serbato dal Comune di Nocera Inferiore a
seguito dell'avvio del procedimento ad
iniziativa di parte innescato dalla
ricorrente con la richiesta di denominazione
della strada ove si trova il fabbricato di
proprietà del ricorrente ed il numero
civico, richiesta da ultimo inoltrata con
atto ricevuto dall’Amministrazione in data
21.03.2011
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 08.03.2012 n. 453 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Dagli
artt. 49 e 60 del dpr n. 753/1980 la
giurisprudenza ha ritenuto di dover ricavare
la regola che i medesimi siano applicabili
non solo all'erezione di un manufatto del
tutto nuovo, ma anche alle modifiche a
manufatti esistenti capaci comunque di
aggravare la limitazione della visuale, ed
inoltre ha precisato che tali norme
richiedono che l’autorizzazione in deroga
sia rilasciata prima dell'inizio dei lavori,
perché, trattandosi di opere che incidono
sulla sicurezza ferroviaria, la deroga
condiziona la stessa possibilità di rilascio
delle autorizzazioni necessarie alla
realizzazione del manufatto.
L’art. 49 del DPR 11.07.1980, n. 753,
recante “norme in materia di polizia,
sicurezza e regolarità dell'esercizio delle
ferrovie e di altri servizi di trasporto”
dispone che “lungo i tracciati delle
linee ferroviarie è vietato costruire,
ricostruire o ampliare edifici o manufatti
di qualsiasi specie ad una distanza, da
misurarsi in proiezione orizzontale, minore
di metri trenta dal limite della zona di
occupazione della più vicina rotaia”, e
l’art. 60 prevede che le distanze siano
derogabili dagli uffici lavori
compartimentali delle F.S., per le ferrovie
dello Stato “quando la sicurezza
pubblica, la conservazione delle ferrovie,
la natura dei terreni e le particolari
circostanze locali lo consentano”.
Dalle norme citate la giurisprudenza, tenuto
conto della loro ratio, ha ritenuto
di dover ricavare la regola che le medesime
siano applicabili non solo all'erezione di
un manufatto del tutto nuovo, ma anche alle
modifiche a manufatti esistenti capaci
comunque di aggravare la limitazione della
visuale (cfr. Cassazione civile, Sez. I,
25.09.1996, n. 8452), ed inoltre ha
precisato che tali norme richiedono che
l’autorizzazione in deroga sia rilasciata
prima dell'inizio dei lavori, perché,
trattandosi di opere che incidono sulla
sicurezza ferroviaria, la deroga condiziona
la stessa possibilità di rilascio delle
autorizzazioni necessarie alla realizzazione
del manufatto (cfr. Tar Campania, Napoli,
Sez. II, 11.04.2008, n. 2075).
In base a tali premesse il Collegio ritiene
che il rispetto delle norme citate avrebbe
richiesto il preventivo ottenimento di una
nuova autorizzazione per ottenere la deroga
ad innalzare di circa cinque metri il
manufatto già esistente in fregio alla linea
ferroviaria ad una distanza inferiore a
quella stabilita dalla legge
(TAR
Veneto, Sez. III,
sentenza 08.03.2012 n. 333 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
96, primo comma, lett. f), del RD
25.07.1904, n. 523, vieta ad una distanza
minore di 10 metri dal piede degli argini
“le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del
terreno”, con una formula ampia, tale da
ricomprendere qualsiasi manufatto che per le
sue caratteristiche sia idoneo a
compromettere il libero deflusso delle acque
o l’espletamento dei necessari lavori di
manutenzione.
Il divieto contenuto nella norma sopra
citata si applica peraltro indistintamente a
tutti i corsi d’acqua acquisiti al demanio
dello Stato, senza che rilevi l’iscrizione o
meno negli apposti elenchi.
Come sopra più
volte osservato, il progetto prevede
l’innalzamento da circa 5 mt. a circa 10 mt.
dell’altezza della discarica, e l’art. 96,
primo comma, lett. f), del RD 25.07.1904, n.
523, vieta ad una distanza minore di dieci
metri dal piede degli argini “le
fabbriche, gli scavi e lo smovimento del
terreno”, con una formula ampia, tale da
ricomprendere qualsiasi manufatto che per le
sue caratteristiche sia idoneo a
compromettere il libero deflusso delle acque
o l’espletamento dei necessari lavori di
manutenzione (per l’individuazione della
ratio del divieto cfr. Tribunale Sup.re
acque, 24.06.2010, n. 104; id. 29.04.2002, n. 58).
Il divieto contenuto nella norma sopra
citata si applica peraltro indistintamente a
tutti i corsi d’acqua acquisiti al demanio
dello Stato, senza che rilevi l’iscrizione o
meno negli apposti elenchi (cfr. Tar
Piemonte, Sez. I, 20.04.2007, n. 1732).
Ne discende che nel caso di specie gli atti
impugnati sono illegittimi anche per il
mancato rispetto delle distanze dal corso
d’acqua (tale conclusione risulta confortata
anche dalla revisione progettuale di cui è
stata data lettura dal difensore della parte
controinteressata nella pubblica udienza,
ove è espressamente previsto l’arretramento
del nuovo argine di contenimento dal corso
d’acqua per rientrare nella fascia di
rispetto dal canale di 10 metri prevista dal
RD 25.07.1904, n. 523, e l’allargamento
della fascia arginale da utilizzare per la
manutenzione dai mezzi consortili).
Nelle proprie difese la Regione e la controinteressata contestano che il corso
d’acqua sia iscritto nel registro delle
acque pubbliche e quindi che sia sottoposto
al regime vincolistico di cui al D.lgs.
22.01.2004, n. 42 e, a sostegno
dell’assunto, si limitano a citare la
sentenza Tar Veneto, Sez. I, 15.04.1993, n.
364, che aveva ad oggetto l’impugnazione
dell’originario provvedimento autorizzativo
della discarica.
Sul punto il Collegio osserva che la
predetta sentenza in realtà non ha
accertato, neppure incidentalmente, la
natura del corso d’acqua, ma ha
semplicemente ritenuto in quella sede non
sufficientemente provata l’iscrizione
nell’elenco ai fini della definizione della
necessità o meno dell’autorizzazione
paesaggistica, lasciando sostanzialmente
impregiudicata la questione.
Al riguardo il Collegio ritiene fondate
e meritevoli di accoglimento le censure
proposte dai Comuni ricorrenti di difetto di
motivazione, difetto di istruttoria e
contraddittorietà, perché dalla lettura del
parere di compatibilità ambientale emerge
una costante sottovalutazione delle
problematiche attinenti alla presenza del
corso d’acqua.
In primo luogo il parere, al fine di non
applicare nelle fasce di rispetto il divieto
che discende dal piano provinciale sui
rifiuti (cfr. pag. 7), afferma che il corso
d’acqua non è iscritto negli appositi
elenchi, ma successivamente dà atto invece
dell’avvenuta presentazione della relazione
paesaggistica e di ritenere quindi
espressamente necessaria l’acquisizione
dell’autorizzazione paesaggistica che ha
come unico presupposto proprio l’iscrizione
del corso d’acqua negli appositi elenchi
(cfr. pag. 36, laddove si dice che “il
vincolo vigente fa riferimento all’art. 142
-corsi d’acqua e fascia di m 150– del Dlgs.
n. 42/2004, è originato dal Canale Cime
Menegon che scorre, arginato, al di là della
recinzione della discarica dimessa”).
In secondo luogo, come ripetutamente
rappresentato dal Consorzio di bonifica (che
non è stato coinvolto nella procedura
nonostante lo avesse richiesto ed ha
successivamente inviato un apposito parere
che risulta essere stato ignorato: cfr. doc.
15 allegato alle difese della Regione), è
stata omessa la valutazione delle maggiori
sollecitazioni indotte dall’intervento sugli
argini del corso d’acqua che già versano in
una situazione di grave dissesto
(TAR
Veneto, Sez. III,
sentenza 08.03.2012 n. 333 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
possibilità che i concorrenti regolarizzino,
ovvero integrino, la documentazione allegata
alla domanda incontra, tra gli altri, il
limite della immodificabilità dell’offerta,
della perentorietà del termine per la sua
presentazione ed in generale non può
tradursi in una lesione della fondamentale
regola della par condicio, che informa tutte
le procedure di confronto competitivo. Se ne
desume il divieto di modificare, attraverso
la produzione di documenti e chiarimenti,
gli elementi costitutivi dell’offerta, su
cui si effettua la valutazione e si
attribuisce il punteggio.
L'integrazione postuma, nei limiti rigorosi
segnati dalla giurisprudenza e dalla legge
(oggi art. 46 del d.lgs. n. 163/2006), può
avere ad oggetto la sola documentazione
necessaria a dimostrare il possesso dei
requisiti di partecipazione, e non già il
contenuto negoziale dell’offerta tecnica,
poiché, altrimenti, si verificherebbe
un’impropria rimessione in termini
dell’offerente, consentendogli di rimediare
tardivamente alle carenze della sua proposta
tecnica ed infrangendo in tal modo il
principio di imparzialità, che impone di
trattare senza discriminazioni i
concorrenti, nel rispetto delle scadenze e
delle procedure predisposte ex ante con il
bando di gara.
Va escluso che nel caso di specie si potesse
far uso della richiesta di chiarimenti e/o
integrazioni ex art. 46 del d.lgs. n.
163/2006, come preteso dalla ricorrente con
il secondo motivo di ricorso.
Secondo la giurisprudenza costante (cfr.,
ex multis, C.d.S., Sez. V, 06.03.2006,
n. 1068), infatti, la possibilità che i
concorrenti regolarizzino, ovvero integrino,
la documentazione allegata alla domanda
incontra, tra gli altri, il limite della
immodificabilità dell’offerta, della
perentorietà del termine per la sua
presentazione ed in generale non può
tradursi in una lesione della fondamentale
regola della par condicio, che informa tutte
le procedure di confronto competitivo. Se ne
desume il divieto di modificare, attraverso
la produzione di documenti e chiarimenti,
gli elementi costitutivi dell’offerta, su
cui si effettua la valutazione e si
attribuisce il punteggio (C.G.A.R.S., Sez.
giurisd., 28.07.2006, n. 478; C.d.S. Sez. VI,
21.02.2005, n. 624).
L'integrazione postuma, nei limiti rigorosi
segnati dalla giurisprudenza e dalla legge
(oggi art. 46 del d.lgs. n. 163/2006), può
avere ad oggetto la sola documentazione
necessaria a dimostrare il possesso dei
requisiti di partecipazione, e non già il
contenuto negoziale dell’offerta tecnica,
poiché, altrimenti, si verificherebbe
un’impropria rimessione in termini
dell’offerente, consentendogli di rimediare
tardivamente alle carenze della sua proposta
tecnica ed infrangendo in tal modo il
principio di imparzialità, che impone di
trattare senza discriminazioni i
concorrenti, nel rispetto delle scadenze e
delle procedure predisposte ex ante
con il bando di gara (TAR Lazio, Roma, Sez.
III, 09.12.2010, n. 35952).
Come già sottolineato in sede cautelare,
nella fattispecie in esame l’integrazione ex
art. 46 cit. avrebbe avuto ad oggetto un
elemento dell’offerta tecnica, non
presentato nei termini, cosicché deve
ritenersi inammissibile, alla stregua
dell’insegnamento giurisprudenziale sopra
riportato
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 08.03.2012 n. 199 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: E'
legittima la comminatoria dell'esclusione
dalla gara d'appalto per l’ipotesi -prevista
dalla lex specialis- di omessa presentazione
del cronoprogramma della redazione del
progetto esecutivo, non è né irragionevole,
né illogica, ma anzi è imposta dalla lettura
della stessa.
Si deve escludere che tale clausola, nel
prescrivere la presentazione del citato
cronoprogramma, abbia imposto un adempimento
inutilmente gravoso ed ingiustificato, in
contrasto con i principi regolanti le gare
pubbliche (in particolare i principi di
libera concorrenza e di favor
participationis, nonché di proporzionalità
ed adeguatezza dell’azione amministrativa).
Il cronoprogramma per la progettazione
esecutiva –al di là della previsione
espressa o meno di esso nel d.lgs. n.
163/2006 e nel d.P.R. n. 207/2010– ha una
sua utilità, adempiendo esso alla funzione
di consentire il coordinamento di alcune
operazioni, che connotano l’attività di
progettazione, con i funzionari del Comune.
L’interpretazione della clausola del
disciplinare di gara in esame, nel senso
della comminatoria, tramite essa,
dell’esclusione per l’ipotesi di omessa
presentazione del cronoprogramma della
redazione del progetto esecutivo, non è né
irragionevole, né illogica, ma anzi è
imposta dalla lettura della stessa. Del
pari, al contrario di quanto sostiene la
ricorrente con il terzo motivo –la cui
trattazione, per esigenze di connessione
logica, va anticipata a questo momento–, si
deve escludere che tale clausola, nel
prescrivere la presentazione del citato
cronoprogramma, abbia imposto un adempimento
inutilmente gravoso ed ingiustificato, in
contrasto con i principi regolanti le gare
pubbliche (in particolare i principi di
libera concorrenza e di favor
participationis, nonché di
proporzionalità ed adeguatezza dell’azione
amministrativa). Come evidenziato in sede
cautelare sia da questo Tribunale, sia dal
Consiglio di Stato, il cronoprogramma per la
progettazione esecutiva –al di là della
previsione espressa o meno di esso nel
d.lgs. n. 163/2006 e nel d.P.R. n. 207/2010–
ha una sua utilità, adempiendo esso alla
funzione di consentire il coordinamento di
alcune operazioni, che connotano l’attività
di progettazione, con i funzionari del
Comune.
In dettaglio, come osservato dalla
controinteressata, l’attività progettuale
comporta, tra l’altro, l’espletamento di
rilievi sul posto, su un’ampia superficie
pari a quella di sviluppo dell’intera
conduttura fognaria oggetto dell’appalto, da
svolgere, per una parte, in sedi intercluse,
protette e vigilate dalla stazione
appaltante (si pensi ai depuratori): almeno
per questa parte, dunque, l’effettuazione
dei rilievi necessita dell’assistenza del
personale comunale. Di qui l’interesse della
P.A. a conoscere tempestivamente le date in
cui il suo personale avrebbe dovuto prestare
la suddetta assistenza: informazione che le
partecipanti alla gara avrebbero fornito,
appunto, con il prescritto cronoprogramma
(cfr. il già citato documento recante il
cronoprogramma dell’Edilmassimo S.r.l., in
cui è specificato che i primi dieci giorni
dell’attività di progettazione sarebbero
stati dedicati all’esecuzione di rilievi,
accertamenti ed indagini)
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 08.03.2012 n. 199 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: L’adozione
del provvedimento di annullamento d’ufficio
(ndr: di una concessione edilizia)
presuppone, unitamente al riscontro
dell’originaria illegittimità dell’atto, la
valutazione della rispondenza della sua
rimozione a un interesse pubblico non solo
attuale e concreto, ma anche prevalente
rispetto ad altri interessi militanti in
favore della sua conservazione, e, tra
questi, in particolare, rispetto
all’interesse del privato che ha riposto
affidamento nella legittimità e stabilità
dell’atto medesimo, tanto più quando un
simile affidamento si sia consolidato per
effetto del decorso di un rilevante arco
temporale.
Di qui la necessità che l’amministrazione
espliciti in sede motivazionale la compiuta
valutazione comparativa tra interessi
confliggenti; impegno motivazionale tanto
più intenso, quanto maggiore sia l’arco
temporale trascorso dall’adozione dell’atto
da annullare e solido appaia, pertanto,
l’affidamento ingenerato nel privato.
... per l'annullamento, quanto al ricorso n.
701 del 2007, del PROVVEDIMENTO DI
ANNULLAMENTO CONCESSIONE EDILIZIA, PROT. N.
177/RSAT, DEL 30/10/2006 e, quanto al
ricorso n. 6779 del 2007, dell'ORDINANZA DI
DEMOLIZIONE OPERE ABUSIVE N. 172 DEL
18/07/2007.
...
L’adozione del provvedimento di annullamento
d’ufficio (ndr: di una concessione edilizia)
presuppone, unitamente al riscontro
dell’originaria illegittimità dell’atto, la
valutazione della rispondenza della sua
rimozione a un interesse pubblico non solo
attuale e concreto, ma anche prevalente
rispetto ad altri interessi militanti in
favore della sua conservazione, e, tra
questi, in particolare, rispetto
all’interesse del privato che ha riposto
affidamento nella legittimità e stabilità
dell’atto medesimo, tanto più quando un
simile affidamento si sia consolidato per
effetto del decorso di un rilevante arco
temporale. Di qui la necessità che
l’amministrazione espliciti in sede
motivazionale la compiuta valutazione
comparativa tra interessi confliggenti;
impegno motivazionale tanto più intenso,
quanto maggiore sia l’arco temporale
trascorso dall’adozione dell’atto da
annullare e solido appaia, pertanto,
l’affidamento ingenerato nel privato.
Venendo, dunque, alla fattispecie in esame,
secondo un costante orientamento
giurisprudenziale (Cons. Stato, sez. V,
12.11.2003, n. 7218; sez. IV, 31.10.2006, n.
6465; TAR Campania, Napoli, sez. VII,
22.06.2007, n. 6238; sez. III, 11.09.2007,
n. 7483; sez. VIII, 30.07.2008, n. 9586;
01.10.2008, n. 12321; 07.12.2009, n. 8597;
TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 19.01.2007,
n. 170; sez. II, 08.06.2007, n. 1652; TAR
Liguria, sez. I, 11.12.2007, n. 2050; TAR
Basilicata, sez. I, 19.01.2008, n. 15), “il
provvedimento di annullamento di ufficio di
una concessione edilizia, quale atto
discrezionale, deve essere adeguatamente
motivato in ordine all’esistenza
dell’interesse pubblico, specifico e
concreto, che giustifica il ricorso
all’autotutela anche in ordine alla
prevalenza del predetto interesse pubblico
su quello antagonista del privato”.
Anche nell’ipotesi di annullamento di una
concessione edilizia va, cioè, riconosciuta
piena operatività ai principi generali che
condizionano il legittimo esercizio del
potere di autotutela. Potere che è
espressione della discrezionalità
dell’amministrazione e che, nell’adozione di
un provvedimento espresso, postula la
valutazione di elementi ulteriori rispetto
alla mero ripristino della legalità violata.
In omaggio all’orientamento tradizionale che
trova il suo fondamento nei valori di rango
costituzionale di buon andamento e
dell’imparzialità dell’azione
amministrativa, è, infatti, doveroso
rimettere la verifica di legittimità
dell’atto di autotutela ad un apprezzamento
concreto, condotto sulla base dell’effettiva
e specifica situazione creatasi a seguito
del rilascio dell’atto autorizzativo.
Siffatto approdo giurisprudenziale rinviene
un espresso aggancio normativo nell’art.
21-nonies, comma 1, della l. n. 241/1990, in
base al quale “il provvedimento
amministrativo illegittimo ai sensi
dell'articolo 21-octies può essere annullato
d'ufficio, sussistendone le ragioni di
interesse pubblico, entro un termine
ragionevole e tenendo conto degli interessi
dei destinatari e dei controinteressati,
dall'organo che lo ha emanato, ovvero da
altro organo previsto dalla legge”.
Si conferma, quindi, la natura tipicamente
discrezionale dell'atto di ritiro, il quale
deve essere espressione di una congrua
valutazione comparativa degli interessi in
conflitto, da effettuare entro un lasso di
tempo ragionevole e da riportare nel corredo
motivazionale.
Applicando tali principi al caso in esame,
il Collegio rileva che un provvedimento in
autotutela adottato a circa 10-6 anni
dall’emissione delle concessioni edilizie
con esso annullate sarebbe stato
giustificabile solo se adeguatamente
motivato in ordine all'interesse pubblico
specifico, concreto e attuale, al divisato
annullamento d’ufficio, agli eventuali
contrasti dei titoli abilitativi in parola
con gli interessi urbanistici della zona,
nonché in rapporto all’affidamento privato
nella conservazione dei medesimi titoli
abilitativi, consolidatosi nell’arco
temporale trascorso tra il loro rilascio e
la loro rimozione.
Nella specie, nessuna ponderazione tra
interesse pubblico e privato risulta, in
sostanza, effettuata ed esplicitata
dall'amministrazione resistente, la quale si
è limitata a rilevare la violazione della
distanza minima tra fabbricati confinanti,
sancita dall’art. 25 del regolamento
edilizio comunale, e ad evocare
genericamente ed ellitticamente “esigenze
generali, tra cui bisogni di salute
pubblica, sicurezza, vie di comunicazione e
buona gestione del territorio”.
Viceversa, a fronte del considerevole lasso
di tempo decorso dal rilascio dei titoli
abilitativi edilizi annullati d’ufficio
(circa 10-6 anni), il canone di
ragionevolezza del termine massimo per
l’esercizio del potere di autotutela (cfr.
art. 21-nonies, comma 1, della l. n.
241/1990) avrebbe dovuto suggerire –come
detto– una scelta più attenta e rispettosa
verso la consolidata posizione di
affidamento ingenerato nel privato
ricorrente circa la legittimità degli atti
di concessione rilasciatigli (cfr. Cons.
Stato, sez. VI, 02.10.2007, n. 5074)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 07.03.2012 n. 1130 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI: Solo
l'attribuzione a privati dell'utilizzazione
di beni del demanio o del patrimonio
indisponibile dello Stato o dei comuni è
sempre riconducibile, ove non risulti
diversamente, alla figura della
concessione-contratto, atteso che il
godimento dei beni pubblici, stante la loro
destinazione alla diretta realizzazione di
interessi pubblici, può essere
legittimamente attribuito ad un soggetto
diverso dall'ente titolare del bene, entro
certi limiti e per alcune utilità, solo
mediante concessione amministrativa, con la
conseguenza che le controversie attinenti al
suddetto godimento sono riservate alla
giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, quando non abbiano ad
oggetto indennità, canoni ed altri
corrispettivi (art. 113, c. 1, lett. b, c.p.a.).
Qualora, invece, si tratti di beni del
patrimonio disponibile dello Stato o dei
comuni, il cui godimento sia stato concesso
a terzi dietro corrispettivo, al di là del nomen iuris
che le parti contraenti abbiano dato al
rapporto, viene a realizzarsi lo schema
privatistico della locazione e le
controversie da esso insorgenti sono
attribuite alla giurisdizione del giudice
ordinario.
---------------
I beni pubblici sono classificati in tre
categorie fondamentali: demanio, patrimonio
indisponibile e patrimonio disponibile, e
solo le prime due categorie identificano la
figura tipica dei beni pubblici in senso
stretto, caratterizzati da una serie di
regole e principi comuni, tutti qualificati
dalla specialità delle norme applicabili.
Per i beni patrimoniali indisponibili in
quanto destinati ad un pubblico servizio, ai
sensi dell'art. 826 c.c., comma 3, deve
pertanto sussistere il doppio requisito
(soggettivo ed oggettivo) della
manifestazione di volontà dell'ente titolare
del diritto reale pubblico, e perciò un atto
amministrativo da cui risulti la specifica
volontà dell'ente di destinare quel
determinato bene ad un pubblico servizio, e
l'effettiva ed attuale destinazione del bene
al pubblico servizio.
Osserva preliminarmente il Collegio come solo l'attribuzione a privati
dell'utilizzazione di beni del demanio o del
patrimonio indisponibile dello Stato o dei
comuni è sempre riconducibile, ove non
risulti diversamente, alla figura della
concessione-contratto, atteso che il
godimento dei beni pubblici, stante la loro
destinazione alla diretta realizzazione di
interessi pubblici, può essere
legittimamente attribuito ad un soggetto
diverso dall'ente titolare del bene, entro
certi limiti e per alcune utilità, solo
mediante concessione amministrativa, con la
conseguenza che le controversie attinenti al
suddetto godimento sono riservate alla
giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, quando non abbiano ad
oggetto indennità, canoni ed altri
corrispettivi (art. 113, c. 1, lett. b, c.p.a.).
Qualora, invece, si tratti di beni del
patrimonio disponibile dello Stato o dei
comuni, il cui godimento sia stato concesso
a terzi dietro corrispettivo, al di là del
nomen iuris che le parti contraenti abbiano
dato al rapporto, viene a realizzarsi lo
schema privatistico della locazione e le
controversie da esso insorgenti sono
attribuite alla giurisdizione del giudice
ordinario (Cassazione civile Sez. un., 27.05.2009 n. 12251, TAR Puglia, Lecce,
Sez. II, 03.04.2007 n. 1497).
Rientra dunque in tale giurisdizione
l'impugnazione di un provvedimento di
autotutela avente ad oggetto un'area
appartenente al patrimonio disponibile
detenuta da un soggetto privato in ragione
di un contratto di affitto e non di una
concessione di bene pubblico (Consiglio di
Stato, Sez. V, 06.12.2007 n. 6259).
Chiarito quanto precede, ai fini della
verifica della sussistenza della
giurisdizione nella presente controversia,
occorre qualificare la natura del bene
oggetto della convenzione revocata con gli
atti impugnati, tenuto conto che le
questioni relative alla natura demaniale o
patrimoniale (disponibile e indisponibile)
di determinati beni possono essere decisi
dal giudice amministrativo incidentur tantum
e senza valore extra procedurale (TAR
Toscana Firenze, sez. III, 29.03.2006,
n. 1135).
Osserva a tal fine il Collegio che i beni
pubblici sono classificati in tre categorie
fondamentali: demanio, patrimonio
indisponibile e patrimonio disponibile, e
che solo le prime due categorie identificano
la figura tipica dei beni pubblici in senso
stretto, caratterizzati da una serie di
regole e principi comuni, tutti qualificati
dalla specialità delle norme applicabili
(TAR Campania, Salerno, Sez. II, 16.04.2010 n. 3931). Per i beni
patrimoniali indisponibili in quanto
destinati ad un pubblico servizio, ai sensi
dell'art. 826 c.c., comma 3, deve pertanto
sussistere il doppio requisito (soggettivo
ed oggettivo) della manifestazione di
volontà dell'ente titolare del diritto reale
pubblico, e perciò un atto amministrativo da
cui risulti la specifica volontà dell'ente
di destinare quel determinato bene ad un
pubblico servizio, e l'effettiva ed attuale
destinazione del bene al pubblico servizio
(Cass., Sez. Un., 27.11.2002, n.
16831).
Nella fattispecie de qua è di tutta evidenza
come il bene affidato alla ricorrente non
possa ascriversi alla detta categoria dei
beni patrimoniali indisponibili, difettando,
anche in virtù della concessione di che
trattasi, il requisito della destinazione a
pubblico servizio.
La stessa ricorrente riferisce infatti di
essere “società avente ad oggetto il
commercio all’ingrosso e al minuto di
piante, fiori articoli di giardinaggio,
nonché la coltivazione di prodotti
agricoli”, che l’area di che trattasi è
stata adibita all’esercizio delle proprie
attività, e pertanto con installazione di
una serra, di un magazzino e di un deposito
attrezzi, e che la stessa ha sempre
corrisposto al Comune un canone annuo, nel
corso degli anni.
La “concessione” dell’area di che trattasi
ha avuto l’unico fine per il Comune di
produrre un reddito, non potendosi ravvisare
alcuna destinazione ad un pubblico servizio,
atteso il carattere imprenditoriale e
commerciale della ricorrente, che ha
utilizzato l’area onde esercitare la propria
attività produttiva.
A diverse conclusioni non può indurre
nemmeno l’obbligo per l’affidatario di
consentire, una volta al mese, l’accesso
alle coltivazioni da parte delle
scolaresche, né il suo impegno a curare
talune aiuole site nel territorio comunale
(inserito con la convenzione rep. n. 2758
del 15.05.1997), trattandosi di un modus di
consistenza tale da non incidere, per la sua
modesta entità quantitativa e qualitativa,
in termini di servizio pubblico, sulla
natura rapporto.
Né infine può assumere rilievo il fatto che
l’area di che trattasi fosse ricompresa
nell’ambito di una zona “verde attrezzato
comunale”, e successivamente destinata ad
“attrezzature pubbliche di livello
comunale”.
Affinché un bene non appartenente al demanio
necessario possa rivestire il carattere
pubblico proprio dei beni patrimoniali
indisponibili in quanto destinati ad un
pubblico servizio, ai sensi dell'art. 826,
comma 3, c.c., deve infatti sussistere il
già citato doppio requisito soggettivo ed
oggettivo, per cui non è a tal fine
sufficiente la semplice previsione dello
strumento urbanistico circa la destinazione
di un' area alla realizzazione di una
finalità di interesse pubblico (Cass. Civ.,
Sez. Un., 28.06.2006 n. 14865).
Ad abundantiam, osserva ancora il Collegio
come il difetto di giurisdizione del giudice
amministrativo nella presente controversia
sia confermato anche dall’esame dei motivi
di ricorso, incentrati sulla violazione dei
principi dell’autotutela, come codificati
nella L. n. 241/1990. Tuttavia, il chiaro
tenore letterale dell’art. 3 della
convenzione per cui è causa, lungi
dall’attribuire al Comune un potere
unilaterale di recesso fondato sulla
sopravvenienza di interessi pubblici, si
limita a conferire al medesimo, in via
convenzionale, la possibilità di recedere
anticipatamente dal rapporto negoziale,
peraltro con un congruo preavviso, di ben
dodici mesi.
La diversa figura della
concessione-contratto, le cui controversie
sono attribuite alla giurisdizione del
giudice amministrativo, è infatti
caratterizzata dalla contemporanea presenza
di elementi pubblicistici e privatistici,
sicché la p.a. viene a trovarsi in una
posizione particolare e privilegiata
rispetto all'altra parte in quanto dispone,
oltre che dei diritti e delle facoltà che
nascono comunemente dal contratto, di poteri
che derivano direttamente dalla necessità di
assicurare il pubblico interesse in quel
particolare settore cui inserisce la
concessione.
La revoca di una concessione
amministrativa è, quindi, ben differente dal
recesso anticipato dai contratti di durata,
in quanto essa si ricollega alla potestà che
la legge eccezionalmente attribuisce alla
p.a. concedente di intervenire dall'esterno
nel rapporto concessorio, anche senza una
clausola convenzionale "ad hoc",
invece presente nella fattispecie per cui è
causa
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 07.03.2012 n. 763 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Non è possibile disporre
l'esclusione per carenze che non siano così
espressamente sanzionate dalla lex specialis,
così come, nell'incertezza circa
l'interpretazione della portata precettiva
di una clausola ambigua, deve accordarsi
prevalenza all'interesse pubblico alla più
ampia partecipazione dei concorrenti.
... Solo l’art. 7 del capitolato speciale, in materia di “campionatura”, dopo
aver previsto l’obbligo di consegna “presso
il Servizio di Farmacia”, sanciva infatti
che “la mancata presentazione dei campioni
nel luogo e nei termini stabiliti comporterà
l’esclusione dalla gara”, laddove invece
l’art. 13, disciplinante le “modalità di
presentazione dell’offerta”, non riportava
la detta clausola.
Non è pertanto possibile disporre
l'esclusione per carenze che non siano così
espressamente sanzionate dalla lex specialis,
così come, nell'incertezza circa
l'interpretazione della portata precettiva
di una clausola ambigua, deve accordarsi
prevalenza all'interesse pubblico alla più
ampia partecipazione dei concorrenti (TAR
Lombardia, Brescia, Sez. II, 20.04.2011
n. 595).
La fattispecie de qua è peraltro analoga a
quella recentemente decisa da TAR Liguria
Sez. II 18.01.2012 n. 86, in cui si è
impugnato un provvedimento di esclusione,
con riferimento a quanto disposto nella
lettera d’invito laddove, indicato
nell’ufficio protocollo il luogo di
consegna, si specificava che
l’amministrazione non avrebbe risposto della
mancata ricezione in tempo utile di buste
recapitate presso la portineria o in luoghi
diversi da quello prescritto dalla presente
lettera d’invito. Con principio di diritto
che il Collegio condivide, il TAR Liguria
ha accolto il ricorso, poiché l’indicazione
del luogo di consegna, divisato nella
lettera d’invito, va coordinato con le norme
contenute nel codice dei contratti pubblici,
ed in particolare con l’art. 77, comma 7, D.Lgs.
n. 163/2006, secondo cui è rimessa
all’operatore economico la scelta delle
modalità con cui presentare la domanda di
partecipazione.
Da quanto precede deriva che, qualora
l’operatore economico, intenda consegnare
direttamente la domanda di partecipazione ed
il plico presso la stazione appaltante deve
presentarli presso l’ufficio protocollo, “viceversa
qualora invece, come nel caso che ne occupa,
opti per un diverso mezzo trovano
applicazione i criteri di forma documentale
che ordinariamente ne consacrano la
tempestiva presentazione”
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 07.03.2012 n. 746 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’ordine
di demolizione, in presenza di opere
realizzate senza titolo abilitativo, e
pertanto abusive, è atto dovuto.
E tale è l’opera di cui si tratta, giacché
l’inottemperanza alla prescrizione di
demolizione di parte del fabbricato
preesistente e la mancata realizzazione
dell’opera urbanizzativa di cui si è detto
implicano che essa sia caratterizzata da
variazioni essenziali rispetto al progetto
assentito e pertanto riconducibile nel campo
di applicazione dell’art. 31 D.P.R. 380 del
2001.
Ne consegue che, nella specie, trova
applicazione il disposto di cui al comma 2
dell'art. 31 del D.P.R. 380 del 2001, ai
sensi del quale, il dirigente o il
responsabile del competente ufficio
comunale, accertata l'esecuzione di
interventi in assenza del permesso di
costruire, in totale difformità dal
medesimo, ovvero con variazioni essenziali,
ingiunge al proprietario e al responsabile
dell'abuso la rimozione o la demolizione
delle opere abusive.
---------------
Gli atti di repressione degli abusi edilizi
hanno natura urgente e strettamente
vincolata; ne consegue che, proprio in
ragione di tale natura, la loro adozione non
è impedita dalla pendenza di un giudizio di
impugnazione avente ad oggetto, come nella
specie, il diniego dell’istanza di
sanatoria.
Ciò in quanto la validità, ovvero
l’efficacia dell’ordine di demolizione, non
risultano pregiudicate dalla successiva
presentazione di un’istanza di sanatoria,
non rinvenendosi nel sistema una previsione
dalla quale possa desumersi un tale effetto.
Nondimeno, la presentazione di detta istanza
determina inevitabilmente un arresto
dell’efficacia dell’ordine di demolizione,
all’evidente fine di evitare, in caso di
accoglimento dell’istanza stessa, la
demolizione di un’opera che, pur realizzata
in assenza o difformità dal permesso di
costruire, è conforme alla strumentazione
urbanistica vigente. In tale eventualità, si
ritiene che l’efficacia dell’atto
sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che
l’atto sia posto in uno stato di temporanea
quiescenza. Ne consegue che, all’esito del
procedimento di sanatoria, in caso di
accoglimento dell’istanza, l’ordine di
demolizione è destinato a rimanere privo di
effetti in ragione dell’accertata conformità
dell’intervento alla disciplina urbanistica
ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso sia al momento
della presentazione della domanda, con
conseguente venir meno dell’originario
carattere abusivo dell’opera realizzata. Di
contro, in caso di rigetto dell’istanza,
l’ordine di demolizione riacquista la sua
efficacia, con la sola precisazione che il
termine concesso per l’esecuzione spontanea
della demolizione deve decorrere dal momento
in cui il diniego di sanatoria perviene a
conoscenza dell’interessato.
---------------
Data la natura vincolata degli atti della
procedura di repressione delle violazioni
edilizie, gli stessi non devono essere
preceduti da alcuna comunicazione di avvio
del relativo procedimento.
L’ordine di demolizione, in presenza di
opere realizzate senza titolo abilitativo, e
pertanto abusive, è atto dovuto
(giurisprudenza costante: fra le più recenti
TAR Campania Napoli, sez. II, n. 2042 del
20.04.2009; TAR Campania Napoli, sez. VI,
14.07.2008, n. 8761; TAR Campania Napoli,
sez. VII, 05.06.2008, n. 5244; Consiglio
Stato, sez. IV, 06.06.2008, n. 2705).
E tale è, certamente, l’opera di cui si
tratta, giacché l’inottemperanza alla
prescrizione di demolizione di parte del
fabbricato preesistente e la mancata
realizzazione dell’opera urbanizzativa di
cui si è detto implicano che essa sia
caratterizzata da variazioni essenziali
rispetto al progetto assentito e pertanto
riconducibile nel campo di applicazione
dell’art. 31 D.P.R. 380 del 2001.
Ne consegue che, nella specie, trova
applicazione il disposto di cui al comma 2
dell'art. 31 del D.P.R. 380 del 2001, ai
sensi del quale, il dirigente o il
responsabile del competente ufficio
comunale, accertata l'esecuzione di
interventi in assenza del permesso di
costruire, in totale difformità dal
medesimo, ovvero con variazioni essenziali,
ingiunge al proprietario e al responsabile
dell'abuso la rimozione o la demolizione
delle opere abusive.
Ciò che è legittimamente avvenuto nel caso
di specie, tenuto conto che per
giurisprudenza pacifica gli atti di
repressione degli abusi edilizi hanno natura
urgente e strettamente vincolata (TAR
Campania-Napoli – Sez. II - Sentenza
13.07.2009 n. 3871); ne consegue che,
proprio in ragione di tale natura, la loro
adozione non è impedita dalla pendenza di un
giudizio di impugnazione avente ad oggetto,
come nella specie, il diniego dell’istanza
di sanatoria.
Ciò in quanto la validità, ovvero
l’efficacia dell’ordine di demolizione, non
risultano pregiudicate dalla successiva
presentazione di un’istanza di sanatoria,
non rinvenendosi nel sistema una previsione
dalla quale possa desumersi un tale effetto.
Nondimeno, la presentazione di detta istanza
determina inevitabilmente un arresto
dell’efficacia dell’ordine di demolizione,
all’evidente fine di evitare, in caso di
accoglimento dell’istanza stessa, la
demolizione di un’opera che, pur realizzata
in assenza o difformità dal permesso di
costruire, è conforme alla strumentazione
urbanistica vigente. In tale eventualità, si
ritiene che l’efficacia dell’atto
sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che
l’atto sia posto in uno stato di temporanea
quiescenza. Ne consegue che, all’esito del
procedimento di sanatoria, in caso di
accoglimento dell’istanza, l’ordine di
demolizione è destinato a rimanere privo di
effetti in ragione dell’accertata conformità
dell’intervento alla disciplina urbanistica
ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso sia al momento
della presentazione della domanda, con
conseguente venir meno dell’originario
carattere abusivo dell’opera realizzata. Di
contro, in caso di rigetto dell’istanza,
l’ordine di demolizione riacquista la sua
efficacia, con la sola precisazione che il
termine concesso per l’esecuzione spontanea
della demolizione deve decorrere dal momento
in cui il diniego di sanatoria perviene a
conoscenza dell’interessato (TAR
Campania–Napoli Sez. II - Sentenza
14.09.2009 n. 4961).
Tuttavia, l’ipotesi appena rappresentata
diverge da quella per cui è causa per
l’assorbente rilievo che, nel caso di
specie, l’ordine di demolizione è successivo
al rigetto dell’istanza di sanatoria. Non
ricorrono, pertanto, le condizioni che
avrebbero potuto porre l’ordine de quo in
una situazione di quiescenza.
Quanto, poi, alla violazione degli obblighi
di comunicazione di avvio del procedimento,
in relazione al verbale di sopralluogo, ed
al successivo atto di significazione
dell’acquisizione gratuita del bene al
patrimonio comunale -in disparte la
considerazione secondo cui è affermazione
consolidata in giurisprudenza quella secondo
cui, data la natura vincolata degli atti
della procedura di repressione delle
violazioni edilizie– gli stessi non devono
essere preceduti da alcuna comunicazione di
avvio del relativo procedimento (cfr. C.d.S
Sez. V - 08.02.2011 n. 840; TAR Campania
Napoli, sez. II, n. 2042 del 20.04.2009; id.
sez. IV, 01.08.2008, n. 9710), e ciò anche
alla luce di quanto disposto dall'art.
21-octies della legge 07.08.1990 n. 241, che
esclude possa essere annullato un
provvedimento qualora sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto
adottato (Consiglio Stato, sez. VI,
06.06.2008, n. 2733)– va evidenziato, ad
ogni modo, che nella vicenda che si esamina,
come risulta dagli atti di causa,
l’amministrazione comunale ha comunicato, in
data 12.09.2008 con nota prot. n. 12444 del
29.08.2008, alla società ricorrente l’avvio
del procedimento previsto dall’art. 31
D.P.R. 380 del 2001 assolvendo, perciò,
pienamente agli oneri di comunicazione a suo
carico.
Non si ravvisano inoltre i denunciati vizi
di violazione dell’art. 31 del D.P.R. 380
del 2001, ovvero di eccesso di potere per
difetto di presupposto e contraddittorietà
dei provvedimenti impugnati, per il
contrasto tra i beni indicati nell’ordinanza
di demolizione e quelli indicati nell’atto
di significazione, in ragione del fatto che
occorre interpretare il provvedimento di
acquisizione in proprietà nel suo complesso
– coordinando, quindi, il riferimento in
esso contenuto ai provvedimenti presupposti
(l’ordine di demolizione) e l’oggetto
dell’atto di significazione, espressamente
riferito “agli immobili sopra individuati”
e cioè quelli di cui al suddetto ordine di
demolizione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 07.03.2012 n.
741 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: L’art. 49 del codice dei contratti pubblici
prevede che, in caso di ricorso all’istituto
dell’avvalimento, l’impresa concorrente, in
aggiunta alle dichiarazioni previste
dall’art. 38, debba altresì allegare alla
propria domanda di partecipazione una serie
di dichiarazioni rese dall’impresa
ausiliaria aventi eterogenea natura.
In primo luogo l’impresa ausiliaria, in
quanto destinata a sostituirsi alla impresa
aggiudicataria nella esecuzione di parte
della commessa, deve anche essa rendere le
dichiarazioni attestanti la moralità
professionale dei propri amministratori ed
il possesso degli altri requisiti generali
previsti dall’art. 38 del codice dei
contratti pubblici. Essa deve, inoltre,
attestare il possesso dei requisiti tecnici
e delle risorse che intende fornire
all’impresa ausiliata e di non trovarsi in
rapporti di controllo con altri soggetti che
partecipano alla gara.
Le predette dichiarazioni di scienza,
essendo del tutto omologhe a quelle che
anche l’impresa partecipante deve allegare
al fine di attestare il possesso dei
requisiti di partecipazione, devono
rispettarne le medesime forme e, quindi,
essere redatte mediante dichiarazione
sostitutiva ex DPR 28.12.2000, n. 445,
così come prevede il comma 2° dell’art. 38
del D.Lgs. 163 del 2006.
In secondo luogo l’impresa ausiliaria deve
impegnarsi anche verso la stazione
appaltante a mettere a disposizione della
concorrente ausiliata le risorse di cui
questi sia carente, contraendo, in tal modo
un'obbligazione accessoria e dipendente
rispetto a quella principale del concorrente
che si perfeziona con l'aggiudicazione.
Sia le dichiarazioni di scienza relative al
possesso dei requisiti che la manifestazione
di volontà diretta a contrarre l’impegno di
messa a disposizione dei mezzi a favore del
partecipante alla gara richiedono la
sottoscrizione in originale del
rappresentante legale dell’impresa
ausiliaria.
Quanto alle prime, l’efficacia probatoria
che l’art. 38 del DPR 445 del 2000 annette
alle dichiarazioni sostitutive nei rapporti
fra cittadino e pubblica amministrazione è
sempre subordinata alla sussistenza della
sottoscrizione originale del dichiarante,
anche nel caso in cui venga prodotta la
copia fotostatica della sua carta di
identità. La produzione della copia della
carta di identità, infatti, costituisce una
modalità di autenticazione della firma
alternativa alla attestazione del pubblico
ufficiale relativa alla identità del suo
autore, ma non vale in alcun modo a
garantire la conformità all’originale della
copia fotostatica della dichiarazione.
A ciò si aggiunga che, in base all’art. 19
del DPR 445/2000, le dichiarazioni di
scienza o di volontà provenienti da privati
non appartengono alle categorie di documenti
rispetto alle quali la attestazione legale
di conformità all’originale può essere
effettuata mediante dichiarazione
sostitutiva. E, in ogni caso, anche la
dichiarazione di conformità richiede la
sottoscrizione originale che, nel caso di
specie, manca del tutto.
Lo stesso discorso deve ripetersi con
riguardo agli impegni che la società
ausiliaria deve contrarre anche nei
confronti della stazione appaltante.
Non può, infatti, attribuirsi alcun valore
impegnativo ad una copia fotostatica priva
della sottoscrizione originale del
dichiarante, in assenza di ogni garanzia
della sua conformità all’originale.
---------------
Circa la questione se la mancata
sottoscrizione delle dichiarazioni previste
dall’art. 49 del d.lgs. 163/2006 possa
essere sanzionata con l’esclusione dalla
gara, in assenza di una specifica previsione
della lex specialis, occorre ricordare che
la violazione di prescrizioni imposte ai
partecipanti dalla legge o dal bando non
comporta l’esclusione solo nei casi in cui
ciò sia stato espressamente previsto dalla
stazione appaltante. Infatti, la mancata
osservanza di previsioni che non abbiano
carattere meramente formale, ma rivestano un
particolare rilievo ai fini del rispetto del
principio della par condicio o della tutela
dell’interesse dell’Amministrazione alla
serietà ed alla attendibilità dell’offerta,
comporta l’esclusione dalla gara anche in
assenza di una corrispondente previsione del
bando o della lettera di invito.
Con riguardo alle dichiarazioni relative
alla moralità professionale previste
dall’art. 38 del D.Lgs. 163 del 2006 parte
della giurisprudenza ha ritenuto che, in
assenza di una specifica previsione della
lex specialis, la loro omissione o
incompletezza non possa comportare
l’esclusione.
Tale principio vale anche per le
dichiarazioni dell’impresa ausiliaria nel
caso in cui, anche in assenza di una formale
attestazione, risulti che, nella sostanza, i
suoi amministratori non abbiano riportato
condanne penali tali da minarne la moralità
professionale.
Lo stesso ragionamento, tuttavia, non sembra
potersi automaticamente applicare anche alle
dichiarazioni con cui l’impresa ausiliaria
attesti di possedere i requisiti tecnici che
sono oggetto di avvalimento, essendovi un
evidente interesse della stazione appaltante
ad accertare ex ante la sussistenza dei
requisiti di qualificazione.
Ma ciò che, sicuramente, deve escludersi è
che possa mancare la sottoscrizione
dell’impegno della società ausiliaria di
mettere a disposizione dei propri mezzi a
favore della società offerente.
Si tratta, infatti, di un impegno che deve
essere contratto anche nei confronti della
stazione appaltante, divenendo un elemento
integrativo dell’offerta (senza il quale la
prestazione promessa non è giuridicamente e
praticamente realizzabile).
Deve, perciò applicarsi anche a tale
dichiarazione il principio giurisprudenziale
secondo cui assolvendo la sottoscrizione la
funzione di assicurare provenienza, serietà,
affidabilità e insostituibilità
dell'offerta, essa costituisce elemento
essenziale per la sua ammissibilità, la cui
mancanza ne inficia, pertanto, la validità e
la ricevibilità senza che sia necessaria, ai
fini dell'esclusione, una espressa
previsione della legge di gara.
A ciò si aggiunga che la mancata
sottoscrizione dell’offerta è considerata
dall’art. 46 del D.Lgs. 163 del 2006
(novellato dal D.L. 70 del 2011) come causa
tassativa di esclusione in quanto ne rende
incerta la provenienza.
Stante l’articolazione del motivo del ricorso incidentale e delle difese
svolte sul punto dalla Società ricorrente,
al fine di vagliare la sua fondatezza appare
necessario prima di tutto verificare a quali
requisiti di forma siano soggette le
dichiarazioni delle imprese ausiliarie
previste dall’art. 49 del D.Lgs. 163 del
2006 e, in secondo luogo, quale sia la
rilevanza della mancata osservanza dei
predetti oneri formali.
L’art. 49 del codice dei contratti pubblici
prevede che, in caso di ricorso all’istituto
dell’avvalimento, l’impresa concorrente, in
aggiunta alle dichiarazioni previste
dall’art. 38, debba altresì allegare alla
propria domanda di partecipazione una serie
di dichiarazioni rese dall’impresa
ausiliaria aventi eterogenea natura.
In primo luogo l’impresa ausiliaria, in
quanto destinata a sostituirsi alla impresa
aggiudicataria nella esecuzione di parte
della commessa, deve anche essa rendere le
dichiarazioni attestanti la moralità
professionale dei propri amministratori ed
il possesso degli altri requisiti generali
previsti dall’art. 38 del codice dei
contratti pubblici. Essa deve, inoltre,
attestare il possesso dei requisiti tecnici
e delle risorse che intende fornire
all’impresa ausiliata e di non trovarsi in
rapporti di controllo con altri soggetti che
partecipano alla gara.
Le predette dichiarazioni di scienza,
essendo del tutto omologhe a quelle che
anche l’impresa partecipante deve allegare
al fine di attestare il possesso dei
requisiti di partecipazione, devono
rispettarne le medesime forme e, quindi,
essere redatte mediante dichiarazione
sostitutiva ex DPR 28.12.2000, n. 445,
così come prevede il comma 2° dell’art. 38
del D.Lgs. 163 del 2006.
In secondo luogo l’impresa ausiliaria deve
impegnarsi anche verso la stazione
appaltante a mettere a disposizione della
concorrente ausiliata le risorse di cui
questi sia carente, contraendo, in tal modo
un'obbligazione accessoria e dipendente
rispetto a quella principale del concorrente
che si perfeziona con l'aggiudicazione
(Cons. Stato, VI, 13.05.2010, n. 2956).
Sia le dichiarazioni di scienza relative al
possesso dei requisiti che la manifestazione
di volontà diretta a contrarre l’impegno di
messa a disposizione dei mezzi a favore del
partecipante alla gara richiedono la
sottoscrizione in originale del
rappresentante legale dell’impresa
ausiliaria.
Quanto alle prime, questo Tribunale ha già
avuto modo di chiarire che l’efficacia
probatoria che l’art. 38 del DPR 445 del
2000 annette alle dichiarazioni sostitutive
nei rapporti fra cittadino e pubblica
amministrazione è sempre subordinata alla
sussistenza della sottoscrizione originale
del dichiarante, anche nel caso in cui venga
prodotta la copia fotostatica della sua
carta di identità. La produzione della copia
della carta di identità, infatti,
costituisce una modalità di autenticazione
della firma alternativa alla attestazione
del pubblico ufficiale relativa alla
identità del suo autore, ma non vale in
alcun modo a garantire la conformità
all’originale della copia fotostatica della
dichiarazione (TAR Lombardia, Sez. I,
03.02.2010, n. 501).
A ciò si aggiunga che, in base all’art. 19
del DPR 445/2000, le dichiarazioni di
scienza o di volontà provenienti da privati
non appartengono alle categorie di documenti
rispetto alle quali la attestazione legale
di conformità all’originale può essere
effettuata mediante dichiarazione
sostitutiva. E, in ogni caso, anche la
dichiarazione di conformità richiede la
sottoscrizione originale che, nel caso di
specie, manca del tutto.
Lo stesso discorso deve ripetersi con
riguardo agli impegni che la società
ausiliaria deve contrarre anche nei
confronti della stazione appaltante.
Non può, infatti, attribuirsi alcun valore
impegnativo ad una copia fotostatica priva
della sottoscrizione originale del
dichiarante, in assenza di ogni garanzia
della sua conformità all’originale.
Passando all’esame della questione se la
mancata sottoscrizione delle dichiarazioni
previste dall’art. 49 possa essere
sanzionata con l’esclusione dalla gara, in
assenza di una specifica previsione della
lex specialis, occorre ricordare che la
violazione di prescrizioni imposte ai
partecipanti dalla legge o dal bando non
comporta l’esclusione solo nei casi in cui
ciò sia stato espressamente previsto dalla
stazione appaltante. Infatti, la mancata
osservanza di previsioni che non abbiano
carattere meramente formale, ma rivestano un
particolare rilievo ai fini del rispetto del
principio della par condicio o della tutela
dell’interesse dell’Amministrazione alla
serietà ed alla attendibilità dell’offerta,
comporta l’esclusione dalla gara anche in
assenza di una corrispondente previsione del
bando o della lettera di invito.
Con riguardo alle dichiarazioni relative
alla moralità professionale previste
dall’art. 38 del D.Lgs. 163 del 2006 parte
della giurisprudenza ha ritenuto che, in
assenza di una specifica previsione della
lex specialis, la loro omissione o
incompletezza non possa comportare
l’esclusione.
Tale principio vale anche per le
dichiarazioni dell’impresa ausiliaria nel
caso in cui, anche in assenza di una formale
attestazione, risulti che, nella sostanza, i
suoi amministratori non abbiano riportato
condanne penali tali da minarne la moralità
professionale.
Lo stesso ragionamento, tuttavia, non sembra
potersi automaticamente applicare anche alle
dichiarazioni con cui l’impresa ausiliaria
attesti di possedere i requisiti tecnici che
sono oggetto di avvalimento, essendovi un
evidente interesse della stazione appaltante
ad accertare ex ante la sussistenza dei
requisiti di qualificazione.
Ma ciò che, sicuramente, deve escludersi è
che possa mancare la sottoscrizione
dell’impegno della società ausiliaria di
mettere a disposizione dei propri mezzi a
favore della società offerente.
Si tratta, infatti, di un impegno che deve
essere contratto anche nei confronti della
stazione appaltante, divenendo un elemento
integrativo dell’offerta (senza il quale la
prestazione promessa non è giuridicamente e
praticamente realizzabile; per una
fattispecie analoga TAR Lazio sez. III,
Roma, 04.06.2008, n. 5477).
Deve, perciò applicarsi anche a tale
dichiarazione il principio giurisprudenziale
secondo cui assolvendo la sottoscrizione la
funzione di assicurare provenienza, serietà,
affidabilità e insostituibilità
dell'offerta, essa costituisce elemento
essenziale per la sua ammissibilità, la cui
mancanza ne inficia, pertanto, la validità e
la ricevibilità senza che sia necessaria, ai
fini dell'esclusione, una espressa
previsione della legge di gara (Cons. Stato,
sez. V 25.01.2011, n. 528).
A ciò si aggiunga che la mancata
sottoscrizione dell’offerta è considerata
dall’art. 46 del D.Lgs. 163 del 2006
(novellato dal D.L. 70 del 2011) come causa
tassativa di esclusione in quanto ne rende
incerta la provenienza.
L’accoglimento del predetto motivo di
ricorso incidentale ha valore escludente e
determina, quindi, il difetto di
legittimazione ad agire della ricorrente
principale che, non potendo partecipare alla
gara, non ha titolo a contestarne l’esito e
le modalità di svolgimento
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 07.03.2012 n.
728 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
terzo leso dagli effetti della D.I.A. potrà
giovarsi unicamente dell’azione avverso il
silenzio, senza che possano residuare
ulteriori strumenti di tutela.
Quanto ai rimedi esperibili dal terzo controinteressato rispetto
alla D.I.A., il Consiglio di Stato, con
l’Adunanza Plenaria n. 15 del 29.07.2011, aveva stabilito che la D.I.A. non
costituisce un provvedimento tacito
formatosi per il decorso del termine,
essendo invece una mera dichiarazione del
privato rivolta all’amministrazione
competente. Pertanto, secondo detta
pronuncia, l’oggetto del giudizio, che vede
come ricorrente il terzo leso dagli effetti
della D.I.A., non può essere l’assenso
tacito all’esercizio dell’attività,
piuttosto, il terzo avrà l’onere d’impugnare
l’inerzia dell’amministrazione, la quale,
omettendo di esercitare i propri poteri
inibitori, ha determinato la formazione di
un provvedimento tacito di diniego di
adozione di tali provvedimenti inibitori.
Nel caso di specie, la ricorrente sembra
essersi adeguata a tale pronuncia del
Consiglio di Stato nel momento in cui ha
chiesto “l’annullamento del provvedimento
tacito per silentium formatosi sulla D.I.A.
a seguito del mancato esercizio da parte del
Comune di Garda del potere inibitorio”.
Tuttavia, con l’art. 6 del D.L. n. 138 del
13.08.2011, convertito nella legge n.
148 del 2011, il legislatore è nuovamente
intervenuto sulla materia, aggiungendo
all’art. 19 della legge n. 241 del 1990 un
comma 6-ter, il quale afferma che “la
segnalazione certificata d’inizio attività,
la denuncia e la dichiarazione di inizio
attività si riferiscono ad attività
liberalizzate e non costituiscono
provvedimenti taciti direttamente
impugnabili. Gli interessati possono
sollecitare l’esercizio delle verifiche
spettanti all’amministrazione e, in caso
d’inerzia, esperire l’azione di cui all’art.
31, commi 1, 2 e 3 del D.lgs. 02.07.2010,
n. 104”.
Pertanto, il legislatore, pur recependo
l’orientamento del Consiglio di Stato sulla
natura giuridica della D.I.A. (oggi S.C.I.A.),
come atto del privato non immediatamente
impugnabile, si discosta da tale decisione
quanto ai rimedi esperibili dal terzo
controinteressato, il quale ha ora a
disposizione solo l’azione prevista
dall’art. 31 c.p.a. per i casi di silenzio
della P.A. .
Dunque, quell’azione di annullamento del
provvedimento tacito di diniego dei
provvedimenti inibitori, introdotta solo per
via giurisprudenziale dal Consiglio di
Stato, è stata definitivamente espunta dal
nostro ordinamento da parte del legislatore,
che ha attribuito al terzo leso dagli
effetti della D.I.A. (oggi S.C.I.A.)
l’azione di cui all’art. 31 c.p.a. .
Peraltro, tra le correzioni ed integrazioni
del Codice del processo amministrativo
introdotte da ultimo dal D.lgs. 15.11.2011, entrato in vigore il
09.12.2011,
vi è l’introduzione, all’art. 31, comma 1,
dopo le parole “decorsi i termini per la
conclusione del procedimento
amministrativo”, della frase “e negli altri
casi previsti dalla legge” cui segue il
periodo, rimasto immutato “chi vi ha
interesse può chiedere l’accertamento
dell’obbligo dell’amministrazione di
provvedere”.
Il riferimento agli “altri casi previsti
dalla legge” nei quali è possibile agire,
dunque, ex art. 31 c.p.a., a prescindere dal
decorso dei termini per la conclusione del
procedimento, è chiaramente diretto al nuovo
comma 6-ter dell’art. 19 della legge n. 241
del 1990.
Pertanto, tale ultima integrazione dell’art.
31 c.p.a., consente di agire nei confronti
del silenzio della P.A. mantenuto dopo la
presentazione della S.C.I.A. o della D.I.A.,
ben prima della scadenza del termine finale
assegnato all’amministrazione per
l’esercizio del potere repressivo o
modificativo, e sin da quando la S.C.I.A. o
la D.I.A. vengano presentate e il terzo
venga a conoscenza della loro utilizzazione.
In tal caso l’azione avrà ad oggetto, più
che il silenzio, direttamente l’accertamento dei presupposti di legge per
l’esercizio dell’attività oggetto della
segnalazione, con i conseguenti effetti
conformativi in ordine ai provvedimenti
spettanti all’autorità amministrativa.
In definitiva, il rinvio operato dal
legislatore all’istituto del silenzio, non
riduce in maniera significativa l’ambito di
tutela del quale il terzo si può giovare,
considerato anche che quest’ultimo, pur
trascorso il termine assegnato
all’amministrazione per l’esercizio del
potere inibitorio, potrà sollecitare tramite
diffida, oltre l’esercizio del potere di
autotutela, anche l’esercizio dei poteri
sanzionatori e repressivi sempre spettanti
all’amministrazione in materia edilizia e,
fintantoché l’inerzia perduri e comunque non
oltre un anno dalla scadenza del termine per
l’adempimento, potrà esperire l’azione di
cui all’art. 31 c.p.a., richiamata dal comma
6-ter dell’art. 19 L. 241/1990.
In conclusione, sulla base del nuovo quadro
normativo, applicabile, ratione temporis
al ricorso in esame, il terzo leso dagli
effetti della D.I.A. potrà giovarsi
unicamente dell’azione avverso il silenzio,
senza che possano residuare ulteriori
strumenti di tutela
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 05.03.2012 n.
298 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Presupposto
per l’adozione dell’ordine di demolizione di
opere abusive è soltanto la constatata
esecuzione di un intervento edilizio in
assenza del prescritto titolo abilitativo,
con la conseguenza che, essendo tale ordine
un atto dovuto, esso è sufficientemente
motivato con l’accertamento dell’abuso, e
non necessita, quindi, di una particolare
motivazione in ordine alle disposizioni
normative che si assumono violate, né in
ordine all’interesse pubblico alla rimozione
dell’abuso, che è in re ipsa, consistendo
nel ripristino dell’assetto urbanistico
violato.
L'ordine di demolizione non può ritenersi
viziato di illegittimità per il solo fatto
di non essere stato notificato anche al
comproprietario, atteso che, in mancanza di
tale notifica, spetta al comproprietario
pretermesso di far valere con autonoma
impugnativa le proprie doglianze entro il
termine decorrente dalla piena conoscenza
del provvedimento di demolizione; in tal
caso, il comproprietario stesso non può
limitarsi a dedurre la sola mancata previa
notifica degli atti, bensì deve aggredire il
merito della controversia, ad esempio
contestando l'abusività dell'opera oppure
dichiarando la propria disponibilità a
demolirla oppure ancora adducendo altre
circostanze che precludano la legittima
acquisizione gratuita.
Per la giurisprudenza maggioritaria,
presupposto per l’adozione dell’ordine di
demolizione di opere abusive è soltanto la
constatata esecuzione di un intervento
edilizio in assenza del prescritto titolo
abilitativo, con la conseguenza che, essendo
tale ordine un atto dovuto, esso è
sufficientemente motivato con l’accertamento
dell’abuso, e non necessita, quindi, di una
particolare motivazione in ordine alle
disposizioni normative che si assumono
violate, né in ordine all’interesse pubblico
alla rimozione dell’abuso, che è in re
ipsa, consistendo nel ripristino
dell’assetto urbanistico violato (ex
multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV,
28.12.2009, n. 9638; Sez. VI, 09.11.2009, n.
7077; Sez. VII, 04.12.2008, n. 20987) Pres.
Veneziano, Est. Polidori -D.S.A. e altro
(avv. Noceroni) c. Comune di Sant’Antonio
Abate (avv. Perillo) - TAR CAMPANIA, Napoli,
Sez. VII - 06.05.2011, n. 2562.
Si deve, inoltre, convenire circa il rilievo
della resistente e con riferimento alla
constatazione che nell’atto della ricorrente
non sia effettivamente presente
l’indicazione di un “qualche” vizio
in relazione al quale risulterebbe inficiato
il provvedimento di demolizione del 1999.
La ricorrente sostiene genericamente il
mutamento della situazione di fatto rispetto
al 1999, mutamento che peraltro contrasta
con la verifica posta in essere dalla
polizia municipale del comune di Venezia nel
corso del Gennaio 2011.
Non appare nemmeno rilevante l’ulteriore
eccezione della ricorrente circa la mancata
notifica alla comproprietaria del
provvedimento impugnato e, in ciò,
considerando gli orientamenti
giurisprudenziali prevalenti (Cds 12.04.2011
n. 2266 e TAR LIGURIA, Sez. I - 22.01.2011,
n. 150) nella parte in cui si è affermato
che ... "L'ordine di demolizione non può
ritenersi viziato di illegittimità per il
solo fatto di non essere stato notificato
anche al comproprietario, atteso che, in
mancanza di tale notifica, spetta al
comproprietario pretermesso di far valere
con autonoma impugnativa le proprie
doglianze entro il termine decorrente dalla
piena conoscenza del provvedimento di
demolizione; in tal caso, il comproprietario
stesso non può limitarsi a dedurre la sola
mancata previa notifica degli atti, bensì
deve aggredire il merito della controversia,
ad esempio contestando l'abusività
dell'opera oppure dichiarando la propria
disponibilità a demolirla oppure ancora
adducendo altre circostanze che precludano
la legittima acquisizione gratuita"
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 05.03.2012 n.
297 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'avvenuta
presentazione dell'istanza di condono
edilizio rende priva di rilevanza
l'impugnativa di un ordine di demolizione di
un'opera abusiva e, dunque, rende il ricorso
improcedibile per sopravvenuta carenza di
interesse.
La parte ricorrente successivamente
all’impugnativa, posta in essere con ricorso
principale e con riferimento all’Ordinanza
di ingiunzione del 28.03.2011, ha depositato
presso il Comune resistente un’istanza di
sanatoria relativa agli stessi manufatti
oggetto del provvedimento di riduzione in
pristino.
Nei motivi aggiunti le ricorrenti hanno
motivato la presentazione di detta istanza
di sanatoria affermando che “l’istanza di
sanatoria è stata presentata al solo unico
fine di stimolare un nuovo intervento del
comune sulla questione evitando così il
protrarsi di un lungo contenzioso in
un’ottica di collaborazione con la P.A.”.
Risulta al contrario evidente che il
comportamento diretto a presentare
un’istanza di condono a seguito
dell’impugnativa del provvedimento di
riduzione in pristino delle stesse opere di
cui si controverte faccia comunque desumere
la volontà di “superare”
l’impugnativa in origine proposta e,
determini, il sopraggiunto difetto di
interesse alla prosecuzione dell’originario
giudizio.
Sul punto non si può non condividere quanto
sostenuto da una recente Giurisprudenza in
base alla quale ...”l'avvenuta
presentazione dell'istanza di condono
edilizio rende priva di rilevanza
l'impugnativa di un ordine di demolizione di
un'opera abusiva e, dunque, rende il ricorso
improcedibile per sopravvenuta carenza di
interesse (TAR Lazio Roma Sez. II-bis, sent.
n. 8306 del 15.09.2008 e TAR Emilia-Romagna
Bologna Sez. II, 29.04.2008)”
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 05.03.2012 n.
289 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
disciplina di cui all’art. 13 della L. n.
47/1985, confermata con l’art. 36 del D.P.R.
380/2001, richiede l'accertamento, da parte
del responsabile dell’istruttoria, della
sussistenza della c.d. “doppia conformità”
delle opere realizzate.
L’accertamento del rispetto delle distanze
va effettuato sulla base dell’effettivo
stato dei fatti e dei luoghi, a prescindere,
pertanto, dalla legittimità della
costruzione, rispetto alla quale deve essere
verificata la permanenza della distanza
minima, proprio a tutela di quell’interesse
pubblico alla salubrità degli assetti
urbanistici, al quale non è possibile
derogare.
---------------
Non si possono rilasciare concessioni
edilizie in sanatoria “con prescrizione”, in
quanto in tal modo gli immobili abusivi
vengono resi conformi ex post agli strumenti
urbanistici, così violando l’osservanza
della “doppia conformità” richiesta dalla
legge, che va accertata senza concedere
alcun potere discrezionale alla P.A..
... il Tribunale adito, richiamando la
disciplina di cui all’art. 13 della L. n.
47/1985, confermata con l’art. 36 del D.P.R.
380/2001, la cui univoca interpretazione si
è consolidata in giurisprudenza, anche di
questo C.G.A. (cfr. decisione n. 941/2009),
ha correttamente ritenuto che nel caso di
specie andasse richiesto l’accertamento, da
parte del responsabile dell’istruttoria,
della sussistenza della c.d. “doppia
conformità” delle opere realizzate;
conformità, cioè, sia agli strumenti
urbanistici vigenti alla data di rilascio
della prima concessione edilizia, portante
il n. 30/2004, sia a quelli in vigore alla
data di rilascio della concessione edilizia
in sanatoria n. 37/2005.
Con riferimento a questi ultimi requisiti,
il TAR li ha ritenuti insussistenti perché
dal progetto allegato all’istanza di
concessione edilizia in sanatoria si
evinceva la necessità di eseguire ulteriori
opere per rendere l’edificio abusivo
conforme agli strumenti urbanistici vigenti,
per cui, atteso che la C.E. in sanatoria era
da considerare alla stregua di una nuova
concessione, risultava evidente la carenza
del necessario presupposto della “doppia
conformità”.
Il TAR adito, infatti, ha condivisibilmente
rilevato che, al momento della presentazione
dell’istanza di rilascio della concessione
edilizia in sanatoria, esisteva il vano
porta nella parete dell’edificio frontista,
per cui risultava violato il requisito della
prescritta distanza dei 10 metri tra un
edificio e l’altro, atteso che tale distanza
veniva misurata in ml. 9,1, a nulla
rilevando il fatto che l’apertura del vano
porta era stata eseguita abusivamente; in
tal senso il Giudice di prime cure ha
richiamato a sostegno della propria
decisione la giurisprudenza amministrativa
formatasi nella materia de qua,
secondo cui l’accertamento del rispetto
delle distanze va effettuato sulla base
dell’effettivo stato dei fatti e dei luoghi,
a prescindere, pertanto, dalla legittimità
della costruzione, rispetto alla quale deve
essere verificata la permanenza della
distanza minima, proprio a tutela di
quell’interesse pubblico alla salubrità
degli assetti urbanistici, al quale non è
possibile derogare (cfr. Cons. Stato, Sez.
VI, 30.12.2006, n. 8262).
---------------
Al riguardo, il
Giudice di prime cure ha, invece,
condivisibilmente argomentato con puntuale
riferimento all’orientamento
giurisprudenziale imperante in materia,
secondo cui non si possono rilasciare
concessioni edilizie in sanatoria “con
prescrizione”, in quanto in tal modo gli
immobili abusivi vengono resi conformi ex
post agli strumenti urbanistici, così
violando l’osservanza della “doppia
conformità” richiesta dalla legge, che
va accertata senza concedere alcun potere
discrezionale alla P.A.
(C.G.A.R.S.,
sentenza 29.02.2012 n. 242 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La verifica delle offerte
anormalmente basse, sulla base delle
giustificazioni presentate dai concorrenti,
è compito che spetta alla Commissione
giudicatrice, chiamata dall’amministrazione
a valutare le varie offerte e ad aggiudicare
la gara e non ad un ufficio
dell'Amministrazione, anche se tale ufficio
risulta competente nel settore al quale
attiene l'oggetto della gara.
L'ufficio può, infatti, dare pareri di
ordine tecnico, ragguagli ed altri elementi
utili alla valutazione delle offerte, ma non
può essere rimesso allo stesso il giudizio
definitivo sulla congruità delle offerte,
allorché sia costituita una apposita
Commissione.
Pertanto la procedura in esame deve
ritenersi viziata nella parte in cui la
verifica dell'anomalia è stata rimessa e
decisa da un dirigente del Comune e non
dalla commissione esaminatrice.
Nell’esame dell’appello proposto dalla
Società San Giorgio va accolto il primo
motivo, che reitera una censura già
formulata con il ricorso originario, con il
quale l’appellante ha dedotto
l’illegittimità della verifica dell'offerta
anomala della controinteressata in quanto
non effettuata dalla Commissione di gara ma
dal Dirigente del Settore finanziario del
Comune che ha valutato la relazione
trasmessa dalla G.O.SAF. e ha anche disposto
la successiva aggiudicazione della gara a
detta società.
Infatti, la verifica delle offerte
anormalmente basse, sulla base delle
giustificazioni presentate dai concorrenti,
è compito che spetta alla Commissione
giudicatrice, chiamata dall’amministrazione
a valutare le varie offerte e ad aggiudicare
la gara e non ad un ufficio
dell'Amministrazione, anche se tale ufficio
risulta competente nel settore al quale
attiene l'oggetto della gara.
L'ufficio può, infatti, dare pareri di
ordine tecnico, ragguagli ed altri elementi
utili alla valutazione delle offerte, ma non
può essere rimesso allo stesso il giudizio
definitivo sulla congruità delle offerte,
allorché sia costituita una apposita
Commissione.
Pertanto la procedura in esame deve
ritenersi viziata nella parte in cui la
verifica dell'anomalia è stata rimessa e
decisa da un dirigente del Comune e non
dalla commissione esaminatrice (Cons. St., V
Sez., 23.05.2002, n. 2579) (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 23.06.2008 n. 3108 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI:
La pubblicazione all’albo
pretorio del Comune è prescritta dall’art.
124 T.U. n. 267/2000 per tutte le
deliberazioni del comune e della provincia
ed essa riguarda non solo le deliberazioni
degli organi di governo (consiglio e giunta
municipali) ma anche le determinazioni
dirigenziali, esprimendo la parola
“deliberazione” ab antiquo sia risoluzioni
adottate da organi collegiali che da organi
monocratici ed essendo l’intento quello di
rendere pubblici tutti gli atti degli Enti
locali di esercizio del potere deliberativo,
indipendentemente dalla natura collegiale o
meno dell’organo emanante.
L'art. 21, comma primo, L. 06.12.1971 n.
1034 del 1974, nel testo novellato dalla L.
21.07.2000 n. 205 ha chiarito
definitivamente che in tutti i casi in cui
non sia necessaria la notificazione
individuale del provvedimento e sia al
contempo prescritta da una norma di legge o
di regolamento la pubblicazione dell'atto in
un apposito albo, il termine per proporre
l'impugnazione decorre dal giorno in cui sia
scaduto il periodo della pubblicazione.
Viene perciò confermato quell'indirizzo
giurisprudenziale secondo il quale il
normale termine decadenziale per ricorrere
contro gli atti amministrativi soggetti a
pubblicazione necessaria, decorre per i
soggetti non espressamente nominati, dalla
pubblicazione medesima, non essendo
indispensabile la notificazione individuale
o la piena conoscenza (cfr. la decisione di
questa Sezione n. 2428 del 23.04.2001).
Inoltre, la pubblicazione all’albo pretorio
del Comune è prescritta dall’art. 124 T.U.
n. 267/2000 per tutte le deliberazioni del
comune e della provincia ed essa riguarda
non solo le deliberazioni degli organi di
governo (consiglio e giunta municipali) ma
anche le determinazioni dirigenziali,
esprimendo la parola “deliberazione”
ab antiquo sia risoluzioni adottate
da organi collegiali che da organi
monocratici ed essendo l’intento quello di
rendere pubblici tutti gli atti degli Enti
locali di esercizio del potere deliberativo,
indipendentemente dalla natura collegiale o
meno dell’organo emanante (V. Corte cost. nn.
38 e 39 dell'01.06.1979 e Cons. di Stato,
sez. IV, n. 1129 del 06.12.1977).
Detta conclusione ha trovato recentemente
conferma nella decisione di questa Sezione
n. 3058 del 03.06.2002 e nella sentenza TAR
Lazio, sez. II, n. 3958 del 31.10.2003,
mentre i precedenti indicati dal TAR a
conforto della propria tesi non sono
pertinenti in quanto la decisione di questa
Sezione n. 762/2004 riguarda provvedimenti
delle Aziende sanitarie e la decisione sez.
VI n. 1239/2003 concerne provvedimenti
dell’Ufficio marittimo del Ministero dei
trasporti e della navigazione, mentre nella
specie si tratta di provvedimenti comunali
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 15.03.2006 n. 1370 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La funzione delle zone di
rispetto cimiteriale non è ricollegabile ai
comuni criteri urbanistici di tutela del
regolare sviluppo degli insediamenti sul
territorio, ma a diverse e varie esigenze di
tutela del bene demaniale, quali in
particolare:
1) assicurare condizioni di igiene e di
salubrità mediante la conservazione di una
“cintura sanitaria” intorno al cimitero;
2) garantire la tranquillità ed il decoro ai
luoghi di sepoltura, salvaguardando il
sentimento di pietas verso i defunti;
3) consentire future espansioni
dell’edificio cimiteriale.
... per l'annullamento delle delibere della
Giunta Comunale del 14.5.2003 n. 110 e del
20.8.2003 n. 181, recanti rispettivamente
l’approvazione del progetto di ampliamento e
la riduzione della zona di rispetto del
cimitero;
...
Ritenuto:
- che l’art. 338 del vigente R.D. 24/07/1934
n. 1265 (Testo unico delle leggi sanitarie),
fissa in 200 metri la distanza minima
inderogabile dei cimiteri dal centro
abitato, salve le eccezioni previste dalla
legge;
- che il medesimo articolo stabilisce che “il
Consiglio comunale può approvare, previo
parere favorevole della competente azienda
sanitaria locale, la costruzione di nuovi
cimiteri o l'ampliamento di quelli già
esistenti ad una distanza inferiore a 200
metri dal centro abitato, purché non oltre
il limite di 50 metri, quando ricorrano,
anche alternativamente, le seguenti
condizioni:
a) risulti accertato dal medesimo consiglio comunale che, per
particolari condizioni locali, non sia
possibile provvedere altrimenti;
b) l'impianto cimiteriale sia separato dal centro urbano da strade
pubbliche almeno di livello comunale, sulla
base della classificazione prevista ai sensi
della legislazione vigente, o da fiumi,
laghi o dislivelli naturali rilevanti,
ovvero da ponti o da impianti ferroviari.”
- che la funzione delle zone di rispetto non
è ricollegabile ai comuni criteri
urbanistici di tutela del regolare sviluppo
degli insediamenti sul territorio, ma a
diverse e varie esigenze di tutela del bene
demaniale, quali in particolare:
1) assicurare condizioni di igiene e di salubrità mediante la
conservazione di una “cintura sanitaria”
intorno al cimitero;
2) garantire la tranquillità ed il decoro ai luoghi di sepoltura,
salvaguardando il sentimento di pietas verso
i defunti;
3) consentire future espansioni dell’edificio cimiteriale.
Rilevato:
- che nella fattispecie l’organo competente
a statuire la riduzione delle zone di
rispetto è inequivocabilmente il Consiglio
comunale, ai sensi della disposizione sopra
citata;
- che la delibera di approvazione del piano
delle opere pubbliche non può sostituire lo
specifico provvedimento tipico
normativamente stabilito;
- che, in violazione della puntuale
disposizione legislativa, gli atti
contestati non hanno neppure dato conto
dell’impossibilità di perseguire soluzioni
alternative, le quali tra l’altro erano
state prospettate nel progetto preliminare,
il quale contemplava l’ampliamento nei lati
sud e ovest del cimitero ...
(TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 03.06.2004 n. 613 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - LAVORI PUBBLICI: Nel
caso di costruzione di nuovi cimiteri o di
ampliamento di quelli esistenti, la
competenza all’approvazione dei relativi
progetti appartiene in ogni caso al
Consiglio Comunale, e ciò sia se l’opera sia
esterna alla fascia di rispetto dei 200
metri, e quindi nell’ipotesi di
localizzazione ordinaria, sia se venga
ubicata ad una distanza a questa inferiore,
ben potendo, tra l’altro, lo stesso organo
consiliare ridurre addirittura la fascia di
rispetto medesima.
La ratio ispiratrice di una competenza
speciale dell’organo consiliare in materia
di approvazione di progetti di opere
cimiteriali deve essere individuata
nell’esigenza di sottoporre alla discussione
democratica ed al controllo da parte
dell’organo rappresentativo di tutta la
comunità locale l’opportunità circa la
realizzazione di strutture che assumono
particolare rilevanza, sia in riferimento ad
esigenze di tutela igienico-sanitaria che di
valore ambientale, oltre che per quanto
concerne non secondari aspetti di natura
affettiva e morale appartenenti all’intera
collettività.
---------------
Analogamente a quanto avviene per il
progetto, anche gli studi di fattibilità
(per l'ampliamento del cimitero comunale)
devono essere preventivamente sottoposti
all’esame del Consiglio Comunale e non anche
della Giunta.
---------------
La competenza a procedere sia a
modificazioni del Programma Triennale che
all’aggiornamento dell’elenco annuale –come
nel caso di specie in cui la realizzazione
dell’opera pubblica in questione era stata
anticipata nell’anno 2003 in luogo della
originaria previsione per il 2004–
appartiene al Consiglio Comunale e non anche
alla Giunta, secondo il chiaro tenore
letterale dell’art. 42, secondo comma, lett.
b), del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267.
L’art. 55 del D.P.R. 10.09.1990 n. 285
stabilisce che “I progetti di ampliamento
dei cimiteri esistenti e di costruzione dei
nuovi devono essere preceduti da uno studio
tecnico delle località, specialmente per
quanto riguarda l'ubicazione, l'orografia,
l'estensione dell'area e la natura
fisico-chimica del terreno, la profondità e
la direzione della falda idrica e devono
essere deliberati dal consiglio”.
Inoltre, l’art. 28 della legge 01.08.2002 n.
166, modificativo dell’art. 338 R.D.
24.07.1934, n. 1265, prevede che i cimiteri
debbano essere collocati alla distanza di
almeno 200 metri dal centro abitato; detta
norma prevede, inoltre, che “il consiglio
comunale può approvare, previo parere
favorevole della competente azienda
sanitaria locale, la costruzione di nuovi
cimiteri o l'ampliamento di quelli già
esistenti ad una distanza inferiore a 200
metri dal centro abitato, purché non oltre
il limite di 50 metri, quando ricorrano,
anche alternativamente, due condizioni:
a) risulti accertato dal medesimo consiglio
comunale che, per particolari condizioni
locali, non sia possibile provvedere
altrimenti;
b) l'impianto cimiteriale sia separato dal
centro urbano da strade pubbliche almeno di
livello comunale, sulla base della
classificazione prevista ai sensi della
legislazione vigente, o da fiumi, laghi o
dislivelli naturali rilevanti, ovvero da
ponti o da impianti ferroviari”.
Infine, ai fini che qui interessano, la
medesima norma stabilisce che “per dare
esecuzione ad un'opera pubblica o
all'attuazione di un intervento urbanistico,
purché non vi ostino ragioni
igienico-sanitarie, il consiglio comunale
può consentire, previo parere favorevole
della competente azienda sanitaria locale,
la riduzione della zona di rispetto tenendo
conto degli elementi ambientali di pregio
dell'area, autorizzando l'ampliamento di
edifici preesistenti o la costruzione di
nuovi edifici”.
Da tale complesso normativo discende che,
nel caso di costruzione di nuovi cimiteri o
di ampliamento di quelli esistenti, la
competenza all’approvazione dei relativi
progetti appartiene in ogni caso al
Consiglio Comunale, e ciò sia se l’opera sia
esterna alla fascia di rispetto dei 200
metri, e quindi nell’ipotesi di
localizzazione ordinaria, sia se venga
ubicata ad una distanza a questa inferiore,
ben potendo, tra l’altro, lo stesso organo
consiliare ridurre addirittura la fascia di
rispetto medesima.
La ratio ispiratrice di una
competenza speciale dell’organo consiliare
in materia di approvazione di progetti di
opere cimiteriali deve essere individuata
nell’esigenza di sottoporre alla discussione
democratica ed al controllo da parte
dell’organo rappresentativo di tutta la
comunità locale l’opportunità circa la
realizzazione di strutture che assumono
particolare rilevanza, sia in riferimento ad
esigenze di tutela igienico-sanitaria che di
valore ambientale, oltre che per quanto
concerne non secondari aspetti di natura
affettiva e morale appartenenti all’intera
collettività.
Con riferimento al caso di specie, si tratta
della realizzazione di un ampliamento del
cimitero comunale rientrante entro la fascia
di rispetto dei 200 metri, circostanza non
contestata dall’Amministrazione resistente e
risultante dalla documentazione tecnica
depositata agli atti del giudizio; inoltre,
la deliberazione di Giunta Municipale n. 81
dell’11.04.2003 di approvazione del progetto
preliminare, la cui adozione era stata
giustificata da esigenze di rinnovazione
procedimentale, si caratterizza per la sua
autonomia rispetto ai precedenti
provvedimenti approvativi del progetto
preliminare dell’opera (ossia la
deliberazione di Giunta n. 328 del
03.11.1999, annullato in sede di autotutela,
e quella di Consiglio n. 7 dell’11.02.1998
avente ad oggetto la progettazione
originaria), per cui non vi è dubbio alcuno
che, ratione temporis, il regime
giuridico che deve essere considerato ai
fini della corretta individuazione del
procedimento da seguire è quello introdotto
dall’art. 338 T.U.L.S. come modificato
dall’art. 28 della legge 01.08.2002 n. 166.
In conclusione, non solo la competenza in
merito all’approvazione dei progetti
relativi alle opere cimiteriali de quibus
apparteneva al Consiglio Comunale (TAR
Campania, V Sezione, 03.07.2003 n. 9298) e
non anche alla Giunta, ma l’Amministrazione
avrebbe dovuto anche specificamente seguire
il procedimento previsto dall’art. 338
T.U.L.S. come modificato dall’art. 28 della
legge 01.8.2002 n. 166.
In tal senso parimenti fondata è la
doglianza, contenuta nel quinto motivo di
ricorso, relativa al dedotto vizio di
incompetenza ascrivibile alla violazione
dell’art. 55 del D.P.R. 10.09.1990 n. 285,
posto che, analogamente a quanto avviene per
il progetto, anche gli studi di fattibilità
avrebbero dovuto essere preventivamente
sottoposti all’esame del Consiglio Comunale
e non anche della Giunta.
Deve, pertanto, concludersi per
l’accoglimento del primo e quinto motivo di
ricorso, con consequenziale annullamento
della deliberazione di Giunta Municipale n.
81 dell’11.04.2003 avente ad oggetto
l’approvazione del progetto preliminare
dell’opera pubblica de qua, nonché
per invalidità derivata, di quelle n. 99 del
05.05.2003 e n. 116 del 14.05.2003,
rispettivamente di approvazione dei progetti
definitivo ed esecutivo della medesima,
oltre che dell’impugnato decreto di
occupazione di urgenza e comunicazione di
presa di possesso e redazione dello stato di
consistenza, con assorbimento del secondo,
quarto, sesto motivo di censura e restanti
profili del primo.
Parimenti fondato è il terzo motivo di
censura con cui parte ricorrente ha
impugnato la deliberazione n. 94 del
28.04.2003 con cui la Giunta Municipale di
Barano d’Ischia aveva modificato l’elenco
dei lavori da realizzare nell’anno 2003 in
riferimento al Programma Triennale dei
Lavori Pubblici per il triennio 2003/2005.
Infatti, la competenza a procedere sia a
modificazioni del Programma Triennale che
all’aggiornamento dell’elenco annuale –come
nel caso di specie in cui la realizzazione
dell’opera pubblica in questione era stata
anticipata nell’anno 2003 in luogo della
originaria previsione per il 2004–
appartiene al Consiglio Comunale e non anche
alla Giunta, secondo il chiaro tenore
letterale dell’art. 42, secondo comma, lett.
b), del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267.
Deve pertanto concludersi per la fondatezza
del motivo di ricorso con consequenziale
annullamento della deliberazione della
Giunta Municipale di Barano d’Ischia n. 94
del 28.04.2003
(TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 21.01.2004 n. 228 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 16.03.2012 |
ã |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 11 del
16.03.2012, "Norme per la
valorizzazione del patrimonio edilizio
esistente e altre disposizioni in materia
urbanistico-edilizia" (L.R.
13.03.2012 n. 4).
---------------
Al riguardo, si leggano anche i seguenti
commenti:
●
La legge sulla casa e sull'edilizia
approvata a maggioranza;
●
I punti chiave della legge. |
ENTI LOCALI - VARI:
G.U. 09.03.2012 n. 58 "Norme sul divieto
di utilizzo e di detenzione di esche o di
bocconi avvelenati" (Ministero della
Salute,
ordinanza
10.02.2012). |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
URBANISTICA:
Istruzioni per la pianificazione locale
della RER (Rete Ecologica Regionale) -
febbraio 2012 (Regione Lombardia,
comunicato 23.02.2012
n. 4026 di prot.). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Ancora a proposito di TFR e TFS.
Evidentemente il troppo sapere a volte fa
perdere la dimensione del reale e porta a
sconclusionate teorie che non aiutano i
lavoratori a comprendere e nascondono altre
finalità.
Per un ultimo tentativo di chiarire, anche a
chi non ha intenzione di capire, il senso e
la portata della nostra iniziativa in
materia di ritenute sul trattamento di fine
servizio:
- la UIL PA ha invitato i lavoratori a
presentare una formale diffida alle
amministrazioni per la cessazione della
ritenuta del 2,5%, considerata illegittima,
in ciò confortata dal parere dei propri
legali e da pronunce giurisdizionali, come
quella del TAR di Reggio Calabria;
- la UIL PA si farà carico completamente,
senza nulla chiedere ai lavoratori, delle
spese relative ad eventuali cause pilota,
una volta ottenuta risposta negativa o in
mancanza di risposta dalle amministrazioni;
(... continua) (13.03.2012 - link a
www.uilpa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
M. Ferrari,
Emergenza
neve e attività lavorativa
(tratto
dalla newsletter di www.publika.it n. 47 -
febbraio 2012). |
ENTI LOCALI: L.
Bellagamba,
I contratti di sponsorizzazione dopo il
terzo decreto “Monti”. Il settore dei beni
culturali
(14.03.2012 - link a www.linobellagamba.it). |
LAVORI PUBBLICI: L.
Bellagamba,
Lavori: l’illogicità della giurisprudenza
sull’inammissibilità dell’avvalimento
parziale
(12.03.2012 - link a www.linobellagamba.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
F. Giampietro,
Bonifica e danno ambientale: due discipline
a confronto (parte prima) (link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
U. Ricciardi,
L’esecuzione dell’ordine di demolizione e le
problematiche connesse (link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
F. Magnosi,
Principi di tutela penale ed amministrativa
del Paesaggio (link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
S. Camonita,
Strade vicinali e regime giuridico-normativo
(link a www.filodiritto.com). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
A. Scarcella,
Nuovi «ecoreati» ed estensione ai reati
ambientali del D.Lgs. n. 231/2001 sulla
responsabilità degli enti (link a
www.ipsoa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
A. Muratori,
Finalmente le «regole» per la gestione dei
pneumatici fuori uso (link a
www.ipsoa.it). |
CORTE DEI
CONTI |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Liquidazione incentivi
progettazione.
Sulle modalità di liquidazione dei compensi
in oggetto ed in relazione all' intervenuta
abrogazione della norma (art. 61, comma
7-bis, L. 133/2008) che aveva ridotto la
percentuale dal 2% allo 0,5%, la Corte dei
Conti Sez. Reg.le Toscana, con
parere 13.03.2012
n. 35, si allinea
all'interpretazione fornita dalla Sezione
Autonomie con deliberazione 23.04.2009 n. 7, anche se inerente altra norma
(comma 7-bis ora abrogato), ricavandone un
principio di diritto utilizzabile nella
fattispecie in esame.
Ritiene, quindi, la Sezione toscana:
"In sostanza dal compimento dell'attività
nasce il diritto al compenso, intangibile
dalle disposizioni riduttive, che non hanno
efficacia retroattiva .... Ciò perché, ai
fini della nascita del diritto quello che
rileva è il compimento effettivo
dell'attività; dovendosi, anzi, tenere
conto, per questo specifico aspetto, che per
le prestazioni di durata, cioè quelle che
non si esauriscono in una puntuale attività,
ma si svolgono lungo un certo arco di tempo,
dovrà considerarsi la frazione temporale di
attività compiuta (Sez. Autonomie citata).
Tanto premesso appare condivisibile ed
estendibile questo principio anche al caso
di specie in considerazione del fatto che il
compimento dell'attività costituisce il
momento in cui nasce il diritto (diritto
soggettivo di natura retributiva) in capo al
soggetto e la conseguente liquidazione del
compenso spettante" (tratto da www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Interpretazione dell’art. 1,
comma 557, della legge 27.12.2006, n. 296.
Effetto prenotativo.
L’art. 1, comma 557, della legge 27.12.2006,
n. 296, va interpretato nel senso che,
qualora siano programmate nuove assunzioni
in un determinato esercizio con avvio delle
relative procedure, appare coerente
consentire all’ente di portarne a
conclusione l’iter anche se le assunzioni
dovessero essere concretamente effettuate
nell’esercizio successivo.
Ciò, naturalmente, a condizione che lo
slittamento sia dovuto a cause non
imputabili all’ente stesso. In tal senso, la
programmazione di nuove assunzioni con avvio
delle relative procedure de termina un “effetto
prenotativo” nello stesso anno sulle
relative somme ai soli fini del disposto di
cui all’art. 1, comma 557, della legge
27.12.2006, n. 296, senza che ciò comporti
una prenotazione di impegno in senso
contabile.
Ne consegue che quando e se nell’anno
successivo le assunzioni verranno
concretamente effettuate con impegno delle
relative spese, si dovrà tener conto, ai
fini del raffronto con le spese dell’anno
precedente ai sensi del predetto comma 557,
delle spese che seppur non impegnate
risultano “prenotate” nel precedente
esercizio (Corte dei Conti, Sez. controllo
Basilicata,
deliberazione 23.02.2012 n. 2). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
In tema di responsabilità
derivante dagli oneri sostenuti dal comune
per far fronte alla soccombenza in una causa
civile per mobbing.
Dagli atti di causa risulta che il
procuratore regionale ha esercitato l’azione
di rivalsa nei confronti dell’appellante
avv. G.P., comandante protempore della
polizia municipale di Rosolini, presunto
responsabile del fatto dannoso conseguente a
mobbing, che il Comune di Rosolini, in sede
civile, era stato condannato a risarcire al
terzo danneggiato.
Nella sentenza appellata n. 2028/2011 sono
stati correttamente ravvisati nella
fattispecie all’esame gli estremi
dell’ipotesi del danno indiretto che, come
noto, deriva dall’esecuzione di sentenza
definitiva di condanna dell’ente pubblico al
risarcimento a favore di terzo danneggiato
che ha convenuto in giudizio
l’amministrazione ottenendone la condanna.
Secondo il consolidato orientamento
giurisprudenziale i rapporti tra azione
civile e azione di responsabilità
amministrativa sono improntati all’assoluta
autonomia, in considerazione dell’esistenza
di un diverso petitum e di una
diversa causa petendi fra l'azione di
responsabilità amministrativa e l'azione
civile di danno contro la P.A. Cosicché,
quando si verte in ipotesi di danno
cosiddetto indiretto, il pagamento al terzo
costituisce il presupposto per l’esercizio
dell'azione di rivalsa da parte del
procuratore regionale, mentre deve essere
operato un accertamento autonomo circa la
sussistenza delle condizioni necessarie per
pervenire ad una statuizione di condanna.
E’ pacifico, comunque, in giurisprudenza
che, anche se le sentenze civili di condanna
non esplicano efficacia vincolante nel
giudizio di responsabilità amministrativa,
il giudice contabile può trarre da quel
diverso giudizio elementi utili a formare il
proprio libero convincimento ex art. 116
c.p.c. (cfr. Corte conti Sez. III Appello n.
623/2005, di questa Sezione n. 297 del 2011
e n. 18 del 2012).
L’odierno appellante P.G. (convenuto nel
giudizio di primo grado unitamente a G.G.,
sindaco pro tempore di Rosolini, e di A.M.,
dirigente dello stesso Comune, entrambi
assolti con la sentenza n. 2028/2011),
all’epoca dei fatti di causa comandante
della polizia municipale di Rosolini, ha
mosso specifica censura avverso la sentenza
impugnata sostenendo che non sarebbero state
individuate le violazioni degli obblighi di
servizio all’interno della peculiare
struttura del fenomeno (prima sociologico e
psicologico e poi giuslavoristico)
denominato mobbing, cui sarebbe stato
sottoposto il dipendente comunale G.M.,
attore nel giudizio civile, e invece
sarebbero state recepite acriticamente, in
assenza di elementi di prova, le risultanze
del giudicato civile dando atto della
imputazione a titolo di colpa grave della
responsabilità attribuita allo stesso
appellante non tenendo conto del contesto
organizzativo in cui i fatti sono avvenuti.
In sostanza ha lamentato l’appellante che la
sua condanna al pagamento della somma di €
50.000, 00 a favore del Comune di Rosolini
sarebbe stata pronunciata dal giudice di
primo grado in mancanza di elementi di
prova; sarebbero, infatti, insussistenti gli
asseriti comportamenti attribuiti
all’appellante assunti, nella qualità di
comandante della Polizia municipale di
Rosolini, in presunta violazione strutturale
e perdurante dei doveri di buona
amministrazione e dei connessi obblighi di
servizio che, ove fossero stati
correttamente assolti, non avrebbero
consentito la verificazione del mobbing.
Tanto premesso, il Collegio osserva che
l’esposta censura dell’appellante non si
ritiene fondata. Infatti, da una parte, non
è contestabile che il procuratore regionale
abbia versato in giudizio tutti gli atti del
processo civile, tra cui i verbali delle
prove testimoniali formate nello stesso
giudizio nelle forme di rito (v. pag. 23
della sentenza del Tribunale di Siracusa n.
91 del 2008) ed abbia acquisito la
consulenza tecnica d’ufficio disposta dal
giudice civile medesimo, in cui, sotto il
profilo medico-legale, è stata positivamente
verificata la compromissione dello stato di
salute del M. ed il pregiudizio della
integrità psico-fisica dello stesso come
effetto degli atti di mobbing, cui era stato
sottoposto in un lungo arco di tempo, e,
dall’altra, che, in base a tali obiettivi
elementi, la prospettazione accusatoria è
stata accolta dalla sentenza appellata, la
quale, per quanto riguarda la specifica
posizione del P., ha individuato una serie
di comportamenti integranti violazioni
gravemente colpose di obblighi di servizio
rientranti tipicamente nella peculiare
struttura del fenomeno denominato mobbing,
cui sarebbe stato sottoposto il dipendente
comunale G.M.. In tale ottica risultano
accertati una serie di atti di gestione del
rapporto di servizio orientati o, comunque,
idonei, alla persecuzione ed all’isolamento
del dipendente M. con grave compromissione
dell’integrità psico-fisica dello stesso.
Gli atti di gestione in questione sono
certamente riconducibili all’appellante avv.
G.P., quale comandante pro-tempore della
polizia municipale di Rosolini dal luglio
2004 al 29.12.2004 e dal 03.03.2005 fino al
14.05.2008.
Infatti, nonostante che con sentenza
903/2003 del Tribunale di Siracusa, il M.,
dirigente con funzioni di vice comandante
della polizia municipale di Rosolini, avesse
ottenuto la condanna del Comune ad essere
riassegnato alle mansioni di vice comandante
dei Vigili Urbani di Rosolini, già
illegittimamente revocate con assegnazione
ad altro incarico, il P. si adoperava in
ogni maniera a che al M., al suo rientro nel
corpo della polizia municipale, non fossero
attribuiti compiti di responsabilità
compatibili con la figura del vicecomandante
della polizia municipale praticamente
escludendolo dai servizi e dalle funzioni in
cui venivano coinvolti tutti gli altri
componenti della polizia municipale.
Il P. si rendeva autore dell’ordine di
servizio n. 19724 del 18.06.2004 nel quale,
con disposizioni, apparentemente conformi al
regolamento di polizia municipale, impartiva
al rientrante M. di svolgere le proprie
mansioni, non di vice comandante, bensì di
istruttore direttivo di vigilanza nell’Unità
Operativa di viabilità e, con il chiaro
intento di isolarlo, disponeva che fosse
distaccato in locali lontani dalla sede del
Comando di polizia municipale senza
assegnazione di alcuna vettura di servizio e
con obbligo di timbrare la presenza in
servizio negli stessi locali distaccati
senza alcun contatto con la sede ordinaria
del Comando di polizia municipale.
Nella sentenza civile si dà atto che le
condotte illecite poste in essere,
innanzitutto dal P., che hanno determinato
il demansionamento, l’isolamento e la
discriminazione del M. sono state confermate
dai testi escussi nel processo civile; in
base a dette prove testimoniali è stato
attestato senza ombra di dubbio che il M. è
stato sostanzialmente privato delle mansioni
attinenti alla sua qualifica, gli è stato
impedito di svolgere la funzione di vice
comandante in palese violazione delle
disposizioni del regolamento sui servizi ed
uffici comunali; è stato privato della
divisa, dell’arma, del tesserino, degli
strumenti di lavoro (bollettario delle
contravvenzioni) senza alcuna
giustificazione; è stato relegato in
postazione di lavoro (presso il Palazzo di
Città) diversa da sede ordinaria del comando
di polizia municipale, in locali di risulta
(i locali erano utilizzati anche come
deposito di scatoloni e materiali per le
pulizie – v. pag.30 della sentenza n. 91 del
2008 del Tribunale di Siracusa in atti); gli
ausiliari formalmente sottoposti al
coordinamento del M., come da ordini di
servizio del 18.06.2004 e dell’08.07.2004
del comandante P., dovevano nei fatti
rivolgersi solo allo stesso comandante P. e,
in effetti, erano solo da questi coordinati
come confermato dai testi escussi (cfr.
deposizioni testimoniali di C., I., G., G.
ed I.).
Per i fini che qui interessano, altra prova
inequivoca di condotta illecita del P. con
intenti vessatori e persecutori del M., fra
le tante indicate nell’atto di citazione, è
quanto riportato nella sentenza del
Tribunale di Siracusa n. 91 del 2008 (v.
pag. 30), ove è riferita la circostanza che
il comandante P., odierno appellante,
nell’imminenza del rientro del M. nel Corpo
della polizia municipale, incontrava in
luogo estraneo all’ufficio (precisamente nei
locali di un bar presso una stazione di
servizio Agip sulla strada statale 115) vari
appartenenti al corpo di polizia municipale
invitandoli sostanzialmente a non avere
alcun tipo di rapporto con il M. (cfr.
verbali di assunzione di sommarie
informazioni e, inoltre, deposizione dei
testi S., I., C., I.) e, questo, dopo avere
preannunciato, pochi giorni dopo che era
stata emessa la sentenza del Tribunale di
Siracusa n. 937/2003 di riassegnazione del
M. alle funzioni di vicecomandante, che “fino
a quando c’era lui il M. non sarebbe mai
tornato al comando di polizia municipale”.
Risulta, pertanto, provato che sia da
imputare principalmente al P. -cui, ai fini
della responsabilità amministrativa azionata
nei suoi confronti dal pubblico ministero
per rivalere il Comune della condanna subita
nel giudizio civile, è chiaramente
ascrivibile un comportamento soggettivo di
colpa grave- l’elusione, come messo in
evidenza nella sentenza appellata, della
statuizione della sentenza del Tribunale di
Siracusa n. 903 del 2003 che ordinava al
Comune di Rosolini di riassegnare al M. le
funzioni di vice comandante della polizia
municipale, avendo lo stesso, dopo avere
distaccato il rientrante M. presso l’Unità
Organizzativa Viabilità, reiteratamente
posto in essere condotte tutte
inequivocabilmente dirette ad emarginare il
M. attraverso l’isolamento fisico e lo
svuotamento di fatto delle funzioni
formalmente assegnategli.
Si rivela, altresì infondata, la censura del
P. mossa alla sentenza appellata, che viene
a tal fine ritenuta illogica e
contraddittoria, nella parte in cui, mentre
assolve la dott.ssa A., in relazione alla
brevità (all’incirca quattro mesi) della
durata della condotta vessatoria ad essa
imputata nei confronti del M., non adotta lo
stesso criterio per quanto riguarda il P.,
la cui asserita condotta mobbizzante,
iniziata con l’emissione della disposizione
di servizio del 18.06.2004 n. 19724, sarebbe
cessata il 29.12.2004 allorché ha assunto
servizio di comandante della polizia
municipale del Comune di Campobello di
Licata; da ciò avrebbe dovuto dedursi che
anche la condotta del P. era stata di breve
periodo tenuto conto dell’addotto
insegnamento della Cassazione che richiede
un tempo di almeno sei mesi perché una
condotta possa considerarsi lesiva in quanto
espressiva di mobbing .
L’argomentazione dell’appellante non appare
sorretta da valido fondamento dovendosi
considerare che, se è pur vero che il P. il
29.12.2004 cessò dalle funzioni di
comandante della polizia municipale di
Rosolini in quanto ebbe ad assumere servizio
con le stesse funzioni presso il Comune di
Campobello di Licata, è anche vero che il
P., usufruendo dell’istituto della mobilità,
fece rientro a Rosolini il 03.03.2005
continuando a svolgere le funzioni di
comandante della polizia municipale di
Rosolini ininterrottamente fino al
14.05.2008, data sotto la quale, in seguito
a superamento di concorso, assunse le
funzioni di comandante della polizia
municipale del Comune di Modica; fino a
quando il P. ha mantenuto le funzioni di
comandante della polizia municipale di
Rosolini sono rimasti immutati per l’intero
periodo gli ordini di servizio già impartiti
nei confronti del M..
Nella sentenza del Tribunale di Siracusa n.
91 del 2008 è stato ben precisato che, dopo
il primo trasferimento del P. avvenuto in
data 29.12.2004, il M. sollecitava il
sindaco G.G. all’assegnazione delle mansioni
vicarie di vice comandante della polizia
municipale in attesa della nomina del nuovo
comandante.
Il sindaco, nonostante le chiare previsioni
del mansionario dei profili professionali,
nominava il segretario generale comandante
facente funzioni ed il dirigente dott.ssa A.
per gli affari relativi alla polizia
municipale.
Il giudice civile conclude affermando, in
conformità alle evidenze istruttorie
processuali, che l’amministrazione comunale
di Rosolini, in persona del comandante P.,
che era rientrato per mobilità dal Comune di
Campobello di Licata, del segretario
generale e dello stesso sindaco, non solo ha
pervicacemente omesso di ottemperare alla
sentenza n. 937/2003 arrivando a sopprimere
la figura del vicecomandante della polizia
municipale dalla dotazione organica, ma ha
continuato ad isolare il M. fisicamente e
psicologicamente.
Da ciò è facile dedurre gli atti di gestione
del rapporto di servizio orientati o,
comunque, idonei, alla persecuzione ed
all’isolamento del dipendente M. con grave
compromissione dell’integrità psico-fisica
dello stesso (come accertato nella
consulenza tecnica d’ufficio esperita nel
giudizio civile) si sono protratti fino alla
suddetta data del 14.05.2008.
Tenuto conto, comunque, che non sia da
escludere che a determinare la situazione di
mobbing, cui è stato assoggettato il M.
nell’arco dell’intero periodo suindicato,
abbiano concorso con i loro comportamenti
anche il segretario generale ed il sindaco
pro-tempore, come messo in evidenza nella
predetta sentenza n. 91 del 2008 del
Tribunale di Siracusa, il Collegio ritiene
che il danno da porre a carico
dell’appellante sia definitivamente
determinato in € 25.000,00 oltre interessi e
rivalutazione monetaria con effetto dalla
data in cui, in esecuzione della sentenza
civile e della successiva transazione, sono
state liquidate dal Comune le somme dovute
al terzo danneggiato (Corte dei Conti, Sez.
giurisdizionale d'appello per la Regione
siciliana -
sentenza 22.02.2012 n. 78 - link
a www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Per il danno indiretto prodotto
all’amministrazione come conseguenza della
condanna del Comune medesimo in un giudizio
civile, attivato da un dipendente che era
stato rimosso (ingiustamente) da una
funzione istituzionale (comandante del Corpo
della polizia municipale), precedentemente
assegnata dallo stesso sindaco; la
rimozione, fra l’altro, ha prodotto anche la
condanna del sindaco in sede penale per il
reato di abuso di ufficio.
L’atto di revoca dell’incarico, individuato
dalla difesa quale momento iniziale del
termine, invero è stato soltanto fonte di
una responsabilità penale per il ..., ma non
di una responsabilità amministravo-contabile
per danno erariale, che si è concretizzata
solo a seguito dell’azione civile promossa
dalla dirigente, dott.ssa ..., per ottenere
il risarcimento dei danni subiti.
Si tratta, pertanto, di danno c.d.
indiretto, cagionato dal presunto
responsabile ad un terzo nei cui confronti
l’Amministrazione è tenuta al risarcimento.
In base ad un consolidato orientamento
giurisprudenziale (Corte dei conti, SS.RR.
n. 848/A/1993; Sez. I, n. 84/1994; Sez. I,
n. 75/1996; Sez. Lazio, n. 2/1995; Sez.
Lombardia, n. 355/1996; Sez. Veneto, n.
236/1998; Sez. Toscana, 1005/1999), che
questa Sezione ha già ritenuto di dovere
condividere (Sent. n. 83/2001 e n.
146/2006), il momento in cui tale danno si
concretizza, divenendo certa la diminuzione
patrimoniale per l’amministrazione, è quello
in cui insorge l’obbligo giuridico di
risarcire il terzo.
Tale obbligo emerge nella sua pienezza nel
momento in cui il debito si sia evidenziato
nell’an e nel quantum con un
negozio unilaterale (riconoscimento di
debito) o bilaterale (transazione) o con una
sentenza definitiva di condanna della
pubblica amministrazione a risarcire un
terzo da un danno prodotto per inadempimento
contrattuale o per fatto illecito del
proprio dipendente o per altra causa.
Così, nel momento in cui per
l’amministrazione viene ad esistere un
titolo esecutivo con obbligazione specifica
di pagamento, si completa la fattispecie
illecita produttiva del danno, con la
conseguenza che, essendo i fatti pienamente
conosciuti ed in assenza di ostacoli
giuridici all’esercizio del diritto (art.
2935 cc.), ha inizio il decorso dei termini
prescrizionali ai fini dell’azione nei
confronti del responsabile del danno
erariale.
Le somme dovute, nel momento in cui passa in
giudicato una sentenza di condanna, sono
infatti sottratte alla giuridica
disponibilità dell’ente pubblico che su di
esse non può più contare, dovendo solo
metterle a disposizione del creditore; dal
punto di vista contabile il debito deve
essere iscritto tra le poste passive del
conto del patrimonio e si impone
l’assunzione dell’impegno della spesa per
fare fronte all’obbligo giuridicamente
perfezionatosi.
Ciò posto, nella fattispecie in esame,
poiché la sentenza è divenuta definitiva nel
2007 e l’atto di citazione è stato
notificato il giorno 08.02.2010, nessuna
prescrizione può ritenersi maturata.
Appare, altresì, infondato il motivo con cui
l’appellante denuncia la violazione del
diritto di difesa per non avere il giudice
di primo grado accordato il rinvio ad altra
udienza di discussione, richiesto dal
convenuto impedito di partecipare al
dibattimento.
Invero, il diritto di difesa delle parti nel
corso del processo viene assicurato
dall’ordinamento attraverso la regolare
instaurazione del contraddittorio sulle
domande proposte e le eccezioni sollevate da
entrambe le parti e dando, altresì, la
possibilità ai difensori costituiti di
partecipare alle udienze istruttorie e
dibattimentali. La difesa, infatti, per i
giudizi di responsabilità amministrativa si
esercita attraverso il patrocinio di un
avvocato, che deve essere posto in grado di
espletare compiutamente il suo mandato anche
attraverso la sua presenza alla discussione
orale. Nessuna violazione del diritto di
difesa sussiste, invece, quando
l’impedimento a partecipare all’udienza
riguardi la parte, che se ritualmente
assistita, non è destinataria di alcuna
norma che imponga alcun obbligo di
comunicazione personale di atti processuali.
Con il terzo motivo di appello il
difensore ha contestato le modalità di
applicazione dell’art. 651 c.p.p. da parte
del giudice di primo grado, sostenendo che
dall’esame della fattispecie criminosa, come
accertata dal giudice penale, non emerge un
deliberato e consapevole proposito da parte
dell’appellante di recare pregiudizio al
destinatario del provvedimento.
Rileva il Collegio che, ai sensi del primo
comma dell’art. 651 c.p.p. che disciplina
l’efficacia della sentenza penale di
condanna nel giudizio civile o
amministrativo, “la sentenza penale
irrevocabile di condanna pronunciata in
seguito a dibattimento ha efficacia di
giudicato, quanto all'accertamento della
sussistenza del fatto, della sua illiceità
penale e all'affermazione che l'imputato lo
ha commesso, nel giudizio civile o
amministrativo per le restituzioni e il
risarcimento del danno promosso nei
confronti del condannato e del responsabile
civile che sia stato citato ovvero sia
intervenuto nel processo penale”.
Nella fattispecie, a seguito del rigetto, da
parte della Corte di Cassazione, del ricorso
proposto avverso la sentenza pronunciata
dalla Corte di Appello di Caltanissetta, la
statuizione di condanna per abuso di ufficio
a carico del sig. ... è divenuta
irrevocabile, e, in applicazione dell’art.
651 c.p.p. già richiamato, fa stato nel
presente giudizio di responsabilità
amministrativa con efficacia vincolante in
merito alla sussistenza del fatto, alla sua
antigiuridicità ed alla riferibilità
soggettiva dello stesso.
Appare, pertanto, del tutto infondata la
pretesa difensiva di limitare il vincolo
previsto dalla norma al solo elemento
oggettivo della responsabilità, dato che
l’accertamento della illiceità penale del
fatto, che espressamente secondo la norma ha
efficacia di giudicato nel giudizio
risarcitorio, contiene in sé la verifica di
un comportamento doloso, in mancanza del
quale la condanna per la commissione del
reato non avrebbe potuto essere affermata.
In definitiva, quindi, verificata l’identità
del fatto contestato dal procuratore
regionale con quello accertato dal giudice
penale, questo giudice può limitarsi a
procedere alla determinazione del quantum
risarcitorio.
Sul punto il giudice di primo grado ha
affermato che il danno subito dall’ente
locale si è cristallizzato nell’ammontare
determinato dal giudice civile con una
pronuncia avente autorità di cosa giudicata
L’assunto non è condivisibile. Invero, i
rapporti tra azione civile e azione di
responsabilità amministrativa, sono
improntati all’assoluta autonomia, in
considerazione dell’esistenza di un diverso
petitum e di una diversa causa
petendi fra l'azione di responsabilità
amministrativa e l'azione civile di danno
contro la P.A.. Cosicché, quando si verte in
ipotesi di danno cosiddetto indiretto, il
pagamento al terzo costituisce il
presupposto per l’esercizio dell'azione di
rivalsa da parte del Procuratore, mentre
deve essere operato un accertamento autonomo
circa la sussistenza delle condizioni
necessarie per pervenire ad una statuizione
di condanna.
E’ pacifico, comunque, in giurisprudenza
(vedi per tutte Corte conti Sez. III Appello
n. 623/2005) che, anche se le sentenze
civili di condanna non esplicano efficacia
vincolante nel giudizio di responsabilità,
il giudice contabile può trarre da quel
diverso giudizio elementi utili a formare il
proprio libero convincimento, ex art. 116
c.p.c..
Ciò posto la prima contestazione
sull’ammontare del danno riguarda l’importo
addebitato a titolo di lucro cessante.
Sostiene la difesa che l’importo di € 50.000
è stato raggiunto dal giudice del lavoro
attribuendo a titolo di indennità di
posizione il massimo previsto, cioè lire
25.000.000 annui, e come retribuzione di
risultato il 25%, mentre gli importi in
concreto previsti nelle delibere sindacali
dell’anno 2001 erano inferiori a quelli
liquidati.
In proposito osserva il Collegio che il
giudice del lavoro ha bene operato
determinando gli importi dovuti sulla base
di quanto previsto nei contratti collettivi
di categoria. Non poteva, infatti, farsi
riferimento a quanto in concreto liquidato,
dato che la dirigente fu rimossa prima della
fine dell’anno 2001 e, pertanto, certamente
non le furono liquidate tutte le spettanze
dovute, né, ai fini del percepimento della
retribuzione di risultato, poté raggiungere
compiutamente gli obiettivi che si era
prefissa.
Con riferimento al danno qualificato da
demansionamento l’appellante ne ha
contestato la sussistenza, sostenendo che
sia sprovvisto di prova.
Ritiene al contrario il Collegio che dal
punto di vista probatorio il demansionamento
risulta dagli atti ed è l’effetto della
delibera di revoca dell’incarico
dirigenziale. Da tale illegittimo
comportamento sono derivati per la ... una
serie di effetti pregiudizievoli, che sono
stati esattamente valutati e quantificati
dal giudice civile, cosicché anche per
questa posta di danno il Collegio concorda
con la determinazione effettuata nella
pronuncia del giudice del lavoro, dove,
esclusa la risarcibilità di un danno
biologico, si è ritenuta sussistente, a
causa della dequalificazione professionale,
una lesione del diritto alla libera
esplicazione della personalità all’esterno,
ma soprattutto nell’ambiente di lavoro,
anche in considerazione delle aspettative di
carriera della dirigente.
In definitiva, quindi, ritiene il Collegio
che l’appello debba essere respinto e
confermata la sentenza di primo grado (Corte
dei Conti, Sez. giurisdizionale d'appello
per la Regione siciliana,
sentenza 13.02.2012 n. 61 - link
a www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Le sanzioni amministrative pecuniarie
irrogate per illeciti riferibili a condotte
di dipendenti dell’ente non possono essere
addebitate al bilancio dell’Amministrazione.
1. Il presente giudizio d’appello riguarda
la pronunzia con la quale l’odierno attore,
direttore generale f.f. della ASL n. 5 di
Crotone, è stato condannato unitamente ad
altri tre dipendenti, alla rifusione della
somma di € 8.908,87, corrispondente
all’importo della sanzione di cui
all’articolo 2 del decreto legislativo n.
758/1994, comminata per violazioni in
materia di sicurezza sul lavoro; sanzione
che era stata pagata a carico del bilancio
dell’Azienda sanitaria, anziché degli autori
delle violazioni stesse.
Il dr. T., unico appellante, lamenta: il
difetto di contraddittorio nei confronti
degli autori dell’illecito causa della
sanzione e dei direttori generali che non
agirono con l’azione di regresso; la mancata
considerazione, da parte del primo Giudice,
dell’esistenza di una responsabilità
solidale in capo all’Azienda sanitaria;
infine, la mancanza di un danno per la ASL,
che avrebbe pagato le somme in questione ad
un proprio servizio interno, lo S.P.I.S.A.L.
2. Ciò posto, le doglianze di parte attorea
sono prive di pregio e devono pertanto
essere rigettate.
2.1. Infondata, innanzi tutto, è la pretesa
relativa alla (ritenuta) necessità di
integrazione del contraddittorio.
Ed invero, parte appellante sembra non aver
tenuto presenti petitum e (sopra
tutto) causa petendi del presente
giudizio contabile: nel quale, come ben
noto, si fa valere la personale e diretta
responsabilità dei soggetti che, titolari di
un rapporto di servizio con
un’amministrazione pubblica, abbiano
cagionato ad essa (o altra p.a.) un danno
patrimoniale ingiusto, in conseguenza
dell’inosservanza dolosa o gravemente
colposa dei propri doveri (art. 1 L. n.
19/1994).
E dunque, è evidente che alcun rilievo
potrebbe rivestire, nella presente vicenda,
la posizione degli autori dell’illecito che
causò la sanzione in sede amministrativa, i
quali semmai sarebbero stati da perseguire
innanzi ad altro organo: ciò che qui
unicamente rileva è la responsabilità
connessa con il depauperamento dell’ente
pubblico, il quale –è questo il titolo della
condanna in prime cure– ha pagato un
sanzione che sarebbe dovuta restare a carico
di altri soggetti. E tale specifica (e
diversa) responsabilità è stata,
giustamente, imputata a chi tale pagamento
dispose o, comunque, colpevolmente consentì.
Non può poi accogliersi l’altra pretesa, di
integrare il contraddittorio con i vertici
aziendali che non agirono in regresso verso
gli autori dell’illecito; va qui confermato,
infatti, che la responsabilità dell’indebito
esborso è da addebitare unicamente a chi
contribuì a disporre la relativa
liquidazione, senza che possa avere rilievo
il successivo comportamento di altri
soggetti, nei confronti dei quali
difetterebbe il necessario nesso di
causalità con la produzione del danno per il
quale è causa. Tutto ciò, a tacere della
circostanza (da ritenere assorbente) che
parte attrice non ha provveduto a dimostrare
l’esistenza delle su dette, altrui
concorrenti responsabilità.
2.2. Né migliore sorte potrebbe incontrare
l’altro punto di doglianza, sull’esistenza
di una responsabilità solidale dell’Azienda,
che in sostanza escluderebbe, secondo
l’appellante, l’illegittimità dell’operato
dei dirigenti che addossarono la sanzione
alla ASL.
In proposito, opera come noto il principio
generale di cui all’art. 6 della legge
24.11.1981, n. 689, c.d. legge sulla
depenalizzazione. Recita la norma: “1. Il
proprietario della cosa che servi o fu
destinata a commettere la violazione o, in
sua vece, l'usufruttuario o, se trattasi di
bene immobile, il titolare di un diritto
personale di godimento, è obbligato in
solido con l'autore della violazione al
pagamento della somma da questo dovuta se
non prova che la cosa è stata utilizzata
contro la sua volontà.
2. Se la violazione è commessa da persona
capace di intendere e di volere ma soggetta
all'altrui autorità, direzione o vigilanza,
la persona rivestita dell'autorità o
incaricata della direzione o della vigilanza
è obbligata in solido con l'autore della
violazione al pagamento della somma da
questo dovuta, salvo che provi di non aver
potuto, impedire il fatto.
3. Se la violazione è commessa dal
rappresentante o dal dipendente di una
persona giuridica o di un ente privo di
personalità giuridica o, comunque, di un
imprenditore nell'esercizio delle proprie
funzioni o incombenze, la persona giuridica
o l'ente o l'imprenditore è obbligato in
solido con l'autore della violazione al
pagamento della somma da questo dovuta.
4. Nei casi previsti dai commi precedenti
chi ha pagato ha diritto di regresso per
l'intero nei confronti dell'autore della
violazione”.
Orbene, ha provveduto a chiarire in
proposito la giurisprudenza che “la
responsabilità dell'illecito amministrativo
compiuto da soggetto che abbia la qualità di
rappresentante legale della persona
giuridica, grava sull'autore medesimo e non
sull'ente rappresentato e solo solidalmente
obbligato al pagamento delle somme
corrispondenti alle sanzioni irrogate”
(Cassazione, Sez. II, 13.05.2010, n. 11643)
e, ancor più chiaramente, che “Nel
sistema sanzionatorio delineato dalla legge
24.11.1981, n. 689, l'art. 6 sancisce il
principio della responsabilità solidale
della persona giuridica nell'ipotesi in cui
l'illecito amministrativo sia stato commesso
dal suo rappresentante o da un suo
dipendente; tale responsabilità è di
carattere sussidiario e deve ritenersi
sussistente ogni qual volta sia stato
commesso un illecito amministrativo da
persona ricollegabile all'ente per aver
agito nell'esercizio delle sue funzioni o
incombenze, a prescindere
dall'identificazione dell'autore materiale
dell'illecito” (Cassazione, Sez. II,
20.11.2006, n. 24573).
Insomma, la solidarietà in questione ha
carattere sussidiario perché ha il suo
(logico e ovvio) fondamento nella necessità
di garantire l’effettività del meccanismo
sanzionatorio anche nei casi di illeciti
commessi nell’ambito di attività
riconducibile ad entità organizzate, in
particolare laddove non sia stato possibile
in concreto individuare la persona fisica
autrice materiale dell'illecito (Cassazione,
25.05.2011, n. 11481/ord.). Ma non v’è
dubbio che è l’autore-persona fisica
dell’illecito che dovrà pagare la sanzione,
e solo nel caso in cui sia impossibile tale
pagamento verrà in rilievo la responsabilità
della persona giuridica nell’ambito della
quale il soggetto ha agito.
Nel caso all’esame, ciò che è stato
contestato ai convenuti in primo grado (e ha
poi giustificato la corrispondente condanna)
è stato proprio il fatto che essi
liquidarono l’oblazione direttamente ed
immediatamente con somme provenienti dal
bilancio aziendale, senza in alcun modo
(tentare di) escutere gli autori delle
violazioni sanzionate.
Questo Collegio non può che pienamente
confermare la correttezza dell’operato del
primo Collegio anche sotto tale profilo.
2.3. Da ultimo, vanno respinte le deduzioni
attoree relative all’inesistenza del danno
(perché le somme furono pagate allo
S.P.I.S.A.L. e sarebbero affluite poi al
bilancio della ASL).
In proposito, appare convincente e va
condiviso quanto fatto presente in proposito
dal Procuratore generale nelle proprie
conclusioni: innanzi tutto, l’asserzione
circa l’incameramento di dette somme da
parte della ASL -una semplice partita di
giro?- non risultano in alcun modo
dimostrate, come sarebbe invece stato
necessario da parte attrice (anzi, in linea
di massima e allo stato degli atti sono
decisamente da escludere).
In secondo luogo, anche con un eventuale (e
non dimostrato, si ripete) versamento di
dette somme nel bilancio aziendale,
resterebbe comunque il danno per la medesima
ASL, costituito dalla mancata riscossione
dell’importo della sanzione da parte degli
autori degli illeciti sanzionati: insomma,
la ASL avrebbe pagato a se stessa e non
avrebbe invece ricevuto quegli 8.900 euro
(in più) dai soggetti tenuti al pagamento.
3. In conclusione, l’appello proposto, per
tutte le ragioni innanzi esposte, si
appalesa infondato e deve essere respinto.
Le spese seguono la soccombenza (Corte
dei Conti, Sez. I giurisdiz. centrale
d'appello,
sentenza 13.02.2012 n. 57 -
link a www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
C'è danno se il contratto è troppo generoso.
La
Corte dei
conti, I Sez. giurisdizionale centrale,
sentenza 03.02.2012 n. 52, ha fissato principi importanti sul
rapporto fra contratti decentrati
integrativi delle Pa che prevedano
illegittime progressioni verticali e danno
erariale.
Riformando il precedente verdetto di
assoluzione formulato dalla Corte dei conti
per la Basilicata, la Sezione centrale ha
condannato il rettore, i direttori
amministrativi e i componenti del cda
dell'Università lucana per aver posto in
essere, mediante i contratti integrativi e
gli atti applicativi consequenziali,
progressioni verticali del personale interno
in violazione di alcuni limiti previsti
dall'ordinamento.
Nell'ambito della fattispecie concreta si fa
riferimento al principio della
programmazione preventiva dei fabbisogni del
personale e al principio dell'adeguato
accesso dall'esterno nel reclutamento del
personale pubblico, che prevede un valore
minimo del 50% nel rapporto fra assunzioni
riservate agli interni e accesso mediante
concorso.
Nel caso di specie, i contratti integrativi
e i successivi atti amministrativi
d'inquadramento avevano consentito
l'effettuazione di progressioni verticali e
l'attribuzione dei relativi incrementi
economici ai dipendenti beneficiari, senza
che l'Amministrazione avesse precedentemente
adottato un corretto programma triennale dei
fabbisogni. Gli inquadramenti dei dipendenti
nelle categorie immediatamente superiori,
inoltre, erano avvenuti senza garantire il
contemporaneo espletamento di procedure
selettive di carattere concorsuale che
garantissero in misura adeguata l'accesso
dal l'esterno, in applicazione del principio
del 50 e 50.
Le procedure interne, infatti, hanno avuto
compimento indipendentemente dal l'indizione
e dall'espletamento dei concorsi esterni.
Inoltre, in base alle scelte effettuate
dall'Amministrazione al tempo, la misura
percentuale del 50% risultava calcolata
sull'ammontare delle risorse disponibili e
non sul numero dei posti da coprire, attesa
la mancanza dei documenti programmatori
previsti dall'ordinamento.
Il Giudice di primo grado, tuttavia, aveva
mandato assolti i convenuti dalle censure
della Procura per carenza del requisito
psicologico della colpa grave, a causa,
essenzialmente, della complessità e non
univocità della normativa in vigore al tempo
della commissione dei fatti.
Il Giudice d'appello, invece, seppur
diminuendo l'importo del danno attribuito ai
convenuti, ha ritenuto che i citati
principi, anche se declinati da una
normativa confusa e di non facile
interpretazione, altro non sono che aspetti
dei principi costituzionali di legalità
sostanziale, imparzialità e buon andamento
che devono connotare l'azione di tutte le
pubbliche amministrazioni, università
comprese e, in quanto tali, giustiziabili
anche in sede contabile.
Appare evidente che il contenuto della
sentenza, anche per l'autorevolezza del
giudice da cui promana, riveste
un'importanza che va oltre il mondo delle
università, finendo per investire tutto il
mondo delle pubbliche amministrazioni ed, in
particolare, regioni ed enti locali.
Per i Giudici contabili, infatti, può essere
fonte di responsabilità amministrativa la
previsione contrattuale e l'effettiva
esecuzione di percorsi verticali di carriera
in assenza di una corretta programmazione
dei fabbisogni e senza il rispetto del
principio che obbliga le pubbliche
amministrazioni all'espletamento di
procedure selettive che garantiscano in
misura adeguata l'accesso dall'esterno,
secondo quanto previsto dall'articolo 35 del
Dlgs 165 del 2001 (articolo Il Sole 24 Ore del 12.03.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
QUESITI &
PARERI |
EDILIZIA PRIVATA:
Costruzione di elettrodotti aerei.
Domanda.
Un comune lombardo può ancorare alla tutela
del paesaggio il suo diniego alla
costruzione di elettrodotti aerei?
Risposta.
La legge regionale della Lombardia, numero
11, dell'11.05.2001, sulla protezione
ambientale dall'esposizione a campi
elettromagnetici indotti da impianti fissi
per le telecomunicazioni e per la
radiotelevisione, ha stabilito, all'articolo
4, comma 7, che «viste le caratteristiche
tecniche delle reti per la telefonia mobile
e la natura di pubblico servizio
dell'attività svolta, che motivano una
diffusione capillare delle stazioni
impiegate a tale scopo, gli impianti radiobase per la telefonia mobile di potenza
totale ai connettori di antenna non
superiore a 300 W non richiedono una
specifica regolamentazione urbanistica».
La legge regionale della Lombardia, n.
52, del 1982, al comma 5, dell'articolo 5 ha
disposto che: «Qualora gli impianti
elettrici o le relative opere accessorie
interessino zone o immobili soggetti a
vincolo idrogeologico o a vincolo
paesaggistico ai sensi della legge 29.06.1939, n. 1497 o a vincoli derivanti
dalla destinazione a riserva o a parco
naturale, ovvero nel caso in cui la loro
esecuzione comporti la necessità di
procedere al taglio di boschi d'alto fusto,
l'autorizzazione prevista dalla presente
legge non può essere rilasciata se non sia
stato preliminarmente acquisto il parere
degli organi e degli enti preposti alla
relativa tutela; tali pareri, se favorevoli,
sostituiscono le autorizzazioni particolari
prescritte dalla legislazione vigente nelle
corrispondenti materie».
Quest'ultima disposizione, subordina,
quindi, l'autorizzazione alla costruzione di
impianti elettrici, o delle relative opere
accessorie, che interessino zone od immobili
soggetti a vincolo idrogeologico o a vincolo
paesaggistico ai sensi della legge 29.06.1939, n. 1497 o a vincoli derivanti
dalla destinazione a riserva o a parco
naturale, ovvero nel caso in cui la loro
esecuzione comporti la necessità di
procedere al taglio di boschi d'alto fusto,
al parere degli organi e degli enti preposti
alla relativa tutela. Fra questi organi non
figura il comune.
Pertanto, come affermato dal consiglio di
stato, sezione V, con la sentenza del 14.02.2005, n.
2005, la normativa suddetta non consente ai
comuni di introdurre limitazioni e divieti
generalizzati riferiti alle zone
territoriali omogenee, né consente
l'introduzione di distanze fisse, da
osservare rispetto alle abitazioni e ai
luoghi destinati alla permanenza prolungata
delle persone o al centro cittadino, quando
tale potere sia rivolto a disciplinare la
compatibilità dei detti impianti con la
tutela della salute umana al fine di
prevenire i rischi derivanti
dall'esposizione della popolazione a campi
elettromagnetici, anziché a controllare
soltanto il rispetto dei limiti delle
radiofrequenze fissati dalla normativa
statale e a disciplinare profili tipicamente
urbanistici (articolo ItaliaOggi sette del
12.03.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Residui.
Domanda.
Gradirei qualche puntualizzazione in materia
di residui.
Risposta.
L'articolo 184-bis, comma 1, del decreto
legislativo 03.04.2006, n. 152, che ha
novellato l'articolo 183, comma 1, lettera
p), del Testo unico sull'ambiente, ai fini
dell'individuazione dei sottoprodotti,
enuncia criteri di individuazione degli
stessi in parte differenti rispetto a quelli
enunciati dal predetto articolo 183, comma
1, lettera p). La nuova normativa non
richiede più, per aversi un sottoprodotto,
che la sostanza o l'oggetto debbano essere
impiegati direttamente dall'impresa
produttrice degli stessi, che la
commercializzazione debba avvenire a
condizioni economicamente favorevoli e che
non sia necessario operare trasformazioni
preliminari in un successivo processo
produttivo.
Ora, ai fini dell'individuazione dei residui
bisogna tenere conto di quelle operazioni
che nella pratica sono dirette a rendere
compatibili detti scarti, sia sotto il
profilo merceologico, sia sotto il profilo
ambientale, con i processi produttivi propri
dell'impresa che li utilizza.
La Commissione Ce, con la comunicazione del
21.02.2007, in tema di residui e di
materiali difettosi, ha affermato: «Di
norma, i residui provenienti da un processo
di produzione principale, o i materiali che
presentano solo difetti superficiali ma la
cui composizione è identica a quella del
prodotto principale, come le miscele di
gomma o i composti per la vulcanizzazione,
trucioli e pezzetti di sughero, scarti di
plastica e altre materie simili, possono
essere considerati sottoprodotti. Affinché
sia così devono potere essere riutilizzati
direttamente nel processo di produzione
principale o in altre produzioni che siano
parte integrante di tale processo e per le
quali il loro utilizzo sia altrettanto
certo. Si può ritenere che anche questo tipo
di materiali non rientra nella definizione
di rifiuto. Laddove questi materiali
richiedano un'operazione completa di
riciclaggio o di recupero, o se contengono
sostanze inquinanti che occorre eliminare
prima di poterli riutilizzare o trasformare,
essi devono essere considerati rifiuti fino
al completamento dell'operazione di
riciclaggio o di recupero».
In tema, si rimanda anche alla direttiva
2008/98/Ce, recepita con il decreto
legislativo numero 205, del 2010 (articolo ItaliaOggi sette del
12.03.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Normale pratica industriale.
Domanda.
Cosa deve intendersi per «normale pratica
industriale», di cui al punto c), dell'articolo 184-bis, comma 1, del decreto
legislativo 03.04.2006, n. 152?
Risposta.
L'articolo 184-bis, comma 1, del decreto
legislativo 03.04.2006, n. 152,
dispone:
«È un sottoprodotto e non un rifiuto ai
sensi dell'articolo 183, comma 1, lettera
a), qualsiasi sostanza od oggetto che
soddisfa tutte le seguenti condizioni:
●
la sostanza o l'oggetto è originato da un
processo di produzione, di cui costituisce
parte integrante, e il cui scopo primario
non è la produzione di tale sostanza od
oggetto;
●
è certo che la sostanza o l'oggetto sarà
utilizzato, nel corso dello stesso o di un
successivo processo di produzione o di
utilizzazione, da parte del produttore o di
terzi;
●
la sostanza o l'oggetto può essere
utilizzato direttamente senza alcun
ulteriore trattamento diverso dalla normale
pratica industriale;
●
l'ulteriore utilizzo è legale, ossia la
sostanza o l'oggetto soddisfa, per
l'utilizzo specifico, tutti i requisiti
pertinenti riguardanti i prodotti e la
protezione della salute e dell'ambiente e
non porterà impatti complessivi negativi
sull'ambiente o al salute umana».
La dizione «normale pratica industriale»
usato dal legislatore al punto c) del su
riportato articolo 184-bis, comma 1, se da
un lato non può essere eccessivamente
circoscritta, dall'altro lato essa non deve
abbracciare qualsiasi operazione inserita
comunemente nel ciclo produttivo.
Pertanto, nella «normale pratica
industriale» devono farsi rientrare tutte
quelle operazioni industriali che possono
interessare sia il sottoprodotto, sia la
materia prima, o un intermedio, o un
prodotto, senza che ciò comporti aggravi dal
punto di vista dell'impatto ambientale.
Quindi, ad esempio, la rifusione di uno
scarto di prodotto metallico rientra nella
«normale pratica industriale». Il
trattamento è identico o assimilabile a
quello al quale l'impresa sottopone,
prodotti, intermedi o materie prime, che non
si possono considerare, per la loro origine,
rifiuti.
La Corte di giustizia della Comunità
europea, con la sentenza Niselli, ha
evidenziato come un'operazione che in
astratto può rientrare tra quelle indicate
ai punti da R1 a R13 dell'Allegato II alla
direttiva 2008/98/Ce, non sia incompatibile
con il trattamento preliminare di un
sottoprodotto, atteso che l'operazione a cui
viene sottoposto il materiale non consente
di pronunciarsi sulla natura del materiale,
in quanto diversi dei metodi di trattamento
indicati nei predetti allegati possono
applicarsi anche ad un prodotto (articolo ItaliaOggi sette del
12.03.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Un
autoveicolo privo di targa, giacente in area
privata, è rifiuto?
(06.03.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Quando
diventerà operativo il SISTRI per le piccole
imprese? E per le imprese agricole?
(06.03.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Quando
diventerà operativo il SISTRI?
(06.03.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
NEWS |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Visite
fiscali, occhio all'ora. Richiesta entro le
9 per il controllo in giornata. L'Inps
fornisce ulteriori chiarimenti sul sistema
di prenotazione online.
La visita fiscale
all'Inps si può richiedere 24 ore su 24, ma
l'effettuazione nello stesso giorno (della
richiesta) è garantita soltanto per le
istanze inviate entro le ore 12. In
particolare, i datori di lavoro, pubblici e
privati, possono inviare in ogni momento
della giornata la richiesta di controllo
malattia dei dipendenti tramite il canale
telematico (unico canale adoperabile);
tuttavia lo smistamento delle richieste ai
medici incaricati avviene: per i controlli
nella fascia antimeridiana con riferimento
alle richieste pervenute entro le ore 9; per
quelli pomeridiani con riferimento alle
richieste arrivate entro le ore 12.
Lo precisa, tra l'altro, l'Inps nel
messaggio 12.03.2012
n. 4344.
La visita fiscale.
I chiarimenti riguardano l'effettuazione
delle visite fiscali da parte dell'Inps su
richiesta dei datori di lavoro sia pubblici
che privati, perché l'Inps ha la titolarità
all'effettuazione dei controlli
medico-legali ai lavoratori assenti per
malattia anche nel caso in cui si tratti di
soggetti non tenuti al versamento della
relativa contribuzione all'istituto (settore
pubblico).
Tuttavia, per i datori di lavoro privati
l'Inps è l'unico istituto di riferimento,
per quelli pubblici resta ferma la
possibilità alternativa di rivolgersi alle
Asl territorialmente competenti, in base
alle modalità previste dalle stesse
strutture.
Fasce di reperibilità.
Con riferimento al settore pubblico, la
circolare puntualizza che il servizio
fornito dall'Inps non copre a oggi l'intero
orario di reperibilità previsto per tali
lavoratori (si veda tabella), essendo
possibile effettuare le visite di controllo
unicamente nelle fasce di reperibilità
relative ai lavoratori del settore privato.
Pertanto, con il nuovo sistema di richiesta
online il datore di lavoro può inoltrare le
richieste in qualsiasi momento, nell'arco
delle 24 ore; tuttavia, vengono elaborate e
smistate giornalmente ai medici di
competenza le richieste pervenute entro le
ore 9 per la fascia antimeridiana ed entro
ore 12 per quella pomeridiana.
Indirizzo reperibilità.
Per consentire il controllo domiciliare,
spiega ancora la circolare, è di
fondamentale importanza che il lavoratore
verifichi, con la massima attenzione e
precisione, l'inserimento nel certificato
telematico dei dati riferiti all'indirizzo
per la reperibilità.
Anche per tale aspetto, infatti, nulla è
innovato rispetto al passato e, pertanto, la
responsabilità sulla correttezza delle
informazioni ricade unicamente sul
lavoratore che ha il diritto e l'onere di
controllare i dati al momento
dell'inserimento da parte del medico o
successivamente visualizzando la copia
stampata del certificato stesso (il
lavoratore rischia di perdere l'indennità
per malattia).
Canale telematico
esclusivo.
Con riferimento alle segnalazioni di alcune
sedi di imprese che continuano a inviare le
richieste di visite mediche mediante fax,
l'Inps precisa che le stesse possono essere
accolte soltanto in eventuali casi di
interruzione del servizio telematico
connessi a problematiche di tipo tecnico. In
via ordinaria, dunque, l'Inps non dà seguito
alle richieste non pervenute in via
telematica.
Allo stesso tempo, spiega infine la
circolare, sono da ritenersi abolite tutte
le pregresse modalità informative circa
l'esito delle visite (quale l'invio per
lettera della copia al datore di lavoro): di
tale esito ne sono informati ugualmente per
via telematica, nell'apposita sezione
presente sul portale internet
(articolo ItaliaOggi del 13.03.2012). |
APPALTI SERVIZI: Utility.
Pronta la bozza dell'articolo 4 della legge
148/2011.
Affidamento dei servizi, in arrivo le regole
attuative.
La verifica per l'attribuzione dei diritti
di esclusiva in relazione alla gestione di
un servizio pubblico locale deve fondarsi su
un'analisi accurata di tutti i profili
operativi ed economici del servizio, al fine
di evidenziare gli aspetti peculiari che
possano determinare la scelta per la
gestione delle attività da parte di un unico
soggetto.
Lo schema del quadro attuativo dell'articolo
4 della legge n. 148/2011, da definire in
forma regolamentare entro il 31 marzo
prossimo e ora disciplinato con una bozza
che qui anticipiamo, presenta una struttura
che delinea il percorso per l'istruttoria
della delibera-quadro in termini molto
dettagliati, partendo dal l'analisi della
situazione attuale e dalla esplicitazione
dell'articolazione, operativa del servizio
pubblico locale, eventualmente distinta in
fasi di gestione separata, nonché
l'eventuale offerta di servizi sostituivi.
Partendo dalle esigenze della comunità
locale, le amministrazioni sono chiamate
alla rilevazione specifica degli obblighi di
servizio pubblico e delle correlate
compensazioni, nonché del valore complessivo
del servizio in gestione. Sulla base di tali
elementi conoscitivi, gli enti locali devono
effettuare la verifica confrontandosi con
gli operatori di mercato, per mezzo di
un'indagine volta ad acquisire
manifestazioni di interesse degli operatori
del settore di riferimento alla gestione in
concorrenza del servizio, nel rispetto degli
obblighi di servizio pubblico.
Dal confronto sarà possibile rilevare le
situazioni di monopolio naturale o
l'incidenza degli stessi obblighi di
servizio sulla gestione imprenditoriale, ma
anche l'eventuale liberalizzazione di parti
o fasi del servizio. Solo qualora dall'esame
articolato dei vari presupposti (che può
comprendere anche confronti di benchmarking
con altre situazioni) non emerga la
realizzabilità di una gestione
concorrenziale del servizio o di singole
fasi dello stesso, l'ente competente può
procedere all'affidamento in esclusiva dei
servizi (con gara, società mista o in house,
alle condizioni restrittive previste dal
comma 13).
In base alla riformulazione dei commi 3 e 4
dello stesso articolo 4 ad opera del Dl n.
1/2012, per i Comuni con popolazione
superiore ai 10mila abitanti i risultati
della verifica dovranno essere sottoposti
all'Agcm per la resa di un parere
obbligatorio entro sessanta giorni e, una
volta acquisito il parere, le
amministrazioni avranno trenta giorni per
adottare il provvedimento con il quale
attribuire i diritti di esclusiva.
Lo schema di regolamento propone una serie
di elementi di analisi ulteriori, rispetto a
quelli generalmente applicabili, per le
principali tipologie di servizi pubblici con
riferimento d'ambito, individuando procedure
valutative specifiche per il trasporto
pubblico locale e per la gestione dei
rifiuti. Disposizioni particolari vanno a
disciplinare anche il percorso che gli enti
locali devono formalizzare con la
delibera-quadro qualora intendano affidare
simultaneamente più servizi pubblici locali.
---------------
In sintesi
01|L'AFFIDAMENTO
L'articolo 4 della legge 148/2011
(disciplina generale dei servizi pubblici
locali) prevede che prima di procedere
all'affidamento, le amministrazioni locali
debbano verificare se il servizio pubblico
può essere attribuito in gestione a un unico
soggetto
02|LA VERIFICA
La verifica deve essere sviluppata con
un'istruttoria, che deve analizzare esigenze
della comunità locale, obblighi di servizio
pubblico e mercato. Se l'analisi rileva che
il servizio non può essere liberalizzato, si
procede all'attribuzione dei diritti di
esclusiva
(articolo Il Sole 24
Ore del 13.03.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Malattia.
Dipendente più responsabile. Deve verificare la correttezza
dell'indirizzo scritto dal medico nel
certificato.
Per consentire il controllo medico legale
domiciliare, è importante che il lavoratore
verifichi l'inserimento nel certificato
telematico dei dati riferiti all'indirizzo
per la reperibilità.
Lo ha precisato l'Inps con il
messaggio 12.03.2012
n. 4344, in seguito a richieste
da parte dei datori di lavoro pubblici e
privati sull'attivazione del canale
telematico per la richiesta all'Inps delle
visite mediche di controllo domiciliare e/o
ambulatoriale da parte dei datori di lavoro
di cui alla circolare 118/2011.
Viene
sottolineato, che la richiesta è offerta ai
datori di lavoro nel rispetto della
normativa già esistente che riconosce
all'Istituto la titolarità all'effettuazione
dei controlli medico legali ai lavoratori
assenti per malattia, anche nell'ipotesi in
cui si tratti di soggetti non tenuti al
versamento della relativa contribuzione
all'Inps. In ogni caso, vi è sempre la
possibilità per i datori di lavoro pubblici
di far riferimento alle Asl territorialmente
competenti.
Per i lavoratori del settore
pubblico, attualmente il servizio dell'Inps
non potrà coprire tutto l'orario di
reperibilità (9.00-13.00/15.00-18.00), dato
che le visite mediche di controllo possono
essere effettuate solo nelle fasce di
reperibilità dei lavoratori del settore
privato (10.00-12.00/17.00-19.00).
Particolare importanza riveste, come fatto
cenno, l'indirizzo sul certificato; la
responsabilità sulla correttezza delle
informazioni riportate, è del lavoratore che
ha il diritto e dovere di controllare tali
dati al momento dell'inserimento da parte
del medico o dopo visualizzando la copia
stampata del certificato stesso.
Infatti, ai fini dell'indennizzabilità della
malattia, si dovrà garantire la massima
diligenza nel fornire anche gli elementi
utili di dettaglio per consentire il
reperimento, specie in quei casi di
particolare complessità: contrade di
notevole vastità, frazioni, complessi
comprendenti più palazzine ma con un unico
numero civico, ecc. Per quanto concerne le
visite richieste via fax, l'Inps precisa che
le istanze di visite mediche di controllo
che pervengono con questo canale potranno
essere accolte solo in eventuali possibili
casi di interruzione del servizio telematico
connessi a problematiche di tipo tecnico.
Inoltre, sono abolite tutte le pregresse
modalità informative sull'esito delle visite
domiciliari, invio per lettera della copia
per il datore di lavoro, dato che di tale
esito ne saranno informati sempre per via
telematica, utilizzando l'apposita sezione a
loro disposizione sul portale internet.
Infine, precisa l'Inps, rimane in vita ogni
altra comunicazione resa disponibile dalle
relative procedure a seguito
dell'apposizione di specifici codici di
trattazione (ad esempio per sanzioni o
giustificazioni)
(articolo Il Sole 24
Ore del 13.03.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI - VARI:
Non è più d'obbligo redigere il documento
programmatico previsto dal codice della
privacy.
Addio al Dps. Non alla sicurezza.
Obiettivo: semplificare gli adempimenti,
riducendone i costi
Semplificazione privacy pesante per imprese,
professionisti e p.a. È stato, infatti,
abolito il Dps privacy. Non occorre, quindi,
più redigere un documento programmatico
sulla sicurezza e non occorre aggiornarlo di
anno in anno. L'articolo 45 del decreto
legge 5/2012 (il cosiddetto decreto
semplificazioni), infatti, abroga la lettera
g) dell'articolo 34, comma 1, del codice
della privacy (dlgs 196/2003).
L'abolizione
dell'adempimento è l'ultimo atto di una
serie di tentativi (andati a buon fine) tesi
a eliminare un adempimento che ha avuto
alterna fortuna. Mentre da alcuni è stato
apprezzato in quanto strumento organizzativo
efficace, da molti, invece, è stato
criticato per i suoi costi diretti e
indiretti. La redazione del Dps comporta il
ricorso, di norma, a un consulente con i
conseguenti oneri. Viene così smantellato un
pezzo importante della disciplina della
privacy, della quale sopravvivono le altre
misure di sicurezza diverse dal Dps, gli
obblighi di informativa e di consenso, di
nomina di responsabili e incaricati del
trattamento.
Attenzione però a non scambiare l'abolizione
del Dps con l'abolizione delle misure di
sicurezza: un conto è mettere in sicurezza
l'azienda (obbligo rimasto fermo), un altro
è stendere un documento che attesta le
condizioni di sicurezza (adempimento
saltato). Il decreto 5/2012 abroga il
documento (in tutte le sue parti), ma non
abroga la sicurezza privacy.
Peraltro nel corso degli anni si sono
registrati, proprio sul Dps, altri
interventi di semplificazione, seppure
«leggera», mentre ora l'articolo 45 del
decreto 5/2012 passa a una semplificazione
«pesante». Per il trattamento dei dati con
strumenti elettronici, dunque, non è più
necessaria, quale misura minima di
sicurezza, la tenuta di un aggiornato
documento programmatico sulla sicurezza.
Oltre alla stesura iniziale del Dps era
anche previsto un aggiornamento annuale,
entro la fine di marzo. Anche questo
ovviamente scompare.
Così come scompare l'obbligo di riferire,
nella relazione accompagnatoria del bilancio
d'esercizio, se dovuta, dell'avvenuta
redazione o aggiornamento del documento
programmatico sulla sicurezza (paragrafo 26
dell'allegato B) al codice della privacy).
Il decreto prevede anche la soppressione
delle norme tecniche di dettaglio sul Dps
inserite dell'allegato B) al codice della
privacy e in particolare i paragrafi da 19 a
19.8.
Viene eliminato anche, conseguentemente,
l'obbligo alternativo al Dps (in alcuni casi
specifici e soprattutto per Pmi) di
attestazione autocertificata di rispettare
le misure minime di sicurezza. Stessa
abolizione va registrata anche per il Dps
semplificato.
Va, tuttavia, sottolineato che il Dps
costituiva una misura «minima» di sicurezza
e che l'osservanza delle misure minime serve
a evitare sanzioni penali. Con l'abolizione
del Dps, dunque, chi non lo fa non rischia
più sanzioni penali (così come chi non lo ha
fatto finora, stante la retroattività della
legge penale posteriore più favorevole al
reo).
L'abolizione riguarda tutti i titolari di
trattamento senza distinzione e quindi sia
micro che macro imprese, studi
professionali, società, enti e associazioni
ed enti pubblici.
E l'abrogazione dell'obbligo di stesura del
documento programmatico sulla sicurezza
comporta anche l'abolizione del reato di cui
all'articolo 169 del codice della privacy e
anche le sanzioni amministrative previste
dall'articolo 162, comma 2-bis, naturalmente
nella parte che riguarda il documento
stesso.
---------------
Garantite le misure per ridurre al minimo i
rischi.
Scompare il Dps, ma non sono cancellate
tutte le misure di sicurezza.
Tutti i titolari di trattamento, infatti,
devono rispettare l'articolo 31 del codice
della privacy e quindi ridurre i rischi al
minimo e adottare misure di sicurezza.
Certo redigere il Dps è una mera facoltà, ma
chi volesse farlo può farlo, magari per
evitare, con questo adempimento, possibilità
di essere chiamati a rispondere dei danni in
sede civile.
Beninteso chi decide di fare un documento
sulla sicurezza potrà farlo senza seguire lo
schema dell'allegato b) al codice della
privacy, e quindi in completa autonomia.
Peraltro un documento di questo tipo avrà
valore anche nel rapporto tra datore di
lavoro e dipendenti, anche per una esatta
individuazione delle responsabilità interne
e, quindi, più per ragioni organizzative che
per un obbligo normativo. Si ritiene,
quindi, che a prescindere dall'obbligo
normativo possa essere opportuno avere in
azienda un regolamento interno o una policy
sull'uso degli elaboratori da parte dei
dipendenti.
In ogni caso, stando agli elaboratori,
rimane, invece, l'obbligo normativo
(sanzionato penalmente e con sanzioni
pecuniarie amministrative) per altre misure
minime di sicurezza previste dall'articolo
34 del codice della privacy: obbligo di
dotare gli strumenti elettronici di
procedure di autenticazione informatica;
obbligo di adottare procedure di gestione
delle credenziali di autenticazione e di
utilizzare utilizzazione di un sistema di
autorizzazione; obbligo di aggiornamento
periodico dell'individuazione dell'ambito
del trattamento consentito ai singoli
incaricati e addetti alla gestione o alla
manutenzione degli strumenti elettronici;
obbligo di protezione degli strumenti
elettronici e dei dati rispetto a
trattamenti illeciti di dati, ad accessi non
consentiti e a determinati programmi
informatici. Permane un obbligo normativo
anche per l'adozione di procedure per la
custodia di copie di sicurezza, il
ripristino della disponibilità dei dati e
dei sistemi e per l'adozione di tecniche di
cifratura o di codici identificativi per
determinati trattamenti di dati idonei a
rivelare lo stato di salute o la vita
sessuale effettuati da organismi sanitari.
In sostanza le condizioni di sicurezza vanno
preservate nella sostanza, anche se si può
fare a meno di compilare un documento sulle
precauzioni adottate o da adottare.
Se salta tutto il contenuto del Dps, non c'è
più necessità di documentare l'elenco dei
trattamenti di dati personali e la
distribuzione dei compiti e delle
responsabilità nell'ambito delle strutture
preposte al trattamento dei dati. Salta
l'incombenza di mettere nero su bianco
l'analisi dei rischi che incombono sui dati,
le misure da adottare per garantire
l'integrità e la disponibilità dei dati,
nonché la protezione delle aree e dei
locali, rilevanti ai fini della loro
custodia e accessibilità e la descrizione
dei criteri e delle modalità per il
ripristino della disponibilità dei dati in
seguito a distruzione o danneggiamento.
Non c'è più l'obbligo di scrivere in un
documento la programmazione di interventi
formativi degli incaricati del trattamento,
per renderli edotti dei rischi che incombono
sui dati, delle misure disponibili per
prevenire eventi dannosi, dei profili della
disciplina sulla protezione dei dati
personali più rilevanti in rapporto alle
relative attività, delle responsabilità che
ne derivano e delle modalità per aggiornarsi
sulle misure minime adottate dal titolare.
Scompare l'obbligo di documentare la
descrizione dei criteri da adottare per
garantire l'adozione delle misure minime di
sicurezza in caso di trattamenti di dati
personali affidati all'esterno della
struttura del titolare. Infine salta
l'obbligo di scrivere in un documento, per i
dati personali idonei a rivelare lo stato di
salute e la vita sessuale, l'individuazione
dei criteri da adottare per la cifratura o
per la separazione di tali dati dagli altri
dati personali dell'interessato (articolo ItaliaOggi sette del
12.03.2012). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Immobili agevolati, via
i paletti.
I proprietari possono vendere anche a prezzi
di mercato. Studio del notariato sulle
novità del decreto sviluppo in materia di
edilizia residenziale pubblica.
Il vento delle liberalizzazioni soffia anche
sull'edilizia residenziale convenzionata. Il
c.d. decreto sviluppo del 2011, convertito
nella legge n. 106 del mese di luglio dello
scorso anno, allo scopo espresso di
agevolare il trasferimento dei diritti
immobiliari, ha aggiunto dei nuovi commi
all'art. 31 della legge n. 448/1998, di fatto
aprendo alla possibilità che i proprietari
di immobili agevolati possano venderli con
meno difficoltà a prezzi di mercato.
Un recente
studio del notariato (20.10.2011 n.
521/2011-C) ha quindi messo in evidenza le
modalità operative con le quali attuare la
novità legislativa, che riguarda entrambi
gli strumenti tradizionalmente più
utilizzati per la diffusione dell'edilizia
residenziale pubblica, le c.d. Peep,
convenzioni di attuazione di un Piano di
edilizia economico popolare, e le c.d.
convenzioni Bucalossi.
Le c.d. convenzioni Peep. Il privato che
abbia acquistato un appartamento nell'ambito
di un immobile edificato sulla base di una
c.d. convenzione Peep è soggetto, a fronte
del prezzo di favore in base al quale ha
potuto aggiudicarselo, a una serie di
limitazioni relative alla futura cessione
del bene, sia dal punto di vista temporale
che da quello economico. Sotto questo
aspetto non si può non evidenziare la novità
introdotta dal decreto sviluppo del 2011,
che ha reso molto più facile il
trasferimento di questa tipologia di
immobili.
Oggi è infatti possibile pattuire con il
comune una nuova convenzione volta a
rimuovere i vincoli relativi alla
determinazione del prezzo massimo di
cessione delle singole unità abitative e
delle loro pertinenze, nonché del canone
massimo di locazione delle stesse, che siano
contenuti nelle convenzioni Peep, a
condizione che siano trascorsi almeno cinque
anni dalla data del primo trasferimento
delle singole unità abitative (non è,
quindi, ammessa la rimozione dei vincoli al
concessionario, ossia a colui che, con la
stipula della convenzione originaria, ha
avuto la disponibilità dell'area sulla quale
realizzare l'intervento edificatorio).
La nuova normativa, secondo il predetto
studio del notariato, appare però
incomprensibile nella parte in cui fa
riferimento alle convenzioni per la cessione
del diritto di proprietà stipulate prima
dell'entrata in vigore della legge n.
179/1992, poiché prima dell'entrata in vigore
di detta legge (ovvero prima del 15.03.1992) non vi era alcun obbligo di prevedere
nelle convenzioni Peep per la cessione del
diritto di proprietà, vincoli relativi alla
determinazione del prezzo di cessione o del
canone di locazione. Infatti, al contrario,
la legge prevedeva rigorosi divieti di
alienazione, prescritti a pena di nullità.
Il fatto di aver limitato la possibilità di
rimozione dei vincoli sulla determinazione
del prezzo e del canone di locazione alle
sole convenzioni Peep per la cessione del
diritto di proprietà stipulate prima del 15.03.1992, secondo il Consiglio nazionale
del notariato, rende del tutto inapplicabile
la nuova disciplina alle convenzioni Peep
per la cessione di aeree in proprietà,
limitandola, pertanto, solo a quelle per la
concessione di aree in superficie.
Con l'entrata in vigore della nuova
disposizione normativa deve ritenersi
definitivamente superata la diffusa prassi
per cui molti Comuni, unitamente alla
trasformazione del diritto di superficie in
proprietà, proponevano agli interessati
anche la rimozione dei vincoli sulla
determinazione dei prezzi di cessione e/o
dei canoni di locazione, a fronte del
pagamento di un corrispettivo,
discrezionalmente fissato dell'ente
pubblico. Spetta al singolo proprietario
assumere l'iniziativa per la rimozione dei
vincoli in oggetto e richiedere al comune la
stipula di una nuova convenzione. In
presenza di un condominio la rimozione non
deve riguardare necessariamente l'intero
stabile e non necessita, pertanto, la
delibera dell'assemblea dei condomini; ogni
condomino è libero, al riguardo, di agire
come meglio crede. Per l'atto è prescritta
la forma pubblica e la successiva
trascrizione. Per la rimozione dei vincoli
relativi alla determinazione del prezzo di
cessione o del canone di locazione è poi
necessario pagare un corrispettivo al
comune, che è proporzionale alla
corrispondente quota millesimale di
proprietà.
La trasformazione del diritto di superficie
in piena proprietà e la contestuale
eliminazione degli altri vincoli discendenti
dall'originaria convenzione Peep. Come ha
precisato il notariato, tra i possibili
accordi modificativi delle c.d. convenzioni
Peep, già stipulate, quello più diffusa
nella pratica è la convenzione di
trasformazione del diritto di superficie in
piena proprietà la cui disciplina, anche
alla luce delle modifiche apportate dalla
legge n. 106/2011, merita di essere
analizzata più a fondo.
A tale proposito si sottolinea che la
trasferibilità degli alloggi realizzati su
aree Peep concesse in superficie, in
mancanza di particolari clausole
convenzionali che limitino la facoltà di
alienazione o prevedano diritti di
prelazione a favore del comune, è libera,
salvo osservare le clausole relative al
prezzo massimo imposto per la cessione. In
particolare, nell'ambito delle convenzioni
in questione si possono individuare vincoli
attinenti al c.d. contenuto pattizio,
modificabili in qualsiasi tempo per effetto
di una nuova convenzione intervenuta tra le
medesime parti, e vincoli attinenti al c.d.
contenuto necessario, modificabili solo nei
casi previsti dalla legge (il discorso
riguarda, ad esempio, i vincoli relativi
alla determinazione del prezzo massimo di
cessione e del canone massimo di locazione).
Così il comune può limitarsi a cedere la
proprietà dell'area, con conseguente
trasformazione, con riguardo all'alloggio,
della proprietà superficiaria in piena
proprietà, senza null'altro disporre oppure
vi può aggiungere l'eliminazione dei vincoli
attinenti al contenuto pattizio (ad esempio,
un divieto convenzionale di alienazione,
ovvero un diritto di prelazione) o
l'eliminazione, nello stesso atto, dei soli
vincoli di determinazione del prezzo di
cessione e del canone di locazione
(rimangono però gli altri vincoli contenuti
nella convenzione originaria attinenti al
c.d. contenuto necessario) e gli eventuali
vincoli attinenti al contenuto pattizio o,
infine, l'eliminazione, oltre agli eventuali
vincoli attinenti al contenuto pattizio, di
tutti quelli attinenti al contenuto
necessario (compresi i vincoli relativi alla
determinazione del prezzo e del canone di
locazione).
In ogni caso per dette convenzioni è
generalmente necessario, a pena di nullità,
o un atto pubblico o una scrittura privata
autenticata, in considerazione della
necessità di una successiva trascrizione
dell'atto.
La vendita di alloggi realizzati su aree
Peep. Nell'ambito degli alloggi realizzati
su aree Peep bisogna distinguere quelli
acquisiti in proprietà superficiaria, per
cui non sono mai stati previsti
dall'ordinamento divieti di alienazione di
alcun genere, da quelli acquisiti in
proprietà per i quali la normativa di
riferimento (art. 35, legge n. 865/1971),
nel suo testo originario, in vigore sino al
15.03.1992 (data di entrata in vigore
della legge 17.02.1992, n. 179)
prevedeva una serie di divieti di
alienazione, la cui inosservanza era
sanzionata con la nullità degli atti di
alienazione.
Quindi gli atti di vendita
eventualmente stipulati prima del 15.03.1992 devono ritenersi nulli, mentre devono
ritenersi validi quelli perfezionati dopo
tale data e relativi ad alloggi costruiti su
aree Peep concesse in proprietà, e ciò a
prescindere dalla data in cui è stata
stipulata la relativa convenzione (soluzione
sostenuta anche dal ministero dei lavori
pubblici).
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Doppia quota per il permesso di costruire.
Due sono le convenzioni che tradizionalmente
si fanno rientrare nell'ambito dell'edilizia
residenziale convenzionata: la convenzione
di attuazione di un Piano di edilizia
economico popolare (c.d. Peep), che si pone
nell'ambito del più ampio procedimento
tracciato dalla legge n. 865/1971, e la
convenzione per la riduzione del contributo concessorio al cui pagamento è subordinato
il rilascio del permesso di costruire (c.d.
convenzione Bucalossi).
Il rilascio del permesso di costruire è
infatti condizionato al versamento del
contributo concessorio, che si compone di
due quote, una commisurata agli oneri di
urbanizzazione e l'altra proporzionata al
costo di costruzione da versarsi in corso
d'opera con le modalità e le garanzie
stabilite dal comune e, comunque, non oltre
60 giorni dall'ultimazione delle opere.
Se ricorre una c.d. convenzione Bucalossi
(atto che è comunque da trascrivere) il
contributo concessorio viene limitato alla
sola quota commisurata agli oneri di
urbanizzazione, con esclusione pertanto di
quella commisurata al costo di costruzione,
ma l'interessato, a fronte dell'agevolazione
ottenuta, deve assumere l'obbligo di
praticare prezzi di vendita e canoni di
locazione in misura non superiore a quella
risultante dalla convenzione medesima (ogni
pattuizione contraria è nulla per la parte
eccedente).
Anche per tali convenzioni (ovvero per gli
eventuali atti unilaterali d'obbligo
stipulati al posto di dette convenzioni) il
decreto sviluppo 2011 ammette la possibilità
di rimuovere i vincoli relativi alla
determinazione del prezzo massimo di
cessione e del canone massimo di locazione,
sempreché siano decorsi almeno cinque anni
dalla data del primo trasferimento.
Tuttavia la rimozione dei vincoli non può
essere richiesta dal costruttore, ossia da
colui che, con la stipula della convenzione,
si è avvalso della riduzione del contributo
concessorio. Tale possibilità è riconosciuta
a un suo avente causa (e decorsi almeno
cinque anni dalla data del primo
trasferimento), cioè su richiesta del
proprietario dell'alloggio con apposita
convenzione in forma pubblica soggetta a
trascrizione (articolo ItaliaOggi sette del
12.03.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Raee, la gestione allarga il
raggio.
Possibile anche la raccolta uno a zero per
piccoli apparecchi. La direttiva comunitaria
in arrivo rinnova le regole sui rifiuti
elettrici ed elettronici.
Obbligo di ritiro gratuito delle «Aee»
(apparecchiature elettriche ed
elettromeccaniche) domestiche usate anche
senza corrispondente acquisto di nuovo
prodotto, ma con semplificazioni gestionali
e innalzamento delle percentuali di raccolta
differenziata dei «Raee».
Le novità previste
dalla legislazione comunitaria, in arrivo
per il tramite della neo direttiva Ue già
licenziata lo scorso gennaio dal parlamento
Ue, promettono di riscrivere le regole
dell'intera filiera dei rifiuti da
apparecchiature elettriche ed elettroniche
(cd. «Raee»), rivedendo sia gli oneri dei
distributori di nuove apparecchiature (cd. «Aee»)
sia gli obblighi dei soggetti responsabili
della gestione di quella giunte a fine vita.
Le novità Ue. Lo schema di nuova direttiva «Raee»
in corso di ufficializzazione da parte del
consiglio Ue sostituirà l'attuale direttiva
2002/96/Ce), innovandone i contenuti sia a
monte che a valle della catena produttiva.
Sotto il primo profilo, le novità riguardano
i distributori di nuove apparecchiature
elettriche ed elettroniche (ossia i soggetti
che rendono disponibili sul mercato tali «Aee»)
che dovranno assicurare il ritiro gratuito
dei rifiuti da apparecchiature elettriche ed
elettroniche di «piccolissime dimensioni»
(ossia di dimensioni esterne inferiori a 25
centimetri) e provenienti da nuclei
domestici conferiti dagli utenti finali
senza obbligo per questi ultimi di
acquistare una Aee di tipo equivalente
(laddove, a oggi, il ritiro è obbligatorio
solo nella formula «one on one», ossia
previo acquisto di nuovo ed analogo
prodotto).
In particolare, tale ritiro sarà
obbligatorio presso i negozi al dettaglio
con superficie di vendita di «Aee» uguali o
superiore ai 400 metri quadrati o in loro
prossimità e i «Raee» in parola dovranno
essere sottoposti a successivo trattamento
finalizzato al loro recupero o smaltimento.
L'obbligo del ritiro «one on zero» potrà
essere dai distributori evitato solo ove sia
pubblicamente dimostrato che i regimi di
raccolta alternativa esistenti siano
altrettanto efficaci. Parallelamente, il
nuovo provvedimento Ue prevede però, per gli
stessi distributori di «Aee», delle
semplificazioni, non esigendo in relazione
ai punti di raccolta dei «Raee» presenti
presso i loro negozi al dettaglio né il
rispetto dei criteri tecnici stabiliti dalla
direttiva 2008/98/Ce per la realizzazione
degli impianti di gestione dei rifiuti né la
relativa autorizzazione all'esercizio.
A
valle, le novità riguarderanno invece i
gestori dei relativi rifiuti da
apparecchiature elettriche ed elettroniche:
la direttiva in itinere prevede infatti un
innalzamento all'85% (dall'attuale «range»
del 70-80%) della percentuale dei «Raee»
prodotti sul territorio che dovranno essere
annualmente raccolta nei singoli Stati Ue.
In alternativa, gli stessi Stati dovranno
assicurare un tasso di raccolta pari al 65%
delle «Aee» immesse sul mercato negli ultimi
tre anni.
Le regole nazionali. L'attuale normativa
nazionale in materia di rifiuti da
apparecchiature elettriche ed elettroniche,
e sulla quale le nuove norme Ue sono
destinate a incidere, è costituita dal dlgs
25 luglio n. 151 (provvedimento di
recepimento della direttiva 2002/96/Ce) e
dal connesso dm ambiente 08.03.2010 n. 65
(recante, in attuazione del decreto
legislativo, le modalità semplificate la
gestione dei «Raee» da parte dei
distributori e degli installatori di
apparecchiature elettriche ed elettroniche).
In particolare, il dm 65/2010 prevede a
favore dei soggetti in parola il rispetto di
standard tecnici e burocratici semplificati
rispetto a quelli ordinari imposti dal dlgs
151/2005 e dal dlgs 152/2006 (c.d. «Codice
ambientale») per deposito, trasporto rifiuti
e iscrizione all'Albo gestori ambientali. E
proprio in vista delle novità comunitarie in
arrivo, novità che (come più sopra
accennato) ampliano gli oneri a carico dei
distributori di «Aee», lo stesso legislatore
nazionale ha prontamente avviato un
ulteriore allargamento delle procedure
semplificate previste dal citato dm 65/2010
per i soggetti in questione.
L'upgrade in
arrivo, previsto inizialmente dalla legge di
conversione del dl 2/2012 (c.d. «dl
ambiente») ma da esso espunto per mera
incompatibilità tecnica (ex sentenza Corte
costituzionale 22/2012) e quindi in attesa
di nuova base giuridica, andrà
sostanzialmente nella direzione di un
ampliamento delle tempistiche di deposito
temporaneo presso i punti vendita dei «Raee»
ritirati dai distributori e di una maggior
snellezza nelle procedure di trasporto verso
i relativi centri di trattamento
(articolo ItaliaOggi sette del
12.03.2012). |
APPALTI SERVIZI: Servizi pubblici. La partecipazione è
possibile solo se la gestione in vigore è
nella fase finale.
Vincoli più stretti per il gas.
Sugli attuali affidatari diretti nuovi
divieti nell'accesso alle gare
CONSIGLIO DI STATO/
Le deroghe previste dal testo unico degli
enti locali non possono essere sfruttate
dalle società che gestiscono anche altre
attività.
Le Regioni possono definire ambiti
territoriali ottimali con dimensione diversa
da quella provinciale per la gestione dei
servizi pubblici, e nelle gare per i nuovi
affidamenti vanno tenute in particolare
considerazione le tutele occupazionali.
Le modifiche alla disciplina dei servizi
pubblici definite in sede di conversione del
Dl 1/2012 (su cui si veda Il Sole 24 Ore del
1° marzo) rafforzano le linee di
realizzazione delle privatizzazioni come
soluzioni di promozione dello sviluppo
economico e territoriale, ricalcando, per
alcuni versi, il quadro strutturato per il
servizio gas.
Le nuove norme regolano anche gli effetti
che le nuove gestioni possono produrre nei
contesti locali, precisando nell'articolo
3-bis che in sede di affidamento del
servizio con gara, l'adozione di strumenti
di tutela dell'occupazione costituisce
elemento di valutazione dell'offerta. Questa
prospettiva è garantita nelle procedure
selettive, in quanto il bando dovrà indicare
anche i criteri per il passaggio dei
dipendenti ai nuovi aggiudicatari del
servizio, prevedendo, tra gli elementi di
valutazione, l'adozione di strumenti di
tutela dell'occupazione.
La ridefinizione delle norme sui servizi
pubblici presenta importanti novità anche
con riferimento alla disciplina per il
servizio di distribuzione del gas naturale,
con varie previsioni che incidono sulla
gestione delle gare per i nuovi affidamenti
in base agli ambiti territoriali minimi (Atem).
Il dato più rilevante è riscontrabile
nell'estensione a questo settore delle
previsioni della disciplina generale dei
servizi pubblici con rilevanza economica sul
divieto di affidamento di servizi ulteriori
e sulle condizioni per la partecipazione
alle gare delle società in passato
affidatarie dirette, stabilita dall'articolo
4, comma 33, della legge 148/2011.
Questa previsione implica che una società
partecipata da un ente locale, che oggi
gestisca (nel periodo transitorio) il
servizio di distribuzione del gas naturale
sulla base di un affidamento diretto possa
partecipare alle gare che saranno indette
progressivamente nei vari Atem individuati e
specificati con i decreti ministeriali
adottati nel corso del 2011 a condizione che
il proprio affidamento sia nella fase finale
(ultimo anno), e che siano già state avviate
le nuove procedure di affidamento.
La disposizione va analizzata considerando
anche quanto sancito dal Consiglio di Stato,
sez. V, con la sentenza n. 1173/2012.
Secondo i giudici, la deroga prevista
dall'articolo 15, comma 10, del Dlgs 164/2000
che consente una società affidataria diretta
(in house) del servizio gas di prendere
parte alle prime gare successive al periodo
transitorio su tutto il territorio
nazionale, va interpretata in senso
restrittivo, per cui riguarda solo le
società che avevano ottenuto l'affidamento
senza gara del solo servizio di
distribuzione del gas, e non opera se il
gestore è controllato o controllante di
società affidataria diretta di altri servizi
pubblici locali. Pertanto, una società che
sia oggi affidataria diretta della
distribuzione del gas naturale e di altri
servizi pubblici locali con rilevanza
economica non potrà partecipare alle nuove
gare del servizio gas riferite agli atem (articolo Il Sole 24 Ore del 12.03.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI: Aggiudicazione
di appalti pubblici: l'Amministrazione deve
comunicare ai soggetti non aggiudicatari i
risultati di gara attraverso, a seconda dei
casi, la comunicazione dell’atto di
affidamento nella sua forma integrale o
l'invio dei verbali di gara.
L'articolo 120 cod. proc. amm. prevede, per
l'impugnazione dei provvedimenti concernenti
le procedure di affidamento di pubblici
lavori, termini brevi per la loro
definizione, ispirati al principio generale
dell'accelerazione di quel contenzioso e
delle esigenze di certezze del settore. Il
relativo comma 5, in particolare, stabilisce
che, per l'impugnazione degli atti in
questione, il ricorso ed i motivi aggiunti
vanno proposti nel termine di trenta giorni,
decorrente dalla ricezione della
comunicazione di cui all'articolo 79 d.lgs.
12.04.2006, n. 163, il cui comma 2, lettera
c), prevede che siano comunicate "ad ogni
offerente che abbia presentato un'offerta
selezionabile, le caratteristiche e i
vantaggi dell'offerta selezionata e il nome
dell'offerente cui è stato aggiudicato il
contratto".
Ora, gli elementi di cui all'articolo 79,
comma 2, lettera c), rappresentano, ai sensi
dell’art. 120 cit., i requisiti minimi (v.
Cons. St., 12.07.2011, n. 4210) della
motivazione del provvedimento di
aggiudicazione così portata a conoscenza dei
concorrenti non aggiudicatarii, affinché con
la comunicazione di cui si tratta l’impresa
non aggiudicataria acquisisca piena
conoscenza dell’èsito sfavorevole della gara
e, quindi, dell’effetto pregiudizievole
connesso a tale provvedimento, con
conseguente onere di impugnarlo nel términe
sopra indicato di trenta giorni dalla sua
ricezione.
Orbene, siffatta piena conoscenza delle
motivazioni del provvedimento sfavorevole
non può certo dirsi realizzata, nel caso di
specie, né con la motivazione riportata
nella comunicazione effettuata (ove, come
s’è visto, si fa esclusivo riferimento alle
“capacità tecniche e affidabilità”
dell’aggiudicatario), né nello stesso
provvedimento di aggiudicazione definitiva,
che risulta privo di qualsiasi concreto
supporto motivazionale, limitandosi a
richiamare i verbali di gara (senza che gli
stessi risultino ad esso allegati quali sua
parte integrante e sostanziale) ed omettendo
anche solo di riportare la graduatoria di
gara, con l’indicazione dei punteggi a
ciascuna offerta attribuiti per i due
criteri (prezzo e progetto di gestione) ivi
rilevanti ai fini della prevista
aggiudicazione con il criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa.
Richiamando poi i provvedimenti affittati
dalla Corte di Giustizia il Consiglio di
Stato, nella sentenza in esame conclude
affermando che l’obbligo posto in capo alla
stazione appaltante di rendere edotti i
soggetti non aggiudicatari dei risultati
della gara può intendersi correttamente
adempiuto, al fine di garantire ricorsi
efficaci e tempestivi contro le violazioni
delle disposizioni applicabili in materia di
aggiudicazione di appalti pubblici,
attraverso la comunicazione dell’atto di
affidamento nella sua forma integrale e, ove
dallo stesso (come appunto si rileva nel
caso di specie) non risultino comunque gli
elementi di cui sopra, attraverso l’invio
dei verbali di gara, come pure d’altronde
previsto dal citato comma 5 (Consiglio di
Stato, Sez. III,
sentenza 14.03.2012 n. 1428 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Le
imprese facenti parte di un'ATI, anche a
prescindere da una espressa indicazione
della lex specialis di gara, devono
previamente indicare in sede di formulazione
dell'offerta le quote di partecipazione al
raggruppamento.
Secondo consolidato insegnamento
giurisprudenziale la dichiarazione delle
quote di partecipazione al raggruppamento,
che deve essere resa dalle imprese
raggruppate già in sede di formulazione
dell’offerta, è presupposto necessario di
partecipazione e corrisponde ad un interesse
di carattere essenziale della P.A., tenuto
conto che solo il principio di
corrispondenza sostanziale tra quote di
qualificazione, quote di partecipazione
all’ATI e quota di esecuzione dell’appalto
consente alla stazione appaltante di poter
concretamente verificare la serietà e
l’affidabilità dell’offerta.
Tale principio è da ritenersi implicito nel
testo dell’art. 37, comma 13, del D.Lgs n.
163/2006 (e degli artt. 93 e 95 dpr 554/99,
applicabili in via transitoria fino
all’entrata in vigore delle nuove
disposizioni regolamentari per espressa
previsione dell’art. 253, comma 3, del D.Lgs
n. 163/2006), che dispone: “i concorrenti
riuniti in raggruppamento temporaneo devono
eseguire le prestazioni nella percentuale
corrispondente alla quota di partecipazione
al raggruppamento".
Né, sotto altro aspetto, potrebbe rilevare
il fatto che la lex specialis non
esplicita con espressa clausola l’obbligo di
anticipata dichiarazione delle quote,
essendo pacifico che le quote di
partecipazione al raggruppamento non possono
essere evidenziate ex post, in sede di
esecuzione del contratto, costituendo un
requisito di ammissione la cui inosservanza
determina l’esclusione dalla gara.
Correttamente, pertanto, il primo giudice ha
rilevato che “dal tenore letterale degli
artt. 37, comma 13, D. Lg.vo n. 2006 e 93,
comma 4, DPR n 554/1999 si evince la
necessarietà (e perciò anche a prescindere
da una specifica e/o espressa indicazione
della lex specialis di gara) che le quote di
partecipazione ad un’ATI siano previamente
indicate in sede di offerta, non essendo
sufficiente che vengano evidenziate soltanto
nella fase esecutiva dell’appalto, poiché la
ratio di tali norme è quella di permettere
alla stazione appaltante di verificare il
possesso da parte di tutte le imprese
facenti parte di un’ATI dei requisiti di
ammissione alla gara in relazione alle
singole quote di partecipazione all’ATI e di
assicurare l’effettiva corrispondenza
sostanziale tra quota di qualificazione, tra
quota di partecipazione all’ATI e quota di
esecuzione dell’appalto, e perciò tali norme
rispondono ad un interesse di natura
sostanziale e di carattere essenziale della
Pubblica Amministrazione …” (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 14.03.2012 n. 1422 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI: Crollo al concerto: risponde il Comune.
Per i feriti a una festa di piazza.
LA MOTIVAZIONE/
Il risarcimento del danno è a carico
dell'ente locale proprietario dei luoghi e
non dell'associazione che ha organizzato
l'evento.
Nelle feste popolari di piazza il Comune è
sempre responsabile dei danni provocati dal
cedimento di una struttura mobile installata
per l'occasione, ed è quindi tenuto al
risarcimento delle persone rimaste ferite
nel crollo.
Con la
sentenza
13.03.2012 n. 3951, la III Sez.
civile della Corte di Cassazione richiama gli enti
locali ai doveri di vigilanza e custodia nei
confronti della cittadinanza, anche nei casi
in cui la realizzazione delle impalcature
incriminate sia stata affidata a
un'associazione terza.
Il caso, restituito ieri ai giudici di
appello di Messina, riguardava un incidente
avvenuto 21 anni fa durante il concerto di
Ferragosto a Terme Vigliatore, protagonisti
–ma ovviamente del tutto estranei alla
vicenda– Albano e Romina Power: il
cedimento di un'impalcatura di legno
dell'improvvisata tribuna aveva travolto un
minorenne in compagnia dei genitori,
provocandogli serie lesioni a una gamba.
Condannato in primo grado per «omessa
adozione di misure idonee a garantire la
sicurezza del pubblico spettacolo», l'ente
locale era stato però prosciolto in appello
sulla base della «imprevedibilità ed
eccezionalità dell'evento» causato dalla
ressa degli spettatori. Peraltro, secondo la
Corte, a rispondere dei danni sarebbe dovuta
essere semmai chiamata l'associazione che
aveva organizzato il concerto, in quanto
divenuta per ciò stesso «custode della
piazza».
I giudici di legittimità hanno però smontato
punto per punto la ricostruzione giuridica e
causale dei colleghi siciliani. La
responsabilità dell'ente locale proprietario
dei luoghi (in questo caso della piazza) è
richiamata da tutte le leggi in materia, a
partire dalle più risalenti: sia il Regio
decreto 773/1933 (Testo unico di Pubblica
sicurezza), sia il Dpr 322/1956 («Norme per
la prevenzione degli infortuni e l'igiene
del lavoro nell'industria della
cinematografia e della televisione») e
ancora il Dpr 616/1977 (Trasferimento e
deleghe delle funzioni amministrative dello
Stato) insistono sugli obblighi specifici
del neminem laedere a carico
dell'ente organizzatore «adottando tutte
le misure preventive e protettive onde
prevenire rischi e scongiurare pericoli per
l'incolumità e la sicurezza pubblica».
E anche nel caso di autorizzazione a terzi
per l'allestimento del palco, non viene meno
il controllo «sulla fase di progettazione
ed esecuzione dell'opera, le scelte
tecniche, dei materiali e della loro
predisposizione a regola d'arte». Non
solo: anche durante lo spettacolo il Comune
avrebbe dovuto sorvegliare che le transenne
«non fossero scavalcate»
(articolo Il Sole 24
Ore del 14.03.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
APPALTI: L'amministrazione
può aggiudicare la gara e poi verificare la
sussistenza dei requisiti di partecipazione.
La verifica dei requisiti per la
partecipazione a gara rappresenta fase
autonoma del procedimento di affidamento, ex
art. 11, comma 8, cod. contr., secondo cui
l'aggiudicazione definitiva diventa efficace
dopo la suddetta verifica e, pertanto, non è
precluso all’Amministrazione pronunciare
prima l’aggiudicazione (C.d.S., Sez. III, n.
343 del 26.01.2012) (Consiglio di Stato,
Sez. III,
sentenza 13.03.2012 n. 1409
- massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Rinnovo del procedimento di gara
a seguito di annullamento
dell'aggiudicazione o di annullamento
dell'esclusione di taluno dei concorrenti:
legittima la nomina di una nuova Commissione
di gara se garantisce maggiore serenità di
giudizio nonostante il comma 12 dell'art. 84
del codice dei contratti preveda la
riconvocazione della stessa commissione.
Il comma 12 dell’art. 84 prevede che “in
caso di rinnovo del procedimento di gara a
seguito di annullamento dell'aggiudicazione
o di annullamento dell'esclusione di taluno
dei concorrenti, è riconvocata la medesima
commissione.”
Ad avviso del Collegio la previsione
normativa contiene un’enunciazione di
principio, posta a presidio della celerità e
del buon andamento dell’Amministrazione, e
sottintende che nell’ipotesi di rinnovazione
dell’intera gara la conoscenza degli atti e
delle operazioni già effettuate possa
giovare alla celere rinnovazione del
procedimento, sempreché ciò non si risolva
nella compromissione della garanzia di
imparzialità, valore altrettanto preminente
negli affidamenti pubblici. La norma,
pertanto, va interpretata nel senso che non
è esclusa la possibilità di nominare una
nuova Commissione se garanzia di maggiore
serenità di giudizio (Consiglio di Stato,
Sez. III,
sentenza 13.03.2012 n. 1409 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Principi
giurisprudenziali consolidati in materia di
lottizzazione abusiva.
Il bene giuridico protetto dall’art. 18
della l. n. 47/1985, descrivente le
caratteristiche della lottizzazione abusiva,
non è tanto o solo la tutela dell’interesse
al rispetto della pianificazione
urbanistica, quanto, invece, la tutela
dell’interesse all’effettività del controllo
del territorio da parte del soggetto
pianificatore (cioè gli organi comunali)
tenuto a reprimere qualsiasi intervento
lottizzatorio che non sia stato previamente
assentito. In proposito è stato precisato
che è ravvisabile l’ipotesi di lottizzazione
abusiva solamente quando sussistono elementi
precisi ed univoci da cui possa ricavarsi
oggettivamente l’intento di asservire
all'edificazione un’area non urbanizzata
(Consiglio di Stato, Sezione IV, 11.10.2006
n. 6060 e Sezione V, 13.09.1991 n. 1157).
Pertanto, ai fini dell’accertamento della
sussistenza del presupposto di cui all’art.
18 della l. n. 47/1985 non è sufficiente il
mero riscontro del frazionamento di un
terreno collegato a plurime vendite, ma
sussiste anche la necessità di acquisire un
sufficiente quadro indiziario dal quale sia
possibile desumere in maniera non equivoca
la destinazione a scopo edificatorio degli
atti posti in essere dalle parti (Consiglio
Stato, Sezione V, 20 ottobre 2004, n. 6810),
giustificandosi l’adozione del provvedimento
repressivo anche a fronte della
dimostrazione della sussistenza di almeno
uno degli elementi precisi e univoci
sopraddetti (Consiglio Stato, Sezione V,
14.05.2004, n. 3136).
In particolare la cosiddetta lottizzazione
negoziale, ossia il tipo di lottizzazione
che il Comune ha ritenuto sussistente nel
caso di specie sulla base non tanto della
realizzazione di alcune opere, quanto del
frazionamento contrattuale di un vasto
terreno con la creazione di lotti
sufficienti per la costruzione di un singolo
edificio, può concretizzare in astratto già
di per sé il fenomeno della lottizzazione
abusiva, purché si possa desumere in modo
non equivoco dalle dimensioni e dal numero
dei lotti, dalla natura del terreno,
dall’eventuale revisione di opere di
urbanizzazione e dalla loro destinazione a
scopo edificatorio (Consiglio Stato, Sezione
IV, 11.09.2006, n. 6060) (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 12.03.2012 n. 1374 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Concessione
edilizia in sanatoria: l’amministrazione
preposta alla tutela paesaggistica deve
pronunciarsi in relazione all’esistenza del
vincolo al momento in cui avviene la
valutazione della domanda di sanatoria, a
prescindere dall’epoca in cui il vincolo sia
stato imposto.
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato,
con la decisione n. 20 del 22.07.1999, ha
chiarito che la disposizione dell’art. 32
della legge 28.02.1985, n. 47 prevede la
necessità di parere dell’amministrazione
preposta alla tutela del vincolo
paesaggistico ai fini del rilascio della
concessione in sanatoria sulla base di una
valutazione che risponde all’esigenza di
vagliare l’attuale compatibilità dell’opera
realizzata abusivamente con il vincolo
paesaggistico.
La disposizione, invero, non reca alcuna
deroga al principio generale tempus
regitactum per cui ogni atto deve essere
adottato in base alla disciplina vigente al
momento della sua adozione e, pertanto, essa
deve interpretarsi nel senso di esigere che
l’amministrazione preposta alla tutela
paesaggistica si pronunci in relazione
all’esistenza del vincolo al momento in cui
avviene la valutazione della domanda di
sanatoria, a prescindere dall’epoca in cui
il vincolo sia stato imposto. La
giurisprudenza si è ormai assestata nei
sensi indicati dall’Adunanza Plenaria (cfr.
ex multis Cons. St. Sez. IV,
19.03.2009, n. 1646; Sez. VI, 17.05.2010, n.
3061) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 12.03.2012 n. 1371 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
valutazioni della commissione di gara in
sede di verifica dell’anomalia dell’offerta
è caratterizzata da discrezionalità tecnica
sindacabile dal giudice entro limiti
predeterminati.
Il Collegio osserva, in generale, che
–secondo il consolidato indirizzo di questa
Sezione (ex multis sent. 18/03/2010,
n. 1589)- le valutazioni della commissione
di gara in sede di verifica dell’anomalia
dell’offerta si sostanziano in un’attività
amministrativa di giudizio di carattere
tecnico, finalizzata alla ricerca non già di
specifiche e singole inesattezze
dell’offerta economica, bensì ad accertare
se questa sia attendibile o inattendibile
nel suo complesso e, quindi, se dia o meno
serio affidamento circa la corretta
esecuzione dell’appalto.
A fronte di tale manifestazione di
discrezionalità tecnica il sindacato
giurisdizionale è ristretto entro i limiti,
propri delle forme del controllo di tipo
estrinseco, delle figure sintomatiche
dell’eccesso di potere per sviamento,
travisamento dei fatti, arbitrarietà,
illogicità manifesta della motivazione.
Ne consegue che, specie nel caso in cui la
commissione di gara abbia proceduto ad
un’analitica disamina degli elementi
dell’offerta, nel contraddittorio con
l’interessata, pervenendo ad un giudizio
finale positivo, non è sufficiente per chi
contesti tale esito contrapporre una propria
versione alternativa, ma occorre enucleare
specifici punti in cui il positivo riscontro
sull’attendibilità dell’offerta si riveli,
nel suo complesso, logicamente deficitario
ed incongruamente motivato (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 12.03.2012 n. 1369 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
prescrizione decennale del diritto del
Comune ad ottenere il pagamento del
contributo concessorio inizia a decorrere
dalla data di presentazione della domanda di
condono.
Secondo consolidata giurisprudenza il
silenzio-accoglimento si perfeziona anche se
mancano i presupposti per l'accoglimento
della domanda e addirittura -come affermato
dalla IV sezione del Consiglio di Stato
20.05.1999, n. 858- per le "domande
dirette alla concessione di costruzione in
sanatoria relative a opere compiute oltre la
data dell'01.10.1983, essendo il compimento
delle opere abusive entro la predetta data
requisito necessario ai fini del rilascio di
provvedimento ai sensi e per gli effetti di
cui all'art. 35 della legge 28.02.1985 n.
47, ma non per il mero verificarsi della
fattispecie complessa di
silenzio-accoglimento" (cfr. Cons.
Stato, Sez. V, 14.04.1993, n. 496, id.
26.10.1994, n. 1385, id. 07.12.1995, n.
1672, id. 24.03.1997, n. 286), e che il
silenzio assenso così formatosi può essere
rimosso solo mediante l'esercizio del potere
di annullamento di ufficio da parte del
Comune (cfr. Cons. Stato, Sez. V,
24.03.1997, n. 286), misura di autotutela
che consente di contemperare il ripristino
della legalità con l'esigenza, pure
avvertita dal legislatore, di rendere
effettivamente praticabile l'istituto del
silenzio accoglimento (così Cons. St., V, n.
4114/2006).
Il Collegio osserva che, per quanto riguarda
l’asserito difetto di motivazione in cui
sarebbe incorso il Giudice di primo grado,
per non avere indicato le ragioni per le
quali è giunto alla determinazione di
ritenere che nella specie si fosse formato
il silenzio-assenso e fosse intervenuta la
prescrizione decennale del diritto del
Comune di pretendere il pagamento del
contributo concessorio, dalla documentazione
acquisita in giudizio si ricava che le
circostanze dedotte dal ricorrente a
sostegno dell’avvenuta formazione del
silenzio–assenso risultavano comprovate (il
ricorrente aveva infatti prodotto in
giudizio sia la copia della domanda di
condono edilizio, sia la copia delle
attestazioni dei versamenti della intera
oblazione).
Non gravava pertanto sul TAR l’onere di
fornire una motivazione particolare in
ordine alla sussistenza dei presupposti per
la formazione del silenzio–assenso. Non pare
tuttavia inutile aggiungere che, come
correttamente osserva l’appellato, la
censura muove dall’assunto che il termine
decennale di prescrizione debba decorrere
non già dal compimento dei due anni
successivi alla presentazione della domanda
di condono, ma dalla data del pagamento
dell’ultima rata del condono edilizio
(pagamento eseguito il 04.10.1986).
Sennonché tale presupposto è errato dato che
l’art. 35, comma 18, della l. n. 47/1985
dispone chiaramente che “decorso il
termine perentorio di ventiquattro mesi
dalla presentazione della domanda,
quest'ultima si intende accolta ove
l'interessato provveda al pagamento di tutte
le somme eventualmente dovute a conguaglio
ed alla presentazione all'ufficio tecnico
erariale della documentazione necessaria
all'accatastamento…”. Il “dies a quo”
dal quale far decorrere il termine decennale
di prescrizione va quindi individuato nella
data della presentazione della domanda di
condono (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 12.03.2012 n. 1364 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: L'omessa
impugnazione della graduatoria definitiva
del concorso ai pubblici impieghi vanifica
l'impugnazione del provvedimento di
esclusione.
Per un principio generale nei procedimenti
di tipo concorsuale, l'impugnazione del
provvedimento endoprocedimentale lesivo deve
successivamente estendersi agli ulteriori
atti pregiudizievoli quale l'approvazione
definitiva della graduatoria di concorso ai
pubblici impieghi, determinandosi altrimenti
l'inutilità dell'eventuale decisione di
accoglimento del ricorso proposto contro
l'esclusione (Consiglio Stato, Sezione V,
08.09.2008, n. 4241).
Fermo restando quindi l'onere di
impugnazione immediata dell’atto
endoprocedimentale di carattere direttamente
ed autonomamente lesivo, rimane l'onere di
estendere il gravame anche al provvedimento
conclusivo del procedimento concorsuale,
ovverosia l'atto di approvazione della
graduatoria finale da parte del concorrente
escluso (Consiglio Stato, Sezione V,
29.07.2003, n. 4320). Diversamente opinando,
dovrebbe riconoscersi effetto caducante e
non meramente viziante all'eventuale
annullamento del provvedimento
endoprocedimentale, tesi che risulta seguita
in giurisprudenza da orientamento di segno
decisamente minoritario (C.G.A., 29.08.2005,
n. 574) e che la Sezione non ritiene
condivisibile, non ravvisandosi un rapporto
di presupposizione-consequenzialità
immediato, diretto e necessario tra l’atto
endoprocedimentale impugnato e
l’approvazione della graduatoria finale.
La determinazione conclusiva andava pertanto
ritualmente impugnata nel termine
decadenziale decorrente, ex art. 41 c. 2
c.p.a. (o ex art. 9 del d.P.R. n. 1199/1971
in caso di ricorso straordinario al Capo
dello Stato), dalla scadenza del termine di
pubblicazione, non essendone richiesta
comunicazione personale nei confronti dei
concorrenti per cui era già stata disposta
l'esclusione, né in base al bando, né in
base a quanto stabilito dalla commissione di
gara con verbale del 06.12.2001 (con
riguardo alle modalità di comunicazione
dell’esito della prova orale), né in base
alla disciplina generale dell'efficacia del
provvedimento amministrativo di cui all'art.
21 bis della l. n. 241/1990, il quale limita
la regola della c.d. “recettizietà”
ai soli atti limitativi della sfera
giuridica dei privati -tra cui rientra
l'esclusione- ma non l'approvazione della
graduatoria finale per i soggetti già
esclusi, atto generale soggetto ad
impugnazione dalla scadenza del periodo di
pubblicazione legale (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 09.03.2012 n. 1347 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Concorso
pubblico: la presenza al completo della
Commissione giudicatrice non e' necessaria
per operazioni concorsuali di carattere
meramente istruttorio e preparatorio.
Secondo un principio pacifico in
giurisprudenza, in sede di operazioni
concorsuali non si richiede la presenza
della commissione giudicatrice al suo
completo in tutte le fasi del procedimento:
essa ha natura di collegio perfetto solo nei
momenti in cui adotta determinazioni
rilevanti ai fini della valutazione dei
candidati (come la fissazione dei criteri di
massima di valutazione delle prove
concorsuali, la selezione degli argomenti e
la redazione delle tracce delle prove
scritte, la determinazione dei quesiti da
sottoporre ai candidati nelle prove orali,
la correzione degli elaborati e lo
svolgimento delle prove orali), ovvero in
ogni altro caso in cui ciò sia espressamente
previsto dalla regolamentazione del concorso
(Consiglio Stato, sez. IV, 12.03.2007, n.
1218).
Solo le operazioni concorsuali di carattere
meramente istruttorio e preparatorio non
impongono la presenza di tutti i componenti
del collegio e possono avvenire sotto il
controllo ed alla presenza soltanto di
alcuni di essi o essere delegate ad un
componente della commissione (Consiglio
Stato, sez. VI, 01.03.2005, n. 815)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 09.03.2012 n. 1347
- massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Non basta la mancanza della qualifica di
amministratore per sottrarsi alla
certificazione di moralità.
Pur essendo il Collegio consapevole della
esistenza di contrapposti orientamenti
nell’ambito della giurisprudenza del
Consiglio di Stato, ritiene di dover
confermare quanto statuito sul punto in
precedenti occasioni (cfr. TAR Sardegna sez.
I, 17.03.2010, n. 337), secondo cui la
mancanza della formale qualifica di
amministratore della società non può essere
considerata sufficiente per sottrarsi
all’applicazione degli obblighi dichiarativi
imposti dalla norma richiamata, in
particolar modo in presenza di procuratori
speciali cui siano stati conferiti poteri di
rappresentanza negoziale molto ampi, che
hanno per oggetto anche la sottoscrizione di
atti relativi alle procedure di appalto e
dei relativi contratti (come nel caso di
specie).
La prevalente giurisprudenza del Consiglio
di Stato, condivisa dal Collegio, ha,
infatti, chiarito che, per l’individuazione
dei soggetti tenuti alle dichiarazioni
sostitutive finalizzate alla verifica del
possesso dei requisiti di moralità, quando
si tratti di titolari di organi di persone
giuridiche, al fine di ricomprenderli nella
nozione di “amministratori muniti di
poteri di rappresentanza” occorre
esaminare i poteri, le funzioni e il ruolo
effettivamente e sostanzialmente attribuiti
al soggetto considerato, al di là delle
qualifiche formali rivestite (in tal senso
cfr. Cons. St., sez. VI, 08.02.2007, n. 523,
che nella categoria degli amministratori, ai
fini dell’art. 38 cit., fa rientrare sia i “soggetti
che abbiano avuto un significativo ruolo
decisionale e gestionale societario” sia
i procuratori ai quali siano conferiti
poteri di “partecipare a pubblici appalti
formulando le relative offerte”; sez. VI,
12.10.2006, n. 6089; sez. V, 28.06.2004, n.
4774; sez. V, 28.05.2004, n. 3466; sez. V,
09.06.2003, n. 3169; nonché, recentemente,
sez. IV, 01.04.2011, n. 2068; sez VI,
18.01.2012, n. 178; in senso contrario si
veda sez. V n. 6136/2011; n. 513/2011; n.
134/2011) (TAR
Sardegna, Sez. I,
sentenza 09.03.2012 n. 273 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per le opere comportanti un aumento di
volumetria l'autorizzazione paesaggistica
non può essere rilasciata ex post
dall'Autorità preposta alla tutela del
vincolo.
La delicata e controversa questione
dell'applicabilità della normativa
sopravvenuta al procedimento amministrativo
in itinere è stata tradizionalmente risolta
dalla dottrina e dalla giurisprudenza
facendosi riferimento al criterio del
tempus regit actum (che costituisce
regola generale di tutti gli atti
procedimentali).
Con tale brocardo si vuole sintetizzare il
principio per cui ogni atto resta soggetto
al regime normativo vigente al tempo della
sua emanazione (ex multis: "Il
procedimento amministrativo è regolato dal
principio tempus regit actum, con la
conseguenza che la sua legittimità va
valutata con riferimento alle norme vigenti
al tempo in cui è stato adottato l’atto
finale." Consiglio Stato, sez. IV,
28.09.2009, n. 5835; più recentemente anche
Consiglio Stato, sez. VI, 29.03.2011 n. 1900
e TAR Sardegna, Sez. I, 21.04.2011, n. 421).
Alla luce del predetto criterio, dal quale
non vi è motivo per discostarsi, dev’essere
quindi individuato, nel caso in esame, il
quadro normativo di riferimento, restando
dunque disatteso l’argomento della difesa
regionale teso a ritenere operante, ai fini
dell’individuazione della disciplina
applicabile, il principio del tempus
regit factum, ossia del tempo della
commissione dell’abuso.
In particolare, con riguardo al
provvedimento di compatibilità paesaggistica
impugnato, deve farsi riferimento alla
disciplina vigente al tempo della sua
adozione, ossia al 13.01.2010.
Orbene, all'epoca l'art. 146, comma 12, del
d.lgs. n. 42 del 2004 (nel testo introdotto
dall'art. 16 del d.lgs. n. 157/2006)
disponeva che "l'autorizzazione
paesaggistica, fuori dai casi di cui
all'articolo 167, commi 4 e 5, non può
essere rilasciata in sanatoria
successivamente alla realizzazione, anche
parziale, degli interventi"; la medesima
norma, peraltro, è ancora vigente, a seguito
delle modifiche apportate dall'art. 2 del
d.lgs. n. 63 del 2008 e dall’art. 4, comma
16°, lettera e) del D.L. 13.05.2011 n. 70,
convertito con legge 12 luglio 2011 n. 106,
anche se contenuta ora nel comma 4° ("...Fuori
dai casi di cui all'articolo 167, commi 4 e
5, l'autorizzazione non può essere
rilasciata in sanatoria successivamente alla
realizzazione, anche parziale, degli
interventi ...").
L'art. 167, comma 4°, da parte sua, prevede
che "L'autorità amministrativa competente
accerta la compatibilità paesaggistica,
secondo le procedure di cui al comma 5, nei
seguenti casi: a) per i lavori, realizzati
in assenza o difformità dall'autorizzazione
paesaggistica, che non abbiano determinato
creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) ...; c) ...", mentre il successivo
comma 5° stabilisce che "il proprietario,
possessore o detentore a qualsiasi titolo
dell'immobile o dell'area interessati dagli
interventi di cui al comma 4 presenta
apposita domanda all'autorità preposta alla
gestione del vincolo ai fini
dell'accertamento della compatibilità
paesaggistica degli interventi medesimi ...",
allo scopo di consentire al privato,
sussistendone i presupposti, di sottrarsi
alla prescrizione di cui al comma 1 ("In
caso di violazione degli obblighi e degli
ordini previsti dal Titolo I della Parte
terza, il trasgressore è sempre tenuto alla
rimessione in pristino a proprie spese,
fatto salvo quanto previsto al comma 4").
La giurisprudenza ne ha desunto, per quel
che rileva nella presente controversia, che
per le opere comportanti un aumento di
volumetria l'autorizzazione paesaggistica
non può essere rilasciata ex post
dall'Autorità preposta alla tutela del
vincolo (v., tra le altre, Cons. Stato, Sez.
IV, 08.10.2007 n. 5203), non rientrando tale
ipotesi tra le fattispecie marginali -i c.d.
abusi minori- che eccezionalmente ammettono
la sanatoria ambientale in deroga al divieto
generale di nulla-osta postumo; anche se, è
stato chiarito, la stessa ratio che
in materia urbanistica induce ad escludere i
volumi tecnici dal calcolo della volumetria
edificabile vale ugualmente per escludere
tali volumi dal divieto di rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica in
sanatoria, con la conseguenza che gli
interventi che abbiano dato luogo alla
realizzazione di soli volumi tecnici
rientrano nell'eccezione di cui all'art.
167, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 42 del
2004 e sono pertanto suscettibili di
accertamento della compatibilità
paesaggistica (v. TAR Campania, Napoli, Sez.
VII, 03.11.2009 n. 6827).
Alla base della rigorosa disciplina in esame
-si è detto- è la finalità di costituire un
più solido deterrente contro gli abusi dei
privati, così abbandonando il regime che in
precedenza riconosceva un significativo peso
al fatto compiuto (v. TAR Lombardia,
Brescia, Sez. I, 19.03.2008 n. 317), senza
peraltro che l'automaticità dell'ordine di
ripristino dello stato dei luoghi, in
conseguenza della sola carenza del titolo
formale e indipendentemente da ogni indagine
circa l'effettiva incidenza ambientale del
singolo intervento (anche quando il privato
potrebbe poi ottenere l'autorizzazione per
un progetto identico) evidenzi profili di
illegittimità costituzionale, a fronte di
scelte del legislatore fondate su di una
rigidità del sistema in tal modo funzionale
alla più efficace tutela del bene "paesaggio",
assegnatario di un rango primario tra i
valori costituzionalmente protetti, con il
solo temperamento all'assolutezza della
proibizione di valutazioni postume
realizzato attraverso la previsione della
sanatoria dei c.d. "abusi minori" (v.
TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 05.03.2009
n. 1762; Sez. II, 09.12.2008 n. 5737).
Se questo è il quadro normativo di
riferimento, resta evidente l’illegittimità
del provvedimento impugnato, giacché
l’ufficio regionale ha applicato al caso di
specie una disposizione non più vigente al
tempo dell’adozione della dichiarazione di
compatibilità paesaggistica.
Con la conseguenza che il provvedimento
adottato è illegittimo, e che lo stesso
ufficio regionale dovrà provvedere
nuovamente sull’istanza del
controinteressato alla luce del nuovo testo
degli artt. 146 e 167 citati per verificare
se nel caso di specie ricorrono le
condizioni per l’applicabilità della
fattispecie derogatoria introdotta nel 2006.
In particolare dovrà essere valutato se
l’abuso del quale oggi si discute sia o meno
sussumibile nella categoria del volume
tecnico, come già questo Tribunale ha
escluso sia pure nella cognizione sommaria
propria del giudizio cautelare.
L’illegittimità del provvedimento di
compatibilità paesaggistica comporta, in via
derivata, l’illegittimità e la caducazione
anche dell’accertamento di conformità n. 11
del 25.03.2010 rilasciato, su tale
presupposto, dal Comune di Carloforte.
Salvi naturalmente gli ulteriori
provvedimenti che le amministrazioni
competenti alla definizione del procedimento
riterranno di adottare (TAR Sardegna, Sez.
II,
sentenza 07.03.2012 n. 249 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
regola della pubblicità delle sedute di gara
si applica in via generale e ad ogni tipo di
procedura.
L’Adunanza plenaria 28.07.2011, n. 13,
superando ogni precedente contrasto di
giurisprudenza, ha affermato, in via
generale e con riferimento a ogni tipo di
procedura, il principio secondo cui la
pubblicità delle sedute di gara risponde
all'esigenza di tutela non solo della parità
di trattamento dei concorrenti, ai quali
deve essere permesso di effettuare gli
opportuni riscontri sulla regolarità formale
degli atti prodotti e di avere così la
garanzia che non siano successivamente
intervenute indebite alterazioni, ma anche
dell'immanente interesse pubblico alla
trasparenza ed all'imparzialità dell'azione
amministrativa, le cui conseguenze negative
sarebbero difficilmente apprezzabili ex
post una volta rotti i sigilli ed aperti
i plichi e in mancanza di un riscontro
immediato; di qui il corollario che la
regola dell'apertura dei plichi in seduta
pubblica deve essere rispettata, in corretta
interpretazione dei principi comunitari e di
diritto interno in materia di trasparenza e
di pubblicità nelle gare per i pubblici
appalti, anche per l’apertura delle buste
contenenti le offerte tecniche (mentre in
precedenza parte della giurisprudenza
riferiva tale dovere soltanto all'apertura
delle buste recanti la documentazione
amministrativa)
(massima tratta da
www.dirittodegliappaltipubblici.it -
C.G.A.R.S.,
sentenza
06.03.2012 n. 276 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Sono
tenuti a rendere le dichiarazioni di cui
all'art. 38 tutti i soggetti ai quali
vengono attribuite o delegate funzioni in
grado di orientare l'assetto gestionale
dell'impresa.
A differenza degli appalti di lavori, per i
quali la figura del direttore tecnico è
quella che integra i requisiti di cui
all’art. 26 del d.P.R. n. 34 del 2000, nelle
gare per l’aggiudicazione di appalti di
servizi e di forniture, va individuato quale
«direttore tecnico» ai sensi
dell’art. 38, comma 1, lett. c), qualunque
soggetto al quale, pur in assenza di
specifica individuazione statutaria, vengano
attribuite o delegate funzioni in grado di
orientare, ancorché per determinati settori,
l’assetto gestionale dell’impresa, e ciò
mediante l’esercizio di poteri che per la
loro ampiezza sono in grado di aggiungersi e
sostanzialmente di sovrapporsi a quelli
degli organi societari (massima tratta
da www.dirittodegliappaltipubblici.it -
C.G.A.R.S.,
sentenza
06.03.2012 n. 275 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L’accoglimento
del motivo di incompetenza dell’organo che
ha provveduto assorbe ogni altro motivo
dedotto nel ricorso.
E' principio generale del processo
amministrativo che l’accoglimento di un
vizio-motivo di incompetenza dell’organo che
ha provveduto è, intrinsecamente e
necessariamente, assorbente di ogni altro
vizio-motivo dedotto nel ricorso; giacché
tale vizio accolto, per la sua stessa
natura, inficia tutti gli atti successivi,
che inevitabilmente dovranno essere
reiterati dall’organo competente.
L’unica eccezione, può verificarsi nei casi
in cui la parte ricorrente abbia
espressamente graduato l’ordine di esame dei
motivi di ricorso in modo diverso; la
subordinazione dell’esame del motivo di
incompetenza agli altri di merito non può
che intendersi come una rinuncia del
ricorrente a far valere il vizio di
incompetenza, per l’ipotesi che il giudice
ritenga fondati gli altri motivi di cui si è
chiesto l’esame in via principale, e con il
corollario che in ogni caso di loro
accoglimento il profilo della competenza
dell’organo non andrà affatto affrontato,
dovendo viceversa essere esaminato solo ove
gli altri motivi siano stati tutti respinti.
L'organo dichiarato competente non è
vincolato, nel successivo riesame
dell’affare che a lui spetta, dalla
statuizione -di rigetto o di accoglimento-
dei motivi di merito che il giudice abbia
reso unitamente all’accoglimento del vizio
di incompetenza
(massima tratta da
www.dirittodegliappaltipubblici.it -
C.G.A.R.S.,
sentenza
06.03.2012 n. 273 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI:
Scatta l'ingiuria anche se
l'epiteto è espresso col labiale.
Scatta il reato di
ingiuria anche se gli insulti sono espressi
esclusivamente attraverso i movimenti delle
labbra.
La Corte di Cassazione, Sez. V penale, con
la
sentenza 05.03.2012 n. 8558, ha
respinto il ricorso dell’imputata già
condannata a 200 euro di multa ed al
risarcimento dei danni e delle spese dal
giudice di pace di Gallipoli, sentenza poi
confermata dal tribunale di Lecce, per aver
proferito alla vicina gli epiteti “faccia
di troia, faccia di puttana”.
Tutte le doglianze della difesa sono state
respinte. In primis, la Suprema corte
ha chiarito che imputato e difensore devono
avere l’ultima parola a pena di nullità, se
lo domandano, unicamente nell’ambito dello
svolgimento della discussione. “Correttamente
-invece, spiega la sentenza- il tribunale ha
rilevato che le norme che stabiliscono
l’ordine di assunzione delle prove hanno
natura ordinatoria e per la loro violazione
non è prevista alcuna ipotesi di nullità o
di inutilizzabilità”.
Inoltre le dichiarazioni della parte offesa
costituitasi parte civile “sono
ugualmente valutabili e utilizzabili ai fini
della tesi di accusa”, perché il
processo penale rispondendo “all’interesse
pubblicistico di accertare la responsabilità
dell’imputato”, non può essere
condizionato dall’interesse individuale
rispetto ai profili privatistici.
In definitiva, per i giudici risulta
accertato che l’imputata “ha compiuto
movimenti labiali, espressivi di una delle
parole usualmente utilizzate, per esporre in
maniera volgare e diretta, nei confronti di
destinatario di sesso femminile, un giudizio
negativo sulla eticità di un suo
comportamento o del suo stile di vita”
(commento tratto da e link a
www.diritto24.ilsole24ore.com). |
APPALTI: Rimessa
all'Adunanza Plenaria la questione della
"gravità" della irregolarità contributiva e
della discrezionalità della Stazione
appaltante in presenza di un DURC
irregolare.
Il d.l. n. 70/2011, ha inserito nel comma 2
dell’art. 38 una previsione volta a dare
rilevanza al d.u.r.c. e ad escludere ogni
discrezionalità della stazione appaltante
nella valutazione della gravità delle
violazioni previdenziali e assistenziali.
Viene stabilito, in particolare, che ai fini
del comma 1, lett. i), dell’art. 38, si
intendono gravi le violazioni ostative al
rilascio del documento unico di regolarità
contributiva di cui all'art. 2, comma 2,
d.l. 25.09.2002 n. 210, convertito in
l. 22.11.2002 n. 266.
La VI Sezione del Consiglio di Stato, visto
il contrasto giurisprudenziale precedente
all'entrata in vigore del Decreto Sviluppo,
rimette all'Adunanza Plenaria la questione
della “gravità” della irregolarità
contributiva, affinché sia chiarito se anche
prima del 14.05.2011, la presenza di un DURC irregolare, valesse ad escludere ogni
valutazione discrezionale della stazione
appaltante (massima tratta da
www.dirittodegliappaltipubblici.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
ordinanza
05.03.2012 n. 1245 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'inserimento di documentazione
afferente l'offerta economica all'interno
della busta relativa all'offerta tecnica
legittima l'esclusione da gara.
Nel caso di specie l'offerente aveva
inserito la dichiarazione concernente i
tempi di esecuzione dei lavori oggetto di
appalto nella busta contenente l’offerta
tecnica, in violazione puntuale prescrizione
del bando di gara che invece ne aveva
imposto la presentazione nell’ambito
dell’offerta economica.
Ad avviso dei giudici di prima cure ciò ha
irrimediabilmente pregiudicato le esigenze
di segretezza che presidiano lo svolgimento
della procedura e, conseguentemente, la
parità di trattamento tra i concorrenti.
Tale orientamento risulta confermato dai
giudici di Palazzo Spada in virtù del
principio consolidato secondo il quale "la
separazione tra le fasi di valutazione
dell’offerta tecnica e di quella economica,
propria delle procedure di affidamento da
aggiudicare con il criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa, è
finalizzato ad evitare che la commissione di
gara sia influenzata nella valutazione
dell’offerta tecnica dalla conoscenza di
elementi dell’offerta economica".
I giudici ritengono che ciò comporti un
inevitabile perturbamento del processo
valutativo che impone necessariamente, a
tutela dei principi di parità di trattamento
e trasparenza, l’esclusione del concorrente
dalla gara che abbia determinato tale
sovrapposizione, anche in assenza di
espresse comminatorie espulsive della legge
di gara (commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it -
Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 01.03.2012 n. 1196
- link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Indennità di vigilanza e indennità di
disagio.
Dopo il Giudice del Lavoro di Verona
(sentenza 23.02.2012) anche il Tribunale
di Rimini, con la
sentenza
01.03.2012 n. 122, si esprime sulla
cumulabilità dell'indennità di vigilanza con
l'indennità di disagio; questa volta il
Giudice esamina la fattispecie in relazione
alle previsioni del CCNL, del contratto
decentrato integrativo stipulato nell'ente e
della nullità della clausola negoziale (che
il Tribunale ritiene non sussistere) (tratto da www.publika.it). |
APPALTI SERVIZI:
Il mancato rispetto dei limiti tabellari
afferenti il costo del lavoro non determina
l'automatica esclusione dalla gara pubblica.
La doglianza centrale sulla quale lo stesso
è basato si ricollega allo scostamento
rinvenibile tra i valori retributivi
riferiti dall’aggiudicataria nelle proprie
giustificazioni e quelli recati, invece,
dalle tabelle ministeriali annesse al D.M.
25.02.2009 (“Determinazione del costo
medio orario del lavoro dei dipendenti da
imprese esercenti servizi di pulizia …”),
nonché dal CCNL del 19.12.2007.
A tale riguardo la Sezione, premesso un
doveroso richiamo al consolidato principio
(già ricordato dal primo Giudice) per cui il
mancato rispetto dei limiti tabellari
afferenti il costo del lavoro non determina
l'automatica esclusione dalla gara pubblica,
ma costituisce un –pur importante- indice di
anomalia dell'offerta, che dovrà essere
verificata mediante un giudizio complessivo
di rimuneratività (cfr., tra le tante,
C.d.S., III, 07.03.2011, n. 1419; VI,
21.07.2010, n. 4783; V, 07.10.2008, n.
4847), intende mettere in luce soprattutto
che, se già in via generale i dati recati
dalle predette tabelle non sono
inderogabili, e quindi non sono in grado di
vincolare la valutazione di anomalia per le
offerte delle comuni società lucrative, la
valenza delle stesse tabelle diventa a
maggior ragione solo indicativa nei
confronti di società, come le cooperative,
il cui costo del lavoro è per varie ragioni
più contenuto.
D’altra parte, mentre le tabelle anzidette
esprimono dei costi “medi”, per le
cooperative, invece, per quanto si è detto
sopra, il vincolo posto dall’art. 3 della
legge n. 142/2001 si traduce essenzialmente-
almeno nel contesto proprio della presente
causa- in un vincolo a corrispondere al
socio lavoratore un trattamento economico
complessivo non inferiore ai minimi previsti
dalla contrattazione collettiva. E proprio
la garanzia del rispetto degli anzidetti
minimi, e nulla di più, era pretesa
dall’art. 11.2 del capitolato speciale (“L’impresa
dovrà corrispondere ai propri dipendenti
almeno il trattamento minimo spettante in
base agli accordi nazionali e locali vigenti”),
e doveva pertanto ispirare la verifica di
congruità sub judice (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 29.02.2012 n. 1183 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'esame delle
giustificazioni presentate dal soggetto che
è tenuto a dimostrare la non anomalia
dell'offerta è vicenda che rientra nella
discrezionalità tecnica
dell'Amministrazione, per cui soltanto in
caso di macroscopiche illogicità, vale a
dire di errori di valutazione evidenti e
gravi, oppure di valutazioni abnormi o
affette da errori di fatto, il giudice della
legittimità può intervenire, restando per il
resto la capacità di giudizio confinata
entro i limiti dell'apprezzamento tecnico
proprio di tale tipo di discrezionalità.
Nel caso di ricorso proposto avverso il
giudizio di anomalia dell'offerta presentata
in una pubblica gara, il Giudice
amministrativo possa sindacare le
valutazioni compiute dall’Amministrazione
sotto il profilo della loro logicità e
ragionevolezza e della congruità
dell'istruttoria, mentre non possa invece
operare autonomamente la verifica della
congruità dell'offerta presentata e delle
sue singole voci, sovrapponendo così la sua
idea tecnica al giudizio -non erroneo né
illogico- formulato dall'organo
amministrativo cui la legge attribuisce la
tutela dell'interesse pubblico
nell'apprezzamento del caso concreto,
poiché, così facendo, il Giudice invaderebbe
una sfera propria della P.A..
Si precisa poi sovente che il giudizio di
verifica della congruità di un'offerta
potenzialmente anomala ha natura globale e
sintetica, vertendo sulla serietà o meno
dell'offerta nel suo insieme.
L'attendibilità della offerta va cioè
valutata nel suo complesso, e non con
riferimento alle singole voci di prezzo
ritenute incongrue, avulse dalla incidenza
che potrebbero avere sull'offerta economica
nel suo insieme; questo ferma restando la
possibile rilevanza del giudizio di
inattendibilità che dovesse investire voci
che, per la loro rilevanza ed incidenza
complessiva, potrebbero rendere l'intera
operazione economica implausibile e, per
l'effetto, insuscettibile di accettazione da
parte dell’Amministrazione, in quanto
insidiata da indici strutturali di carente
affidabilità.
Il giudizio di anomalia postula una
motivazione rigorosa ed analitica ove si
concluda in senso sfavorevole all’offerente,
mentre non si richiede, di contro, una
motivazione analitica nell’ipotesi di esito
positivo della verifica di anomalia, nel
qual caso è sufficiente motivare per
relationem con riferimento alle
giustificazioni presentate dal concorrente
(sempre che a loro volta adeguate). Di
conseguenza, in questa seconda evenienza
incombe su chi contesti l'aggiudicazione
l'onere di individuare gli specifici
elementi da cui il Giudice amministrativo
possa evincere che la valutazione
tecnico-discrezionale dell'Amministrazione
sia stata manifestamente irragionevole,
ovvero basata su fatti erronei o travisati.
Nelle procedure per l'aggiudicazione di
appalti pubblici l'esame delle
giustificazioni presentate dal soggetto che
è tenuto a dimostrare la non anomalia
dell'offerta è vicenda che rientra nella
discrezionalità tecnica
dell'Amministrazione, per cui soltanto in
caso di macroscopiche illogicità, vale a
dire di errori di valutazione evidenti e
gravi, oppure di valutazioni abnormi o
affette da errori di fatto, il giudice della
legittimità può intervenire, restando per il
resto la capacità di giudizio confinata
entro i limiti dell'apprezzamento tecnico
proprio di tale tipo di discrezionalità
(C.d.S., V, 18.08.2010, n. 5848; 23.11.2010,
n. 8148; 22.02.2011, n. 1090).
La giurisprudenza è altresì saldamente
orientata nel senso che, nel caso di ricorso
proposto avverso il giudizio di anomalia
dell'offerta presentata in una pubblica
gara, il Giudice amministrativo possa
sindacare le valutazioni compiute
dall’Amministrazione sotto il profilo della
loro logicità e ragionevolezza e della
congruità dell'istruttoria, mentre non possa
invece operare autonomamente la verifica
della congruità dell'offerta presentata e
delle sue singole voci, sovrapponendo così
la sua idea tecnica al giudizio -non erroneo
né illogico- formulato dall'organo
amministrativo cui la legge attribuisce la
tutela dell'interesse pubblico
nell'apprezzamento del caso concreto,
poiché, così facendo, il Giudice invaderebbe
una sfera propria della P.A. (C.d.S., IV,
27.06.2011, n. 3862; V, 28.10.2010, n.
7631).
Si precisa poi sovente che il giudizio di
verifica della congruità di un'offerta
potenzialmente anomala ha natura globale e
sintetica, vertendo sulla serietà o meno
dell'offerta nel suo insieme.
L'attendibilità della offerta va cioè
valutata nel suo complesso, e non con
riferimento alle singole voci di prezzo
ritenute incongrue, avulse dalla incidenza
che potrebbero avere sull'offerta economica
nel suo insieme (V, 01.10.2010, n. 7262;
11.03.2010 n. 1414); questo ferma restando
la possibile rilevanza del giudizio di
inattendibilità che dovesse investire voci
che, per la loro rilevanza ed incidenza
complessiva, potrebbero rendere l'intera
operazione economica implausibile e, per
l'effetto, insuscettibile di accettazione da
parte dell’Amministrazione, in quanto
insidiata da indici strutturali di carente
affidabilità (V, 28.10.2010, n. 7631).
E’ ormai acquisito anche l’ulteriore punto
per cui il giudizio di anomalia postula una
motivazione rigorosa ed analitica ove si
concluda in senso sfavorevole all’offerente,
mentre non si richiede, di contro, una
motivazione analitica nell’ipotesi di esito
positivo della verifica di anomalia, nel
qual caso è sufficiente motivare per
relationem con riferimento alle
giustificazioni presentate dal concorrente
(sempre che a loro volta adeguate). Di
conseguenza, in questa seconda evenienza
incombe su chi contesti l'aggiudicazione
l'onere di individuare gli specifici
elementi da cui il Giudice amministrativo
possa evincere che la valutazione
tecnico-discrezionale dell'Amministrazione
sia stata manifestamente irragionevole,
ovvero basata su fatti erronei o travisati (VI,
03.11.2010, n. 7759; V, 22.02.2011, n. 1090;
23.11.2010, n. 8148) (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 29.02.2012 n. 1183 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Datazione interventi e
prescrizione.
In tema di reati edilizi, l'incertezza
assoluta sulla data di commissione del reato
o, comunque, sull'inizio del termine di
prescrizione che consente l'applicazione del
principio del favor rei non ammette alcun
automatismo e deve risultare da dati
obiettivi.
Il giudice è comunque tenuto all'indicazione
delle ragioni per le quali non è possibile
pervenire, anche sulla base di deduzioni
logiche, ad una più puntuale collocazione
temporale dell'intervento abusivo (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.02.2012 n.
7065 - tratto da www.lexambiente.it). |
APPALTI SERVIZI:
Per la gestione di un servizio di
mensa scolastica è indispensabile il
requisito dell’esperienza.
Come condivisibilmente affermato in
giurisprudenza «la gestione di un
servizio di mensa scolastica non [è] affatto
paragonabile alla generica ristorazione
collettiva e, tanto meno, alla semplice
fornitura di generi alimentari (…) tale
“assimilazione è improponibile anche solo a
voler considerare la fattura dei pasti,
relativamente ai quali, per i bambini
nell'età della crescita e dello sviluppo,
occorre seguire particolari canoni dietetici
e richiedono, quindi, anche nei casi in cui
i pasti siano stati già prestabiliti sulla
base delle prescrizioni di esperti
dell'alimentazione dell'infanzia, una
sperimentata e non un'improvvisata perizia
di esecuzione.
La gestione di una mensa per l'infanzia,
inoltre, non si esaurisce nella sola
attività materiale di distribuzione dei
pasti, ma comprende, per i risvolti di
ordine educativo e psicologico che implica
la particolarità dei soggetti ai quali è
destinata, anche un'attività di assistenza
che, per quanto soggetta alla vigilanza e
alla supervisione del personale docente
scolastico, può essere espletata solo da
personale qualificato e munito di specifiche
ed adeguate conoscenze” (così testualmente
Cons. St., sez. V, n. 4237/2001, cit.)»
(cfr.: Consiglio di Stato, sez. V,
29.08.2006, n. 5035) (TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 20.02.2012 n. 136 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Piscine e disciplina antisismica.
Gli artt. 83 e seguenti del d.P.R. n. 380
del 2001 devono essere interpretati nel
senso che non escludono le piscine. Tali
disposizioni si applicano, infatti, a tutte
le costruzioni la cui sicurezza possa
interessare la pubblica incolumità, a nulla
rilevando la natura dei materiali usati e
delle strutture realizzate, stante
l'esigenza di massimo rigore nelle zone
dichiarate sismiche, che rende necessari i
controlli e le cautele prescritte anche
quando si impiegano elementi strutturali
meno solidi e duraturi rispetto alla
muratura ed al cemento armato.
Né alcun rilievo può assumere il carattere
eventualmente precario della costruzione,
proprio in considerazione delle prevalenti
esigenze di sicurezza alla tutela delle
quali la normativa antisismica si correla
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.02.2012 n.
6591 - tratto da www.lexambiente.it). |
APPALTI:
Art. 38, comma 1, lettera f), del
d.lgs. n. 163 del 2006 - Valutazione di
inaffidabilità da parte della stazione
appaltante - Ampia discrezionalità -
Sindacato da parte del giudice
amministrativo - Limiti - Adozione del
criterio della "non condivisione" -
Superamento dei limiti esterni della
giurisdizione.
In tema di appalti pubblici le Sezioni Unite
della Corte di cassazione, con due sentenze
in pari data, hanno affermato che il
Consiglio di Stato eccede dai limiti della
propria giurisdizione, sconfinando nella
sfera della discrezionalità amministrativa,
qualora – in relazione all’impugnazione di
provvedimenti di esclusione dalla
possibilità di partecipare ad un bando di
gara per inaffidabilità dell’appaltatore –
li annulli sulla base della non condivisione
degli elementi posti dalla P.A., senza
ravvisare la pretestuosità di tale
valutazione (Corte di Cassazione, Sezz.
Unite civili,
sentenza 17.02.2012 n. 2312 e
sentenza 17.02.2012 n. 2313 -
link a www.cortedicassazione.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Rilascio del permesso di
costruire e potere-dovere
dell'amministrazione.
Nel procedimento di rilascio del permesso di
costruire l'amministrazione comunale ha il
potere-dovere di verificare l'esistenza, in
capo al richiedente, di un titolo idoneo al
godimento dell'intero bene interessato dal
progetto e ciò pure a fronte della pacifica
circostanza che il titolo abilitativo finale
è comunque sempre rilasciato "facendo
salvi i diritti dei terzi”. Si tratta di
un'attività istruttoria che non è diretta a
risolvere i conflitti di interesse tra le
parti private in ordine all'assetto
proprietario degli immobili, ma che risulta
invece finalizzata ad accertare il requisito
della legittimazione soggettiva del
richiedente.
L'esame del titolo di godimento operato
dall'amministrazione, infatti, non
costituisce una sorta di eccezionale
intrusione in un ambito privatistico, ma
rappresenta la coerente applicazione del
principio secondo cui l'autorità pubblica
deve sempre riscontrare la legittimazione
del soggetto che propone un'istanza, nel
contesto della generale esigenza di verifica
sull'ordinato svolgimento delle attività
sottoposte al controllo autorizzatorio
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.02.2012 n.
5633 - tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nozione di costruzione.
La definizione delle opere di nuova
costruzione è data dall'art. 3, lett. e),
del dpr 380/2001 con indicazione di
carattere residuale comprendente tutti
quegli interventi di trasformazione
urbanistica ed edilizia del territorio non
rientranti nelle categorie della
manutenzione, del restauro o del risanamento
conservativo che hanno, come conseguenza, la
trasformazione permanente del suolo inedificato.
Costituisce, pertanto, "costruzione"
in senso tecnico-giuridico qualsiasi
manufatto tridimensionale, comunque
realizzato, che comporti una ben definita
occupazione del terreno e dello spazio aereo
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.02.2012 n.
5624 - tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Titolo abilitativo edilizio e
suddivisione attività edificatoria.
Il regime dei titoli abilitativi edilizi non
può essere eluso attraverso la suddivisione
dell'attività edificatoria finale nelle
singole opere che concorrono a realizzarla,
astrattamente suscettibili di forme di
controllo preventivo più limitate per la
loro più modesta incisività sull'assetto
territoriale.
L'opera deve essere considerata
unitariamente nel suo complesso, senza che
sia consentito scindere e considerare
separatamente i suoi singoli componenti
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.02.2012 n.
5618 - tratto da www.lexambiente.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il sindaco non può utilizzare le
ordinanze per esigenze prevedibili ed
ordinarie.
L’art. 50, comma 5, d.lgs. 267 del 2000 così
recita: “In particolare, in caso di
emergenze sanitarie o di igiene pubblica a
carattere esclusivamente locale le ordinanze
contingibili e urgenti sono adottate dal
sindaco, quale rappresentante della comunità
locale. Negli altri casi l'adozione dei
provvedimenti d'urgenza, ivi compresa la
costituzione di centri e organismi di
referenza o assistenza, spetta allo Stato o
alle regioni in ragione della dimensione
dell'emergenza e dell'eventuale
interessamento di più ambiti territoriali
regionali”.
Il Sindaco di Cagliari, di fronte ad una
segnalazione dell’ASL che richiedeva
l’adozione di provvedimenti al fine di
eliminare l’inconveniente riscontrato (la
presenza di animali da considerarsi non
accettabile nel centro cittadino), da un
lato ha omesso di intervenire, dall’altro ha
utilizzato il potere di ordinanza di cui
all’art. 50 d.lgs. 267/2000 per consentire
la detenzione di animali.
La manifesta fondatezza del ricorso e la
grave illegittimità del provvedimento sotto
diversi profili inducono ad esaminare
congiuntamente le censure dedotte dalla
ricorrente.
E’ agevole ricordare che il potere di
ordinanza sindacale di cui agli artt. 50,
comma 5, e 54 d.lgs. n. 267 del 2000 ha
connotati di intervento extra ordinem
giustificato solo da circostanze
imprevedibili che sono all'origine di vere e
proprie emergenze igienico-sanitarie non
fronteggiabili con mezzi ordinari.
Il potere che il Sindaco esercita
nell’emanare ordinanze contingibili ed
urgenti presuppone, quindi, oltre
all'esistenza ed indicazione, nel
provvedimento, di una situazione di
pericolo, quale ragionevole probabilità che
accada un evento dannoso ove la P.A. non
intervenga prontamente, anche, o meglio
soprattutto, la necessità di provvedere con
immediatezza in riferimento a situazioni di
carattere eccezionale ed imprevedibile, cui
sia impossibile fare fronte con gli
strumenti ordinari apprestati
dall'ordinamento.
In definitiva, ai sensi degli artt. 50 e 54
del Testo Unico enti locali, per
giustificare il ricorso allo strumento
dell'ordinanza, va precisato che il
collegamento con esigenze di protezione
dell'igiene e della salute pubblica
costituisce presupposto necessario ma non
certo sufficiente, qualora non sussistano
gli ulteriori particolari requisiti di
urgenza.
Va poi ricordato che il potere di ordinanza
incontra oltre ai limiti sopra citati (la
presenza dei presupposti per il suo
esercizio) precisi limiti procedimentali.
L’eccezionalità del potere da esercitare e
l’atipicità contenutistica dell’atto da
adottare impongono all’Amministrazione una
dettagliata indicazione dei motivi che hanno
indotto ad emanare un atto eccezionale. Né
l’urgenza di adottare l’atto può consentire
di omettere una adeguata fase istruttoria.
Nel caso sottoposto all’attenzione del
Collegio il Sindaco ha:
1) utilizzato il potere di ordinanza
previsto dall’art. 50 del testo Unico enti
locali (per il caso di emergenze sanitarie o
di igiene pubblica) senza che ve ne fossero
i presupposti (l'ordinanza contingibile ed
urgente non può essere utilizzata per
soddisfare esigenze che siano invece
prevedibili ed ordinarie);
2) ha realizzato il risultato di consentire
la detenzione di animali nei parchi e
giardini pubblici e privati la cui
superficie risulti uguale o superiore a
7.000 mq con un'azione connotata da un
manifesto sviamento di potere, mediante
l'esercizio di una potestà pubblica
formalmente diversa, in palese carenza dei
presupposti che la giustificassero;
3) ha adottato il provvedimento in carenza
assoluta di adeguata istruttoria;
4) ha omesso qualunque forma di motivazione
dell’atto.
Sono pertanto fondati tutti i motivi di
ricorso che deve essere accolto con
conseguente annullamento dell’atto impugnato
(TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 10.02.2012 n. 110 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Fertirrigazione.
La pratica della “fertirrigazione”,
la cui disciplina si pone in deroga alla
normativa sui rifiuti, rispetto alla quale è
autonoma ed indipendente e non richiede che
gli effluenti provengano da attività
agricola e siano riutilizzati nella stessa
attività agricola, presuppone l'effettiva
utilizzazione agronomica delle sostanze, la
quale implica che essa sia di una qualche
utilità per l'attività agronomica e lo
stato, le condizioni e le modalità di
utilizzazione delle sostanze compatibili con
tale pratica, con la conseguenza che, in
difetto, essa resta sottoposta alla
disciplina generale sui rifiuti (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.02.2012 n.
5039 - tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Modifica destinazione di uso.
Nell'ipotesi in cui si abbia una
modificazione della destinazione d'uso
dell'immobile rispetto a quella
preesistente, senza la realizzazione di
opere, e salva l'ipotesi di modificazioni
poste in essere tra categorie omogenee è
configurabile la fattispecie
contravvenzionale di cui all'art. 44, primo
comma lett. a), del DPR n. 380/2001, che
ripete sostanzialmente la formulazione
dell'art. 20, lett. a), della L. n. 47/1985,
stante la inosservanza delle prescrizioni
dello strumento urbanistico, allorché detta
modificazione risulti incompatibile con le
previsioni in esso contenute (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.02.2012 n.
4943 - tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Parcheggi realizzati oltre gli
standard normativi sono liberamente
cedibili.
Con una sentenza complessa e articolata, la
Corte di Cassazione interviene nuovamente in
tema di parcheggi offendo precise risposte
nella ipotesi di realizzazioni oltre lo
standard. In particolare, individua il
seguente principio: i
parcheggi realizzati in eccedenza rispetto
allo spazio minimo richiesto dall'art. 2,
legge n. 122 del 1989 non sono soggetti a
vincolo pertinenziale a favore delle unità
immobiliari del fabbricato, conseguentemente
l'originario proprietario-costruttore
dell'edificio può legittimamente riservarsi
o cedere a terzi la proprietà di tali
parcheggi, purché nel rispetto del vincolo
di destinazione nascente da atto d'obbligo.
Nel caso di specie due coniugi, proprietari
di un appartamento, avevano acquistato dal
proprietario-costruttore due box ed un posto
auto, ma dopo la loro immissione nel
possesso dei beni, la società venditrice
aveva abusivamente occupato il posto auto
loro assegnato. Da qui la richiesta al
giudice di prime cure di dichiarare il loro
diritto di proprietà del posto auto in
precedenza loro assegnato o comunque un
posto auto non inferiore a mq 30,40, oltre
al risarcimento dei danni. In primo grado il
tribunale dichiarava gli attori proprietari
di un posto auto di superficie non inferiore
a mq 24,00, condannandoli al pagamento del
corrispettivo del prezzo del posto auto.
Successivamente, in sede di appello
–proposto dal successore a titolo
particolare della società– la Corte
distrettuale sosteneva la sentenza
impugnata, evidenziando che la riserva di
spazi di parcheggi in misura non inferiore
ad un mq per ogni 10 metri cubi di
costruzione (cfr. art. 2, l. 122/1989) non
era confutata dal fatto di avere i due
coniugi acquistato due box per ricovero
delle vetture, poiché secondo la
giurisprudenza prevalente della Cassazione,
giurisprudenziale pur essendo i box oggetto
di autonomo diritto di proprietà, non poteva
essere escluso il vincolo pertinenziale tra
l'appartamento ed il posto auto, essendo
attribuita soltanto a quest'ultimo la
funzione di soddisfare la previsione
normativa. Da qui, l’irrilevanza
dell’acquisto da parte dei coniugi dei due
box auto. Inoltre, veniva mantenuto il
riconoscimento alla società del
corrispettivo per il trasferimento del
diritto all’uso e al godimento dell’area di
parcheggio.
Avverso la sentenza propone ricorso per
cassazione il successore a titolo
particolare e controricorso i due coniugi. I
giudici di Piazza Cavour ricostruiscono il
complesso percorso giurisprudenziale e
dottrinario sviluppato negli ultimi anni
evidenziando i punti di snodo della
disciplina delle aree di parcheggio nei
condomini.
La questione essenziale affrontata dagli
Ermellini è se i parcheggi realizzati in
eccedenza rispetto alla superficie minima
inderogabilmente richiesta dalla normativa
pubblicistica richiamata (art. 2) siano
soggetti al diritto d'uso da parte degli
acquirenti delle singole unità immobiliari
dell'edificio ovvero ad un diverso regime.
Al riguardo, la Suprema Corte non condivide
la decisione della Corte distrettuale.
Quest’ultima, infatti, nell’estendere ai
parcheggi realizzati in eccedenza il vincolo
pertinenziale tra l’appartamento ed il posto
auto, ha argomentato la decisione con la
necessità di soddisfare la funzione
pubblicistica prevista dalla normativa. In
realtà, ciò non appare corretto perché
porterebbe alla conseguenza di non
distinguere i parcheggi che rientrano nello
standard legale e quelli che non vi
rientrano, tradendo la ratio della
legge che, giusta anche l’opinione pacifica
in dottrina, consente l’utilizzazione e la
circolazione libera dei parcheggi che
eccedono lo standard vincolistico imposto.
Sotto il profilo civilistico –si legge nella
sentenza– i parcheggi realizzati
(all’interno degli standard ndr) non possono
essere ceduti separatamente dall’unità
immobiliare alla quale sono legati da
vincolo pertinenziale, sotto pena di
nullità. Situazione diversa è per i posti in
auto in sovrannumero, i quali possono essere
liberamente ceduti in quanto realizzati in
eccedenza rispetto agli standard fissati
dalla legge.
Da qui la decisione di cassare la sentenza
impugnata, rinviando per le spese di
giudizio ad altra sezione della Corte
territoriale (Corte di Cassazione, Sez. II
civile,
sentenza 03.02.2012 n. 1664 -
link a www.altalex.com). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Competenze professionali nel
settore dell’architettura in caso di
interventi su immobili storici e artistici.
Dubbi circa la compatibilità con le
direttive comunitarie (il Consiglio di Stato
rimette alla Corte di giustizia dell’Unione
europea, ai sensi dell’art. 267 del TFUE,
varie questioni interpretative
pregiudiziali).
In materia di disciplina delle competenze
professionali degli architetti per le
prestazioni sugli immobili di interesse
culturale, vanno sottoposti alla Corte di
Giustizia dell’Unione europea i seguenti
quesiti:
a) se la direttiva comunitaria n. 85/384/CE,
nella parte in cui ammette (artt. 10 e 11),
in via transitoria, all’esercizio delle
attività nel settore dell’architettura i
soggetti migranti muniti dei titoli
specificamente indicati, non osta a che in
Italia sia ritenuta legittima una prassi
amministrativa, avente come base giuridica
l’art. 52, 2° comma, parte prima del r.d. n.
2537 del 1925, che riservi specificamente
taluni interventi sugli immobili di
interesse artistico soltanto ai candidati
muniti del titolo di "architetto"
ovvero ai candidati che dimostrino di
possedere particolari requisiti curriculari,
specifici nel settore dei beni culturali e
aggiuntivi rispetto a quelli genericamente
abilitanti l’accesso alle attività
rientranti nell’architettura ai sensi della
citata direttiva;
b) se in particolare tale prassi può
consistere nel sottoporre anche i
professionisti provenienti da Paesi membri
diversi dall’Italia, ancorché muniti di
titolo astrattamente idoneo all’esercizio
delle attività rientranti nel settore
dell’architettura, alla specifica verifica
di idoneità professionale (ciò che avviene
anche per i professionisti italiani in sede
di esame di abilitazione alla professione di
architetto) ai limitati fini dell’accesso
alle attività professionali contemplate
nell’art. 52, comma secondo, prima parte del
Regio decreto n. 2357 del 1925 (massima
tratta da www.regione.piemonte.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
ordinanza 27.01.2012 n. 386 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Aria. Ubicazione industrie
insalubri.
La ubicazione di uno stabilimento che
effettui lavorazioni insalubri a distanza
tale da escludere immissioni nocive ai sensi
dell'art. 216 TULS deve intendersi
realizzata quando lo stabilimento sia
ubicato in zona che la pianificazione
riservi alle attività industriali e che
pertanto deve ritenersi isolata da una
adeguata zona di rispetto dagli insediamenti
di tipo residenziale.
Ciò non significa che siano eluse le
esigenze di tutela della salute pubblica dei
residenti a ridosso dell’area in questione.
Ma a tale proposito soccorrono gli obblighi
di adottare ogni tipo di accorgimento
tecnico in concreto necessario ad evitare
rischi nel corso dello svolgimento della
attività produttiva (massima tratta da
www.lexambiente.it - TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 26.01.2012 n.
112 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Un Tfr più ricco per gli statali.
Stop al prelievo sull'accantonamento a
titolo di rivalsa. Sentenza del Tar
Calabria: trattenuta illegittima (crea
disparità con i privati) e da restituire.
Sugli stipendi degli statali addio prelievo
sull'accantonamento per la buonuscita a
titolo di rivalsa. La trattenuta è
illegittima perché si configura una
disparità di trattamento con i dipendenti
del settore privato. Un gruppo di magistrati
amministrativi ricorrono al Tar e ottengono
la declaratoria di illegittimità del
prelievo di una quota della retribuzione
effettuato dall'amministrazione a titolo di
rivalsa sull'accantonamento per l'indennità
di buonuscita: scatta la restituzione delle
trattenute sugli accantonamenti, nella
misura del 2,50 per cento sull'80 per cento
della retribuzione, eseguite a partire dal
primo gennaio 2011 a oggi, più interessi e
rivalutazione.
Lo stabilisce il
TAR
Calabria-Reggio Calabria, nella
sentenza 18.01.2012 n. 53, che si riserva di sottoporre la
legittimità della norma alla Consulta.
Nel mirino il comma 10 dell'art. 12 del dl
78/2010, convertito dalla legge 122/2010.
L'area di riferimento è costituita dalle
anzianità contributive maturate a partire
dal primo gennaio 2011 dai «lavoratori alle
dipendenze delle amministrazioni pubbliche
inserite nel conto economico consolidato
della pubblica amministrazione, come
individuate dall'Istat ai sensi del comma 3
dell'articolo 1 della legge 196/2009, per i
quali il computo dei trattamenti di fine
servizio, comunque denominati, in
riferimento alle predette anzianità
contributive non è già regolato in base a
quanto previsto dall'articolo 2120 Cc»: il
computo del tfr, secondo la disposizione,
deve avvenire secondo la norma codicistica
con l'applicazione dell'aliquota del 6,91
per cento.
Secondo i magistrati ricorrenti
la novella implicherebbe l'abrogazione
nell'indennità di buonuscita
dell'accantonamento a titolo di rivalsa. Il
perdurare del prelievo discriminerebbe i
dipendenti pubblici rispetto a quelli del
settore privato che alla trattenuta per
rivalsa non sono soggetti. La novella
riforma in pieno l'istituto previdenziale e
non fa salva la rivalsa del 2,5 per cento:
la trattenuta, insomma, è del 6,91 per cento
su tutta la retribuzione. E crea squilibri
mantenere la rivalsa sul dipendente in
assenza della fascia esente del 20 per cento
(laddove la base di calcolo della ritenuta
era l'80 per cento dello stipendio e non
tutto l'importo).
Il risultato concreto è
una diminuzione di stipendio e tfr, con
l'unico effetto di alleggerire la porzione
di accantonamento a carico del datore:
l'applicazione congiunta delle nuove regole
sul tfr e della vecchia ritenuta a carico
del dipendente pubblico, infatti, farebbe in
modo che la quota a valere sulle casse
dell'amministrazione non sia del 6,91 per
cento, ma del 4,91 per cento, e il
trattamento economico dei dipendenti sarebbe
inciso al 2,50 per cento sull'80 per cento
della retribuzione e dunque, se calcolato
sull'intera retribuzione, nella misura del 2
per cento
(articolo ItaliaOggi del 15.03.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONDOMINIO:
E' illegittima la deliberazione
su questioni che non siano state inserite
all'ordine del giorno e che non siano state
oggetto di pregressa informativa ai
condomini partecipanti.
Laddove l'art. 1136 c.c., al comma VI,
prescrive che i partecipanti al condominio
edilizio debbano essere invitati alla
riunione assembleare, esso richiede, nel
contempo, che gli stessi debbano essere
previamente messi al corrente dei temi
oggetto della delibazione collegiale sì da
consentire una partecipazione effettiva e
concreta e permettere, nel contempo, di
poter operare le personali valutazioni in
merito anche all'opportunità o alla
necessità, in ragione del personale
interesse, a intervenire alla stessa; ne
consegue che l'eventuale deliberazione su
questioni che non siano state inserite
all'ordine del giorno e che non siano state
oggetto di pregressa informativa ai
condomini partecipanti, proprio perché
pregiudicante detto diritto alla
partecipazione effettiva e consapevole
normativamente sancito dagli artt. 1105 e
1136 c.c., è illegittima e, pertanto,
possibile oggetto di giudiziale gravame ai
sensi dell'art. 1137 c.c. (TRIBUNALE di
Roma, Sez. V,
sentenza 03.11.2011 n. 21319 -
link a www.neldiritto.it). |
AGGIORNAMENTO AL 12.03.2012 |
ã |
NOVITA' NEL
SITO |
Inserito nel sito il seguente
nuovo DOSSIER: ●
certificato di destinazione urbanistica. |
QUESITI &
PARERI |
APPALTI:
Esclusione dalla gara, quando sussiste il
reato grave?
Domanda
Cosa si intende con reato grave, per
giustificare l'esclusione dalla gara di
affidamento di appalti pubblici?
Risposta
L'Amministrazione nell'interesse a non
contrarre obbligazioni con soggetti che non
garantiscano adeguata moralità
professionale, ha la facoltà di escludere se
condannati per reato grave.
La gravità del reato deve essere valutata
secondo il riflesso che consegue alla
moralità professionale e il contenuto del
contratto oggetto della gara. In altri
termini la "gravità" del reato,
nell'accezione voluta dal Legislatore del
Codice dei Contratti con il citato art. 38,
è un concetto giuridico a contenuto
indeterminato, da valutarsi necessariamente
non soltanto in sé e per sé, ma di volta in
volta con riferimento ad una serie di
parametri quali la maggiore o minore
connessione con l'oggetto dell'appalto, il
lasso di tempo intercorso dalla condanna,
l'eventuale mancanza di recidiva, le ragioni
in base alle quali il Giudice penale ha
commisurato in modo più o meno lieve la pena
(07.03.2012 - tratto da
www.ipsoa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Verifica dell'interesse
culturale ai sensi dell'art. 12 del Codice
dei beni culturali e del paesaggio
(Ministero
per i Beni e le Attività Culturali, Ufficio
Legislativo,
nota
25.11.2011 n. 21034 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Quesito circa l'applicabilità
della depenalizzazione prevista dall'art.
181, comma 1-ter, ai beni paesaggistici
individuati con apposito provvedimento
(Ministero
per i Beni e le Attività Culturali, Ufficio
Legislativo,
nota
02.11.2011 n. 19606 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: quesito in merito all'articolo
6, comma 10, del D.P.R. n. 139/2010
(Ministero
per i Beni e le Attività Culturali, Ufficio
Legislativo,
nota
25.10.2011 n. 19196 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Piano Territoriale Paesistico
Regionale del Lazio - beni paesistici
individuati ai sensi dell'art. 134, comma 1,
lettera c), del Codice dei beni culturali e
del paesaggio
(Ministero
per i Beni e le Attività Culturali, Ufficio
Legislativo,
nota
18.10.2011 n. 18886 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Roma, Comprensorio archeologico
dell'Appia antica - richiesta di chiarimenti
in merito ai procedimenti d rilascio di
titoli abilitativi all'edificazione e ai
procedimenti di condono edilizio
(Ministero
per i Beni e le Attività Culturali, Ufficio
Legislativo,
nota
05.10.2011 n. 18056 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: ordinanza del TAR Puglia, Bari,
n. 790/2011
(Ministero
per i Beni e le Attività Culturali, Ufficio
Legislativo,
nota
05.07.2011 n. 12974 di prot.). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Trasformazione
da part-time a full-time e limiti alle
assunzioni.
Sul tema, ritorna la Corte dei Conti Sez.
Reg.le Lombardia, con il
parere 05.03.2012 n.
51 e conferma:
"... l'aumento delle ore lavorative del
personale in servizio è sicuramente
assimilabile ad una nuova assunzione nel
caso in cui il dipendente era stato assunto
a tempo parziale ..."
"Al contrario, si dovrebbe pervenire alla
conclusione che la trasformazione dei
rapporti di lavoro da tempo parziale a tempo
pieno non è assimilabile a nuova assunzione,
nel caso in cui i dipendenti siano stati
assunti originariamente a tempo pieno e
abbiano successivamente avuto una riduzione
dell'orario di lavoro..."
(tratto da www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Chi esagera con le progressioni
verticali paga i danni.
Responsabilità erariale per l'ente che non
rispetta il tetto del 50% delle assunzioni
dall'esterno. La corte dei conti bacchetta
l'università della Basilicata.
Un numero eccessivo di progressioni
verticali determina il maturare di
responsabilità amministrativa in capo agli
amministratori ed ai dirigenti che le hanno
disposte.
E' questo il principio stabilito
per la prima volta dalla Corte dei conti,
I Sez. giurisdizionale centrale,
sentenza 03.02.2012 n. 52.
Da sottolineare che la sentenza ha ribaltato
la pronuncia di primo grado che aveva
mandato assolto rettore, componenti il
consiglio di amministrazione e dirigenti
amministrativi della Università della
Basilicata, giudicando assente il requisito
della colpa grave. Nel caso specifico viene
rilevata una duplice illegittimità: la
mancata preventiva programmazione del
fabbisogno del personale ed il mancato
rispetto del tetto del 50% rispetto alle
assunzioni dall'esterno.
Il primo elemento che la sentenza mette in
evidenza è la necessità del rispetto da
parte di tutte le amministrazioni pubbliche,
ivi comprese le università, del vincolo alla
programmazione del fabbisogno delle
assunzioni. Per cui la mancata preventiva
adozione da parte dell'ente di questo
documento deve essere considerato come causa
di illegittimità dei provvedimenti di
progressione verticale che sono stati
adottati in violazione di tale principio. Il
contratto collettivo nazionale di lavoro del
personale delle università, ma disposizioni
analoghe sono contenute in tutti gli altri
contratti collettivi nazionali, ivi compreso
quello del personale degli enti locali
(esattamente l'articolo 4 del Ccnl
31.03.1999, cd nuovo ordinamento
professionale), prevede la possibilità di
effettuare progressioni verticali.
In via interpretativa è stato generalmente
inteso che questo tetto sia del 50% dei
posti da coprire. Si arriva a questa
conclusione sulla base del principio di cui
all'articolo 35 del dlgs n. 165/2011, che
prevede espressamente la necessità di
garantire «in misura adeguata l'accesso
dall'esterno». Questo tetto deve essere
calcolato in termini di bilanciamento tra i
posti messi a concorso pubblico e quelli
riservati alle progressioni e non con
riferimento al bilanciamento della spesa (si
consideri che il costo di una progressione
verticale è enormemente più basso di una
assunzione dall'esterno).
A differenza di
quanto ritenuto dai giudici contabili di
primo grado, non siamo in presenza di una
colpa lieve o scusabile; in quanto «gli
organi di amministrazione dell'università
erano in possesso di tutti gli elementi per
poter svolgere una politica del personale
esente da forzature del sistema e rispettosa
dei principi generali immanenti
all'ordinamento amministrativo». Si deve
affermare, al contrario, che «le condotte in
esame rientrano fra i canoni della colpa
intensa».
Nella quantificazione del danno occorre
tenere conto del fatto che «la gestione del
personale stretta fra i principi generale
dell'ordinamento, la legislazione primaria e
le norme derivanti dalla contrattazione,
integra sicuramente una materia di non
facile gestione. Se poi si considera
l'incertezza descritta del quadro normativo,
regolamentare e di indirizzo amministrativo–operativo nel quale i convenuti odierno si
sono trovati ad operare e, conseguentemente,
a decidere le più opportune e satisfattive
soluzioni di strategia e di gestione», si
deve arrivare alla conclusione della
riduzione della misura del danno.
Il
formarsi della prescrizione, per
giurisprudenza consolidata, non matura «con
riferimento alla condotta potenziale quanto
piuttosto con il momento in cui
l'amministrazione subisce l'effettiva
diminuzione patrimoniale. Si deve quindi
fare riferimento ad un danno verificatosi
con i pagamenti successivi ai provvedimenti
di approvazione dei bandi con cui si
indicevano le procedure selettive per cui è
causa»: da qui il mancato decorso del
quinquennio.
Nella individuazione dei responsabili, la
sentenza evidenza in primo luogo
l'importanza del ruolo svolto dai direttori
amministrativi, che non possono essere
definiti come dei passacarte. Analoga
responsabilità matura nei confronti dei
componenti il consiglio di amministrazione
(articolo ItaliaOggi
del 09.03.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto:
decreto legge n. 201 del 2011, convertito in
l. n. 214 del 2011, c.d. "decreto salva
Italia" - art. 24 - limiti massimi per la
permanenza in servizio nelle pubbliche
amministrazioni
(circolare
08.03.2012 n. 2). |
PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto:
modifiche alla disciplina in materia di
permessi e congedi per l'assistenza alle
persone con disabilità - decreto
legislativo 18.07.2011, n. 119 ("Attuazione
dell'articolo 23 della legge 04.11.2010, n.
183, recante delega al Governo per il
riordino della normativa in materia di
congedi, aspettative e permessi")
(circolare
03.02.2012 n. 1). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
L. Savelli,
IL CODICE DEI CONTRATTI ED IL REGOLAMENTO
DOPO I DECRETI - LEGGE (MAGGIO 2011 -
FEBBRAIO 2012) - VADEMECUM DELLE NOVITÀ
LEGISLATIVE AGGIORNATO AL DECRETO SEMPLIFICA
- ITALIA (D.L. 09.02.2012 N. 5)
(link a
www.osservatorioappalti.unitn.it). |
APPALTI:
V. Ciervo,
OBBLIGO DI DICHIARAZIONE NELLE GARE DI
APPALTO TRA FORMALISMI, REQUISITI
SOSTANZIALI E AFFIDAMENTO DEI PARTECIPANTI.
NOTA ALLA SENTENZA DEL TRGA DI TRENTO N. 317
DEL 16.12.2011 (link a
www.osservatorioappalti.unitn.it). |
APPALTI:
C. Zucchelli,
CONFORMITÀ E DISCORDANZE FRA REGOLE
COMUNITARIE E NAZIONALI IN TEMA DI
AVVALIMENTO (link a
www.osservatorioappalti.unitn.it). |
APPALTI: L.
Bellagamba,
L’assoluta autocertificabilità del DURC -
Quinto aggiornamento (02.03.2012): il
Consiglio di Stato sull’autocertificabilità
del DURC e il D.L. 02.03.2012, n. 16, art.
6, comma 5
(link a
www.linobellagamba.it). |
APPALTI:
L. Bellagamba,
L’assoluta autocertificabilità del DURC -
Quarto aggiornamento (27.02.2012): la
“genialata” del terzo decreto “Monti”
(link a
www.linobellagamba.it). |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Sulla diatriba circa le competenze
progettuali tra geometri ed architetti
(Ordine degli Architetti di Bergamo,
nota 08.03.2012 n.
20121416 di prot.). |
APPALTI:
Intervento sostitutivo. Stazione
appaltante: a chi pagare?
L’INPS chiarisce se la stazione appaltante,
che interviene in caso di inadempienza
contributiva dell'esecutore e del
subappaltatore, deve pagare direttamente
all’Esattoria oppure con F24 a seguito delle
indicazioni dettate dall’INPS.
L’INPS interviene in merito all’applicazione
dell’art. 4 del D.P.R. 05.10.2010 n. 207: in
tale sede si prevede che in caso di
ottenimento da parte del responsabile del
procedimento del DURC che segnali
un’inadempienza contributiva relativa a uno
o più soggetti impiegati nell’esecuzione del
contratto, il medesimo trattiene dal
certificato di pagamento l’importo
corrispondente all’inadempienza. Il
pagamento di quanto dovuto per le
inadempienze accertate mediante il DURC è
disposto direttamente agli enti
previdenziali e assicurativi, compresa, nei
lavori, la cassa edile.
In merito sono sorti numerosi dubbi
applicativi a seguito dei quali l’Inps
interviene per fare una risposta:
- nei casi in cui il debito sia ancora "in
fase amministrativa": a stazione
appaltante paga le somme di cui
l'esecutore/subappaltatore è debitore nei
confronti dell'Istituto con F24, previa
comunicazione da parte della Sede INPS
competente delle coordinate bancarie
necessarie al versamento;
- nei casi in cui il debito sia già stato
trasmesso all'Agente per la Riscossione o
sia comunque stato oggetto di avviso di
addebito: la stazione appaltante procede
direttamente con il pagamento all'Esattoria
(commento tratto da www.ipsoa.it - INPS, decreto dirigenziale
23.02.2012 n. 641). |
NEWS |
PUBBLICO IMPIEGO: Pensioni
p.a., un anno sabbatico per la permanenza in
servizio. I chiarimenti di Patroni Griffi.
La chance torna nel 2013.
Arrivederci al 2013 per
il trattenimento in servizio, ma scompare
quello che fino a oggi è stato un diritto
potestativo del lavoratore. Infatti, la
possibilità di restare a lavorare oltre
l'età per la pensione di vecchiaia opera
esclusivamente per i lavoratori soggetti al
nuovo regime delle pensioni, i quali da 66
possono arrivare a 68 anni (chi invece ha
maturato i 65 anni utili nel 2011 va messo
subito in pensione, si veda ItaliaOggi di
ieri).
È quant'altro precisa la
circolare 08.03.2012 n. 2
del ministro per la p.a. sulla riforma delle
pensioni. Trattenimento in servizio.
Anche
dopo l'entrata in vigore della riforma Fornero (01.01.2012), spiega la
circolare, restano in vita gli istituti del
«trattenimento in servizio» oltre i limiti
di età e della «risoluzione unilaterale»,
mentre è stato abrogato quello dell'esonero.
Sopravvivono, in particolare, nei confronti
dei soggetti che maturano i requisiti per la
pensione dall'anno 2012, ossia sulla base
dei nuovi limiti (di età e di contribuzione)
fissati dalla riforma.
Pertanto, anche dopo
la riforma i dipendenti possono richiedere
(e le p.a. «possono» accordare) il
trattenimento in servizio, ma questo si
riferirà necessariamente al periodo
successivo alla maturazione del nuovo
requisito d'età per la pensione di vecchiaia
che è fissato a 66 anni. Ciò vuol dire,
allora, che il trattenimento in servizio
diventa possibile dai 66 ai 68 anni d'età ma
non prima dell'01.01.2013 (e salvo i
futuri adeguamenti alla «speranza di vita»).
Perché i dipendenti che quest'anno (2012)
compiono 66 anni di età, avendo maturato i
65 anni nel 2011, rimangono soggetti alla
previgente disciplina e la p.a. avrebbe
potuto loro accordare di restare in servizio
fino a 67 anni.
Peraltro, aggiunge la
circolare, per effetto del dl n. 138/2011,
adesso la discrezionalità della p.a nella
concessione del trattenimento in servizio è
molto più marcata. Infatti, il trattenimento
in servizio non è più un «diritto
potestativo» del lavoratore, ma un diritto
subordinato alla valutazione della p.a. in
ordine all'organizzazione, al fabbisogno e
alla disponibilità finanziaria (insomma
soltanto se conviene alla p.a. il
trattenimento è concesso, altrimenti il
lavoratore va in pensione).
Stop ai 40 anni.
Nella previgente disciplina la p.a. aveva
facoltà di licenziare il dipendente che
avesse maturato «l'anzianità massima
contributiva», vale a dire i 40 anni di
contributi oltre i quali non si maturava più
la pensione (nel sistema retributivo il
massimo importo di pensione poteva arrivare
all'80 per cento della retribuzione
considerando proprio i 40 anni con i quali
andava moltiplicato il coefficiente 2% di
trasformazione).
Adesso le cose sono
cambiate. Infatti, spiega la circolare, la
riforma delle pensioni ha abrogato il
concetto di «anzianità massima contributiva»
(ossia i 40 anni); con esso, di conseguenza,
deve considerarsi abrogato pure il
«presupposto» (cioè l'anzianità massima
contributiva) per il licenziamento da parte
della p.a. In verità, la circolare ritiene
che il predetto presupposto sia soltanto
«mutato», ossia si sia ora collegato agli
anni di anzianità necessari per il diritto
alla pensione anticipata. Pertanto, dall'01.01.2013 le p.a. possono licenziare i
dipendenti con 42 anni e 5 mesi di
contributi, ossia 41 anni e 5 mesi se donne
(sono i nuovi requisiti per la pensione
anticipata).
Unico salvagente per i
lavoratori può essere l'età, perché la
circolare raccomanda alle p.a. di non
procedere a licenziare i soggetti con età
inferiore a 62 anni essendo per loro
prevista la penalizzazione dell'importo
della pensione (ma l'operatività è stata
rinviata al 2017 dal milleproroghe).
Esonero.
Infine, la circolare ricorda che è stato
abrogato l'esonero, un istituto che
consentiva di andare prima in pensione a
certe condizioni. La riforma ha previsto che
a chi fosse già titolare dell'esonero alla
data del 04.12.2011 continuano ad applicarsi
i vecchi requisiti per la pensione.
A tal fine, precisa la circolare, l'esonero
si intende concesso se la p.a. (il
dirigente) ha adottato una determinazione
formale dalla quale si desuma la volontà di
accoglimento della richiesta
(articolo ItaliaOggi
del 10.03.2012). |
PUBBLICO IMPIEGO: Previdenza.
Il ministero obbliga alla pensione i
dipendenti che hanno maturato i requisiti
nel 2011.
Pubblici, niente opzione per restare in
ufficio.
Le novità previdenziali introdotte dal
decreto «salva Italia» hanno trovato
chiarimenti nella
circolare 08.03.2012 n. 2 della
Funzione pubblica, resa nota giovedì.
Il
documento conferma quanto già preannunciato
(si veda «Il Sole 24 Ore» del 17 febbraio
scorso). Palazzo Vidoni chiarisce che i
dipendenti che hanno maturato i requisiti
per il pensionamento entro il 31.12.2011 rimangono soggetti al regime previgente
per l'accesso e per la decorrenza del
trattamento pensionistico di vecchiaia e di
anzianità e, pertanto, anche se ancora in
servizio, tali dipendenti non sono soggetti
neanche su opzione, al nuovo regime sui
requisiti di età e di anzianità
contributiva. Infatti la norma prevede che i
nuovi requisiti si applicano esclusivamente
nei confronti dei dipendenti che maturano il
diritto a pensione a decorrere dall'01.01.2012.
La circolare prosegue
affermando che le amministrazioni, negli
anni 2012 e seguenti, dovranno collocare a
riposo al compimento del 65esimo anno di età
i dipendenti che al 31.12.2011 erano
già in possesso di un diritto a pensione.
Tale diritto, eccetto quello per il
conseguimento della pensione di vecchiaia,
fa sì che sia applicabile l'età ordinamentale che costituisce un limite non
superabile in presenza del quale l'ente deve
far cessare il rapporto di lavoro; salve le
prosecuzioni per effetto di trattenimento e
per la finestra.
Un altro aspetto importante riguarda la
prosecuzione del rapporto di lavoro fino a
70 anni il quale non può essere applicato
nel settore pubblico eccetto i casi in cui
il prosieguo sia finalizzato alla
maturazione del diritto a pensione poiché
l'introduzione del limite minimo (1,5 volte
l'assegno sociale) potrebbe non far fruire
il trattamento pensionistico neppure alla
prescritta età anagrafica. Il concetto di
anzianità massima contributiva deve
ritenersi superato per i dirigenti civili
dello Stato nonché per il personale del
comparto scuola. Per quanto riguarda la
risoluzione unilaterale del rapporto di
lavoro i requisiti previsti devono essere
modulati sulla base dei nuovi limiti
richiesti per l'accesso al pensionamento;
pertanto dal 2013 saranno richiesti 42 anni
e 5 mesi per gli uomini e 41 anni e 5 mesi
per le donne.
Tuttavia, tali nuovi parametri
potrebbero concorrere con la penalizzazione
prevista per le cessazioni con età inferiori
a 62 anni. La Funzione pubblica raccomanda
alle amministrazioni di non esercitare la
risoluzione unilaterale nei confronti dei
soggetti per i quali potrebbe operare la
penalizzazione legale. Ne deriva che la
risoluzione potrà essere esercitata al
raggiungimento degli anni contributivi
richiesti per l'accesso a pensione con
un'età anagrafica non inferiore a 62 anni.
I
nuovi limiti previsti per il conseguimento
della pensione di vecchiaia fanno sì che, a
decorrere dal 2012, i dipendenti che
manifesteranno la volontà di permanere in
servizio per un ulteriore biennio
accederanno al trattamento pensionistico al
compimento del 68esimo anno di età. Tuttavia
tale problematica è rinviata al 2013 poiché
nell'anno in corso potranno cessare solo
coloro i quali hanno maturato i 65 anni di
età nel 2011 e sono in regime di finestra
oppure coloro che sono nel biennio.
L'istituto dell'esonero è stato soppresso
dal 28 dicembre scorso e la norma di
salvaguardia continua ad applicarsi agli
esonerati fino al 03.12.2011. Tali
soggetti potranno accedere al trattamento
pensionistico secondo il previgente regime
ma a condizione che risulti la capienza nel
contingente di spesa (articolo 24, comma 15,
Dl 201); l'eventuale incapienza comporterà
l'applicazione del nuovo regime
previdenziale e la prosecuzione del rapporto
di esonero con il dipendente fino alla
maturazione dei nuovi requisiti di accesso.
La finalità del periodo transitorio (comma
20), istituita con lo scopo di agevolare il
processo di riduzione degli assetti
organizzativi e di contenimento della spesa
pubblica, è quella di far salvi solo i
collocamenti a riposo per raggiunti limiti
di età disposti con provvedimenti prima del
06.12.2011 anche se aventi decorrenza
successiva al 2011. Tutte le altre
casistiche (dipendenti che hanno maturato la
quota oppure che hanno raggiunto l'anzianità
massima contributiva) ma sprovvisti dei
nuovi requisiti di accesso alla data di
decorrenza dell'atto dovranno maturare i
nuovi requisiti. Per il comparto Scuola si
rinvia alle indicazioni di prossima
emanazione da parte del ministero
dell'Istruzione.
---------------
La nota
01|IL CHIARIMENTO
I dipendenti che hanno maturato i requisiti
per il pensionamento entro il 31.12.2011 rimangono soggetti al regime previgente
per l'accesso e per la decorrenza del
trattamento pensionistico di vecchiaia e di
anzianità. Tali dipendenti non sono
soggetti, neppure su opzione, al nuovo
regime
02|I PROBLEMI APERTI
Non è ancora stata sciolta la riserva sulle
donne optanti che vanno in pensione con il
requisito anagrafico di 57 anni (e 35 anni
di contributi): tale età non è mai stata
richiamata dalle norme in vigore, ma
potrebbe paradossalmente essere aggiornata
alla speranza di vita registrata all'età di
65 anni
(articolo Il Sole 24
Ore
del 10.03.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Lavoro.
Permessi straordinari.
Diritto al congedo se c'è convivenza.
A partire dalla conclusione del periodo di
normale congedo parentale, teoricamente
fruibile dal genitore, decorre il
prolungamento stabilito dall'articolo 3 del
decreto legislativo 119/2011 a favore dei
genitori di figli con grave handicap, per un
periodo massimo complessivo di tre anni da
godere entro il compimento dell'ottavo anno
d'età del bimbo, con diritto all'indennità
pari al 30% della retribuzione.
Dopo un lavoro istruttorio comune con il
ministero del Lavoro, l'Inps e l'Inpdap, il
dipartimento della Funzione Pubblica
fornisce con la
circolare 03.02.2012 n. 1 ai
lavoratori del settore pubblico alcuni
chiarimenti relativi al nuovo regime dei
permessi e congedi che possono essere
utilizzati per l'assistenza e figli o
familiari con grave handicap.
Nulla cambia,
invece, per i permessi utilizzabili dal
lavoratore in situazione di grave
disabilità. Come già l'Inps con la circolare
32/2012 (si veda «Il Sole 24 Ore» del 7
marzo) anche la Funzione pubblica sottolinea
che, in alternativa, i genitori del minore
in situazione di handicap grave continuano a
poter fruire dei riposi orari retribuiti ma
solo fino al compimento del terzo anno di
vita del bambino. Rimane anche ferma la
possibilità per i genitori, anche adottivi,
di fruire dei tre giorni di permesso mensile
(legge 104/1992) anche oltre gli otto anni
di età del figlio.
Quanto, invece, al congedo straordinario che
i lavoratori subordinati possono chiedere
per l'assistenza del coniuge o di una
familiare con disabilità grave, nel
sottolineare la tassatività dei criteri di
priorità per fruirne, la circolare 1/2012
evidenzia che il diritto al congedo è
subordinato al requisito della convivenza,
fatta eccezione per i genitori. Si considera
tale la concomitanza della residenza
anagrafica e della coabitazione che può
sussistere anche qualora gli alloggi siano
separati ma situati nello stesso stabile.
La
durata massima di due anni del congedo deve
essere intesa nel senso che ciascuna persona
in situazione di grave disabilità ha diritto
a due anni di assistenza a titolo di congedo
straordinario da parte dei familiari. A sua
volta, il lavoratore può fruire di un
periodo massimo di due anni di congedo
indennizzato per assistere i familiari
disabili. Il periodo di congedo è
indennizzato in base all'ultima retribuzione
ma con esclusivo riferimento alle voci fisse
e continuative, entro il limite annualmente
rivalutato (si veda la tabella) ed è valido
ai fini del calcolo dell'anzianità.
A differenza del settore privato,
l'accredito contributivo non è figurativo
poiché per i dipendenti della Pa la
contribuzione va calcolata, trattenuta e
versata secondo le regole ordinarie sulla
base dei trattamenti corrisposti. Il
trattamento non è assoggettato a
contribuzione Tfs/Tfr
(articolo Il Sole 24
Ore
del 10.03.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Pa.
Parere della Funzione pubblica.
Addio ai certificati con lungaggini ma senza
imposta.
IL CASO/
Il Collegio degli agrotecnici aveva
denunciato che alcuni uffici applicavano il
bollo sulla decertificazione.
La "decertificazione" potrà anche essere un
boomerang, ma almeno non avrà l'ulteriore
effetto di far costare le pratiche 14,62
euro in più, come stava iniziando ad
accadere.
Lo ha reso noto il Collegio
nazionale degli agrotecnici e degli
agrotecnici laureati, che aveva sollevato il
caso con il dipartimento della Funzione
pubblica. La questione, però, riguarda tutti
i cittadini e le categorie produttive.
Tra queste ultime, le preoccupazioni erano
iniziate già lo scorso novembre, quando la
legge di stabilità (la n. 183/2011), con
l'articolo 15, aveva introdotto la decertificazione. Essa consiste nel vietare
alle pubbliche amministrazioni di accettare
certificati da parte di chi richiede loro
una pratica: dovranno essere le
amministrazioni stesse a richiedere agli
altri uffici pubblici gli elementi necessari
a mandare avanti la pratica. A suggellare il
principio, l'obbligo di riportare su ogni
certificato (che altrimenti è nullo) il
fatto che il documento stesso «non può
essere prodotto agli organi della pubblica
amministrazione o ai privati gestori di
pubblici servizi».
Nel mondo professionale e produttivo, si era
subito notato che questa semplificazione
avrebbe potuto essere controproducente: il
fatto che un ufficio pubblico debba
attendere la risposta di un altro per
acquisire gli elementi utili a espletare la
pratica, rischia di prolungarne i tempi (se
non addirittura di bloccarla). Tanto più
che, se un ufficio fornisce gli elementi in
tempi lunghi, non c'è una sanzione specifica
e deterrente: la norma prevede solo che il
ritardo «costituisce violazione dei doveri
d'ufficio e viene in ogni caso presa in
considerazione ai fini della misurazione e
della valutazione della performance
individuale dei responsabili
dell'omissione». Così, imprese e
professionisti preferiscono spesso dover
portare un certificato in più (com'era
consentito fare prima).
Il Collegio degli agrotecnici aveva
denunciato un ulteriore problema. Secondo
alcune amministrazioni, l'invio di documenti
ad altri uffici pubblici è da sottoporre a
imposta di bollo, con una tariffa di 14,62
euro. Dunque, la decertificazione sarebbe "a
pagamento": un esito paradossale, date le
intenzioni che sembrava avere il legislatore
nell'introdurla.
Per questo, il 16.01.2012 il Collegio ha
inviato una nota al dipartimento della
Funzione pubblica della presidenza del
Consiglio, per chiedere chiarimenti. La
risposta (05.03.2012
n. Dfp 0009347
P-4.17.1.23.4.3 di prot.) è arrivata
l'altro ieri. È molto breve e si limita a
riportare il comma 5 dell'articolo 43 del Dpr 445/2000
(il Testo unico sulla documentazione
amministrativa), secondo il quale le
informazioni relative a stati, qualità
personali e fatti vanno acquisite dagli
uffici pubblici «senza oneri». Dal
che si deduce che l'imposta di bollo non è
dovuta
(articolo Il Sole 24
Ore
del 10.03.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
APPALTI: SEMPLIFICAZIONI/ Nasce
la banca dati nazionale dei contratti
pubblici. Grande fratello sugli appalti.
Dal 2013 requisiti dei concorrenti vagliati
online.
Dal 2013 negli appalti le verifiche sui
requisiti dei concorrenti saranno effettuate
esclusivamente online; sarà la Banca dati
nazionale dei contratti pubblici, presso
l'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici a mettere a punto il delicato e,
allo stesso tempo, rivoluzionario sistema
telematico; le stazioni appaltanti, con
l'avvio del sistema, non potranno verificare
i requisiti dei concorrenti con modalità
diverse dalla consultazione della Bdncp; gli
appaltatori, non dovranno più produrre
certificati.
Sono queste alcune delle novità derivanti
dall'approvazione alla camera del decreto
legge semplificazioni (n. 5/2012) che, per
quel che riguarda l'attivazione della Banca
dati nazionale sui contratti pubblici,
secondo stime del Governo, dovrebbe portare
risparmi per 1,3 miliardi.
L'avvio della Bdncp si inquadra nel filone
della cosiddetta «decertificazione» e
sburocratizzazione delle procedure che,
sempre secondo alcune stime governative,
dovrebbe determinare per le piccole e medie
imprese un risparmio sui costi vivi della
gestione amministrativa delle gare pari a
circa 140 milioni all'anno, stando a quanto
stimato dal governo. La norma del
decreto-legge approvato dalla camera
rivitalizza la banca dati che fu introdotta
nel 2010 con il comma 1 dell'art. 44, del
dlgs 30.12.2010, n. 235 stabilendo che
dal primo gennaio 2013 tutta la
documentazione relativa alla prova dei
requisiti di capacità economico-finanziaria
e tecnico organizzativa che i concorrenti
devono possedere per partecipare agli
appalti sia acquisita dalla Banca dati
nazionale dei contratti pubblici presso
l'autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici.
Spetterà all'Autorità definire
innanzitutto quali dati, utili alla
partecipazione alle gare, nonché alla
verifica delle offerte, debbano essere
inclusi nella banca dati, nonché i termini e
le regole tecniche per l'acquisizione,
l'aggiornamento e la consultazione dei dati
contenuti nella predetta Banca dati. La
norma prevede che per l'attivazione della
banca dati tutti i soggetti pubblici e
privati che detengono dati e documenti
relativi ai requisiti di partecipazione,
abbiano l'obbligo di messa a disposizione
dell'Autorità di tali dati e documenti.
Parallelamente, gli operatori economici
saranno tenuti ad integrare i dati contenuti
nella banca dati nazionale dei contratti
pubblici, creando un sistema dinamico e non
statico come invece è oggi quello basato
sulle Soa, ove i certificati hanno validità
quinquennale. Il meccanismo avrà una portata
fondamentale nel settore dei servizi e delle
forniture in cui, diversamente dai lavori,
non esiste un sistema di qualificazione dei
concorrenti.
All'obbligo di acquisizione della
documentazione da parte della Bdncp è
correlato l'obbligo per i committenti di
effettuare le verifiche dei requisiti di
capacità dei concorrenti esclusivamente
attraverso la banca dati, senza quindi più
chiedere documenti ai partecipanti alle
gare. Ciò significa che i partecipanti alle
gare potranno qualificarsi alle procedure
semplicemente con una autodichiarazione del
possesso dei requisiti di carattere generale
e speciale, mentre sarà cura del committente
che ha bandito la gara, verificare che
quanto dichiarato sia conforme alle
risultanze documentali rese disponibili a
questo fine dalla Banca dati nazionale dei
contratti pubblici.
Adesso sarà compito dell'organismo di
vigilanza sui contratti pubblici presieduto
da Sergio Santoro, mettere d'accordo tutti i
soggetti che gestiscono le banche dati (o
che hanno i dati sui quali effettuare le
verifiche) rispetto alla necessità di
giungere in tempi rapidi alla messa a regime
del sistema, ma anche di fare in modo che
l'ingente afflusso di dati non paralizzi
tutta l'operazione telematica
(articolo ItaliaOggi
del 09.03.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - VARI: Dl ambiente. Sacchetti bio,
nuovi criteri a fine
anno.
Passa dal 31 luglio al 31.12.2012 il
limite entro cui un decreto del ministero
dell'ambiente dovrà dettare i criteri per i
sacchetti biodegradabili. E arriva un'altra
proroga, al 31.12.2013, per
l'applicazione del regime sanzionatorio
sulla rispondenza dei sacchetti bio ai
futuri criteri.
Queste le novità approvate due giorni fa
dalla Commissione ambiente della camera dei
deputati al dl 2/2012, il cui art. 2 prevede
«disposizioni applicative in materia di
commercializzazione di sacchi per asporto
merci nel rispetto dell'ambiente».
Si è conclusa, infatti, la discussione in
sede referente con l'approvazione degli
emendamenti di proroga dei termini di
entrata in vigore per standard e sanzioni.
Andrà in Aula la settimana prossima
(potrebbe essere posta la fiducia) per
ritornare al Senato nei giorni successivi
(scade il 25 marzo). Esso contiene, come
noto, anche le nuove norme per l'emergenza
in Campania. Sui sacchetti, val la pena fare
il punto sul testo che proveniva dal Senato
già con significative modifiche.
L'art. 2 dello schema del citato decreto
legge va nella direzione di definire più
correttamente il campo di applicazione ed
eliminare così i dubbi interpretativi della
precedente normativa sul «divieto di
commercializzazione di sacchi non
biodegradabili per l'asporto delle merci»,
facendo chiaramente riferimento alla
conformità alla Norma Uni En 13432
(requisiti per imballaggi recuperabili
mediante compostaggio e biodegradazione). Il
dl proviene dal senato dove sono state già
approvate una serie di modifiche, che vanno
a introdurre diverse casistiche e tipologie
di sacchetti in plastica «polimeri».
Infatti, per i soli sacchetti di plastica
senza orecchie (quelli delle farmacie e
delle mercerie per intendersi) gli spessori
per quelli definibili riutilizzabili (dai
200 e i 100 micron già previsti) si
riducono, rispettivamente a 100 e 60 per
l'uso alimentare e gli altri usi. Introdotto
anche l'obbligo di contenuto minimo in
riciclato del 10% per gli stessi sacchetti,
limite che potrà essere cambiato con decreto
ministeriale.
L'introduzione di casistiche e soglie
diverse per i sacchetti riutilizzabili
renderà, certamente, più difficile il
controllo. Nessun chiarimento, invece, sul
significato sull'uso alimentare e sugli
altri usi, che al momento restano di
difficile interpretazione. Resta, poi, la
spada di Damocle delle decisioni Ue in
materia (che negli anni passati bloccò una
norma simile in Francia)
(articolo ItaliaOggi
del 09.03.2012). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Pubblico impiego, pensione magra.
Non opera l'incentivo della permanenza al
lavoro fino a 70 anni. Circolare del
ministro Patroni Griffi sull'applicazione
alla p.a. del decreto salva-Italia.
Obbligati alla pensione i dipendenti
pubblici. Nei loro confronti non opera
l'incentivo della permanenza al lavoro fino
a 70 anni d'età e non opera più neppure la
facoltà di rimanere in servizio oltre i
limiti d'età per conseguire il massimo della
pensione.
E non è tutto. Per chi abbia maturato i
requisiti nel 2011 (età, quota o anzianità
massima), la pubblica amministrazione dovrà
procedere con l'immediato collocamento a
riposo.
È quanto stabilisce, tra l'altro, la
circolare 08.03.2012 n. 2 firmata dal ministro per
la p.a. Filippo Patroni Griffi per
illustrare la riforma delle pensioni entrata
in vigore il 1° gennaio introdotta dall'art.
24 del dl n. 201/2011
Nuovi limiti d'età. Innanzitutto, la
circolare illustra i nuovi requisiti di età
e contribuzione per maturare il diritto alla
pensione, nelle due nuove alternative di
pensione di vecchiaia e pensione anticipata;
ricorda, tra l'altro, l'abrogazione delle
finestre che fissavano la decorrenza della
pensione e l'estensione del sistema
contributivo, con il pro-rata, alle
anzianità successive al 2011. Le nuove norme
non si applicano, tuttavia, nei confronti
dei lavoratori che hanno maturato i
requisiti per la pensione entro il 31.12.2011, i quali potranno conseguire
la pensione in qualsiasi momento secondo il
vecchio regime (ante riforma).
Da questa
deroga, la circolare fa scaturire un preciso
obbligo per le p.a., ossia quello di dover
collocare a riposo nel 2012 o negli anni
successivi al compimento dei 65 anni quei
dipendenti che nel 2011 erano già in
possesso della massima anzianità
contributiva (40 anni) o della «quota» (era
96) o comunque dei requisiti per la
pensione.
Limite d'età ordinamentale. Per i pubblici
dipendenti l'aspetto cruciale (forse
paradossale) della riforma è che, mentre da
una parte allontana l'età di pensionamento
dall'altro nega di rimanere più a lungo in
servizio quando ciò possa voler dire un
miglioramento dell'assegno di pensione.
Infatti, la riforma non ha modificato il
regime dei limiti di età per la permanenza
in servizio che, anzi, è stata espressamente
confermato (comma 4 dell'art. 24).
Ciò vuol
dire, spiega la circolare, che i predetti
limiti continuano a costituire il tetto
massimo di permanenza in servizio; pertanto,
il lavoratore che li dovesse raggiungere
potrà proseguire il rapporto d'impiego solo
fino a garantirsi la decorrenza della
pensione; viceversa, il dipendente già in
possesso del diritto alla pensione, una
volta raggiunto il limite d'età vedrà la
p.a. intimargli la cessazione dell'impiego
(è un obbligo per la p.a.).
Stop agli incentivi. Dalla sopravvivenza dei
limiti di età ordinamentale, spiega la
circolare, discende che nel settore pubblico
non opera il principio di incentivazione
alla permanenza in servizio fino a 70 anni
di età. Si tratta, in particolare, della
possibilità di rimanere più a lungo a lavoro
al fine di maturare il diritto alla
pensione, perché all'età di 70 anni non
opera più il requisito dell'«importo
minimo» di pensione (pari a 1,5 volte
l'assegno sociale). Dunque, tale opportunità
non vale per i pubblici dipendenti e non
vale neppure l'altra facoltà, specifica per
il settore pubblico, del concetto di
«massima anzianità contributiva».
In
particolare spiega la circolare,
l'estensione a tutti i lavoratori, dall'01.01.2012, del criterio contributivo
rende inapplicabili le disposizioni che
consentivano al personale pubblico di
proseguire il servizio sino al
raggiungimento della massima anzianità
contributiva al fine di conseguire il
massimo della pensione (maggiormente
interessati, nello specifico, erano i
dirigenti civili dello stato e il personale
del comparto scuola).
Il periodo transitorio.
La riforma, tra l'altro, ha fatto salvi i
provvedimenti di collocamento a riposo per
raggiunti limiti di età adottati prima del
06.12.2011 (entrata in vigore del dl n.
201/2011). La salvaguardia, spiega la
circolare, concerne solo le ipotesi di
raggiunti limiti d'età; mentre travolge gli
eventuali provvedimenti di pensionamento
adottati per altri motivi. In tal caso,
pertanto, i dipendenti devono tornare al
lavoro salvo che non possano comunque far
valere il diritto alla pensione per altre
ragioni.
La circolare fa riferimento a quegli atti
con decorrenza dal 2013 per pensionamento di
lavoratori con 40 anni di servizio (e
finestra mobile) e che, invece, non
raggiungono in quell'anno i 42 anni e 5 mesi
se uomini ovvero 41 anni e 5 mesi se donne;
oppure ai casi di accettazione, già nel
2011, di dimissioni per il raggiungimento
della quota nell'anno 2012 o in anni
successivi
(articolo ItaliaOggi
del 09.03.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI: Impianti
di videosorveglianza al vaglio del Viminale.
Gli impianti di videosorveglianza comunale
devono essere installati o potenziati in
conformità alle nuova direttive ministeriali
e vagliati preventivamente dal comitato
provinciale per l'ordine e la sicurezza.
Lo
ha chiarito il Ministero dell'interno con la
nota 02.03.2012 n. 224632.
Il ricorso
ai sistemi elettronici di controllo del
territorio è un fenomeno consolidato che è
stato favorito anche dal mutato quadro
normativo che ha ammesso i comuni alla
gestione diretta della sicurezza urbana. La
complessità delle regole, la tutela della
privacy e delle opzioni tecnologiche a
disposizione dei sindaci non ha però portato
sempre a scelte razionali.
Per questo motivo
anche sulla base dell'indicazione espressa
dall'Anci è stato avviato un tavolo tecnico
di confronto con polizia e carabinieri
finalizzato alla redazione di una direttiva
ad hoc, adeguata a supportare le scelte
concrete dei comuni. Ha così visto la luce
la piattaforma della videosorveglianza
integrata, specifica il ministero, ovvero un
articolato documento che fornirà ai comuni
interessati le linee guida per attivare o
potenziare un sistema di videosorveglianza
efficiente. Spetterà però ai comitati
provinciali per l'ordine e la sicurezza
pubblica, specifica il ministero, validare
preventivamente le scelte comunali
utilizzando il documento appena realizzato.
Nell'ottica di un sempre maggior
coinvolgimento della polizia locale sulle
questioni di sicurezza in senso lato il
documento promuove innanzitutto a pieno
titolo il sistema della sicurezza integrata
ovvero il rapporto di stretta collaborazione
tra vigili, polizia e carabinieri. Gli
impianti di videosorveglianza urbana hanno
certamente importanza strategica anche per
le forze di polizia dello stato, prosegue il
decalogo. Per questo motivo il ministero
dell'interno già con una circolare del 06.08.2010 ha evidenziato la necessità di
un esame preliminare di queste installazioni
da parte del locale comitato per l'ordine e
la sicurezza pubblica.
Questa indicazione è
stata ribadita dalle recenti linee guida Anci
sugli impianti di videosorveglianza. In
buona sostanza il luogo più idoneo per
valutare l'idoneità strategica dei progetti
di controllo elettronico del territorio sono
gli uffici del prefetto in occasione dei
comitati periodici sull'ordine e la
sicurezza. Il mutato quadro normativo che ha
declinato a livello locale competenze prima
riservate solo agli organi dello stato in
materia di sicurezza urbana, deve essere
adeguatamente preso in considerazione nella
fase di progettazione o implementazione
degli impianti.
Per elevare e uniformare per quanto
possibile lo standard tecnologico dei
sistemi il documento stabilisce di istituire
un tavolo permanente presso il Viminale
deputato a presidiare l'evoluzione
tecnologica. Pieno appoggio
all'interconnessione dei sistemi tra polizia
locale e nazionale, infine, ma anche un
decalogo operativo per i comuni che
intendono ampliare o installare nuovi
apparati
(articolo ItaliaOggi
del 09.03.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Sbobinature senza segreti.
Accesso alle trascrizioni delle sedute
consiliari. Le registrazioni sono da
equiparare a un documento
amministrativo.
L'ente locale è tenuto a dare positivo
riscontro alla richiesta di accesso al c.d.
«sbobinamento» della registrazione sonora di
una seduta di consiglio comunale?
Ai sensi dell'art. 22, comma 1, lett. d),
della legge n. 241/1990, deve intendersi per
«documento amministrativo» di cui può essere
chiesto l'accesso «ogni rappresentazione
grafica, fotocinematografica,
elettromagnetica o di qualunque altra specie
del contenuto di atti, anche interni o non
relativi ad uno specifico procedimento,
detenuti da una pubblica amministrazione e
concernenti attività di pubblico interesse,
indipendentemente dalla natura pubblicistica
o privatistica della loro disciplina
sostanziale».
A tale proposito, la giurisprudenza
amministrativa si è più volte pronunciata
nel senso di ritenere che semplici appunti,
come devono essere considerate le
registrazioni effettuate dal segretario
comunale a proprio uso, non ancora tradotti
in atti, «non assurgono alla qualificazione
di documento amministrativo» (Tar Veneto n.
60 del 2002, Tar Lombardia, Milano, n. 1914
del 2009).
In senso contrario si è espresso
recentemente il Tar Piemonte ritenendo che
«la registrazione sonora delle sedute
consiliari è suscettibile di essere inclusa
nella nozione di documento amministrativo
rilevante, ai sensi dell'art. 22, comma 1,
lettera d), della legge n. 241/1990, ai fini
dell'esercizio del diritto di accesso» (Tar
Piemonte sentenza 27/05/2011, n. 563).
Con parere reso in data 22.10.2002 in
riferimento alla medesima problematica, la
commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi, istituita nell'ambito della
presidenza del consiglio dei ministri, ha
precisato che occorre «distinguere il caso
in cui il segretario comunale raccolga per
proprio uso personale dei meri appunti
informali dell'adunanza consiliare, anche
eventualmente su supporto magnetico per la
redazione del successivo verbale,
dall'ipotesi in cui la registrazione dello
svolgimento della seduta consiliare
costituisca adempimento di una mansione
d'ufficio. Nel primo caso, gli appunti
raccolti dal segretario sono da considerarsi
alla stregua di una bozza strettamente
personale, che potendo essere liberamente
modificata non ha alcun carattere di
documento amministrativo. Nel secondo caso,
invece, la registrazione non è modificabile,
ed il segretario o il personale
espressamente incaricato di essa rispondono
della sua genuinità; sicché la
registrazione, dovendosi ritenere fedele
riproduzione del dibattito consiliare,
costituisce documento amministrativo, come
tale accessibile da parte degli
interessati».
Nel parere del 25.11.2008, la medesima
Commissione ha ritenuto ostensibile la
registrazione della seduta di un consiglio
comunale confermandone la natura di
documento amministrativo al quale è
garantito il diritto di accesso degli
interessati, «senza che sia necessario fare
richiamo alla normativa di speciale favore
prevista per i consiglieri comunali».
Pertanto, nel caso in cui il comune si
avvalga, in via istituzionale, di un
apposito servizio di trascrizione da nastro
di interventi delle sedute consiliari,
sussistono i presupposti oggettivi circa la
natura di documento amministrativo delle
registrazioni in discorso, richiesti
dall'art. 22, comma 1, lett. d) della legge
n. 241/1990 ai fini dell'esercizio del
diritto di accesso.
Per quanto concerne il
requisito soggettivo previsto dalla
normativa in commento, si rammenta che ai
sensi dell'art. 22, comma 1, lett. b), della
legge n. 241/1990 si definiscono
«interessati» tutti i soggetti privati,
compresi quelli portatori di interessi
pubblici o diffusi, che abbiano un interesse
diretto, concreto e attuale, corrispondente
ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto
l'accesso. Tale nozione è stata interpretata
in giurisprudenza in senso più ampio
rispetto all'interesse all'impugnativa
qualificabile in termini di diritto
soggettivo o di interesse legittimo.
«La
legittimazione all'accesso,
conseguentemente, viene riconosciuta a
chiunque possa dimostrare che gli atti
procedimentali oggetto dell'accesso abbiano
spiegato o siano idonei a spiegare effetti
diretti o indiretti nei suoi confronti,
indipendentemente dalla lesione di una
posizione giuridica, stante l'autonomia del
diritto d'accesso, inteso come interesse ad
un bene della vita distinto rispetto alla
situazione legittimante alla impugnativa
dell'atto» (Cds sez. VI, sent. n. 6440 del
27/10/2006, Tar Lazio, n. 3115 del 2008).
La sussistenza dell'interesse, quale
requisito soggettivo ex art. 22, comma 1,
lett. b), citato, del soggetto richiedente
l'accesso dovrà essere valutata alla luce
dei principi giurisprudenziali sopra
evidenziati e in base alle disposizioni
regolamentari recanti la disciplina del
diritto di accesso adottate dall'ente locale
(articolo ItaliaOggi
del 09.03.2012). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
decreto semplificazioni/ «Pa» più veloce, ok
alla fiducia. Martedì il sì alla Camera:
certificati addio, atti via web ma resta il
nodo tlc
GLI ULTIMI RITOCCHI/ Via la tassa a carico
delle Regioni per sovvenzionare la
protezione civile. Partita ancora aperta sul
«fondo imprevisti» del Tesoro.
Addio ai certificati
cartacei. Pratiche burocratiche in tempo
reale. Iscrizioni online alle università.
Possibilità di produrre il pane la domenica.
Un anno in più per il bonus Sud. Piano
triennale taglia oneri burocratici in tempi
brevi. Cartella clinica elettronica e nuova
sperimentazione della social card, estesa a
tutti i cittadini comunitari.
Con questa fisionomia, rivista in diversi
punti dalle commissioni della Camera, il
decreto semplificazioni si accinge ad
approdare al Senato. Il via libera di
Montecitorio al testo arriverà martedì dopo
che ieri il Governo ha incassato la fiducia
della Camera (la decima) con 479 sì, 75 no e
7 astenuti. Almeno due i nodi che restano
irrisolti: la limitazione del «fondo
imprevisti» del ministero dell'Economia
(calamità naturali) e il pacchetto
telecomunicazioni.
Un pacchetto, quest'ultimo, che prevede che
gli operatori non debbano pagare per servizi
non richiesti: per le "attività"
accessorie le società potranno rivolgersi
anche a imprese terze. Ma queste misure,
secondo l'associazione europea degli
operatori di telecomunicazioni (Etno), e
anche a parere dell'Agcom, sarebbero in
contrasto con la normativa comunitaria (si
veda l'altro articolo in pagina). Appare
probabile, quindi, che la questione venga
affrontata al Senato. È lo stesso ministro
della Pubblica amministrazione, Filippo
Patroni Griffi, a non chiudere la porta a
nuovi ritocchi: «Al Senato c'è abbastanza
tempo» per un esame approfondito del
testo (va convertito entro il 9 aprile,
ndr), «valuteremo le proposte emendative».
Il ministro si dichiara comunque soddisfatto
per il lavoro della Camera.
Tra i correttivi quasi certi c'è quello per
eliminare, o attenuare, la limitazione,
decisa in commissione a Montecitorio, del
fondo spese impreviste del Tesoro,
utilizzato per le prime emergenze in caso di
calamità. Il testo che esce dalla Camera
prevede anche lo stop all'obbligo per le
Regioni di sovvenzionare gli interventi
della protezione civile dopo le calamità
naturali aumentando le accise sulla benzina.
Al Senato potrebbe riaprirsi anche la
partita sull'assunzione di 10mila
insegnanti, saltata alla fine di un duro
braccio di ferro tra Pd e Pdl e non senza
tensioni con il Governo, così come peraltro
sul «fondo imprevisti». Anche se il
compromesso trovato in extremis a
Montecitorio, che prevede lo sblocco degli
organici dei docenti rispettando però i
tagli introdotti tre anni fa dal Governo
Berlusconi, sembra destinato a tenere. Sul
fronte scuola arrivano anche misure contro
il bullismo.
Anche dopo le modifiche della Camera
l'obiettivo di fondo del provvedimento resta
la velocizzazione della Pa. Dal 2014 le
comunicazioni con gli uffici pubblici
dovranno avvenire «esclusivamente»
attraverso i «canali telematici e la
posta elettronica certificata». I
certificati potranno essere chiesti via web
e le iscrizioni agli atenei saranno
possibili solo online. Dal prossimo anno
accademico (2013-2014) pure il libretto
degli esami universitari sarà "virtuale".
Anche le multe viaggeranno via web e i
pagamenti all'Inps non potranno più essere
cash.
I cambi di residenza e altri documenti
saranno concessi in tempo reale. Viene
prolungata la validità del bollino blu per
le auto e sono eliminate le duplicazioni per
i certificati dei disabili. Diventano più
semplici le procedure per l'assunzione di
immigrati extracomunitari mentre la
semplificazione dei controlli sulle imprese
non si applicherà a salute e sicurezza sul
lavoro.
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Le misure principali
ITER PIÙ SNELLI
Diverse le semplificazioni per i cittadini:
i cambi di residenza avverranno in tempo
reale, la richiesta di certificati potrà
essere fatta per via telematica, procedure
veloci per le patenti degli ultraottantenni
PAGAMENTI ONLINE
Dal 1° maggio i versamenti dell'Inps saranno
effettuati solo online. Sarà possibile
pagare via web anche multe, tasse, ticket
(le amministrazioni dovranno comunicare l'Iban)
e marche da bollo
CARTELLE CLINICHE
Nei piani di sanità nazionali e regionali si
privilegia la gestione elettronica delle
pratiche, attraverso l'utilizzo della
cartella clinica elettronica e i sistemi di
prenotazione elettronica
UNIVERSITÀ IN RETE
In vigore da subito la norma che prevede le
iscrizioni agli atenei esclusivamente
online. Dal prossimo anno accademico anche
il libretto con gli esami sostenuti e i voti
sarà telematico
SOCIAL CARD
La social card non sarà più riservata ai
soli cittadini italiani ma potrà essere
attribuita anche a quelli comunitari. Si
amplia così la platea dei fruitori della
carta acquisti
(articolo Il Sole 24
Ore
del 09.03.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Doppia indennità alla polizia
locale. Decisione del Tribunale di
Verona.
LA MOTIVAZIONE/ Si devono compensare in modo
specifico particolari situazioni di lavoro
molto gravose.
Con due sentenze pronunciate il 23.02.2012 e
l'01.03.2012, i Tribunali di Verona e di
Rimini hanno stabilito che è possibile
corrispondere al personale dell'area della
vigilanza l'indennità di disagio.
Negli enti locali italiani accade spesso che
alla Polizia locale venga riconosciuta, in
aggiunta all'indennità di vigilanza, anche
quella di disagio. Sennonché in occasione
delle ispezioni inviate dalla Ragioneria
dello Stato, frequentemente vengono
sollevati specifici rilievi su questo
aspetto.
Secondo la Ragioneria –che si rifà
all'orientamento dell'Aran– il personale
dell'area della vigilanza è adeguatamente
tutelato per la specificità delle
prestazioni richieste e per l'impegno, la
gravosità dei compiti e le responsabilità
connesse, attraverso l'indennità di
vigilanza. Di conseguenza, il cumulo della
predetta indennità con quella di disagio è
possibile solo in casi molto limitati.
Le due controversie decise dal Tribunale di
Verona e da quello di Rimini originano
proprio da ispezioni ministeriali che
avevano sollevato questa censura. Nelle
sentenze in commento, che sono le prime a
occuparsi della questione, i giudici,
accogliendo la tesi dei vigili, hanno
giudicato legittima la corresponsione
dell'indennità di disagio al personale della
Polizia locale e hanno ritenuto validi i
relativi accordi decentrati integrativi.
Nella sentenza veronese si legge, infatti,
che le due indennità «sono dirette a
compensare particolari modalità di
svolgimento della prestazione lavorativa, le
quali non sono necessariamente coincidenti».
Secondo il Tribunale scaligero, «l'indennità
di disagio ha la funzione di compensare
particolari situazioni di lavoro più gravose
(turni, rischi, reperibilità, esposizione a
intemperie e agenti atmosferici), mentre
l'indennità di vigilanza ha la funzione di
attribuire un riconoscimento economico per
lo svolgimento di particolari funzioni
(polizia giudiziaria), che comportano
particolari responsabilità». Ne consegue
che i contratti collettivi che riconoscono
l'indennità di disagio al personale della
vigilanza «non risultano affetti da
nullità ai sensi dell'articolo 40 del Dlgs
165/2001, per contrasto con norme imperative
o con i vincoli dettati dalla contrattazione
nazionale».
Valutazione analoga è stata fatta dal
Tribunale di Rimini. Le conclusioni
raggiunte dalle due sentenze sono
condivisibili, anche se desta qualche
perplessità l'affermazione secondo cui
l'indennità di disagio dovrebbe compensare
condizioni di lavoro più gravose quali
turni, rischi, reperibilità. Infatti, per
tali caratteristiche della prestazione sono
previste dai contratti nazionali voci ad
hoc dello stipendio.
Peraltro, anche il Parlamento sembra
intenzionato a recepire il punto di vista
dei giudici. Si ricorda, infatti, che sono
giacenti alle Camere diversi disegni di
legge orientati in tal senso e che il
Senato, con l'ordine del giorno 9/2479/12
del 15.12.2010, ha impegnato il Governo ad
adoperarsi al fine di garantire al personale
della Polizia locale, in aggiunta a quelle
già previste, una indennità «diretta a
remunerare gli specifici rischi e i disagi
correlati all'esercizio delle funzioni di
cui all'articolo 5 della legge 07.03.1986,
n. 65»
(articolo Il Sole 24
Ore
del 09.03.2012). |
PUBBLICO IMPIEGO: FUNZIONE
PUBBLICA/ Cumulabili congedi e permessi.
Il dipartimento della Funzione pubblica
illustra con la circolare
03.02.2012 n. 1 le
novità introdotte dal Dlgs 119/2011 in
materia di congedo parentale prolungato e di
congedo straordinario per l'assistenza a
familiari con grave handicap, per gli
aspetti che più interessano i dipendenti
pubblici.
Le maggiori novità riguardano la possibilità
di cumulare le diverse tipologie di permessi
e congedi nell'arco dello stesso mese, ma
non nello stesso giorno. Deve pertanto
intendersi superata la circolare n. 13 del
2010 che precludeva il cumulo fra congedo
straordinario e permessi ex lege
104/1992
(articolo Il Sole 24
Ore
del 09.03.2012). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: SEMPLIFICAZIONI/ Durc d'ufficio
in edilizia e appalti.
L'impresa non avrà più l'obbligo di produrre
la certificazione. Toccherà
alla p.a. acquisire i documenti. Addio al
vincolo per i lavori privati.
Nelle gare di appalto di lavori e
nell'edilizia privata scatta l'obbligo per
le amministrazioni pubbliche di acquisire
d'ufficio il Durc; nei lavori pubblici
quindi si conferma che il concorrente non
avrà più l'onere di produrre la
certificazione ma sarà onere della stazione
appaltante provvedere ad acquisirlo
direttamente dall'ente competente al
rilascio; nell'edilizia privata la norma
avrà un impatto maggiore dal momento che
fino ad oggi è l'impresa a dover produrre il
durc.
È questa una delle modifiche più
significative contenute nel testo del
disegno di legge di conversione del decreto
legge n. 2 del 2012, approvato dalle
commissioni affari costituzionali e attività
produttive della camera.
La norma, prevista
come comma 6-bis dell'articolo 14 del testo,
incide quindi sul certificato che attesta
contestualmente la regolarità di un
operatore economico per quanto concerne i
versamenti dovuti a Inps, Inail, nonché
Cassa edile per i lavori dell'edilizia,
verificati sulla base della rispettiva
normativa di riferimento. Va ricordato che
la regolarità contributiva oggetto del
documento unico di regolarità contributiva
riguarda tutti i contratti pubblici, siano
essi di lavori, di servizi o di forniture,
siano appalti o concessioni.
La disposizione
approvata dalle commissioni riunite che
prevede l'obbligo di acquisire d'ufficio il Durc dagli enti abilitati al suo rilascio in
tutti i casi in cui ciò sia richiesto dalla
legge, non si applica però a tutti i tipi di
contratto per i quali vige l'obbligo del
Durc, riferendosi soltanto ai «lavori
pubblici» e a quelli «privati
dell'edilizia». Infatti, stando al tenore
letterale della norma, nonostante il Durc
sia obbligatorio non solo nel settore dei
lavori, ma anche in quello delle forniture e
dei servizi, l'obbligo di acquisizione
d'ufficio da parte delle stazioni appaltanti
scatta soltanto nel caso dei lavori e non
nel caso di appalti di servizi e forniture.
Va altresì chiarito che l'acquisizione
d'ufficio del Durc da parte delle stazioni
appaltanti era già prevista dall'articolo
16-bis, comma 10, del decreto legge n.
185/2008, convertito nella legge n. 2/2009
ove si specifica che l'acquisizione
d'ufficio del documento può avvenire, anche
attraverso gli strumenti informatici, dagli
istituti o dagli enti abilitati al rilascio
in tutti i casi in cui è richiesto dalla
legge (anche per il pagamento degli stati di
avanzamento dei lavori). Il riferimento,
nella norma approvata dalle commissioni,
alle modalità di acquisizione di ufficio
previste dall'articolo 43 del dpr 445/2000,
conferma che si può procedere in via
telematica e che le amministrazioni
certificanti sono tenute a consentire alle
amministrazioni procedenti, senza oneri, la
consultazione per via telematica dei loro
archivi informatici, nel rispetto della
riservatezza dei dati personali.
Nell'ambito della nozione di «lavori
pubblici», rientrano, stante il
riferimento all'oggetto della prestazione,
sia i lavori affidati in appalto, sia i
lavori affidati in appalti misti o in
concessione di costruzione e gestione. In
particolare le p.a. si dovranno rivolgere
all'Inps, all'Inail e alle Casse edili (nel
settore edile) (articolo ItaliaOggi
dell'08.03.2012). |
APPALTI: Appalti,
nulla cambia sulle soglie.
Nella trattativa privata nessuna riduzione
degli importi. Alla camera sparisce la norma
del maxiemendamento al dl 1/2012 che
modificava il Codice.
Retromarcia sulle modifiche alle soglie
nella trattativa privata per gli appalti:
sparisce, nel testo all'esame della camera,
la norma inserita nel maxiemendamento
approvato in aula al senato al decreto
liberalizzazioni (dl n. 1/2012) che
comprendeva le modifiche al Codice dei
contratti pubblici; la disposizione non era
stata mai approvata in Commissione;
rimangono quindi in vigore le attuali
disposizioni sulle soglie per la trattativa
privata.
È questo l'effetto della scomparsa
del comma 2 dell'articolo 40-bis nel testo
del decreto-legge sulle liberalizzazioni
pubblicato alla camera con il numero 5025.
Un rebus che ItaliaOggi ha potuto risolvere.
Vediamo come.
Partendo dalla fine proviamo a ricostruire
cosa è successo. La settimana scorsa, a
conclusione dell'esame del provvedimento al
senato, veniva data per approvata una norma
del maxiemendamento votato in aula che,
incidendo sul decreto sviluppo (dl n. 70
convertito nella legge 106/2011), aveva
modificato le norme del Codice dei contratti
pubblici sulla procedura negoziata
(trattativa privata) con e senza
pubblicazione del bando (toccando gli
articoli 122, comma 7 e di conseguenza gli
articoli 56 e 57).
L'effetto sarebbe stato
quello per cui la soglia per la procedura
negoziata con invito a cinque si sarebbe
ridotta da un milione a 500 mila euro. Si
prevedeva anche l'applicabilità della
trattativa privata senza pubblicazione di
bando a seguito di gara andata deserta, ma
con il precedente limite di un milione di
euro. Analoga modifica veniva introdotta per
la trattativa privata con pubblicazione del
bando di gara. Inoltre veniva ridotta a un
milione di euro (dai precedenti 1,5 milioni
di euro previsti dalla modifica del dl n.
70) la soglia per potere utilizzare la
procedura ristretta semplificata. Infine il
comma 2 del maxiemendamento avrebbe portato
a 500 mila (da un milione) anche la soglia
per la trattativa privata nei beni
culturali.
Tutto questo era stato previsto sia
nell'emendamento presentato in aula a firma
della Commissione, che aveva lo scopo di
riportare in aula tutte le norme approvate
in commissione industria, sia nel
maxiemendamento successivamente predisposto
dal governo e sul quale è poi stata chiesta
e ottenuta la fiducia. Nel passaggio del
testo alla camera della norma (l'ormai
famigerato comma 2 dell'articolo 40-bis) si
perdono le tracce.
Rileggendo gli atti
parlamentari si scopre che la Commissione
industria aveva sì approvato l'articolo
40-bis ma in una versione che comprendeva
soltanto un comma (frutto dell'emendamento
40.0.14, primo firmatario il senatore Luigi Zanda)
relativo ai cosiddetti «grandi eventi».
Con tutta probabilità l'errore è dipeso dal
fatto che di questo emendamento erano stati
presentati due diversi testi: il primo che
comprendeva anche il comma 2 con le
modifiche al Codice, riportato erroneamente
nel maxiemendamento, e un secondo (quello
effettivamente approvato in commissione
previa riformulazione da parte dei
firmatari) con il solo comma 1.
In sede di coordinamento formale del testo,
prima della trasmissione alla camera, ci si
è accorti dell'errore ed è stata corretta la
norma espungendo le modifiche al Codice dei
contratti che, però, il legislatore ha
comunque votato, con la fiducia sul
maxiemendamento, e che tutti davano per
approvate (articolo ItaliaOggi
dell'08.03.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
GIURISPRUDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Stretta
sui medici. Stop ai certificati senza la
visita. Sospeso chi si limita ad attestare
cosa dice il lavoratore.
Stretta della Cassazione
sui medici che chiudono un occhio con i
lavoratori malati immaginari ma veri
professionisti dell'assenteismo. Rischia un
mese di sospensione dall'esercizio della
professione il medico di famiglia che
giustifica la mancata presenza in servizio
del paziente senza neppure visitarlo: è
infatti escluso che possa ammettersi
l'esistenza di certificati di tipo
«anamnestico» in cui il sanitario si
limiterebbe ad attestare quanto sostenuto
dal paziente rispetto al proprio stato di
salute nei giorni precedenti la redazione
del documento.
È quanto emerge dalla sentenza 09.03.2012 n. 3705 della III
Sez. civile della Corte di Cassazione.
Attestazione e parvenza
«Assente per indisposizione», se non
addirittura «per malattia»: così
recitano, spesso, i laconici certificati
rilasciati dal medico di famiglia, grazie
alla convenzione col servizio sanitario
nazionale, che sono poi inviati al datore di
lavoro e all'ente previdenziale.
Non bisogna dimenticare, a questo proposito,
che la prestazione del sanitario nel
giustificare l'assenza del lavoratore dal
servizio si completa con la redazione di un
modulario ad hoc, e ciò proprio per “responsabilizzare”
il professionista: il medico, insomma, deve
svolgere la funzione di certificatore delle
patologie riscontrate per evitare
comportamenti illeciti da parte dei clienti.
È escluso, insomma, che per evitare la
sanzione disciplinare il professionista
possa invocare la natura «anamnestica»
di questo tipo di certificati, che sarebbero
soltanto parvenze di attestazioni dal
momento che proprio nulla certificano,
limitandosi ad asseverare le dichiarazioni
del (presunto) malato; in tal modo, infatti,
il medico si presta a ingenerare il dubbio
che l'assenza sia giustificata da una
malattia accertata.
Macchia professionale
È legittimo inquadrare la condotta
dell'incolpato nell'articolo 24 del codice
deontologico che impone «scrupolo» e
«diligenza» nella redazione di
certificati medici. Non solo il medico non
evita la sanzione, ma «sporca
inesorabilmente il suo camice» quando
rilascia con troppa disinvoltura certificati
che rilevano l'incapacità al lavoro sui
moduli previsti: il sanitario, infatti, non
ottiene la cancellazione dal controricorso
della frase che così descrive la sua
condotta, sanzionata dall'Ordine. Al
professionista non resta che pagare le spese
di giudizio
(articolo ItaliaOggi
del 10.03.2012). |
APPALTI:
Nelle procedure ad evidenza
pubblica le commissioni di gara debbono
essere composte con un numero dispari di
componenti.
L’art. 84 del nuovo codice dei contratti
pubblici approvato con il D. L.vo n. 163 del
2006, in recepimento delle direttive
comunitarie, ha disciplinato in modo
uniforme la composizione della Commissione
di gara per ogni procedura ad evidenza
pubblica.
Il Collegio, sulla scorta di una
giurisprudenza amministrativa da cui non ha
motivo di discostarsi rileva, nel caso in
esame, l’illegittima composizione della
Commissione di gara i cui membri risultano
in numero pari (quattro), mentre le
Commissioni stesse debbono necessariamente
essere composte di un numero dispari onde
assicurare la funzionalità del principio
maggioritario per la formazione del
quorum strutturale ai fini del calcolo
della maggioranza assoluta dei componenti
(cfr. Cons. Stato, Sez. V, 06.04.2009 n.
2143; Sez. VI, 22.11.2007 n. 5502) (TAR
Lazio-Roma, Sez. I-bis,
sentenza 09.03.2012 n. 1321 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L'esercizio
del potere di convalida (o ratifica) del
vizio di incompetenza da parte dell'organo
competente sana il vizio medesimo con
effetto retroattivo.
La ratifica è un istituto predisposto
esclusivamente nell'interesse dell'organo
ordinariamente competente e ha lo scopo di
consentirgli di valutare l'operato
dell'organo che ha agito in via di urgenza,
appropriandosi o meno degli effetti prodotti
dall'atto d'urgenza; peraltro, il
provvedimento di ratifica si sostituisce
all'atto viziato da incompetenza con effetto
“ex tunc”, e, come per altrettanto
acquisito in giurisprudenza, l'esercizio del
potere di convalida (o ratifica) del vizio
di incompetenza da parte dell'organo
competente sana il vizio medesimo con
effetto retroattivo (cfr. Cons. Stato, sez.
IV, 17.05.2010, n. 3121; Cons. Stato, sez.
IV, 29.05.2009, nr. 3371; Cons. Stato, sez.
VI, 07.05.2009, nr. 2840; Cons. Stato, sez.
IV, 31.05.2007, nr. 2894) (TAR Lazio-Roma,
Sez. III-ter,
sentenza 09.03.2012 n. 1298 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI: Riservatezza.
Il nulla osta del proprietario non è
sufficiente. La privacy va tutelata anche in
casa d'altri.
IL PRINCIPIO/ È illegale riprendere gli
ambienti interni anche se chi abita
l'immobile ha prestato consenso alla
telecamera.
Il reato di interferenza
illecita nella vita privata di una persona
sussiste anche se le immagini e le
conversazioni vengono captate in luogo
diverso dal domicilio della vittima, e anche
se il furto di privacy è agevolato dal
consenso di chi condivide la situazione
contestata con il malcapitato.
La Corte di Cassazione –V Sez. penale,
sentenza 08.03.2012 n. 9235– traccia i
confini allargati dei luoghi dentro cui una
persona ha diritto di sentirsi al sicuro da
sguardi e orecchie indiscreti: non solo il
proprio domicilio, ma anche quello altrui e
indipendentemente dalla volontà del padrone
di casa di escludere (o di non escludere)
gli spioni.
Il caso affrontato dai giudici di ultima
istanza, del resto, era molto peculiare. Un
investigatore privato era stato condannato
in primo e secondo grado per aver ripreso e
registrato gli incontri amorosi di una
signora nella casa dell'amante; la
particolarità dell'intreccio stava nella
circostanza che il proprietario di casa,
nonché amante, aveva consentito
all'investigatore di piazzare le telecamere
nell'appartamento, consapevole tra l'altro
del possibile utilizzo dei file amorosi
(consegna al marito per finalità
processuali).
Secondo i difensori del poliziotto privato,
le due condanne erano viziate dal fatto di
non aver considerato che il teatro degli
incontri amorosi –nonché set dei filmini–
non coincideva con il luogo di privata
dimora della vittima (la moglie infedele), e
che inoltre il padrone di casa aveva aperto
le porte allo spione, facendo così venir
meno il presupposto penale della «volontà
tacita o espressa di escludere gli
estranei», come prescritto dall'articolo 614
del Codice penale.
I giudici di piazza Cavour però hanno
rigettato senza indugi il ricorso,
condannando l'investigatore ficcanaso anche
al pagamento delle spese processuali
sostenute dalla signora spiata. Il
riferimento dell'articolo 615-bis del Codice
penale (interferenze illecite nella vita
privata) all'articolo 614 (violazione di
domicilio) nella parte in cui prevede «l'intrusione
nella privata dimora contro la volontà
espressa o tacita di chi ha il diritto di
escluderlo, ovvero (...) clandestinamente o
con inganno», scrive la Corte, «ha
semplicemente la funzione di indicare i
luoghi nei quali "l'interferenza" nella
altrui vita deve considerarsi penalmente
illecita, ma non anche quella di recepirne
il regime giuridico». Perché in
definitiva «chi frequenta un luogo di
privata dimora, anche se si tratta della
dimora altrui, fa affidamento, appunto, sul
carattere di "privatezza" dello stesso e,
dunque, agisce sul presupposto che la
condotta che egli tiene in quel luogo sarà
percepita solo da coloro che in esso siano
stati lecitamente ammessi».
Nel caso specifico, dunque, l'unico a
legittimato a «percepire la condotta»
era appunto solo l'amante doppiamente
fedifrago
(articolo Il Sole 24
Ore
del 09.03.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
APPALTI: Nelle
gare d’appalto improntate al criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa,
la valutazione dell’offerta tecnica, in
presenza di criteri puntuali e stringenti
fissati dalla lex specialis ex art. 83 d.lgs
n. 163/2006 può avvenire con attribuzione di
punteggi senza la necessità di una ulteriore
motivazione.
Ad avviso del Collegio nelle gare d’appalto
improntate al criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa, la
valutazione dell’offerta tecnica, in
presenza di criteri puntuali e stringenti
(fissati dalla lex specialis ai sensi
dell’art. 83 d.lgs. 12.04.2006, n.163), può
estrinsecarsi mediante l’attribuzione di
punteggi senza la necessità di una ulteriore
motivazione, esternandosi in tal caso il
giudizio della commissione ex se
nella graduazione e ponderazione dei
punteggi assegnati in conformità ai criteri,
ma che, nelle ipotesi connotate dall’assenza
di sub-criteri o anche di criteri di
valutazione sufficientemente dettagliati, e
dunque in presenza di criteri improntati a
significativi margini di discrezionalità
tecnica non compiutamente definiti, la mera
attribuzione dei punteggi non sia
sufficiente a dar conto dell’iter logico
seguito nella scelta e a far comprendere con
chiarezza le ragioni per cui sia stato
attribuito un punteggio maggiore a talune
offerte e minore ad altre, sicché in ipotesi
siffatte, per assolvere correttamente al
dovere di motivazione, è necessario che,
oltre al punteggio numerico, sia espresso un
giudizio motivato, col quale la commissione
espliciti le ragioni del punteggio
attribuito (v. in tal senso, ex plurimis,
C.d.S., Sez. V, 29.11.2005 n. 6759)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 08.03.2012 n. 1332 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Annullamento
dell'autorizzazione paesaggistica: il vizio
di omesso avvio del procedimento di
controllo sul nulla osta paesaggistico da
parte della Soprintendenza non e' sanabile
ai sensi dell’art. 21-octies della legge n.
241/1990.
Il Consiglio di Stato nella sentenza in
esame ha richiamato l'orientamento
giurisprudenziale a tenore del quale è in
linea di principio necessario dare specifico
avviso agli interessati dell’avvio del
procedimento di controllo del nulla osta
paesaggistico, da parte della competente
Soprintendenza (Cons. St., sez. VI,
20.01.2003 n. 203; Cons. St., sez. VI,
29.03.2002 n. 1790). Sebbene sia possibile,
in astratto, che l’avviso sia surrogato da
atti equipollenti, tuttavia secondo
l’orientamento espresso dalla sezione, non
può costituire di regola equipollente la
dizione, nel nulla osta paesaggistico, che
l’atto sarà trasmesso alla Soprintendenza
per il controllo (Cons. St., sez. VI, n.
1790/2002, cit.).
Invero, con numerose pronunce, dalle cui
conclusioni il Collegio non ritiene di
doversi discostare, questa Sezione ha più
volte affrontato la problematica sollevata
con la censura in esame, risolvendola in
senso negativo a quello prospettato
dall’amministrazione appellante, ossia nel
senso della sussistenza dell’obbligo
dell’autorità statale di dare notizia
all’interessato, anche nell’ipotesi in cui
il nulla osta rechi l’avviso che l’atto sarà
trasmesso alla Soprintendenza, dell’avvio
del procedimento preordinato all’eventuale
annullamento del nulla-osta paesaggistico
(cfr., tra le tante, Cons. St., sez. VI, n.
5728/2004; Cons. St., sez. VI, 25.03.2004 n.
1626; Cons. St., sez. VI, 20.01.2003 n. 203;
Cons. St., sez. VI, 17.09.2002 n. 4709;
Cons. St., sez. VI, 29.03.2002 n. 1790).
Invero, il parere paesaggistico rilasciato
nella specie dal Comune non avrebbe mai
potuto essere considerato quale atto
equipollente all’avviso di procedimento da
iniziarsi da parte della Soprintendenza ai
sensi dell’art. 7 l. n. 241/1990. E ciò
perché l’atto comunale costituisce l’oggetto
della nuova fase procedimentale destinata ad
aprirsi di fronte all’autorità statale,
sicché la stessa non può, strutturalmente,
essere considerata equivalente all’avviso
dell’inizio di tale nuova fase, dal momento
che esso non contiene alcuna generica
informazione circa l’oggetto, il
responsabile del procedimento, le modalità
di partecipazione, ed in genere lo
svolgimento della predetta nuova fase. Viene
ribadito, pertanto, l’indirizzo
giurisprudenziale della Sezione, che
richiede che il provvedimento ministeriale
di annullamento del nulla-osta paesaggistico
sia preceduto necessariamente dall’avviso
del procedimento, salvo che la conoscenza
dell’inizio del medesimo procedimento sia
avvenuta aliunde (Cons. St., sez. VI,
17.10.2003 n. 6342; Cons. St., sez. VI,
29.04.2003 n. 2176; Cons. St., sez. VI,
10.04.2003 n. 1909).
In definitiva, deve ribadirsi che l’onere di
cui all’art. 7, comma 1, della l. n.
241/1990, viene soddisfatto soltanto dalla
formale comunicazione ad opera dell’autorità
statale competente a pronunciare l’eventuale
annullamento dell’autorizzazione
paesaggistica, così come, del resto,
esplicitamente previsto dalla normativa
regolamentare attuativa della l. n. 241/1990
appositamente dettata dal Ministero dei beni
culturali ed ambientali, con d.m. n. 495 del
13.06.1994 (art. 4 e tabella A punto 4).
Né il vizio può ritenersi irrilevante ai
sensi dell’art. 21-octies l. n. 241/1990,
perché, presentando la valutazione di
compatibilità paesaggistica un margine di
opinabilità, la partecipazione
dell’interessata al procedimento avrebbe
potuto fornire un apporto per una soluzione
favorevole, anche mediante l’indicazione di
misure di compatibilizzazione o di
ridimensionamento dell’opera abusiva
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 08.03.2012 n. 1318 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: La
variante urbanistica che localizza un’opera
pubblica su un’area demaniale non produce un
vincolo espropriativo a carico del demanio,
ma si può interpretare come una proposta di
utilizzazione del bene demaniale subordinata
all’assenso dell’ente gestore e al rispetto
della consistenza e della destinazione del
bene stesso. La verifica di tali condizioni
è normalmente assicurata attraverso lo
strumento della concessione demaniale, che
si colloca tra la scelta urbanistica e
l’esecuzione dei lavori.
Lo strumento della variante semplificata
nell’ipotesi prevista dall’art. 2, comma 2,
lett. a), della LR 23/1997 consente anche di
introdurre modifiche alla zonizzazione, in
quanto la procedura è propriamente
finalizzata a ottenere l’effetto di variante
urbanistica per la localizzazione di opere
pubbliche comunali. La codificazione di
questo istituto nella legislazione regionale
rende inapplicabili le procedure di variante
previste a livello nazionale dall’art. 1,
comma 5, della legge 1/1978 e dall’art. 19,
commi 2 e 4, del DPR 327/2001 (quest’ultimo
del resto dichiarato espressamente non
applicabile in ambito regionale dall’art.
103 della LR 11.03.2005 n. 12). Il
radicamento presso i comuni del potere di
variante urbanistica per le opere pubbliche
di loro pertinenza non si armonizzerebbe con
il contemporaneo mantenimento in capo alla
Regione di un potere di approvazione del
progetto a fini urbanistici come stabilito
dalle citate norme statali. Nell’ordinamento
regionale, quindi, l’autonomia riconosciuta
ai comuni comporta che la procedura di
approvazione del progetto sia separata da
quella di variante urbanistica e che
ciascuna rimanga radicata presso gli organi
comunali competenti.
Per quanto riguarda la necessaria conformità
dei progetti delle opere pubbliche alla
destinazione urbanistica dei luoghi (v. art.
14, comma 8, della legge 109/1994 in vigore
all’epoca), si osserva che la possibilità di
ottenere l’effetto di variante urbanistica
attraverso la procedura di cui all’art. 2,
comma 2, lett. a), della LR 23/1997 consente
ai comuni di anticipare l’approvazione del
progetto, anzi normalmente esige che almeno
il progetto preliminare sia approvato prima
della variante semplificata. In una fase
successiva alla variante si colloca, quindi,
soltanto il progetto definitivo–esecutivo,
come è avvenuto nel caso in esame. Poiché il
progetto non determina vincoli espropriativi
(ma soltanto una prelazione
nell’assegnazione delle aree demaniali) non
è direttamente applicabile l’art. 16, comma
10, del DPR 327/2001.
(a)
la variante urbanistica che localizza
un’opera pubblica su un’area demaniale non
produce un vincolo espropriativo a carico
del demanio, ma si può interpretare come una
proposta di utilizzazione del bene demaniale
subordinata all’assenso dell’ente gestore e
al rispetto della consistenza e della
destinazione del bene stesso. La verifica di
tali condizioni è normalmente assicurata
attraverso lo strumento della concessione
demaniale, che si colloca tra la scelta
urbanistica e l’esecuzione dei lavori.
Nello specifico la passeggiata posizionata
lungo la sponda del lago non solo può
coesistere con la natura demaniale della
spiaggia ma rappresenta una delle forme di
utilizzo che meglio garantiscono la
fruizione collettiva del bene pubblico, nel
rispetto della sua intrinseca destinazione;
(b)
correttamente, quindi, il Comune ha chiesto
al Consorzio gestore del demanio lacuale la
concessione della superficie demaniale
necessaria per la realizzazione della
passeggiata. La posizione del Comune nei
confronti del bene pubblico è un’aspettativa
di utilizzazione assimilabile a quella dei
privati ma dotata di maggiore protezione.
Al riguardo, esplicitando un principio della
materia, sia la DGR 6/47317 del 22.12.1999
(punto 6-h dei criteri generali) sia la DGR
7/10487 del 30.09.2002 (punto 35) prevedono
che in presenza di più domande di
concessione riguardanti la stessa area
devono essere preferite quelle che
garantiscono maggiormente la fruizione
pubblica e la valorizzazione del bene
nell’interesse generale;
(c)
lo strumento della variante semplificata
nell’ipotesi prevista dall’art. 2, comma 2,
lett. a), della LR 23/1997 (norma che
ratione temporis regola la fattispecie
in esame) consente anche di introdurre
modifiche alla zonizzazione, in quanto la
procedura è propriamente finalizzata a
ottenere l’effetto di variante urbanistica
per la localizzazione di opere pubbliche
comunali. La codificazione di questo
istituto nella legislazione regionale rende
inapplicabili le procedure di variante
previste a livello nazionale dall’art. 1,
comma 5, della legge 1/1978 e dall’art. 19,
commi 2 e 4, del DPR 327/2001 (quest’ultimo
del resto dichiarato espressamente non
applicabile in ambito regionale dall’art.
103 della LR 11.03.2005 n. 12).
Il radicamento presso i comuni del potere di
variante urbanistica per le opere pubbliche
di loro pertinenza non si armonizzerebbe con
il contemporaneo mantenimento in capo alla
Regione di un potere di approvazione del
progetto a fini urbanistici come stabilito
dalle citate norme statali. Nell’ordinamento
regionale, quindi, l’autonomia riconosciuta
ai comuni comporta che la procedura di
approvazione del progetto sia separata da
quella di variante urbanistica e che
ciascuna rimanga radicata presso gli organi
comunali competenti;
(d)
la variante semplificata di cui all’art. 2,
comma 2, lett. a), della LR 23/1997 può
avere ad oggetto qualsiasi opera pubblica di
competenza comunale, e dunque anche quelle
che costituiscono standard urbanistico.
Conseguentemente la modifica della
destinazione urbanistica può consistere
nell’individuazione di nuove aree per opere
di urbanizzazione o per attrezzature
pubbliche o di interesse pubblico.
Le finalità programmatorie del piano dei
servizi non sono compromesse qualora la
variante semplificata riguardi opere
specifiche. Si potrebbe invece sospettare un
abuso dello strumento della variante
semplificata se attraverso una pluralità di
interventi apparentemente scollegati
l’amministrazione perseguisse lo scopo di
modificare l’impostazione complessiva del
piano dei servizi, ma nel caso in esame non
vi sono elementi che facciano supporre una
tale intenzione da parte del Comune;
(i)
per quanto riguarda la necessaria conformità
dei progetti delle opere pubbliche alla
destinazione urbanistica dei luoghi (v. art.
14, comma 8, della legge 109/1994 in vigore
all’epoca), si osserva che la possibilità di
ottenere l’effetto di variante urbanistica
attraverso la procedura di cui all’art. 2,
comma 2, lett. a), della LR 23/1997 consente
ai comuni di anticipare l’approvazione del
progetto, anzi normalmente esige che almeno
il progetto preliminare sia approvato prima
della variante semplificata. In una fase
successiva alla variante si colloca, quindi,
soltanto il progetto definitivo–esecutivo,
come è avvenuto nel caso in esame. Poiché il
progetto non determina vincoli espropriativi
(ma soltanto una prelazione
nell’assegnazione delle aree demaniali) non
è direttamente applicabile l’art. 16, comma
10, del DPR 327/2001
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 08.03.2012 n. 383 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sulla violazione di una regola,
sia pure formale, della lex specialis e
sull'istituto della c.d. "associazione per
cooptazione".
La violazione di una regola, sia pure
formale, ma richiesta dal bando di gara a
pena di esclusione, pone un obbligo anche a
carico della stazione appaltante che può
essere disatteso solo se detta prescrizione
sia oggettivamente equivoca, il che, nel
caso di specie, non è: il bando imponeva,
con chiarezza, una determinata forma della
dichiarazione, e tale forma andava
rispettata da ogni concorrente, pena
l'esclusione.
La possibilità di un'impresa facente parte
di un'ATI di cooptare altre imprese,
ancorché prevista solo in materia di
procedure di aggiudicazione degli appalti di
lavori pubblici, è espressione di un
principio di derivazione comunitaria, e come
tale è applicabile in tutti i pubblici
appalti, ivi compresi quelli di servizi. A
garanzia degli interessi della stazione
appaltante, negli appalti di servizi, la
cooptata deve comunque dimostrare il
possesso dei requisiti (o, quanto meno di
possedere adeguata esperienza) in misura
almeno pari a quella della quota di servizio
che dovrà svolgere (che dovrebbe essere
debitamente precisata dalla lex specialis,
sia sotto l'aspetto quantitativo che
qualitativo) (TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 08.03.2012 n. 92 - link
a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
incombe a carico del Comune l'onere della
previa individuazione dell'effettivo
proprietario dell'area, atteso che
l'ordinanza di demolizione può essere
legittimamente notificata anche
esclusivamente all'autore materiale
dell'abuso, nel caso in cui non corrisponda
con il proprietario dell'area interessata
dai lavori edilizi abusivi.
Ed infatti la estraneità del proprietario (o
del titolare del diritto reale) agli abusi
edilizi commessi sulla cosa locata e
affittata dal conduttore, locatario o
affittuario non implica l'illegittimità
dell'ordinanza di demolizione o di riduzione
in pristino dello stato dei luoghi, emessa
ai sensi dell'art. 7, l. n. 28 del 1985 nei
confronti del responsabile dell'abuso, ma la
sola insuscettività del provvedimento
repressivo e sanzionatorio a costituire
titolo per l'acquisizione gratuita al
patrimonio comunale dell'area di sedime
sulla quale insiste il bene.
Ai sensi dell'art. 31 del T.U. 06.06.2001 n.
380, l'ingiunzione di demolizione deve
essere notificata al responsabile
dell'abuso, oltre che al suo proprietario,
con la conseguenza che è illegittima
l'ingiunzione di demolizione che non venga
notificata al responsabile dell'abuso né al
proprietario dell'opera abusiva ma solo al
proprietario dell'area sulla quale è stata
realizzata la stessa opera, soprattutto se
questi non ha la materiale disponibilità e
non può procedere alla demolizione o
rimozione dell'opera abusiva.
---------------
In tema di omissione della comunicazione
dell'avvio del procedimento (strumento
principale di partecipazione), i
provvedimenti repressivi degli abusi edilizi
non devono essere preceduti dal suddetto
avviso, trattandosi di provvedimenti tipici
e vincolati emessi all'esito di un mero
accertamento tecnico della consistenza delle
opere realizzate e del carattere abusivo
delle medesime.
Più recentemente, è stato precisato che la
violazione dell'obbligo di comunicazione
dell'avvio del procedimento non costituisce
un motivo idoneo a determinare
l'annullabilità dei provvedimenti
sanzionatori in materia di abusi edilizi, in
quanto è palese, attesa l'assenza di
qualsivoglia titolo abilitativo
all'edificazione, che il contenuto
dispositivo del provvedimento "non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto
adottato", sicché sussiste la condizione
prevista dall'art. 21-octies, comma 2, della
L. n. 241 del 1990 per determinare la non
annullabilità del provvedimento impugnato.
Rileva il Collegio che non incombe a carico
del Comune l'onere della previa
individuazione dell'effettivo proprietario
dell'area, atteso che l'ordinanza di
demolizione, per giurisprudenza consolidata
nella materia, può essere legittimamente
notificata anche esclusivamente all'autore
materiale dell'abuso, nel caso in cui non
corrisponda con il proprietario dell'area
interessata dai lavori edilizi abusivi.
Ed infatti la estraneità del proprietario (o
del titolare del diritto reale) agli abusi
edilizi commessi sulla cosa locata e
affittata dal conduttore, locatario o
affittuario non implica l'illegittimità
dell'ordinanza di demolizione o di riduzione
in pristino dello stato dei luoghi, emessa
ai sensi dell'art. 7, l. n. 28 del 1985 nei
confronti del responsabile dell'abuso, ma la
sola insuscettività del provvedimento
repressivo e sanzionatorio a costituire
titolo per l'acquisizione gratuita al
patrimonio comunale dell'area di sedime
sulla quale insiste il bene (cfr., TAR
Campania Napoli, sez. II, 19.10.2006, n.
8673).
Ai sensi dell'art. 31 del T.U. 06.06.2001 n.
380, l'ingiunzione di demolizione deve
essere notificata al responsabile
dell'abuso, oltre che al suo proprietario,
con la conseguenza che è illegittima
l'ingiunzione di demolizione che non venga
notificata al responsabile dell'abuso né al
proprietario dell'opera abusiva ma solo al
proprietario dell'area sulla quale è stata
realizzata la stessa opera, soprattutto se
questi non ha la materiale disponibilità e
non può procedere alla demolizione o
rimozione dell'opera abusiva.
---------------
Per consolidata
regola giurisprudenziale, ampiamente
condivisa da questo TAR, in tema di
omissione della comunicazione dell'avvio del
procedimento (strumento principale di
partecipazione), i provvedimenti repressivi
degli abusi edilizi non devono essere
preceduti dal suddetto avviso, trattandosi
di provvedimenti tipici e vincolati emessi
all'esito di un mero accertamento tecnico
della consistenza delle opere realizzate e
del carattere abusivo delle medesime (Cons.
Stato, sez. IV, 30.03.2000, n. 1814; TAR
Campania, sez. IV, 28.03.2001, n. 1404,
14.06.2002, n. 3499, 12.02.2003, n. 797).
Più recentemente, è stato precisato che la
violazione dell'obbligo di comunicazione
dell'avvio del procedimento non costituisce
un motivo idoneo a determinare
l'annullabilità dei provvedimenti
sanzionatori in materia di abusi edilizi, in
quanto è palese, attesa l'assenza di
qualsivoglia titolo abilitativo
all'edificazione, che il contenuto
dispositivo del provvedimento "non
avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato", sicché sussiste la
condizione prevista dall'art. 21-octies,
comma 2, della L. n. 241 del 1990 per
determinare la non annullabilità del
provvedimento impugnato (Consiglio di Stato,
sez. IV, 15.05.2009, n. 3029)
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 07.03.2012 n. 2031 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
provvedimento di acquisizione gratuita al
patrimonio comunale degli immobili abusivi
può essere adottato senza la specifica
indicazione dell'ulteriore area oggetto di
acquisizione.
L'acquisizione gratuita al patrimonio
comunale degli immobili abusivi e della
relativa area di sedime costituisce effetto
automatico della mancata ottemperanza
all'ordine di demolizione. Secondo la
giurisprudenza (TAR Toscana Firenze, Sez.
III, 20.01.2009, n. 24) il provvedimento con
il quale viene disposta l'acquisizione
gratuita -costituendo titolo per
l'immissione in possesso e per la
trascrizione nei registri immobiliari- può
essere adottato senza la specifica
indicazione dell'ulteriore area "necessaria,
secondo le vigenti prescrizioni
urbanistiche, alla realizzazione di opere
analoghe a quelle abusive" (area che "non
può comunque essere superiore a dieci volte
la complessiva superficie utile abusivamente
costruita") oggetto di acquisizione,
potendosi procedere a tale individuazione
anche con un successivo e separato atto (TAR
Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 07.03.2012 n. 2031 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Decide
il giudice ordinario sulle controversie
relative a concorsi interni riguardanti la
progressione verso una qualifica superiore
nell'ambito della stessa area.
La controversia all'esame del giudice
amministrativo concerne l'impugnazione di un
bando di corso-concorso per un passaggio
interno di carriera (dall’area C1-C2
all’area C3). Trattandosi, quindi, di un
concorso interno riguardante la progressione
verso una qualifica superiore nell’ambito
della medesima area funzionale, il Giudice
amministrativo ha fatto proprio
l'orientamento delle Sezioni Unite della
Corte di Cassazione n. 12764 del 25.05.2010
e n. 5458 del 06.03.2009 che hanno stabilito
che “sussiste la giurisdizione del
Giudice Ordinario nelle controversie
relative a concorsi interni riguardanti la
progressione verso una qualifica superiore
appartenente all’ambito della stessa area”.
Ritenuto che nella fattispecie per cui è
causa, concernente proprio un concorso
interno per progressione di carriera
nell’ambito di una medesima area, la
giurisdizione appartenga al Autorità
Giudiziaria Ordinaria, e che pertanto -in
considerazione del difetto di giurisdizione
del Giudice Amministrativo- il ricorso debba
essere dichiarato inammissibile (TAR
Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 06.03.2012 n. 2256 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Errori
nel certificato di destinazione urbanistica:
il privato può presentare
all'Amministrazione un'istanza di correzione
o impugnare davanti al giudice
amministrativo i successivi provvedimenti
concretamente lesivi non potendo impugnare
autonomamente il solo certificato.
Il certificato di destinazione urbanistica
(di cui all’art. 30 del D.Lgs. 380 del 2001
- Testo Unico dell'Edilizia) è un atto di
certificazione redatto da un pubblico
ufficiale avente natura ed effetti meramente
dichiarativi e non costitutivi di posizioni
giuridiche, infatti tali posizioni
discendono da altri provvedimenti, che hanno
a loro volta determinato la situazione
giuridica acclarata dal certificato stesso
(cfr. Tar Lombardia, Milano, sez. IV,
06.10.2010, 6863).
Conseguentemente deve ritenersi che tale
atto, essendo sfornito di ogni efficacia
provvedimentale, è altresì privo di concreta
lesività, il che non rende ammissibile la
sua autonoma impugnazione. Gli eventuali
asseriti errori contenuti nel certificato
possono semmai essere corretti dalla stessa
Amministrazione, su istanza del privato,
oppure quest'ultimo potrà impugnare davanti
al giudice amministrativo gli eventuali
successivi provvedimenti concretamente
lesivi, adottati dall’Amministrazione in
base all'erroneo certificato di destinazione
urbanistica, in riscontro a specifica
richiesta edificatoria o ai fini della
riqualificazione dell’area (cfr. TAR
Lombardia, Milano, sez. II, 14.03.2011, n.
279; idem, 12.01.2010, n. 21; TAR Campania,
Napoli, sez. II, 20.09.2010, n. 17479; TAR
Toscana, sez. I, 28.01.2008, n. 55) (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 06.03.2012 n.
2241 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
Comune dopo aver accertato l'esecuzione di
opere abusive non e' onerato alla verifica
della loro sanabilità in sede di vigilanza
sull'attività edilizia.
Nello schema giuridico delineato dall'art.
31 del d.P.R. n. 380/2001 non vi è spazio
per apprezzamenti discrezionali, atteso che
l'esercizio del potere repressivo di un
abuso edilizio consistente nell'esecuzione
di un'opera in assenza del titolo
abilitativo costituisce atto dovuto, per il
quale è in re ipsa l'interesse
pubblico alla sua rimozione; e, pertanto,
accertata l'esecuzione di opere in assenza
di concessione ovvero in difformità totale
dal titolo abilitativo, non costituisce
onere del Comune verificare la sanabilità
delle opere in sede di vigilanza
sull'attività edilizia (cfr. Consiglio
Stato, sez. IV, 27.04.2004, n. 2529)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.03.2012 n.
1260 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI:
Vendita di quotidiani libera? La
presa d'atto della Giunta non basta. Serve
la delibera del Consiglio Comunale.
E' illegittima, per
incompetenza, una deliberazione adottata
dalla Giunta comunale, con cui, per effetto
dell'entrata in vigore dei cc.dd. decreti
Bersani l'esecutivo comunale ha preso atto
dell'avvenuta liberalizzazione del settore
della vendita di quotidiani e periodici; e,
quindi, sul presupposto che tale attività
non fosse più soggetta a limitazioni, ha
stabilito che essa può essere svolta in base
a D.I.A. a efficacia immediata.
I ricorrenti, titolari di rivendite di
quotidiani e periodici, hanno impugnato la
delibera con cui la Giunta comunale aveva "preso
atto" dell’avvenuta liberalizzazione del
settore della vendita di quotidiani e
periodici, contestualmente stabilendo che la
stessa poteva essere svolta in base a
dichiarazione di inizio di attività a
efficacia immediata.
Hanno eccepito l’illegittimità del
menzionato provvedimento sia sotto il
profilo dell’incompetenza dell’organo
giuntale, sia in relazione alla circostanza
per cui l’attività di vendita di quotidiani
e periodici non sarebbe rientrata tra quelle
oggetto di liberalizzazione.
Costituitasi in giudizio, la P.A. comunale
ha eccepito, in via preliminare, il difetto
di legittimazione e interesse dei
ricorrenti.
Il TAR di Latina, con riferimento alle
menzionate eccezioni di inammissibilità, ne
ha rilevato l’infondatezza sulla scorta
della considerazione per cui non vi era
alcun dubbio che i ricorrenti,
incontestatamente operatori del mercato
della vendita dei quotidiani e periodici,
fossero stati indiretti destinatari di una
delibera –qual è quella gravata- che aveva
comunque inciso direttamente e non solo
potenzialmente i propri interessi.
Sicché, rintracciando la legittimazione al
ricorso dei deducenti, ha ancora precisato
come gli stessi avrebbero tratto vantaggio
dal suo eventuale accoglimento, atteso che
la mancata apertura del mercato ad altri
operatori li avrebbe sottratti alla
pressione concorrenziale.
Nel merito, il ricorso è stato accolto.
Con riferimento alla dedotta incompetenza
della Giunta comunale, i deducenti hanno
eccepito che la delibera impugnata avrebbe
dovuto essere adottata dal Consiglio
comunale, in quanto integrante un atto
avente contenuto pianificatorio
dell’attività di vendita dei giornali.
Il Collegio ha premesso che la delibera in
questione possedeva un contenuto composito:
la stessa, infatti, per una parte, sembrava
limitarsi a "prendere atto" di una
liberalizzazione dell’attività di vendita
dei giornali; per l’altra, e nel presupposto
di questa liberalizzazione, disponeva la
formale abrogazione di ogni regolamentazione
comunale che si fosse posta in contrasto con
la normativa introduttiva delle
liberalizzazioni, contestualmente
assoggettando l’attività al regime della
dichiarazione di inizio di attività.
Il provvedimento, quindi, anche se
apparentemente circoscritto alla presa
d’atto di un effetto (liberalizzazione
dell’attività), a opinione dell’adito G.A.
possedeva anche un contenuto dispositivo di
tipo programmatorio che, in linea di
principio, esula dai poteri della Giunta
comunale.
Da qui la condivisione della dedotta
illegittimità, per incompetenza,
dell’impugnata deliberazione.
A tanto si soggiunga come il giudicante ha
accolto l’ulteriore censura mossa dai
ricorrenti che, con riferimento alla
medesima delibera, hanno eccepito l’erroneo
accostamento da parte dell’amministrazione
dell’attività di vendita di quotidiani e
periodici con le attività economiche oggetto
di liberalizzazione.
Sul proposito, l’adito TAR, in relazione ai
decreti “Bersani”, dopo aver rilevato
che il D.L. n. 7/2007 non recava alcuna
disposizione concernente l’attività in
parola, ha affrontato il problema se la
vendita di giornali avesse potuto essere
ricondotta fra le attività di cui all’art.
3, D.L. n. 223/2006 che, per individuare
l’ambito delle liberalizzazioni da esso
introdotte, rinviava alle attività
commerciali di cui al D.Lgs. n. 114/1998.
Orbene, il Collegio ha precisato che la tesi
della riconducibilità dell’attività di
vendita di giornali alle previsioni del
D.Lgs. n. 114/1998 poteva esser basata sul
rilievo per cui, in termini generali, l’art.
4 non contempla la stessa tra le attività
commerciali cui le sue disposizioni non sono
applicabili.
Tanto, del resto, poteva trovare conferma
nella successiva previsione dell’art. 13
che, stabilendo alle rivendite di giornali
l’inapplicabilità del titolo relativo agli
orari di vendita, implicitamente avrebbe
confermato l’applicabilità delle altre
disposizioni e quindi la riconducibilità
dell’attività di vendita dei giornali
nell’ambito del D.L. n. 223/2006.
Tuttavia, il TAR di Latina non ha mancato di
sottolineare come siffatti argomenti
avessero comunque trovato smentita nel
D.Lgs. n. 170/2001 (Riordino del sistema di
diffusione della stampa quotidiana e
periodica) che, dopo aver istituito e
disciplinato un sistema distributivo
imperniato su una programmazione comunale
basata su piani di localizzazione di punti
di vendita esclusivi e punti vendita non
esclusivi, aveva stabilito nell’art. 9 che "per
quanto non previsto dal presente decreto si
applica il decreto legislativo 31.03.1998,
n. 114".
Cosicché, considerato che la disposizione in
questione stabiliva che il D.Lgs. n.
114/1998 si applicasse solo residualmente
alla vendita dei giornali, il G.A. ha
desunto come la medesima attività non
rientrasse in via diretta nell’ambito
applicativo dell’art. 3, D.L. n. 223/2006.
Detto argomento, del resto, a opinione del
Collegio, ha trovato una spiegazione nella
circostanza per cui il sistema di vendita
previsto dal D.Lgs. n. 170/2001 ha, in linea
di principio, tra i suoi obiettivi quello di
garantire, a tutela del pluralismo
dell’informazione, la distribuzione di tutte
le pubblicazioni edite in Italia attraverso
l’imposizione ai titolari dei punti di
vendita esclusivi dell’obbligo di garantire
la cd. "parità di trattamento" delle
diverse testate.
Per siffatte ragioni, il ricorso è stato
accolto, con conseguente declaratoria
dell’illegittimità dell’impugnata
deliberazione (commento tratto da
www.ipsoa.it - TAR Lazio-Latina,
sentenza 02.03.2012 n.
181 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La generica dichiarazione di
regolarità della documentazione
amministrativa non è idonea a dimostrare la
presenza all'interno del plico dei documenti
successivamente non rinvenuti.
La dichiarazione della commissione
giudicatrice in ordine alla regolarità della
documentazione prodotta dall’ATI
aggiudicataria dell’appalto non dimostra,
stante la sua genericità, che siano stati
effettivamente presentati i documenti di
riconoscimento in questione (massima tratta
da www.dirittodegliappaltipubblici.it - C.G.A.R.S.,
sentenza 29.02.2012 n. 229 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Costituisce un vincolo
preordinato all'espropriazione la
destinazione a verde pubblico attrezzato.
Diversamente da altre solo in apparenza
simili destinazioni urbanistiche (tra cui
quelle a “verde privato” o “verde
agricolo”), che invece effettivamente
conformano il diritto dominicale dei
proprietari dei fondi interessati, senza
però sopprimerlo in toto – la destinazione a
“verde pubblico attrezzato” (al pari
di quella a “verde pubblico”) è
radicalmente incompatibile con la permanenza
del fondo in proprietà privata.
Sussiste un vincolo preordinato alla
espropriazione le volte in cui la
destinazione della area permetta la
realizzazione di opere destinate
esclusivamente alla fruizione
soggettivamente pubblica, nel senso di
riferita esclusivamente all’ente
esponenziale della collettività
territoriale. E pertanto nel caso di
parcheggi pubblici, strade e spazi pubblici,
spazi pubblici attrezzati, parco urbano,
attrezzature pubbliche per l’istruzione. In
tali casi, evidentemente, l’utilizzatore
finale dell’opera non può che essere l’ente
pubblico di riferimento ed essa, in nessun
caso, può essere posta sul mercato per
soddisfare una domanda differenziata che,
semplicemente, non esiste (massima
tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it
-
C.G.A.R.S.,
sentenza 27.02.2012 n. 212
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 12 del d.lgs. n. 387 del
2003, nel riflettere il favor del
legislatore sovranazionale per lo sviluppo
delle fonti energetiche rinnovabili e dei
relativi impianti di produzione, fa
registrare la confluenza di profili di
tutela ambientale, ricadenti nella
competenza legislativa esclusiva dello
Stato, e profili afferenti alla competenza
concorrente di Stato e Regioni nelle materie
della produzione, trasporto e distribuzione
di energia, ovvero del governo del
territorio, sicché deve escludersi che alle
Regioni sia consentito provvedere in via
autonoma alla individuazione dei criteri per
il corretto inserimento ambientale degli
impianti alimentati da fonti di energia
alternativa, al di fuori delle linee-guida
nazionali ed in violazione del principio di
leale collaborazione.
Se, alla luce della oramai consolidata
giurisprudenza costituzionale, in presenza
di una normativa statale che non contempla
alcuna limitazione specifica alla
localizzazione degli impianti per la
produzione di energia elettrica da fonti
rinnovabili né pone divieti inderogabili ma
rinvia all’adozione di criteri comuni per
tutto il territorio nazionale, è negata al
legislatore regionale la possibilità di
provvedere autonomamente all’individuazione
dei siti inidonei all’installazione di
specifiche tipologie di impianti, a maggior
ragione deve escludersi che risultati
analoghi possano venire perseguiti dagli
enti locali in sede di pianificazione
urbanistica, con conseguente illegittimità,
per contrasto non solo con l’art. 12 del
d.lgs. n. 387 del 2003 ma anche con gli
stessi principi costituzionali che governano
l’allocazione delle funzioni normative e
amministrative, degli atti di normazione
secondaria che ponessero in ambito comunale
limitazioni sconosciute alla legge statale.
Occupandosi della questione, la
giurisprudenza (Tar Toscana 07.04.2011 n.
629, Tar Parma 08.11.2011 n. 383) ha avuto
occasione di rilevare che:
- nell’ottica europea improntata al
principio dello sviluppo sostenibile, il
legislatore statale ha dato attuazione alla
direttiva 2001/77/CE, relativa alla
promozione dell’energia elettrica prodotta
da fonti energetiche rinnovabili, mediante
il d.lgs. n. 387 del 2003, che all’art. 12,
nel dettare la disciplina del procedimento
autorizzatorio per la realizzazione degli
impianti alimentati da tali fonti, da un
lato riconosce a detti impianti carattere di
pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza
(comma 1) e conferisce all’Autorità
procedente –la Regione, ovvero la Provincia
da questa delegata– il potere di rilascio
dell’autorizzazione in variante agli
strumenti urbanistici vigenti (comma 3), ma
dall’altro lato non trascura di garantire il
corretto inserimento degli impianti
nell’ambiente, rimettendo a linee-guida da
approvarsi in Conferenza unificata
l’individuazione dei criteri in applicazione
dei quali è consentita alle Regioni
l’indicazione di aree e siti non idonei alla
installazione di specifiche tipologie di
impianti;
- l’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003, nel
riflettere il favor del legislatore
sovranazionale per lo sviluppo delle fonti
energetiche rinnovabili e dei relativi
impianti di produzione, fa registrare la
confluenza di profili di tutela ambientale,
ricadenti nella competenza legislativa
esclusiva dello Stato, e profili afferenti
alla competenza concorrente di Stato e
Regioni nelle materie della produzione,
trasporto e distribuzione di energia, ovvero
del governo del territorio, sicché deve
escludersi che alle Regioni sia consentito
provvedere in via autonoma alla
individuazione dei criteri per il corretto
inserimento ambientale degli impianti
alimentati da fonti di energia alternativa,
al di fuori delle linee-guida nazionali ed
in violazione del principio di leale
collaborazione (v., tra le altre, C. Cost.
26.03.2010 n. 119);
- se, alla luce della oramai consolidata
giurisprudenza costituzionale, in presenza
di una normativa statale che non contempla
alcuna limitazione specifica alla
localizzazione degli impianti per la
produzione di energia elettrica da fonti
rinnovabili né pone divieti inderogabili ma
rinvia all’adozione di criteri comuni per
tutto il territorio nazionale, è negata al
legislatore regionale la possibilità di
provvedere autonomamente all’individuazione
dei siti inidonei all’installazione di
specifiche tipologie di impianti, a maggior
ragione deve escludersi che risultati
analoghi possano venire perseguiti dagli
enti locali in sede di pianificazione
urbanistica, con conseguente illegittimità,
per contrasto non solo con l’art. 12 del
d.lgs. n. 387 del 2003 ma anche con gli
stessi principi costituzionali che governano
l’allocazione delle funzioni normative e
amministrative, degli atti di normazione
secondaria che ponessero in ambito comunale
limitazioni sconosciute alla legge statale.
Si tratta di conclusioni che il Collegio
condivide pienamente. Di qui l’illegittimità
della variante normativa al P.T.C.
Provinciale impugnata, avendo la stessa
circoscritto le zone dove possono essere
posizionati gli impianti industriali
fotovoltaici, biomasse, eolici e simili e le
loro dimensioni (TAR Marche,
sentenza 24.02.2012 n. 142 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non è necessario il permesso di
costruire per la realizzazione di modeste
opere di pavimentazione, laddove non siano
state realizzate opere murarie o eliminato
verde preesistente, ovvero urbanizzato il
terreno. Occorre invece il permesso di
costruire, ai sensi dall’articolo 3, comma
1, lettera e), del DPR. n. 380/2001, quando
le opere di pavimentazione, in ragione delle
dimensioni delle stesse e dei materiali
utilizzati determinino una significativa
trasformazione dello stato dei luoghi.
In tutta evidenza, la costruzione di una
piattaforma in cemento costituisce una
trasformazione dello stato dei luoghi e
rientra nelle nuove costruzioni, per il
quali è previsto il rilascio del permesso di
costruire, pacificamente assente nel caso in
esame.
Come ha rilevato la giurisprudenza, non è
necessario il permesso di costruire per la
realizzazione di modeste opere di
pavimentazione, laddove non siano state
realizzate opere murarie o eliminato verde
preesistente, ovvero urbanizzato il terreno
(TAR Trentino Alto Adige-Bolzano, 26.08.2009
n. 299). Occorre invece il permesso di
costruire, ai sensi dall’articolo 3, comma
1, lettera e), del DPR. n. 380/2001, quando
le opere di pavimentazione, in ragione delle
dimensioni delle stesse e dei materiali
utilizzati determinino una significativa
trasformazione dello stato dei luoghi (TAR
Campania Napoli 21.04.2009, n. 2084, TAR
Piemonte Torino, 02.02.2005 n. 20, TAR
Lombardia Milano 20.11.2002 n. 4514, TAR
Campania-Napoli 10.12.2009 n. 8606).
In tutta evidenza, la costruzione di una
piattaforma in cemento costituisce una
trasformazione dello stato dei luoghi e
rientra nelle nuove costruzioni, per il
quali è previsto il rilascio del permesso di
costruire, pacificamente assente nel caso in
esame (TAR Marche,
sentenza 24.02.2012 n. 134 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
Vincoli di piano regolatore e presunzione
legale di conoscenza.
Con
sentenza 23.02.2012 n. 2737 la
Sez. II civile della Corte di Cassazione ha
respinto il ricorso di un promissario
acquirente di un terreno che ha chiesto la
risoluzione del contratto di compravendita
per avergli il venditore taciuto la
circostanza che tale terreno fosse gravato
da vincolo. Gli Ermellini hanno fondato la
motivazione del rigetto sulla circostanza
che, essendo la previsione di vincolo
contenuta nel piano regolatore vigente,
l'acquirente avrebbe potuto conoscerla.
Secondo la Corte è infatti necessario
distinguere a seconda che la prescrizione di
vincolo sia prevista in atti di ordine
generale aventi contenuto normativo ovvero
di carattere speciale.
Nel primo caso, le prescrizioni inserite in
leggi, atti aventi forza di legge e - come
nel caso di specie - piani regolatori, una
volta approvate e pubblicate nelle forme
previste, sono assistite da una presunzione
legale di conoscenza da parte dei
destinatari, tale per cui i vincoli ivi
previsti non possono qualificarsi come oneri
non apparenti gravanti sull'immobile ai
sensi dell'art. 1489 c.c., né sono
invocabili dal compratore come fonte di
responsabilità del venditore che non li
abbia eventualmente dichiarati nel
contratto.
Solo qualora il vincolo risulti imposto in
forza di uno specifico provvedimento
amministrativo a carattere particolare, la
conoscenza può essere presunta in capo al
proprietario del bene, che, quale soggetto
interessato, può venirne a conoscenza con
l'ordinaria diligenza, ma non anche da parte
del compratore, il quale ben potrebbe far
valere nei confronti del venditore l'obbligo
di garanzia derivante dall'art. 1489 c.c.
(tratto da e link a http://studiospallino.blogspot.com). |
APPALTI:
Sui limiti del sindacato del
giudice amministrativo in merito alla
decisione della stazione appaltante di
escludere un'impresa da un appalto per
ragioni di inaffidabilità.
In tema di appalti pubblici, in presenza di
una ragionevole scelta legislativa (art. 38,
c. 1, lett. f, del d.lgs. 163 del 2006) di
consentire il rifiuto di aggiudicazione per
ragioni di inaffidabilità dell'impresa
-esemplificativamente indicate in ipotesi di
mala fede o colpa grave emerse nella
esecuzione del pregresso rapporto o di serie
carenze di professionalità emergenti dal
passato aziendale- il sindacato di
legittimità del giudice amministrativo nello
scrutinio di un uso distorto di tale rifiuto
deve prendere atto della chiara scelta di
rimettere alla stessa stazione appaltante la
individuazione del punto di rottura
dell'affidamento nel pregresso e/o futuro
contraente.
Il sindacato sulla motivazione del rifiuto
deve, pertanto e specularmente, essere
rigorosamente mantenuto sul piano della
verifica della non pretestuosità della
valutazione degli elementi di fatto esibiti
dall'appaltante come ragioni del rifiuto e
non può avvalersi, onde ritenere avverato il
vizio di eccesso di potere, di criteri che
portano ad evidenziare la mera non
condivisibilità della valutazione stessa
(ove si recepiscano, come ha fatto il
giudice amministrativo, le considerazioni
esposte dal consulente).
L'adozione di siffatti criteri di non
condivisione, infatti, nella parte in cui
comporta una sostituzione nel momento
valutativo riservato all'appaltante,
determina non già un mero errore di giudizio
(insindacabile in questa sede) ma uno
sconfinamento nell'area ex lege
riservata all'appaltante stesso e quindi
vizia, per ciò, solo, la decisione, tale
sconfinamento essendo ravvisabile anche
quando il giudice formuli direttamente e con
efficacia immediata e vincolante gli
apprezzamenti e gli accertamenti demandati
all'amministrazione (Corte di Cassazione,
SS.UU.,
sentenza 17.02.2012 n. 2312 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 133, lettera a), del r.d.
08.05.1904, n. 368 (“Regolamento per la
esecuzione del t.u. della l. 22.03.1900, n.
195, e della l. 07.07.1902, n. 333, sulle
bonificazioni delle paludi e dei terreni
paludosi”) pone chiaro ed espresso divieto
“in modo assoluto” di procedere ad una serie
di lavori, tra cui la realizzazione di
“…fabbriche… dal piede interno ed esterno
degli argini e loro accessori o dal ciglio
delle sponde dei canali non muniti di argini
o dalle scarpate delle strade a distanza
minore di… metri 4 a 10 per i fabbricati,
secondo l'importanza del corso d’acqua”; e
alla successiva lettera b), secondo
capoverso, precisa, sempre per quanto qui
interessa, che “…le fabbriche…esistenti…
sono tollerate qualora non rechino un
riconosciuto pregiudizio; ma, giunte a
maturità o deperimento, non possono essere
surrogate fuorché alle distanze sopra
stabilite”.
La disposizione si differenzia da quella
dell’art. 96, lettera f), del r.d.
27.07.1904, n. 523 (“Testo unico delle
disposizioni di legge intorno alle opere
idrauliche delle diverse categorie”) che,
disponendo che sono vietate in modo
assoluto, tra l’altro, “…le fabbriche… a
distanza dal piede degli argini e loro
accessori come sopra, minore di quella
stabilita dalle discipline vigenti nelle
diverse località, ed in mancanza di tali
discipline, a distanza minore…di metri dieci
per le fabbriche e per gli scavi”, consente
alle “discipline locali” di derogare alla
distanza minima assoluta ivi indicata, senza
porre distinzione tra “fabbriche esistenti”e
“nuove fabbriche”.
Nell’ambito di distanza stabilito dalle
discipline locali il divieto di edificazione
della fascia di rispetto è assoluto e
inderogabile (tra l'altro, vale anche per i
corsi d’acqua confinati in sotterraneo
mediante tombinatura), laddove il maggior
limite di 10 metri ha natura sussidiaria
perché subordinato all’assenza di normative
locali, ivi comprese quelle urbanistiche ed
edilizie.
Al contrario, il vincolo d’inedificabilità
posto dall’art. 133, lettera a), sia pure
nell’intervallo da stabilirsi a cura
dell’Autorità di bonifica (da 4 a 10 metri),
è assoluto, perché inderogabile da
discipline locali, ed è orientato alla
salvaguardia delle “… normali operazioni di
ripulitura e di manutenzione e ad impedire
le esondazioni delle acque…”.
---------------
L’art. 133, lettera a), del r.d. 08.05.1904,
n. 368 nel consentire la conservazione delle
“fabbriche”, ossia degli edifici esistenti,
e peraltro “qualora non rechino un
riconosciuto pregiudizio” (così ammettendo
che, nel caso di riconosciuto pregiudizio
possa al contrario imporsi l’arretramento
alla distanza prescritta, o al limite anche
la demolizione), prevede che, al contrario,
il limite minimo variabile -da stabilirsi a
cura dell’Autorità di bonifica- debba essere
rispettato quando si intenda procedere alla
“surrogazione”, ossia alla sostituzione
dell’opera con altra opera.
Nell’ampia nozione di “surroga”, e in
funzione dell’assoluta eccezionalità della
conservazione dell’opera già esistente, non
può non ricomprendersi la sostituzione anche
nella forma della demolizione e della fedele
ricostruzione.
In altri termini, l’interesse del privato
proprietario al mantenimento dell’edificio
entro la fascia di rispetto e a distanza
inferiore a quella minima è tutelato solo se
ed in quanto l’immobile non subisca alcuna
trasformazione fisica, rimanga tal quale,
come esistente, ed anche in tale ipotesi
nemmeno in senso assoluto, potendo disporsi
il suo arretramento o al limite il suo
abbattimento se “rechi pregiudizio”
all’interesse pubblico relativo alla più
funzionale ed efficace manutenzione di
argini, sponde, corsi d’acqua e canali e/o
se presenti rischi in ordine all’esondazione
e al naturale deflusso delle acque.
Al contrario, quando si intenda procedere
alla “surrogazione”, ossia alla sostituzione
dell’edificio esistente con un nuovo
edificio, ancorché di superficie, sagoma,
volumetria identiche -mediante demolizione e
ricostruzione- l’interesse del proprietario
non può che soccombere rispetto al predetto
interesse pubblico, nel senso che trova
piena applicazione il limite di distanza, da
fissare a cura dell’Autorità di bonifica in
relazione all’importanza del corso d’acqua e
alle esigenze della sua cura e manutenzione,
naturalmente con il minor sacrificio
possibile ed entro limiti di adeguata
proporzionalità e dimostrata
funzionalizzazione al suddetto interesse
pubblico, qualora esso sia fissato oltre il
limite minimo inderogabile di 4 metri.
La norma delle N.T.A. del P.R.G. intitolata
alla “Tutela dei corsi d’acqua” che consente
“Per gli edifici esistenti ricadenti in
tutto o in parte nelle fasce di rispetto… la
manutenzione ordinaria, straordinaria, il
restauro, la ristrutturazione nonché
l’ampliamento purché non comporti
avanzamento dell’edificio esistente sul
fronte fluviale” può assumere valore di
deroga soltanto al vincolo di cui all’art.
96, lettera f), del r.d. n. 523/1904 e non
anche al vincolo di cui all’art. 133,
lettera a), del r.d. n. 368/1904.
L’art. 133, lettera a), del r.d. 08.05.1904,
n. 368 (“Regolamento per la esecuzione
del t.u. della l. 22.03.1900, n. 195, e
della l. 07.07.1902, n. 333, sulle
bonificazioni delle paludi e dei terreni
paludosi”) pone chiaro ed espresso
divieto “in modo assoluto” di
procedere ad una serie di lavori, tra cui,
per quanto qui rileva, la realizzazione di “…fabbriche…
dal piede interno ed esterno degli argini e
loro accessori o dal ciglio delle sponde dei
canali non muniti di argini o dalle scarpate
delle strade a distanza minore di… metri 4 a
10 per i fabbricati, secondo l'importanza
del corso d’acqua”; e alla successiva
lettera b), secondo capoverso, precisa,
sempre per quanto qui interessa, che “…le
fabbriche…esistenti… sono tollerate qualora
non rechino un riconosciuto pregiudizio; ma,
giunte a maturità o deperimento, non possono
essere surrogate fuorché alle distanze sopra
stabilite”.
La disposizione si differenzia da quella
dell’art. 96, lettera f), del r.d.
27.07.1904, n. 523 (“Testo unico delle
disposizioni di legge intorno alle opere
idrauliche delle diverse categorie”)
che, disponendo che sono vietate in modo
assoluto, tra l’altro, “…le fabbriche… a
distanza dal piede degli argini e loro
accessori come sopra, minore di quella
stabilita dalle discipline vigenti nelle
diverse località, ed in mancanza di tali
discipline, a distanza minore…di metri dieci
per le fabbriche e per gli scavi”,
consente alle “discipline locali” di
derogare alla distanza minima assoluta ivi
indicata, senza porre distinzione tra “fabbriche
esistenti”e “nuove fabbriche”.
E’ evidente, peraltro, che nell’ambito di
distanza stabilito dalle discipline locali
il divieto di edificazione della fascia di
rispetto è assoluto e inderogabile (Cons.
Stato, Sez. IV, 23.07.2009, n. 4663, che
precisa come esso valga anche per i corsi
d’acqua confinati in sotterraneo mediante
tombinatura; vedi anche Sez. V, 26.03.2009,
n. 1814), laddove il maggior limite di 10
metri ha natura sussidiaria perché
subordinato all’assenza di normative locali,
ivi comprese quelle urbanistiche ed edilizie
(Cass., SS.UU. civili, 18.07.2008, n.
19813).
Al contrario, il vincolo d’inedificabilità
posto dall’art. 133, lettera a), sia pure
nell’intervallo da stabilirsi a cura
dell’Autorità di bonifica (da 4 a 10 metri),
è assoluto, perché inderogabile da
discipline locali, ed è orientato alla
salvaguardia delle “… normali operazioni
di ripulitura e di manutenzione e ad
impedire le esondazioni delle acque…”
(Cass. Civ., Sez. I, 22.04.2005 n. 8536).
---------------
La sentenza
impugnata, e il provvedimento assessorile di
diniego dell’annullamento in autotutela
della concessione edilizia, hanno ritenuto
che il limite di distanza non operi con
riferimento a lavori di ristrutturazione
edilizia, consistenti, come nel caso di
specie, nella demolizione e ricostruzione
con identica sagoma e volume sull’identica
area di sedime.
Tale conclusione è erronea e priva di
fondamento normativo.
L’art. 133, lettera a),
del r.d. 08.05.1904, n. 368
nel consentire
la conservazione delle “fabbriche”,
ossia degli edifici esistenti, e peraltro “qualora
non rechino un riconosciuto pregiudizio”
(così ammettendo che, nel caso di
riconosciuto pregiudizio possa al contrario
imporsi l’arretramento alla distanza
prescritta, o al limite anche la
demolizione), prevede che, al contrario, il
limite minimo variabile -da stabilirsi a
cura dell’Autorità di bonifica- debba essere
rispettato quando si intenda procedere alla
“surrogazione”, ossia alla
sostituzione dell’opera con altra opera.
Nell’ampia nozione di “surroga”, e in
funzione dell’assoluta eccezionalità della
conservazione dell’opera già esistente, non
può non ricomprendersi la sostituzione anche
nella forma della demolizione e della fedele
ricostruzione.
In altri termini, l’interesse del privato
proprietario al mantenimento dell’edificio
entro la fascia di rispetto e a distanza
inferiore a quella minima è tutelato solo se
ed in quanto l’immobile non subisca alcuna
trasformazione fisica, rimanga tal quale,
come esistente, ed anche in tale ipotesi
nemmeno in senso assoluto, potendo disporsi
il suo arretramento o al limite il suo
abbattimento se “rechi pregiudizio”
all’interesse pubblico relativo alla più
funzionale ed efficace manutenzione di
argini, sponde, corsi d’acqua e canali e/o
se presenti rischi in ordine all’esondazione
e al naturale deflusso delle acque.
Al contrario, quando si intenda procedere
alla “surrogazione”, ossia alla
sostituzione dell’edificio esistente con un
nuovo edificio, ancorché di superficie,
sagoma, volumetria identiche -mediante
demolizione e ricostruzione- l’interesse del
proprietario non può che soccombere rispetto
al predetto interesse pubblico, nel senso
che trova piena applicazione il limite di
distanza, da fissare a cura dell’Autorità di
bonifica in relazione all’importanza del
corso d’acqua e alle esigenze della sua cura
e manutenzione, naturalmente con il minor
sacrificio possibile ed entro limiti di
adeguata proporzionalità e dimostrata
funzionalizzazione al suddetto interesse
pubblico, qualora esso sia fissato oltre il
limite minimo inderogabile di 4 metri.
Né può soccorrere l’argomento difensivo
dell’applicabilità dell’art. 42 delle N.T.A.
del P.R.G. del Comune di Noale (come
richiamato nella memoria difensiva della
Provincia di Venezia).
Tale disposizione regolamentare, intitolata
alla “Tutela dei corsi d’acqua”
consente bensì “Per gli edifici esistenti
ricadenti in tutto o in parte nelle fasce di
rispetto… la manutenzione ordinaria,
straordinaria, il restauro, la
ristrutturazione nonché l’ampliamento purché
non comporti avanzamento dell’edificio
esistente sul fronte fluviale”;
sennonché essa può assumere valore di
deroga, come già evidenziato, soltanto al
vincolo di cui all’art. 96, lettera f), del
r.d. n. 523/1904, e non anche al vincolo di
cui all’art. 133, lettera a), del r.d. n.
368/1904
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 16.02.2012 n. 816 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il potere ministeriale di
annullamento d'ufficio del nulla-osta
paesaggistico previsto dall'art. 159, comma
3, D.Lgs. 22.01.2004 n. 42, secondo il quale
la Soprintendenza, se ritiene
l'autorizzazione non conforme alle
prescrizioni di tutela del paesaggio, può
annullarla, con provvedimento motivato, non
attribuisce all'Amministrazione centrale un
potere di annullamento del nulla-osta
paesaggistico per motivi di merito, così da
consentire alla stessa Amministrazione di
sovrapporre una propria valutazione a quella
di chi ha rilasciato il titolo autorizzativo,
ma riconosce ad essa un controllo di mera
legittimità, che peraltro, può riguardare
tutti i possibili vizi, tra cui anche
l'eccesso di potere.
Ne deriva, pertanto, l'illegittimità di
provvedimenti di annullamento fondati su un
riesame del merito della valutazione
effettuata dall'ente delegato, piuttosto che
sulla rilevazione di uno specifico vizio di
legittimità dell'atto sottoposto a
controllo.
Sotto tale profilo deve infatti evidenziarsi
che, se è vero che la Soprintendenza in sede
di controllo sul nulla-osta paesaggistico
può operare un sindacato relativamente ad
ogni profilo di illegittimità, compreso
l’eccesso di potere, è anche vero che essa
non può però sostituire in tale sede le
proprie valutazioni a quelle motivatamente
espresse dal Comune.
Un sindacato sostitutivo invero potrebbe
risultare ammissibile laddove il nulla osta
paesaggistico risulti adottato in carenza di
istruttoria e motivazione, mentre laddove lo
stesso appaia sorretto da ampia istruttoria
e motivazione la Soprintendenza non può
sostituire le proprie valutazione di merito
a quelle espresse con il rilascio del nulla
osta paesaggistico.
L'Amministrazione statale deve, quindi,
verificare dall'esterno la coerenza, la
logicità e la completezza istruttoria
dell'iter procedimentale seguito
dall'Amministrazione emanante per la
valutazione compatibilità, nonché che tale
valutazione non sia manifestamente illogica
o irrazionale, non sia basata su errata
ricostruzione dei fatti, sia sorretta da
motivazione sufficiente, congrua, razionale
e non contraddittoria ed, in genere, che
siano osservate le regole che sovrintendono
all'esercizio della funzione
tecnico-discrezionale e le norme che
disciplinano la funzione stessa, ma non può
sostituire i suoi apprezzamenti sulla
compatibilità ambientale a quelli espressi
dall'Ente locale.
-------------
Ai sensi dell’art. 4, comma 4, e 5, della
legge n. 13/1989 l’autorizzazione per
eseguire interventi su immobili vincolati
può essere negata solo in presenza di un
grave pregiudizio del bene tutelato di cui
deve essere data adeguata motivazione, con
la specificazione della natura e della
serietà del pregiudizio, della sua rilevanza
in rapporto al complesso in cui l’opera si
colloca.
Ora, secondo quanto espresso in
giurisprudenza, il legislatore, nel
bilanciamento degli interessi in gioco,
inerenti da una parte alla tutela del
patrimonio storico, artistico e
paesistico-ambientale e, dall'altra, alla
salvaguardia dei diritti alla salute ed al
normale svolgimento della vita di relazione
e socializzazione dei soggetti in minorate
condizioni fisiche -espressamente tutelati
dagli artt. 3, II comma, e 32 della
Costituzione- ha inteso dare prevalenza ai
menzionati diritti della persona relegando
il diniego ai soli casi di accertato e
motivato "serio pregiudizio" del bene
vincolato.
Ciò non vuol dire che dalla normativa in
esame possa desumersi la vigenza di un
principio di superabilità e derogabilità
assoluta e automatica dei vincoli posti per
finalità di tutela storico-culturale o
paesistico-ambientale, bensì che il diniego
alla realizzazione di opere preordinate al
superamento delle barriere architettoniche
deve necessariamente essere legato ad un
serio pregiudizio all'interesse
paesistico-ambientale debitamente motivato,
nell’ottica di una necessaria comparazione
di interessi, “con la specificazione della
natura e della serietà del pregiudizio,
della sua rilevanza in rapporto al complesso
in cui l’opera si colloca”.
Il legislatore, difatti, ha tutelato il
portatore di handicap rafforzando le
garanzie procedimentali e sostanziali
rispetto al suo interesse ad ottenere
l’autorizzazione, sia attraverso una
specificazione in senso restrittivo dei
presupposti del provvedimento di diniego,
sia dettando il contenuto obbligatorio della
relativa motivazione.
Nel caso di specie la Soprintendenza non ha
tenuto conto delle finalità dell’intervento
legate alle esigenze del portatore di
handicap, non evidenziando alcuna ragione
nemmeno potenziale di grave pregiudizio al
valore tutelato ed attestandosi, invece, per
tale aspetto, su una motivazione generica
riguardo alle esigenze di rispetto del
vincolo e di protezione del bene paesistico.
Il Collegio rileva come, in linea generale,
il potere ministeriale di annullamento
d'ufficio del nulla-osta paesaggistico
previsto dall'art. 159, comma 3, D.Lgs.
22.01.2004 n. 42, secondo il quale la
Soprintendenza, se ritiene l'autorizzazione
non conforme alle prescrizioni di tutela del
paesaggio, può annullarla, con provvedimento
motivato, non attribuisce
all'Amministrazione centrale un potere di
annullamento del nulla-osta paesaggistico
per motivi di merito, così da consentire
alla stessa Amministrazione di sovrapporre
una propria valutazione a quella di chi ha
rilasciato il titolo autorizzativo, ma
riconosce ad essa un controllo di mera
legittimità, che peraltro, può riguardare
tutti i possibili vizi, tra cui anche
l'eccesso di potere.
Ne deriva, pertanto, l'illegittimità di
provvedimenti di annullamento fondati su un
riesame del merito della valutazione
effettuata dall'ente delegato, piuttosto che
sulla rilevazione di uno specifico vizio di
legittimità dell'atto sottoposto a controllo
(ex multis Cons. Stato, VI,
13.02.2009, n. 772; TAR Campania Napoli,
sez. VIII, 10.11.2010, n. 23751; TAR Puglia
Lecce, sez. I, 17.07.2008, n. 2213; TAR
Campania; TAR Campania Napoli, sez. VII,
04.04.2008, n. 1879; Napoli, sez. III,
19.03.2008, n. 1411).
Sotto tale profilo deve infatti evidenziarsi
che, se è vero che la Soprintendenza in sede
di controllo sul nulla-osta paesaggistico
può operare un sindacato relativamente ad
ogni profilo di illegittimità, compreso
l’eccesso di potere, è anche vero che essa
non può però sostituire in tale sede le
proprie valutazioni a quelle motivatamente
espresse dal Comune.
Un sindacato sostitutivo invero potrebbe
risultare ammissibile laddove il nulla osta
paesaggistico risulti adottato in carenza di
istruttoria e motivazione, mentre laddove lo
stesso appaia sorretto da ampia istruttoria
e motivazione la Soprintendenza non può
sostituire le proprie valutazione di merito
a quelle espresse con il rilascio del nulla
osta paesaggistico (ex multis
Consiglio di Stato, Sez. VI - sentenza
09.03.2011 n. 1483, secondo cui “nell’emettere
un nulla osta paesaggistico, l’Autorità
regionale o l’ente sub-delegato deve
motivare adeguatamente in ordine alla
compatibilità dell’opera assentita con il
vincolo paesaggistico, sussistendo, in caso
contrario, illegittimità per carenza di
motivazione o di istruttoria; per cui
l’autorità statale, se ravvisa un tale vizio
nell’atto oggetto del suo scrutinio, nel
proprio provvedimento, perché sia a sua
volta immune da vizi di legittimità, dovrà
motivare sulla non compatibilità
dell’intervento edilizio programmato
rispetto ai valori paesaggistici compendiati
nel vincolo"; Consiglio di Stato, Sez.
VI - sentenza 26.07.2010 n. 4861, secondo
cui “nel caso in cui, in sede di
controllo sul nulla-osta paesaggistico,
l’autorità statale ravvisi una carenza
motivazionale o istruttoria, costituente
vizio di legittimità, nell’atto oggetto del
suo scrutinio, la stessa è chiamata ad
evidenziare tali vizi con motivazione che
deve necessariamente impingere –per
risultare a sua volta immune da vizi di
legittimità– nella valutazione della non
compatibilità dell’intervento edilizio
programmato rispetto ai valori paesaggistici
compendiati nel vincolo”, che ritiene
per contro “illegittimo l’annullamento in
sede statale del nulla-osta paesaggistico
rilasciato in sede comunale, ove da un lato
il nulla-osta stesso sia supportato da
idonea motivazione che tiene conto degli
elementi gli elementi di pregio paesistico
fissati dal d.m. con il quale il territorio
comunale è stato dichiarato di notevole
interesse pubblico ai sensi della l. n.
1497/1939 e risulti conforme anche sotto il
profilo urbanistico e, dall’altro,
l’annullamento stesso si basi su di una
inammissibile valutazione compiuta dalla
Soprintendenza in ordine alla compatibilità
dell’opera con l’assetto
paesistico-ambientale dei luoghi tutelati
dal vincolo").
L'Amministrazione statale deve, quindi,
verificare dall'esterno la coerenza, la
logicità e la completezza istruttoria
dell'iter procedimentale seguito
dall'Amministrazione emanante per la
valutazione compatibilità, nonché che tale
valutazione non sia manifestamente illogica
o irrazionale, non sia basata su errata
ricostruzione dei fatti, sia sorretta da
motivazione sufficiente, congrua, razionale
e non contraddittoria ed, in genere, che
siano osservate le regole che sovrintendono
all'esercizio della funzione
tecnico-discrezionale e le norme che
disciplinano la funzione stessa, ma non può
sostituire i suoi apprezzamenti sulla
compatibilità ambientale a quelli espressi
dall'Ente locale (TAR Calabria Catanzaro,
sez. I, 26.11.2009, n. 1315).
---------------
Inoltre, il
gravato provvedimento della Soprintendenza
non ha tenuto conto della circostanza
attinente alla funzionalità dell’opera alla
tutela delle esigenze del portatore di
handicap ed, in particolare dell’art. 4,
comma 4, e 5, della legge n. 13/1989, ai
sensi del quale l’autorizzazione per
eseguire interventi su immobili vincolati
può essere negata solo in presenza di un
grave pregiudizio del bene tutelato di cui
deve essere data adeguata motivazione, con
la specificazione della natura e della
serietà del pregiudizio, della sua rilevanza
in rapporto al complesso in cui l’opera si
colloca.
Ora, secondo quanto espresso in
giurisprudenza, il legislatore, nel
bilanciamento degli interessi in gioco,
inerenti da una parte alla tutela del
patrimonio storico, artistico e
paesistico-ambientale e, dall'altra, alla
salvaguardia dei diritti alla salute ed al
normale svolgimento della vita di relazione
e socializzazione dei soggetti in minorate
condizioni fisiche -espressamente tutelati
dagli artt. 3, II comma, e 32 della
Costituzione- ha inteso dare prevalenza ai
menzionati diritti della persona relegando
il diniego ai soli casi di accertato e
motivato "serio pregiudizio" del bene
vincolato (TAR Sicilia Palermo, sez. I,
04.02.2011, n. 218; TAR Lazio Roma, Sez.
II-quater, 19.01.2010, n. 495; TAR Lazio,
sez. II, 15.02.2002, n. 1061; TAR Lazio,
Sez. II, 13.05.2000, n. 3974).
Ciò non vuol dire che dalla normativa in
esame possa desumersi la vigenza di un
principio di superabilità e derogabilità
assoluta e automatica dei vincoli posti per
finalità di tutela storico-culturale o
paesistico-ambientale (TAR Sicilia Palermo,
sez. I, 04.02.2011, n. 218; TAR Lazio Roma,
Sez. II-quater, 19.01.2010, n. 495; TAR
Umbria, 17.01.2000, n. 17), bensì che il
diniego alla realizzazione di opere
preordinate al superamento delle barriere
architettoniche deve necessariamente essere
legato ad un serio pregiudizio all'interesse
paesistico-ambientale debitamente motivato,
nell’ottica di una necessaria comparazione
di interessi, “con la specificazione
della natura e della serietà del
pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto
al complesso in cui l’opera si colloca”.
Il legislatore, difatti, ha tutelato il
portatore di handicap rafforzando le
garanzie procedimentali e sostanziali
rispetto al suo interesse ad ottenere
l’autorizzazione, sia attraverso una
specificazione in senso restrittivo dei
presupposti del provvedimento di diniego,
sia dettando il contenuto obbligatorio della
relativa motivazione.
Nel caso di specie la Soprintendenza non ha
tenuto conto delle finalità dell’intervento
legate alle esigenze del portatore di
handicap, non evidenziando alcuna
ragione nemmeno potenziale di grave
pregiudizio al valore tutelato ed
attestandosi, invece, per tale aspetto, su
una motivazione generica riguardo alle
esigenze di rispetto del vincolo e di
protezione del bene paesistico
(TAR
Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 14.02.2012 n. 792 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: PRIVACY/ La salute non si mette in comune.
L'ente non può pubblicare i dati sanitari
del lavoratore. La Cassazione: per il
risarcimento è sufficiente aver creato
imbarazzo e disagio.
Il comune non può pubblicare, senza un
valido motivo di interesse pubblico, lo
stato di salute del dipendente. Se lo fa
deve risarcire il danno, che potrà essere
accertato in base alla sola esistenza del
patema d'animo del lavoratore, provocato
dalla arbitraria divulgazione dei suoi dati
supersensibili.
Lo ha stabilito la
sentenza
13.02.2012 n. 2034 emessa dalla Corte di
Cassazione, con la quale è stata confermata
la pronuncia del giudice di primo grado che
ha condannato un comune sardo al
risarcimento di ben 16.000 euro nei
confronti di un suo dipendente, per
violazione del codice della privacy.
Nel caso di specie, il lavoratore ha chiesto
all'ente di appartenenza che venisse
riconosciuto il legame tra la malattia cui
andava affetto e il lavoro prestato per lo
stesso ente. Quest'ultimo ha rigettato la
domanda e, successivamente, ha pubblicato un
provvedimento nel quale sono stati inseriti
tutti i particolari relativi alla malattia
del lavoratore, comprese diagnosi, cause,
natura ed effetti della stessa.
Il lavoratore ha, quindi, deciso di
rivolgersi al giudice per ottenere il
risarcimento del danno non patrimoniale
patito a seguito della divulgazione delle
informazioni attinenti alla sua intimità.
La Corte di primo grado, oltre a stabilire
l'illegittimità del provvedimento, ha
condannato l'amministrazione a risarcire il
danno patito dal dipendente. Secondo il
giudice cagliaritano, infatti, con la
pubblicazione di quei dati il comune avrebbe
violato, oltre che l'articolo 2 della
Costituzione, i limiti di pertinenza e non
eccedenza del trattamento dei dati personali
previsti all'articolo 11 del decreto
legislativo 193/2006.
L'ente non ha condiviso il verdetto del
giudice cagliaritano e ha deciso portare la
lite in Cassazione. Secondo lo stesso,
infatti, il danno patito dal dipendente non
sarebbe stato concretamente provato.
La Corte romana, con la sentenza in
rassegna, chiarisce che se è vero che la
semplice pubblicazione illegittima non
comporta sempre un danno, è altrettanto vero
che per ottenere un risarcimento basta che
il giudice accerti un patema d'animo nel
lavoratore, provocato della divulgazione dei
suoi dati riservati.
Ciò perché il provvedimento che rivela,
senza un valido motivo, i richiamati dati
provoca nel dipendente non solo un stato di
disagio, imbarazzo o preoccupazione, ma
anche un'incertezza sul numero di persone
che verranno a conoscenza dei fatti.
In tal senso, il dipendente si troverebbe
nell'incapacità di relazionarsi con le
persone che incontra, perché non sarebbe in
grado di capire se i suoi interlocutori sono
o meno a conoscenza del suo stato di salute.
Per tali motivi la Corte romana ha scelto di
confermare quanto già stabilito dal giudice
di primo grado, confermando la condanna
dell'ente
L'effetto della sentenza è quello di rendere
più facile la prova del danno per il
lavoratore nel caso in cui il datore si
renda colpevole di violazioni del codice
della privacy. La decisione, peraltro, può
essere estesa anche ai datori di lavoro
privati, essendo anche questi ultimi tenuti,
al pari dei primi, a osservare le norme che
tutelano la riservatezza dei lavoratori
(articolo ItaliaOggi
del 09.03.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
APPALTI:
Contratti pubblici - Gara -
Regolarità contributiva - Requisito
sostanziale di partecipazione alla gara -
Dichiarazione di non aver commesso
violazioni gravi né definitive -
Acquisizione di un DURC negativo -
Esclusione dalla gara - Legittimità -
Richiesta di chiarimenti - Mancanza - È
irrilevante.
In tema di gara per l'affidamento di un
appalto pubblico, la regolarità contributiva
costituisce requisito sostanziale di
partecipazione alla gara, avendo il
legislatore ritenuto tale regolarità indice
dell'affidabilità, diligenza e serietà
dell'impresa, e della sua correttezza nei
rapporti con le maestranze.
Nel caso in cui, nell'ambito di una gara per
l'affidamento di un appalto pubblico,
un'impresa abbia dichiarato di non aver
commesso violazioni gravi né definitive e la
Stazione appaltante non solo abbia acquisito
un DURC negativo, ma abbia puntualmente
verificato l'eventuale sussistenza di
circostanze giustificanti la violazione, è
legittima l'esclusione di detta impresa
anche in assenza di richiesta di chiarimenti
sul punto da parte della P.A. (massima
tratta da www.inps.it - TAR Abruzzo-L’Aquila,
sentenza 30.10.2008 n. 1181 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO ALL'08.03.2012 |
ã |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA:
RISTRUTTURAZIONI
EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI
(Agenzia delle Entrate, febbraio 2012). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: A.
Massari,
Alla ricerca del sacro… Durc
(link a www.leggioggi.it). |
APPALTI:
D. S. Alastra,
L'obbligo di motivazione del diniego di
accesso agli atti sui quali si fonda
l'informativa prefettizia antimafia. Nota a
TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza
24.08.2011 n. 1146 (link a
www.filodiritto.com). |
ENTI LOCALI:
T. Grandelli e M. Zamberlan,
Il consolidamento delle spese di personale
ai fini del rispetto del limite del 50%
dell’incidenza sulle spese correnti
(link a www.ipsoa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
S. Tarullo,
Il meccanismo di sostituzione interna per la
conclusione dei procedimenti amministrativi
introdotto dal D.L. semplificazione n.
5/2012. - Notazioni a prima lettura
(link a www.giustizia-amministrativa.it). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
LAVORI PUBBLICI: G.U.
06.03.2012 n. 55, "Procedura e
schemi-tipo per la redazione e la
pubblicazione del programma triennale, dei
suoi aggiornamenti annuali e dell’elenco
annuale dei lavori pubblici e per la
redazione e la pubblicazione del programma
annuale per l’acquisizione di beni e servizi
ai sensi dell’articolo 128 del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163 e successive
modificazioni e degli articoli 13 e 271 del
decreto del Presidente della Repubblica
05.10.2010, n. 207"
(Ministero delle Infrastrutture e dei
Trasporti,
decreto
11.11.2011). |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
OGGETTO: Decreto legislativo n. 119 del
18.07.2011. “Attuazione dell’articolo 23
della legge 04.11.2010, n. 183, recante
delega al Governo per il riordino della
normativa in materia di congedi, aspettative
e permessi”. Modifica alla disciplina in
materia di congedi e permessi per
l’assistenza a disabili in situazione di
gravità (circolare
06.03.2012 n. 32 - link a
www.inps.it). |
NEWS |
VARI: Alla patente di
guida non si applica la scadenza al
compleanno. Circolare del ministero dei trasporti.
La patente di guida resta disciplinata dal
codice stradale e pertanto a questo
documento non si applica l'allineamento
della scadenza al compleanno
dell'interessato introdotto dal dl 5/2012.
Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti
con la
circolare
05.03.2012 n. 6193 di prot..
Il decreto legge n. 5/2012 ha disposto che i
documenti di identità e di riconoscimento di
cui all'art. 1, comma 1, lett. c), d) ed e),
del decreto del dpr n. 445/2000 sono
rilasciati o rinnovati con validità
prolungata fino alla data del compleanno del
titolare immediatamente successiva alla loro
scadenza naturale. In pratica si tratta dei
documenti rilasciati o rinnovati dopo il 10.02.2012, data di entrata in vigore del
decreto.
Circa l'applicabilità della riforma
anche alle patenti di guida il tenore
letterale dell'art. 7 del dl n. 5/2012 in
realtà lasciava spazio a forti dubbi e
perplessità. È pur vero che, secondo la
definizione che viene data dal dpr 445/2000
è documento di riconoscimento «ogni
documento munito di fotografia del titolare
e rilasciato, su supporto cartaceo,
magnetico o informatico, da una pubblica
amministrazione italiana o di altri stati,
che consenta l'identificazione personale del
titolare», compresa la patente, come
peraltro evidenziato dal Ministero
dell'interno con il parere del 13.12.2004. Però, l'eventuale allungamento fino
alla data del compleanno della scadenza di
validità farebbe sorgere importanti
criticità, in considerazione delle norme
speciali nazionali e delle disposizioni
comunitarie attualmente vigenti in materia
di rilascio e conferma di validità delle
licenze di guida.
Questi dubbi (si veda ItaliaOggi del
21/02/2012) sono stati confermati dal
Ministero dei trasporti con la circolare di
lunedì scorso che ha escluso l'applicazione
dell'art. 7 del dl 5/2012 alle patenti di
guida. L'art. 126 del codice della strada
fissa in modo preciso la durata di validità
delle varie categorie di patente, prevedendo
sanzioni pecuniarie e accessorie per chi
circola con il documento di guida scaduto
(articolo ItaliaOggi del 07.03.2012). |
CONDOMINIO:
Parcheggio a trasferimento
libero.
Box cedibile anche a prescindere dalla
vendita dell'immobile. Il dl semplificazioni
liberalizza la circolazione delle aree
adibite a posto auto pertinenziale.
Liberalizzazione ad ampio raggio anche per
la circolazione delle aree adibite a
parcheggio pertinenziale.
Il dl n. 5/2012
(decreto semplificazioni), modificando sul
punto la cosiddetta legge Tognoli, ha
infatti previsto che il proprietario di un
immobile dotato di parcheggio di pertinenza
realizzato nel sottosuolo o al piano terra
dell'edificio condominiale con le
maggioranze agevolate di cui alla predetta
legge del 1989, possa vendere quest'ultimo
anche a prescindere dal trasferimento della
proprietà dell'appartamento, purché il nuovo
acquirente abiti nel medesimo comune in cui
è ubicato l'immobile.
Nel tentativo di risolvere il problema dei
parcheggi degli autoveicoli che, da svariati
anni, soffocano i centri urbani e
gradualmente hanno cominciato a occupare
anche le zone semicentrali e periferiche, il
legislatore è intervenuto a più riprese con
svariate disposizioni inserite in numerosi
testi normativi emanati nell'arco degli
anni. In particolare, bisogna ricordare che
alla fine degli anni 80, per cercare di
porre rimedio alla situazione sopra
descritta, è stata introdotta una nuova
normativa (legge 24.03.1989 n. 122,
cosiddetta legge Tognoli) finalizzata
all'incentivazione della costruzione di
parcheggi nelle aree sottostanti o
pertinenziali agli edifici condominiali o
nel piano terra degli stessi.
Ebbene, il
recente decreto legge sulle semplificazioni
e lo sviluppo, nel tentativo di allentare i
rimanenti lacci e lacciuoli previsti dalla
legge in materia di compravendita delle aree
destinate a parcheggio degli autoveicoli, ha
innovato profondamente la peculiare
disciplina prevista dalla vecchia legge
Tognoli, che tanto aveva affaticato la
giurisprudenza e la dottrina.
Legge 122/1989 e condominio: le norme
fondamentali. La legge Tognoli ha previsto
che i condomini possano realizzare nel
sottosuolo o nei locali posti al piano
terreno del condominio, oppure nel
sottosuolo di aree pertinenziali esterne al
caseggiato, parcheggi da destinare a
pertinenza delle singole unità immobiliari
(cioè a uso esclusivo dei residenti), anche
in deroga agli strumenti urbanistici e ai
regolamenti edilizi vigenti.
È importante
sottolineare, però, che restano in ogni caso
fermi i vincoli previsti dalla legislazione
in materia paesaggistica e ambientale (e i
poteri attribuiti dalla medesima
legislazione alle regioni e ai ministeri
dell'ambiente e per i beni culturali).
Naturalmente, poi, la realizzazione di
questi spazi è subordinata alla richiesta
dei necessari permessi edilizi. In ogni caso
la realizzazione del parcheggio è possibile
solo con una deliberazione approvata
dall'assemblea condominiale, in prima o in
seconda convocazione, con il voto favorevole
della maggioranza degli intervenuti e almeno
la metà del valore dell'edificio.
Le condizioni per la realizzazione dei
parcheggi. La realizzazione del parcheggio
non può avvenire se è in contrasto con la
stabilità o il decoro del fabbricato o se
comporta la sottrazione di parti comuni
all'uso e al godimento di un solo condomino.
In secondo luogo, le opere in oggetto
costituiscono innovazioni gravose,
comportando oneri economici particolarmente
rilevanti: di conseguenza i dissenzienti,
così come prevede la legge, potranno essere
esonerati da qualsiasi contribuzione alle
spese ma potranno decidere in qualsiasi
momento di aderire al progetto di
parcheggio, pagando le spese di esecuzione e
manutenzione dell'opera. In altre parole è
possibile realizzare box sotterranei, previa
delibera condominiale, pur se in numero
inferiore a quello della totalità dei
condomini, non potendo i condomini
dissenzienti impedire tale realizzazione
voluta invece dalla maggioranza dei
partecipanti al condomini
Quindi è possibile che il numero delle
autorimesse sotterranee realizzate sia
inferiore al numero degli appartamenti.
Tuttavia la sottrazione di una parte del
bene comune è consentita solo se è
assicurata in futuro anche ai condomini
dissenzienti il pari uso del sottosuolo
avvalendosi della possibilità di realizzare
nell'area di detto bene comune rimasta
libera un parcheggio pertinenziale
dell'unità immobiliare di proprietà
esclusiva: tutti i condomini, nessuno
escluso, devono infatti avere la possibilità
di godimento del sottosuolo secondo la sua
destinazione (prevista normativamente) ad
alloggiare autorimesse. Solo se tale
possibilità è garantita la delibera adottata
a maggioranza può essere ritenuta valida, in
quanto non in contrasto con la legge.
Il vincolo a pertinenza degli appartamenti:
le novità del decreto legge 09.02.2012
n. 5. La legge Tognoli precisava che i
parcheggi con le caratteristiche di cui
sopra non potevano essere ceduti
separatamente dall'unità immobiliare alla
quale erano legati da vincolo pertinenziale
e che i relativi atti di cessione erano
nulli.
L'intento del legislatore era stato
evidentemente quello di evitare speculazioni
da parte di chi aveva usufruito di speciali
deroghe e agevolazioni per la realizzazione
degli spazi in oggetto, prevedendo
espressamente che i parcheggi in tal modo
realizzati fossero sottoposti sia a
circolazione che a utilizzazione vincolata.
In buona sostanza, unicamente per tali
spazi, era stato previsto un vincolo di
destinazione di ordine pubblicistico, cioè
il divieto di cessione del bene immobile
separatamente dall'appartamento del quale lo
stesso era da considerarsi pertinenziale.
Tuttavia il recente decreto legge cosiddetto
semplificazione e sviluppo (dl n. 5 del 09.02.2012) all'art. 10, modificando sul
punto la legge Tognoli, ha stabilito che la
proprietà dei parcheggi di pertinenza delle
abitazioni possa essere trasferita
separatamente dall'unità immobiliare di
riferimento, a condizione che ciò avvenga
solo con contestuale destinazione del
parcheggio trasferito a pertinenza di altra
unità immobiliare sita nello stesso comune.
Il nuovo testo normativo prevede però ancora
un'eccezione: esso stabilisce infatti che la
cessione dell'area adibita a ricovero delle
auto non possa avvenire, pena la nullità
dell'atto di trasferimento, ove abbia a
oggetto parcheggi realizzati su previsione
dei comuni nell'ambito del programma urbano
dei parcheggi da destinare a pertinenza di
immobili privati, insistenti su aree
comunali o nel sottosuolo delle medesime.
---------------
Tutti i condomini hanno diritto d'uso.
I parcheggi creati sulla base della
cosiddetta legge ponte, in quanto di
obbligatoria edificazione in quantità
proporzionale alla cubatura totale del
condominio, hanno un vincolo di carattere
pubblicistico, poiché tutti i condomini
godono di un diritto reale d'uso sui
predetti spazi, che non può essere frustrato
dalla volontà contraria del costruttore.
Questa la posizione espressa ormai da tempo
dalla Suprema corte in relazione ai
parcheggi edificati in base alla legge n.
765/1967 (che ha modificato l'art. 41-sexies
della legge urbanistica n. 1150/1942),
ribadita da ultimo nella recente sentenza n.
1214, depositata in cancelleria lo scorso 27.01.2012.
Si tratta di una tipologia di parcheggi che
l'elaborazione giurisprudenziale ha ritenuto
diversa da quella ricadente nella cosiddetta
legge Tognoli (e della quale si occupa il
recente intervento di liberalizzazione di
cui al dl n. 5/2012). Infatti, come chiarito
in maniera esemplare dalla stessa Cassazione
(sentenza n. 21003 dell'01.08.2008),
mentre per quelli che ricadono nella
disciplina di cui alla legge n. 122/1989 (e
ora liberalizzati a partire dal 10 febbraio
scorso) non era ammissibile una
commercializzazione disgiunta
dall'appartamento al quale gli stessi si
riferivano, per quelli previsti dalla
cosiddetta legge ponte la libera
circolazione era già prevista dalla legge,
fermo restando il diritto reale d'uso
dell'area in capo al proprietario
dell'appartamento.
Nel caso deciso dalla seconda sezione civile
della Suprema corte con la predetta sentenza
n. 1214/2012 gli acquirenti di un immobile
di nuova costruzione avevano citato in
giudizio l'impresa costruttrice che,
nell'edificare il palazzo, aveva trattenuto
per sé la proprietà delle aree a parcheggio
costruite, impedendo agli acquirenti di
farne uso. Questi ultimi avevano quindi al
tribunale di accertare il loro diritto di
proprietà in relazione alle predette aree o,
quantomeno, il loro diritto reale d'uso
sulle stesse.
In primo grado i giudici avevano quindi
convalidato il sequestro giudiziario
concesso in corso di causa, riconoscendo
agli acquirenti, previo pagamento del
prezzo, la proprietà di un posto auto
individuato grazie a una consulenza tecnica
d'ufficio (che aveva anche provveduto a
valutare il relativo valore di mercato).
Nel giudizio di appello, promosso
dall'impresa costruttrice, la Corte
territoriale aveva invece ritenuto che non
dovesse essere accolta la domanda degli
acquirenti volta al riconoscimento di un
proprio diritto di proprietà sugli spazi
adibiti a parcheggio, trattandosi in realtà
di un diritto reale d'uso (relativo comunque
alla stessa area ceduta in proprietà a
seguito della sentenza di primo grado).
La Suprema corte, nel confermare sul punto
la decisione di appello, ha ricordato i
numerosi precedenti di legittimità (da
ultimo la sentenza n. 730 del 16.01.2008)
che hanno chiarito come ai proprietari degli
appartamenti degli edifici condominiali nei
quali siano stati previste aree di
parcheggio spetti il diritto reale di uso
delle stesse, a prescindere dalla proprietà
di esse, che può anche rimanere in capo
all'impresa costruttrice (articolo ItaliaOggi Sette
del 05.03.2012). |
PUBBLICO IMPIEGO: Personale. «Pasticcio» sul maltempo.
Assenze per neve, Governo in panne sui tagli
in busta paga.
LE PROSPETTIVE/
Difficile retribuire il dipendente in
assenza della prestazione Probabile
l'utilizzo di ferie, permessi o recuperi.
Il maltempo delle scorse settimane ha creato
difficoltà anche agli uffici personale della
Pa. Il problema consiste nel trovare una
motivazione giuridica che possa consentire
il pagamento dei giorni di assenza causa
neve, e la soluzione non sembra agevole. In
questi giorni, molte amministrazioni si
stanno rivolgendo alla Funzione pubblica per
avere chiarimenti in merito.
La questione è stata oggetto di analisi da
parte degli interpreti istituzionali e della
giurisprudenza. In diverse occasioni, l'Aran
ha affermato che l'assenza del dipendente, o
la chiusura degli uffici da parte datoriale
in conseguenza di eventi atmosferici e
calamità naturali, rientra nelle ipotesi di
forza maggiore sopravvenuta, non imputabile
al datore di lavoro né al lavoratore. Ergo,
se il dipendente non ha potuto lavorare, la
parte datoriale, non avendo beneficiato di
alcuna prestazione, non può corrispondere la
retribuzione. In tal senso si era espressa
anche la Cassazione lavoro, con la sentenza
481/1984. In caso contrario, secondo l'Aran,
si verrebbero a determinare oneri impropri e
ingiustificati a carico del bilancio degli
enti che, letti dalla Corte dei conti, si
trasformerebbero in danno all'erario.
Volendo in ogni caso evitare la decurtazione
della retribuzione, è necessario individuare
un istituto legale o contrattuale che possa
giustificare l'assenza e, al contempo, ne
preveda la retribuzione. Se nel panorama
legislativo non si rinvengono norme di legge
speciali per la fattispecie, in ambito
contrattuale occorre analizzare comparto per
comparto quali soluzioni possono essere
trovate. A esempio, per i ministeriali, si
prevede la possibilità di utilizzare i
permessi retribuiti per motivi familiari o
personali in caso di impossibilità oggettiva
al raggiungimento della sede di servizio
anche nell'ipotesi di gravi calamità
naturali. Al contrario, per quanto riguarda
gli enti locali, nulla è previsto nel
contratto e quindi si dovrà comunque
ricorrere ai permessi, alle ferie o al
recupero.
La buona volontà della Funzione pubblica si
scontra, oltre che con un consolidato
orientamento interpretativo, anche con il
costo che questa operazione potrebbe
determinare per le casse dello Stato. Per
questo, sarà difficile che l'Economia
supporti una interpretazione estensiva a
favore dei dipendenti pubblici. Sarebbe
inoltre complicato spiegare perché i
dipendenti pubblici che non hanno lavorato
potranno beneficiare della retribuzione
quando i colleghi del settore privato, a
casa per neve ed ai quali si applica lo
stesso quadro normativo, non verrebbero
pagati. Allo stesso tempo, ai dipendenti
pubblici che, proprio a causa delle
condizioni atmosferiche avverse, hanno
dovuto subire turni di lavoro massacranti,
non potrà che essere riconosciuto il
trattamento economico previsto dal
contratto, che si concretizza in pochi euro
in più (articolo Il
Sole 24 Ore del
05.03.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
APPALTI:
Contratti pubblici. Sostituzione del
soggetto inadempiente in base al Durc.
L'ente salda i contributi pregressi
dell'appaltatore.
La Pa gira a Inps e Inail i compensi
dell'impresa.
Le amministrazioni appaltanti devono operare
come sostituti contributivi anche quando il
corrispettivo dovuto all'appaltatore copre
solo parzialmente i debiti che lo stesso ha
nei confronti degli enti previdenziali.
Il Ministero del Lavoro e delle politiche
sociali ha definito con la
circolare
16.02.2012 n. 3 gli aspetti applicativi
della procedura prevista dall'articolo 4 del
regolamento attuativo del codice dei
contratti pubblici. La disposizione del Dpr
207/2010 prevede infatti che le
amministrazioni aggiudicatrici, quando
ottengono un Durc che segnali
un'inadempienza contributiva relativa a uno
o più soggetti impiegati nell'esecuzione del
contratto, devono trattenere dal certificato
di pagamento l'importo corrispondente
all'inadempienza e, successivamente, pagare
quanto dovuto per le inadempienze accertate
direttamente agli enti previdenziali e
assicurativi, compresa la Cassa edile. La
norma, in sostanza, prevede un particolare
meccanismo attraverso il quale, quando il
Durc evidenzia irregolarità nei versamenti
dovuti agli enti previdenziali, le stazioni
appaltanti si sostituiscono al debitore
principale, versando –in tutto o in parte–
le somme dovute in forza del contratto di
appalto direttamente agli stessi enti
creditori.
Il ministero del Lavoro chiarisce anzitutto
che sotto il profilo operativo la
trattenuta, da parte dell'amministrazione
aggiudicatrice, delle somme dovute
all'appaltatore va effettuata
successivamente alle ritenute indicate dal
comma 3 dello stesso articolo 4, in base al
quale sull'importo netto progressivo delle
prestazioni si opera una ritenuta dello
0,50% e il complesso di tali ritenute può
essere svincolato soltanto in sede di
liquidazione finale. Quindi la stazione
appaltante prima procede alla ritenuta dello
0,50% e poi, con la somma restante, paga gli
eventuali debiti previdenziali
dell'appaltatore. L'intervento sostitutivo
può operare anche quando lo stesso debito
può colmare solo in parte le inadempienze
dell'appaltatore evidenziate nel Durc.
Le somme finalizzate a soddisfare i crediti
devono essere ripartite tra gli istituti e
le Casse edili creditori in proporzione dei
crediti di ciascun ente previdenziale
evidenziato nel documento di regolarità
contributiva. Per consentire il
coordinamento di più possibili interventi
sostitutivi da parte di amministrazioni che
abbiano contratti di appalto con lo stesso
operatore economico irregolare sotto il
profilo contributivo, il ministero del
Lavoro sollecita le stazioni appaltanti a
preavvisare gli enti previdenziali prima di
procedere ai versamenti. Sempre a garanzia
dell'effettività delle somme dovute, è
importante che le amministrazioni
comunichino tempestivamente agli enti
previdenziali i pagamenti effettuati.
In relazione ai debiti contributivi dei
subappaltatori, a fronte del principio
solidaristico che coinvolge sia gli
appaltatori sia le amministrazioni
appaltanti, queste ultime devono operare con
l'intervento sostitutivo solo per le somme
residue rimaste dopo l'analogo intervento
dell'appaltatore. In tal caso, inoltre,
quanto corrisposto dall'amministrazione non
può eccedere il valore del debito che
l'appaltatore ha nei confronti del
subappaltatore alla data di emissione del
Durc irregolare.
La circolare 3/2012 ha inoltre chiarito il
rapporto tra i versamenti connessi
all'intervento dell'amministrazione come
sostituto previdenziale e quelli da
realizzare per coprire debiti verso l'erario
rilevabili presso Equitalia in caso di
pagamenti superiori a 10.000 euro.
Il ministero del Lavoro ha precisato che
l'attivazione dell'intervento sostitutivo
anche in tali situazioni impedisce il
pagamento dell'appaltatore, poiché le somme
spettanti originariamente a quest'ultimo
sono versate agli enti previdenziali, così
salvaguardando il principio contenuto
nell'articolo 48-bis del Dpr 602/1973.
Peraltro, solo l'applicazione prioritaria
del meccanismo previsto dall'articolo 4 del
regolamento attuativo del codice dei
contratti consente alle imprese, in
prospettiva, di ottenere un Durc regolare e,
pertanto, di continuare a operare sul
mercato, salvaguardando anche i crediti
dell'amministrazione fiscale (che
potrebbero, viceversa, essere compromessi se
si volesse soddisfarli primariamente,
lasciando inalterata l'irregolarità del Durc
e impedendo all'operatore economico di
partecipare agli appalti) (articolo Il Sole 24 Ore
del 05.03.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Nell'attività
istruttoria diretta al rilascio del titolo
edilizio il Comune non deve appurare
l'eventuale esistenza di servitù o di altri
vincoli reali che limitano l'ampiezza del
titolo di proprietà.
Nella sentenza in esame ribadisce il
Collegio che la giurisprudenza
amministrativa (Cons. di Stato, n.
3525/2000) ha riconosciuto che "l'esecuzione
di opere di trasformazione edilizia...è
sottoposta a una disciplina complessa, che
riguarda, rispettivamente, la definizione
degli assetti della proprietà immobiliare e
il controllo pubblicistico sulla conformità
alle regole e ai piani di derivazione
pubblicistica. Gli ambiti delle due
discipline, finalizzate alla tutela di
interessi di consistenza disomogenea, non
sono pienamente sovrapponibili. È quindi
possibile che un intervento edilizio,
astrattamente conforme alla prescrizioni
urbanistiche, si ponga in contrasto con la
normativa di derivazione civilistica,
costituendo la violazione di diritti reali
di godimento o di altre facoltà dei soggetti
interessati. Tuttavia, la necessaria
distinzione tra gli aspetti civilistici e
quelli pubblicistici dell'attività
edificatoria non impedisce di rilevare la
presenza di significativi punti di contatto
tra i due diversi profili. Da una parte, la
normativa edilizia di carattere
regolamentare è idonea a fondare pretese
sostanziali nei rapporti interprivati, che
assumono la consistenza e il grado di
protezione del diritto soggettivo.
Dall'altra parte, alcuni elementi di origine
civilistica assumono una rilevanza
qualificata nel procedimento di rilascio
della concessione edilizia".
In questo senso il Comune, nel verificare
l'esistenza in capo al richiedente il
permesso edilizio di un idoneo titolo di
godimento sull'immobile, non si assume il
compito di risolvere eventuali conflitti di
interesse tra le parti private in ordine
all'assetto proprietario, ma accerta
soltanto il requisito della legittimazione
soggettiva di colui che richiede il
permesso. È stato precisato che "in
termini generali la funzione autorizzatoria
dell'amministrazione richiede un livello
minimo di istruttoria che comprende
...l'acquisizione di tutti gli elementi
sufficienti a dimostrare la sussistenza di
un qualificato collegamento soggettivo tra
chi propone l'istanza e il bene giuridico
oggetto dell'autorizzazione", senza che
l'esame del titolo di godimento operato
dalla p.a. costituisca un'illegittima
intrusione in ambito privatistico, ma
soltanto per assicurare un ordinato
svolgimento delle attività sottoposte al
controllo autorizzatorio al fine di non
alimentare il contenzioso tra le parti, e
ciò anche nell'ambito del procedimento di
rilascio del permesso di costruire.
Circa l'ampiezza dei poteri istruttori è
stato precisato che non si tratta di
obbligare la p.a. a complessi e laboriosi
accertamenti anche per non aggravare il
procedimento, e non può porsi a carico della
p.a. l'onere probatorio di appurare
l'eventuale esistenza di servitù o di altri
vincoli reali che limitano l'ampiezza del
titolo di proprietà (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza
06.03.2012 n. 1270
- massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
sequestro penale del manufatto abusivo non
impedisce l'esecuzione dell'ingiunzione
comunale di demolizione e di ripristino
dello stato dei luoghi.
Il sequestro penale del manufatto abusivo
non impedisce l'esecuzione dell'ingiunzione
comunale di demolizione e di ripristino
dello stato dei luoghi. In tema di tutela
penale del territorio, l'esistenza di un
sequestro penale sul manufatto abusivo
oggetto di ingiunzione comunale di
demolizione e di ripristino dello stato dei
luoghi non determina la sospensione del
termine di novanta giorni, il cui decorso
comporta, in caso di inottemperanza,
l'acquisizione gratuita di diritto al
patrimonio del comune (art. 31 d.P.R.
06.06.2001 n. 380). (In motivazione la
Corte, nell'enunciare il predetto principio,
ha precisato che il sequestro non rientra
tra gli "impedimenti assoluti" che
non consentono di dare esecuzione
all'ingiunzione, stante il disposto
dell'art. 85 disp. att. c.p.p.) (Cassazione
penale, sez. III, 14.01.2009 n. 9186)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.03.2012 n.
1260 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Verbalizzazione
delle operazioni di gara: è sufficiente la
redazione di un unico verbale anche se
relativo a più sedute svolte in diverse
giornate dalla Commissione.
Il Consiglio di Stato nella sentenza in
esame aderisce all'indirizzo
giurisprudenziale a tenore del quale anche
se, in mancanza di specifiche indicazioni
della normativa di settore e della
disciplina di gara, deve escludersi la
necessità di redigere contestuali e distinti
verbali per ciascuna seduta della
commissione di gara, è necessario comunque
che nell'unico verbale di tutte o di parte
delle operazioni compiute, ancorché relativo
a più giornate, avvenga una corretta
rappresentazione documentale dello
svolgimento della procedura (Cons. St., sez.
V, 29.04.2009 n. 2748) (Consiglio di Stato,
Sez. III,
sentenza 05.03.2012 n. 1251
- massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Abusi
edilizi: differenze tra la domanda di
accertamento di conformità ex art. 36 d.P.R.
n. 380/2001 e la domanda di condono edilizio
ai fini della sospensione dei procedimenti
sanzionatori.
Il Collegio nella sentenza in esame precisa
che alla presentazione della domanda di
accertamento di conformità ex art. 36 del
d.P.R. n. 380 del 2001 non possono trarsi le
medesime conseguenze della domanda di
condono poiché “…i presupposti dei due
procedimenti di sanatoria –quello di condono
edilizio e quello di accertamento di
conformità urbanistica- sono non solo
diversi ma anche antitetici, atteso che
l’uno (condono edilizio) concerne il perdono
ex lege per la realizzazione sine titulo
abilitativo di un manufatto in contrasto con
le prescrizioni urbanistiche (violazione
sostanziale) l’altro (sanatoria ex art. 13
legge 47/1985 oggi art. 36 DPR n. 380/2001)
l’accertamento ex post della conformità
dell’intervento edilizio realizzato senza
preventivo titolo abilitativo agli strumenti
urbanistici (violazione formale).” (TAR
Lazio, sezione I-quater, 11.01.2011, n. 124
e 22.12.2010, n. 38207 e la sentenza del TAR
Campania Napoli, sezione VI, 03.09.2010, n.
17282 in quest’ultima citata).
Per tali osservazioni alla fattispecie
dell’accertamento di conformità non può
applicarsi la sospensione dei procedimenti
sanzionatori prevista per i condoni a
partire dall’art. 44 della legge n. 47 del
1985, come richiamato dalle successive
disposizioni di cui all’art. 39 della legge
n. 724 del 1994 e dell’art. 32 della legge
n. 326 del 2003 (TAR Lazio-Roma, Sez.
I-quater,
sentenza
02.03.2012 n. 2165 - massima
tratta da
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EDILIZIA PRIVATA: L'ingiunzione
di demolizione costituisce la prima ed
obbligatoria fase del procedimento
repressivo, in quanto ha natura di diffida e
presuppone solo un giudizio di tipo
analitico-ricognitivo dell'abuso commesso,
mentre il giudizio sintetico-valutativo, di
natura discrezionale, circa la rilevanza
dell'abuso e la possibilità di sostituire la
demolizione con la sanzione pecuniaria
(disciplinato dall'art. 33 comma 2, e 34
comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001) può essere
effettuato soltanto in un secondo momento,
cioè quando il soggetto privato non ha
ottemperato spontaneamente alla demolizione
e l'organo competente emana l'ordine (questa
volta non indirizzato all'autore dell'abuso,
ma agli uffici e relativi dipendenti
dell'Amministrazione competenti e/o preposti
in materia di sanzioni edilizie) di
esecuzione in danno delle ristrutturazioni
realizzate in assenza o in totale difformità
dal permesso di costruire o delle opere
edili costruite in parziale difformità dallo
stesso; pertanto, soltanto nella predetta
seconda fase non può ritenersi legittima
l'ingiunzione a demolire sprovvista di
qualsiasi valutazione intorno all'entità
degli abusi commessi e alla possibile
sostituzione della demolizione con la
sanzione pecuniaria, così come previsto
dagli artt. 33, comma 2, e 34, comma 2,
d.P.R. n. 380 del 2001. Valutazione che deve
essere effettuata mediante apposito
accertamento da parte dell'Ufficio Tecnico
Comunale, d'ufficio o su richiesta
dell'interessato.
Secondo le argomentazioni della ricorrente
il Comune prima di ingiungere la
demolizione, avrebbe dovuto accertare che le
opere realizzate a sostegno e manutenzione
del tetto e dell’immobile stesso non
potevano essere proprio rimosse e che,
pertanto, erano suscettibili di sanzione
pecuniaria ai sensi dell’art. 34 del d.P.R.
n. 380 del 2001.
Come osservato dal TAR, in altre analoghe
circostanze, e condividendo peraltro la
giurisprudenza degli altri Tribunali
Amministrativi regionali: “L'ingiunzione
di demolizione costituisce la prima ed
obbligatoria fase del procedimento
repressivo, in quanto ha natura di diffida e
presuppone solo un giudizio di tipo
analitico-ricognitivo dell'abuso commesso,
mentre il giudizio sintetico-valutativo, di
natura discrezionale, circa la rilevanza
dell'abuso e la possibilità di sostituire la
demolizione con la sanzione pecuniaria
(disciplinato dall'art. 33 comma 2, e 34
comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001) può essere
effettuato soltanto in un secondo momento,
cioè quando il soggetto privato non ha
ottemperato spontaneamente alla demolizione
e l'organo competente emana l'ordine (questa
volta non indirizzato all'autore dell'abuso,
ma agli uffici e relativi dipendenti
dell'Amministrazione competenti e/o preposti
in materia di sanzioni edilizie) di
esecuzione in danno delle ristrutturazioni
realizzate in assenza o in totale difformità
dal permesso di costruire o delle opere
edili costruite in parziale difformità dallo
stesso; pertanto, soltanto nella predetta
seconda fase non può ritenersi legittima
l'ingiunzione a demolire sprovvista di
qualsiasi valutazione intorno all'entità
degli abusi commessi e alla possibile
sostituzione della demolizione con la
sanzione pecuniaria, così come previsto
dagli artt. 33, comma 2, e 34, comma 2,
d.P.R. n. 380 del 2001. Valutazione che deve
essere effettuata mediante apposito
accertamento da parte dell'Ufficio Tecnico
Comunale, d'ufficio o su richiesta
dell'interessato.” (TAR Lazio, sezione
I-quater, 28.12.2011, n. 10258 e TAR
Campania, Napoli, 14.06.2010, n. 14156 ivi
citata), con la conseguenza che trattandosi,
nel caso in esame, della prima demolizione
il procedimento è in una fase ancora
prodromica rispetto alle successive
valutazioni che il Comune potrà operare in
ordine alla salvaguardia dell’immobile sotto
il profilo statico ed alla eventuale e
conseguente applicazione della sanzione
pecuniaria (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza
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APPALTI SERVIZI: Procedura
negoziata senza bando di gara: il privato
che ha precedentemente svolto presso
l'amministrazione lo stesso servizio cui si
riferisce la trattativa privata deve essere
invitato a partecipare alla procedura.
Nel caso in esame un'impresa ha impugnato
innanzi al Giudice amministrativo gli atti
della procedura negoziata, senza bando di
gara, per l’affidamento del servizio di
gestione di micro-nidi aziendali indetta dal
Ministero delle Infrastrutture e dei
Trasporti.
Il Collegio ha ritenuto la procedura viziata
per mancato invito della ricorrente a
partecipare alla gara nella sua qualità di
gestore uscente del servizio, svolto in
affidamento da ben due anni, in base al
principio giurisprudenziale per cui “il
privato che ha precedentemente svolto presso
l'amministrazione lo stesso servizio cui si
riferisce la trattativa privata, in
relazione alla quale censura il mancato
invito, si trova… in una posizione
peculiare, che si differenzia dall'interesse
semplice di cui sono normalmente titolari i
privati di fronte alle analoghe scelte
dell'amministrazione ed assume la natura e
consistenza dell'interesse legittimo
tutelabile dinanzi al giudice amministrativo”
(vedi C. S., IV, 17.02.1997, n. 125; TAR
Friuli Venezia Giulia, n. 535/1999; Tar
Lazio, LT, n. 1580/2006).
La ricorrente quindi doveva essere invitata
alla procedura e, comunque, l’eventuale
scelta dell’Amministrazione di non
interpellarla ai fini della presentazione di
un’offerta in una gara senza bando avrebbe
dovuto essere specificamente motivata (vedi
CdS, VI, n. 4295/2006). Nella specie nessuna
motivazione è stata resa
dall’Amministrazione in ambito
procedimentale (TAR Lazio-Roma, Sez. III,
sentenza 01.03.2012 n.
2108 - massima
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APPALTI: False
dichiarazione rese nelle gare pubbliche: la
sanzione dell'interdizione annuale decorre
dalla data di annotazione nel casellario
informatico.
Il “dies a quo” di interdizione
annuale dalle pubbliche gare per chi abbia
reso false dichiarazioni decorre dalla data
di annotazione nel casellario informatico
presso l’Autorità di vigilanza sui contratti
pubblici e non dalla data di commissione
dell’illecito di riferimento (rilascio falsa
dichiarazione), come invece sostenuto dalla
ricorrente (Cons. Stato, Sez. V, 05.08.2011,
n. 4700 e 25.01.2011, n. 517) (TAR
Lazio-Roma, Sez. III,
sentenza 01.03.2012 n. 2106 - massima
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APPALTI: Annullata
l'aggiudicazione all'impresa che per errore
ha inserito nella busta dell'offerta tecnica
una dichiarazione che andava presentata
nella busta dell'offerta economica.
Nel giudizio in esame viene censurata la
sentenza di primo grado che ha statuito come
l’inserimento della dichiarazione
concernente i tempi di esecuzione dei lavori
oggetto di appalto nella busta contenente
l’offerta tecnica, in violazione puntuale
prescrizione del bando di gara che, invece,
ne aveva imposto la presentazione
nell’ambito dell’offerta economica, ha
irrimediabilmente pregiudicato le esigenze
di segretezza che presidiano lo svolgimento
della procedura e, conseguentemente, la
parità di trattamento tra i concorrenti.
Il Consiglio di Stato ha rigettato l'appello
affermando che costituisce principio
consolidato, espresso anche da questa
sezione (sent. 09/06/2009, n. 3575), quello
per cui la separazione tra le fasi di
valutazione dell’offerta tecnica e di quella
economica, propria delle procedure di
affidamento da aggiudicare con il criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa,
è finalizzato ad evitare che la commissione
di gara sia influenzata nella valutazione
dell’offerta tecnica dalla conoscenza di
elementi dell’offerta economica.
L’inevitabile perturbamento del processo
valutativo che con ciò si determina impone
necessariamente, a tutela dei principi di
parità di trattamento e trasparenza,
l’esclusione del concorrente dalla gara che
abbia determinato tale sovrapposizione,
anche in assenza di espresse comminatorie
espulsive della legge di gara (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 01.03.2012 n. 1196 - massima
tratta da
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APPALTI: Il
sindacato del giudice sui criteri di
valutazione dell'offerta economicamente più
vantaggiosa e' consentito unicamente in casi
di sviamento e manifesta illogicità.
In base all'art. 83, comma 1, d.lgs. n.
163/2006, il criterio selettivo dell’offerta
economicamente più vantaggiosa impone alla
stazione appaltante di determinare nella
legge di gara i criteri di valutazione
dell’offerta “pertinenti alla natura,
all’oggetto e alle caratteristiche del
contratto”.
Ora, è noto che il sindacato giurisdizionale
nei confronti di tale scelta, tipica
espressione di discrezionalità
tecnico-amministrativa, è consentito
unicamente in casi di sviamento e manifesta
illogicità (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 01.03.2012 n. 1195 - massima
tratta da
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ATTI AMMINISTRATIVI: L'azione
del Commissario ad acta è svincolata dagli
ordinari canoni dell'azione amministrativa.
Il Commissario è un ausiliare del giudice
(artt. 21 e 114, comma 4, lett. d), del
codice del processo amministrativo),
titolare di un potere che trova diretto
fondamento nella pronuncia giurisdizionale
da portare ad esecuzione. Ne deriva che
detto organo è legittimato, anche al di
fuori delle norme che governano l’azione
ordinaria degli organi amministrativi
sostituiti, ad adottare ogni misura conforme
al giudicato che si appalesi in concreto
idonea a garantire alla parte ricorrente il
conseguimento effettivo del bene della vita
di cui sia stato riconosciuto titolare nella
sentenza da portare ad attuazione.
L’esigenza di svincolare l’azione del
Commissario dal rispetto dei vincoli
procedurali ordinari dell’azione
amministrativa, anche con riguardo alla
disciplina procedimentale che regola
l’emissione dei mandati di pagamento, trova
conferma decisiva nel principio
costituzionale di pienezza ed effettività
della tutela di cui al’art. 24 della Carta
Fondamentale oltre che nei principi, in tema
di equità del processo ed effettività della
tutela, di cui agli artt. 6 e 13 della
Convenzione CEDU.
La corretta attuazione di detti principi
suggerisce, infatti, l’approdo ad una
soluzione esegetica che consenta la piena
attuazione del precetto giudiziario con il
ricorso ad ogni determinazione idonea al
concreto conseguimento dello scopo, anche in
deroga ai canoni ordinari dell’azione
amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 01.03.2012 n. 1194 - massima
tratta da
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APPALTI SERVIZI: Affidamento
dei servizi di igiene ambientale: va esclusa
dalla gara l'impresa che nella domanda non
ha indicato il responsabile tecnico.
Il Consiglio di Stato nella sentenza in
esame ha richiamato il consolidato indirizzo
giurisprudenziale che considera legittima
l'esclusione dalla gara pubblica, indetta
per l'affidamento dei servizi di igiene
ambientale, dell'impresa che nella sua
domanda non abbia indicato il nominativo del
proprio responsabile tecnico né reso le
prescritte dichiarazioni, trattandosi di
figura che per le imprese che effettuano la
gestione dei rifiuti è espressamente
prevista dal d.m. 28.04.1998, il cui art.
10, comma 4, ne impone la nomina (che deve
ricadere su soggetti aventi i prescritti
requisiti di qualificazione professione, di
ordine speciale e di ordine generale); in
sostanza, il responsabile tecnico è elemento
indispensabile per la qualificazione
dell'impresa, deputato allo svolgimento dei
compiti tecnico-organizzativi relativi anche
all'esecuzione del servizio commesso da
parte dell'impresa, di cui assume quindi,
per definizione, la responsabilità sotto
tali aspetti (C.d.S., V, 26.05.2010, n.
3364).
In altre parole, dunque: “1) nelle
imprese che effettuano la gestione dei
rifiuti è obbligatoria (ex art. 10, comma 4,
del D.M. 28.04.1998) la figura del
responsabile tecnico, il quale è elemento
indispensabile per la qualifica
dell’impresa, evidentemente deputato allo
svolgimento dei compiti
tecnico–organizzativi relativi anche
all’esecuzione del servizio commesso da
parte dell’impresa, di cui assume, per
stessa definizione, la responsabilità sotto
altri aspetti, non diversamente dal
direttore tecnico previsto dall’art. 26 del
D.P.R. 25.01.2000, n. 34, in materia di
imprese di lavori pubblici (cui competono,
notoriamente, gli adempimenti di carattere
tecnico organizzativo necessari per
l’esecuzione dei lavori);
2) non sono pertanto ravvisabili
significative differenze tra il responsabile
tecnico dell’impresa di gestione dei rifiuti
ed il direttore tecnico, anche quest’ultimo
potendo (ex art. 26 del D.P.R. 25.01.2000,
n. 34) essere un soggetto esterno;
3) quando la norma (all’art. 38 del D.Lgs.
12.04.2006, n. 163 e quindi anche della lex
specialis della gara) richiede che lo
specifico requisito sia posseduto dal
direttore tecnico ha riguardo, quanto alle
imprese di servizi, alle figure tipiche di
tale categoria, pur nominalmente diverse ma
a quella sostanzialmente analoghe perché
investite di compiti parimenti analoghi,
rilevanti ai fini dell’esecuzione
dell’appalto“ (Sez. V, n. 1790 del
24.03.2011) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 28.02.012 n. 1154 - massima
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APPALTI: La
mera partecipazione alla gara non e'
sufficiente ad abilitare il partecipante
all'impugnare della procedura selettiva.
Secondo il recente insegnamento della
pronuncia dell’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato n. 4/2011, invero, la
mera partecipazione di fatto ad una gara non
è sufficiente per attribuire la
legittimazione al ricorso, poiché la
situazione legittimante deriva da una
qualificazione di carattere normativo, che
postula il positivo esito del sindacato
sulla ritualità dell’ammissione del soggetto
ricorrente alla procedura selettiva.
Pertanto la definitiva esclusione, oppure
l’accertamento della illegittimità della
partecipazione alla gara, impediscono di
assegnare al concorrente la titolarità di
una situazione sostanziale che lo abiliti ad
impugnare la procedura selettiva. Ed il
positivo riscontro della legittimazione al
ricorso, sempre secondo le puntualizzazioni
dell’Adunanza Plenaria, è necessario tanto
per far valere un interesse, cd. finale, al
conseguimento dell’appalto, quanto per
perseguire un interesse meramente
strumentale diretto alla caducazione
dell’intera gara e alla sua riedizione
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 28.02.2012 n. 1153 - massima
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APPALTI: Offerta
economicamente più vantaggiosa: attribuzione
del punteggio mediante il metodo del
confronto a coppie.
Come precisato dalla giurisprudenza, il
confronto a coppie (altrimenti noto come
decreto Karrer) prevede che ogni elemento
qualitativo dell’offerto sia oggetto di
valutazione attraverso la determinazione di
coefficienti all’interno di una tabella
triangolare, nella quale le offerte di ogni
concorrente sono confrontate a due a due:
per ogni coppia di offerte ogni commissario
indica l’elemento preferito, attribuendo un
punteggio di 1, che esprime parità; 2, che
esprime la preferenza minima; 3, per
l’ipotesi di preferenza piccola; 4, che
contraddistingue una preferenza media; 5,
che individua una presenza grande; 6, che
indica la preferenza massima (C.d.S., sez.
V, 05.02.2007, n. 458).
Il metodo in questione esprime, pertanto,
non già una valutazione assoluta, ma
piuttosto una valutazione relativa delle
offerte, finalizzata ad individuare quella
che, in raffronto con le altre appare
migliore, non potendosi peraltro applicare
un giudizio transitivo (tra le offerte)
(C.d.S., sez. IV, 16.02.1998, n. 300); in
particolare il confronto a coppie è
imperniato su una serie di distinte e
autonome valutazioni di ogni offerta con
ciascuna delle altre che esprime una
valutazione complessiva dell’offerta,
rappresentata dalla sommatoria delle
preferenze da essa riportate rispetto a
quelle conseguite dalle altre offerte, con
la conseguenza che la valutazione di ciascun
progetto e di ogni offerta è indicata dal
totale dei punteggi attribuiti per ogni
elemento posto in comparazione (C.d.S., sez.
V, 05.07.2007, n. 3814; 28.06.2002, n.
3586).
E’ stato anche sottolineato che, una volta
accertata la correttezza dell’applicazione
del metodo del confronto a coppie ovvero
quando non ne sia stato accertato l’uso
distorto o irrazionale, non c’è spazio
alcuno per un sindacato del giudice
amministrativo nel merito dei singoli
apprezzamenti effettuati ed in particolare
sui punteggi attribuiti nel confronto a
coppie, che indicano il grado di preferenza
riconosciuto ad ogni singola offerta in
gara, con l’ulteriore conseguenza che la
motivazione delle valutazioni sugli elementi
qualitativi risiede nelle stesse preferenze
attribuiti ai singoli elementi di
valutazione considerati nei raffronti con
gli stessi elementi delle altre offerte
(C.d.S., sez. V, 05.02.2007, n. 458).
L’attribuzione del punteggio secondo il
delineato metodo fondato su un’indicazione
preferenziale ancorata a indici
predeterminati non richiede di per sé alcuna
estrinsecazione logico – argomentativa della
preferenza, giacché il giudizio valutativo
deve ritenersi insito nell’assegnazione
delle preferenze, dei coefficienti e di
conseguenza del punteggio: quest’ultimo,
tuttavia, deve essere considerato
sufficiente a motivare gli elementi
dell’offerta economicamente più vantaggiosa
solo quando la lex specialis della
gara abbia espressamente predefinito
specifici, obiettivi e puntuali criteri di
valutazione (C.d.S., sez, V, 30.08.2005, n.
4423; 04.06.2007, n. 2943; 31.08.2007, n.
4543; 17.09.2008, n. 4439) (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 28.02.2012 n. 1150 - massima
tratta da
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APPALTI: L'amministrazione
gode di ampia discrezionalità nella scelta
dei criteri di valutazione dell'offerta
economicamente più vantaggiosa.
La scelta da parte dell’amministrazione dei
criteri di valutazione dell’offerta
economicamente più vantaggiosa è connotata
da ampia discrezionalità, ma deve avvenire
nel rispetto dei principi di
proporzionalità, ragionevolezza e non
discriminazione, dovendo in ogni caso i
singoli criteri essere riferiti direttamente
ed esclusivamente alle prestazioni che
formano oggetto specifico dell’appalto ed
essere pertinenti alla natura, all’oggetto
ed al contenuto del contratto (C.d.S., sez.
V, 11.01.2006, n. 28; 21.11.2007, n. 5911;
19.11.2009, n. 7259) (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 28.02.2012 n. 1150 - massima
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APPALTI: L'Amministrazione
appaltante è vincolata alla legge di gara.
In virtù di consolidata giurisprudenza il
momento valutativo-discrezionale
dell’Amministrazione appaltante si esaurisce
nel momento della predisposizione della
legge di gara, alla quale l’Amministrazione
medesima si è autovincolata, senza che nella
fase applicativa possano avvenire ulteriori
valutazioni anche collegate ad
interpretazioni finalistiche, funzionali ad
un preteso interesse pubblico.
Il criterio teleologico non può infatti
superare il criterio formale nel caso in
cui, come quello in esame, la clausola del
disciplinare di gara sia accompagnata dalla
previsione di esclusione del concorrente in
conseguenza del suo mancato rispetto e ciò
anche allorché tale mancato rispetto possa
apparire in una sommaria analisi un mero
passaggio formale in apparenza privo di
rilievo sostanziale (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 28.02.2012 n. 1149 - massima
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EDILIZIA PRIVATA: L'utilizzazione
di un immobile ad ufficio pubblico non ne
determina la modificazione della
destinazione d'uso.
Il Consiglio di Stato nella sentenza in
esame ha affermato che l’utilizzazione di
fatto di un immobile ad ufficio pubblico in
forza di un contratto di diritto privato non
può essere fonte di modificazione della
destinazione d’uso derivante questa,
infatti, da provvedimenti classificatori di
natura autoritativa non modificabili o
estinguibili da determinazioni negoziali:
queste, per loro natura -contratto di
locazione– hanno incorporata in sé una
logica transitoria (Consiglio di Stato, Sez.
V,
sentenza 28.02.2012 n. 1148
- massima
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ATTI AMMINISTRATIVI: L'Amministrazione,
sulla base di una nuova valutazione
dell’interesse pubblico originario, può
revocare il provvedimento che autorizza un
determinato uso del suolo pubblico.
Ad avviso del Consiglio di Stato non sarebbe
comprensibile –e apparirebbe anzi contrario
alla esigenza di cura dell’interesse
pubblico– ritenere che l’Amministrazione,
una volta concesso o autorizzato un
determinato uso del suolo pubblico, rimanga
rigidamente vincolata al proprio
provvedimento senza poter poi procedere ad
una nuova valutazione degli interessi in
gioco, tale da convincerla a modificare o
revocare il provvedimento già adottato
(salva la possibilità di una eventuale
compensazione per il destinatario degli
atti).
Sotto tale profilo l’art. 21-quinquies della
legge 07.08.1990, n. 241 –di per sé non
applicabile alla vicenda in esame in quanto
introdotto nel 2005– nella misura in cui
consente la revoca anche a seguito di una
nuova valutazione dell’interesse pubblico
originario, non innova la disciplina
precedente, ma si limita a esplicitare una
regola che doveva supporsi già esistente
sulla scorta di una interpretazione
razionale della normativa in vigore.
E’ ovvio, peraltro, che la legittimità della
revoca in ragione di un diverso
apprezzamento dell’interesse pubblico
preesistente è condizionata alla congruenza
della motivazione addotta
dall’Amministrazione a base del nuovo
provvedimento (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.02.2012 n. 1137 - massima
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ESPROPRIAZIONE: La
dichiarazione di pubblica utilità priva di
termini iniziali e finali per l’avvio e
compimento dei lavori e delle occupazioni è
da ritenere radicalmente nulla.
E' noto che, secondo la giurisprudenza anche
più recente della Corte regolatrice, la
dichiarazione di pubblica utilità priva di
termini iniziali e finali per l’avvio e
compimento dei lavori e delle occupazioni è
da ritenere radicalmente nulla, onde
l’occupazione costituisce mero comportamento
materiale “...in nessun modo
ricollegabile ad un esercizio abusivo dei
poteri della p.a., sicché spetta al g.o. la
giurisdizione sulla domanda risarcitoria
proposta dal privato” perché in tal caso
essa è “da ritenere emessa in carenza
ovvero in difetto assoluto di attribuzione
del potere stesso, che comporta nullità del
provvedimento dichiarativo della pubblica
utilità e degli atti conseguenti della
procedura ablatoria” (Cass. Civ., SS.UU.,
14.02.2011, n. 3569) (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 28.02.2012 n. 1133 - massima
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COMPETENZE GESTIONALI - INCARICHI
PROFESSIONALI: Gli
incarichi di assistenza legale sono
competenza solo dei dirigenti. Consiglio di
Stato. Stop al sindaco nelle amministrazioni
che hanno l'avvocatura.
Gli incarichi di
assistenza legale negli enti locali che
hanno l'avvocatura devono essere conferiti
esclusivamente dal dirigente della stessa e
non dal sindaco.
È l'importante e, per molti aspetti
innovativa, indicazione contenuta nella
sentenza 14.02.2012 n. 730
del Consiglio di Stato
(Sez. V).
Sulla base di questo principio viene messa
in discussione la legittimità di molti degli
incarichi di nomina dei legali delle Pa.
Nella pronuncia è inoltre chiarito che i
regolamenti di organizzazione di Comuni e
Province non possono limitare l'autonomia
dell'avvocatura.
Si chiarisce espressamente che «il
rappresentante legale dell'ente manifesta la
volontà di costituirsi in un eventuale
giudizio, ma non può anche provvedere (né
lui né la Giunta) alla nomina del difensore,
né interno, cosa che compete sicuramente al
capo dell'ufficio legale, né esterno,
vicenda che si articola, innanzitutto, in
una dichiarazione che sussistono elementi
per poter affidare la difesa tecnica
all'esterno ad opera dell'ufficio legale e
successiva nomina del difensore del libero
foro, che compete necessariamente al capo
dell'ufficio legale, trattandosi di un vero
e proprio contratto di prestazione
intellettuale, ricadente come tale nelle
attività gestionali di competenza dei
dirigenti dell'amministrazione».
Come si vede, la sentenza innova la
giurisprudenza precedente, secondo cui il
rappresentante legale dell'ente, cioè il
sindaco o il presidente della provincia, può
scegliere il legale o quanto meno concorrere
alla sua scelta. Il che obbliga la
stragrande maggioranza delle amministrazioni
a modificare regolamenti e abitudini.
La sentenza stabilisce i termini della «sottoposizione
dell'ufficio legale alle direttive e agli
ordini del direttore generale, il quale, se
certamente può intervenire a coordinare gli
uffici (tutti gli uffici, anche quello
legale), non può indubbiamente interferire
sull'organizzazione interna e sulle modalità
di organizzazione del lavoro, innanzitutto
perché si tratta di un'attività tecnica (in
senso giuridico) e, poi, perché gli uffici
legali degli enti pubblici devono godere di
quella particolare autonomia di pensiero e
di organizzazione che sola può consentire
l'esplicazione corretta e proficua della
loro attività». Viene così riaffermata
con nettezza l'autonomia di cui devono
godere gli uffici legali delle Pa locali.
Ciò significa che gli enti hanno un'ampia
discrezionalità che non può essere messa in
discussione, ma va esercitata «nel
rispetto delle statuizioni esistenti e, in
particolare, delle guarentigie attribuite a
determinate categorie di soggetti operanti
nell'ambito della pubblica amministrazione».
Tra esse occorre fare riferimento, alla
necessità che l'avvocatura delle Pa non sia
«sottoposta né a condizionamenti, né a
valutazioni che possano in qualche modo
svilirne il modo di essere»
(articolo Il Sole 24
Ore del 06.03.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Privacy: lecito rendere pubblico lo stato di
salute di un dipendente?
Il datore di lavoro che scelga di rendere
pubblico lo stato di salute di un suo
dipendente, senza che una tale divulgazione
sia stata retta da fini di interesse
pubblico, viola l'art. 11 del D.lgs.
193/2006. Con tale condotta viene lesa la
riservatezza del dipendente a seguito del
superamento dei limiti di pertinenza e non
eccedenza del trattamento dei dati
personali. Per chiedere il risarcimento del
danno non patrimoniale è sufficiente
lamentare un patema d'animo, essendo sovente
le modalità della divulgazione idonee, già
per se stesse, a dimostrare l'esistenza di
un pregiudizio.
E' quanto è emerso dalla
sentenza
13.02.2012 n. 2034 emessa dalla
Corte di Cassazione
civile che ha condannato un comune italiano ad un
risarcimento di 16.000 euro nei confronti di
un suo dipendente, per violazione del Codice
della Privacy.
Nel caso di specie il dipendente pubblico ha
chiesto all'amministrazione che venisse
riconosciuta la connessione tra una
patologia cui andava affetto e il tipo di
lavoro prestato per l'ente. La domanda viene
rigettata con un parere negativo, al quale
fa seguito un provvedimento che viene reso
pubblico mediante affissione nell'albo
pretorio del comune per quindici giorni.
nell'atto amministrativo sono state
riportate tutte le informazioni attinenti
alla paventata patologia del lavoratore,
unitamente alle sue diagnosi e alle cause,
alla natura e agli effetti della stessa.
Conseguentemente, il lavoratore ha ritenuto
di adire il giudice per chiedere la condanna
dell'amministrazione al risarcimento dei
danni non patrimoniali da lui patiti a
seguito della divulgazione dei dati
sensibili.
Il Tribunale di Cagliari ha accolto la sua
istanza, accertando sia l'illegittimità del
provvedimento amministrativo per violazione
dell'articolo 2 della Costituzione e
dell'articolo 11 del Codice della Privacy,
sia il pregiudizio morale patito dal
lavoratore.
Per la corte cagliaritana, infatti,
l'amministrazione ha del tutto superato i
limiti di pertinenza e non eccedenza del
trattamento dei dati personali di cui
all'articolo 11 del decreto legislativo
193/2006, senza che vi fosse una valida
giustificazione.
Il provvedimento, infatti, ben avrebbe
potuto essere divulgato con modi
alternativi, allineati con la sfera privata
del dipendente pubblico, come tali idonei ad
evitare l'insorgere di qualsivoglia
tipologia di danno.
Il Comune, tuttavia, non ha condiviso il
dictum del giudice di merito e si è rivolto
alla Corte di legittimità per chiedere la
riforma della sentenza.
La violazione della disciplina in materia di
tutela della riservatezza dei dati personali
è stata ritenuta pacifica. Si continua a
discutere, però, sulla prova del danno.
Contrariamente a quanto affermato dal
Comune, secondo il quale non vi sarebbe
stato nessun pregiudizio per il lavoratore
né un tale pregiudizio sarebbe stato
provato, la corte capitolina afferma che,
seppure il danno non può considerarsi in re ipsa a seguito della la mera violazione, lo
stesso può ben desumersi, come ha fatto la
corte di primo grado, da quel disagio,
imbarazzo o preoccupazione discendente dalla
divulgazione di dati sensibili, quali sono
quelli attinenti allo stato di salute.
A tali riflessi deve sommarsi un patema
d'animo ancor più incisivo, consistente
nell'incertezza, per il lavoratore, sul
numero di persone degli effettivi
conoscitori della predetta situazione
personale.
In tal senso, il pregiudizio patito dal
soggetto leso si sostanzierebbe nella sua
incapacità di relazionarsi serenamente con i
consociati a causa della preoccupazione
derivante dal non sapere se questi conoscano
o meno i suoi problemi di salute e le sue
vertenze con il datore per il quale presta
il suo servizio.
Così argomentando la Corte riesce a
svincolarsi dalla censura avanzata dal
Comune circa il difettoso accertamento di un
concreto pregiudizio patito dal lavoratore.
La sentenza si immerge nel tema della
responsabilità dell'amministrazione per le
violazioni commesse nell'ambito della sua
attività provvedimentale, attraverso l'agire
dei suoi dipendenti.
Seppur in apparente controtendenza rispetto
alla tesi, per lungo tempo sostenuta, della
responsabilità oggettiva, la corte dimostra
di accordare la pretesa risarcitoria anche
in presenza di un accertamento del danno dai
difficili contorni.
L'impressione, pertanto, sembra quella per
la quale la caratura della violazione e
l'oggetto della stessa (dati sensibili
attinenti lo stato di salute del soggetto)
debbano sempre prevalere sulle esigenze di
accertamento di un danno, essendo questo
desumibile dall'id quod plerunque accidit.
La divulgazione dei dati che si è attuata
nel caso di specie, infatti, sarebbe da
considerarsi, per natura, idonea a
determinare un patimento nell'interessato,
obbligato a rivedere il suo modo di
rapportarsi con le persone a seguito
dell'imbarazzo generato dal datore.
Le argomentazioni della sentenza possono
essere estese anche ai datori di lavoro
privati che si rendano (analogamente)
colpevoli di divulgazioni illecite. Anche in
questo caso, infatti, le modalità della
divulgazione possono semplificare la prova
del danno per il dipendente, rendendo, così,
più ardua la difesa del datore di lavoro (commento tratto da www.ipsoa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Realizzazione di soppalco di
modeste dimensioni che non costituisca un
vano abitabile – intervento di
ristrutturazione edilizia – necessità di
permesso di costruire – esclusione.
La realizzazione di un soppalco di modeste
dimensioni che non ha determinato un aumento
di superficie utilizzabile, non ha
modificato il volume o sagome dell’immobile,
né la destinazione di uso, e non costituisca
un vano abitabile, è assentibile con la
denuncia di inizio lavori “semplice”,
la cui mancanza è sanzionata solo
amministrativamente (TRIBUNALE di Napoli,
Sez. penale,
sentenza 06.02.2012 - link a
www.iussit.eu).
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Con riferimento
ad opere interne quali i soppalchi, vanno
svolte alcune brevi premesse per un corretto
inquadramento della materia.
Si considerano opere interne quegli
interventi minori che, in quanto eseguiti
all'interno di un edificio, non incidono
sulla sua sagoma o sui prospetti.
Nel vigore dell'art. 26 della legge n.
47/1985 e dell’art. 4 legge n. 493/1993,
come modificato dall'art. 2, comma 60, legge
n. 662/1996, tali opere potevano essere
eseguite in base a semplice denuncia qualora
non avessero comportato modifiche della
sagoma o dei prospetti e non avessero recato
pregiudizio alla statica dell'immobile,
sebbene esse determinassero un aumento della
superficie utilizzabile o il numero delle
unità immobiliari a condizione però
dell’assenza di vincoli paesaggistici,
storici, ambientali, urbanistici e di
contrasto con strumenti di pianificazione o
programmazione urbanistica immediatamente
operativi.
L'esecuzione di tali opere senza la denuncia
d'inizio d'attività era punita con una
sanzione pecuniaria.
Nel novero delle opere interne rientrava la
realizzazione di soppalchi in quanto tale
intervento, pur aumentando la superficie
utilizzabile, non modificava i volumi o la
sagoma dell'edificio. La giurisprudenza
della Suprema Corte di Cassazione si era,
dunque, orientata nel senso di ritenere che
per la realizzazione di soppalchi aventi
destinazione abitativa, interni a
costruzioni preesistenti, non occorresse la
concessione né l'autorizzazione edilizia ma
era sufficiente il procedimento di D.I.A.
in. via esclusiva, la cui mancanza era
sanzionata solo in via amministrativa (cfr.
Cass. Sez. III, 22.04.1998, n. 4746,
Matera; 03.06.1994, n. 6573, Vicini;
28.03.1990 n. 4323, De Pan, Cass. sez. III
20.05.2000 n. 6189).
Di contro, il nuovo testo unico
dell'edilizia non prevede tale tipo
d'intervento come categoria autonoma da cui
il problema interpretativo del suo
inquadramento normativo.
Nella giurisprudenza di legittimità si
registra un contrasto sul punto.
Ed invero, dopo l'entrata in vigore del TU.
n. 380/2001, l’orientamento che riteneva le
opere interne assentite con la mera denunzia
di inizio attività è stato confermato dalla
III Sezione penale con la sentenza
10.11.2005 n. 40829 (ric. P.M. in proc.
D'Amato ed altro), ove si è precisato che:
“la realizzazione di opere interne anche in
base al testo unico deve ritenersi
consentita, come avveniva nella legislazione
previgente, previa mera denunzia di inizio
dell'attività a condizione che non integri
veri e propri interventi comportanti
modifiche della sagoma o della destinazione
d'uso e ciò perché in base all'attuale
disciplina sono assentibili con la denuncia
d'inizio lavori cosiddetta semplice, ossia
quella prevista dall’art. 22 dei T.U. commi 1
e 2 (da distinguere dalla cosiddetta
superdia introdotta con il decreto
legislativo n. 301 del 2002 che è prevista
dal terzo comma dell'articolo 22, e che,
essendo alternativa al permesso di
costruire, è sottoposta alla stessa
disciplina sanzionatoria penale prevista per
la mancanza del permesso di costruire o per
la difformità da esso), tutti quegli
interventi per i quali non è richiesto il
permesso di costruire e per quello in
questione tale permesso, alle condizioni
sopra indicate, non è richiesto giacché,
anche se è aumentata la superficie in
concreto utilizzabile, non sono stati
modificati volume e sagoma».
Tale indirizzo giurisprudenziale non è stato
però condiviso in altre più recenti pronunce
della stessa III Sezione penale nelle quali
è stato precisato che le opere interne non
sono più previste, nella nuova formulazione
del T.U. nr. 380/2001, come categoria
autonoma di intervento sugli edifici
esistenti e devono quindi ritenersi
riconducibili alla «ristrutturazione
edilizia» allorquando comportino aumento di
unità immobiliari, ovvero modifiche dei
volumi, dei prospetti o delle superfici, o
mutamenti di destinazione d'uso.
Statuisce la Suprema Corte:
“l'esecuzione di un soppalco all’interno di
una unità immobiliare, realizzato attraverso
la divisione in altezza di un vano allo
scopo di ottenerne una duplice utilizzazione
abitativa, pure se non realizzi un mutamento
di destinazione d'uso, costituisce
intervento di ristrutturazione edilizia che
richiede il permesso di costruire o, in
alternativa, la denunzia di inizio attività,
ai sensi dell'art. 22, 3° comma, del T.u.
380/2001.
Detto intervento, infatti, comporta un
incremento della superficie utile
calpestabile che, a norma dell’art. 10, 1° comma,
lett. c), dello stesso T.u., impone
l'applicazione del regime di alternatività
indipendentemente da una contemporanea
modifica della sagoma o del volume, senza la
necessità cioè che concorrano tutte le
condizioni previste nello stesso articolo
(modifiche del volume, della sagoma, dei
prospetti, delle superfici) in quanto queste
sono alternative come ricavasi dal’uso della
disgiuntiva nel citato testo normativo" (cfr. Cass.
pen. sez. III 26.10.2006, n. 35863, Montilli; Cass. pen. sez. III 16.11.2006, n. 37705 Richiello; 26.01.2007, n.
2881, P.M. in proc. Picone ed altro; Cass.
pen. 01.03.2007, n. 8669, De Martino).
Va da sé che restano fuori dal regime del
permesso di costruire (e quindi dalla
sanzionabilità penale) i meri spazi inidonei
(in particolare in ragione dell’altezza) ad
essere occupati dall'uomo od utilizzati come
vani abitabili (quali gli
spazi-ripostiglio).
La realizzazione del soppalco interno,
secondo tale indirizzo giurisprudenziale, va
inquadrata, quindi, nell’ambito degli
interventi di cui all’art. 22, comma 3, T.U.
che comportano un aumento di superficie e
sono suscettivi di essere eseguiti con
permesso di costruire ovvero, in
alternativa, con denuncia di inizio
attività.
In base al disposto dell’art. 44, comma 2-bis,
T.U. 380/2001, l’assenza della D.I.A. ove
sia previsto il regime di alternatività, o
la totale difformità dalla stessa,
comportano l’applicazione delle sanzioni
penali e non già di quelle meramente
amministrative.
Orbene, ritiene il Giudicante che, nel caso
in esame, la tipologia di intervento
realizzata dall’imputata, non si profila
come penalmente rilevante ricadendo negli
interventi sanzionati in via amministrativa.
In punto di diritto si premette che la
fattispecie contestata di cui all'art. 44, lett. B), del D.P.R. 380/2001 sanziona
penalmente l'esecuzione di opere in assenza
o difformità dalla concessione edilizia e
sono da reputarsi tali tutti gli interventi
che comportano significativi aumenti di
superficie o volume, modifiche della sagoma,
alterazione dei prospetti. In altri termini,
la sanzione penale è riservata agli
interventi edilizi che incidono in modo
significativo sul territorio comportando
aumenti planovolumetrici e, dunque, una
significativa trasformazione dell'assetto
edilizio ed urbanistico che richiede
necessariamente l'autorizzazione della
Pubblica Amministrazione deputata alla sua
tutela attraverso il rilascio della
concessione edilizia.
L'art. 10 del T.U. sull'edilizia prescrive
il preventivo rilascio del permesso di
costruire per le nuove costruzioni e per gli
interventi di ristrutturazione edilizia che
portino ad un organismo in tutto o in parte
diverso dal precedente e che comportino
aumento delle superfici e dei volumi; di
contro, gli altri interventi per i quali non
è richiesto il permesso di costruire possono
essere assentiti con semplice denuncia
d'inizio attività a norma dell'articolo 22,
primo e secondo comma, purché siano conformi
agli strumenti urbanistici vigenti, la cui
inosservanza integra una mera violazione
amministrativa ex art. 37, comma 1, T.U.
Viceversa e salvo diverse disposizioni
previste dalla disciplina regionale o dagli
strumenti urbanistici, possono essere
eseguite senza alcun titolo abilitativo, in
base all’art. 6 T.U., solo gli interventi di
manutenzione ordinaria, quelli rivolti
all'eliminazione delle barriere
architettoniche (qualora non comportino la
realizzazione di rampe o di ascensori
esterni ovvero di manufatti che alterino la
sagoma degli edifici) nonché le opere
temporanee per l'attività di ricerca nel
sottosuolo in aree esterne al centro
edificato (interventi liberi).
Opere diverse da quelle innanzi indicate
devono essere assentite dall'autorità
comunale o con il permesso a costruire o con
la denuncia di inizio attività.
L'art. 22, comma 4, del T.U. ha peraltro facultato le regioni a statuto ordinario,
con legge regionale, ad "ampliare o ridurre
l'ambito applicativo delle disposizioni di
cui ai commi precedenti”.
Nella fattispecie, la Regione Campania ha
emanato la Legge Regionale n. 19 del 28.11.2001 ove, all’art. 2, è stato
stabilito che possono essere realizzati in
base a semplice denuncia d'inizio attività:
a) gli interventi edilizi, di cui all'art. 4
del decreto legge 05.10.1993, n. 398,
convertito, con modificazioni, nella legge 04.12.1993 n. 493, come sostituito
dall'art. 2, co. 60, della legge 23.12.1996 n. 662, lettere a), b), c), d), e), f);
b) le ristrutturazioni edilizie, comprensive
della demolizione e della ricostruzione con
lo stesso ingombro volumetrico.
Dunque, con riferimento alla Regione
Campania, nella categoria di cui alla
lettera a) vi rientrano certamente le opere
interne di singole unità immobiliari -tra
cui i soppalchi- a condizione che non
comportino modifiche della sagoma e dei
prospetti e non rechino pregiudizio alla
statica dell'immobile e, limitatamente agli
interventi compresi nelle zone omogenee A)
di cui all'art. 2 del decreto del Ministro
dei lavori pubblici 02.04.1968,
pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97
del 16.04.1968, non modifichino la
destinazione d'uso.
Tali interventi, in base alla legge
regionale della Campania, sono soggetti alla
denuncia d'inizio attività, ma alle
condizioni suindicate del tutto conformi
alla legge statale, la cui omissione non
integra ipotesi di reato, ma semplice
sanzione amministrativa.
(1)
Orbene, nel caso in esame, traendo le dovute
conclusioni, non può che rimarcarsi in primo
luogo il dato fattuale della scarsità di
informazioni sulla natura, conformazione ed
entità dell’intervento realizzato, dovendosi
far riferimento esclusivamente alla
testimonianza del verbalizzante di P.G. in
mancanza di rilievi fotografici, di
sequestro e di atti descrittivi
dell’intervento edilizio in contestazione,
in assenza, inoltre, di relazione
dell’ufficio tecnico del Comune che alcun
sopralluogo ha operato presso l’immobile da
cui l’impossibilità di attivare i poteri di
integrazione ex art.507 c.p.p. (in atti
risulta allegata una perizia di parte in cui
sono contenuti alcune foto raffiguranti –si
presume- l’interno dell’abitazione in esame
che confortano quanto si dirà a breve).
Dalle dichiarazioni del teste della polizia
locale può evincersi che l’intervento
edilizio realizzato dalla imputata
(proprietaria dell’immobile come risulta in
atti dalla nota di trascrizione) è
consistito in un soppalco interno
all’abitazione di dimensioni modeste e di
altezza non idonea a consentire il calpestio
agevole di un adulto (l’altezza è di mt. 1,65
dal piano di calpestio del soppalco al
soffitto; la copertura ha interessato una
parte limitata dell’area dell’appartamento
sì da somigliare per lo più ad un comodo
spazio ripostiglio, sia pur in elevazione,
o, comunque, ad un’area destinata ad un
bambino idonea a collocarvi, al massimo, un
letto di piccole dimensioni). All’atto del
sopralluogo, pur essendo i lavori ultimati,
nessun arredo era stato collocato (per cui
non è da escludersi la destinazione a vano
ripostiglio e, comunque, non può dirsi
acclarata, attesa l’altezza e le dimensioni,
la certa destinazione a vano abitabile).
Non risulta, inoltre, realizzato alcun
locale igienico né risultano predisposti gli
impianti idrici (il dato è stato confermato
dal teste di P.G.), di talché anche sotto il
profilo del carico urbanistico, l’intervento
appare poco significativo.
Nulla è poi emerso quanto alla incidenza
dell’opera sulla staticità dell’immobile,
che appare, tuttavia, da escludersi, in
ragione delle ridotte dimensioni ed altezza
del manufatto.
Si tratta, infine, di un intervento edilizio
che non ha comportato alcun mutamento
di destinazione d’uso del locale
(trattandosi di immobile destinato a civile
abitazione ricadente zona avente tale
destinazione e tale è la funzione
dell’intervento edilizio realizzato).
Inoltre, l’intervento edilizio ricade in
territorio non sottoposto a vincoli
ambientali o di altra natura né risulta in
contrasto con strumenti di pianificazione o
programmazione urbanistica.
Quanto alla dedotta modifica del
vano-finestra, trattasi di intervento che
dalla descrizione fornita dal teste di P.G.
(l’unica alla quale ci si può attenere
stante la mancata redazione di fascicoli
fotografici) appare di modestissima entità e
poco significativo (in immobile, si badi
bene, non ricadente in area sottoposta ai
vincoli paesaggistici o storici).
L’assenza di dati probatori che non è stato
possibile acquisire, non consente di
stabilire realmente l’entità
dell’intervento, la sua risalenza nel tempo
e l’incidenza sulla sagoma o prospetto del
fabbricato (si rammenta infatti che il
vano-finestra cui sarebbe stato rimosso il
parapetto è preesistente ed affaccia su un
terrazzo interno condominiale; il teste di
P.G. non è stato in grado di riferire le
dimensioni precise del parapetto per quanto
desumibili dal fatto stesso che si tratti di
una finestra, né di descrivere lo stato dei
luoghi anteriore a tale sopralluogo, non
avendo operato in precedenza alcun accesso).
Sulla scorta dei dati fattuali raccolti ed
in assenza di ulteriori elementi di prova,
ritiene il Giudicante che si sia in presenza
di un intervento di modeste dimensioni che
non può inquadrarsi negli interventi di
ristrutturazione edilizia comportanti un
organismo planovolumetrico integralmente o
parzialmente diverso, bensì negli interventi
minori poiché, seppure ha determinato un
aumento della superficie in concreto
utilizzabile, non ha modificato il volume o
la sagoma dell’immobile, né ha indotto il
mutamento della destinazione d'uso, né
infine, pare possa costituire un vero e
proprio vano abitabile (in ragione
dell’altezza ridotta) sicché esso è
assentibile con la denuncia d'inizio lavori
“semplice” in forza degli artt.10-22 T.U.
380/2001 e della Legge Regione Campania
n. 19/2001.
L’assenza della D.I.A. è sanzionata quale
illecito amministrativo sicché s’impone la
pronuncia assolutoria con la formula di cui
al dispositivo.
Con rifermento al capo B) della rubrica, va,
per converso, affermata la responsabilità
penale dell’imputata per la contravvenzione
di cui agli artt. 83-95 T.U.E. 380/2001.
Si premette che l'art. 95 T.U., che
riproduce integralmente il contenuto del
previgente art. 20 della legge n. 64 del
1974 (la quale non è stata espressamente
abrogata dall'articolo 136 T.U.; di contro,
l'art. 137 ha precisato che la legge n. 64
del 1974 resta in vigore per tutti i campi
di applicazione originariamente previsti dal
testo normativo e non applicabili alla parte
prima del testo unico), punisce chiunque
violi le disposizioni contenute nel presente
capo ( 4°) e nei decreti interministeriali
di cui agli artt. 52 ed 83 del T.U.
sanzionando con l'ammenda da 206 euro a
10329 euro, la condotta (descritta negli artt. 93
e 94) di chi intenda procedere a
costruzioni, sopraelevazioni e riparazioni
in zone sismiche ed ometta di dare preavviso
scritto allo sportello unico (che provvede a
trasmettere copia al competente ufficio
tecnico della regione art. 93) ovvero di chi
inizi ad eseguire i lavori in assenza di
autorizzazione (art. 94).
In altri termini, tale normativa è
finalizzata a salvaguardare la staticità dei
fabbricati in relazione ai fenomeni sismici
e, quindi, l'incolumità pubblica sia nella
fase di progettazione che in quella di
esecuzione.
Tale normativa, a ben vedere, non distingue
tra opere interne ed opere esterne,
imponendo il controllo di qualsiasi
costruzione, riparazione o sopraelevazione.
La giurisprudenza di legittimità fa
rientrare nel concetto di costruzione
rilevante ai fini della normativa
antisismica qualsiasi opera a prescindere
dal titolo abilitativo richiesto e dalle sue
caratteristiche o dimensioni, attesa la
finalità della legge che è quella di
consentire il controllo preventivo e
documentale dell'attività edile eseguita in
zone sismiche (cfr. Cass n. 10640 del 1985;
21.07.1992 n. 8140; Cass. Sez. 3^ n.
7353 del 1995; 02.06.1999 n. 6923).
Dunque, la vigilanza sull'attività edilizia
nei territori sismici demandata all’ufficio
tecnico della regione, si affianca a quella
ordinaria demandata all’autorità comunale
basata sul rilascio di un titolo abilitativo
conforme alle prescrizioni urbanistiche ed
edilizie.
Ne discende che tutte le opere per le quali
è richiesto un titolo abilitativo, sia esso
il permesso di costruire o la denuncia
d'inizio dell'attività, devono essere
preventivamente denunciate anche all'ufficio
tecnico della Regione se realizzate in zone
sismiche come nel caso in esame, con obbligo
di deposito del progetto onde consentire la
verifica della staticità.
Del pari, anche per gli “interventi liberi”
s’impone l’obbligo della preventiva denuncia
ed il rispetto della normativa tecnica
antisismica (mentre, quali interventi di
manutenzione ordinaria, non sono soggetti
all'autorizzazione di cui all'articolo 94
del T.U.).
Nel caso in esame, s’imponeva quindi da
parte della Imputat, proprietaria
dell’immobile e committente dei lavori
(alcuna contestazione è stata sollevata al
riguardo dalla difesa), l'obbligo della
preventiva denuncia all'ufficio tecnico
regionale con il deposito degli atti
progettuali e l’autorizzazione ad iniziare
ed eseguire i lavori, trattandosi di
intervento che, seppure eseguito all'interno
di un immobile, non rientra tra quelli di
manutenzione ordinaria e rileva comunque, a
prescindere dalle dimensioni, ai fini dei
fenomeni sismici.
Invero, per le sue caratteristiche
strutturali e tipologiche e per la
classificazione della zona su cui insiste il
manufatto come sismica, s'imponeva
l'adempimento degli obblighi di cui alla
normativa edilizia specifica, normativa che
trova applicazione in relazione ad ogni
tipologia di opera realizzata sul
territorio, anche di natura precaria ovvero
anche se realizzata con materiale diverso
dal cemento armato in senso stretto, posto
che –ripetesi- la sua funzione è quella di
consentire, attraverso l'osservanza formale
degli obblighi di deposito degli atti
progettuali all’organismo tecnico il
controllo preventivo della pubblica
amministrazione di ogni struttura realizzata
in zona sismica e di verificarne la
pericolosità (cfr. Cass. pen. sez. III 04/10/2002 nr. 33158; Cass. pen. sez. 3°
sentenza n. 40829/11.10.2005).
Del resto,il committente dei lavori non può
addurre a sua discolpa la non conoscenza
della normativa di settore, essendo tenuto
ad un obbligo specifico di informazione
prima di realizzare un intervento edilizio.
Alla stregua delle considerazioni svolte, va
affermata la penale responsabilità
dell’imputata in relazione al capo B) della
rubrica.
Quanto al profilo sanzionatorio, mentre gli
interventi edilizi, come ritenuto quello in
esame, eseguiti in assenza o in difformità
dalla denuncia d'inizio attività, sono
puniti con la sola sanzione amministrativa
per cui s’impone l’inoltro all’autorità
amministrativa per l’avvio del relativo
procedimento, di contro, qualsiasi
intervento eseguito in zona sismica (salvo
quelli di manutenzione ordinaria e non è
questo il caso), senza la preventiva
denuncia e senza l'osservanza delle
prescrizioni contenute nel capo quarto del
T.U. continua ad essere penalmente
sanzionato con l'ammenda.
Valutati i criteri direttivi offerti
dall'art. 133 c.p., stimasi equo irrogare la
pena, concesse le attenuanti generiche in
ragione della incensuratezza e della natura
occasionale del reato, contenendola nei
minimi edittali, di EURO 200,00 di ammenda
cui si perviene:
- pena base EURO 300,00 di ammenda
- ridotta per la concessione delle attenuanti
generiche alla pena di Euro 200,00 di
ammenda.
Segue per legge il pagamento delle spese
processuali.
Attesa la irrogazione della sola sanzione
pecuniaria in relazione al capo B), non si
applica il beneficio della sospensione
condizionale presumendosi un interesse
dell’imputata in tal senso (laddove la
richiesta difensiva di applicazione dei
benefici di cui al verbale di udienza
attiene all’ipotesi di condanna complessiva
anche in relazione al capo A) sanzionato con
l’arresto oltre l’ammenda, non avendo esso
difensore null’altro specificato in
proposito).
Alcuna sanzione amministrativa demolitoria
va adottata nel caso di specie attesa la
pronuncia assolutoria in relazione al capo
A) (la demolizione non può essere impartita
per gli interventi di cui all’art. 22
assentibili con D.I.A. semplice, mentre tale
ordine va impartito nella diversa ipotesi
della D.I.A. in alternativa al permesso a
costruire).
Con riferimento alla violazione della
normativa antisismica, l’ordine di
demolizione che il Giudice penale ha il
potere-dovere di adottare giusta il disposto
del comma 3 dell’art. 98 T.U. non consegue
alle violazioni della normativa antisismica
solo formali come quelle contestate nel caso
in esame (ovvero l’omessa denuncia e
deposito degli atti progettuali o l’assenza
dell’autorizzazione preventiva), ma consegue
solo alle violazioni sostanziali di
specifiche disposizioni tecniche dalle quali
possa derivare il pericolo concreto per la
pubblica incolumità (cfr. tra le altre Cass. pen. sez. 3° 10.10.2007 nr. 37372) ed in tal
caso l’esecuzione compete all'Ufficio
Tecnico della Regione.
P.Q.M.
Letto l’art. 530 c.p.p. assolve l’imputata
dal reato ascritto al capo A) della rubrica
perché il fatto non è previsto dalla legge
come reato.
Dispone trasmettersi gli atti alla
competente autorità amministrativa.
Letti gli artt. 533-535 c.p.p. dichiara
l’imputata colpevole del reato ascritto al
capo B) e, concesse le attenuanti generiche,
la condanna alla pena di EURO 200,00 di
ammenda, oltre spese processuali.
NAPOLI 6/02/2012
IL GIUDICE
---------------
1)
cfr. la già citata sentenza Cass. pen.
sez. 3 n. 40829 dell'11.10.2005
|
EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 16, comma 2, del d.p.r. n.
380/2001 (che ha riprodotto l'art. 11, comma
1, della legge n. 10/77) consente al privato
di eseguire direttamente le opere di
urbanizzazione in alternativa al pagamento
dei connessi oneri (con possibilità quindi
di ottenerne poi lo scomputo da quanto deve
pagare a titolo di oneri di urbanizzazione
primaria e secondaria), ma tale facoltà ha
effetto soltanto se la proposta del privato
sia accettata dal Comune secondo le modalità
e le garanzie dettate dal medesimo e
previste in una convenzione o in un atto
unilaterale d’obbligo.
Pur essendo previsto che il soggetto che
richiede il permesso di costruire, a
scomputo totale o parziale della quota
dovuta a titolo di contributo di
costruzione, può obbligarsi a realizzare
direttamente le opere di urbanizzazione, sia
primarie che secondarie, con le modalità e
le garanzie stabilite dal Comune, tale
iniziativa è, sempre subordinata ad una
valutazione del Comune. In tal senso, la
giurisprudenza ha precisato che l'ammissione
allo scomputo costituisce oggetto di una
valutazione ampiamente discrezionale da
parte dell'amministrazione (che ben può
optare per soluzioni diverse senza obbligo
di specifica motivazione) ed un vero e
proprio diritto sorge in capo al privato
proponente allorché, a fronte della
realizzazione da parte sua di opere di
urbanizzazione ovvero dell'impegno a
realizzarle, vi sia stato un espresso atto
di "accettazione" consensuale da parte della
stessa amministrazione.
Secondo giurisprudenza consolidata, l'art.
16, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 (che ha
riprodotto l'art. 11, comma 1, della legge
n. 10/77) consente al privato di eseguire
direttamente le opere di urbanizzazione in
alternativa al pagamento dei connessi oneri
(con possibilità quindi di ottenerne poi lo
scomputo da quanto deve pagare a titolo di
oneri di urbanizzazione primaria e
secondaria), ma tale facoltà ha effetto
soltanto se la proposta del privato sia
accettata dal Comune secondo le modalità e
le garanzie dettate dal medesimo e previste
in una convenzione o in un atto unilaterale
d’obbligo.
Inoltre, pur essendo previsto che il
soggetto che richiede il permesso di
costruire, a scomputo totale o parziale
della quota dovuta a titolo di contributo di
costruzione, può obbligarsi a realizzare
direttamente le opere di urbanizzazione, sia
primarie che secondarie, con le modalità e le
garanzie stabilite dal Comune, tale
iniziativa è, sempre subordinata ad una
valutazione del Comune. In tal senso, la
giurisprudenza ha precisato che l'ammissione
allo scomputo costituisce oggetto di una
valutazione ampiamente discrezionale da
parte dell'amministrazione (che ben può
optare per soluzioni diverse senza obbligo
di specifica motivazione) ed un vero e
proprio diritto sorge in capo al privato
proponente allorché, a fronte della
realizzazione da parte sua di opere di
urbanizzazione ovvero dell'impegno a
realizzarle, vi sia stato un espresso atto
di "accettazione" consensuale da
parte della stessa amministrazione (Sez. IV,
21.04.2008 n. 1811)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 02.02.2012 n. 279 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La concessione edilizia è
normalmente onerosa, tranne le tassative
ipotesi di gratuità. Gli oneri di
urbanizzazione sono previsti, infatti, a
carico del costruttore, quale prestazione
patrimoniale, a titolo di partecipazione di
al costo delle opere di urbanizzazione
connesse alle esigenze della collettività
che scaturiscono dagli interventi di
edificazione e dal maggior carico
urbanistico che si realizza per effetto
della costruzione. Detti oneri prescindono
dall'esistenza o meno delle opere di
urbanizzazione e vengono determinati
indipendentemente sia dall'utilità che il
concessionario ritrae dal titolo
edificatorio, sia dalle spese effettivamente
occorrenti per realizzare siffatte opere. La
partecipazione del privato a tali spese,
quando ottiene la concessione a costruire,
si atteggia quindi come assunzione di una
quota dei costi della vocazione edificatoria
impressa al territorio, e trova
giustificazione nel beneficio,
economicamente rilevante in termini di
valore del suolo, che il privato medesimo
riceve per effetto della concreta
attuabilità del suo progetto di costruzione.
---------------
La determinazione del contributo di
costruzione deve avvenire esclusivamente
sulla base delle norme di legge che dettano
i criteri di calcolo, “norme che vanno
rigorosamente rispettate anche in osservanza
del principio di cui all’art. 23 della
Costituzione, secondo il quale nessuna
prestazione patrimoniale può essere imposta
se non in base alla legge”. La
determinazione degli oneri, dunque, è il
risultato di un calcolo materiale operato
sulla base di parametri rigorosamente
stabiliti dalla legge e dalle disposizioni
applicative degli enti territoriali
competenti, che deve essere quantificato
delle tariffe in vigore al momento del
rilascio del titolo abilitativo.
La concessione edilizia è
normalmente onerosa, tranne le tassative
ipotesi di gratuità che, nella specie, non
sussistono e non vengono, comunque,
invocate. Gli oneri di urbanizzazione sono
previsti, infatti, a carico del costruttore,
quale prestazione patrimoniale, a titolo di
partecipazione di al costo delle opere di
urbanizzazione connesse alle esigenze della
collettività che scaturiscono dagli
interventi di edificazione e dal maggior
carico urbanistico che si realizza per
effetto della costruzione. Detti oneri
prescindono dall'esistenza o meno delle
opere di urbanizzazione e vengono
determinati indipendentemente sia
dall'utilità che il concessionario ritrae
dal titolo edificatorio, sia dalle spese
effettivamente occorrenti per realizzare
siffatte opere. La partecipazione del
privato a tali spese, quando ottiene la
concessione a costruire, si atteggia quindi
come assunzione di una quota dei costi della
vocazione edificatoria impressa al
territorio, e trova giustificazione nel
beneficio, economicamente rilevante in
termini di valore del suolo, che il privato
medesimo riceve per effetto della concreta
attuabilità del suo progetto di costruzione
(giurisprudenza uniforme cfr., tra le tante,
Cons. St., sez. IV, 21.04.2009, n. 2581 e
sez. V, 23.01.2006, n. 159).
---------------
La
determinazione del contributo di costruzione
deve avvenire esclusivamente sulla base
delle norme di legge che dettano i criteri
di calcolo, “norme che vanno
rigorosamente rispettate anche in osservanza
del principio di cui all’art. 23 della
Costituzione, secondo il quale nessuna
prestazione patrimoniale può essere imposta
se non in base alla legge” (Cons. St.,
sez. V, 21.04.2006 n. 2258). La
determinazione degli oneri, dunque, è il
risultato di un calcolo materiale operato
sulla base di parametri rigorosamente
stabiliti dalla legge e dalle disposizioni
applicative degli enti territoriali
competenti, che deve essere quantificato
delle tariffe in vigore al momento del
rilascio del titolo abilitativo
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 02.02.2012 n. 279 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Presentazione della domanda di
condono - Effetti contro l'ordinanza di
demolizione dell'abuso - Giurisprudenza.
La presentazione della domanda di condono fa
venire meno l'interesse alla decisione del
ricorso contro l'ordinanza di demolizione
dell'abuso, considerato che, da un lato, il
rilascio della concessione in sanatoria
produce evidentemente l'improcedibilità del
ricorso e, dall'altro, uguale effetto si
produce in caso di diniego di condono,
concentrandosi l'interesse nel contestare
con apposito ricorso l'eventuale
provvedimento di diniego della sanatoria ed
il conseguente doveroso nuovo provvedimento
sanzionatorio, nei termini e nei limiti in
cui essa è stata richiesta (TAR Lazio Roma,
sez. II, 07/09/2010, n. 32129; TAR Campania
Napoli, sez. VI, 15/07/2010, n. 16806; TAR
Toscana Firenze, sez. III, 26/02/2010, n.
516; TAR Puglia Lecce, sez. I, 03/04/2007,
n. 1499).
Aree vincolate -
Sanatoria di opere abusive - Limiti - Art.
36, d.P.R. n. 380 del 2001 - Art. 32, c. 27,
lett. d), d.l. n. 269/2003 convertito dalla
L. n. 326/2003.
L'art. 32, comma 27, lett. d), d.l. n. 269
del 2003 è previsione normativa che esclude
dalla sanatoria le opere abusive realizzate
su aree caratterizzate da determinate
tipologie di vincoli (in particolare, quelli
imposti sulla base di leggi statali e
regionali a tutela degli interessi
idrogeologici e della falde acquifere, dei
beni ambientali e paesaggistici, nonché dei
parchi e delle aree protette nazionali,
regionali e provinciali), subordinando
peraltro l'esclusione a due condizioni
costituite:
a) dal fatto che il vincolo sia stato
istituto prima dell'esecuzione delle opere
abusive;
b) dal fatto che le opere realizzate in
assenza o in difformità del titolo
abilitativo risultino non conformi alle
norme urbanistiche e alle prescrizioni degli
strumenti urbanistici (TAR Campania Napoli,
sez. VII, 10/12/2009, n. 8608).
Da tale ricostruzione emerge, quindi, un
sistema che consente la sanatoria delle
opere realizzate su aree vincolate solo in
due ipotesi, previste disgiuntamente,
costituite dalla realizzazione delle opere
abusive prima dell'imposizione dei vincoli
(e, in questo caso, trattasi della mera
riproposizione di una caratteristica propria
della disciplina posta dalle due precedenti
leggi sul condono con riferimento ai vincoli
di inedificabilità assoluta di cui all'art.
33, comma 1, l. n. 47 del 1985); dal fatto
che le opere oggetto di sanatoria, benché
non assentite o difformi dal titolo
abilitativo, risultino comunque conformi
alle norme urbanistiche e alle prescrizioni
degli strumenti urbanistici.
Pertanto, la novità sostanziale della
suddetta previsione normativa è costituita
proprio dall'inserimento del requisito della
conformità urbanistica all'interno della
fattispecie del condono edilizio, così dando
vita ad un meccanismo di sanatoria che si
avvicina fortemente all'istituto
dell'accertamento di conformità previsto
dall'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001,
piuttosto che ai meccanismi previsti dalle
due precedenti leggi sul condono edilizio.
Poste tali premesse, in base alla disciplina
posta dal d.l. n. 269 del 2003, la
sanabilità delle opere realizzate in zona
vincolata è radicalmente esclusa solo
qualora si tratti di un vincolo di
inedificabilità assoluta e non anche nella
diversa ipotesi di un vincolo di
inedificabilità relativa, ossia di un
vincolo superabile mediante un giudizio a
posteriori di compatibilità paesaggistica.
Infatti, è ben possibile ottenere la
sanatoria delle opere abusive realizzate in
zona sottoposta ad un vincolo di
inedificabilità relativa, purché ricorrano
le condizioni previste dall'art. 32, comma
27, lett. d), d.l. n. 269 del 2003,
convertito dalla l. n. 326 del 2003 (TAR
Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 14.10.2011 n. 4841 -
link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: Gare,
più facile correre in gruppo.
Appalti: semplificate le richieste per i
raggruppamenti. Sentenza del consiglio di
stato sui requisiti per le imprese in ati nei concorsi in due fasi.
Nelle procedure di appalto in due fasi non è
necessaria per i raggruppamenti la
corrispondenza fra requisiti, quote di
partecipazione e quote di esecuzione del
contratto.
Lo afferma il Consiglio di stato,
Sez. V, con la
sentenza
09.09.2011 n. 5073.
Nel caso di specie l'appellante
chiedeva l'esclusione dalla gara dell'AtI
aggiudicataria perché i requisiti richiesti
dal bando erano posseduti interamente dalla
capogruppo impedendo in tal modo che vi
fosse una corrispondenza tra quote di
qualificazione e quote di partecipazione
delle singole imprese, nonché tra quote di
partecipazione e quote di esecuzione del
servizio. Il Consiglio di stato, partendo
dall'assunto che la procedura era articolata
in due fasi ha affermato che l'adempimento
dei requisiti di capacità economica e
finanziaria e di capacità tecnica riguarda
solo la fase di qualificazione e non quella
di offerta.
Inoltre, il Consiglio di stato afferma che
per i servizi non vi sarebbe necessità di
corrispondenza tra requisiti e quote anche
nella fase di offerta. A sostegno di tale
tesi, i giudici hanno affermato che tale
corrispondenza «non è richiesta
espressamente dal bando e non è neppure
coerente, per quanto riguarda gli appalti di
servizi, con le puntuali previsioni
dell'art. 37 del codice dei contratti che al
quarto comma stabilisce che nell'offerta
devono essere specificate le parti (e non le
quote) che saranno eseguite dai singoli
operatori economici riuniti, aggiungendo al
tredicesimo comma che i concorrenti riuniti
in raggruppamento temporaneo devono eseguire
le prestazioni corrispondenti alla quota di
partecipazione al raggruppamento».
Pertanto secondo i giudici, il principio di
corrispondenza tra requisiti, quote di
partecipazione al raggruppamento e quote di
esecuzione non può trovare applicazione per
l'appalto di servizi in oggetto perché
l'adempimento dei requisiti è già avvenuto
in una fase distinta rispetto all'offerta
(qualificazione). Inoltre viene precisato
che per quanto riguarda la fase di offerta
il principio di corrispondenza, già
affermato in materia di lavori e sancito
nell'art. 37, comma 6, del codice, non è
estensibile agli appalti di servizi
(articolo ItaliaOggi del 07.03.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
La delimitazione della competenza del
geometra in materia di progettazione di
strade va effettuata secondo il
criterio tecnico-qualitativo della natura e
della dimensione della strada da costruire.
Nel caso de quo, si tratta di strade di
urbanizzazione che, pur sviluppandosi
all’interno del tessuto urbano, non possono
qualificarsi di tenue importanza, potendo
anche comportare opere di una certa
complessità, quali ponti o muri di
contenimento, ed essendo, comunque destinate
ad accogliere il traffico ordinario.
Anche alla luce della interpretazione
coordinata dell’art. 16 R.D. n. 274/1929, che
tenga conto delle novità introdotte dalla L.
n. 144/1949, (sicché si deve ritenere che la
quantificazione degli onorari relativi alle
strade spettanti ai geometri ai sensi
dell’art. 57, lett. E, riguardi le strade che
rientrano nelle competenze di questi in base
alle norme generali), si deve escludere che
possa essere ricondotta nella competenza
professionale del geometra la progettazione
di una nuova strada che, per le dimensioni e
la destinazione, non può qualificarsi come
strada di tenue importanza.
... per l'annullamento, previa sospensione
dell'esecuzione, dell’avviso pubblico, di
numero e data sconosciuti, con cui il
Responsabile dell’Area Tecnica del Comune di
Surbo ha reso noto il procedimento per il
"conferimento di incarico professionale per
la progettazione definitiva ed esecutiva,
direzione dei lavori, contabilità e
coordinamento della sicurezza in fase di
progettazione ed esecuzione dei lavori di
urbanizzazione primaria zona Fontanelle" del
Comune di Surbo;
...
... considerato che
l’operato del Comune di Surbo è immune dai
denunciati vizi di legittimità, per le
seguenti ragioni.
Va precisato che oggetto dell’incarico è la
realizzazione di opere di urbanizzazione
primaria, per cui l’esame del Collegio deve
appuntarsi sulla competenza dei geometri -in relazione alle opere di urbanizzazione
primaria- e di conseguenza sulla lamentata
violazione dell’art. 16 R.D. 274/1929.
Con specifico riferimento alle strade (che
rientrano tra le opere di urbanizzazione
primaria ai sensi dell’art. 4, primo comma,
della L. 847/1964), la sopra citata
disposizione, disciplinando l’oggetto e i
limiti dell’esercizio della professione dei
geometri, include tra le diverse competenze,
"le operazioni di tracciamento di strade
poderali e consorziali ed inoltre, quando
abbiano tenue importanza, di strade
ordinarie e di canali di irrigazione e di
scolo" .
La delimitazione della competenza del
geometra in materia di progettazione di
strade va quindi effettuata secondo il
criterio tecnico-qualitativo della natura e
della dimensione della strada da costruire.
Nel caso de quo, si tratta di strade di
urbanizzazione che, pur sviluppandosi
all’interno del tessuto urbano, non possono
qualificarsi di tenue importanza, potendo
anche comportare opere di una certa
complessità, quali ponti o muri di
contenimento, ed essendo, comunque destinate
ad accogliere il traffico ordinario.
Anche alla luce della interpretazione
coordinata dell’art. 16 R.D. n. 274/1929, che
tenga conto delle novità introdotte dalla L.
n. 144/1949, (sicché si deve ritenere che la
quantificazione degli onorari relativi alle
strade spettanti ai geometri ai sensi
dell’art. 57, lett. E, riguardi le strade che
rientrano nelle competenze di questi in base
alle norme generali), si deve escludere che
possa essere ricondotta nella competenza
professionale del geometra la progettazione
di una nuova strada che, per le dimensioni e
la destinazione, non può qualificarsi come
strada di tenue importanza.
L’incarico, unitariamente previsto per tutte
le opere di urbanizzazione, costituisce
un unicum ed è quindi estraneo alla
competenza dei geometri (TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 10.02.2006 n. 902 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
E' stato precisato che per gli
edifici destinati a civile abitazione la
competenza dei geometri è limitata alle sole
costruzioni di modeste dimensioni, con
divieto di progettare opere per cui vi sia
impiego di cemento armato, tale da implicare
in relazione alla destinazione dell’opera un
pericolo per l’incolumità delle persone in
caso di difetto strutturale, stante
l’evidente favore che le varie norme pongono
per la competenza esclusiva dei tecnici
laureati.
Inoltre, anche quando è stata ammessa la
competenza del geometra per la progettazione
di strutture in cemento armato, tale
competenza è stata comunque limitata alle
opere di dimensioni minori.
Pertanto, per valutare l’idoneità del
geometra a firmare il progetto di un’opera
edilizia che comporta l’uso del cemento
armato occorre considerare le specifiche
caratteristiche dell’intervento al fine di
ammetterla solo se si tratti di un’opera di
modeste dimensioni.
Il TAR con la sentenza in epigrafe ha
accolto il ricorso dell’Ordine, ritenendo
che l’opera progettata era destinata ad
attività industriale e non poteva ritenersi
di modeste dimensioni, per cui non rientrava
nelle competenze del geometra.
Detta conclusione del TAR deve essere
condivisa in quanto conforme
all’orientamento di questa Sezione, da cui
il Collegio non ha motivi per discostarsi.
Invero, è stato precisato che per gli
edifici destinati a civile abitazione la
competenza dei geometri è limitata alle sole
costruzioni di modeste dimensioni, con
divieto di progettare opere per cui vi sia
impiego di cemento armato, tale da implicare
in relazione alla destinazione dell’opera un
pericolo per l’incolumità delle persone in
caso di difetto strutturale, stante
l’evidente favore che le varie norme pongono
per la competenza esclusiva dei tecnici
laureati (V. la decisione di questa Sezione
n. 25 del 13.01.1999, nonché Cass. sez. II n.
15327 del 29.11.2000).
Inoltre, anche quando è stata ammessa la
competenza del geometra per la progettazione
di strutture in cemento armato, tale
competenza è stata comunque limitata alle
opere di dimensioni minori (V. la decisione
di questo Consiglio, sez. IV n. 784 del
del 09.08.1997 nonché Cass. pen., sez. III, n.
10125 del 26.11.1996).
Pertanto, per valutare l’idoneità del
geometra a firmare il progetto di un’opera
edilizia che comporta l’uso del cemento
armato occorre considerare le specifiche
caratteristiche dell’intervento al fine di
ammetterla solo se si tratti di un’opera di
modeste dimensioni (V. la decisione di
questa Sezione n. 348 del 31.01.2001).
Nella specie si trattava di laboratorio
industriale (con abitazione, uffici ed
esposizione), con altezza del capannone di
m. 5,40 e quella degli uffici m. 8,25, una
luce di m. 23,20 ed una lunghezza di m. 46,
con tutta la parte statica e portante
dell’edificio in cemento armato
precompresso, con collegamento con un
cordolo continuo dello stesso materiale, per
cui, tenuto conto non solo delle dimensioni
ma anche delle tecniche costruttive,
correttamente il TAR ha ritenuto che non
poteva considerarsi una costruzione di
modeste dimensioni.
Né vale invocare a proprio favore da parte
dell’appellante la decisione di questa
Sezione n. 5208 del 03.10.2002, la quale ha
ammesso la competenza del geometra in
relazione ad un magazzino piuttosto ampio
per il semplice fatto che la responsabilità
delle strutture portanti in quel caso era
stata assunta da professionista idoneo,
mentre solo la mera esecuzione era stata
curata da un geometra.
Nel caso in esame, invece, secondo quanto
risulta dal provvedimento di concessione
impugnato, l’interessato in qualità di
geometra aveva direttamente firmato il
relativo progetto, con funzione di direttore
dei lavori.
La circostanze che successivamente ai
sigg. Faggiolati ed altri sia stata
rilasciata l’autorizzazione ad eseguire i
lavori sulla base di calcoli di stabilità da
parte di professionista laureato, non fa
venir meno l’illegittimità originaria, salva
l’efficacia sanante in relazione
all’intervenuta esecuzione dell’opera (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 16.09.2004 n.
6004 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Per gli edifici destinati a
civile abitazione la competenza dei geometri
è limitata alle sole costruzioni di modeste
dimensioni, con divieto di progettare opere
per cui vi sia impiego di cemento armato,
tale da implicare in relazione alla
destinazione dell’opera un pericolo per
l’incolumità delle persone in caso di
difetto strutturale, stante l’evidente
favore che le varie norme pongono per la
competenza esclusiva dei tecnici laureati.
Inoltre, anche quando è stata ammessa la
competenza del geometra per la progettazione
di strutture civili in cemento armato, tale
competenza è stata comunque limitata alle
opere di dimensioni minori.
Pertanto, per valutare l’idoneità del
geometra a firmare il progetto di un’opera
edilizia che comporta l’uso del cemento
armato occorre considerare le specifiche
caratteristiche dell’intervento al fine di
ammetterla solo se si tratti di un’opera di
modeste dimensioni.
Né vale sostenere che nella specie il
geometra si sarebbe limitato alla redazione
del progetto architettonico mentre la
progettazione ed i calcoli, nonché la
successiva direzione dei lavori, sarebbero
stati effettuati da tecnici laureati, in
quanto quello che rileva è che al momento
del rilascio della concessione edilizia si è
tenuto conto di un progetto redatto da
geometra.
Con l’appello in epigrafe, il geometra
Ratti ha fatto presente che l’Ordine degli
ingegneri della Provincia di La Spezia aveva
impugnato davanti al TAR Liguria la
concessione edilizia n. 455 del 04.10.1995,
rilasciata dal Sindaco del Comune di La
Spezia alla società Termomeccanica,
denunciando che il progetto assentito
risultava sottoscritto da un geometra
anziché da un ingegnere, nonostante la
complessità dell’opera da realizzare,
concernente la ristrutturazione con parziale
demolizione di un capannone industriale in
cemento armato di m. 37 x 636.
Il TAR con la sentenza in epigrafe ha
accolto il ricorso dell’Ordine, ritenendo
che l’opera progettata non potesse rientrare
nella competenza del geometra sia per
dimensioni (non trattandosi di modesta
costruzione per avere una superficie di mq.
2.330 ed un volume di c.a. di mc. 21.000) sia
in quanto l’opera da realizzare consisteva
in un capannone industriale, implicante una
destinazione alla produzione e quindi alla
continua o saltuaria presenza di persone che
dovevano lavorare nell’impianto.
Detta conclusione del TAR deve essere
condivisa in quanto conforme
all’orientamento di questa Sezione, da cui
il Collegio non ha motivi per discostarsi.
Invero, è stato precisato che per gli
edifici destinati a civile abitazione la
competenza dei geometri è limitata alle sole
costruzioni di modeste dimensioni, con
divieto di progettare opere per cui vi sia
impiego di cemento armato, tale da implicare
in relazione alla destinazione dell’opera un
pericolo per l’incolumità delle persone in
caso di difetto strutturale, stante
l’evidente favore che le varie norme pongono
per la competenza esclusiva dei tecnici
laureati (V. la decisione di questa Sezione
n. 25 del 13.01.1999, nonché Cass. sez. II n.
15327 del 29.11.2000).
Inoltre, anche quando è stata ammessa la
competenza del geometra per la progettazione
di strutture civili in cemento armato, tale
competenza è stata comunque limitata alle
opere di dimensioni minori (V. la decisione
di questo Consiglio, sez. IV n. n. 784 del
del 09.08.1997).
Pertanto, per valutare l’idoneità del
geometra a firmare il progetto di un’opera
edilizia che comporta l’uso del cemento
armato occorre considerare le specifiche
caratteristiche dell’intervento al fine di
ammetterla solo se si tratti di un’opera di
modeste dimensioni (V. la decisione di
questa Sezione n. 348 del 31.1.2001),
aspetto che è già stato valutato
negativamente dal TAR e che non è stato
oggetto di specifica contestazione da parte
dell’appellante.
Né vale sostenere che nella specie il
geometra si sarebbe limitato alla redazione
del progetto architettonico mentre la
progettazione ed i calcoli, nonché la
successiva direzione dei lavori, sarebbero
stati effettuati da tecnici laureati, in
quanto quello che rileva è che al momento
del rilascio della concessione edilizia si è
tenuto conto di un progetto redatto da
geometra (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 01.12.2003 n.
7821 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
L'art. 3 della legge 05.11.1971
n. 1086, nello stabilire che, con
riferimento alle opere di conglomerato
cementizio armato, "il progettista ha la
responsabilità diretta della progettazione
di tutte le strutture dell'opera comunque
realizzate", chiarisce il contenuto della
responsabilità di chi redige il progetto,
riferendola alla parte strutturale
dell'opera intesa nella sua globalità, ma di
certo non vieta né impedisce forme di
cooperazione nell'ambito del lavoro
progettuale.
Nel caso di specie, un ingegnere iscritto
nel relativo albo ha sottoscritto il
progetto qualificandosi come "progettista e
direttore lavori delle opere strutturali",
mentre un geometra ha aggiunto la sua firma
in qualità di "tecnico", con ciò
sottolineando la limitazione della
responsabilità alla sola parte
architettonica dell'opera stessa. È
evidente, infatti, che l'esigenza, imposta
dalla norma in discorso, di individuare un
responsabile per quel che attiene agli
aspetti strutturali del progetto, è
ampiamente soddisfatta dalla formula qui
impiegata.
Pertanto, avendo la presenza dell'ingegnere
progettista delle opere strutturali
assorbito per intero quella parte che poteva
esorbitare dalla competenza professionale
delle geometra, la contestazione circa
l'inidoneità del geometra a sottoscrivere il
progetto esaminato dal comune viene a cadere
e, quindi, tale aspetto della vicenda non è
suscettibile di incidere negativamente sulla
legittimità dell'impugnata concessione
edilizia.
Il Comune di Rocca San Giovanni, su
richiesta della S.n.c. Panoramica, ha
rilasciato in data 10.09.1992 la concessione
edilizia n. 50 per la realizzazione di un
fabbricato per civile abitazione, articolato
su due piani e composto da cinque
appartamenti, garage e cantine, su un'area
confinante con un terreno di proprietà del
signor Giovanni De Palma. Il progetto
esaminato dalla commissione edilizia
comunale venne sottoscritto dal geometra
Donato De Simone e, nella qualità di
progettista e direttore dei lavori delle
opere strutturali, dall'ingegner Italo Bona.
Con sentenza n. 463 del 1995, il TAR
Abruzzo, sezione staccata di Pescara, ha
accolto il ricorso proposto dal signor De
Palma per l'annullamento della concessione
edilizia in questione, ritenendo fondato
l'unico motivo di gravame con il quale
veniva contestata la violazione delle norme
sulla competenza professionale, prospettato
secondo l’assunto che l'opera, per la sua
consistenza e la previsione di strutture in
cemento armato, esorbitava dai compiti
affidati ai geometri e che nessun rilievo
poteva essere attribuito "alla
circostanza che i calcoli del cemento armato
siano stati affidati a parte a un
ingegnere..., giacché è il professionista
incaricato della progettazione della
direzione dei lavori che assume la
responsabilità dell'intera costruzione e non
gli eventuali suoi collaboratori (articolo 3
della legge 05.11.1971 n. 1086)."
La società Panoramica, con l'appello,
contesta sotto i profili giuridico e
fattuale la fondatezza dell'assunto e
conclude chiedendo, in riforma della
sentenza appellata, il rigetto del ricorso
di primo grado.
...
La questione di fondo intorno alla quale
ruota la controversia è quella di stabilire,
alla luce delle norme che disciplinano la
competenza professionale dei geometri e
degli ingegneri, se siano configurabili
situazioni di cooperazione professionale, in
base alle quali questi professionisti
possono assumere autonome responsabilità
nell'ambito delle rispettive competenze
professionali.
Secondo il primo giudice, ciò non sarebbe
possibile "giacché è il professionista
incaricato della progettazione e della
direzione dei lavori che assume la
responsabilità dell'intera costruzione e non
gli eventuali suoi collaboratori (articolo 3
della legge 05.11.1971 n. 1086)."
La tesi non può essere condivisa.
La norma richiamata della sentenza
appellata, nello stabilire che, con
riferimento alle opere di conglomerato
cementizio armato, "il progettista ha la
responsabilità diretta della progettazione
di tutte le strutture dell'opera comunque
realizzate", chiarisce il contenuto
della responsabilità di chi redige il
progetto, riferendola alla parte strutturale
dell'opera intesa nella sua globalità, ma di
certo non vieta né impedisce forme di
cooperazione nell'ambito del lavoro
progettuale, quale quella che si è
verificata nel caso di specie. Nel quale un
ingegnere iscritto nel relativo albo ha
sottoscritto il progetto qualificandosi come
"progettista e direttore lavori delle
opere strutturali", mentre un geometra
ha aggiunto la sua firma in qualità di "tecnico",
con ciò sottolineando la limitazione della
responsabilità alla sola parte
architettonica dell'opera stessa. È
evidente, infatti, che l'esigenza, imposta
dalla norma in discorso, di individuare un
responsabile per quel che attiene agli
aspetti strutturali del progetto, è
ampiamente soddisfatta dalla formula qui
impiegata.
Pertanto, avendo la presenza dell'ingegnere
progettista delle opere strutturali
assorbito per intero quella parte che poteva
esorbitare dalla competenza professionale
delle geometra, la contestazione circa
l'inidoneità del geometra a sottoscrivere il
progetto esaminato dal comune viene a cadere
e, quindi, tale aspetto della vicenda non è
suscettibile di incidere negativamente sulla
legittimità dell'impugnata concessione
edilizia (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 04.06.2003 n.
3068 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
La competenza dei geometri è
limitata, per gli edifici destinati a civile
abitazione, alle costruzioni di modeste
dimensioni, e comunque sono precluse alla
progettazione dei geometri le opere per cui
vi sia impiego di cemento armato che possa
comportare, in relazione alla destinazione
dell'opera, pericolo per l'incolumità delle
persone.
---------------
Risulta la preclusione, per i geometri,
della progettazione di costruzioni di civile
abitazione che accedano le "modeste
dimensioni", o che abbiano comunque
un'ossatura in cemento armato o in ferro
potenzialmente pericolosa, in caso di
difetto strutturale, per l'incolumità delle
persone.
Queste previsioni normative generiche sono
state specificate, dalla giurisprudenza, in
relazione ad elementi quanti-qualitativi (e
con rilievo prevalente degli indici del
primo tipo ai fini dell'individuazione
limite della "modesta entità" della
costruzione).
Tra gli elementi quantitativi vengono in
primo luogo in rilievo la volumetria
dell'opera, quindi la sua altezza ed il
numero di piani (si veda, in proposito,
anche il limite di due indicato nel citato
art. 57); tra quelli qualitativi, rileva in
primo luogo "la circostanza che nel progetto
venga o meno previsto l'impiego del cemento
armato".
Dall'esegesi sistematica del R.D. 2229/1939
cit. e della legge 1086/1971 cit., la citata
giurisprudenza ha tratto la conclusione che
"non tutte le opere con impiego di cemento
armato sono precluse alla progettazione dei
geometri, ma solo quelle in cui, in
relazione alla loro destinazione, il
predetto impiego può comportare pericolo per
la incolumità delle persone": il che
tendenzialmente avviene per le costruzioni
destinate a civile abitazione, progettate su
più piani.
Per quanto invece attiene alla
specificazione del limite quantitativo della
"modesta entità" dell'opera -che comunque
deve essere rispettato anche a prescindere
da quanto si è sopra osservato a proposito
della pericolosità della struttura portante
in cemento armato- la citata giurisprudenza
si è attestata sulla soglia discriminatoria
dei 5.000 mc.
Trattasi, evidentemente, di un limite
pratico che non ha carattere assoluto, ma
che si combina con la valutazione dei
menzionati elementi qualitativi dell'opera.
Mentre dunque anche un'opera di poco
eccedente tale volumetria, la cui
costruzione non preveda però l'uso del
cemento armato o che non sia destinata a
civile abitazione, può essere progettata da
un geometra, al contrario invece la
progettazione di una costruzione prossima a
tale soglia, ma articolata su più piani, e
dunque con struttura portante in cemento
armato, comunque destinata all'abitazione
delle persone, deve ritenersi riservata ai
tecnici laureati (ingegneri ed architetti).
Nel caso di specie, si tratta di un progetto
per la realizzazione di una costruzione di
5.138,80 mc., su tre piani, destinata anche
a civile abitazione. Appare dunque evidente
che si è ben al di là dei limiti della
competenza progettuale dei geometri, per
quali enucleati dalla giurisprudenza e sopra
riassunti: e ciò sia sotto il profilo
"quantitativo" sia sotto quello "qualitativo
dell'entità e consistenza dell'opera.
Si aggiunga infine ad abundantiam, che nei
casi dubbi vige un favor per la competenza
esclusiva dei tecnici laureati (giustificato
da evidenti ragioni di tutela della pubblica
incolumità), dovendo in tali casi
l'Amministrazione concedente "specificare
nella concessione edilizia i motivi per cui
(ritiene) sufficiente la redazione dei ....
progetti da parte di un geometra", ed
altresì "congruamente esplicitare le
predette ragioni, almeno nei casi in cui le
caratteristiche del progetto siano
oggettivamente tali da far sorgere dubbi sui
limiti delle competenze professionali del
progettista".
Venendo quindi all'esame del primo motivo di
appello, la Sezione rileva che nel caso di
specie è stato presentato un progetto
redatto da un geometra, anziché da un
ingegnere o da un architetto, a corredo di
una domanda di concessione edilizia per la
realizzazione di un edificio avente
volumetria pari a 5138,80 mc., sviluppato su
tre piani.
In ordine ad esso, non può condividersi
l'avviso espresso dal primo giudice, secondo
cui la progettazione di tale opera rientra
nella competenza professionale del geometra.
Secondo la giurisprudenza di questo
Consiglio (C.d.S., V, 12.11.1985, n. 390),
la competenza dei geometri è limitata, per
gli edifici destinati a civile abitazione,
alle costruzioni di modeste dimensioni, e
comunque sono precluse alla progettazione
dei geometri le opere per cui vi sia impiego
di cemento armato che possa comportare, in
relazione alla destinazione dell'opera,
pericolo per l'incolumità delle persone.
Tale conclusione si fonda sulla base:
●
dell'art. 16 del R.D. 11.02.1929, n. 274 (che
determina "l'oggetto ed i limiti
dell'esercizio professionale di geometra
(tra l'altro) come segue: ....L) progetto,
direzione, sorveglianza e liquidazione di
costruzioni rurali e di edifici per uso
d'industrie agricole, di limitata
importanza, di struttura ordinaria, comprese
piccole costruzioni accessorie in cemento
armato, che non richiedono particolari
operazioni di calcolo e per la loro
destinazione non possono comunque implicare
pericolo per la incolumità delle persone,
.... M) progetto, direzione e vigilanza di
modeste costruzioni civili");
● dell'art. 1
del R.D. 16.11.1939, n. 2229 (a norma del
quale "ogni opera di conglomerato cementizio
semplice od armato, la cui stabilità possa
comunque interessare l'incolumità delle
persone, deve essere costruita in base ad un
progetto esecutivo firmato da un ingegnere,
ovvero da un architetto iscritto nell'albo,
nei limiti delle rispettive attribuzioni");
● degli artt. 1 e 2 della legge 05.11.1971, n.
1086 (per cui la costruzione delle "opere in
conglomerato cementizio armato normale,
....(delle) opere in conglomerato cementizio
armato precompresso, .... (delle) opere a
struttura metallica", "deve avvenire in base
ad un progetto esecutivo redatto da un
ingegnere o architetto o geometra o perito
industriale edile iscritti nel relativo
albo, nei limiti delle rispettive
competenze");
● dell'art. 57 della legge 02.03.1949, n. 144 (che, nel dettare le
tariffe per le prestazioni dei geometri,
ricomprende nelle loro competenze le
"modeste costruzioni civili" e le "case
d'abitazione comuni ed economiche,
costruzioni asismiche a due piani senza
ossatura in cemento armato o ferro").
Alla stregua di tali canoni normativi, e
sulla base dell'orientamento
giurisprudenziale di questo Consiglio sopra
ricordato, risulta dunque la preclusione,
per i geometri, della progettazione di
costruzioni di civile abitazione che
accedano le "modeste dimensioni", o che
abbiano comunque un'ossatura in cemento
armato o in ferro potenzialmente pericolosa,
in caso di difetto strutturale, per
l'incolumità delle persone.
Queste previsioni normative generiche sono
state specificate, dalla giurisprudenza, in
relazione ad elementi quanti-qualitativi
(e con rilievo prevalente degli indici del
primo tipo ai fini dell'individuazione
limite della "modesta entità" della
costruzione).
Tra gli elementi quantitativi vengono in
primo luogo in rilievo la volumetria
dell'opera, quindi la sua altezza ed il
numero di piani (si veda, in proposito,
anche il limite di due indicato nel citato
art. 57); tra quelli qualitativi, rileva in
primo luogo "la circostanza che nel progetto
venga o meno previsto l'impiego del cemento
armato" (C.d.S., V, 390/1985, cit.).
Dall'esegesi sistematica del R.D. 2229/1939
cit. e della legge 1086/1971 cit., la citata
giurisprudenza ha tratto la conclusione che
"non tutte le opere con impiego di cemento
armato sono precluse alla progettazione dei
geometri, ma solo quelle in cui, in
relazione alla loro destinazione, il
predetto impiego può comportare pericolo per
la incolumità delle persone": il che
tendenzialmente avviene per le costruzioni
destinate a civile abitazione, progettate su
più piani.
Per quanto invece attiene alla
specificazione del limite quantitativo della
"modesta entità" dell'opera -che comunque
deve essere rispettato anche a prescindere
da quanto si è sopra osservato a proposito
della pericolosità della struttura portante
in cemento armato- la citata giurisprudenza
si è attestata sulla soglia discriminatoria
dei 5.000 mc.
Trattasi, evidentemente, di un limite
pratico che non ha carattere assoluto, ma
che si combina con la valutazione dei
menzionati elementi qualitativi dell'opera.
Mentre dunque anche un'opera di poco
eccedente tale volumetria, la cui
costruzione non preveda però l'uso del
cemento armato o che non sia destinata a
civile abitazione, può essere progettata da
un geometra, al contrario invece la
progettazione di una costruzione prossima a
tale soglia, ma articolata su più piani, e
dunque con struttura portante in cemento
armato, comunque destinata all'abitazione
delle persone, deve ritenersi riservata ai
tecnici laureati (ingegneri ed architetti).
Nel caso di specie, si tratta di un progetto
per la realizzazione di una costruzione di
5.138,80 mc., su tre piani, destinata anche
a civile abitazione. Appare dunque evidente
che, contrariamente a quanto opinato dal
primo giudice, si è ben al di là dei limiti
della competenza progettuale dei geometri,
per quali enucleati dalla giurisprudenza e
sopra riassunti: e ciò sia sotto il profilo
"quantitativo" sia sotto quello "qualitativo
dell'entità e consistenza dell'opera.
Si aggiunga infine ad abundantiam, che -sempre alla stregua del citato orientamento
giurisprudenziale di questo Consiglio, dal
quale il Collegio non ravvisa ragioni per
discostarsi- nei casi dubbi (tra cui quello
in esame, alla stregua dei rilievi svolti,
neppure potrebbe rientrare) vige un favor
per la competenza esclusiva dei tecnici
laureati (giustificato da evidenti ragioni
di tutela della pubblica incolumità),
dovendo in tali casi l'Amministrazione
concedente "specificare nella concessione
edilizia i motivi per cui (ritiene)
sufficiente la redazione dei .... progetti
da parte di un geometra", ed altresì
"congruamente esplicitare le predette
ragioni, almeno nei casi in cui le
caratteristiche del progetto siano
oggettivamente tali da far sorgere dubbi sui
limiti delle competenze professionali del
progettista" (così C.d.S., V, 390/1985, cit.).
Nessun dubbio dunque può residuare circa il
fatto che la progettazione dell'opera del
cui assentimento si tratta trascenda la
competenza professionale di un geometra, con
l'effetto che il diniego di concessione
edilizia fondato su tale motivo -ed
impugnato in primo grado con il ricorso n.
1811/1989- era legittimo (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 13.01.1999 n.
25). |
AGGIORNAMENTO AL 05.03.2012 |
ã |
Ma
non bastava la delibera di Giunta ?? |
Non c'è comune, o quasi, che non abbia sul proprio
territorio un chiosco di giornali ovvero di
vendita fiori (all'esterno del cimitero) posato su
suolo pubblico comunale. Ultimamente, poi, nascono
come funghi quelle belle casette di legno, e non,
per la vendita automatizzata del latte fresco appena
munto ovvero dell'acqua frizzante di
acquedotto ovvero dei detersivi alla spina.
Non c'è che dire: una bella iniziativa a favore della
cittadinanza, condivisa e messa in atto il più delle
volte solo dalla Giunta Comunale la quale, con
propria deliberazione, autorizza l'installazione del
manufatto prefabbricato in questione su suolo
pubblico comunale facendo pagare (non sempre !!) la
relativa TOSAP annuale da iscriversi a ruolo. E ciò,
spesso e volentieri, si verifica senza che l'U.T.C.
ne sia preventivamente al corrente.
Orbene, provate a leggere la sentenza sotto riportata. |
EDILIZIA
PRIVATA: Per
l'apertura di un chiosco su suolo pubblico, adibito
a rivendita di giornali, non è sufficiente il
provvedimento di concessione per l’occupazione di
detto suolo ma occorre l’ulteriore ed autonomo
titolo edilizio.
La nozione di costruzione, per cui si richiede il
rilascio del titolo abilitativo in questione
(permesso di costruire), si identifica con qualsiasi
trasformazione urbanistico-edilizia del territorio,
intesa come modifica dello stato dei luoghi
caratterizzata da stabilità, a prescindere dai
materiali usati, quando si tratti di soddisfare
esigenze non precarie del soggetto che tale
trasformazione ponga in essere.
La questione
sottoposta all’esame del Collegio concerne l’ordine
di immediata rimozione di un chiosco, adibito a
rivendita di giornali, emesso dal Comune di Mazzano
Romano in data 19.07.2011, nonché del parere del
Ministero per i Beni Culturali ed
Ambientali-Soprintendenza per i Beni Architettonici
e Paesaggistici per le Province di Roma, Frosinone,
Latina, Rieti e Viterbo, emesso il 29.11.2010.
...
Contrariamente a quanto sostenuto nell’appello,
infatti, per l’esecuzione di opere su suolo di
proprietà pubblica non è sufficiente il
provvedimento di concessione per l’occupazione di
detto suolo, ma occorre l’ulteriore ed autonomo
titolo edilizio, che opera su un piano diverso –e
risponde a diversi presupposti– rispetto sia
all’atto che accorda l’utilizzo a fini privati di
una determinata porzione di terreno di proprietà
pubblica, sia ad altri atti autorizzativi
eventualmente necessari (come, per quanto qui
interessa, l’autorizzazione commerciale per la
vendita di determinati prodotti).
La nozione di costruzione, per cui si richiede il
rilascio del titolo abilitativo in questione
(permesso di costruire), si identifica d’altra parte
con qualsiasi trasformazione urbanistico-edilizia
del territorio, intesa come modifica dello stato dei
luoghi caratterizzata da stabilità, a prescindere
dai materiali usati, quando si tratti di soddisfare
esigenze non precarie del soggetto che tale
trasformazione ponga in essere (cfr. in tal senso,
fra le tante, Cons. St., sez. VI, 27.01.2003, n.
419)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.02.2012 n. 1106 - link a
www.giustizia-amministrativa.it).
|
Invero, possiamo affermare tranquillamente "niente
di nuovo sotto il sole": la questione era
abbastanza chiara anni addietro ma ci sono ancora
oggi amministratori locali che sono sordi (o, peggio
ancora, che non
vogliono sentire ...) a fronte di puntuale
informativa dell'UTC, anche se ex post ...
perché la 1^ Repubblica mica è morta: anzi, è più
che mai prospera e imperante, alla faccia della separazione
delle competenze tra apparato politico e apparato
gestionale.
E se qualcuno si ostinasse a dire che tali manufatti
sono, di fatto, precari e come tali non abbisognano
del permesso di costruire lo invitiamo a
leggere la sentenza (una delle tante in materia) qui
sotto riportata: |
EDILIZIA
PRIVATA: Opere
precarie, requisiti.
La natura precaria di un intervento edilizio non
coincide "con la temporaneità della destinazione
soggettivamente data all'opera dal costruttore, ma
deve ricollegarsi alla intrinseca destinazione
materiale dell'opera ad un uso realmente precario e
temporaneo, per fini specifici, contingenti e
limitati nel tempo, con conseguente possibilità di
successiva e sollecita eliminazione".
Non sussiste coincidenza fra precarietà e
stagionalità dell'opera, posto che le opere
stagionali sono destinate a soddisfare bisogni che
si perpetuano nel tempo, anche se in determinati
periodi dell'anno, e come tali costituiscono
interventi che incidono sui beni tutelati dalla
legislazione edilizia e necessitano di permesso di
costruire.
La natura precaria di una costruzione non dipende
dalla natura dei materiali adottati e quindi dalla
facilità della rimozione, ma dalle esigenze che il
manufatto è destinato a soddisfare e cioè alla
stabilità dell'insediamento, indicativa dell'impegno
effettivo e durevole del territorio.
La Corte deve
ricordare che la giurisprudenza di questa Sezione
afferma costantemente che:
● la natura precaria di un intervento edilizio non
coincide "con la temporaneità della destinazione
soggettivamente data all'opera dal costruttore, ma
deve ricollegarsi alla intrinseca destinazione
materiale dell'opera ad un uso realmente precario e
temporaneo, per fini specifici, contingenti e
limitati nel tempo, con conseguente possibilità di
successiva e sollecita eliminazione" (Sezione
Terza Penale, sentenza 27.05.2004, Polito).
● Sotto diverso profilo, non sussiste coincidenza
fra precarietà e stagionalità dell'opera, posto che
le opere stagionali sono destinate a soddisfare
bisogni che si perpetuano nel tempo, anche se in
determinati periodi dell'anno, e come tali
costituiscono interventi che incidono sui beni
tutelati dalla legislazione edilizia e necessitano
di permesso di costruire (Terza Sezione Penale,
sentenza n. 35498 del 06.07.2007, Filigrana;
sentenza n. 12428 del 07.02.2008, Fioretti).
● Inoltre, è stato affermato che "la natura
precaria di una costruzione non dipende dalla natura
dei materiali adottati e quindi dalla facilità della
rimozione, ma dalle esigenze che il manufatto è
destinato a soddisfare e cioè alla stabilità
dell'insediamento, indicativa dell'impegno effettivo
e durevole del territorio" (Terza Sezione
Penale, sentenza n. 12428 del 07.02.2008, Fioretti;
sentenza del 27.05.2004, Polito; Cons. Stato, Sez.
5, sentenza n. 3321 del 15.06.2000) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale, con la
sentenza 16.01.2012 n. 1191).
|
E adesso, tutte quelle belle casette prefabbricate
citate in premessa costruite in forza della sola
delibera di Giunta Comunale, e non anche del necessario e
legittimante permesso di costruire, che fine fanno
?? Chi versa, nelle casse comunali, il mancato
pagamento degli oneri di urbanizzazione e del costo
di costruzione ?? Chi ordina la demolizione di quei manufatti
abusivi ?? Chi risponde dell'eventuale risarcimento
del danno che subirà la ditta installatrice ?? |
05.03.2012
- LA SEGRETERIA PTPL |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
OGGETTO: Benefici per il personale
dipendente dell’Istituto impegnato
nell’assistenza di un soggetto affetto da
grave disabilità. Art. 42, comma 5, del
decreto legislativo 26.03.2001, n. 151 -
congedo straordinario retribuito. Art. 4,
comma 2, della legge 08.03.2000, n. 53 –
congedo (INPS,
circolare 28.02.2012 n. 28 - link
a www.inps.it). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
ENTI LOCALI - VARI:
G.U. 02.03.2012 n. 52 "Disposizioni
urgenti in materia di semplificazioni
tributarie, di efficientamento e
potenziamento delle procedure di
accertamento"
(D.L.
02.03.2012 n. 16). |
URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia n. 9 del 02.03.2012 "Istruzioni
per la pianificazione locale della RER –
febbraio 2012"
(comunicato
regionale 27.02.2012 n. 25). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
C. Bovino,
Mud 2012, dichiarazione Sistri e D.M. n.
219/2011: tutte le novità (link a
www.ipsoa.it). |
APPALTI:
N. Bettoli e F. Scabbia,
Breve excursus sull’istituto
dell’avvalimento (link a
www.diritto.it). |
CORTE DEI
CONTI |
INCARICHI PROFESSIONALI: Sul
danno erariale cagionato dal sindaco per
aver affidato ad un professionista esterno
l'incarico di responsabile dell'U.T.C..
Nell’ordinamento
vigente non sussiste un generale divieto per
la P.A. di ricorrere a collaborazioni
esterne o a contratti di durata o, ancora, a
consulenze per far fronte ad esigenze
particolari, ma che l’utilizzo di personale
esterno alla Pubblica amministrazione non
può concretizzarsi se non nel rispetto di
determinate condizioni e limiti previsti
espressamente dal legislatore e,
specificatamente, dall’art. 7 del D.lgs. 03.02.1993 n. 29 (“6. Ove non
siano disponibili figure professionali
equivalenti, le amministrazioni pubbliche
possono conferire incarichi individuali ad
esperti di provata competenza, determinando
preventivamente durata, luogo, oggetto e
compenso della collaborazione”), dall’art.
110 del TUEL (“1. Lo statuto può prevedere
che la copertura dei posti di responsabili
dei servizi o degli uffici, di qualifiche
dirigenziali o di alta specializzazione,
possa avvenire mediante contratto a tempo
determinato di diritto pubblico o,
eccezionalmente e con deliberazione
motivata, di diritto privato, fermi restando
i requisiti richiesti dalla qualifica da
ricoprire.
2. Il regolamento sull'ordinamento degli
uffici e dei servizi, negli enti in cui è
prevista la dirigenza, stabilisce i limiti,
i criteri e le modalità con cui possono
essere stipulati, al di fuori della
dotazione organica, contratti a tempo
determinato per i dirigenti e le alte
specializzazioni, fermi restando i requisiti
richiesti per la qualifica da ricoprire….Per
obiettivi determinati e con convenzioni a
termine, il regolamento può prevedere
collaborazioni esterne ad alto contenuto di
professionalità”) e dall’art. 7 del Decreto
legislativo 30/03/2001 n. 165 (“6. Per
esigenze cui non possono far fronte con
personale in servizio, le amministrazioni
pubbliche possono conferire incarichi
individuali ad esperti di provata
competenza, determinando preventivamente
durata, luogo, oggetto e compenso della
collaborazione”).
I limiti contenuti nelle disposizioni sopra
indicate trovano la propria ratio nella
necessità di evitare il conferimento
generalizzato di consulenze esterne,
l'assunzione di personale in assenza di
condizioni legittimanti, l’aggravio di costi
inutili ed eccessivi per i pubblici bilanci
e la violazione di norme cogenti le quali
richiedono, per l'accesso alla pubblica
amministrazione, una selezione di più
candidati preceduta da adeguata pubblicità
del bando e svolgimento di una procedura
concorsuale.
La giurisprudenza ha, inoltre, da tempo,
affermato il principio secondo cui ogni ente
pubblico deve provvedere ai propri compiti
con la propria organizzazione e il proprio
personale e la possibilità di far ricorso a
personale esterno può essere ammessa
soltanto nei limiti e alle condizioni in cui
la legge lo preveda o anche quando sia
impossibile provvedere altrimenti ad
esigenze eccezionali e impreviste, di natura
transitoria.
---------------
L’incarico conferito ad un professionista
esterno alla p.a. a far data dal 1998 (per
carenza di personale qualificato), prorogato
di anno in anno ... e, quindi, attribuito
nuovamente quale incarico di alto contenuto
professionale al di fuori della dotazione
organica, a tempo determinato e tempo
parziale in qualità di funzionario tecnico
responsabile dell'ufficio tecnico servizio
lavori pubblici e urbanistica (...) a
decorrere dalla data dell'01.10.2002 per la
durata del mandato elettorale pari ad anni 5
e poi ancora prorogato, non solo non può
ritenersi temporaneo e predeterminato quanto
alla sua durata, ma non può certamente
definirsi come un incarico di alta
specializzazione in quanto concernente
compiti ordinari di un dipendente comunale
inquadrato nella pianta organica
(precedentemente svolti dal geometra ...).
L’attribuzione di tale incarico
-configurabile come una sorta di
contraddittoria e inammissibile commistione
tra le distinte ipotesi disciplinate
dall'art. 110 TUEL ai commi 1 (incarichi
temporanei per la copertura di posti di
responsabili dei servizi), 2 (incarichi al
di fuori della dotazione organica conferiti
con contratti a tempo determinato per i
dirigenti e le alte specializzazioni) e 3
(collaborazioni esterne ad alto contenuto di
professionalità per obiettivi determinati e
conferiti con convenzioni a termine)–
presupponeva una coerente qualificazione e
soprattutto una congrua e ragionevole
motivazione che giustificasse il ricorso al
personale esterno.
Non può non convenirsi con la Procura
regionale laddove ha evidenziato come il
contratto del 2002 stipulato con l’ing. ...
“non si configurava come un fatto
eccezionale adottato per raggiungere uno
specifico obiettivo, bensì come
un'assunzione di fatto del tecnico
all'interno della dotazione organica del
personale dell'amministrazione comunale
(senza alcun concorso) …”.
Andavano, infatti, specificati, come
richiesto dall’art. 51 del regolamento
comunale, l'oggetto dell'incarico
(individuato genericamente, in contratto,
quale “responsabile dell’UTC” ), il
contenuto delle prestazioni (indicate
approssimativamente nelle “mansioni inerenti
alle attività ricomprese nella declaratoria
della categoria”), le modalità di
svolgimento delle stesse (“da svolgere, come
da contratto, nei luoghi e nei tempi in cui
il dipendente, di concerto con
l’Amministrazione, riterrà opportuni…"), gli
obiettivi da perseguire (nella specie, non
precisati), l'ammontare del compenso,
l'inizio e la durata dell'incarico.
Tali rilevanti carenze contenutistiche
risultano vieppiù evidenti laddove
l’incarico in parola veniva
contraddittoriamente definito come “al di
fuori della dotazione organica”, “ad alto
contenuto professionale” (quando, invece, si
trattava di svolgere attività amministrative
ordinarie) e veniva, su tale inconsistente
presupposto, indebitamente compensato con
l'indennità ad personam stabilita dal citato
art. 110 del D.lgvo n. 267 del 2000, oltre
alla normale retribuzione prevista dal CCNL.
---------------
Le modalità con cui si è svolta la vicenda
evidenziano una condotta gravemente colposa
del sindaco in quanto posta in essere in
violazione della normativa di riferimento.
Infatti, il sindaco conferiva e rinnovava
-immotivatamente (nonostante le doglianze
sollevate dal dipendente geom. ...)-
l’incarico al professionista esterno a cui
veniva affidato, nell’ambito della nuova
pianta organica (la quale prevedeva –in un
Comune di modeste dimensioni quale quello di
Balsorano- lo sdoppiamento dell’Ufficio
Tecnico in Servizio LL.PP. e Servizio
Urbanistica), la responsabilità di entrambi
i servizi tecnici nonostante l’espressa
attribuzione del livello D1 del Servizio
Lavori Pubblici al geom. ... il quale aveva
svolto in passato entrambe le funzioni poi
affidate all’ing. ....
---------------
FATTO
1.
Con la sentenza impugnata, la Corte dei
Conti, Sezione Giurisdizionale per
l’Abruzzo, condannava il sig. ..., in
qualità di sindaco del Comune di Balsorano,
al risarcimento del danno -in favore del
predetto ente- di euro 40.000, comprensivi
di interessi legali, per aver stipulato un
illegittimo contratto di lavoro subordinato
con l’ing. ....
Al riguardo, veniva evidenziato che il
predetto ingegnere era stato assunto dal
Comune (a seguito di accordo sottoscritto il
10.09.2002) con mansioni, a tempo
determinato e parziale, di funzionario
tecnico responsabile dell'Ufficio tecnico
comunale a decorrere dall'01.10.2002 e
che, per tale incarico, della durata di
cinque anni, il sig. ..., oltre al
normale trattamento economico, aveva
percepito (come da delibera di G.C. n. 95
del 10.09.2002) un'indennità ad personam
di euro 2.000,00 per 12 mensilità a fronte
di un’attività lavorativa "con percentuale
oraria di lavoro dei 5/6 dell'orario a tempo
pieno".
Il Collegio, nel rilevare che il predetto
professionista era già stato reclutato negli
anni precedenti (delibera di Giunta n. 169
del 22.09.1998) e che l'incarico era
stato tacitamente prorogato anno per anno
con incremento dell'orario lavorativo
(nonché protratto negli anni successivi allo
scadere del mandato del sindaco ...),
rilevava che l'assunzione -pur facendo
espresso riferimento all'art. 110 del testo
unico delle leggi sull'ordinamento degli
enti locali reso con decreto legislativo n.
267 del 2000- in realtà non poteva dirsi
legittima.
Riteneva, infatti, che l’affidamento
dell’incarico non potesse configurarsi né
come consulenza esterna (mancandone i
presupposti della temporaneità e della
eccezionalità e predefinizione dei
contenuti), né come incarico di lavoro
dipendente a tempo determinato non essendo
prescritta l'osservanza di un orario di
lavoro predefinito dal datore né effettuata
la preliminare selezione di più candidati
con adeguata pubblicità del bando e
svolgimento di una procedura concorsuale.
La Sezione, rilevato un evidente contrasto
con la normativa di settore (art. 7 del
d.lgvo n. 29 del 1993; art. 110 del TUEL;
art. 7 del d. lgvo n. 165 del 2001),
riteneva che il sindaco ...
fosse stato il regista di tutta la vicenda
protrattasi per lunghi anni e che la sua
condotta dovesse essere censurata sotto il
profilo della colpa grave tenuto conto,
anche, che lo stesso “non ebbe mai a
riconsiderare i presupposti dell'incarico,
nonostante i continui esposti e le doglianze
del geometra dell'ufficio tecnico comunale”.
...
DIRITTO
1.
Va, preliminarmente, disposta la riunione
in rito degli appelli indicati in epigrafe
ai sensi dell’art. 335 c.p.c., in quanti
proposti avverso la stessa sentenza.
2.
Per ragione di ordine logico, il Collegio
ritiene, quindi, di esaminare, innanzitutto,
i motivi d'appello formulati dal sig. ... ed,
in primis, quelli di rito.
2.1.
Con riferimento, quindi, all'eccepita
nullità della sentenza per violazione
dell'art. 163, n. 7 c.p.c. e art. 38 c.p.c.
(mancato avvertimento delle decadenze
relative alla tardiva costituzione del
convenuto), si rileva che, come da
consolidata giurisprudenza di questa Corte,
le citate disposizioni non possono trovare
applicazione nel giudizio di responsabilità
in quanto lo stesso risulta strutturato in
maniera diversa da quello civile essendo di
competenza del Presidente della Sezione
fissare il giorno dell’udienza di
trattazione della causa ed il termine per la
costituzione del convenuto (art. 5 del d.l.
n. 453/1993, convertito dalla l. n.
19/1994).
Ciò rende inapplicabile al processo
contabile il disposto di cui all'art. 163,
n. 7 c.p.c, che impone all'attore di
indicare nell'atto di citazione il giorno
dell'udienza con l'invito al convenuto di
costituirsi nel termine di venti giorni
prima della data della stessa udienza,
ovvero dieci giorni prima, in caso di
abbreviazione del termine, con
l'avvertimento che la costituzione tardiva
comporta le decadenze di cui all'art. 167
cit..
2.2.
Quanto alla nullità della sentenza per
nullità dell’attività istruttoria della
Procura posta in essere in assenza di una
specifica notizia di danno, va considerato
che la doglianza, pur ammissibile (in quanto
“può essere fatta valere in ogni momento, da
chiunque vi abbia interesse”) ai sensi
dell’art. 17, comma 30-ter, del decreto
legge 01/07/2009, n. 78, conv. in legge
03/08/2009, n. 102, nel testo modificato dal
decreto–legge 03/08/2009, n. 103, contenente
“Disposizioni correttive del decreto–legge
anticrisi n. 78 del 2009, convertito nella
legge 141/2009”, è infondata (“Le Procure
della Corte dei Conti possono iniziare
l’attività istruttoria ai fini
dell'esercizio dell'azione di danno erariale
a fronte di specifica e concreta notizia di
danno, fatte salve le fattispecie
direttamente sanzionate dalla legge.
Qualunque atto istruttorio o processuale
posto in essere in violazione delle
disposizioni di cui al presente comma, salvo
che sia stata già pronunciata sentenza anche
non definitiva alla data di entrata in
vigore della legge di conversione del
presente decreto, è nullo e la relativa
nullità può essere fatta valere in ogni
momento, da chiunque vi abbia interesse,
innanzi alla competente Sezione
Giurisdizionale della Corte dei Conti, che
decide nel termine perentorio di 30 giorni
dal deposito della richiesta”).
Dall’esame del fascicolo processuale emerge,
chiaramente, che l’attività istruttoria e
processuale, posta in essere dalla Procura e
censurata con l’appello incidentale, ha
avuto origine da una specifica segnalazione,
da parte del geometra del Comune di
Balsorano, sig. ..., in ordine alla
fattispecie ora al vaglio del Giudicante.
Dal tenore della denuncia (allegata agli
atti di causa), si ritiene che la stessa
integri una notizia concreta e specifica di
danno.
Al riguardo, è stato più volte chiarito
dalla giurisprudenza di questa Corte che
ogni valutazione circa la sussistenza degli
elementi necessari (condizioni dell’azione)
per l’esercizio dell’azione di
responsabilità (danno certo ed attuale,
individuazione dei presunti responsabili,
valutazione della condotta e dell’elemento
soggettivo della colpa grave, nesso di
causalità), spetta esclusivamente all’organo
inquirente nell’ambito delle funzioni
istituzionali assegnategli, all’uopo
comprensive di specifiche e dettagliate
competenze istruttorie riconosciutegli dalla
normativa vigente (e consistenti nella
possibilità di chiedere in comunicazione
atti e documenti, di disporre audizioni
personali, perizie e consulenze, sequestro
di documenti, delega di adempimenti
istruttori a funzionari delle pubbliche
amministrazioni, ispezioni e accertamenti
diretti presso pubbliche amministrazioni ex
artt. 74 TU 1214/1934, 2, comma 4, e 5,
comma 6 della legge n. 19 del 1994, 16,
comma 3, del d.l. n. 152/1991 conv. in legge
n. 203/1991).
Ne consegue che la denuncia in parola –circostanziata quanto alla vicenda descritta- ben rappresenta una concreta e specifica
notizia di danno in ragione della quale la
Procura era legittimata ad attivare
l’attività istruttoria di competenza con la
conseguenza che, né questa, né i successivi
atti pre-processuali (invito a dedurre) e
processuali (atto di citazione in giudizio),
possono ritenersi affetti da alcun vizio ai
sensi dell’art. 17, comma 30–ter, citato.
2.3.
Dev’essere, quindi, affrontata,
l'eccezione di prescrizione sollevata dalla
difesa del sig. ....
Orbene, non solo la prescrizione
(diversamente da quanto sostenuto
dall’appellato–appellante incidentale) non
è rilevabile d’ufficio ai sensi dell’art.
2938 cc., ma il motivo di censura deve
ritenersi inammissibile ai sensi dell'art.
345, comma 2, c.p.c. , perché proposto per
la prima volta in appello.
La circostanza che il sig. ... sia stato
contumace in primo grado non assume,
infatti, alcun rilievo in ordine
all’ammissibilità della stessa tenuto conto
che “la parte rimasta contumace in primo
grado non può godere, nel giudizio di
appello, di diritti processuali più ampi di
quelli spettanti alla parte ritualmente
costituita in quel primo giudizio, e deve,
conseguentemente, accettare il processo
nello stato in cui si trova, con tutte le
preclusioni e decadenze già verificatesi”
(Cass. civ., sez. I, 04.05.1998, n.
4404).
2.4.
In ordine, poi, alla doglianza relativa
all’errata interpretazione dell’art. 110 D.lgs. n. 267/2000 e degli artt. 36, 49, 51,
53 del Regolamento di organizzazione degli
Uffici e dei Servizi del Comune di Balsorano,
il Collegio ritiene necessario sottolineare,
innanzitutto, come la ricostruzione della
vicenda operata dalla Sezione Territoriale
non solo trovi pieno riscontro negli atti di
causa, ma assuma rilevanza al fine di
valutare in concreto se la condotta in
contestazione possa ritenersi conforme al
dettato legislativo.
Va, senz'altro, considerato che
nell’ordinamento vigente non sussiste un
generale divieto per la P.A. di ricorrere a
collaborazioni esterne o a contratti di
durata o, ancora, a consulenze per far
fronte ad esigenze particolari, ma che
l’utilizzo di personale esterno alla
Pubblica amministrazione non può
concretizzarsi se non nel rispetto di
determinate condizioni e limiti previsti
espressamente dal legislatore e,
specificatamente, dall’art. 7 del Decreto
legislativo 03.02.1993 n. 29 (“6. Ove non
siano disponibili figure professionali
equivalenti, le amministrazioni pubbliche
possono conferire incarichi individuali ad
esperti di provata competenza, determinando
preventivamente durata, luogo, oggetto e
compenso della collaborazione”), dall’art.
110 del TUEL (“1. Lo statuto può prevedere
che la copertura dei posti di responsabili
dei servizi o degli uffici, di qualifiche
dirigenziali o di alta specializzazione,
possa avvenire mediante contratto a tempo
determinato di diritto pubblico o,
eccezionalmente e con deliberazione
motivata, di diritto privato, fermi restando
i requisiti richiesti dalla qualifica da
ricoprire.
2. Il regolamento sull'ordinamento degli
uffici e dei servizi, negli enti in cui è
prevista la dirigenza, stabilisce i limiti,
i criteri e le modalità con cui possono
essere stipulati, al di fuori della
dotazione organica, contratti a tempo
determinato per i dirigenti e le alte
specializzazioni, fermi restando i requisiti
richiesti per la qualifica da ricoprire….Per
obiettivi determinati e con convenzioni a
termine, il regolamento può prevedere
collaborazioni esterne ad alto contenuto di
professionalità”) e dall’art. 7 del Decreto
legislativo 30/03/2001 n. 165 (“6. Per
esigenze cui non possono far fronte con
personale in servizio, le amministrazioni
pubbliche possono conferire incarichi
individuali ad esperti di provata
competenza, determinando preventivamente
durata, luogo, oggetto e compenso della
collaborazione”).
I limiti contenuti nelle disposizioni sopra
indicate trovano la propria ratio nella
necessità di evitare il conferimento
generalizzato di consulenze esterne,
l'assunzione di personale in assenza di
condizioni legittimanti, l’aggravio di costi
inutili ed eccessivi per i pubblici bilanci
e la violazione di norme cogenti le quali
richiedono, per l'accesso alla pubblica
amministrazione, una selezione di più
candidati preceduta da adeguata pubblicità
del bando e svolgimento di una procedura
concorsuale.
La giurisprudenza ha, inoltre, da tempo,
affermato il principio secondo cui ogni ente
pubblico deve provvedere ai propri compiti
con la propria organizzazione e il proprio
personale e la possibilità di far ricorso a
personale esterno può essere ammessa
soltanto nei limiti e alle condizioni in cui
la legge lo preveda o anche quando sia
impossibile provvedere altrimenti ad
esigenze eccezionali e impreviste, di natura
transitoria.
Nel caso di specie, l’incarico conferito
all’ing. ... a far data dal 1998 (per
carenza di personale qualificato), prorogato
di anno in anno (delibere di Giunta comunale
n. 169 del 22.09.1998, n. 271 del 27.12.2000, n. 230 del 29.11.2001)
e, quindi, attribuito nuovamente quale
incarico di alto contenuto professionale al
di fuori della dotazione organica, a tempo
determinato e tempo parziale in qualità di
funzionario tecnico responsabile
dell'ufficio tecnico servizio lavori
pubblici e urbanistica (...) a decorrere
dalla data dell'01.10.2002 per la durata
del mandato elettorale pari ad anni 5
(contratto individuale di lavoro
sottoscritto il 10.09.2002) e poi
ancora prorogato (delibera G.C. n. 105 del
2007), non solo non può ritenersi temporaneo
e predeterminato quanto alla sua durata, ma
non può certamente definirsi come un
incarico di alta specializzazione in quanto
concernente compiti ordinari di un
dipendente comunale inquadrato nella pianta
organica (precedentemente svolti dal
geometra ...).
L’attribuzione di tale incarico -configurabile come una sorta di
contraddittoria e inammissibile commistione
tra le distinte ipotesi disciplinate
dall'art. 110 TUEL ai commi 1 (incarichi
temporanei per la copertura di posti di
responsabili dei servizi), 2 (incarichi al
di fuori della dotazione organica conferiti
con contratti a tempo determinato per i
dirigenti e le alte specializzazioni) e 3
(collaborazioni esterne ad alto contenuto di
professionalità per obiettivi determinati e
conferiti con convenzioni a termine)–
presupponeva una coerente qualificazione e
soprattutto una congrua e ragionevole
motivazione che giustificasse il ricorso al
personale esterno.
Non può non convenirsi con la Procura
regionale laddove ha evidenziato come il
contratto del 2002 stipulato con l’ing.
... “non si configurava come un
fatto eccezionale adottato per raggiungere
uno specifico obiettivo, bensì come
un'assunzione di fatto del tecnico
all'interno della dotazione organica del
personale dell'amministrazione comunale (senza alcun concorso) …”.
Andavano, infatti, specificati, come
richiesto dall’art. 51 del regolamento
comunale, l'oggetto dell'incarico
(individuato genericamente, in contratto,
quale “responsabile dell’UTC” ), il
contenuto delle prestazioni (indicate
approssimativamente nelle “mansioni inerenti
alle attività ricomprese nella declaratoria
della categoria”), le modalità di
svolgimento delle stesse (“da svolgere, come
da contratto, nei luoghi e nei tempi in cui
il dipendente, di concerto con
l’Amministrazione, riterrà opportuni…"), gli
obiettivi da perseguire (nella specie, non
precisati), l'ammontare del compenso,
l'inizio e la durata dell'incarico.
Tali rilevanti carenze contenutistiche
risultano vieppiù evidenti laddove
l’incarico in parola veniva
contraddittoriamente definito come “al di
fuori della dotazione organica”, “ad alto
contenuto professionale” (quando, invece, si
trattava di svolgere attività amministrative
ordinarie) e veniva, su tale inconsistente
presupposto, indebitamente compensato con
l'indennità ad personam stabilita dal citato
art. 110 del D.lgvo n. 267 del 2000, oltre
alla normale retribuzione prevista dal CCNL.
---------------
2.5.
Quanto alla rilevata “erroneità
dell'impugnata sentenza per violazione
dell'art. 1, comma 1, legge 19/01/1994 n. 20
(…) mancando, nel caso di specie, il dolo e
la colpa grave per l’addebitabilità del
presunto danno erariale al ...”,
il Collegio ritiene, viceversa, che le
modalità con cui si è svolta la vicenda
evidenzino una condotta gravemente colposa
del sindaco in quanto posta in essere in
violazione della normativa di riferimento.
Il sig. ..., come evidenziato in
sentenza, conferiva e rinnovava -immotivatamente (nonostante le doglianze
sollevate dal dipendente ...)- l’incarico
al professionista esterno a cui veniva
affidato, nell’ambito della nuova pianta
organica (la quale prevedeva –in un Comune
di modeste dimensioni quale quello di Balsorano- lo sdoppiamento dell’Ufficio
Tecnico in Servizio LL.PP. e Servizio
Urbanistica), la responsabilità di entrambi
i servizi tecnici (vedasi contratto e
delibera n. 230 del 29.11.2001)
nonostante l’espressa attribuzione del
livello D1 del Servizio Lavori Pubblici al
geom. ... (vedasi all. 4 delibera n.
184 del 24.08.2000) il quale aveva svolto in
passato entrambe le funzioni poi affidate
all’ing. ... (delibera n. 169 del
22.08.1998)
(Corte dei Conti, Sez. III giurisdiz.
centrale d'appello,
sentenza 08.02.2012 n. 66 - link a www.corteconti.it). |
NEWS |
SEGRETARI COMUNALI: Una
casta nascosta: i segretari comunali.
Non si parla mai della Casta dei segretari
comunali, notai dei comuni i quali
raggiungono stipendi mensili da capogiro e
fanno le delibere un tempo con la carta
carbone, oggi con il copia e incolla.
Non sarebbe il caso di chiamarli quando non
si possono risolvere i problemi e pagarli a
ore? Visto che, peraltro, riescono ad
esercitare anche in 15 comuni
contestualmente ...
(articolo
Libero
del 03.03.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: Vigili
e prof, assunzioni senza tetti. I contratti
a termine non sono soggetti al limite del
50%. Nel milleproroghe molte novità sul
personale. Ma le sezioni della Corte conti
sollevano dubbi.
Le assunzioni a tempo
determinato dei vigili urbani e del
personale educativo e docente degli enti
locali non sono soggette nell'anno 2012 al
tetto del 50% della spesa del personale
flessibile assunto dallo stesso ente
nell'anno 2009 o, in mancanza, nel triennio
2007/2009.
È questa, unitamente alla proroga per tutto
il 2012 della validità delle graduatorie per
le assunzioni a tempo indeterminato
approvate dopo il 30.09.2003, la più
importante novità dettata in materia di
personale dalla legge n. 14/2012 di
conversione del decreto cosiddetto
milleproroghe.
Con questo chiarimento viene consentita
un'importante eccezione al nuovo e assai
rigido limite alle assunzioni flessibili
negli enti locali. Ma non vengono risolti i
numerosi dubbi che la norma solleva e su cui
i pareri delle sezioni regionali della Corte
dei conti fin qui adottati sono assai
diversificati, dubbi per risolvere i quali
la sezione di controllo della Corte dei
conti della Lombardia (parere n. 36/2012) ha
investito le sezioni riunite.
È opportuno precisare subito che gli enti
locali, in virtù del carattere di principio
della disposizione, possono derogare al
tetto di spesa fissato dall'articolo 9 comma
28, da una parte per le assunzioni a tempo
determinato, con convenzioni e gli incarichi
di collaborazione coordinata e continuativa
e dall'altra per i contratti di
somministrazione, il lavoro accessorio, i
contratti di formazione e lavoro e gli altri
rapporti formativi. Tale deroga non può
sicuramente operare né per aumentare la
soglia massima della spesa consentita, né
per introdurre eccezioni (tanto più dopo che
queste sono state dettate espressamente dal
legislatore), ma per prevedere che il tetto
del 50% di quanto speso nel 2009 sia
calcolato in modo unitario sul totale di
queste voci e non in modo segmentato per
singole voci e/o per i due blocchi previsti
dalla disposizione legislativa.
La deroga concessa per il 2012 alle
assunzioni a tempo determinato dei vigili
urbani risolve il dubbio se quelle
finanziate con una quota dei proventi
derivanti dalla inosservanza del codice
della strada sfuggano o meno al vincolo di
spesa. Per la sezione regionale di controllo
della Corte dei conti della Toscana, parere
n. 10/2012, questi oneri non devono essere
inclusi nel tetto alla spesa per le
assunzioni flessibili.
La tesi diametralmente opposta è stata fatta
propria della sezione regionale di controllo
della Lombardia, parere n. 21/2012. Il
chiarimento si impone comunque per una
questione più ampia: se si possono escludere
dal tetto di spesa tutte le assunzioni
flessibili i cui oneri sono sostenuti da
altre amministrazioni, dall'Unione europea o
dai privati, anche alla luce della pronuncia
resa dalle sezioni riunite di controllo
della Corte dei conti, deliberazione n.
7/2011, per la quale ai fini della
determinazione del tetto alla spesa per gli
incarichi di consulenza vanno esclusi «dal
computo gli oneri coperti mediante
finanziamenti aggiuntivi e specifici
trasferiti da altri soggetti pubblici o
privati».
Un altro punto di grande rilievo da chiarire
è che cosa devono fare le amministrazioni
locali, il che capita in particolare in
piccoli comuni, che non hanno avuto né nel
2009, né nel triennio 2007-2009, spese per
le assunzioni flessibili, tanto più se le
stesse sono strettamente necessarie.
La sezione regionale di controllo della
Corte dei conti della Lombardia, parere n.
29/2012 consente agli enti di «individuare
un diverso parametro che rappresenti il
limite di spesa anche per gli anni
successivi al 2011. L'ente locale dovrà
motivare puntualmente in ordine alle ragioni
che rendono necessario il ricorso a questa
tipologia di spesa, motivazione rilevante
anche ai fini della responsabilità
espressamente prevista dal penultimo periodo
dell'art. 9, comma 28, dl n. 78/2010»
(articolo ItaliaOggi
del 02.03.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI: LIBERALIZZAZIONI/
Servizi, gestioni più ampie. Sì ad ambiti
superiori al livello provinciale. Nelle gare
valutati i profili di tutela
dell'occupazione.
Gli ambiti dei servizi
pubblici locali potranno anche essere di
livello superiore al territorio provinciale;
nelle gare valutabile anche i profili
attinenti alla tutela dell'occupazione.
Sono questi alcuni dei punti sui quali
incide il nuovo testo dell'articolo 25 del
decreto-legge liberalizzazioni approvato
ieri dal senato, dopo le modifiche in
commissione industria.
Una prima modifica di interesse è quella che
pone un precetto alle regioni, consistente
nell'organizzare lo svolgimento dei servizi
pubblici locali a rete di rilevanza
economica (peraltro si tratta di una dizione
che non appare nelle altre norme, riferite
meramente ai servizi pubblici locali) in
ambiti di bacini territoriali ottimali e di
dimensione non inferiore al livello
provinciale e non più «normalmente»
provinciale).
Le regioni potranno quindi definire ambiti
diversi da quelli provinciali, attraverso un
procedimento teso a coinvolgere gli enti
locali, fatta salva l'organizzazione di
ambiti già prevista o già avviata, con
riferimento alle dimensioni già indicate o a
specifiche direttive europee. Permane il
potere sostitutivo del governo decorso il
termine del 30.06.2012.
L'emendamento approvato in commissione,
confermato ieri dall'aula, prevede inoltre,
come elemento di valutazione dell'offerta da
parte degli aspiranti concessionari di
servizi pubblici, la circostanza che, in
sede di gara, siano stati adottati strumenti
di tutela dell'occupazione. La norma
assoggetta poi le società affidatarie in
house agli oneri cui sono tenuti gli
enti locali in tema di patto di stabilità,
appalti, contratti e personale, ivi comprese
le aziende speciali e le istituzioni degli
enti locali, ma con esclusione, nel testo
della Commissione, di quelle che gestiscono
servizi socio-assistenziali ed educativi,
culturali e farmacie.
L'articolo 25 rafforza inoltre il parere
dell'Autorità garante del mercato nel
procedimento che gli enti locali devono
effettuare per verificare le condizioni di
affidamento in esclusiva piuttosto che di
liberalizzazione dei servizi; si impone
inoltre all'impresa concorrente a realizzare
economie di gestione tali da riflettersi
sulle tariffe o sulle politiche del
personale. Ridotto da 900 mila a 200 mila
euro il valore massimo dei servizi che è
possibile affidare «in house»;
vengono poi prorogati i termini di scadenza
degli affidamenti in house, prevedendo
alcune circostanziate deroghe. In
particolare si prevede in alternativa alla
posticipata scadenza del 31.12.2012, che si
può procedere all'affidamento a un'unica
società in house risultante dalla
integrazione operativa, di preesistenti
gestioni in affidamento diretto e in
economia tale da configurare un unico
gestore del servizio a livello di ambito o
di bacino.
Relativamente al trasporto pubblico
regionale ferroviario si fanno salvi, fino
alla scadenza naturale dei primi sei anni di
validità, gli affidamenti e i contratti di
servizio già deliberati o sottoscritti in
conformità alla normativa europea. Per il
settore del trasporto pubblico locale su
gomma si conferma, per gli affidamenti già
in essere a norma di legge, la scadenza
naturale contrattualmente prevista.
Cesseranno invece alla conclusione dei
lavori e all'effettuazione dei collaudi gli
attuali affidamenti su infrastrutture
ferroviarie, interessate da investimenti
co-finanziati con risorse comunitarie
(articolo ItaliaOggi
del 02.03.2012). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Terzo mandato senza scuse. Il
commissariamento non blocca la sequenza. Se
la carica dura più di due anni, sei mesi e
un giorno si calcola per intero.
Un amministratore
comunale è stato eletto alla carica di
sindaco per la prima volta e tale mandato è
stato interrotto dallo scioglimento del
consiglio comunale, con la conseguente
gestione commissariale protrattasi fino al
rinnovo degli organi amministrativi;
considerato che l'amministratore è stato
eletto nuovamente in occasione della tornata
elettorale successiva al commissariamento
dell'ente locale, che il primo mandato ha
avuto una durata ridotta (anche se superiore
a due anni, sei mesi e un giorno) e che il
primo e il secondo mandato sono stati
intervallati dalla citata gestione
commissariale, è ancora possibile una sua
rielezione per un ulteriore mandato
consecutivo alla carica sindacale
attualmente ricoperta?
La continuità dei due mandati consecutivi,
al verificarsi dei quali l'art. 51, comma 2,
del dlgs n. 267/2000 dispone la non
rieleggibilità alla carica di sindaco, non
viene meno per effetto dell'interposizione
di una gestione commissariale.
La Corte di cassazione, sebbene chiamata a
pronunciarsi su un diverso caso, ha avuto
modo di precisare che affinché non si
configuri la condizione ostativa prevista
dal citato art. 51, è necessario che il
secondo mandato amministrativo sia stato
seguito da una tornata elettorale alla quale
il sindaco uscente non si è candidato. In
particolare è stato precisato che «l'ambito
di operatività del divieto (ex art. 51 cit.)
è puntualmente e univocamente chiarito, nel
senso della sua correlazione a una sequenza
temporale caratterizzata dalla compresenza,
oltreché dell'avverbio immediatamente (già
di per sé sufficiente a escludere il
permanere dell'ineleggibilità oltre la
tornata elettorale successiva alla
conclusione del secondo mandato) anche nella
incidentale (rafforzativa) allo scadere del
secondo mandato, che non lascia alcun
margine di dubbio interpretativo in ordine
alla circostanza che per le elezioni diverse
da quelle immediatamente successive alla
scadenza del mandato non operi più la causa
di ineleggibilità» (cfr. Corte Cass.,
sent. 13181 del 05.07.2007).
Nel caso in esame, considerato che tra il
primo mandato elettorale (di durata ridotta
ma in ogni caso superiore a due anni, sei
mesi e un giorno, poi seguito da una
gestione commissariale) e il secondo non si
è verificata alcuna tornata elettorale
intermedia, interruttiva della sequenza
temporale prevista dalla norma citata,
sussiste la causa ostativa alla terza
candidatura di cui all'art. 51 del dlgs n.
267/ 2000, atteso che, nel caso di specie,
le prossime elezioni sarebbero quelle
immediatamente successive alla scadenza del
secondo mandato
(articolo ItaliaOggi
del 02.03.2012). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Incompatibilità.
Se il sindaco di un comune con popolazione
superiore a 15 mila abitanti è decaduto a
seguito della sua elezione alla carica di
consigliere regionale, il vicesindaco può
votare in consiglio comunale fino al rinnovo
del consiglio stesso?
Ai sensi dell'art. 64, comma 2, del dlgs n.
267/2000, per i comuni con popolazione
superiore a 15 mila abitanti viene previsto
che «qualora un consigliere comunale o
provinciale assuma la carica di assessore
nella rispettiva giunta, cessa dalla carica
di consigliere all'atto dell'accettazione
della nomina, e al suo posto subentra il
primo dei non eletti».
Dalla disposizione in questione, si evince
che il sindaco ha perduto lo status di
consigliere comunale a seguito
dell'accettazione della nomina alla carica
di assessore.
Ai sensi dell'art. 53, comma 1, del dlgs n.
267/2000, il vicesindaco sostituisce il
sindaco in caso di impedimento permanente,
rimozione, decadenza o decesso dello stesso
sindaco.
Il Consiglio di stato, l sez., con parere n.
94/1996, con riferimento alla specifica
problematica prospettata in ordine alla
possibilità che il vicesindaco sostituisca
il sindaco quale componente, con diritto di
voto, del consiglio comunale, ha precisato
che «appare difficilmente concepibile che
esse vengano esercitate dal vicesindaco»,
non essendo ammessa nel nostro ordinamento
la sostituzione nelle funzioni di componente
delle assemblee elettive.
Il successivo parere n. 501 del 14.06.2001,
emanato dallo stesso Consiglio di stato in
materia di poteri del vicesindaco, non ha
contraddetto la precedente pronuncia;
pertanto, il vicesindaco non può esercitare
le funzioni di componente, con diritto di
voto, del consiglio comunale
(articolo ItaliaOggi
del 02.03.2012). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Gli
interventi edilizi che alterino, anche sotto
il profilo della distribuzione interna,
l’originaria consistenza fisica di un
immobile e comportino l’inserimento di nuovi
impianti e la modifica e ridistribuzione dei
volumi, non si configurano né come
manutenzione straordinaria, né come restauro
o risanamento conservativo, ma rientrano
nell’ambito della ristrutturazione edilizia.
In altre parole, affinché sia ravvisabile un
intervento di ristrutturazione edilizia è
sufficiente che risultino modificati la
distribuzione della superficie interna e dei
volumi, ovvero l’ordine in cui risultavano
disposte le diverse porzioni dell'edificio,
per il solo fine di rendere più agevole la
destinazione d’uso esistente: anche in
questi casi si configurano il rinnovo degli
elementi costitutivi dell’edificio ed
un’alterazione dell’originaria fisionomia e
consistenza fisica dell'immobile,
incompatibili con i concetti di manutenzione
straordinaria e di risanamento conservativo
che presuppongono la realizzazione di opere
che lascino inalterata la struttura
dell'edificio e la distribuzione interna
della sua superficie.
La stessa attività di ristrutturazione, del
resto, può attuarsi attraverso una serie di
interventi che, singolarmente considerati,
ben potrebbero ricondursi agli altri tipi
dianzi enunciati. L’elemento
caratterizzante, però, è la connessione
finalistica delle opere eseguite, che non
devono essere riguardate analiticamente, ma
valutate nel loro complesso al fine di
individuare se esse siano o meno rivolte al
recupero edilizio dello spazio attraverso la
realizzazione di un edificio in tutto o in
parte nuovo.
L’art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. 380/2001 (entrato in vigore il
30/06/2003 ma ricognitivo della statuizione
racchiusa all’art. 31, comma 1, lett. d), della
L. 457/1978) definisce interventi di
ristrutturazione edilizia quelli “rivolti a
trasformare gli organismi edilizi mediante
un insieme sistematico di opere che possono
portare ad un organismo edilizio in tutto o
in parte diverso dal precedente. Tali
interventi comprendono il ripristino o la
sostituzione di alcuni elementi costitutivi
dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e
l'inserimento di nuovi elementi ed impianti
…”.
Come ha già sottolineato questo
Tribunale (cfr. sentenza sez. I – 19/04/2011
n. 582) la giurisprudenza è dell’avviso che
gli interventi edilizi che alterino, anche
sotto il profilo della distribuzione
interna, l’originaria consistenza fisica di
un immobile e comportino l’inserimento di
nuovi impianti e la modifica e
ridistribuzione dei volumi, non si
configurano né come manutenzione
straordinaria, né come restauro o
risanamento conservativo, ma rientrano
nell’ambito della ristrutturazione edilizia
(cfr. TAR Molise – 27/03/2009 n. 99;
Consiglio di Stato, sez. V – 17/12/1996 n.
1551). In altre parole, affinché sia
ravvisabile un intervento di
ristrutturazione edilizia è sufficiente che
risultino modificati la distribuzione della
superficie interna e dei volumi, ovvero
l’ordine in cui risultavano disposte le
diverse porzioni dell'edificio, per il solo
fine di rendere più agevole la destinazione
d’uso esistente: anche in questi casi si
configurano il rinnovo degli elementi
costitutivi dell’edificio ed un’alterazione
dell’originaria fisionomia e consistenza
fisica dell'immobile, incompatibili con i
concetti di manutenzione straordinaria e di
risanamento conservativo che presuppongono
la realizzazione di opere che lascino
inalterata la struttura dell'edificio e la
distribuzione interna della sua superficie
(cfr. Consiglio di Stato, Sez. V –
18/10/2002 n. 5775; Consiglio di Stato, sez.
V – 23/05/2000 n. 2988).
La stessa attività di ristrutturazione, del
resto, può attuarsi attraverso una serie di
interventi che, singolarmente considerati,
ben potrebbero ricondursi agli altri tipi
dianzi enunciati. L’elemento
caratterizzante, però, è la connessione
finalistica delle opere eseguite, che non
devono essere riguardate analiticamente, ma
valutate nel loro complesso al fine di
individuare se esse siano o meno rivolte al
recupero edilizio dello spazio attraverso la
realizzazione di un edificio in tutto o in
parte nuovo.
Nella fattispecie le modifiche rilevate
nel corso del sopralluogo inducono ad
ascrivere l’intervento edilizio nel genus
della ristrutturazione. Nel premettere che
si è innanzi alla trasformazione da albergo
a casa di cura (che ha anche richiesto un
ingente sforzo economico) al piano terra si
è registrata la realizzazione di una camera
mortuaria in luogo della lavanderia, al
piano interrato era in corso il
completamento della piscina, al piano
ammezzato sono stati creati tre ambulatori,
al piano primo sono state attrezzate stanze
con lettini e spazi soggiorno comuni (cfr.
verbale – doc. 8 amministrazione). Sono
quindi ravvisabili i tratti distintivi della
ristrutturazione, per il duplice elemento
del recupero dello spazio e della diversità
e della “non alterità” dell’organismo che si
viene a realizzare rispetto a quello
originario, dato che l’edificio
ristrutturato mantiene una sostanziale
omogeneità rispetto al precedente quanto ai
suoi principali caratteri identificativi
(collocazione, sagoma, altezza, volumetria):
in buona sostanza si compie una modifica
totale o parziale dell’edificio, che in
positivo è rappresentata dalla creazione di
un organismo “diverso” dal precedente, ed in
negativo dal fatto che per effetto delle
opere non vengono sensibilmente alterati i
volumi, le superfici, le dimensioni o la
tipologia del fabbricato (sentenza TAR
Brescia – 11/06/2004 n. 646).
L’invocato art. 10, comma 1, lett. c), del
citato D.P.R. 380/2001 –il quale assoggetta
a permesso di costruire soltanto quegli
interventi di ristrutturazione edilizia che
comportino aumento di unità immobiliari,
modifiche del volume, della sagoma, dei
prospetti o delle superfici, ovvero si
connettano a mutamenti di destinazione d’uso
(limitatamente agli immobili compresi nelle
zone omogenee A)– non era in vigore
all’epoca dell’adozione dell’atto impugnato.
In proposito l’art. 1 della L. 10/1977
stabiliva che “Ogni attività comportante
trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio comunale partecipa agli oneri ad
essa relativi e la esecuzione delle opere è
subordinata a concessione da parte del
sindaco, ai sensi della presente legge”. Il
rinvio alla legislazione regionale compiuto
dall’art. 25, comma 4, della L. 47/1985 –per
stabilire “quali mutamenti, connessi o non
connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso
di immobili o di loro parti, subordinare a
concessione, e quali mutamenti, connessi e
non connessi a trasformazioni fisiche,
dell'uso di immobili o di loro parti siano
subordinati ad autorizzazione”– era stato
recepito con la L.r. 1/2001, il cui art. 2,
comma 1, statuiva che “I mutamenti di
destinazione d'uso connessi alla
realizzazione di opere edilizie sottoposte a
concessione edilizia o ad autorizzazione
edilizia o a denuncia di inizio attività,
sono soggetti, rispettivamente, alla
medesima concessione o autorizzazione o
denuncia di inizio attività”. Dunque nel
caso di ristrutturazione era valida la
regola generale della sottoposizione al
titolo concessorio.
In ogni caso, anche prendendo il Testo unico
dell’edilizia come termine di raffronto, il
Collegio ravvisa nel caso sottoposto
evidenti variazioni nella distribuzione dei
volumi e degli spazi, con la
realizzazione/sostituzione di locali (ad es.
camera mortuaria, piscina, ambulatori,
stanze per i degenti) del tutto avulsi dal
contesto preesistente. La radicale
trasformazione e la ricollocazione degli
ambienti integrano quelle “modifiche”
che l’art. 10 valorizza accanto alla
previsione del permesso di costruire
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 02.03.2012 n. 355 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
contributo per oneri di urbanizzazione è un
corrispettivo di diritto pubblico, di natura
non tributaria, posto a carico del
costruttore a titolo di partecipazione ai
costi delle opere di urbanizzazione in
proporzione all’insieme dei benefici che la
nuova costruzione ne ritrae. Il presupposto
imponibile per il pagamento dei contributi
di urbanizzazione va ravvisato nella domanda
di una maggiore dotazione di servizi (rete
viaria, fognature, ecc.) nell’area di
riferimento, che sia indotta dalla
destinazione d’uso concretamente impressa
all’alloggio, in quanto una diversa
utilizzazione rispetto a quella stabilita
nell’originario titolo abilitativo può
determinare una variazione quantitativa e
qualitativa del carico urbanistico.
In termini generali, il fondamento del
contributo di urbanizzazione –da versare al
momento del rilascio di una concessione
edilizia– non consiste nell'atto
amministrativo in sé bensì nella necessità
di ridistribuire i costi sociali delle opere
di urbanizzazione, facendoli gravare sugli
interessati che beneficiano delle utilità
derivanti dalla presenza delle medesime,
secondo modalità eque per la comunità.
L'entità degli oneri di urbanizzazione è in
buona sostanza correlata alla variazione del
carico urbanistico, sicché è ben possibile
che un intervento di ristrutturazione e
mutamento di destinazione d'uso possa non
comportare aggravi di carico urbanistico e
quindi l'obbligo della relativa
corresponsione degli oneri; al contrario è
altrettanto possibile che in caso di
mutamento di destinazione di uso nell'ambito
della stessa categoria urbanistica, faccia
seguito un maggior carico urbanistico
indotto dalla realizzazione di quanto
assentito e correlativamente siano dovuti
gli oneri concessori.
---------------
Pacifica è la diversa natura degli oneri di
urbanizzazione rispetto ai costi di
costruzione, i quali rappresentano una
compartecipazione comunale all’incremento di
valore della proprietà immobiliare del
costruttore a seguito della nuova
edificazione.
Mentre quindi il contributo per gli oneri di
urbanizzazione ha funzione recuperatoria
delle spese sostenute dalla collettività
comunale in relazione alla trasformazione
del territorio assentita al singolo, il
contributo per costo di costruzione, che è
rapportato alle caratteristiche ed alla
tipologia delle costruzioni e non è
alternativo ad altro valore di genere
diverso, afferisce alla mera attività
costruttiva in sé valutata: l’obbligazione
contributiva per costo di costruzione,
dunque, è a-causale ed appare soffermarsi
sulla produzione di ricchezza connessa
all’utilizzazione edificatoria del
territorio ed alle potenzialità economiche
che ne derivano e, pertanto, ha natura
essenzialmente paratributaria. Il contributo
afferente al costo di costruzione, a norma
dell’art. 6 della L. 10/1977, è determinato
in rapporto alle caratteristiche, alle
tipologie delle costruzioni e delle loro
destinazioni ed ubicazioni (oggi occorre
fare riferimento all’art. 16 del D.P.R.
380/2001).
Sia nella precedente che nell’attuale
normativa in effetti (articoli 3, 5, 6 della
L. 10/1977 e 16 del D.P.R. 380/2001) alle
nuove edificazioni e agli altri interventi –comunque soggetti a titolo abilitativo–
corrisponde il pagamento di un contributo
commisurato all’incidenza degli oneri di
urbanizzazione, nonché al costo di
costruzione. La natura giuridica del
predetto contributo è quella di prestazione
patrimoniale imposta, anche
indipendentemente dall'utilità specifica del
singolo concessionario, comunque tenuto a
concorrere alla spesa pubblica per le
infrastrutture che debbono accompagnare ogni
nuovo insediamento edificatorio (Consiglio
di Stato, sez. VI – 25/08/2009 n. 5059).
In particolare il contributo per oneri
di urbanizzazione è un corrispettivo di
diritto pubblico, di natura non tributaria,
posto a carico del costruttore a titolo di
partecipazione ai costi delle opere di
urbanizzazione in proporzione all’insieme
dei benefici che la nuova costruzione ne
ritrae (cfr. per tutti TAR Puglia Bari,
sez. III – 10/02/2011 n. 243). Il presupposto
imponibile per il pagamento dei contributi
di urbanizzazione va ravvisato nella domanda
di una maggiore dotazione di servizi (rete
viaria, fognature, ecc.) nell’area di
riferimento, che sia indotta dalla
destinazione d’uso concretamente impressa
all’alloggio, in quanto una diversa
utilizzazione rispetto a quella stabilita
nell’originario titolo abilitativo può
determinare una variazione quantitativa e
qualitativa del carico urbanistico (Sentenza
Sezione 11/06/2004 n. 646; TAR Lombardia
Milano, sez. II – 02/10/2003 n. 4502;
Consiglio Stato, sez. V – 25/05/1995 n. 822).
In termini generali, il fondamento del
contributo di urbanizzazione –da versare al
momento del rilascio di una concessione
edilizia– non consiste nell'atto
amministrativo in sé bensì nella necessità
di ridistribuire i costi sociali delle opere
di urbanizzazione, facendoli gravare sugli
interessati che beneficiano delle utilità
derivanti dalla presenza delle medesime,
secondo modalità eque per la comunità.
L'entità degli oneri di urbanizzazione è in
buona sostanza correlata alla variazione del
carico urbanistico, sicché è ben possibile
che un intervento di ristrutturazione e
mutamento di destinazione d'uso possa non
comportare aggravi di carico urbanistico e
quindi l'obbligo della relativa
corresponsione degli oneri; al contrario è
altrettanto possibile che in caso di
mutamento di destinazione di uso nell'ambito
della stessa categoria urbanistica, faccia
seguito un maggior carico urbanistico
indotto dalla realizzazione di quanto
assentito e correlativamente siano dovuti
gli oneri concessori (TAR Lazio Roma,
sez. II – 14/11/2007 n. 11213).
---------------
Nella fattispecie, come ha correttamente
rilevato parte ricorrente, non affiorano
elementi utili a comprovare che il mutamento
di destinazione d'uso sia stato accompagnato
da un’alterazione del carico urbanistico. Al
contrario la Società Astoria ha dato conto
delle riflessioni racchiuse nell’allegato B
alla deliberazione consiliare n. 52/2001,
ove in sede di controdeduzioni
all’osservazione presentata (nell’ambito
della procedura di variante urbanistica
semplificata che ha reso possibile
l’intervento) si dichiara che “si tratta di
trasformazione di destinazione d’uso di un
albergo esistente il cui carico urbanistico
non può essere certo aggravato, né tanto
meno la viabilità” e che “l’intervento non è
che la trasformazione della destinazione
d’uso di un edificio esistente senza
modificare l’aspetto esteriore, né tanto
meno la sagoma, la superficie, … è opera di
urbanizzazione”. In secondo luogo la
ricorrente ha evidenziato come la categoria
non sia mutata (con la trasformazione da
albergo a casa di cura) permanendo una
struttura ricettiva dotata di circa 100
posti letto quando in precedenza l’albergo
ospitava 49 camere (cfr. relazione tecnica
alla D.I.A. del 18/12/1998). Lo stesso punto
7 della convenzione urbanistica così si
esprime “pur ricadendo la struttura
sanitaria … in zona totalmente urbanizzata,
inoltre dotata dei parcheggi previsti dalla
normativa specifica in materia … si ritiene
necessario migliorare l’arredo urbano”.
In presenza di un insediamento capace di
rispondere a bisogni collettivi (come la
struttura preesistente) l’amministrazione –per poter legittimamente esigere il
contributo per gli oneri di urbanizzazione–
avrebbe dovuto dare contezza degli indici o,
comunque, dei presupposti da cui si evinceva
il maggior carico urbanistico addebitabile
al richiesto mutamento di destinazione (cfr.
TAR Lombardia Milano, sez. IV – 04/05/2009
n. 3604).
Non avendo evidenziato la ricorrenza, nel
caso concreto (mediante raffronto tra la
destinazione originaria e quella attuale)
del presupposto del pagamento richiesto –ossia della variazione in aumento del carico
urbanistico– deve ritenersi indebitamente
preteso l’importo di € 31.492,43 per
sanzione ex art. 13 della L. 47/1985, da
restituire alla parte ricorrente.
Pacifica è la diversa natura degli oneri
di urbanizzazione rispetto ai costi di
costruzione, i quali rappresentano una
compartecipazione comunale all’incremento di
valore della proprietà immobiliare del
costruttore a seguito della nuova
edificazione (cfr. TAR Abruzzo Pescara –
18/10/2010 n. 1142).
Mentre quindi il contributo per gli
oneri di urbanizzazione ha funzione recuperatoria delle spese sostenute dalla
collettività comunale in relazione alla
trasformazione del territorio assentita al
singolo, il contributo per costo di
costruzione, che è rapportato alle
caratteristiche ed alla tipologia delle
costruzioni e non è alternativo ad altro
valore di genere diverso, afferisce alla
mera attività costruttiva in sé valutata:
l’obbligazione contributiva per costo di
costruzione, dunque, è a-causale ed appare
soffermarsi sulla produzione di ricchezza
connessa all’utilizzazione edificatoria del
territorio ed alle potenzialità economiche
che ne derivano e, pertanto, ha natura
essenzialmente paratributaria (TAR
Campania Salerno, sez. II – 11/06/2002 n.
459). Il contributo afferente al costo di
costruzione, a norma dell’art. 6 della L.
10/1977, è determinato in rapporto alle
caratteristiche, alle tipologie delle
costruzioni e delle loro destinazioni ed
ubicazioni (oggi occorre fare riferimento
all’art. 16 del D.P.R. 380/2001).
Ne deriva, quindi, che nell’ipotesi di
variazione di destinazione d’uso di un
immobile accompagnata dalla realizzazione di
opere, sussiste il presupposto per il
pagamento della parte di contributo
afferente al costo di costruzione, da
riferire al dato oggettivo della
ristrutturazione dell’edificio
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 02.03.2012 n. 355 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Deve
ritenersi illegittimo un regolamento comunale che
stabilisce in quali zone del territorio
possono essere installati gli impianti radio
base di telefonia cellulare e quali distanze
devono avere dalle abitazioni o dalle aree
sensibili. I comuni possono solo
regolamentare le installazioni delle
stazioni radio base sotto il profilo
urbanistico e territoriale, non potendo
neppure regolamentare l'individuazione dei
siti idonei all'installazione. I comuni
possono esercitare in materia una potestà
regolamentare del tutto sussidiaria, che
concerne esclusivamente i profili
urbanistici e territoriali (con esclusione
dell'individuazione dei siti) e l'eventuale
indicazione di ulteriori, particolari
accorgimenti edilizi che possano utilmente
concorrere alla minimizzazione
dell'esposizione.
A norma dell'art. 86, comma 3, d.lgs. n. 259
del 2003, relativo alla localizzazione di
infrastrutture di telecomunicazioni, è
possibile prescindere dalla destinazione
urbanistica del sito individuato per la loro
installazione in quanto le infrastrutture di
reti pubbliche di comunicazione, di cui agli
art. 87 e 88, sono assimilate ad ogni
effetto alle opere di urbanizzazione
primaria di cui all'art. 16, comma 7, d.P.R.
06.06.2001 n. 380. Ne deriva che, anche alla
luce dell'art. 4, comma 7, l. reg. n. 11 del
2001 gli impianti radiobase di telefonia
mobile di potenza totale non superore a 300
watt non richiedono specifica
regolamentazione urbanistica, per cui sono
illegittime le disposizioni pianificatorie
comunali che introducono in termini assoluti
divieti di installazione per simili
impianti, anche solo su porzioni del
territorio comunale.
La giurisprudenza è ormai da tempo costante nell’affermare
l’inammissibilità della possibilità di
introdurre divieti generalizzati di
collocazioni delle SRB sul territorio
comunale. Deve ritenersi, infatti, “illegittimo un regolamento comunale che
stabilisce in quali zone del territorio
possono essere installati gli impianti radio
base di telefonia cellulare e quali distanze
devono avere dalle abitazioni o dalle aree
sensibili. I comuni possono solo
regolamentare le installazioni delle
stazioni radio base sotto il profilo
urbanistico e territoriale, non potendo
neppure regolamentare l'individuazione dei
siti idonei all'installazione. I comuni
possono esercitare in materia una potestà
regolamentare del tutto sussidiaria, che
concerne esclusivamente i profili
urbanistici e territoriali (con esclusione
dell'individuazione dei siti) e l'eventuale
indicazione di ulteriori, particolari
accorgimenti edilizi che possano utilmente
concorrere alla minimizzazione
dell'esposizione” (così TAR Sicilia
Catania, sez. III, 29.01.2002, n. 140,
successivamente ripresa da TAR Calabria
Catanzaro, sez. II, 05.12.2006, n.
1573, di analogo contenuto).
Ne discende l’illegittimità del
provvedimento di diffida impugnato che trova
il fondamento, almeno in parte,
nell’esistenza di un provvedimento di
localizzazione degli impianti in questione.
Si deve ritenere, infatti, che sia preclusa
la possibilità per il Comune di introdurre,
di fatto, tutele ulteriori rispetto a quelle
già garantite attraverso la corretta
applicazione della norma, non solo
prevedendo la collocazione degli impianti
all’esterno del centro abitato, ma anche
escludendo ogni collocazione di impianti in
intere aree come la “Zona A” (in tal senso
TAR Brescia, sentenza n. 898/2011) ed in
particolare applicando anche in relazione ad
impianti di potenza inferiore a 300 Watt il
limite, previsto solo per quelli di potenza
superiore, della possibilità della loro
realizzazione solo in siti specificamente
individuati.
Il ricorso appare altresì fondato nella
parte in cui tende a far discendere
l’illegittimità dei provvedimenti impugnati
dalla pretesa incompatibilità urbanistica,
secondo il principio sinteticamente e
puntualmente ricordato nella sentenza del
TAR Milano, I, 13.01.2010, n. 23, nella
quale si legge che: “A norma dell'art. 86,
comma 3, d.lgs. n. 259 del 2003, relativo alla
localizzazione di infrastrutture di
telecomunicazioni, è possibile prescindere
dalla destinazione urbanistica del sito
individuato per la loro installazione in
quanto le infrastrutture di reti pubbliche
di comunicazione, di cui agli art. 87 e 88,
sono assimilate ad ogni effetto alle opere
di urbanizzazione primaria di cui all'art.
16, comma 7, d.P.R. 06.06.2001 n. 380. Ne
deriva che, anche alla luce dell'art. 4,
comma 7, l. reg. n. 11 del 2001 gli impianti radiobase di telefonia mobile di potenza
totale non superore a 300 watt non
richiedono specifica regolamentazione
urbanistica, per cui sono illegittime le
disposizioni pianificatorie comunali che
introducono in termini assoluti divieti di
installazione per simili impianti, anche
solo su porzioni del territorio comunale”
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 02.03.2012 n. 351 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: A norma dell'art. 86, comma 3, d.lgs. n. 259 del 2003, relativo alla
localizzazione di infrastrutture di
telecomunicazioni, è possibile prescindere
dalla destinazione urbanistica del sito
individuato per la loro installazione in
quanto le infrastrutture di reti pubbliche
di comunicazione, di cui agli art. 87 e 88,
sono assimilate ad ogni effetto alle opere
di urbanizzazione primaria di cui all'art.
16, comma 7, d.P.R. 06.06.2001 n. 380. Ne
deriva che, anche alla luce dell'art. 4,
comma 7, l. reg. n. 11 del 2001 gli impianti radiobase di telefonia mobile di potenza
totale non superore a 300 watt non
richiedono specifica regolamentazione
urbanistica, per cui sono illegittime le
disposizioni pianificatorie comunali che
introducono in termini assoluti divieti di
installazione per simili impianti, anche
solo su porzioni del territorio comunale.
Con riferimento alla dedotta questione della compatibilità
urbanistica degli impianti di telefonia di
potenza inferiore a 300 W, l’orientamento
ormai consolidato della giurisprudenza è ben
rappresentato nella sentenza del TAR Milano,
I, 13.01.2010, n. 23, nella quale si
legge che: “A norma dell'art. 86, comma 3, d.lgs. n. 259 del 2003, relativo alla
localizzazione di infrastrutture di
telecomunicazioni, è possibile prescindere
dalla destinazione urbanistica del sito
individuato per la loro installazione in
quanto le infrastrutture di reti pubbliche
di comunicazione, di cui agli art. 87 e 88,
sono assimilate ad ogni effetto alle opere
di urbanizzazione primaria di cui all'art.
16, comma 7, d.P.R. 06.06.2001 n. 380. Ne
deriva che, anche alla luce dell'art. 4,
comma 7, l. reg. n. 11 del 2001 gli impianti radiobase di telefonia mobile di potenza
totale non superore a 300 watt non
richiedono specifica regolamentazione
urbanistica, per cui sono illegittime le
disposizioni pianificatorie comunali che
introducono in termini assoluti divieti di
installazione per simili impianti, anche
solo su porzioni del territorio comunale”.
Lo stesso è stato da tempo fatto proprio
anche da questo Tribunale (da ultimo con la
sentenza TAR Brescia, 13.06.2011, n.
898), che, quindi, ravvisa le condizioni per
l’accoglimento del ricorso e il conseguente
annullamento dell’impugnato diniego e
dell’art. 22 delle N.T.A. nella misura in
cui allo stesso è stato attribuito un
significato preclusivo della collocazione di
impianti di telefonia mobile nella zona
urbanistica in questione.
Le previsioni contenute nel PRG del Comune
di Ceto non possono, quindi, considerarsi
ostative all’installazione di detti impianti
in zona D
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 02.03.2012 n. 350 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’ordine
di demolizione, come tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, è un atto
vincolato che non richiede una specifica
valutazione delle ragioni di interesse
pubblico, né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, né una motivazione
sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non
potendo neppure ammettersi l’esistenza di un
affidamento tutelabile alla conservazione di
una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può mai legittimare: dunque in
linea generale l’abusività costituisce di
per sé motivazione sufficiente per
l'adozione della misura repressiva in
argomento.
Non è necessaria la comunicazione di avvio
del procedimento né gli ulteriori momenti di
coinvolgimento procedimentale degli
interessati per l’ordine di demolizione di
opere abusive, in quanto si tratta di
provvedimento alla cui adozione
l’amministrazione comunale è vincolata per
legge.
Si premette che l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, è un atto
vincolato che non richiede una specifica
valutazione delle ragioni di interesse
pubblico, né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, né una motivazione
sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non
potendo neppure ammettersi l’esistenza di un
affidamento tutelabile alla conservazione di
una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può mai legittimare (cfr.
Consiglio di Stato, sez. V – 11/01/2011 n.
79): dunque in linea generale l’abusività
costituisce di per sé motivazione
sufficiente per l'adozione della misura
repressiva in argomento (cfr. TAR Umbria
– 07/12/2010 n. 522).
Con riguardo alle garanzie partecipative
questa Sezione (cfr. sentenza 25/03/2011 n.
473) ha già ritenuto infondata la censura
relativa alla loro violazione: non è infatti
necessaria la comunicazione di avvio del
procedimento né gli ulteriori momenti di
coinvolgimento procedimentale degli
interessati per l’ordine di demolizione di
opere abusive, in quanto si tratta di
provvedimento alla cui adozione
l’amministrazione comunale è vincolata per
legge. In secondo luogo è stato sottolineato
che l’art. 7 della L. 241/1990, per i
procedimenti non a istanza di parte, e ora
l’art. 10-bis della stessa legge per i
procedimenti a istanza di parte, sono due
punti particolari di codificazione dei
principi di correttezza e buon andamento che
impongono all’amministrazione di creare il
contraddittorio con i destinatari degli
effetti dei provvedimenti sia al fine di
consentire il diritto di difesa sia per
acquisire ogni utile elemento in modo da
ridurre il rischio di motivazioni
inadeguate.
Pertanto è sempre necessario (tranne nei
casi di urgenza) che l’amministrazione
esponga in anticipo le proprie ragioni e dia
agli interessati la possibilità di
interloquire. La violazione di tali garanzie
procedimentali tuttavia condiziona la
legittimità del provvedimento finale solo
quando si dimostri che vi è stato un
effettivo travisamento dei fatti (principio
ora esplicitato nell’art. 21-octies, comma
2, secondo periodo della legge 241/1990):
diversamente non sarebbe utile, né
economico, annullare un provvedimento che
può essere adottato di nuovo con lo stesso
contenuto (cfr. sentenza Sezione 09/06/2009
n. 1190)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 02.03.2012 n. 344 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
L.r. 11/2001
stabilisce (art. 4, comma 7) che
gli impianti radiobase per la telefonia
mobile di potenza totale ai connettori di
antenna non superiore a 300 W non richiedono
una specifica regolamentazione urbanistica,
in ragione delle caratteristiche tecniche e
della natura di pubblico servizio
dell'attività svolta i quali consentono una
diffusione capillare delle stazioni
impiegate a tale scopo: sulla base di tale
premessa … il Collegio ha più volte
evidenziato in sede cautelare che
l'installazione di impianti radiobase per la
telefonia mobile di potenza totale ai
connettori di antenna non superiore a 300 W
deve ritenersi consentita, in difetto di
espressi divieti, su tutto il territorio
comunale, senza che sia necessaria
l'individuazione preventiva da parte
dell'amministrazione locale di aree da
destinarsi all'ubicazione di detti impianti.
Tali impianti sono compatibili
anche con le aree di particolare tutela così
come previsto dalla deliberazione della
Giunta Regionale 11/12/2001 n. 7/7351,
recante i criteri per l'individuazione delle
aree nelle quali è consentita
l'installazione degli impianti per le
telecomunicazioni e la radiotelevisione e
per l'installazione dei medesimi, ai sensi
dell'art. 4, comma 2, della L.r. 11/2001.
Il servizio
di telefonia mobile deve essere considerato
un servizio pubblico già ai sensi
dell’allora vigente art. 2, comma 1, del
D.P.R. 19/09/1997 n. 318, a tenore del quale
“L'installazione, l'esercizio e la fornitura
di reti di telecomunicazioni nonché la
prestazione dei servizi ad esse relativi
accessibili al pubblico sono attività di
preminente interesse generale”, mentre
analoga natura rivestono i relativi impianti
trattandosi di infrastrutture gestite da
soggetti privati con criteri
imprenditoriali, per cui la loro corretta
qualificazione è di opere private di
pubblica utilità.
Già in passato la giurisprudenza aveva
ritenuto che, in assenza di una specifica
previsione urbanistica, la collocazione
degli impianti di telefonia mobile deve
ritenersi consentita sull'intero territorio
comunale, non assumendo carattere ostativo
le specifiche destinazioni di zona
(residenziale, verde, agricola, etc.)
rispetto ad infrastrutture di interesse
generale che presuppongono la realizzazione
di una rete che dia uniforme copertura al
territorio, in quanto la loro localizzazione
nelle sole zone in cui ciò è espressamente
consentito si porrebbe in contrasto proprio
con l'esigenza di permettere la copertura
del servizio sull'intero territorio.
A tale orientamento ha aderito anche
questa Sezione, la quale ha richiamato
l'art. 231 del D.P.R. 29.3.1973 n. 156 per
qualificare un impianto come quello in
questione come opera di urbanizzazione
primaria, in quanto tale ubicabile in
qualsiasi parte del territorio comunale: seguendo tale
ragionamento il Collegio aveva infatti
concluso che “… la localizzazione di
impianti come quello considerato è possibile
in qualsiasi zona omogenea, atteso che
senz'altro quello in questione deve
qualificarsi come attrezzatura tecnologica
per le telecomunicazioni, funzionale
all'esercizio di un servizio pubblico”.
Esaminando infine il contenuto del vigente D.Lgs. 259/2003 –non in vigore all'epoca
dell’adozione degli atti impugnati ma che ha
una portata parzialmente ricognitiva delle
precedenti elaborazioni giurisprudenziali–
non si può fare a meno di sottolineare che
l’art. 86, comma 3, assimila ad ogni effetto
le infrastrutture di reti pubbliche di
comunicazione alle opere di urbanizzazione
primaria di cui all'art. 16, comma 7, del
D.P.R. 06/06/2001 n. 380, rendendole senza
ombra di dubbio compatibili con ogni tipo di
zonizzazione anche in deroga a contrastanti
statuizioni della normativa urbanistica
locale.
Sotto un diverso profilo si può richiamare il contenuto della sentenza
del TAR Brescia 03/12/2004 n. 1757, per
cui “… la L.r. 11/2001 –in virtù della
quale l’amministrazione ha emesso il
provvedimento autorizzatorio confermativo–
stabilisce anzitutto (art. 4, comma 7) che
gli impianti radiobase per la telefonia
mobile di potenza totale ai connettori di
antenna non superiore a 300 W non richiedono
una specifica regolamentazione urbanistica,
in ragione delle caratteristiche tecniche e
della natura di pubblico servizio
dell'attività svolta i quali consentono una
diffusione capillare delle stazioni
impiegate a tale scopo: sulla base di tale
premessa … il Collegio ha più volte
evidenziato in sede cautelare che
l'installazione di impianti radiobase per la
telefonia mobile di potenza totale ai
connettori di antenna non superiore a 300 W
deve ritenersi consentita, in difetto di
espressi divieti, su tutto il territorio
comunale, senza che sia necessaria
l'individuazione preventiva da parte
dell'amministrazione locale di aree da
destinarsi all'ubicazione di detti impianti
(cfr. ordinanze conformi della Sezione n.
169 in data 30/01/2004, n. 561 in data 08/04/2004 e n. 1271 in data 23/07/2004).
Peraltro, tali impianti sono compatibili
anche con le aree di particolare tutela così
come previsto dalla deliberazione della
Giunta Regionale 11/12/2001 n. 7/7351,
recante i criteri per l'individuazione delle
aree nelle quali è consentita
l'installazione degli impianti per le
telecomunicazioni e la radiotelevisione e
per l'installazione dei medesimi, ai sensi
dell'art. 4, comma 2, della L.r. 11/2001.
Osserva inoltre il Collegio che il servizio
di telefonia mobile deve essere considerato
un servizio pubblico già ai sensi
dell’allora vigente art. 2, comma 1, del
D.P.R. 19/09/1997 n. 318, a tenore del quale
“L'installazione, l'esercizio e la fornitura
di reti di telecomunicazioni nonché la
prestazione dei servizi ad esse relativi
accessibili al pubblico sono attività di
preminente interesse generale”, mentre
analoga natura rivestono i relativi impianti
trattandosi di infrastrutture gestite da
soggetti privati con criteri
imprenditoriali, per cui la loro corretta
qualificazione è di opere private di
pubblica utilità (cfr. Consiglio di Stato,
sez. VI – 26/08/2003 n. 4847).
Già in passato
la giurisprudenza aveva ritenuto che, in
assenza di una specifica previsione
urbanistica, la collocazione degli impianti
di telefonia mobile deve ritenersi
consentita sull'intero territorio comunale,
non assumendo carattere ostativo le
specifiche destinazioni di zona
(residenziale, verde, agricola, etc.)
rispetto ad infrastrutture di interesse
generale che presuppongono la realizzazione
di una rete che dia uniforme copertura al
territorio, in quanto la loro localizzazione
nelle sole zone in cui ciò è espressamente
consentito si porrebbe in contrasto proprio
con l'esigenza di permettere la copertura
del servizio sull'intero territorio
(Consiglio di Stato, sez. VI – 10/02/2003 n.
673).
A tale orientamento ha aderito anche
questa Sezione, la quale ha richiamato
l'art. 231 del D.P.R. 29.3.1973 n. 156 per
qualificare un impianto come quello in
questione come opera di urbanizzazione
primaria, in quanto tale ubicabile in
qualsiasi parte del territorio comunale
(sentenza 18/09/2002 n. 1177): seguendo tale
ragionamento il Collegio aveva infatti
concluso che “… la localizzazione di
impianti come quello considerato è possibile
in qualsiasi zona omogenea, atteso che
senz'altro quello in questione deve
qualificarsi come attrezzatura tecnologica
per le telecomunicazioni, funzionale
all'esercizio di un servizio pubblico”.
Esaminando infine il contenuto del vigente D.Lgs. 259/2003 –non in vigore all'epoca
dell’adozione degli atti impugnati ma che ha
una portata parzialmente ricognitiva delle
precedenti elaborazioni giurisprudenziali–
non si può fare a meno di sottolineare che
l’art. 86, comma 3, assimila ad ogni effetto
le infrastrutture di reti pubbliche di
comunicazione alle opere di urbanizzazione
primaria di cui all'art. 16, comma 7, del
D.P.R. 06/06/2001 n. 380, rendendole senza
ombra di dubbio compatibili con ogni tipo di
zonizzazione anche in deroga a contrastanti
statuizioni della normativa urbanistica
locale (Tar Veneto, sez. II – 14/06/2004 n.
2041)”
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 02.03.2012 n. 343 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
verifica di anomalia dell’offerta
costituisce un sub-procedimento formalmente
distinto (ancorché collegato) rispetto al
procedimento di evidenza pubblica di
individuazione della proposta migliore, e si
esprime in un’indagine di contenuto
tecnico-economico secondo una precisa ratio di fondo che è quella di
evitare l’aggiudicazione a prezzi tali da
non garantire la qualità del lavoro,
fornitura o servizio oggetto di affidamento.
Il giudizio di verifica della congruità di
un’offerta anomala ha natura globale e
sintetica sulla serietà o meno dell’offerta
nel suo insieme e costituisce espressione di
un potere tecnico-discrezionale
dell’amministrazione di per sé insindacabile
in sede di legittimità, salva l’ipotesi in
cui le valutazioni siano manifestamente
illogiche o fondate su insufficiente
motivazione o affette da errori di fatto. Al
contempo occorre rilevare che la verifica di
anomalia non ha per oggetto la ricerca di
specifiche e singole inesattezze
dell’offerta economica, mirando, invece, ad
accertare se l’offerta, nel suo complesso,
sia attendibile o inattendibile, e dunque se
dia o meno serio affidamento circa la
corretta esecuzione dell’appalto.
Osserva preliminarmente il Collegio che la verifica di anomalia
dell’offerta costituisce un sub-procedimento
formalmente distinto (ancorché collegato)
rispetto al procedimento di evidenza
pubblica di individuazione della proposta
migliore, e si esprime in un’indagine di
contenuto tecnico-economico secondo una
precisa ratio di fondo che è quella di
evitare l’aggiudicazione a prezzi tali da
non garantire la qualità del lavoro,
fornitura o servizio oggetto di affidamento.
La giurisprudenza prevalente ha
ripetutamente osservato che il giudizio di
verifica della congruità di un’offerta
anomala ha natura globale e sintetica sulla
serietà o meno dell’offerta nel suo insieme
(Consiglio di Stato, sez. V – 08/09/2010 n.
6495) e costituisce espressione di un potere
tecnico-discrezionale dell’amministrazione
di per sé insindacabile in sede di
legittimità, salva l’ipotesi in cui le
valutazioni siano manifestamente illogiche o
fondate su insufficiente motivazione o
affette da errori di fatto (TAR Lazio
Roma, sez. I-ter – 14/10/2011 n. 7957;
Consiglio di Stato, sez. V – 11/03/2010 n.
1414; sez. IV – 20/05/2008 n. 2348). Al
contempo occorre rilevare che la verifica di
anomalia non ha per oggetto la ricerca di
specifiche e singole inesattezze
dell’offerta economica, mirando, invece, ad
accertare se l’offerta, nel suo complesso,
sia attendibile o inattendibile, e dunque se
dia o meno serio affidamento circa la
corretta esecuzione dell’appalto (Consiglio
di Stato, sez. VI – 21/05/2009 n. 3146;
sentenza Sezione 10/08/2011 n. 1242, che
risulta appellata)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 02.03.2012 n. 340 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Anche
le offerte che si discostano dalle tabelle
sul costo del lavoro non sono “ex se”
anomale: il parametro certo cui riferire la
valutazione di attendibilità non autorizza
l’esclusione automatica delle offerte che
racchiudono valori inferiori a quelli
minimi, ove siano salvaguardate le
retribuzioni dei lavoratori, per cui un
costo del servizio che si discosti dalle
tabelle non è di per sé incongruo.
Premette
il Collegio che la giurisprudenza ha
ritenuto che anche le offerte che si
discostano dalle tabelle sul costo del
lavoro non sono “ex se” anomale: il
parametro certo cui riferire la valutazione
di attendibilità non autorizza l’esclusione
automatica delle offerte che racchiudono
valori inferiori a quelli minimi, ove siano
salvaguardate le retribuzioni dei
lavoratori, per cui un costo del servizio
che si discosti dalle tabelle non è di per
sé incongruo (TAR Sicilia Catania, sez. III –
01/03/2011 n. 524)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 02.03.2012 n. 340 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
verifica dell’integrità dei plichi non
esaurisce la sua funzione nella
constatazione che gli stessi non hanno
subito manomissioni o alterazioni, ma è
destinata a garantire che il materiale
documentario trovi correttamente ingresso
della procedura di gara, giacché la
pubblicità delle sedute risponde
all’esigenza di tutela non solo della parità
di trattamento di concorrenti, ai quali deve
essere permesso di effettuare gli opportuni
riscontri sulla regolarità formale degli
atti e di avere così la garanzia che non
siano successivamente intervenute indebite
alterazioni, ma anche nell’interesse
pubblico alla trasparenza ed
all’imparzialità dell’azione amministrativa,
le cui conseguenze negative sono
difficilmente apprezzabili ex post una volta
rotti i sigilli ed aperti i plichi, in
mancanza di un riscontro immediato.
E’ noto
che con l’invocata pronuncia (28/07/2011 n.
13) l’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato ha affermato che “la verifica
dell’integrità dei plichi non esaurisce la
sua funzione nella constatazione che gli
stessi non hanno subito manomissioni o
alterazioni, ma è destinata a garantire che
il materiale documentario trovi
correttamente ingresso della procedura di
gara, giacché la pubblicità delle sedute
risponde all’esigenza di tutela non solo
della parità di trattamento di concorrenti,
ai quali deve essere permesso di effettuare
gli opportuni riscontri sulla regolarità
formale degli atti e di avere così la
garanzia che non siano successivamente
intervenute indebite alterazioni, ma anche
nell’interesse pubblico alla trasparenza ed
all’imparzialità dell’azione amministrativa,
le cui conseguenze negative sono
difficilmente apprezzabili ex post una volta
rotti i sigilli ed aperti i plichi, in
mancanza di un riscontro immediato”.
L’Adunanza plenaria ha altresì precisato che
tale regola costituisce corretta
interpretazione dei principi comunitari e di
diritto interno desumibili dall’art. 97
della Costituzione e dalle direttive
2004/17/CE e 2004/18/CE, le quali impongono
–rispettivamente all’art. 10 ed all’art. 2– che le Commissioni aggiudicatrici agiscano
con trasparenza: la norma ha indubbia
portata di principio e deve quindi investire
passaggi essenziali e determinanti degli
esiti delle procedure di gara quale è
l’apertura della busta dell’offerta tecnica,
momento che ha identica rilevanza rispetto
all’apertura della documentazione
amministrativa e dell’offerta economica e
che quindi merita le medesime garanzie, a
tutela di tutti gli interessi coinvolti
(Consiglio di Stato, sez. V – 21/11/2011 n.
6127; sez. III – 04/11/2011 n. 5866; si veda
anche TAR Toscana, sez. I – 10/11/2011 n.
1668; TAR Veneto, sez. I – 05/12/2011 n.
1805; TAR Marche – 14/10/2011 n. 770)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 02.03.2012 n. 340 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Per gli esposti vale una regola di trasparenza bilaterale: i denunciati
possono accedere all’esposto per potersi
meglio difendere ma allo stesso modo i
denuncianti possono accedere agli atti della
procedura che ha preso origine dall’esposto.
Per gli esposti vale una regola di trasparenza bilaterale: i denunciati
possono accedere all’esposto per potersi
meglio difendere (v. CS Sez. VI 25.06.2007 n. 3601) ma allo stesso modo i
denuncianti possono accedere agli atti della
procedura che ha preso origine dall’esposto
(v. CS Ap 20.04.2006 n. 7)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 02.03.2012 n. 336 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'attività
edificatoria deve essere considerata in
aderenza al territorio ed attualizzata in
ragione degli usi.
Nel caso di specie il ricorrente impugna il
provvedimento con il quale il Comune aveva
negato il rilascio della concessione
edilizia per la costruzione di tredici
appartamenti in quanto le urbanizzazioni
primarie e secondarie presenti nella zona
erano state giudicate insufficienti a
sopportare il carico urbanistico della nuova
edificazione e, deduce che i lavori in
questione costituiscono il completamento di
un progetto in gran parte già realizzato.
Il Collegio condivide l’orientamento
giurisprudenziale (C. di S., IV, 13.10.2010,
n. 7486) con il quale è stato sottolineato
come il concetto di completa urbanizzazione
di una determinata area edificabile debba
essere inteso in termini dinamici, e quindi
adattato al differente contenuto di ogni
progetto di edificazione che lo interessi.
In quella occasione è stato affermato che “l'esigenza
di un piano di lottizzazione, quale
presupposto per il rilascio della
concessione edilizia, s'impone anche al fine
di un armonico raccordo con il preesistente
aggregato abitativo, allo scopo di
potenziare le opere di urbanizzazione già
esistenti e, quindi, anche alla più limitata
funzione di armonizzare aree già compromesse
ed urbanizzate, che richiedano una
necessaria pianificazione della «maglia», e
perciò anche in caso di lotto intercluso o
di altri casi analoghi di zona già edificata
e urbanizzata (C. di S., IV, 01.10.2007, n.
5043 e 15.05.2002, n. 2592; V, 01.12.2003,
n. 7799 e 06.10.2000, n. 5326)”.
Osserva il Collegio come l’individuazione
dei servizi necessari per rendere abitabile
una determinata area presupponga
necessariamente la conoscenza del progetto
di utilizzazione edificatoria, e quindi del
suo impatto in termini di abitanti
insediabili e di usi previsti. Tale
necessità si presenta quando l’area viene
utilizzata per la prima volta, ma può
presentarsi anche successivamente, quando
ulteriori interventi modifichino
radicalmente le caratteristiche
dell’insediamento esistente, rendendo palese
la necessità di nuove strutture di servizio.
Osserva il Collegio che il caso ora in esame
ricade nell’ambito di applicazione dei
principi appena riassunti in quanto il
progetto della parte appellata riguarda un
edificio già realizzato, che peraltro viene
radicalmente modificato eliminando un
porticato, originariamente previsto, per
realizzare ben tredici appartamenti. Un
intervento di così rilevante impatto
richiede di per sé lo studio
dell’urbanizzazione dell’area in vista
dell’integrazione delle opere esistenti, e
l’evidenza di tale necessità renda superflua
la sua giustificazione nel corpo del
provvedimento che la affermi. Di
conseguenza, il giudicato formatosi in
relazione ad un diverso e più limitato
progetto di utilizzazione della stessa area
di cui ora si discute non rileva al fine di
determinare gli interventi necessari per
consentire la realizzazione del nuovo
progetto.
Legittimamente, in conclusione, il Comune ha
affermato la necessità di applicare, per
l’ulteriore edificazione, indici e
disciplina propri delle aree da urbanizzare
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 29.02.2012 n. 1177 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Gli atti di inquadramento sono
autoritativi e impugnabili entro termini
perentori.
Lo ha
ribadito il
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 29.02.2012 n. 1174.
In tale sede i giudici di legittimità hanno
avuto modo di precisare che gli atti di
inquadramento dei pubblici dipendenti hanno
carattere provvedimentale sia quando
implicano un apprezzamento delle mansioni
svolte dall’interessato, sia quando si
risolvono nel semplice confronto formale tra
la precedente posizione e quella di nuova
attribuzione, “trattandosi di atti
autoritativi di inserimento del personale
nell’organizzazione dei pubblici uffici,
espressione del potere di supremazia
speciale del datore di lavoro pubblico”.
Una volta riconfermata la natura di tali
atti, ne consegue per il Collegio che essi
devono essere tempestivamente impugnati, per
gli effetti lesivi che da essi derivano sia
sul piano giuridico che su quello economico,
secondo lo schema tipico del giudizio
impugnatorio. La posizione del dipendente,
pertanto, non è quella di titolare di
diritto soggettivo, ma di interesse
legittimo che egli è legittimato a far
valere sollevando tempestivamente, nel
rispetto dei termini decadenziali, contro
l'atto autoritativo che gli attribuisce una
posizione di status e retributiva inferiore
a quella che ritiene spettargli. E’ esclusa,
pertanto, la possibilità di un autonomo
giudizio di accertamento in funzione di
disapplicazione dei provvedimenti
dell'Amministrazione,
atteso che l'azione di accertamento è
esperibile a tutela di un diritto
soggettivo.
In particolare, il termine decadenziale va
individuato nel momento della piena
percezione dei suoi contenuti essenziali
(autorità emanante, contenuto del
dispositivo ed effetto lesivo), senza che
sia necessaria la compiuta conoscenza della
motivazione, la quale può eventualmente
rilevare ai fini della proposizione di
motivi aggiunti
(tratto
da www.diritto.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: In
caso di nullità del provvedimento
dichiarativo della pubblica utilità e degli
atti conseguenti della procedura ablatoria
la domanda risarcitoria del privato va
proposta al giudice ordinario.
Secondo la giurisprudenza anche più recente
della Suprema Corte di Cassazione, la
dichiarazione di pubblica utilità priva di
termini iniziali e finali per l’avvio e
compimento dei lavori e delle occupazioni è
da ritenere radicalmente nulla, onde
l’occupazione costituisce mero comportamento
materiale “...in nessun modo
ricollegabile ad un esercizio abusivo dei
poteri della p.a., sicché spetta al g.o. la
giurisdizione sulla domanda risarcitoria
proposta dal privato” perché in tal caso
essa è “da ritenere emessa in carenza ovvero
in difetto assoluto di attribuzione del
potere stesso, che comporta nullità del
provvedimento dichiarativo della pubblica
utilità e degli atti conseguenti della
procedura ablatoria” (Cass. Civ., SS.UU.,
14.02.2011, n. 3569) (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 28.02.2012 n. 1133 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
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ESPROPRIAZIONE: Quantificazione
del danno da illegittima occupazione dei
suoli nel periodo compreso tra l'immissione
in possesso e l'emanazione del decreto di
esproprio.
In caso di accoglimento della domanda
risarcitoria per l’illegittima occupazione
dei suoli, il danno riferibile all’arco
temporale compreso tra l’immissione nel
possesso dei medesimi e l’emanazione del
decreto di esproprio, secondo l’orientamento
giurisprudenziale consolidato, deve essere
liquidato in misura pari agli interessi
moratori sul valore di mercato del bene in
ciascun anno del periodo di occupazione, con
rivalutazione e interessi dalla data di
proposizione del ricorso di primo grado fino
alla data di deposito della presente
sentenza (cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
01.06.2011, n. 3331) (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 28.02.2012 n. 1130 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Concorsi
e corsi-concorsi per passaggio di aree,
massima discrezionalità della P.A. sul
numero di posti messi a bando.
Per principio generale ripetutamente
affermato dalla giurisprudenza
amministrativa in tema di concorsi, la
determinazione numerica della disponibilità
dei posti da ricoprire costituisce profilo
organizzativo ampiamente discrezionale (v.
fra le altre, TAR Calabria, RC n. 273/1989 e
TAR Lazio,RM II, 1409/1984 ) e ciò vale
anche per quelle procedure che, dopo una
iniziale fase di accertamento di idoneità,
vedono una successiva fase di formazione che
precede la selezione finale (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 28.02.2012 n. 1129 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Se
gli atti comunali sono stati adottati e
approvati dalla Regione, il Comune non può
unilateralmente procedere alla loro revoca
in via di autotutela.
In linea generale e di principio l’esercizio
del potere di autotutela rientra sicuramente
nella potestà ampiamente discrezionale
dell’amministrazione (Cons. Stato Sez. IV
20/06/2006 n. 390; idem 10/11/2003 n. 7136),
ma tale aurea regola secondo il Consiglio di
Stato non appare applicabile nel caso di
specie, in cui il Comune ha revoca in via di
autotutela di atti che sono stati sì
adottati a suo tempo dal Comune, ma che
fanno parte di una procedura per la quale è
intervenuta l’approvazione da parte della
Regione e quindi devono considerasi non più
suscettibili di autotutela in via
unilaterale.
Il Piano Regolatore Generale comunale e, al
pari di esso, una variante generale del
medesimo (come nel caso di specie)
costituisce, com’è noto, un atto a contenuto
normativo recante previsioni e prescrizioni
che disciplinano l’assetto urbanistico del
territorio. Relativamente al procedimento
deputato a dare vita allo strumento de quo,
esso si atteggia come una fattispecie a
formazione successiva e precisamente come un
atto complesso ineguale in cui confluiscono
le determinazioni programmatorie imputabili
sia al Comune in sede di elaborazione, sia
alla Regione, quale Ente sovraordinato, in
sede di approvazione (Cons. Stato Ad. Pl.
n.1 del 09/03/1983).
Se così è, appare evidente che i margini per
adottare misure di autotutela da parte del
Comune sono individuabili solo in
riferimento alla fase dell’avvenuta adozione
dei propri precedenti atti, non potendosi
procedere allo jus poenitendi in
relazione a determinazioni che, come nel
caso di specie, hanno conseguito il visto di
approvazione regionale in virtù di un
silenzio-assenso tipizzato da una norma
legislativa ad hoc.
Il Comune, quindi, ha assunto provvedimenti
in autotutela sull’erroneo presupposto che
gli atti sottoposti a riesame fossero solo
adottati, mentre nella specie questi erano
stati anche approvati dalla Regione e perciò
stesso non più nella disponibilità del solo
Ente locale (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.02.2012 n. 1128 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Individuazione
dei limiti alla legittimazione ad agire
degli enti territoriali per la tutela degli
interessi dei propri amministrati.
Il Consiglio di Stato nella sentenza in
esame ha evidenziato come in merito alla
legittimazione degli enti territoriali al
fine della tutela delle posizioni giuridiche
soggettive ricadenti indistintamente sulla
popolazione residente nel territorio di
competenza, questa Sezione ha già avuto modo
di esprimersi funditus con la
sentenza n. 8686 del 09.12.2010.
In quella occasione, la Sezione ha
evidenziato come “al fine di individuare
esattamente limiti e possibilità
riconosciute agli enti territoriali ai fini
della tutela degli interessi dei propri
amministrati, debba farsi riferimento non
solo all’elaborazione consolidata della
giurisprudenza ma anche, come si dirà
appresso, alle innovazioni normative
sopraggiunte medio tempore e, soprattutto,
ai nuovi profili di intervento riconosciuti
ad ogni tipologia di figura soggettiva
esponenziale di interessi omogenei ai sensi
del decreto legislativo 20.12.2009 n. 198”.
In tale ottica, la Sezione ha ricordato
dapprima come la giurisprudenza
amministrativa in tema di riconoscimento
della legittimazione in capo ad associazioni
private per agire a tutela di interessi
diffusi abbia espresso un principio per cui
questa tipologia di situazioni giuridiche
soggettive possa trovare modi di garanzia
paralleli ed ulteriori rispetto al
meccanismo tradizionale dall’attribuzione
della loro cura ad un soggetto pubblico
predeterminato, sia esso già esistente o
costituito ad hoc.
Ha poi evidenziato come non sia
condivisibile l’ipotesi di “riconoscere,
sic et simpliciter ed in assenza di
un’espressa disposizione normativa, la
legittimazione ad agire a qualsiasi ente
esponenziale di interessi omogenei o, nel
caso in esame, agli enti territoriali in
virtù del loro collegamento con la
collettività ivi stanziata e facendo perno
sull’unico cardine della rappresentatività”,
facendo quindi salva la necessità che, anche
per gli enti territoriali, attributari di
poteri generali di tutela degli interessi
rilevanti per la collettività stanziata, la
legittimazione, per le materie non
direttamente conferitegli dalla legge, vada
individuata secondo i criteri usuali, ossia
quelli che discendono dall’analisi del
tessuto ordinamentale (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 28.02.2012 n. 1127 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
motivazione dell'atto amministrativo deve
consentire in modo agevole di ripercorrere
il percorso logico seguito nell’emanare il
provvedimento di che trattasi. La regola è intesa in modo
ampio, nel senso che la motivazione si
considera presente in tutti i casi in cui
anche “a prescindere dal tenore letterale
dell'atto finale, i documenti
dell'istruttoria offrano elementi
sufficienti ed univoci dai quali possano
ricostruirsi le concrete ragioni… della
determinazione assunta”; rimane fermo però che tale
ricostruzione deve essere possibile, e non
meramente ipotetica o congetturale.
L’onere di motivazione può essere assolto
anche con il rinvio esplicito ad altro atto,
cd. motivazione per relationem: infatti, "se
le ragioni della decisione risultano da
altro atto dell'amministrazione richiamato
dalla decisione stessa, insieme alla
comunicazione di quest'ultima deve essere
indicato e reso disponibile, a norma della
presente legge, anche l'atto cui essa si
richiama”. In proposito l’atto richiamato
deve essere offerto in copia o per lo meno
in visione.
Vanno premessi, per chiarezza di esposizione, alcuni pacifici principi in
tema di motivazione dell’atto
amministrativo. In termini generali, è
infatti del tutto noto che la stessa deve
consentire in modo agevole di ripercorrere
il percorso logico seguito nell’emanare il
provvedimento di che trattasi, come
affermato per tutte da C.d.S. sez. V 11.11.2005 n. 6347 e, nella giurisprudenza
della Sezione, dalla sentenza 16.02.2011 n. 271. La regola è intesa in modo
ampio, nel senso che la motivazione si
considera presente in tutti i casi in cui
anche “a prescindere dal tenore letterale
dell'atto finale, i documenti
dell'istruttoria offrano elementi
sufficienti ed univoci dai quali possano
ricostruirsi le concrete ragioni… della
determinazione assunta”, come affermato ad
esempio da C.d.S. sez. IV 10.05.2005
n. 2231; rimane fermo però che tale
ricostruzione deve essere possibile, e non
meramente ipotetica o congetturale.
L’onere di motivazione poi, come previsto
in modo espresso dall’art. 3 della l. 07.08.1990 n. 241, può essere assolto anche
con il rinvio esplicito ad altro atto, cd.
motivazione per relationem: così come
dispone il comma 3 dell’articolo in
questione, infatti, “se le ragioni della
decisione risultano da altro atto
dell'amministrazione richiamato dalla
decisione stessa, insieme alla comunicazione
di quest'ultima deve essere indicato e reso
disponibile, a norma della presente legge,
anche l'atto cui essa si richiama”. In
proposito, come ha chiarito sempre la
giurisprudenza, l’atto richiamato deve
essere offerto in copia o per lo meno in
visione: così sul punto C.d.S. sez. IV 24.12.2007 n.
6653 e 20.10.2000 n. 5619
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 27.02.2012 n. 307 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le
scelte effettuate dalla pubblica
amministrazione allorquando essa predispone
ed approva uno strumento urbanistico
generale sono espressione di una
discrezionalità molto ampia, sindacabile in
sede giurisdizionale solo per errori di
fatto, ovvero per abnormità o irrazionalità
delle stesse.
E' ben noto il costante orientamento –sul quale da ultimo da C.d.S. sez. IV 16.02.2011 n. 1015–
secondo il quale le scelte effettuate dalla
pubblica amministrazione allorquando essa
predispone ed approva uno strumento
urbanistico generale sono espressione di una
discrezionalità molto ampia, sindacabile in
sede giurisdizionale solo per errori di
fatto, ovvero per abnormità o irrazionalità
delle stesse
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 27.02.2012 n. 289 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: La
legittimazione ad agire delle associazioni
e/o comitati ambientalisti spetta non solo
con riferimento alla tutela degli interessi
ambientali in senso stretto, ma anche con
riferimento alla tutela ambientale in senso
lato, che implica in quanto tale la
possibilità di impugnare atti aventi
finalità urbanistica-edilizia.
Invero, la materia ambientale per
le peculiari caratteristiche del bene
protetto si atteggia in modo particolare:
la tutela dell’ambiente, infatti, lungi dal
costituire un autonomo settore d’intervento
dei pubblici poteri, assume il ruolo
unificante e finalizzante di distinte tutele
giuridiche predisposte a favore dei diversi
beni della vita che nell’ambiente si
collocano (assumendo un carattere per così
dire trasversale rispetto alle ordinarie
materie e competenze amministrative, che
connotano anche le distinzioni fra
ministeri.
---------------
La tutela paesaggistica ormai si è evoluta
rispetto al momento in cui venne introdotta
con il d.l. 312/1985, e non si realizza più
soltanto attraverso le forme del binomio
vincolo paesaggistico/autorizzazione
paesaggistica previsto dagli artt. 146 e ss.
d.lgs. 42/2004, ma anche attraverso
ulteriori strumenti giuridici che prevedono
strumenti di tutela diversi dalla necessità
di uno specifico titolo abilitativo
ulteriore rispetto a quello edilizio.
Si pensi, ad esempio, alle previsioni
dell’art. 25, co. 1, n.t.a. del Piano
territoriale paesistico regionale lombardo
che stabilisce che: "in tutto il territorio
regionale i progetti che incidono
sull’esteriore aspetto dei luoghi e degli
edifici sono soggetti a esame sotto il
profilo del loro inserimento nel contesto",
e dell’art. 25, co. 3, che assegna al
progettista privato il compito di effettuare
quest'esame perché stabilisce che: "ai fini
dell’esame di cui al comma 1, il
progettista, in fase di elaborazione del
progetto, considera preliminarmente la
sensibilità paesistica del sito e il grado
di incidenza del progetto", seguito dal
successivo art. 29, co. 1, che precisa che è
lo stesso progettista privato che,
effettuato l'esame paesistico, classifica
l'intervento in quanto prevede che: "ferma
restando la facoltà di verifica da parte
dell’amministrazione competente, il
progettista, sulla base dei criteri di cui
agli articoli 26 e 27, determina l’entità
dell’impatto paesistico di cui all’articolo
28. L’impatto potrà risultare inferiore o
superiore ad una soglia di rilevanza".
Questo sistema -in cui la classificazione
effettuata dal progettista privato è
decisiva per alleggerire o aggravare il
prosieguo della procedura amministrativa (in
quanto l’art. 29, co. 2, stabilisce che: "i
progetti il cui impatto non superi la soglia
di rilevanza si intendono automaticamente
accettabili sotto il profilo paesistico e,
quindi, possono essere presentati
all’amministrazione competente per i
necessari atti di assenso o per la denuncia
di inizio attività senza obbligo di
presentazione della relazione paesistica";
mentre correlativamente per i progetti che
superino la soglia di rilevanza, l’art. 29,
co. 3, invece, prevede che: "i progetti il
cui impatto superi la soglia di rilevanza
sono soggetti a giudizio di impatto
paesistico e pertanto le istanze di
autorizzazione o concessione edilizia ovvero
della dichiarazione di inizio attività
devono essere corredate dalla relazione
paesistica di cui all’articolo 25, comma 6;
la presentazione di tale relazione
costituisce condizione necessaria per il
rilascio dei successivi atti di assenso o
per l’inizio dei lavori in caso di
dichiarazione di inizio attività")–
null’altro prevede se non una tutela
paesistica che si svolge in forme diverse
dalla necessità di apposita autorizzazione
paesaggistica (prevista per le sole aree
sottoposte a vincolo).
Deve, pertanto, affermarsi che nell’attuale
sviluppo dell’ordinamento giuridico l’ambito
di applicazione della tutela paesaggistica
non riguarda ormai soltanto le aree oggetto
di vincolo di tutela, in quanto il vincolo
di tutela ex artt. 146 e ss. d.lgs. 42/2004
è soltanto uno degli strumenti attraverso
cui l’ordinamento persegue l’obiettivo della
tutela del paesaggio. Tra tali altri
istituti finalizzati alla tutela del
paesaggio vi sono anche la relazione
sull’impatto paesistico di cui all’art. 29
delle n.t.a. del P.T.P.R. o, come nel caso
in esame, la perimetrazione come ambito di
elevata naturalità sottoposto a regime di
conservazione.
In via generale, va rilevato che la più recente ed avanzata posizione
giurisprudenziale (cfr. TAR Sardegna,
sez. II, 06.10.2008 n. 1816; TAR
Calabria, Sez. I 30.04.2009 n. 378; Cons. St.
Sez. IV 11.11.2011 n. 5986) ha posto in luce
che la legittimazione ad agire delle
associazioni e/o comitati ambientalisti
spetta non solo con riferimento alla tutela
degli interessi ambientali in senso stretto,
ma anche con riferimento alla tutela
ambientale in senso lato, che implica in
quanto tale la possibilità di impugnare atti
aventi finalità urbanistica-edilizia,
specificando che “la materia ambientale per
le peculiari caratteristiche del bene
protetto si atteggia in modo particolare:
la tutela dell’ambiente, infatti, lungi dal
costituire un autonomo settore d’intervento
dei pubblici poteri, assume il ruolo
unificante e finalizzante di distinte tutele
giuridiche predisposte a favore dei diversi
beni della vita che nell’ambiente si
collocano (assumendo un carattere per così
dire trasversale rispetto alle ordinarie
materie e competenze amministrative, che
connotano anche le distinzioni fra
ministeri” (cfr. Cons. St. Sez. IV
11.11.2011 n. 5986)
La stretta relazione che sempre più spesso
corre tra l’urbanistica e l’ambiente è ben
rappresentata dalla stretta interconnessione
sviluppatasi in questi anni fra i contenuti
della pianificazione urbanistica e quelli
della tutela ambientale, derivante dalla
circostanza che il territorio, inteso in
tutte le sue accezioni, è un bene
fondamentale avente carattere costitutivo
dello stesso bene “ambiente” (su questo
profilo si veda ora Corte cost. 21.11.2011
n. 309: “Sul territorio, infatti, «vengono a
trovarsi di fronte» –tra gli altri– «due
tipi di interessi pubblici diversi: quello
alla conservazione del paesaggio, affidato
allo Stato, e quello alla fruizione del
territorio, affidato anche alle Regioni»
(sentenza n. 367 del 2007, punto 7.1. del
Considerato in diritto).
Con riguardo alla fattispecie all’esame, va
rilevato che –già nel ricorso introduttivo– la ricorrente aveva evidenziato che
l’intervento edilizio assentito dal Comune
di Aviatico era localizzato “in zona
agricola di indiscusso pregio paesistico ed
ambientale, già classificata dal Piano
territoriale Paesistico Regionale (P.T.P.R.)
come ambito di elevata naturalità e dal
Piano Territoriale di Coordinamento
Provinciale (P.T.C.P.) come contesto di
elevato pregio naturalistico e paesistico”.
Va ricordato, al riguardo, quanto affermato
dalla Sezione con la recente sentenza
01.07.2010 n. 2411.
<<La tutela paesaggistica, infatti, ormai si
è evoluta rispetto al momento in cui venne
introdotta con il d.l. 312/1985, e non si
realizza più soltanto attraverso le forme
del binomio vincolo
paesaggistico/autorizzazione paesaggistica
previsto dagli artt. 146 e ss. d.lgs. 42/2004,
ma anche attraverso ulteriori strumenti
giuridici che prevedono strumenti di tutela
diversi dalla necessità di uno specifico
titolo abilitativo ulteriore rispetto a
quello edilizio.
Si pensi, ad esempio, alle
previsioni dell’art. 25, co. 1, n.t.a. del
Piano territoriale paesistico regionale
lombardo che stabilisce che: "in tutto il
territorio regionale i progetti che incidono
sull’esteriore aspetto dei luoghi e degli
edifici sono soggetti a esame sotto il
profilo del loro inserimento nel contesto",
e dell’art. 25, co. 3, che assegna al
progettista privato il compito di effettuare
quest'esame perché stabilisce che: "ai fini
dell’esame di cui al comma 1, il
progettista, in fase di elaborazione del
progetto, considera preliminarmente la
sensibilità paesistica del sito e il grado
di incidenza del progetto", seguito dal
successivo art. 29, co. 1, che precisa che è
lo stesso progettista privato che,
effettuato l'esame paesistico, classifica
l'intervento in quanto prevede che: "ferma
restando la facoltà di verifica da parte
dell’amministrazione competente, il
progettista, sulla base dei criteri di cui
agli articoli 26 e 27, determina l’entità
dell’impatto paesistico di cui all’articolo
28. L’impatto potrà risultare inferiore o
superiore ad una soglia di rilevanza".
Questo sistema -in cui la classificazione
effettuata dal progettista privato è
decisiva per alleggerire o aggravare il
prosieguo della procedura amministrativa (in
quanto l’art. 29, co. 2, stabilisce che: "i
progetti il cui impatto non superi la soglia
di rilevanza si intendono automaticamente
accettabili sotto il profilo paesistico e,
quindi, possono essere presentati
all’amministrazione competente per i
necessari atti di assenso o per la denuncia
di inizio attività senza obbligo di
presentazione della relazione paesistica";
mentre correlativamente per i progetti che
superino la soglia di rilevanza, l’art. 29,
co. 3, invece, prevede che: "i progetti il
cui impatto superi la soglia di rilevanza
sono soggetti a giudizio di impatto
paesistico e pertanto le istanze di
autorizzazione o concessione edilizia ovvero
della dichiarazione di inizio attività
devono essere corredate dalla relazione
paesistica di cui all’articolo 25, comma 6;
la presentazione di tale relazione
costituisce condizione necessaria per il
rilascio dei successivi atti di assenso o
per l’inizio dei lavori in caso di
dichiarazione di inizio attività")– null’altro prevede se non una tutela
paesistica che si svolge in forme diverse
dalla necessità di apposita autorizzazione
paesaggistica (prevista per le sole aree
sottoposte a vincolo).
Deve, pertanto, affermarsi che nell’attuale
sviluppo dell’ordinamento giuridico l’ambito
di applicazione della tutela paesaggistica
non riguarda ormai soltanto le aree oggetto
di vincolo di tutela, in quanto il vincolo
di tutela ex artt. 146 e ss. d.lgs. 42/2004 è
soltanto uno degli strumenti attraverso cui
l’ordinamento persegue l’obiettivo della
tutela del paesaggio. Tra tali altri
istituti finalizzati alla tutela del
paesaggio vi sono anche la relazione
sull’impatto paesistico di cui all’art. 29
delle n.t.a. del P.T.P.R. o, come nel caso
in esame, la perimetrazione come ambito di
elevata naturalità sottoposto a regime di
conservazione.>>.
Tale indirizzo ermeneutico è stato
espressamente recepito e confermato, in sede
di appello, dal Consiglio di Stato (cfr.
Sez. IV 11.11.2011 n. 5986).
Nella specie è poi evidente la stretta
consequenzialità sussistente fra tutela
dell’ambito naturalistico e la restrittiva
disciplina edilizia in zona agricola di cui
agli artt. 59/60 della L.R. n. 12 del 2005,
della quale viene lamentata la violazione da
parte della ricorrente associazione
ambientalistica
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 27.02.2012 n. 274 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: L’interesse
al ricorso ex art. 100 c.p.c. deve
sussistere sia nel momento di proposizione
sia in quello di decisione del gravame.
Pertanto, il sopravvenire di un nuovo
provvedimento sostitutivo di un precedente
ed idoneo a provocarne la caducazione, fa
venir meno in chi abbia impugnato il primo
provvedimento l'interesse a coltivare la
suddetta impugnazione, poiché la situazione
pregiudizievole lamentata si verificherebbe
ugualmente, nonostante l'annullamento
(eventuale) del provvedimento già impugnato,
in forza di quello sopravvenuto.
Per converso, tale effetto non si verifica
allorché siano emanati provvedimenti
dipendenti da quello impugnato e che ne
presuppongono l'esistenza, perché in tal
caso questi ultimi cessano di aver effetti
con l'annullamento del primo.
In tema di titoli edilizi l'esposto
principio comporta l'improcedibilità delle
impugnazioni dei permessi allorché quello
impugnato sia stato sostituito con altro che
ne autorizzi anche se sotto la denominazione
di "variante", un progetto nuovo e diverso,
sul quale si siano esplicate nuove ed
autonome valutazioni dell'Amministrazione,
idonee a legittimare l'edificazione
indipendentemente dalla prima concessione.
Al contrario, il rilascio di autorizzazioni
di variante vere e proprie, tese a
modificazioni dell'originario progetto che
ne presuppongono tuttavia l'esistenza, non
comporta l'improcedibilità del ricorso
proposto contro il primo e fondamentale
provvedimento autorizzatorio, poiché tali
varianti ed i provvedimenti che li
autorizzano non hanno autonoma esistenza,
perdono di oggetto e vengono a cadere
all'atto dell'annullamento del precedente
provvedimento.
Invero,
costituisce generale principio del processo
amministrativo (v. ora l’art. 35 del c.p.a.) l’affermazione che l’interesse al ricorso
ex art. 100 c.p.c. deve sussistere sia nel
momento di proposizione sia in quello di
decisione del gravame (cfr. ex multis TAR
Lecce, Sez. I, 07.09.2010 n. 1942).
Pertanto, il sopravvenire di un nuovo
provvedimento sostitutivo di un precedente
ed idoneo a provocarne la caducazione, fa
venir meno in chi abbia impugnato il primo
provvedimento l'interesse a coltivare la
suddetta impugnazione, poiché la situazione
pregiudizievole lamentata si verificherebbe
ugualmente, nonostante l'annullamento
(eventuale) del provvedimento già impugnato,
in forza di quello sopravvenuto.
Per converso, tale effetto non si verifica
allorché siano emanati provvedimenti
dipendenti da quello impugnato e che ne
presuppongono l'esistenza, perché in tal
caso questi ultimi cessano di aver effetti
con l'annullamento del primo.
In tema di titoli edilizi l'esposto
principio comporta l'improcedibilità delle
impugnazioni dei permessi allorché quello
impugnato sia stato sostituito con altro che
ne autorizzi anche se sotto la denominazione
di "variante", un progetto nuovo e diverso,
sul quale si siano esplicate nuove ed
autonome valutazioni dell'Amministrazione,
idonee a legittimare l'edificazione
indipendentemente dalla prima concessione.
Al contrario, il rilascio di autorizzazioni
di variante vere e proprie, tese a
modificazioni dell'originario progetto che
ne presuppongono tuttavia l'esistenza, non
comporta l'improcedibilità del ricorso
proposto contro il primo e fondamentale
provvedimento autorizzatorio, poiché tali
varianti ed i provvedimenti che li
autorizzano non hanno autonoma esistenza,
perdono di oggetto e vengono a cadere
all'atto dell'annullamento del precedente
provvedimento (cfr. Cons. St., Sez. V,
14.01.1991 n. 44) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 27.02.2012 n. 274 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
illegittimo il permesso di costruire
rilasciato in zona agricola per la
costruzione di residenze dei figli
dell'imprenditore agricolo.
Con il
secondo motivo aggiunto, il WWF rileva che
il permesso di costruire è stato rilasciato
in assenza dei presupposti richiesti
dall’art. 59 della L.R. n. 12/2005 per gli
interventi in area agricola, che consente di
costruire solo abitazioni da destinare alla
residenza dell’imprenditore agricolo e dei
dipendenti, mentre le tre abitazioni
assentite sono destinate alla residenza dei
tre figli, i quali non costituiscono la
forza lavoro dell’azienda, ma partecipano
solo saltuariamente all’attività agricola.
La doglianza risulta fondata.
La legislazione regionale lombarda in tema
di governo del territorio (L.R. 11.3.2005 n.
12), agli artt. 59, 60, 61 e 62, disciplina
le modalità di edificazione in ambito
agricolo. Con tali norme, riprendendo
sostanzialmente i contenuti dell’
antecedente L. R. 07.06.1980 n. 93, in materia
di edificazione nelle zone agricole, si
persegue lo scopo di valorizzare e
recuperare il patrimonio agricolo, limitare
l'utilizzazione edilizia dei territori
agricoli, assicurando il soddisfacimento
delle esigenze degli imprenditori e dei
lavoratori agricoli.
La giurisprudenza formatasi sulla L.R. n. 93
del 1980 aveva rilevato che tale disciplina
non autorizzava il rilascio di concessioni
ad altri che all'imprenditore agricolo,
previo accertamento di effettiva esistenza e
funzionamento dell'azienda agricola (art.
3); il che significa che sono ammessi
soltanto opere o interventi attinenti
all'agricoltura, mentre restano interdette
le trasformazioni del territorio che non
siano funzionali all'attività agricola (cfr.
TAR Milano, Sez. 2, 25.01.1995 n. 90,
T.A.R. Brescia 04.10.1993 n. 798).
Ora l’art. 59 della L.R. 11.3.2005 n. 12, al
c.1, dispone che in zona classificata
agricola “sono ammesse esclusivamente le
opere realizzate in funzione della
conduzione del fondo e destinate alle
residenze dell'imprenditore agricolo e dei
dipendenti dell'azienda, nonché alle
attrezzature e infrastrutture produttive
necessarie per lo svolgimento delle attività
di cui all'articolo 2135 del codice civile
quali stalle, silos, serre, magazzini,
locali per la lavorazione e la conservazione
e vendita dei prodotti agricoli secondo i
criteri e le modalità previsti dall'articolo
60”.
Il secondo comma soggiunge che “La
costruzione di nuovi edifici residenziali di
cui al comma 1 è ammessa qualora le esigenze
abitative non possano essere soddisfatte
attraverso interventi sul patrimonio
edilizio esistente”.
Può dunque affermarsi che la disciplina
legislativa consente l’edificazione in zona
agricola solo al ricorrere dei restrittivi e
tassativi (“esclusivamente”)
requisiti indicati
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 27.02.2012 n. 274 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sebbene
sia stato superato il criterio della "fedele ricostruzione" (di cui all'art. 31
l. 05.08.1978 n. 457), espunto dalle
disposizioni contenute nell'art. 3, comma 1,
lett. d), d.P.R. 06.06.2001 n. 380, la
ristrutturazione edilizia, per essere tale e
non finire per coincidere con la nuova
costruzione, deve conservare le
caratteristiche fondamentali dell'edificio
preesistente, dovendo la successiva
ricostruzione dell'edificio riprodurre le
precedenti linee fondamentali quanto a
sagoma e volumi.
Ciò che
contraddistingue la ristrutturazione dalla
nuova edificazione è la già avvenuta
trasformazione del territorio, attraverso
una edificazione di cui si conservi la
struttura fisica (sia pure con la
sovrapposizione di un "insieme sistematico
di opere, che possono portare ad un
organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente"), ovvero la cui
stessa struttura fisica venga del tutto
sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con
ricostruzione, se non "fedele" -termine
espunto dall'attuale disciplina-, comunque,
rispettosa della volumetria e della sagoma
della costruzione preesistente.
Va precisato il differente regime cui sono
soggetti gli interventi di ristrutturazione
edilizia rispetto alle nuove costruzioni:
ove la ristrutturazione mantenga inalterati
i parametri urbanistici ed edilizi
preesistenti, l'intervento non è subordinato
al rispetto dei vincoli posti dagli
strumenti urbanistici sopravvenuti, giacché
la legittimazione urbanistica del manufatto
da demolire si trasferisce su quello
ricostruito.
In aggiunta a tali precisazioni (sentenza 21.11.2011 n. 309 della Corte
Costituzionale) va ricordato che la
giurisprudenza ha affermato (cfr. Cons. St.,
Sez. IV, 28.07.2005 n. 4011) che,
sebbene sia stato superato il criterio della
"fedele ricostruzione" (di cui all'art. 31
l. 05.08.1978 n. 457), espunto dalle
disposizioni contenute nell'art. 3, comma 1,
lett. d), d.P.R. 06.06.2001 n. 380, la
ristrutturazione edilizia, per essere tale e
non finire per coincidere con la nuova
costruzione, deve conservare le
caratteristiche fondamentali dell'edificio
preesistente, dovendo la successiva
ricostruzione dell'edificio riprodurre le
precedenti linee fondamentali quanto a
sagoma e volumi.
Inoltre, la giurisprudenza ha sottolineato
(cfr. Cons. St., Sez. VI, 16.12.2008
n. 6214; Sez. IV, 16.06.2008 n. 2981;
Sez. V, 04.03.2008 n. 918; Sez. IV, 26.02.2008 n. 681) che ciò che
contraddistingue la ristrutturazione dalla
nuova edificazione è la già avvenuta
trasformazione del territorio, attraverso
una edificazione di cui si conservi la
struttura fisica (sia pure con la
sovrapposizione di un "insieme sistematico
di opere, che possono portare ad un
organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente"), ovvero la cui
stessa struttura fisica venga del tutto
sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con
ricostruzione, se non "fedele" -termine
espunto dall'attuale disciplina-, comunque,
rispettosa della volumetria e della sagoma
della costruzione preesistente.
Infine, va precisato il differente regime
cui sono soggetti gli interventi di
ristrutturazione edilizia rispetto alle
nuove costruzioni: ove la ristrutturazione
mantenga inalterati i parametri urbanistici
ed edilizi preesistenti, l'intervento non è
subordinato al rispetto dei vincoli posti
dagli strumenti urbanistici sopravvenuti,
giacché la legittimazione urbanistica del
manufatto da demolire si trasferisce su
quello ricostruito (cfr. TAR Milano, Sez. II,
07.09.2010 n. 5122, Cons. St, Sez. V, 14.11.1996 n. 1359; Cons. St., Sez. V, 28.03.1998 n. 369; Cass. civ., sez. II, 12.06.2001 n. 7909; Tar Calabria, Reggio
Calabria, 24.01.2001 n. 36; Puglia,
Bari, sez. III, 22.07.2004 n. 3210)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 27.02.2012 n. 273 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'art.
9 della l. 24.03.1989 n. 122, che
consente di realizzare gratuitamente "nel
sottosuolo" parcheggi da destinare a
pertinenza delle singole unità immobiliari,
è una norma che ponendosi in deroga "…agli
strumenti urbanistici ed ai regolamenti
edilizi vigenti…" è di stretta
interpretazione, per cui deve trovare
rigorosa applicazione solo nelle fattispecie
in essa espressamente previste.
Nel primo motivo si sostiene che il provvedimento sarebbe illegittimo per
violazione dell’art. 9 l. 122/1989 che
consente parcheggi pertinenziali anche in
deroga agli strumenti di piano.
In realtà, l’art. 9 l. 122/1989 prevede che “i
proprietari di immobili possono realizzare
nel sottosuolo degli stessi ovvero nei
locali siti al piano terreno dei fabbricati
parcheggi da destinare a pertinenza delle
singole unità immobiliari, anche in deroga
agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti
edilizi vigenti. Restano in ogni caso fermi
i vincoli previsti dalla legislazione in
materia paesaggistica ed ambientale ed i
poteri attribuiti dalla medesima
legislazione alle regioni e ai Ministeri
dell'ambiente e per i beni culturali ed
ambientali da esercitare motivatamente nel
termine di 90 giorni”.
Nel caso in esame, il garage sarebbe stato
realizzato non nell’interrato, né nei locali
al piano terra, ma in un corpo aggiuntivo
posto al piano terra.
La difesa del ricorrente ritiene che
giurisprudenzialmente sia possibile
estendere la previsione dell’art. 9 anche ai
locali realizzati fuori terra, ma di recente
il Supremo consesso della giustizia
amministrativa è andato in altra direzione,
rilevando la natura di norma di stretta
interpretazione dell’art. 9 in questione (CdS,
sez. IV, sentenza 13.07.2011 n. 4234:
l'art. 9 della l. 24.03.1989 n. 122, che
consente di realizzare gratuitamente "nel
sottosuolo" parcheggi da destinare a
pertinenza delle singole unità immobiliari,
è una norma che ponendosi in deroga "…agli
strumenti urbanistici ed ai regolamenti
edilizi vigenti…" è di stretta
interpretazione, per cui deve trovare
rigorosa applicazione solo nelle fattispecie
in essa espressamente previste; sul punto v.
anche Tar L’Aquila, sez. I, 19.04.2011, n.
208)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 27.02.2012 n. 265 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia di impugnazione del permesso di
costruire, il terzo ha titolo ad adire il
giudice amministrativo quando esista una
situazione soggettiva ed oggettiva di
stabile collegamento con la zona coinvolta
da una costruzione, che, se illegittimamente
assentita, sia idonea ad arrecare
pregiudizio ai valori urbanistici della zona
medesima, onde la qualifica giuridica di
proprietario di un bene immobile confinante
deve di per sé ritenersi idonea a radicare
la legittimazione e l'interesse al ricorso,
non occorrendo altresì la verifica della
concreta lesione di un qualsiasi altro
interesse giuridicamente rilevante.
L’orientamento giurisprudenziale dominante,
che il Collegio condivide, è dell’avviso
che, in materia di impugnazione del permesso
di costruire, il terzo ha titolo ad adire il
giudice amministrativo quando esista una
situazione soggettiva ed oggettiva di
stabile collegamento con la zona coinvolta
da una costruzione, che, se illegittimamente
assentita, sia idonea ad arrecare
pregiudizio ai valori urbanistici della zona
medesima, onde la qualifica giuridica di
proprietario di un bene immobile confinante
deve di per sé ritenersi idonea a radicare
la legittimazione e l'interesse al ricorso,
non occorrendo altresì la verifica della
concreta lesione di un qualsiasi altro
interesse giuridicamente rilevante (cfr.
Consiglio Stato, sez. IV, 29.07.2009, n.
4756; Consiglio di Stato, sez. IV,
05.01.2011, n. 18; 20.10.2010, n. 7591; sez.
IV, 31.05.2007 n. 2849; sez. V, 07.05.2008,
n. 2086; sez. VI, 15.06.2010, n. 3744; sez.
IV, 12.05.2009, n. 2908; Tar Lombardia,
Milano, sez. II, 08.09.2011, 2194).
La giurisprudenza invocata dalla
controinteressata, secondo cui il criterio
della vicinitas non sarebbe
sufficiente a radicare la legittimazione e
l’interesse al ricorso, si riferisce invece
a fattispecie –quale è quella oggetto del
presente giudizio– nelle quali non sono
gravati titoli edilizi, ma, piuttosto, atti
di pianificazione generale.
Nel caso di specie, la realizzazione della
costruzione oggetto del permesso di
costruire impugnato è indubbiamente idonea
ad arrecare un pregiudizio ai valori
urbanistici della zona in cui risiedono i
ricorrenti ed è inoltre lesiva
dell’interesse di questi ultimi al rispetto
del vincolo di asservimento apposto
sull’area di proprietà della
controinteressata dal loro avente causa.
Sussiste, quindi, piena legittimazione ed
interesse al ricorso in capo ai signori .... (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 24.02.2012 n. 623 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Un'area
edificatoria già utilizzata a fini edilizi è
suscettibile di ulteriore edificazione solo
quando la costruzione su di essa realizzata
non esaurisca la volumetria consentita dalla
normativa vigente al momento del rilascio
dell'ulteriore permesso di costruire,
dovendosi considerare non solo la superficie
libera ed il volume ad essa corrispondente,
ma anche la cubatura del fabbricato
preesistente al fine di verificare se, in
relazione all'intera superficie dell'area
(superficie scoperta più superficie
impegnata dalla costruzione preesistente),
residui l'ulteriore volumetria di cui si
chiede la realizzazione, a nulla rilevando
che questa possa insistere su una parte del
lotto catastalmente divisa”.
Ai fini del calcolo della volumetria
disponibile su un lotto già parzialmente
edificato occorre, dunque, considerare tutte
le costruzioni che comunque già insistono
sull'area, con irrilevanza di eventuali
successivi frazionamenti catastali.
L'asservimento dei suoli in caso di
edificazione costituisce una qualità
oggettiva del fondo -il cui contenuto
consiste in un vincolo automatico imposto
all'area in relazione alla volumetria dalla
stessa espressa- che non necessita di alcuno
specifico atto di asservimento o di
trascrizione. Tale predicato segue "ambulatoriamente"
i destini del fondo stesso e si impone a
chiunque.
Il c.d. vincolo d'asservimento si
costituisce, invero, nei riguardi delle
parti e dei terzi, con il rilascio del
titolo edilizio: ed è opponibile a qualunque
terzo acquirente, anche in assenza
dell’obbligo di una sua trascrizione nei
registri immobiliari.
---------------
Se il vincolo di asservimento è sensibile
alle sopravvenienze della pianificazione
-non ponendo limiti alla facoltà del
pianificatore generale di dettare una
diversa disciplina urbanistica dell’area-
non può, però, affermarsi l’irrilevanza
della già utilizzata vocazione edificatoria
solo per effetto delle modifiche alla
destinazione urbanistica dell’area asservita
intervenute nel corso del tempo.
Non può, cioè, ritenersi che l’attribuzione
all’area asservita, per un certo periodo, di
una destinazione differente da quella
originaria, comporti -nel momento in cui
l’area torni alla precedente destinazione-
il decadere e l’azzeramento dei vincoli di
asservimento precedentemente costituiti.
Allorquando la destinazione urbanistica
dell’area asservita venga modificata, il
vincolo di asservimento non può operare; ma
ove intervenga una ulteriore modifica alle
previsioni dello strumento urbanistico che
riporti l’area all’originaria destinazione
-in mancanza di una diversa ed espressa
volontà del pianificatore- riprendono
efficacia i vincoli di inedificabilità
gravanti su di essa.
Una diversa conclusione si porrebbe, invero,
in contrasto con il principio secondo cui lo
strumento urbanistico, quando prevede i
limiti entro i quali l'area può essere
edificata, si riferisce non alla
edificazione ulteriore rispetto a quella
esistente al momento della sua approvazione,
ma alla edificazione complessivamente
realizzabile sull'area.
Occorre, inoltre, considerare, che il
vincolo creato dall’asservimento per sua
natura permane sul fondo a tempo
indeterminato. L'asservimento di un fondo ad
un altro crea, infatti, una relazione
pertinenziale nella quale viene posta
"durevolmente" a servizio di un fondo la
qualità edificatoria di un altro.
Gli effetti derivanti dal vincolo,
integrando una qualità oggettiva del
terreno, hanno carattere definitivo ed
irrevocabile e provocano la perdita
definitiva delle potenzialità edificatorie
dell'area asservita, con permanente
minorazione della sua utilizzazione da parte
di chiunque ne sia il proprietario.
Per costante
giurisprudenza, “un'area edificatoria già
utilizzata a fini edilizi è suscettibile di
ulteriore edificazione solo quando la
costruzione su di essa realizzata non
esaurisca la volumetria consentita dalla
normativa vigente al momento del rilascio
dell'ulteriore permesso di costruire,
dovendosi considerare non solo la superficie
libera ed il volume ad essa corrispondente,
ma anche la cubatura del fabbricato
preesistente al fine di verificare se, in
relazione all'intera superficie dell'area
(superficie scoperta più superficie
impegnata dalla costruzione preesistente),
residui l'ulteriore volumetria di cui si
chiede la realizzazione, a nulla rilevando
che questa possa insistere su una parte del
lotto catastalmente divisa” (fra le
tante Cons. Stato, sez. IV, 26.09.2008, n.
4647).
Ai fini del calcolo della volumetria
disponibile su un lotto già parzialmente
edificato occorre, dunque, considerare tutte
le costruzioni che comunque già insistono
sull'area, con irrilevanza di eventuali
successivi frazionamenti catastali (Cons.
Stato, sez. III, 28.04.2009, n. 965).
Nel caso di specie, il frazionamento
intervenuto nel 1965, come pure i successivi
passaggi di proprietà dell’area, non hanno,
quindi, determinato la sopravvenuta
inefficacia del vincolo assunto.
Non rileva, poi, che l’atto di asservimento
sia stato o meno trascritto. La
giurisprudenza è, invero, costante nel
ritenere che l'asservimento dei suoli in
caso di edificazione costituisca una qualità
oggettiva del fondo -il cui contenuto
consiste in un vincolo automatico imposto
all'area in relazione alla volumetria dalla
stessa espressa- che non necessita di
alcuno specifico atto di asservimento o di
trascrizione. Tale predicato segue "ambulatoriamente"
i destini del fondo stesso e si impone a
chiunque (C.S., sez. V n. 1525 del
21.03.2004, n. 5039 del 12.07.2004 e n. 7029
del 18.12.2002; (sez. V, 30.03.1998, n. 387;
21.01.1997, n. 63; C.G.A., 19.10.1989, n.
415).
Il c.d. vincolo d'asservimento si
costituisce, invero, nei riguardi delle
parti e dei terzi, con il rilascio del
titolo edilizio: ed è opponibile a qualunque
terzo acquirente, anche in assenza
dell’obbligo di una sua trascrizione nei
registri immobiliari (Cassazione penale sez.
III, 30.04.2009, Cons. Stato, Sez. 5,
28.06.2000, n. 3637; Cass. civ.: 22.02.1996,
n. 1352; 12.09.1998, n. 9081; TAR Catania
Sicilia sez. I, 07.07.2011, n. 1677).
Non assume, poi, rilievo la circostanza che
nel certificato di destinazione urbanistica
dell’area non venga menzionata l’esistenza
di un vincolo di asservimento gravante
sull’area in questione, stante la natura
meramente dichiarativa di tale atto di
certificazione (TAR Milano Lombardia sez. II,
14.03.2011, n. 729). Né può invocarsi in
senso contrario la pronuncia del Consiglio
di Stato, sez. V, 28.06.2000, n. 3637 la
quale si limita ad affermare che la mancata
menzione del trasferimento di volumetria da
un'area ad altra area, ove sia idonea a
ledere l’affidamento dei terzi, possa essere
fonte di diretta responsabilità
dell’amministrazione comunale.
Se il vincolo di asservimento è sensibile
alle sopravvenienze della pianificazione
-non ponendo limiti alla facoltà del
pianificatore generale di dettare una
diversa disciplina urbanistica dell’area
(Cons. Stato, sez. IV, 29.07.2008, n. 3766;
Tar Veneto, 10.09.2004, n. 3263)- non può,
però, affermarsi l’irrilevanza della già
utilizzata vocazione edificatoria solo per
effetto delle modifiche alla destinazione
urbanistica dell’area asservita intervenute
nel corso del tempo.
Non può, cioè, ritenersi che l’attribuzione
all’area asservita, per un certo periodo, di
una destinazione differente da quella
originaria, comporti -nel momento in cui
l’area torni alla precedente destinazione-
il decadere e l’azzeramento dei vincoli di
asservimento precedentemente costituiti.
Allorquando la destinazione urbanistica
dell’area asservita venga modificata, il
vincolo di asservimento non può operare; ma
ove intervenga una ulteriore modifica alle
previsioni dello strumento urbanistico che
riporti l’area all’originaria destinazione
-in mancanza di una diversa ed espressa
volontà del pianificatore- riprendono
efficacia i vincoli di inedificabilità
gravanti su di essa.
Una diversa conclusione si porrebbe, invero,
in contrasto con il principio secondo cui lo
strumento urbanistico, quando prevede i
limiti entro i quali l'area può essere
edificata, si riferisce non alla
edificazione ulteriore rispetto a quella
esistente al momento della sua approvazione,
ma alla edificazione complessivamente
realizzabile sull'area (cfr. Cons. Stato,
sez. V, 07.11.2002, n. 6128).
Occorre, inoltre, considerare, che il
vincolo creato dall’asservimento per sua
natura permane sul fondo a tempo
indeterminato. L'asservimento di un fondo ad
un altro crea, infatti, una relazione
pertinenziale nella quale viene posta "durevolmente"
a servizio di un fondo la qualità
edificatoria di un altro (cfr. Cons. Stato,
Ad Plen., n. 3/2009; Cons. Stato, sez. IV,
n. 3766/2008).
Gli effetti derivanti dal vincolo,
integrando una qualità oggettiva del
terreno, hanno carattere definitivo ed
irrevocabile e provocano la perdita
definitiva delle potenzialità edificatorie
dell'area asservita, con permanente
minorazione della sua utilizzazione da parte
di chiunque ne sia il proprietario (Cass.
pen., sez. III, 21177/2009) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 24.02.2012 n. 623 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ordinanza di demolizione
costituisce esplicazione di un potere
vincolato, sicché essa è congruamente
motivata con la descrizione delle opere
abusive e il richiamo all'accertata
abusività delle stesse, senza necessità di
indicare alcun interesse pubblico ulteriore.
Per giurisprudenza costante, l'ordinanza di demolizione costituisce
esplicazione di un potere vincolato, sicché
essa è congruamente motivata con la
descrizione delle opere abusive e il
richiamo all'accertata abusività delle
stesse, senza necessità di indicare alcun
interesse pubblico ulteriore (cfr. TAR
Lazio Roma, sez. I, 08.06.2011, n. 5082;
TAR Puglia Lecce, sez. III, 07.04.2011, n. 611; TAR Trentino Alto Adige
Trento, sez. I, 06.04.2011, n. 105;
TAR Campania Napoli, sez. III, 02.03.2011, n. 1273; TAR Puglia Bari, sez. II,
11.11.2010, n. 3902)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 24.02.2012 n. 618 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La disciplina dettata dal D.P.R.
20-10-1998 n. 447 è finalizzata a
semplificare i procedimenti di
autorizzazione per la realizzazione,
l'ampliamento, la ristrutturazione e la
riconversione degli impianti produttivi.
Detta semplificazione amministrativa si
risolve in un procedimento che, attraverso
la conferenza di servizi indetta dal
responsabile del procedimento, porta alla
formazione di una proposta di variante sulla
quale il Consiglio comunale si pronuncia
"definitivamente".
Trattasi, comunque, di uno strumento di
natura eccezionale, che non costituisce in
alcun modo un mezzo ordinario di modifica
dell'assetto urbanistico, azionabile in base
alle soggettive preferenze e convenienze
dell'imprenditore.
A fortiori, deve escludersi che la
suindicata procedura di semplificazione
possa risolversi in uno strumento di
sanatoria di abusi edilizi preesistenti, al
di fuori e, anzi, in violazione, delle norme
eccezionali di disciplina della sanatoria
medesima.
---------------
Ai sensi dell’art. 5 dpr 447/1998, la
conferenza non deve essere sempre e comunque
convocata qualora il progetto proposto non
contrasti con divieti specifici ambientali e
sanitari, poiché ragionando in tal modo si
giunge ad esautorare il comune dei suoi
poteri discrezionali di programmazione e di
governo dell'ordinato sviluppo del
territorio.
Invero, si deve affermare da un lato che la
determinazione comunale di non avviare il
procedimento è di per sé pienamente
consentita dall'ordinamento di settore, il
quale configura l'utilizzo di una procedura
pur sempre derogatoria come meramente
facoltativo da parte dell'ente locale;
dall'altro che, nel merito, tale
determinazione costituisce il frutto
dell'esercizio di un potere discrezionale e
quindi può legittimamente fondare -anche
indipendentemente da precisi divieti
ambientali- su valutazioni di ordine
generale, purché razionalmente ed
equilibratamente rapportate, in relazione
alla natura ed entità dell'intervento,
all'esigenza di evitare la compromissione di
valori paesaggistici, urbanistici o comunque
inerenti la tutela dell'assetto del
territorio.
Deve, pertanto, escludersi –in generale- la
configurabilità di un obbligo di attivazione
della procedura de qua in capo al
responsabile dello S.U.A.P.
La
disciplina dettata dal D.P.R. 20-10-1998 n.
447 è finalizzata a semplificare i
procedimenti di autorizzazione per la
realizzazione, l'ampliamento, la
ristrutturazione e la riconversione degli
impianti produttivi (cfr. Con. Stato, Sez. IV, sent. n. 2170 del 14-04-2006). Detta
semplificazione amministrativa si risolve in
un procedimento che, attraverso la
conferenza di servizi indetta dal
responsabile del procedimento, porta alla
formazione di una proposta di variante sulla
quale il Consiglio comunale si pronuncia
"definitivamente" (cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
sent. n. 1644 del 11-04-2007). Trattasi,
comunque, di uno strumento di natura
eccezionale, che non costituisce in alcun
modo un mezzo ordinario di modifica
dell'assetto urbanistico, azionabile in base
alle soggettive preferenze e convenienze
dell'imprenditore (cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
sent. n. 1038 del 03-03-2006).
A fortiori, deve escludersi che la
suindicata procedura di semplificazione
possa risolversi in uno strumento di
sanatoria di abusi edilizi preesistenti, al
di fuori e, anzi, in violazione, delle norme
eccezionali di disciplina della sanatoria
medesima.
---------------
Ai sensi
dell’art. 5 dpr 447/1998, l’attivazione del
procedimento ivi disciplinato non consegue
obbligatoriamente all’istanza di parte,
disponendosi al riguardo che:
<<1. Qualora il progetto presentato sia in
contrasto con lo strumento urbanistico, o
comunque richieda una sua variazione, il
responsabile del procedimento rigetta
l'istanza. Tuttavia, allorché il progetto
sia conforme alle norme vigenti in materia
ambientale, sanitaria e di sicurezza del
lavoro ma lo strumento urbanistico non
individui aree destinate all'insediamento di
impianti produttivi ovvero queste siano
insufficienti in relazione al progetto
presentato, il responsabile del procedimento
può, motivatamente, convocare una conferenza
di servizi, disciplinata dall'articolo 14
della legge 07.08.1990, n. 241, come
modificato dall'articolo 17 della legge 15.05.1997, n. 127, per le conseguenti
decisioni, dandone contestualmente pubblico
avviso. Alla conferenza può intervenire
qualunque soggetto, portatore di interessi
pubblici o privati, individuali o collettivi
nonché i portatori di interessi diffusi
costituiti in associazioni o comitati, cui
possa derivare un pregiudizio dalla
realizzazione del progetto dell'impianto
industriale>>.
Consegue da ciò che, pur ispirandosi la
disciplina in rassegna a evidenti criteri di
favore per l'insediamento di attività
produttive, tale ratio economico-sociale non
può essere spinta sino al punto da
sovvertire il ruolo fondamentale che spetta
al comune nell'ambito dell’ordinario
procedimento in materia urbanistica.
Ne
consegue che la conferenza non deve essere
sempre e comunque convocata qualora il
progetto proposto non contrasti con divieti
specifici ambientali e sanitari, poiché
ragionando in tal modo si giunge ad
esautorare il comune dei suoi poteri
discrezionali di programmazione e di governo
dell'ordinato sviluppo del territorio (così,
Consiglio di Stato, sez. IV, 03.03.2006,
n. 1038, per cui: <<si deve affermare da un
lato che la determinazione comunale di non
avviare il procedimento è di per sé
pienamente consentita dall'ordinamento di
settore, il quale configura l'utilizzo di
una procedura pur sempre derogatoria come
meramente facoltativo da parte dell'ente
locale; dall'altro che, nel merito, tale
determinazione costituisce il frutto
dell'esercizio di un potere discrezionale e
quindi può legittimamente fondare -anche
indipendentemente da precisi divieti
ambientali- su valutazioni di ordine
generale, purché razionalmente ed
equilibratamente rapportate, in relazione
alla natura ed entità dell'intervento,
all'esigenza di evitare la compromissione di
valori paesaggistici, urbanistici o comunque
inerenti la tutela dell'assetto del
territorio>>).
Deve, pertanto, escludersi –in generale-
la configurabilità di un obbligo di
attivazione della procedura de qua in capo
al responsabile dello S.U.A.P.
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 24.02.2012 n. 618 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
opere funzionali all’eliminazione delle
barriere architettoniche sono solo quelle
tecnicamente necessarie a garantire
l’accessibilità, l’adattabilità e la
visitabilità degli edifici privati e non già
le opere dirette alla migliore fruibilità
dell’edificio e alla maggior comodità dei
residenti.
Sicché, nel bilanciamento tra l’interesse
alla tutela del patrimonio storico-artistico
nazionale e quello alla salvaguardia del
diritto alla salute ed al normale
svolgimento della vita di relazione e
socializzazione dei soggetti in minorate
condizioni fisiche, la normativa ha dato
prevalenza in via generale al secondo,
consentendo, purtuttavia, il diniego
dell’autorizzazione alla realizzazione di
interventi su beni vincolati nei soli casi
di accertato e motivato «serio pregiudizio»
del bene vincolato; mentre, nel
bilanciamento degli interessi in gioco si è
ritenuto, al contrario, prevalente quello
relativo al rispetto della normativa
antincendio.
Per quando attiene, in particolare,
l’eliminazione di tali barriere negli
edifici in condominio, la normativa vigente
sopra richiamata nel contrasto tra
l’interesse dei condomini a non vedere
modificati i beni comuni e quello dei
soggetti portatori di minorazioni fisiche ha
tutelato questi ultimi in termini assoluti
ed inderogabili, per cui non è richiesto il
consenso di tutti i proprietari del
fabbricato ove l’opera debba essere
realizzata in cortili o chiostrine “interni
ai fabbricati o comuni o di uso comune a più
fabbricati”.
---------------
Relativamente al conflitto tra gli interessi
dei soggetti portatori di minorazioni
fisiche e quello dei soggetti terzi, il
legislatore con la previsione contenuta
nell'art. 79 dpr 380/2001 e nell'art. 873
del codice civile, ha ritenuto di dare
prevalenza al diritto di questi ultimi al
rispetto delle distanze tra le costruzioni,
che quindi non può mai essere “minore di 3
metri”, in base alla previsione codicistica,
all’evidente fine di garantire la salubrità
delle costruzioni. In definitiva, il
legislatore nel bilanciamento degli
interessi in gioco nel mentre ha ritenuto
prevalente l’interesse dei portatori di
handicap rispetto a quello degli altri
“condomini”, ha ritenuto al contrario
recessivo tale interesse rispetto a quello
dei soggetti “terzi”, cioè dei proprietari
di immobili finitimi, che non possono veder
leso il loro diritto alla salute, ugualmente
meritevole di tutela, a non vedere create
delle intercapedini che possono incidere
sulla salubrità delle costruzioni.
---------------
La costruzione di un ascensore esterno in
facciata di condominio per un verso ha quei
connotati e quelle caratteristiche di
stabilità che impongono di ricomprenderlo
nella nozione di “costruzione” di cui al
predetto art. 873 del codice civile e per
altro verso, per le sue caratteristiche
costruttive, viene a creare una permanente
intercapedine dannosa per la sicurezza e la
salubrità delle costruzioni vicine; per cui
tale opera deve necessariamente rispettare
le distanze legali.
... per l'annullamento del provvedimento
24.05.2011, prat. n. 4/2001, con il quale il
Responsabile del III Settore (Assetto ed uso
del territorio) del Comune di Loreto
Aprutino ha rigettato la domanda di permesso
di costruire presentata dal ricorrenti per
l’esecuzione dei lavori di installazione di
un ascensore esterno ...
...
L’impugnato provvedimento di rigetto della
domanda di permesso di costruire presentata
dai ricorrenti per l’esecuzione dei lavori
di installazione di un ascensore esterno è
motivato con riferimento alla testuale
considerazione che, in violazione dell’art.
79 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, non era
rispettata la “distanza di tre metri di
cui all’art. 873 del codici civile,
ricorrendo il caso in cui tra le opere da
realizzare (ascensore finalizzato
all’eliminazione delle barriere
architettoniche) ed il fabbricato alieno …
non è interposto alcuno spazio o alcuna area
di proprietà o di uso comune”.
Tale ragione giustificativa del diniego del
titolo edilizio richiesto si sottrae, ad
avviso del Collegio, alle censure di
legittimità dedotte con il ricorso.
Va al riguardo premesso che il Testo unico
delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia, approvato
con D.P.R. 06.06.2001, n. 380, nel
disciplinare all’art. 79 le opere
finalizzate all’eliminazione delle barriere
architettoniche dispone testualmente al suo
primo comma che tali opere “possono
essere realizzate in deroga alle norme sulle
distanze previste dai regolamenti edilizi,
anche per i cortili e le chiostrine interni
ai fabbricati o comuni o di uso comune a più
fabbricati”; al suo secondo comma
precisa, inoltre, che “è fatto salvo
l’obbligo di rispetto delle distanze di cui
agli articoli 873 e 907 del codice civile
nell’ipotesi in cui tra le opere da
realizzare e i fabbricati alieni non sia
interposto alcuno spazio o alcuna area di
proprietà o di uso comune”.
Tale richiamato art. 873 del codice civile,
nel disciplinare le distanze nelle
costruzioni, dispone a sua volta che “le
costruzioni su fondi finitimi, se non sono
unite o aderenti, devono essere tenute a
distanza non minore di tre metri”.
Va, infine, ricordato che con Decreto
ministeriale 14.06.1989, n. 236, sono state
dettate le prescrizioni tecniche necessarie
a garantire l’accessibilità degli edifici
privati ai fini del superamento e
dell’eliminazione delle barriere
architettoniche.
Così puntualizzato il quadro normativo di
riferimento, va evidenziato che tali
previsioni per il superamento e
l’eliminazione delle barriere
architettoniche negli edifici privati
-dettate in via generale dalla legge n. 13
del 1989, poi trasfusa nel predetto t.u., ed
articolate in dettaglio nella normativa
tecnica di attuazione di cui al D.M.
14.06.1989, n. 236- hanno elevato il livello
di tutela dei soggetti portatori di
minorazioni fisiche, che oggi non è più
relegato ad un ristretto ambito soggettivo
ed individuale, ma è ormai considerato come
interesse primario dell’intera collettività,
da soddisfare con interventi mirati a
rimuovere situazioni preclusive dello
sviluppo della persona e dello svolgimento
di una normale vita di relazione (Corte
Costituzionale 10.03.1999, n. 167, e
04.07.2008, n. 251, e da ultimo TAR
Campania, sede Napoli, sez. IV, 14.11.2011,
n. 5343).
Purtuttavia, va anche precisato che la
giurisprudenza ha al riguardo meglio
precisato che tale sistema di tutela delle
persone disabili è, in concreto, applicabile
compatibilmente con altri interessi pubblici
che non possono essere pretermessi e che
devono essere, invece, bilanciati con
quello, superiore, alla tutela ottimale
delle medesime persone; con la conseguenza
che le misure necessarie a rendere effettiva
la tutela delle persone disabili, alla
stregua degli art. 2, 3 e 32 della
Costituzione possono essere legittimamente
graduate in vista dell’attuazione del
principio di parità di trattamento, tenuto
conto di tutti i valori costituzionali in
gioco e fermo comunque il rispetto di un
nucleo indefettibile di garanzie per gli
interessati. In definitiva, tale normativa
consente il diniego della richiesta
autorizzazione qualora non sia possibile
realizzare le opere senza pregiudizio di
altri beni ugualmente tutelati.
Premesso che le opere funzionali
all’eliminazione delle barriere
architettoniche sono solo quelle
tecnicamente necessarie a garantire
l’accessibilità, l’adattabilità e la
visitabilità degli edifici privati e non già
le opere dirette alla migliore fruibilità
dell’edificio e alla maggior comodità dei
residenti (TAR Abruzzo, sede L'Aquila,
08.11.2011, n. 526), va ricordato che il
legislatore ha effettuato delle scelte
puntuali in ordine alla graduazione degli
interessi coinvolti.
Così, in particolare, nel bilanciamento tra
l’interesse alla tutela del patrimonio
storico-artistico nazionale e quello alla
salvaguardia del diritto alla salute ed al
normale svolgimento della vita di relazione
e socializzazione dei soggetti in minorate
condizioni fisiche, tale normativa ha dato
prevalenza in via generale al secondo,
consentendo, purtuttavia, il diniego
dell’autorizzazione alla realizzazione di
interventi su beni vincolati nei soli casi
di accertato e motivato «serio
pregiudizio» del bene vincolato (TAR
Sicilia, sede Palermo, sez. I, 04.02.2011,
n. 218, TAR Campania, sede Napoli, sez. IV,
15.09.2011, n. 4402, e TAR Toscana sez. III,
25.10.2011, n. 1546); mentre, nel
bilanciamento degli interessi in gioco si è
ritenuto, al contrario, prevalente quello
relativo al rispetto della normativa
antincendio (Cons. St. sez. V, 08.03.2011,
n. 1437).
Per quando attiene, in particolare,
l’eliminazione di tali barriere negli
edifici in condominio, la normativa vigente
sopra richiamata nel contrasto tra
l’interesse dei condomini a non vedere
modificati i beni comuni e quello dei
soggetti portatori di minorazioni fisiche ha
tutelato questi ultimi in termini assoluti
ed inderogabili, per cui non è richiesto il
consenso di tutti i proprietari del
fabbricato ove l’opera debba essere
realizzata in cortili o chiostrine “interni
ai fabbricati o comuni o di uso comune a più
fabbricati” (TAR Lazio, sez. Latina,
04.03.2011, n. 221, e Cons. St. sez. IV,
04.05.2010, n. 2546).
Relativamente, invece, al conflitto tra gli
interessi dei soggetti portatori di
minorazioni fisiche e quello dei soggetti
terzi, il legislatore con la sopra ricordata
previsione contenuta nel predetto art. 79 e
nel richiamato art. 873 del codice civile,
ha ritenuto di dare prevalenza al diritto di
questi ultimi al rispetto delle distanze tra
le costruzioni, che quindi non può mai
essere “minore di tre metri”, in base
alla previsione codicistica, all’evidente
fine di garantire la salubrità delle
costruzioni. In definitiva, il legislatore
nel bilanciamento degli interessi in gioco
nel mentre ha ritenuto prevalente
l’interesse dei portatori di handicap
rispetto a quello degli altri “condomini”,
ha ritenuto al contrario recessivo tale
interesse rispetto a quello dei soggetti “terzi”,
cioè dei proprietari di immobili finitimi,
che non possono veder leso il loro diritto
alla salute, ugualmente meritevole di
tutela, a non vedere create delle
intercapedini che possono incidere sulla
salubrità delle costruzioni.
Tale scelta legislativa, ad avviso del
Collegio, non sembra inficiata da profili di
costituzionalità, in quanto rientra nella
discrezionalità del legislatore dare la
prevalenza all’uno o all’altro degli
interessi in conflitto; inoltre, la scelta
effettuata con la normativa di cui al più
volte ricordato art. 79 non sembra illogica
o particolarmente penalizzante degli
interessi dei soggetti portatori di
handicap, ove si consideri che nella specie
tale diritto è stata ritenuto recessivo nei
confronti del diritto alla salute, di pari
rilevanza, dei soggetti confinanti.
---------------
I ricorrenti con i tre motivi di gravame si
sono nella sostanza lamentati delle seguenti
circostanze:
1) che l’opera da realizzare non doveva
rispettare le distanze legali, in quanto non
creava una intercapedine dannosa per la
sicurezza e la salubrità della collettività
e che, peraltro, non era rispettata la
distanza in questione solo per una parte
marginale;
2) che l’opera era conforme alle
prescrizioni vigenti in quanto realizzata su
uno “spazio o area comune”;
3) che la legislazione di favore nei
confronti dei portatori di handicap, volta
all’eliminazione delle barriere
architettoniche, deve essere interpretata
nel senso che è consentita la deroga della
predetta distanza di tre metri ove sia
impossibile una diversa collocazione
dell’opera da realizzare.
Se, con riferimento a quanto sopra esposto,
sembra evidente la mancanza di pregio di
quanto dedotto con il terzo motivo, in
quanto il vigente sistema non tutela le
persone disabili in termini assoluti ed
inderogabili (Cons. St. sez. V, 08.03.2011,
n. 1437), ma effettua un bilanciamento degli
interessi in gioco, ponendo dei precisi
limiti alla realizzazione delle opere in
questione quando venga leso il diritto alla
salute dei confinanti, va evidenziato in
punto di fatto che l’opera da realizzare
-contrariamente a quanto dedotto con il
ricorso- non si sviluppa solo fino al primo
piano dell’edificio, ma è destinata a
raggiungere anche gli ulteriori piani
dell’edificio, che non sono abitati dal
soggetto portatore di handicap.
Conseguentemente, ritiene il Collegio che
l’opera -così come si rileva dagli atti
progettuali versati in giudizio anche dalla
parte ricorrente- per un verso ha quei
connotati e quelle caratteristiche di
stabilità che impongono di ricomprenderla
nella nozione di “costruzione” di cui
al predetto art. 873 del codice civile e per
altro verso, per le sue caratteristiche
costruttive, viene a creare una permanente
intercapedine dannosa per la sicurezza e la
salubrità delle costruzioni vicine; per cui
tale opera deve necessariamente rispettare
le distanze legali. Mentre appare in merito
irrilevante il fatto che tale distanza non
era rispettata solo per una parte
dell’opera, in quanto la norma sui distacchi
tra le costruzione prevede delle precise
distanze che, salva la c.d. tolleranza di
cantiere, debbono essere necessariamente
rispettate.
Quanto, infine, alla circostanza che
l’ascensore sarebbe stato realizzato su uno
“spazio o area comune”, va
evidenziato che la normativa in questione,
quando utilizza tale espressione, intende
riferirsi all’esistenza di un diritto di
comunione sull’area sulla quale deve essere
realizzata l’opera. Ora dagli atti di causa
non risulta che il cortile in questione sia
in comunione, né risulta dimostrata che
sull’area esista una servitù di passaggio;
al contrario, dalle mappe catastali e dagli
atti progettuali si evince che i due edifici
che si fronteggiano sono separati da una
precisa linea di confine posta a distanza di
un metro e mezzo dai due edifici.
Non trattandosi di un’area “comune”
la costruzione dell’ascensore, in assenza
del consenso dei proprietari dell’edificio
adiacente, avrebbe dovuto, pertanto,
rispettare le distanze di legge; né appare
utile al riguardo il riferimento alle
definizioni contenute nel predetto decreto
ministeriale 14.06.1989, n. 236, con il
quale sono state dettate le prescrizioni
tecniche necessarie a garantire
l’accessibilità degli edifici privati ai
fini del superamento e dell’eliminazione
delle barriere architettoniche, e ciò non
solo per il rango nella gerarchia delle
fonti di tale decreto e per la sua
inidoneità a modificare norme di legge, ma
anche e soprattutto per il fatto che le
definizioni contenute in tale decreto si
riferiscono alle prescrizioni tecniche
disciplinate con la normativa in questione
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 24.02.2012 n. 87 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
Il terreno in vendita è gravato
da vincolo paesaggistico? Il venditore non è
tenuto a comunicarlo all’acquirente.
Con
sentenza 23.02.2012 n. 2737, la
Corte di Cassazione ha respinto il ricorso
di un promissario acquirente che chiedeva la
risoluzione del contratto e la restituzione
del doppio della caparra a carico del
venditore per aver quest’ultimo taciuto sul
vincolo paesaggistico gravante sull’area
oggetto di compravendita.
Il promissario acquirente chiedeva la
risoluzione del contratto, in quanto il
suddetto vincolo, del quale non ne era a
conoscenza, rendeva inutile il suo acquisto
per inidoneità del terreno allo scopo
prefissato (nella fattispecie il promittente
acquirente voleva impiantarci un opificio
industriale).
Secondo gli ermellini, l’acquirente non ha
diritto alla risoluzione del contratto di
compravendita e alla restituzione del doppio
della caparra nelle ipotesi in cui il
venditore abbia taciuto sul vincolo
paesaggistico o in generale su altri vincoli
approvati con il piano regolatore generale.
In questi casi, infatti, vige a carico dei
cittadini una presunzione di conoscenza. Né,
come sostenuto dal ricorrente, l’acquirente
è esentato da qualsiasi onere di diligenza e
di indagine qualora l’inesistenza di diritti
o pesi altrui sia stata positivamente
dichiarata dal venditore. Si tratta di
vincoli con tenuti nel piano regolatore
generale e come tali informazioni sulle
quali vige una presunzione di conoscenza di
tutti i cittadini.
Le prescrizioni del piano regolatore
generale, una volta approvate e pubblicate
nelle forme previste, hanno valore di
prescrizione di ordine generale di contenuto
normativo e come tali sono assistite da una
presunzione legale di conoscenza da parte
dei destinatari; sicché i vincoli da essi
imposti non possono qualificarsi come oneri
apparenti gravanti sull’immobile ai sensi
dell’art. 1489 del codice civile e non sono
conseguentemente invocabili dal compratore
come fonte di responsabilità che non li
abbia eventualmente dichiarati nel contratto
(tratto da www.diritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: ...
Né la qualificazione di
un’area come “Zona agricola” ha natura
residuale per cui consentirebbe comunque
utilizzi non coincidenti con la coltivazione
dei relativi fondi. Al contrario, in un
territorio che, negli ultimi trent’anni, ha
visto un’inarrestabile consumazione del
suolo e la definitiva compromissione in
moltissime regioni della campagna italiana, tale zonizzazione è
specificamente diretta alla conservazione a
verde e ad evitare ulteriori espansioni
degli insediamenti.
Per tale ragione, sono sempre e comunque
esclusi tutti gli interventi diversi da
quelli strettamente funzionali all'attività
agricola ed alla eventuale esigenza
dell'imprenditore agricolo di risiedere sul
fondo (se ed in quanto comunque non
pregiudizievoli per l'assetto territoriale
agricolo). Le restrizioni edificatorie nella
suddetta zona hanno dunque lo scopo non solo
di valorizzare l'attività agricola vera a
propria, ma altresì quella di garantire ai
cittadini l'equilibrio delle condizioni di
vivibilità, nonché di assicurare loro quella
quota di valori naturalistici necessaria a
compensare gli effetti dell'espansione
dell'aggregato urbano.
Né, contrariamente a quanto mostra di
ritenere la ricorrente, la qualificazione di
un’area come “Zona agricola” ha natura
residuale per cui consentirebbe comunque
utilizzi non coincidenti con la coltivazione
dei relativi fondi. Al contrario, in un
territorio che, negli ultimi trent’anni, ha
visto un’inarrestabile consumazione del
suolo e la definitiva compromissione in
moltissime regioni della campagna italiana
(così come era stata immortalata dai pittori
paesaggistici per lo meno fino a dopo la
metà dell’ottocento), tale zonizzazione è
specificamente diretta alla conservazione a
verde e ad evitare ulteriori espansioni
degli insediamenti.
Per tale ragione, sono
sempre e comunque esclusi tutti gli
interventi diversi da quelli strettamente
funzionali all'attività agricola ed alla
eventuale esigenza dell'imprenditore
agricolo di risiedere sul fondo (se ed in
quanto comunque non pregiudizievoli per
l'assetto territoriale agricolo). Le
restrizioni edificatorie nella suddetta zona
hanno dunque lo scopo non solo di
valorizzare l'attività agricola vera a
propria, ma altresì quella di garantire ai
cittadini l'equilibrio delle condizioni di
vivibilità, nonché di assicurare loro quella
quota di valori naturalistici necessaria a
compensare gli effetti dell'espansione
dell'aggregato urbano (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 13.10.2010, n. 7478).
In tale prospettiva interpretativa va dunque
inquadrato l’art. 32 delle Norme Tecniche di
Attuazione del P.R.G. del Comune, che
consente solo interventi a servizio dell’uso
produttivo del suolo ed alle attività
connesse; sicché del tutto priva di
fondamento è l’asserita compatibilità di
trasformazioni del suolo e di usi non
funzionali all’agricoltura.
Tale disposizione del resto, si pone in
coerenza con l’art. 44 della l. reg. Veneto
n. 11/2004 (Norme per il governo del
territorio), che in zona agricola consente
esclusivamente interventi edilizi funzionali
all’attività agricola, rimessi, sulla base
di un piano aziendale, ai soli imprenditori
agricoli titolari di azienda agricola (cfr.
Consiglio Stato, sez. IV, 12.02.2010,
n. 798).
Ne discende, come esattamente ricordato dal
TAR, che va applicato l’art. 4, comma 3,
della L.R. 05.11.2004 n. 21, secondo il
quale l’oblazione per i “mutamenti di
destinazione con opere” va corrisposta nella
misura prevista dalla Tipologia 3 della
Tabella C di cui sopra.
Deve quindi escludersi, in relazione alla
precisa individuazione normativa della
fattispecie, che, come pretende
l’appellante, l’intervento potesse essere
oggetto di oblazione in misura forfettaria
quale “tipologia residuale” di cui al punto
6 della Tabella C allegata al D.L. n.
269/2003, il quale concerne le opere o le
modalità di esecuzione non valutabili in
termini di superficie o di volume.
Inoltre, a fronte del radicale mutamento
della disciplina in ordine agli interventi
qui esaminati, del tutto inconferente
risulta il risalente precedente citato
dall'appellante (Cons. Stato, sez. IV,
08/03/1983, n. 103)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 23.02.2012 n. 976 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Polizia
municipale, indennità cumulabili. L'assegno
di vigilanza non esclude la retribuzione per
il disagio. Una sentenza del tribunale di
Verona sconfessa le tesi dell'aran.
Indennità di vigilanza e
di disagio possono essere cumulate.
Lo ha stabilito il Tribunale di Verona in
sede di giudice del lavoro, con
sentenza
23.02.2012 di condanna della provincia di
Verona, che a seguito delle risultanze dei
servizi ispettivi della ragioneria generale
dello stato, aveva sospeso ai dipendenti
destinatari dell'indennità di vigilanza il
pagamento dell'ulteriore indennità di
disagio.
La decisione del giudice del lavoro veronese
è particolarmente rilevante, perché priva di
fondamento i pareri che da sempre, sul tema,
esprime l'Aran. L'Agenzia nazionale per la
contrattazione ha infatti ritenuto, con il
parere espresso in sede di orientamenti
applicativi Ral145, che «il personale
dell'area di vigilanza è correttamente
tutelato per la specificità delle
prestazioni richieste e per l'impegno, la
gravosità e le responsabilità ad esse
correlate, con la particolare indennità di
cui all'art. 37, comma 1, lett. b), del Ccnl
del 06/07/1995. Ci sembra evidente che la
stessa indennità e il relativo importo è
stato individuato tenendo conto anche degli
specifici rischi o disagi che caratterizzano
le prestazioni di tutti gli addetti.
Consideriamo, quindi, irragionevole
l'attribuzione di una ulteriore indennità
per la medesima prestazione di lavoro».
Gli effetti di questo parere dell'Aran sono
stati dirompenti. Esso, infatti, è stato
preso come base dai servizi ispettivi per
stigmatizzare l'illegittimità dei contratti
collettivi decentrati che avessero previsto
il cumulo tra indennità di vigilanza e
disagio e delle spese derivanti. Ed è noto
che i referti dei servizi ispettivi sono
inviati alle procure regionali della Corte
dei conti, allo scopo di attivare eventuali
azioni per responsabilità amministrativa.
C'è da osservare che di recente i servizi
ispettivi sembrano aver mutato atteggiamento
rispetto al tema. Nel volume «le
risultanze delle indagini svolte dai Sifip
in materia di spese di personale del
comparto regioni ed enti locali»
relative al 2011 si legge: «Non si può,
invero, escludere a priori che taluni degli
appartenenti al corpo della polizia
municipale possano percepire, accanto alle
indennità di vigilanza, anche quella di
rischio o di disagio. Deve, a ogni buon
conto, trattarsi di prestazioni che non
rientrano tra quelle che possono e devono
essere richieste ad appartenenti a un corpo
di polizia, essendo esse, altrimenti, già
retribuite attraverso l'indennità di
vigilanza. Più in generale, l'indennità di
rischio e di disagio non dovrebbero essere
corrisposte a titolo di remunerazione
aggiuntiva di quelle situazioni o condizioni
che caratterizzano in modo tipico le
mansioni di un determinato profilo
professionale, dato che queste sono già
state valutate e remunerate con il
trattamento economico stipendiale previsto
per lo stesso profilo».
Il giudice del lavoro di Verona è ancora più
netto. La sentenza rileva che il diritto al
pagamento dell'indennità di vigilanza e
dell'indennità di disagio trova «a
propria fonte in autonome previsioni dei
contratti collettivi nazionali e integrativi».
Tali indennità, osserva il giudice del
lavoro, «sono dirette a compensare
particolari modalità di svolgimento della
prestazione lavorativa, le quali non sono
necessariamente coincidenti».
La sentenza, dunque, smonta totalmente
l'impalcatura interpretativa costruita negli
anni dall'Aran rilevando che mentre
l'indennità di disagio compensa particolari
situazioni di lavoro concretamente connesse
al modo con cui si svolge la prestazione,
l'indennità di vigilanza è un riconoscimento
economico discendente dal conseguimento di
una particolare funzione.
Quanto deciso dal giudice del lavoro
veronese acuisce per l'ennesima volta un
grave cortocircuito, che caratterizza da
troppo tempo il lavoro pubblico e la
contrattazione. Infatti, vengono assunti
come regole tassative di condotta o come
interpretazioni autentiche i pareri
dell'Aran, mentre l'interpretazione della
legge è funzione rimessa esclusivamente al
legislatore o al giudice. Che, spesso,
contraddice radicalmente gli orientamenti
«di prassi» dell'Aran, come di recente
avvenuto in merito all'illegittimità del
finanziamento delle retribuzioni dei
dirigenti a contratto a valere sul fondo
contrattuale della dirigenza.
Sarebbe necessario chiarire una volta per
tutte quali legittimi spazi interpretativi
siano riservabili all'Aran. Ma, più
importante, una volta limitate le relazioni
sindacali alla sola destinazione delle
risorse contrattuale e alla gestione del
rapporto di lavoro, risulterebbe escludere
di considerare come dannosa una gestione del
fondo contrattuale che decida come
destinarne le risorse, senza però violare il
limite di spesa e, dunque, utilizzare
illegittimamente risorse aggiuntive dei
bilanci
(articolo ItaliaOggi
del 02.03.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Fatti di reato e ufficio ricoperto,
sospensione cautelare sconnessa.
E' legittimo il decreto del Rettore
dell''università con cui e' stata disposta
la sospensione cautelare dal servizio di un
professore in riferimento al fatto che
l'interessato era stato condannato, con
sentenza penale, per il reato di concorso in
peculato, a nulla rilevando che tale reato
era stato commesso nell'esercizio del
diverso munus publicum afferente la carica
di Sindaco.
Il ricorrente, professore di
diritto costituzionale, ha impugnato il
provvedimento con cui l’Università di
appartenenza aveva disposto la propria
sospensione dal servizio a cagione di una
sentenza penale di condanna del docente per
concorso in peculato, relativamente a fatti
commessi durante l’esercizio delle
precedenti funzioni di Sindaco.
Ha dedotto la violazione degli artt. 3 e 4,
L. n. 97/2001, nonché l’eccesso di potere
per erronea motivazione dell’impugnato
provvedimento nella parte in cui era stata
disposta la sospensione del docente con
riferimento a un illecito consumato
nell’esercizio di diverso munus publicum.
Con produzione documentale il ricorrente,
inoltre, ha depositato il dispositivo della
sentenza emessa dalla competente Corte di
Appello che, in riforma della sentenza di
primo grado, aveva dichiarato “il non luogo
a procedere” in ordine al reato ascrittogli
in quanto estinto per prescrizione, nonché
l’istanza di revoca del provvedimento di
sospensione.
Il ricorso è stato respinto.
Il Collegio di Napoli, con riferimento alle
censure sulla violazione e falsa
applicazione degli artt. 3 e 4 della L. n.
97/2001, nonché sull’eccesso di potere sotto
i profili dell’erroneità della motivazione e
del travisamento dei fatti, ha rilevato
come, né il valore semantico delle
espressioni contenute nell’art. 4 cit., né
una lettura sistematica della norma,
avrebbero consentito di avallare l’opzione
interpretativa avanzata dal ricorrente.
Invero, ha precisato come, in linea di
principio, il contenuto precettivo della
menzionata disposizione appare ancorato
unicamente alla condanna per ben individuate
tipologie di delitti -tra i quali, il
peculato ex art. 314 c.p.- e alla qualità
del soggetto attivo (dipendente di
amministrazioni o di enti pubblici, ovvero
di enti a prevalente partecipazione
pubblica).
Epperò, considerato che la misura cautelare
della sospensione è posta a presidio
dell’interesse generale al buon andamento
della pubblica amministrazione e al rapporto
di fiducia dei cittadini verso quest’ultima
(cfr. Corte costituzionale, 03.05.2002,
n. 145), il giudicante ha ritenuto che un
vulnus ai suddetti beni giuridici avrebbe
potuto configurarsi anche in assenza di una
connessione qualificata tra i fatti di reato
e l’ufficio presso il quale il dipendente
presta servizio.
Siffatta opzione ermeneutica è apparsa,
d’altronde, ben compatibile con la rilevanza
che l’ordinamento ha sempre assegnato, ai
fini disciplinari, finanche a condotte
tenute al di fuori dell’ufficio e, tanto, ha
trovato conferma nella stessa giurisprudenza
della Consulta, la quale ha riconosciuto
l’ammissibilità di misure obbligatorie di
sospensione dal servizio in presenza di
fatti non connessi con le pubbliche funzioni
esercitate dall’interessato, ovvero anche
solo con la qualità di pubblico dipendente
(ex multis, Corte Cost., 03.06.1999, n.
206).
Di conseguenza, il TAR partenopeo ha
ritenuto che, nella vicenda, non occorreva
una più specifica motivazione del
provvedimento di sospensione, atteso che il
menzionato art. 4 sancisce la sospensione
obbligatoria dal servizio alla ricorrenza
dei presupposti sopra delineati, senza che
residui alcun spazio di discrezionalità in
capo all’amministrazione.
Tanto assodato, per quel che concerne
l’obbligo di motivazione, l’adito Tribunale
ha esaminato gli ulteriori motivi di censura
formulati sulla scorta della considerazione
per cui al momento del deposito della
motivazione della sentenza penale e
dell’adozione del provvedimento di
sospensione dal servizio, il termine di
prescrizione del reato era presuntivamente
decorso.
Tale prospettazione è stata disattesa dal
Collegio alla luce delle considerazioni
svolte dal Giudice delle leggi nella
sentenza n. 145/2002, con cui è stata
dichiarata l’illegittimità costituzionale
dell’art. 4, comma 2, L. n. 97/2001, nella
parte in cui disponeva che la sospensione
dal servizio del dipendente pubblico,
condannato anche non in via definitiva,
perde efficacia decorso un periodo di tempo
pari a quello di prescrizione del reato.
Nella richiamata pronuncia, infatti, la
Corte ha sottolineato come l’individuazione
del termine di prescrizione del reato
comporta una serie di "valutazioni precluse
alla pubblica amministrazione, che solo
l'autorità giudiziaria può compiere: si
pensi all'incidenza sul decorso della
prescrizione delle circostanze aggravanti e
attenuanti del reato", con la conseguenza
che "la suddetta causa di cessazione di
efficacia della misura cautelare viene
necessariamente a coincidere con quella
rappresentata dalla sentenza di
proscioglimento”.
Alla stregua di tali dicta, la Consulta ha
tratto i seguenti corollari: "Anzitutto, la
prescrizione del reato non può che
coincidere con la sentenza che la dichiari,
giacché non può annettersi alcun rilievo
giuridico alla sussistenza ipotetica di una
causa di estinzione del reato, il cui
ricorrere, per di più, presuppone un
accertamento su una complessa ed articolata
gamma di elementi di commisurazione -alcuni
dei quali presupponenti, addirittura,
indagini di fatto (quale lo stesso tempus
commissi delicti)- che non possono che
essere svolti dalla autorità giudiziaria,
all'interno del processo.
In secondo luogo,
proprio perché ontologicamente privo di
rilievo giuridico esterno al processo, deve
necessariamente restare al di fuori del
perimetro normativo qui in discorso
qualsiasi accertamento incidenter tantum,
che, nell'individuare la “non maturazione”
della prescrizione, ne abbia indicato la
data -futura e ipotetica- in cui la
prescrizione maturanda potrebbe essere
dichiarata.
In terzo ed ultimo luogo,
quand'anche si volesse assegnare a
quell'accertamento incidentale un qualche
effetto, esso non potrebbe mai essere
"esterno" al processo e tale da coinvolgere
una valutazione da parte della pubblica
amministrazione".
Inoltre, la Corte costituzionale aveva
ritenuto dirimente il rilievo secondo cui
"soltanto il giudice della impugnazione è in
grado di delibare l’eventuale prescrizione
del reato, in quanto soltanto in presenza di
una impugnazione ammissibile può farsi luogo
alla declaratoria di estinzione del reato,
posto che, ove l'impugnazione risultasse per
qualsiasi causa inammissibile,
l’inammissibilità precluderebbe la
declaratoria di estinzione del reato per
prescrizione, alla luce di un consolidato
quadro di interpretazione giurisprudenziale
ormai assurto al rango di diritto vivente”
(nello stesso senso, Cass. civ., Sez. Un.,
22.03.2005, n. 23428; idem, 22.11.2000, n. 32).
Per tali ragioni, il G.A. di Napoli ha
respinto il ricorso, per l’effetto
confermando l’impugnato provvedimento di
sospensione cautelare dal servizio del
docente (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Campania-Napoli, Sez.
II,
sentenza 15.02.2012 n. 807 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Accesso agli atti anche se il
documento è inesistente?
La sentenza si sofferma sulla possibilità di
eccepire l'inesistenza di un documento per
escludere l'accesso. Il Consiglio di Stato
chiarisce come sia irrilevante ai fini delle
valutazioni sia sulla ammissibilità che
sulla fondatezza della richiesta di accesso
l'eccezione avanzata dalla parte
controinteressata circa l'inesistenza del
documento richiesto.
La legittimazione ad accedere ad un
documento si fonda, secondo quanto disposto
dall'art. 22 della l.n. 241/1990,
sull'esistenza di una situazione
giuridicamente rilevante ad ottenere
l’ostensione di detti documenti.
La giurisprudenza, richiamata anche dalla
sentenza in esame, ritiene pertanto che la
situazione sottesa alla domanda di accesso
si configuri come un vero e proprio diritto
soggettivo meritevole di tutela, quante
volte la conoscenza degli atti oggetto della
formulata richiesta risulti strumentale
all’esercizio di difesa dei propri interessi
in sede giurisdizionale e/o in altra sede e
comunque si rivela rilevante ai fini del
conseguimento da parte dell’interessato di
un bene della vita.
Nel caso in cui sussista tale posizione
giuridica, l'eccezione della pretesa
inesistenza del documento oggetto della
domanda di accesso non consente di per se di
escludere l'ammissibilità della richiesta.
Il Consiglio di Stato precisa che la
richiesta può essere formulata anche in una
situazione di ignoranza da parte del
richiedente che potrebbe non sapere se il
documento esista o meno.
Il principio affermato dal Consiglio di
Stato è quello secondo cui una richiesta di
accesso non può essere qualificata come
impossibile ogni qualvolta si fondi su dati
normativi certi ed inequivocabili che
espressamente prevedano tale documento.
La legittimità dell’esercizio del diritto di
accesso va collegata ad un momento
precedente alle vicende amministrative con
cui soggetto pubblico ha definito
espressamente con un provvedimento un
determinato rapporto giuridico (commento
tratto da www.ipsoa.it -
Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 09.02.2012 n. 690 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Concorsi,
prove aderenti al bando. Tar Campania dà
ragione a un candidato.
Conoscenze informatiche? Sì, ma senza
esagerare.
Con la
sentenza
31.01.2012 n. 491, la III Sez. del TAR Campania-Napoli ha accolto il
ricorso presentato da un candidato,
deducendo l'illegittimità del provvedimento
di non ammissione alle prove orali del
concorso pubblico per «coadiutore
amministrativo-cat. B3» del ruolo del
Consiglio Regionale della Campania, cui
aveva preso parte. I magistrati
amministrativi hanno, infatti, ritenuto
censurabile, «in quanto viziata per
eccesso di potere per illogicità manifesta»,
la valutazione che aveva effettuato la
commissione giudicatrice, la quale, in sede
di revisione della prova pratica (Word ed
Excel), non si era attenuta né ai parametri
previsti nel bando, né tanto meno ai criteri
di giudizio cui si era autovincolata.
A causa della valutazione «totalmente
erronea», quindi, il candidato non era
riuscito a ottenere il punteggio minimo
previsto per superare la prova scritta. Ma
contrariamente a quanto sostenuto
dall'amministrazione resistente, secondo la
quale il corretto superamento della prova
contestata implicava anche la risoluzione di
un problema di tipo logico, i giudici hanno
chiarito che «il Bando si limitava a
richiedere la conoscenza di ''elementari
nozioni in campo informatico'' e, per quanto
riguardava la prova Excel, l'espletamento di
una semplice ''prova di calcolo''».
Invece, l'amministrazione pretendeva un «percorso
logico» che avrebbe richiesto «ben
più che la cognizione di informazioni
«elementari» del funzionamento del sistema
Excel, specie se posto in relazione alle
mansioni tipiche della qualifica messa a
concorso». Il collegio ha ritenuto
altresì erronea la valutazione della prova
Word: gli errori commessi dal ricorrente nel
ricopiare il testo fornito, infatti, non
potevano qualificarsi come «di ortografia»
o di «grammatica», ma semplicemente
di battitura, tenuto conto che tra i
requisiti del bando vi era quello secondo il
quale il testo doveva essere ricopiato nella
sua interezza e non «con caratteri e
formattazione identici».
Ciò a maggior ragione sul presupposto che il
corretto uso delle lettere maiuscole e
minuscole o la corretta impaginazione, «lungi
dall'essere ritenuti come condicio sine qua
non della fedele copiatura del testo di
riferimento», erano stati addirittura
ritenuti elementi di favore per l'eventuale
attribuzione, in via del tutto
discrezionale, di un ulteriore punto
aggiuntivo
(articolo ItaliaOggi
del 02.03.2012 - link a
www.ecostampa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Illegittimo il contributo del 2% sulla busta
paga. Sentenza
del Tar Calabria disdice la prassi Inpdap.
Sì ai rimborsi dal 2011Tfr, trattenuta non
dovuta.
Illegittima la trattenuta stipendiale
operata ai dipendenti pubblici (2%) e
versata all'Inpdap per il tfr, il
trattamento di fine rapporto. È illegittima
perché non prevista dall'articolo 2120 del
codice civile, il quale non dispone alcuna
compartecipazione contributiva dei
lavoratori con i datori di lavoro per il
diritto al tfr.
Lo stabilisce il TAR Calabria-Reggio Calabria
nella
sentenza 18.01.2012 n. 53, che condanna le
pubbliche amministrazioni allo stop
immediato del prelievo in busta paga nonché
alla restituzione di quanto trattenuto a
partire dall'01.01.2011. Soddisfazione è
stata espressa da Giovanni Torluccio,
segretario della Uil-Fpl che da tempo
denunciava questa sorta di «finanziamento
forzoso dello Stato a carico del lavoratore
pubblico».
La vicenda trae origine dalla legge n.
122/2010 (conversione del dl n. 78/2010) la
quale, all'articolo 12, comma 10, dispone
che, a partire dalle anzianità maturate dall'01.01.2011, tutti i trattamenti di fine
servizio comunque denominati vengano
determinati secondo le regole del codice
civile e in particolare dell'articolo 2120,
cioè con le stesse regole già operanti per i
lavoratori dipendenti del settore privato.
A
seguito della novità l'Inpdap è intervenuto
con circolare n. 17/2010 (si veda ItaliaOggi
del 12.10.2010), dettando i criteri
operativi con il placet del ministero del
lavoro. In base a tali criteri, dall'01.01.2011 tutte le buonuscite (di tutti i
dipendenti da amministrazioni individuate
dall'Istat ai sensi della legge n. 196/2009)
vengono calcolate in base alle regole del
tfr, con la ripartizione in due quote: la
prima relativa alle anzianità fino al 31.12.2010, secondo le vecchie regole (un
dodicesimo dell'80% della retribuzioni
utile); la seconda relativa alle anzianità
dall'01.01.2011, con applicazione
dell'aliquota del 6,91% alla retribuzione
utile.
In quella sede, l'Inpdap ha precisato
che la normativa ha mutato unicamente le
regole di calcolo del tfr, non anche la
«natura» dello stesso con la conseguenza di
rimanere confermate le voci retributive
utili, nonché «le modalità di finanziamento
e il contributo alle gestioni ex Enpas ed ex
Inadel secondo l'attuale ripartizione in
quote a carico del lavoratore e del datore
di lavoro» (ciò che viene censurato dal Tar
Calabria).
In pratica, anche dopo il cambio di
disciplina del tfr (da pubblica a privata),
le pa hanno continuato a praticare ai
lavoratori la ritenuta del 2,50% sull'80%
della retribuzione (ossia il 2% sul 100%
della busta paga)
(articolo ItaliaOggi
dell'01.03.2012). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati e abusi edilizi.
Antisismica necessaria anche se non c'e'
cemento armato.
Il reato
di mancata comunicazione del progetto agli
uffici competenti ai fini dei calcoli
antisismici e' configurabile anche nel caso
in cui, per la realizzazione dell'intervento
edilizio, non sia utilizzato il cemento armato.
La Corte di Cassazione si pronuncia
con la sentenza in esame su un caso
particolare relativo alla disciplina
cosiddetta antisismica. La questione, in
particolare, riguardava l’esecuzione di un
intervento edilizio posto in essere in
difetto della comunicazione degli elaborati
progettuali al Genio civile. La difesa aveva
sostenuto che la relativa violazione, punita
dall’art. 95 del d.P.R. n. 380/2001, non
fosse configurabile non essendo stato
impiegato il cemento armato nell’esecuzione
dei lavori.
La Corte ha, invece, ritenuta
destituita di fondamento la prospettazione
difensiva, precisando che il reato
antisismico in questione è configurabile a
prescindere dall’impiego o meno del cemento
armato nella realizzazione dell’intervento,
non potendo confondersi i due piani
normativi.
Il fatto
La vicenda processuale in questione tra
origine da una condanna inflitta a due
imputati per la violazione dell’art. 95 del
d.P.R. n. 380 del 2001, per aver eseguito in
zona sismica lavori senza preventiva
comunicazione all’ufficio del Genio Civile.
Il ricorso
Avverso tale decisione, gli imputati hanno
proposto ricorso, tramite il difensore,
deducendo, da un lato, la mancata
applicazione dell’art. 22, comma 2, del
d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto gli
interventi edilizi erano stati assentiti a
mezzo DIA e che i lavori eseguiti in
difformità non avevano avuto alcuna
incidenza strutturale ne' urbanistica.
Detto
in estrema sintesi, non sussistendo
violazioni penalmente rilevanti, non si
sarebbe neppure in presenza di violazioni
per mancata comunicazione del progetto agli
uffici competenti ai fini dei calcoli sul
cemento armato ed antisismici. In secondo
luogo, poi, per quanto qui di interesse, si
sosteneva che, ai fini della sussistenza del
reato contestato, e' necessario, non solo
che i lavori siano avvenuti in zona sismica,
ma anche che le opere siano state in cemento
armato.
La decisione della Cassazione
La decisione è stata, però, confermata dalla
Cassazione.
Al solito è utile procedere ad un
inquadramento normativo. La disciplina della
costruzioni in zona sismica è contenuta agli
artt. 83 e seguenti del d.P.R. n. 380 del
2001.
In particolare, la norma iniziale stabilisce
che “tutte le costruzioni la cui sicurezza
possa comunque interessare la pubblica
incolumità, da realizzarsi in zone
dichiarate sismiche …., sono disciplinate,
oltre che dalle disposizioni di cui
all'articolo 52, da specifiche norme
tecniche emanate, anche per i loro
aggiornamenti, con decreti del Ministro per
le infrastrutture ed i trasporti, di
concerto con il Ministro per l'interno,
sentiti il Consiglio superiore dei lavori
pubblici, il Consiglio nazionale delle
ricerche e la Conferenza unificata”.
L’art. 93 del citato d.P.R., poi specifica
che “nelle zone sismiche di cui all'articolo
83, chiunque intenda procedere a
costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni,
è tenuto a darne preavviso scritto allo
sportello unico, che provvede a trasmetterne
copia al competente ufficio tecnico della
regione, indicando il proprio domicilio, il
nome e la residenza del progettista, del
direttore dei lavori e dell'appaltatore.
Alla domanda deve essere allegato il
progetto, in doppio esemplare e debitamente
firmato da un ingegnere, architetto,
geometra o perito edile iscritto nell'albo,
nei limiti delle rispettive competenze,
nonché dal direttore dei lavori.
Il contenuto minimo del progetto è
determinato dal competente ufficio tecnico
della regione. In ogni caso il progetto deve
essere esauriente per planimetria, piante,
prospetti e sezioni ed accompagnato da una
relazione tecnica, dal fascicolo dei calcoli
delle strutture portanti, sia in fondazione
sia in elevazione, e dai disegni dei
particolari esecutivi delle strutture.
Al progetto deve inoltre essere allegata una
relazione sulla fondazione, nella quale
devono essere illustrati i criteri seguiti
nella scelta del tipo di fondazione, le
ipotesi assunte, i calcoli svolti nei
riguardi del complesso terreno-opera di
fondazione. (omissis)”.
La risposta sanzionatoria, in caso di
violazione di tale ultima disposizione, è
contenuta all’art. 95 che, nella specie,
prevede che “chiunque violi le prescrizioni
contenute nel presente capo e nei decreti
interministeriali di cui agli articoli 52 e
83 è punito con l'ammenda da L. 400.000 a L.
20.000.000”.
La disciplina riprende sostanzialmente le
previsioni contemplata nell’abrogato art. 20
della L. 02.02.1974, n. 64, recante
“Provvedimenti per le costruzioni con
particolari prescrizioni per le zone
sismiche”.
Premesso quanto sopra, è sicuramente più
intelligibile la decisione della Corte.
Gli Ermellini ricordano, sul punto, che la
questione della non incidenza sostanziale
dei lavori è irrilevante. A tal fine rileva
quanto affermato dalla stessa giurisprudenza
di legittimità (Cass. pen., Sez. III, n.
46081 del 08/10/2008, dep. 15/12/2008, imp.
S., in Ced Cass., n. 241783) secondo cui, ai
fini della configurabilità delle
contravvenzioni previste dagli artt.
articoli 71 e 95 del d.P.R. n. 380 del 2001
è irrilevante la natura dei lavori (ovvero
che si tratti di interventi di manutenzione
ordinaria o straordinaria ovvero di
interventi di nuova costruzione), in quanto
la violazione delle norme antisismiche e sul
cemento armato presuppone soltanto
l'esecuzione di lavori edilizi in zona
sismica ovvero che comportino l'utilizzo del
cemento armato.
E’ dunque corretto quanto affermano i
giudici di merito che, "per il solo fatto di
avere eseguito una (diverso) intervento
edilizio in zona sismica, indipendentemente
dalla natura e pericolosità degli stessi
lavori, entrambi gli imputati erano tenuti
agli obblighi di cui all’art. 95 del d.P.R.
citato".
Aggiunge, infine, la Corte che la tesi
sostenuta dalla difesa secondo cui, per la
configurabilità della contravvenzione in
discussione, sarebbero necessari, in
contemporanea, sia che la costruzione
avvenga in zona sismica, sia che venga
utilizzato il cemento armato “specula su una
errata lettura della sentenza di questa S.C.
e, soprattutto ignora il dato normativo
(Decreto del Presidente della Repubblica n.
380 del 2001, articolo 93) di tenore
assolutamente inequivoco nell'affermare che
chiunque intenda procedere a costruzioni,
riparazioni o sopraelevazioni in zona
sismica «e' tenuto a darne preavviso scritto
allo sportello unico»: nessuna distinzione
e' fatta in ordine alla entità dei lavori e
neppure e' richiesto che essi avvengano
anche in cemento armato”.
La sentenza merita ampia e convinta
condivisione.
La stessa del resto si inserisce in un solco
già tracciato dagli Ermellini che, di
recente, avevano affermato che qualsiasi
intervento edilizio in zona sismica –fatta
eccezione che per gli interventi di semplice
manutenzione ordinaria che sfuggono alla
relativa disciplina- comportante o meno
l'esecuzione di opere in conglomerato
cementizio amato, deve essere previamente
denunciato al competente ufficio al fine di
consentire i preventivi controlli e
necessita del rilascio del preventivo titolo
abilitativo, conseguendone, in difetto, la
violazione dell'art. 95 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Cass. pen., Sez. III, n. 34604
del 17/06/2010, dep. 24/09/2010, imp. T., in
Ced Cass., n. 248330) (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di
Cassazione penale, sentenza 13.01.2012 n.
884). |
EDILIZIA PRIVATA:
Natura e funzione del certificato
di abitabilità. Procedimento di rilascio e
condizioni per la formazione del
silenzio-assenso. Potere dell’Autorità
amministrativa di verificare la persistenza
delle condizioni igienico-sanitarie nel caso
di modifiche strutturali che implicano anche
un cambiamento dell'uso.
In base a quanto previsto dagli artt. 24 e
25 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (T.U.
edilizia), il certificato di abitabilità
delle costruzioni costituisce
un'attestazione da parte dei competenti
uffici tecnici comunali in ordine alla
sussistenza delle condizioni di sicurezza,
igiene, salubrità e risparmio energetico
degli edifici e degli impianti tecnologici
in essi installati, alla stregua della
normativa vigente. Ne deriva la legittimità,
in via generale, dello svolgimento da parte
degli organi comunali competenti di ogni
indagine utile al fine di effettuare una
consapevole valutazione sulla sussistenza
delle surriferite condizioni, soprattutto
quando in un edificio siano state realizzate
modifiche strutturali, che implicano anche
un cambiamento dell'uso degli spazi (1).
In base all'art. 25, commi 3-5, del D.P.R.
n. 380 del 2001, il procedimento di rilascio
del certificato di abitabilità, è articolato
sui seguenti principi fondamentali:
1) il
procedimento deve essere concluso nel
termine di 30 giorni dalla ricezione della
domanda di rilascio del certificato di
agibilità o di 60 giorni, nel caso in cui il
richiedente si sia avvalso della possibilità
di sostituire con autocertificazione il
parere dell'A.S.L. previsto dall'art. 5, 3°
comma, lett. a), del D.P.R. n. 380 del 2001;
2) il decorso del termine per la definizione
del procedimento, importa la formazione del
silenzio-assenso sull'istanza di rilascio
del certificato di agibilità;
3) il termine
del procedimento può essere interrotto una
sola volta dal responsabile del
procedimento, entro quindici giorni dalla
domanda, esclusivamente per la richiesta di
documentazione integrativa, che non sia già
nella disponibilità dell'Amministrazione o
che non possa essere acquisita
autonomamente; in tal caso, il termine per
la conclusione del procedimento ricomincia a
decorrere dalla data di ricezione della
documentazione integrativa;
4) il rilascio
del certificato di agibilità non impedisce
l'esercizio del potere di dichiarazione di
inagibilità di un edificio o di parte di
esso ai sensi dell'articolo 222 del regio
decreto 27.07.1934, n. 1265 (art. 26
D.P.R. n. 380 del 2001).
In caso di istanza di condono edilizio, il
rilascio del c.d. certificato di abitabilità
può avvenire in deroga soltanto alle norme
di tipo secondario e/o regolamentare, ma non
anche in deroga alle disposizioni normative
di fonte primaria e/o di legge, soprattutto
se attinenti alla materia dell'igiene
pubblica e dell'inquinamento del suolo, in
quanto diversamente, in caso di adesione ad
una possibile interpretazione di tipo
estensivo delle norme in materia di condono
edilizio, l'art. 35, comma 14, della legge
28.02.1985 n. 47 (come le altre norme
analoghe ad essa succedute nel tempo in
materia di condoni edilizi) sarebbe
palesemente incostituzionale per contrasto
con il fondamentale principio della tutela
della salute ex art. 32 Cost., inteso non
solo come diritto alla salute del singolo
individuo, ma anche come diritto dell'intera
collettività alla salubrità dell'ambiente
(2).
Se è vero che, in base a quanto previsto
dagli art. 24 e 25, del T.U. n. 380 del
2001, il certificato di agibilità delle
costruzioni costituisce un'attestazione da
parte dei competenti uffici tecnici comunali
in ordine alla sussistenza delle condizioni
di sicurezza, igiene, salubrità e risparmio
energetico degli edifici e degli impianti
tecnologici in essi installati, alla stregua
della normativa vigente, appare legittimo
che una valutazione sulla sussistenza di
dette condizioni, sia richiesta a fronte di
modifiche strutturali che implicano anche un
cambiamento dell'uso degli spazi e che
dunque il Comune non perda, neppure per
l’ipotesi di rilascio implicito del
certificato, ovvero per effetto di condono,
il potere-dovere di verificare la
sussistenza effettiva di dette condizioni di
salubrità e di intervenire laddove siano
riscontrate carenze (3).
E’ legittimo l’ordine di sgombero di taluni
appartamenti di un fabbricato collocati ai
piani scantinati del palazzo, perché,
all’esito di numerosi sopralluoghi, se ne è
manifestata la inabitabilità sia per carenza
del requisito relativo alle superfici minime
che di quelli igienico-sanitari,
concretandosi quindi un pericolo per la
salute pubblica il permanente loro utilizzo
a fini abitativi. Tale ordinanza di
sgombero, per l’evidente urgenza nel
provvedere, non deve essere preceduta da
alcuna comunicazione di avvio del
procedimento.
---------------
(1) Cfr., in argomento, TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 16.03.2011 n.
740.
(2) V. sul punto Cons. Stato, Sez. V, 15.04.2004 n. 2140 e 13.04.1999 n. 414
nonché TAR Sardegna 29.10.2002, n.
1422.
Ha precisato la sentenza in rassegna
(facendo riferimento alla sentenza della
Corte costituzionale n. 256 del 1996), che
la circostanza che le norme sul condono
edilizio prevedano, a seguito della
concessione in sanatoria, il rilascio del
certificato di abitabilità o agibilità anche
in deroga ai requisiti fissati da norme
regolamentari, purché non sussista contrasto
con le disposizioni vigenti in materia di
sicurezza statica e di prevenzione degli
incendi e degli infortuni, "non riguarda i
requisiti richiesti da disposizioni
legislative e deve, pertanto, escludersi una
automaticità assoluta nel rilascio del
certificato di abitabilità (...) a seguito
di concessione in sanatoria, dovendo invece
il Comune verificare che al momento del
rilascio del certificato di abitabilità
siano osservate non solo le disposizioni di
cui all'art. 221 T.U. delle leggi sanitarie
(rectius, di cui all'art. 4 del D.P.R. n.
425 del 1994), ma, altresì quelle previste
da altre disposizioni di legge in materia di
abitabilità e servizi essenziali relativi e
rispettiva normativa tecnica (...)
Permangono, infatti, in capo ai Comuni tutti
gli obblighi inerenti alla verifica delle
condizioni igienico-sanitarie per
l'abitabilità degli edifici, con l'unica
possibile deroga ai requisiti fissati da
norme regolamentari" (così, testualmente, la
sentenza della Corte costituzionale n. 256
del 1996 citata).
(3) Cfr. sul punto TAR Veneto, Sez. III,
02.01.2009 n. 6 nonché TAR Basilicata,
Sez. I, 29.11.2008 n. 916 (massima
tratta da www.regione.piemonte.it -
TAR Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 10.01.2012 n. 178
- link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La necessità della dichiarazione
circa il rispetto della normativa sui
disabili, ex art. 17 L. n. 68 del 1999,
sussiste indipendentemente dalle
prescrizioni contenute nei singoli bandi e
disciplinari di gara.
Eventuali lacune nelle dichiarazioni rese in
conformità al modello predisposto dalla
stazione appaltante non possono dare luogo
all’esclusione da una gara.
L’art. 17 della legge n. 68 del 1999, il
quale impone la presentazione sia di una
dichiarazione del legale rappresentante
attestante di essere in regola con le norme
disciplinanti il diritto al lavoro dei
disabili, sia di un’apposita certificazione
rilasciata dagli uffici competenti,
certificazione sostituibile, ordinariamente,
da un’autocertificazione, contiene una norma
di eccezionale rigore, la cui natura
imperativa ne determina l’automatico
inserimento nella disciplina della gara
indipendentemente dalle prescrizioni
contenute nei singoli bandi e disciplinari
di gara (1).
L'esigenza di apprestare tutela
all'affidamento nelle gare di appalto induce
a ritenere che la stazione appaltante non
possa escludere dalla gara un'impresa che
abbia compilato l'offerta in conformità al
facsimile all'uopo da essa stessa
approntato, potendo eventuali parziali
difformità rispetto al disciplinare
costituire oggetto di richiesta di
integrazione, ai sensi di quanto disposto
dall’art. 46 del codice dei contratti
pubblici, volto a dare rilevanza, anche nel
testo anteriore al cd. decreto sviluppo
(d.l. n. 70 del 2011), alle mancanze
sostanziali, piuttosto che alle mancanze
formali; deve infatti ritenersi che nessun
addebito possa essere contestato all’impresa
interessata per essere stata indotta in
errore, all'atto della presentazione della
domanda di partecipazione alla gara, dal
negligente comportamento della stazione
appaltante, che ha mal predisposto la
relativa modulistica (2).
---------------
(1) Cfr. Cons. Stato, sez. V, 16.02.2009, n. 840.
(2) Cfr. Cons. Stato, sez. V, 05.07.2011,
n. 4029 (sulla illegittimità dell’esclusione
dalla gara per omessa dichiarazione di un
requisito previsto dalla lex specialis, ove
l’omissione sia dovuta all’impiego di uno
schema di dichiarazione predisposto dalla
stazione appaltante).
In applicazione del principio nella specie è
stato ritenuto che, in presenza di un
facsimile di dichiarazione, che
integralmente e oggettivamente faceva
ritenere ad un concorrente di esaurire lo
spettro degli obblighi afferenti al rispetto
della legge sui disabili, la Stazione
appaltante non poteva disporre l’esclusione
dalla gara potendo la stessa, in presenza di
dubbi sulla reale portata di quanto
dichiarato, considerare necessaria una
regolarizzazione, sul piano formale, della
dichiarazione stessa, ai sensi di quanto
disposto dall’art. 46 del codice dei
contratti pubblici, volto a dare rilevanza,
anche nel testo anteriore al cd. decreto
sviluppo (D.L. n. 70 del 2011), alle
mancanze sostanziali, piuttosto che alle
mancanze formali (massima tratta da
www.regione.piemonte.it -
Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 10.01.2012 n. 31 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO ALL'01.03.2012 |
ã |
GIU' LE MANI DALLO STIPENDIO !! |
Lo scorso 15.02.2012, il sindacato UIL-PA pubblicava
sul proprio sito un articolo dal titolo "Basta
con le ingiustizie - Riprendiamoci i nostri soldi"
che, di seguito, viene riproposto per intero: |
LIQUIDAZIONI,
TRATTAMENTI DI FINE SERVIZIO, TRATTAMENTO DI FINE
RAPPORTO - PARTONO LE DIFFIDE PER LA RESTITUZIONE
DELLE INDEBITE RITENUTE DEL 2,5% SULL'80% SULLE
NOSTRE RETRIBUZIONI, CHE LE AMMINISTRAZIONI
CONTINUANO AD OPERARE, NONOSTANTE LE SOSTANZIALI
MODIFICHE APPORTATE ALL'ISTITUTO DELLA BUONUSCITA.
Come noto l’art. 12, comma 10, del D.L. n. 78/2010
–convertito in L. n. 122/2010– prescrive che il
computo dei trattamenti di fine servizio per i
lavoratori alle dipendenze delle pubbliche
amministrazioni, con riferimento alle anzianità
contributive maturate a decorrere dall’01.01.2011,
avvenga secondo la disciplina di cui all’art. 2120
Cod. Civ., con l’applicazione di un’aliquota del
6,91% sull’intera retribuzione.
Ciò implica la disapplicazione, a partire
dall'01.01.2011, dell'attuale sistema di calcolo,
previsto dal DPR 1032/1973 che stabilisce una
contribuzione complessiva del 9,60% sull'80% della
retribuzione, con rivalsa sul dipendente nella
misura del 2,5%.
Ora questa rivalsa non ha più ragione d'essere per
due motivi sostanziali:
1- la nuova disposizione non ne fa più menzione,
indicando nel 6,91% l'entità della contribuzione;
2- l'art. 2120 del Cod. Civ., che ora si deve
applicare, pone a carico del datore di lavoro
l'onere contributivo e non prevede alcun meccanismo
di rivalsa sui dipendenti, lasciando all'autonomia
contrattuale l'individuazione delle voci retributive
da considerare quale base di calcolo.
Ciò nonostante le amministrazioni hanno continuato
ad operare le trattenute del 2,5%, senza tener conto
delle novità introdotte, determinando una ulteriore,
evidente disparità di trattamento con il settore
privato ed una indebita trattenuta.
Alla fine, per far valere i nostri diritti ed una
corretta interpretazione delle norme, saremo
costretti individualmente a diffidare le
amministrazioni ed in seguito adire le vie legali.
La UIL PA, dopo attenta valutazione della materia,
ha deciso di intraprendere questa strada, intanto
invitando tutti i lavoratori interessati a compilare
e notificare alla propria amministrazione l'atto di
diffida e interruzione della prescrizione, come da
fac-simile allegato. La diffida dovrà essere
presentata al proprio ufficio ed alla competente
Ragioneria territoriale dello stato con raccomandata
a mano o postale, avendo cura di ottenere una
ricevuta con data e timbro.
Nelle successive fasi, in caso di mancata
ottemperanza, la UIL PA attraverso i legali
convenzionati è pronta a sostenere in giudizio la
vertenza, raccogliendo le adesioni dei singoli
lavoratori.
|
Invero, non appena avuta notizia ci siamo prodigati a
chiedere lumi all'ufficio personale di un comune la
cui responsabile ha prontamente risposto che non era
d'accordo con la tesi del sindacato citando, a
motivazione, alcune note dell'Inpdap. Non solo,
anche un paio di sindacati nazionali, a livello di
sede provinciale, hanno "fatto spallucce" ...
senza darci alcuna risposta.
Orbene, la UIL-PA ci ha visto lungo ... leggete i due
articoli similari sotto riportati.
|
PUBBLICO IMPIEGO: Statali,
illegittima la trattenuta del 2% dopo il
passaggio da buonuscita a Tfr.
Il Tar dà torto allo stato: vanno restituite
ai dipendenti pubblici le somme accantonate
dallo scorso anno.
Dal primo gennaio dello scorso anno lo Stato
sta trattenendo illegittimamente il 2 per
cento dello stipendio a circa due milioni di
dipendenti pubblici.
Lo afferma il TAR Calabria-Reggio Calabria
nella
sentenza 18.01.2012 n. 53 con la
quale ha condannato l’amministrazione a
restituire le relative somme, con gli
interessi, ai dipendenti che avevano
presentato ricorso, aprendo così la strada
ad azioni dello stesso tipo in tutta Italia.
Ora è prevedibile che la presidenza del
Consiglio faccia le sue contromosse, non
solo in sede giudiziaria ma anche
legislativa; il pronunciamento della
magistratura segna però un importante punto
a favore dei lavoratori in una vicenda
iniziata con la manovra economica approvata
dal governo nell’estate del 2010.
Quella legge (la 122) oltre a bloccare il
rinnovo dei contratti e a congelare per tre
anni le retribuzioni dei dipendenti
pubblici, cambiava il meccanismo della
liquidazione, trasformando la vecchia
indennità di buonuscita in un trattamento di
fine rapporto (Tfr) del tutto analogo a
quello in vigore per i privati, secondo
quanto previsto dal Codice civile. La
differenza tra i due meccanismi è
consistente. Per la buonuscita venivano
accantonati contributi pari al 9,60 per
cento sull’80 per cento della retribuzione;
il 2,5 per cento (di fatto quindi il 2
sull’intero stipendio) era a carico del
lavoratore. Con il Tfr invece
l’accantonamento è del 6,91 sull’intera
retribuzione, interamente a carico del
datore di lavoro.
L’abolizione della vecchia disciplina, in
generale più vantaggiosa rispetto al Tfr,
avrebbe dovuto comportare la cancellazione
della trattenuta del 2,5 per cento, che i
dipendenti vedono sul cedolino dello
stipendio alla voce «Opera di previdenza».
Invece le cose sono andate diversamente. Le
varie amministrazioni, confortate anche da
una circolare dell’Inpdap, hanno continuato
a regolarsi come prima, trattenendo ogni
mese quella somma (in media 35-40 euro)
dallo stipendio di circa due milioni di
dipendenti pubblici, che avranno però al
momento di lasciare il servizio una
liquidazione meno favorevole. Per di più
-come precisato dalla stessa Inpdap-
nonostante il passaggio al Tfr, che per i
privati si calcola su tutto lo stipendio, la
base retributiva per la liquidazione dei
dipendenti pubblici resterà l’80 per cento
del totale: è un ulteriore elemento di
disparità.
La novità non riguarda tutti gli statali:
sono esclusi i lavoratori assunti dal 2001
in poi, che in base ad una riforma approvata
all’epoca hanno già il Tfr e non la
buonuscita. A loro la trattenuta non viene
fatta, perché la retribuzione è stata
ridotta in proporzione dal momento in cui
sono stati assunti. Una situazione non
ottimale ma comunque diversa da quella di
chi -tutti gli altri dipendenti- si è visto
cambiare le regole in corsa.
Contro questo stato di cose qualcuno ha
deciso di scegliere la via giudiziaria: in
particolare si sono rivolti al TAR
Calabria-Reggio Calabria, alcuni magistrati
amministrativi. Nel loro ricorso hanno messo
in discussione la costituzionalità del nuovo
assetto (anche per la disparità di
trattamento tra lavoratori pubblici e
privati) chiedendo in particolare che fosse
riconosciuta l’illegittimità -dal primo
gennaio 2011- della trattenuta e di
conseguenza l’obbligo per le amministrazioni
di restituire gli importi con gli interessi.
Il tribunale ha emesso una sentenza non
definitiva, riservandosi di rimettere alla
Corte le questioni di costituzionalità, ma
riconoscendo la fondatezza delle specifiche
richieste. Ora però le cause si stanno
moltiplicando e il governo dovrà porsi il
problema di cosa fare, al di là della
resistenza giudiziaria.
È chiaro che la semplice rinuncia alla
trattenuta avrebbe un costo difficilmente
sostenibile per le finanze pubbliche,
nell’ordine del miliardo di euro l’anno o
anche di più. La soluzione potrebbe essere
l’apertura di una trattativa. «La
sentenza ci dà ragione -commenta
Giovanni Torluccio, segretario generale
della Uil-Fpl- è ora che lo Stato la
smetta di operare un vero e proprio
finanziamento forzoso a carico del
lavoratore pubblico»
(articolo Il
Messaggero del 29.02.2012 - tratto da
www.ecostampa.it).
---------------
N.B.: lo stesso TAR Calabria-Reggio
Calabria, con
ordinanza 01.02.2012 n. 89, "...
ritenuta la
rilevanza e la non manifesta infondatezza
della questione di legittimità
costituzionale dell’art. 9, comma 2, comma
21, primo periodo, e comma 22, primo,
secondo e terzo periodo, nonché art. 12,
comma 7, del DL 31.05.2010 n. 78 convertito,
con modificazioni, in L. 30.07.2010 n. 122
in relazione agli artt. 2, 3, 24, 36, 41,
42, 53, 97, 100, 101, 103, 104, 108, 111 e
113 della Costituzione,
dispone la sospensione del giudizio e
trasmissione degli atti alla Corte
Costituzionale.". |
PUBBLICO IMPIEGO: «Statali,
illegittime le trattenute sulle buste paga».
Sentenza del Tar Calabria contro i tagli del
2%. Nel mirino la manovra Tremonti
dell'estate 2010.
La strategia Il governo
ora teme ricorsi in tutta Italia Allo studio
un'ipotesi di trattativa.
Dal primo gennaio dello
scorso anno lo Stato sta trattenendo
illegittimamente il 2 per cento dello
stipendio a circa due milioni di dipendenti
pubblici.
Lo afferma il TAR Calabria-Reggio Calabria
nella
sentenza 18.01.2012 n. 53 con la
quale ha condannato l'amministrazione a
restituire le somme in questione ai
dipendenti che avevano fatto ricorso,
aprendo così la strada ad azioni dello
stesso tipo in tutta Italia. Ora è
prevedibile che la presidenza del Consiglio
faccia le sue contromosse, non solo in sede
giudiziaria ma anche legislativa; ma il
pronunciamento della magistratura segna un
importante punto a favore dei lavoratori in
una vicenda iniziata con la manovra
economica approvata dal governo nell'estate
del 2010.
Quella legge (la 122) oltre a bloccare il
rinnovo dei contratti e a congelare per tre
anni le retribuzioni dei dipendenti
pubblici, cambiava il meccanismo della
liquidazione, trasformando la vecchia
indennità di buonuscita in un trattamento di
fine rapporto (Tfr) del tutto analogo a
quello in vigore per i privati, secondo
quanto previsto dal Codice civile. La
differenza tra i due meccanismi è
consistente. Perla buonuscita venivano
accantonati contributi pari al 9,60 per
cento sull'80 per cento della retribuzione;
il 2,5 per cento (di fatto quindi i12
sull'intero stipendio) era a carico del
lavoratore. Con il Tfr invece
l'accantonamento è del 6,91 sull'intera
retribuzione, interamente a carico del
datore di lavoro.
L'abolizione della vecchia disciplina, in
generale più vantaggiosa rispetto al Tfr,
avrebbe dovuto comportare la cancellazione
della trattenuta del 2,5 per cento, che i
dipendenti vedono sul cedolino dello
stipendio alla voce «Opera di previdenza».
Invece le cose sono andate diversamente. Le
varie amministrazioni, confortate anche da
una circolare dell' Inpdap, hanno continuato
a regolarsi come prima, trattenendo ogni
mese quella somma (in media 35-40 euro)
dallo stipendio di circa due milioni di
dipendenti pubblici, che avranno però al
momento di lasciare il servizio una
liquidazione meno favorevole.
La novità non riguarda tutti: sono esclusi i
lavoratori assunti dal 2001 in poi, che in
base ad una riforma approvata all'epoca
hanno già il Tfr e non la buonuscita. A loro
la trattenuta non viene fatta, perché la
retribuzione è stata ridotta in proporzione
dal momento in cui sono stati assunti. Una
situazione non ottimale, ma comunque diversa
da quella di chi -tutti gli altri
dipendenti- si è visto cambiare le regole in
corsa.
Contro questo stato di cose qualcuno ha
deciso di scegliere la via giudiziaria: in
particolare si sono rivolti al TAR
Calabria-Reggio Calabria, alcuni magistrati
amministrativi. Nel loro ricorso hanno messo
in discussione la costituzionalità del nuovo
assetto (anche perla disparità di
trattamento tra lavoratori pubblici e
privati) chiedendo in particolare che fosse
riconosciuta l'illegittimità -dal primo
gennaio 2011- della trattenuta e di
conseguenza l'obbligo per le amministrazioni
di restituire gli importi con gli interessi.
Il tribunale ha emesso una sentenza non
definitiva, riservandosi di rimettere alla
Corte le questioni di costituzionalità, ma
riconoscendo la fondatezza delle specifiche
richieste. Ora però le cause si stanno
moltiplicando e il governo dovrà porsi il
problema di cosa fare, al di là della
resistenza giudiziaria.
È chiaro che la semplice rinuncia alla
trattenuta avrebbe un costo difficilmente
sostenibile per le finanze pubbliche,
nell'ordine del miliardo di euro l'anno o
anche di più. la soluzione potrebbe essere
l'apertura di una trattativa. «La
sentenza ci dà ragione -commenta
Giovanni Torluccio, segretario generale
della Uil-Fpl- è ora che lo Stato la
smetta di operare un vero e proprio
finanziamento forzoso a carico del
lavoratore pubblico»
(articolo Il
Mattino del 29.02.2012 - tratto da
www.corteconti.it).
---------------
N.B.: lo stesso TAR Calabria-Reggio
Calabria, con
ordinanza 01.02.2012 n. 89, "...
ritenuta la
rilevanza e la non manifesta infondatezza
della questione di legittimità
costituzionale dell’art. 9, comma 2, comma
21, primo periodo, e comma 22, primo,
secondo e terzo periodo, nonché art. 12,
comma 7, del DL 31.05.2010 n. 78 convertito,
con modificazioni, in L. 30.07.2010 n. 122
in relazione agli artt. 2, 3, 24, 36, 41,
42, 53, 97, 100, 101, 103, 104, 108, 111 e
113 della Costituzione,
dispone la sospensione del giudizio e
trasmissione degli atti alla Corte
Costituzionale.".
|
E la replica della UIL-PA, dopo la suddetta sentenza
del TAR, non si è fatta attendere con l'ulteriore
comunicato 27.02.2012 "TFR-
TFS - Ccà nisciuno è fesso!" che, di
seguito, riproponiamo integralmente: |
A
PROPOSITO DI TFS-TFR
Quando alcune settimane fa abbiamo dato avvio alla
nostra campagna proponendo ai lavoratori di
inoltrare diffida contro l'ingiustificata trattenuta
del 2,5% sull'80% della retribuzione, per le
decorrenze successive all'01.01.2011, siamo stati
bersagliati da critiche provenienti da diversi
ambienti, non solo dell'amministrazione pubblica,
abbastanza comprensibile ma, purtroppo, anche da
altre sigle sindacali.
Ora che è passato qualche giorno, dopo la sentenza
di un TAR che sposa in sostanza la nostra tesi,
possiamo registrare che anche chi diceva di
diffidare di noi comincia ad avere dubbi su come
questa materia è stata interpretata dalle
amministrazioni e, soprattutto sulla legittimità
della trattenuta alla luce dei principi
costituzionali. Cominciano quindi ad essere proposti
ai lavoratori modelli di diffida scopiazzati dal
nostro.
Adesso ci attendiamo che anche sull'altra nostra
importante iniziativa "Riformiamo la Riforma" accada
la stessa cosa: dopo le elezioni RSU chi oggi la
boicotta o la sbeffeggia ne scoprirà l'opportunità e
la validità.
Non abbiamo brevettato la diffida, né abbiamo
brevettato la nostra ferma convinzione che, di
fronte al muro di gomma alzato sui problemi del
pubblico impiego dagli ultimi due Governi, da questo
Parlamento e dai partiti politici, sono necessarie
idee nuove, nuove forme di comunicazione, di fare
sindacato.
Ognuno è libero di proporre ai propri iscritti ed ai
lavoratori le iniziative che crede.
Ma, poiché "Ccà nisciuno è fesso!" loro sapranno
giudicare e scegliere.
|
Senza parteggiare per l'uno o per l'altro sindacato,
dobbiamo riconoscere l'onore al merito della UIL-PA.
E, allora, avanti tutta con l'inoltro
della diffida alla propria
amministrazione di appartenenza per farci restituire
quanto indebitamente trattenuto ancora oggi nello
stipendio. |
01.03.2012
- LA SEGRETERIA PTPL |
NOVITA' NEL
SITO |
Inserito nel sito il seguente
nuovo DOSSIER:
●
impugnazione atti: legittimazione. |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
PUBBLICO IMPIEGO:
L. Oliveri,
Dirigenti locali: il cumulo degli stipendi è
un illecito
(link a www.leggioggi.it). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
ENTI LOCALI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 9 del
29.02.2012, "Disposizioni in materia di
artigianato e commercio e attuazioni della
direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo
e del Consiglio del 12.12.2006 relativa ai
servizi nel mercato interno. Modifiche alle
leggi regionali 30.04.2009, n. 8 (Disciplina
della vendita da parte delle imprese
artigiane di prodotti alimentari di propria
produzione per il consumo immediato nei
locali dell’azienda) e 02.02.2010, n. 6
(Testo unico delle leggi regionali in
materia di commercio e fiere)" (L.R.
27.02.2012 n. 3). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ENTI LOCALI - VARI:
G.U. 27.02.2012 n. 48, suppl. ord. n. 36/L,
"Testo del
decreto-legge 29.12.2011, n. 216 coordinato
con la legge di conversione 24.02.2012, n.
14 recante: «Proroga di termini
previsti da disposizioni legislative.».
---------------
Al riguardo si legga anche la
NOTA DI LETTURA SULLE NORME DI INTERESSE DEI
COMUNI (ANCI, 24.02.2012). |
QUESITI &
PARERI |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Quali
cer possono utilizzarsi ai fini
dell'iscrizione all'Albo Gestori Ambientali?
(28.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Il
rinvio del SISTRI al 30 giugno è legge?
(28.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: L'operazione
di rigenerazione degli oli usati può essere
disposta in deroga al D.M. n. 392/1996?
(28.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Chi
esegue i controlli previsti dall'A.I.A. per
gli impianti localizzati in mare?
(28.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Chi
è competente al rilascio dell'autorizzazione
all'immersione di materiali in mare?
(28.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Che
è l'Autorizzazione Unica Ambientale?
(28.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Si
semplificano i limiti del deposito
temporaneo per gli imprenditori agricoli?
(28.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Come
si semplifica la movimentazione dei rifiuti
agricoli?
(28.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Il
soggetto che firma un FIR presso l'impianto
di destino deve avere specifiche qualifiche
professionali?
(28.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Perché
un soggetto diverso dal legale
rappresentante dell'azienda possa firmare il
FIR occorre una delega formale?
(28.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Chi
può firmare il FIR?
(28.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: La
persona che firma il FIR, accettando i
rifiuti presso l'impianto di destino, quali
responsabilità assume?
(28.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Impianti elettrici aerei.
Domanda.
Si chiede se rientra nella potestà comunale
imporre, nel proprio territorio, l'obbligo
generalizzato di interramento degli impianti
elettrici aerei.
Risposta.
In ordine alla esistenza o meno di una
competenza del comune a far valere esigenze
di tutela della salute pubblica o di tutela
del paesaggio o dell'ambiente in tema di
installazione di impianti elettrici aerei
sul proprio territorio, vincolando gli
stessi all'obbligo generalizzato di
interramento, il Tribunale regionale
amministrativo (Tar) Lombardia, Brescia,
sezione I, con la sentenza del 29.12.2010, n. 4983, ha affermato che
l'illegittimità della deliberazione con la
quale la giunta municipale vieta in via
preventiva e generalizzata la realizzazione
sull'intero territorio comunale di linee e/o
reti tecnologiche, telefoniche ed elettriche
aeree, imponendo l'obbligo di realizzazione
delle stesse mediante interramento per
esigenze di tutela paesaggistica e
ambientale.
In materia è da dire che la
Corte costituzionale, con la sentenza
dell'11.11.2010, n. 313, ha
precisato che non spetta alla regione il
potere di autorizzazione per gli impianti
costituenti parte della rete nazionale. Di
conseguenza, per i giudici costituzionali,
la legge regionale che disciplina la materia
degli elettrodotti attiene soltanto agli
impianti non facenti parte della rete
nazionale.
Le stessa Corte costituzionale, con la
sentenza numero 248, del 28.06.2006,
aveva dichiarato non fondata la questione di
legittimità costituzionale dell'articolo 38
della legge della regione Toscana 24.02.2005, n. 39, sottoposto
all'esame della consulta, in riferimento
all'articolo 117, comma 3, della
Costituzione, nella parte in cui aveva
attribuito alla giunta regionale il potere
di rilasciare autorizzazione in sanatoria
sulle linee e sugli impianti elettrici
aventi tensione compresa tra 30.000 e
150.000 volts, già realizzati prima
dell'entrata in vigore della legge regionale
medesima.
Per la Corte costituzionale, nella
fattispecie, non sussiste alcuna violazione
del principio fondamentale di cui
all'articolo 1-sexies, comma 1, del decreto
legge 29.08.2003, n. 239, convertito
con modificazioni nella legge 27.10.2003, n. 290, che attribuisce al
Ministero delle attività produttive la
competenza al rilascio dell'autorizzazione
alla costruzione e all'esercizio di
elettrodotti facenti parte della rete
nazionale di trasporto, in quanto può
interpretarsi come riferita esclusivamente
agli elettrodotti non appartenenti alla rete
nazionale (articolo ItaliaOggi
sette del 27.02.2012). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
Cessione di cubatura.
Domanda.
La cosiddetta cessione di cubatura in che
relazione si pone con Imposta comunale sugli
immobili (Ici)?
Risposta.
In tema di cessione di cubatura, la Corte di
cassazione, con la sentenza del 14.12.1988, n. 6807, ha affermato che la
rinuncia preventiva alla cubatura, o
l'assenso che quella sia utilizzata dal
concessionario, hanno la funzione di
presupposto affinché l'autorità preposta al
rilascio della licenza edilizia possa
autorizzare il cessionario a costruire con
la più ampia volumetria che egli ha
acquisito per effetto del provvedimento che
incrementa in concreto l'edificabilità del
suo suolo di quanto corrispondentemente
priva l'altro suolo limitrofo.
Ha aggiunto
la Suprema corte che la rinuncia allo
sfruttamento edilizio del proprio fondo
fatta a favore del fondo limitrofo ha
efficacia soltanto se l'autorità
amministrativa autorizzi il corrispondente
incremento delle possibilità di sfruttamento
edilizio di tale fondo. Pertanto, prima del
rilascio di tale provvedimento vi è soltanto
un vincolo obbligatorio tra i proprietari
che hanno pattuito la cessione di cubatura e
non un asservimento attuale di un fondo a
favore di un altro.
Con la sentenza n.
20623, del 2009, la Corte di cassazione
sottolinea che nella cessione di cubatura si
è in presenza di una fattispecie a
formazione progressiva in cui su
dichiarazione delle parti la pubblica
amministrazione competente emette o meno un
provvedimento concessorio discrezionale e
non vincolato che, a seguito dalla rinuncia
del cedente, può essere emanato a favore del
concessionario, non essendo configurabile
tra le parti l'esistenza di un rapporto
traslativo. Ne consegue che il mancato
rilascio della concessione edilizia è
ragione di inefficacia del negozio concluso
dai proprietari dei fondi limitrofi e non
risoluzione del medesimo per inadempimento
del cedente. Ai fini Ici, la valutazione dei
lotti deve essere rapportata all'effettiva
loro capacità edificatoria a seguito del
rilascio del provvedimento concessorio.
È da dire, infine, che con il decreto legge
13.05.2011, n. 70, convertito con
modificazioni dalla legge n. 106 del 2011, è
stato introdotto la cessione di cubatura. Il
legislatore, difatti, ha integrato
l'articolo 2643 del codice civile ed ha
inserito, dopo il n. 2, il nuovo comma
2-bis, il cui contenuto è: «i contratti
che trasferiscono, costituiscono o
modificano i diritti edificatori comunque
denominati, previsti da normative statali o
regionali, ovvero da strumenti di
pianificazione territoriale» (articolo ItaliaOggi
sette del 27.02.2012). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
Nuovo strumento urbanistico.
Domanda.
L'emissione di un nuovo strumento
urbanistico, dopo la cessione di cubatura,
rileva in ordine al valore del terreno ai
fini dell'Imposta comunale sugli immobili
(Ici)?
Risposta.
La Corte di cassazione, con la sentenza del
30.04.2009, n. 21177, esaminando il
caso in cui dopo la cessione di cubatura
subentri un nuovo strumento urbanistico, ha
affermato che: «Questo collegio ritiene di
dovere ribadire che soltanto per effetto del
rilascio del provvedimento amministrativo
(licenza edilizia, concessione edilizia o
permesso di costruire) si costituisce il
“vincolo di asservimento” che, senza oneri
di forma pubblica, incide definitivamente
sulla disciplina urbanistica ed edilizia
delle aree interessate, in quanto nel
territorio comunale il titolo abitativo
edilizio crea un nuovo lotto di pertinenza
urbanistica dell'edificio, che non coincide
con i confini di proprietà e ha una
consistenza indipendente rispetto ai
successivi interventi nelle aree medesime,
derivandone l'impossibilità di assentire e
di richiedere ulteriori ed eccedenti
realizzazioni di volumi costruttivi sul
fondo asservito per la parte in cui esso è
rimasto privo della potenzialità
edificatoria già utilizzata dal titolare del
fondo in favore del quale ha avuto luogo
l'asservimento».
Ha aggiunto, poi, la Suprema corte: «Le
possibilità di edificazione previste
dall'introduzione di un nuovo piano
regolatore non valgono a rendere edificabili
aree che sono già state prese in
considerazione, ai fini della verifica del
rispetto dell'indice di edificabilità
fondiaria, in sede di rilascio di precedenti
titoli abilitativi edilizi, dovendo
ritenersi definitivamente perdute le
potenzialità edificatorie dell'area
asservita per il semplice fatto che di esse
si è già irreversibilmente disposto».
Ai fini dell' Imposta comunale sugli
immobili (Ici), la stessa Corte di
cassazione, con la sentenza n. 25676, del
2008, aveva affermato che le aree che
posseggono caratteristiche tali da non
consentire l'edificazione non sono
inedificabili, ma tali caratteristiche
incidono sulla determinazione del valore
imponibile. Pertanto, come affermato dalla
predetta Corte di cassazione, anche con le
sentenze del 2010, n. 12135 e n. 9781, per
citare le più recenti, la presenza di
vincoli non incide sulla natura dell' area,
ma sulla sua valutazione. L'area rimane, ai
fini dell'Imposta comunale sugli immobili
(Ici), edificabile (articolo ItaliaOggi
sette del 27.02.2012). |
EDILIZIA PRIVATA:
Limiti alla localizzazione.
Domanda.
In materia di competenza regolamentare dei
comuni per il corretto insediamento degli
impianti radioelettrici, vorrei che mi
venisse puntualizzata la differenza tra
«criteri localizzativi» e «limiti alla
localizzazione».
Risposta.
L'articolo 8, comma 6, della legge quadro
sulla protezione dalle esposizioni a campi
elettrici ed elettromagnetici del 22.02.2001, n. 36, dispone che i
comuni possono adottare regolamenti per
assicurare il corretto insediamento
urbanistico e territoriale degli impianti e
minimizzare l'esposizione della popolazione
ai campi elettromagnetici.
Il comune, però,
alla luce di detta normativa, che, per la
giurisprudenza (Consiglio di stato, sezione VI, sentenza del 27.04.2010, n.
2371), attribuisce una particolare
competenza che è distinta dalla competenza
urbanistica ed edilizia di esclusiva
competenza dei comuni, non può adottare
misure che in concreto vengano a derogare i
limiti di esposizione fissati dal decreto
del presidente del consiglio dei ministri
dell'08.07.2003. Limiti che vengono
individuati:
- nel generalizzato divieto di installazione
delle stazioni radio base per la telefonia
cellulare in tutte le zone territoriali
omogenee a destinazione residenziale;
- nell'introduzione di misure che, pur
essendo di tipo urbanistico, quali le
distanze, le altezze ecc., non sono
funzionali al governo del territorio, in
quanto, come affermato dal Consiglio di
stato, sezione VI, con la sentenza del 02.11.2007, n. 5673, attengono alla
tutela dai rischi dell'elettromagnetismo.
Peraltro, in tema di competenza
regolamentare dei comuni per il corretto
insediamento degli impianti radioelettrici,
attribuita dal citato articolo 8, comma 6,
della legge quadro sulla protezione dalle
esposizioni a campi elettrici ed
elettromagnetici del 22.02.2001,
n. 36, il Consiglio di stato, sezione VI,
con le sentenze del 05.06.2006, n.
3452, 19.05.2008, numero 2287, 17.07.2008, numero 3596, ha puntualizzato la
differenza tra «criteri localizzativi» e
«limiti alla localizzazione».
I primi, per i
supremi giudici amministrativi, competono ai
comuni, perché recano criteri specifici
rispetto a localizzazioni puntuali, mentre i
secondi non competono in quanto portatori di
divieti generalizzati per intere aree. La
giurisprudenza, quindi, ha ridimensionato la
portata applicativa del suddetto articolo,
8, comma 6, della legge quadro sulla
protezione dalle esposizioni a campi
elettrici ed elettromagnetici del 22.02.2001,
n. 36.
Infatti sono illegittimi i regolamenti
comunali, relativi alla fissazione di
criteri per la localizzazione di
elettrodotti o stazioni base, se l'Ente
territoriale, con essi, si sia posto
l'obiettivo, anche indiretto, di tutelare la
salute umana dalle emissioni
elettromagnetiche, provenienti da impianti
di radiocomunicazione, stabilendo, ad
esempio, distanze minime delle stazioni
radio base da di insediamenti abitativi,
atteso che l'articolo 117 della costituzione
attribuisce la competenza in materia alla
legislazione concorrente stato-regioni (articolo ItaliaOggi
sette del 27.02.2012). |
EDILIZIA PRIVATA:
Vincolo diretto e indiretto.
Domanda.
Che differenza esiste fra un «vincolo
diretto» e un «vincolo indiretto»?
Risposta.
«A
differenza del vincolo diretto, che riguarda
il bene culturale, il vincolo indiretto si
caratterizza per coinvolgere l'ambito
costituente la “fascia di rispetto”, che non
coincide con l'ambito materiale dei confini
perimetrali dei singoli immobili, ma va
stabilita in rapporto alla consistenza della
c.d. “cornice ambientale”; ciò comporta che
il vincolo indiretto può essere imposto
sull'area che si trova in vista o in
prossimità del bene culturale»: si è
espresso così, ribadendo un concetto
assodato e condiviso, il Tar dell'Umbria,
Perugia, Sezione 1, con la sentenza del
20.01.2011, n. 16 (articolo ItaliaOggi
sette del 27.02.2012). |
EDILIZIA PRIVATA: Cornice ambientale.
Domanda.
Cosa si intende per «cornice ambientale»? E
con quali dati il vincolo indiretto può
agire su di essa?
Risposta.
Per fornire una risposta completa facciamo
riferimento alla sentenza n. 28 del Tar
Sicilia, Palermo, sezione 2, dell'11.01.2011.
In tale contesto si chiarisce che: «La
legittimità delle misure apprestate dalla
Soprintendenza ai fini dell'apposizione di
un vincolo indiretto va stabilita con
riguardo alla globale consistenza della
cosiddetta cornice ambientale, la quale si
estende fino a ricomprendere ogni immobile,
anche non contiguo, ma pur sempre in
prossimità del bene monumentale, che sia con
questo in tale relazione che la sua
manomissione sia idonea, secondo una
valutazione ampiamente discrezionale
dell'autorità, ad alterare il complesso
delle caratteristiche fisiche e culturali
che connotano lo spazio e quello circostante
(cfr. Consiglio di stato sez. VI n. 420 del
09/06/1993).
Ciò in quanto occorre preservare una
continuità storico ed artistica con gli
insediamenti che circondano l'oggetto del
vincolo diretto, indipendentemente, quindi,
dalla circostanza che i terreni sottoposti a
vincolo non presentino alcun pregio e siano
in stato di abbandono» (articolo ItaliaOggi sette
del 27.02.2012). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Mobbing.
Domanda.
Perché si possa configurare il mobbing è
sufficiente che vi siano dei comportamenti
ostili del superiore nei confronti del
lavoratore?
Risposta.
Per «mobbing» si intende una condotta
del datore di lavoro o del superiore
gerarchico, sistematica e protratta nel
tempo, tenuta nei confronti del lavoratore
nell'ambiente di lavoro, che si risolve in
sistematici e reiterati comportamenti ostili
che finiscono per assumere forme di
prevaricazione o di persecuzione
psicologica, da cui può conseguire la
mortificazione morale e l'emarginazione del
dipendente, con effetto lesivo del suo
equilibrio fisiopsichico e del complesso
della sua personalità.
Ai fini della configurabilità della condotta
lesiva del datore di lavoro sono, pertanto,
rilevanti:
a) la molteplicità di comportamenti di
carattere persecutorio, illeciti o anche
leciti se considerati singolarmente, che
siano stati posti in essere in modo
miratamente sistematico e prolungato contro
il dipendente con intento vessatorio;
b) l'evento lesivo della salute o della
personalità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra la condotta del
datore o del superiore gerarchico e il
pregiudizio all'integrità psico-fisica del
lavoratore;
d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè
dell'intento persecutorio.
La sussistenza della lesione del bene
protetto e delle sue conseguenze deve essere
verificata, sulla base di una valutazione
complessiva degli episodi indicati in
giudizio, considerando l'idoneità offensiva
della condotta del datore di lavoro, che può
essere dimostrata, per la sistematicità e
durata dell'azione nel tempo, dalle sue
caratteristiche oggettive di persecuzione e
discriminazione, anche in assenza della
violazione di specifiche norme attinenti
alla tutela del lavoratore subordinato (articolo ItaliaOggi
sette del 27.02.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: I
parrucchieri e gli estetisti sono agevolati
nell’attività di smaltimento dei rifiuti
speciali? Sono tenuti al MUD?
(09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Quali
novità nella disciplina in materia di
V.I.A.?
(09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Si
attenueranno i limiti del deposito
temporaneo?
(09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Si
semplificherà la movimentazione aziendale
dei rifiuti? (09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Sono
in previsione semplificazioni
dell’Autorizzazione Unica Ambientale?
(09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Le
imprese agricole sono esonerate dal Sistri?
(09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - TRIBUTI: Si
applica l’IVA alla tassa rifiuti?
(09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Le
semplificazioni degli adempimenti
amministrativi delle imprese disposte dal
D.L. n. 214/2011 modificano il Testo unico
Ambientale?
(09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Cosa
è accaduto alle imprese iscritte entro il
14.04.2008 che non hanno provveduto
all’aggiornamento dell’iscrizione?
(09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Esistono
deroghe al divieto di smaltimento dei
rifiuti di provenienza extraregionale?
(09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: In
cosa consiste la liberalizzazione del
servizio di gestione dei rifiuti urbani?
(09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: In
materia ambientale vale sempre il principio
di offensività?
(09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Chi
è legittimato all’azione di risarcimento
conseguente alla lesione dell’interesse
collettivo all’ambiente?
(09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Quando
entrerà in vigore il SISTRI?
(09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: A
cosa sono tenuti commercianti e intermediari
dei rifiuti senza detenzione per iscriversi
all’Albo Nazionale Gestori Ambientali?
(09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - TRIBUTI: La
Tarsu e la Tia esisteranno ancora nel 2013?
(09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Il
divieto di smaltimento dei rifiuti di
provenienza extraregionale si estende anche
alle operazioni di recupero?
(09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Si
prevedono controlli più rigidi contro la
gestione illecita dei rifiuti?
(09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Nel
sito dell’Albo nazionale gestori ambientali
esiste un’area riservata alle imprese
iscritte?
(09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Sono
in previsione novità nella normativa RAEE?
(09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Si
è liberalizzata la gestione dei rifiuti di
imballaggio? (09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Il
proprietario di un'area inquinata ha sempre
il dovere di mettere in sicurezza il sito?
(09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Il
reato di traffico illecito di rifiuti può
concretarsi in un impianto dotato di
regolare autorizzazione?
(09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Cosa
si dispone in tema di terre e rocce da scavo
nel decreto legge n. 1/2012?
(31.01.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Come
deve avvenire lo smaltimento dei rifiuti
sanitari pericolosi? Si può adoperare anche
un imballaggio esterno riutilizzabile?
(31.01.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Dove
sono stabiliti modalità e importi delle
garanzie finanziarie che devono essere
prestate a favore dello Stato dai
commercianti e intermediari dei rifiuti
senza detenzione dei rifiuti stessi?
(21.12.2011 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Quali
sono le modalità di rinnovo per le imprese
iscritte alle cat. 2 e 3 dell'Albo, abrogate
in seguito all'entrata in vigore del D.Lgs.
n. 205/2010?
(21.12.2011 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Quali
sono i tempi e modalità per l’aggiornamento
delle iscrizioni al trasporto in conto
proprio dei rifiuti?
(21.12.2011 - link a www.ambientelegale.it). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI: Sotto
i 50mila abitanti. Vincoli estesi.
Aziende speciali solo nei grandi enti.
I limiti per la partecipazione a società da
parte dei Comuni di minori dimensioni vanno
interpretati in modo rigoroso e si estendono
anche a società patrimoniali e aziende
speciali.
La Corte dei conti, sezione regionale di
controllo della Emilia-Romagna,
con il
parere 13.02.2012 n. 9 ha
definito in modo
puntuale l'applicazione dell'articolo 14,
comma 32, della legge 122/2010, in base al
quale costituzione o la partecipazione in
società che gestiscono servizi pubblici
locali a rilevanza economica da parte dei
Comuni con popolazione sino a 30mila
abitanti non è consentita, fatta eccezione
per le due sole deroghe permesse dalla
stessa disposizione, in quanto lo strumento
societario non è una modalità obbligatoria
per lo svolgimento dei servizi. Per i Comuni
fra i 30mila e i 50mila abitanti la
costituzione di nuove società o il
mantenimento di partecipazioni è consentito
in relazione a una sola società.
La deliberazione della Corte dei conti
emiliana evidenzia anche che le società
patrimoniali costituite in base all'articolo
113, commi 2 e 13 del Tuel, va considerata
una modalità superata e non più consentita,
dovendo rimanere pubblica la proprietà di
reti, impianti e altre dotazioni
patrimoniali relative a servizi pubblici
locali di rilevanza economica.
Pertanto questi enti locali non solo non
possono costituire nuove società
patrimoniali, ma dovranno anche dismettere
le società patrimoniali ancora oggi
operanti, non essendo più consentito che la
proprietà delle reti, impianti ed altre
dotazioni destinate all'esercizio di servizi
pubblici locali a rilevanza economica sia
detenuta da società. Nei limiti previsti
dalla disposizione, gli enti potranno al più
costituire società o detenere partecipazioni
in società cui sia affidata la gestione
delle reti.
La Corte dei conti rileva inoltre che,
nonostante l'ambito di applicazione
soggettivo dell'articolo 14, comma 32, sia
espressamente limitato ai soli organismi
societari, l'articolo 25, comma 2, del Dl
1/2012, introducendo il comma 5-bis
all'articolo 114, estende alle aziende
speciali e istituzioni l'applicazione delle
disposizioni che stabiliscono a carico degli
enti locali obblighi e limiti alla
partecipazione societaria degli enti locali
(articolo Il Sole 24
Ore del 27.02.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Part-time. L'estensione non può eludere i tetti
alle assunzioni.
La spesa frena l'orario ampliato.
I dubbi sulle possibilità di assunzione
degli enti locali si spostano sul part-time.
Diverse pronunce contrastanti della Corte
dei conti stanno portando alla ribalta la
questione su quando la trasformazione del
rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo
pieno vada considerata come nuova
assunzione, con effetti sul turn-over.
Gli enti soggetti a Patto possono assumere
nel limite del 20% della spesa delle
cessazioni dell'anno precedente, gli altri
nel limite delle cessazioni dell'ultimo
esercizio. Il rapporto a tempo parziale si
può attivare direttamente o trasformando un
contratto a tempo pieno, quando possibile.
Se l'assunzione in origine è a tempo
parziale la questione si fa più complicata.
In questo contesto si applica infatti
interamente l'articolo 3, comma 101, della
Finanziaria 2008, dove si prevede che per il
personale assunto con contratto a tempo
parziale la trasformazione del rapporto a
tempo pieno può avvenire nel rispetto delle
modalità e dei limiti previsti in materia di
assunzioni.
La situazione si infittisce però di fronte
ad un'altra domanda: anche l'aumento delle
ore del rapporto di lavoro instaurato a
part-time, senza giungere alle 36
contrattuali, costituisce nuova assunzione?
I magistrati contabili sono divisi.
Nel
parere 13.02.2012 n. 8 della Corte dei conti
Emilia Romagna si ritiene che esuli
dall'applicazione dell'articolo 3, comma
101, e quindi non possa essere considerato
nuova assunzione, l'incremento orario di un
contratto a tempo parziale purché non si
determini una trasformazione a tempo pieno.
Tesi confermata anche dai magistrati
contabili del Piemonte (delibera 57/2011),
della Toscana (delibera n. 198/2011) e
Campania (delibera 496/2011).
Di avviso contrario la Corte dei conti della
Lombardia. Nella deliberazione 226/2011
viene affermato che l'aumento delle ore è
assimilabile a una nuova assunzione poiché
il dipendente era stato assunto a tempo
parziale.
Questa impostazione è in linea con la nota
46078/2010 redatta dalla Funzione Pubblica
d'intesa con la Ragioneria Generale, dove si
afferma che sono subordinati ad
autorizzazione ad assumere anche gli
incrementi di part-time concernenti il
personale che è stato assunto con questa
tipologia di contratto.
Quest'ultima analisi sembra quella più
coerente e vicina al contesto normativo
attuale. Operando diversamente, si
rischierebbe di eludere i vincoli del turn over. Al momento dell'espletamento di un
concorso va infatti verificato il rispetto
dei vincoli assunzionali. Se
un'amministrazione ha una spesa di
cessazioni che può permettere di assumere
solo con un rapporto a tempo parziale, una
successiva estensione di orario andrebbe
oltre il limite.
Non vi sono invece dubbi sul fatto che
qualsiasi estensione di orario costituisce
incremento di spesa e va quindi disposta nel
rispetto dei tetti alle uscite
(articolo Il Sole 24
Ore del 27.02.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
NEWS |
APPALTI: Modificato
il Codice dei contratti pubblici. Appalti,
esclusi gli evasori fiscali.
Esclusione dagli appalti per violazioni
fiscali oltre i 10.000 euro accertate in via
definitiva in quanto riferite al pagamento
di debiti certi, scaduti ed esigibili.
È
questo il chiarimento fornito dall'articolo
1 del decreto legge sulle semplificazioni
fiscali che interviene sul comma 2
dell'articolo 38 del codice dei contratti
pubblici relativi a lavori, servizi e
forniture (dlgs 163/2006) per quanto attiene
al concetto di definitività
dell'accertamento fiscale.
Diversamente dalla precedente bozza, che
generava qualche confusione interpretativa
(vedi ItaliaOggi del 22 febbraio), la nuova
formulazione, più correttamente, interviene
direttamente nel corpus del comma 2
dell'articolo 38 del codice dei contratti
(non più inserendo una lettera g-bis)
andando a precisare uno dei due elementi
disciplinati dalla lettera g) del comma 1
della disposizione che dispone l'esclusione
dagli appalti per i soggetti che abbiano «commesso
violazioni gravi, definitivamente accertate,
rispetto agli obblighi relativi al pagamento
delle imposte e tasse, secondo la
legislazione italiana o quella dello stato
in cui sono stabiliti».
Infatti per il primo elemento che qualifica
la violazione fiscale, cioè quello attinente
alla gravità della violazione, è la stessa
norma attualmente vigente a riferirsi
all'articolo 48-bis, comma 1 e 2-bis del dpr
29.09.1973, n. 602, che prevede il valore di
10.000 euro, peraltro soggetto a variazione
in aumento, con decreto di natura non
regolamentare fino al doppio, o in
diminuzione. La novella inserita dal decreto
legge sulla semplificazione fiscale riguarda
quindi il secondo elemento, cioè
l'accertamento definitivo della violazione.
La norma in particolare chiarisce che «costituiscono
violazioni definitivamente accertate quelle
relative all'obbligo di pagamento di debiti
per imposte e tasse certi, scaduti ed
esigibili». Solo a tali condizioni, che
devono, almeno stando al tenore della
proposta normativa, essere presenti
contemporaneamente, le stazioni appaltanti
potranno disporre l'esclusione dalla gara
per il concorrente.
La nuova norma stabilisce che siano fatti
salvi i comportamenti già adottati dalle
stazioni appaltanti (non più dagli «Uffici»,
come recitava la precedente bozza) in
coerenza con la previsione contenuta nel
comma 1, cioè in base alla formulazione
della lettera g) precedente all'introduzione
del chiarimento disposto dal decreto legge
(articolo ItaliaOggi del 29.02.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: Durc, controlli doppi.
Testati i soci dipendenti e autonomi. Nota Cnce sulla regolarità contributiva delle
cooperative.
Serve una doppia verifica di regolarità
contributiva per il rilascio del Durc alle
società cooperative di artigiani e di
lavoratori autonomi. Infatti, quando le
cooperative operano solo con soci lavoratori
autonomi, non c'è obbligo d'iscrizione alla
cassa edili e, di conseguenza, ogni
richiesta di regolarità contributiva (Durc)
va indirizzata solamente all'Inps e Inail.
Invece, quando le cooperative operano sia
con soci lavoratori dipendenti che con soci
lavoratori autonomi, ai fini del rilascio
del Durc, le casse edili procederanno alla
doppia verifica: regolarità contributiva
ordinaria (per i soci dipendenti) e
regolarità contributiva singola (Inps e
Inail) per i soci lavoratori autonomi.
Lo
precisa la Cnce (la Commissione nazionale
paritetica per le casse edili) col
comunicato 23.02.2012 a proposito
del rilascio del Durc a cooperative di
artigiani e di lavoratori autonomi.
Il Durc è l'attestazione che certifica
l'assolvimento, da parte dell'impresa, degli
obblighi normativi e contrattuali nei
confronti di Inps, Inail e cassa edile.
Contiene il risultato delle verifiche
effettuate parallelamente da Inail, Inps e
cassa edile sulla posizione contributiva
dell'impresa; sarà negativo quando anche uno
soltanto dei tre enti dichiara
l'irregolarità dell'impresa.
I chiarimenti della Cnce arrivano con
riferimento alle segnalazioni pervenute da
alcune casse edili in merito a richieste di
certificati Durc relative a imprese
costituite come società «cooperative di
artigiani» o società «cooperative di
lavoratori autonomi». La Cnce spiega che
qualora le cooperative in esame dichiarino
di non avere soci lavoratori dipendenti ma
di operare esclusivamente con soci
lavoratori autonomi, le stesse (cooperative)
non hanno l'obbligo dell'iscrizione alla
cassa edile e, pertanto, non possono nemmeno
richiedere il Durc secondo la disciplina
ordinaria.
In questi casi, infatti, aggiunge
la Cnce, ogni richiesta di Durc deve essere
indirizzata soltanto agli istituti pubblici
previdenziali, cioè all'Inps e all'Inail che
rilasceranno autonome attestazioni
concernenti o meno la regolarità
contributiva. Qualora invece le predette
società cooperative abbiano anche soci
lavoratori dipendenti e sia effettuata una
richiesta di Durc attraverso la procedura
ordinaria prevista per le imprese edili, la
cassa edile provvederà a rilasciare un Durc
di regolarità previa verifica anche del
possesso di un Durc Inps e Inail da parte
dei lavoratori autonomi che, soci delle
cooperative, risultino operanti nel
cantiere.
Infine, la Cnce evidenzia che le
associazioni nazionali delle imprese
cooperative hanno istituito, con la
collaborazione di Inps e Inail, mediante
apposita convenzione, degli specifici
«osservatori» presso le direzioni
territoriali del lavoro (le ex dpl,
direzioni provinciali del lavoro),
finalizzati alla verifica della coerenza di
tali forme di cooperative, di artigiani e di
lavoratori autonomi, con quanto previsto
dalla disciplina normativa (legge n.
142/2001)
(articolo ItaliaOggi del 29.02.2012). |
APPALTI: Centrale
unica, rinvio al 2013. In G.U. il dl milleproroghe
convertito.
Prorogato di un anno (al 31.03.2013)
l'obbligo per i comuni al di sotto dei 5000
abitanti di affidare appalti con una unica
centrale di committenza.
E' quanto si
prevede al comma 11-ter dell'articolo 29
della legge 24.02.2012 n. 14 (in G.U.
n. 48 di ieri) che ha convertito in legge il
decreto milleproroghe (n. 216/2011).
Il
provvedimento fa slittare di dodici mesi il
termine previsto dall'art. 23, comma 5, del
decreto legge n. 201/2011. Si tratta della
norma nella quale si stabilisce che i comuni
con popolazione non superiore a 5.000
abitanti dovranno obbligatoriamente affidare
ad un'unica centrale di committenza
l'acquisizione di lavori, servizi e
forniture. Tutto ciò doveva avvenire entro
fine marzo di quest'anno, ma l'emendamento
votato prevede che la disposizione si
applichi alle gare bandite successivamente
al 31.03.2013.
L'articolo 23 del decreto
legge n. 201/2011, ai commi 4 e 5, aveva
introdotto un comma aggiuntivo (il comma
3-bis) all'art. 33 del dlgs n. 163/2006, il
Codice dei contatti pubblici, prevedendo
l'obbligo per i comuni con popolazione non
superiore a 5.000 abitanti ricadenti nel
territorio di ciascuna provincia di affidare
ad un'unica centrale di committenza
l'acquisizione di lavori, servizi e
forniture. Tale obbligo può essere
soddisfatto secondo due modalità:
nell'ambito delle unioni dei comuni, ove
esistenti; ovvero costituendo un apposito
accordo consortile tra i comuni medesimi e
avvalendosi dei competenti uffici.
Il comma
5 dell'articolo 23 ha, quindi, specificato
che tali disposizioni si applichino alle
gare bandite successivamente al 31.03.2012. La finalità della norma di cui adesso
viene rinviata di un anno l'applicazione, è
quella di permettere una riduzione dei costi
di gestione delle procedure grazie alle
economie di scala.
Quanto alle centrali di committenza la
relativa disciplina è recata dall'art. 33
del Codice contratti che prevede che le
stazioni appaltanti e gli enti aggiudicatori
possono acquisire lavori, servizi e
forniture facendo ricorso a centrali di
committenza, anche associandosi o
consorziandosi e che tali centrali sono
tenute all'osservanza del Codice
(articolo ItaliaOggi del 28.02.2012). |
LAVORI PUBBLICI:
Nuovi chiarimenti ministeriali al regime di
responsabilità tra committenti e ditte
esecutrici. Il nolo a caldo è senza
solidarietà.
L'affitto di macchinari non è equiparabile a
un appalto.
La responsabilità solidale non si applica al
noleggio di macchinari con disponibilità di
lavoratori per la loro messa in funzione
(cosiddetto nolo a caldo).
Lo precisa il
Ministero del lavoro nell'interpello
27.01.2012 n.
2/2012 spiegando che la responsabilità
solidale è un istituto strettamente legato
all'appalto.
La responsabilità solidale. È una sorta di
vincolo che lega, negli appalti, la ditta
che affida un lavoro a quella che tale
lavoro esegue. Il vincolo vale relativamente
ai diritti retributivi, fiscali e
contributivi spettanti ai lavoratori che
sono impiegati nell'esecuzione dei lavori.
Oggi vige una doppia disciplina: quella che
lega il committente con le ditte
appaltatrici e subappaltatrici (disciplinata
dal dlgs n. 276/2003, la riforma Biagi del
lavoro) e quella che lega l'appaltatore con
le ditte subappaltatrici (disciplinata dalla
legge n. 248/2006).
Questa la differenza tra
le due tipologie di solidarietà: la prima (dlgs
n. 276/2003) contempla una responsabilità
per tutti i soggetti della catena degli
appalti e, quindi, «committente-appaltatore-subappaltatore», nei limiti
temporali di due anni dal termine
dell'appalto; la seconda (legge n. 248/2006)
prevede la solidarietà tra appaltatore e
subappaltatore, senza risalire, quindi, al
committente e senza alcun vincolo temporale.
Il contratto di «nolo». La fattispecie del
«nolo», affrontata dal ministero del lavoro
nell'interpello n. 2/2012, è una figura
contrattuale atipica diffusa nella prassi
commerciale che ha ad oggetto il noleggio
ovvero la concessione in uso di macchinari e
l'eventuale prestazione lavorativa di un
operatore. In mancanza d'esplicita
definizione legislativa, l'istituto è
solitamente inquadrato dalla giurisprudenza
della Corte di cassazione nell'ambito della
disciplina civilistica del contratto di
locazione (articolo 1571 e seguenti del
codice civile), e viene distinto nelle due
tipologie del «nolo a freddo» e del «nolo a
caldo».
La prima fattispecie (nolo a freddo)
ha quale oggetto del contratto
esclusivamente la locazione del macchinario;
la seconda figura (nolo a calco) risulta,
invece, caratterizzata dallo svolgimento
dell'attività lavorativa da parte di un
dipendente del locatore (di chi concede in
uso il macchinario), addetto all'utilizzo
del macchinario, attività che si presenta
del tutto accessoria, in ogni caso, rispetto
alla prestazione principale costituita dalla
messa a disposizione del bene (così, tra
l'altro, sentenza n. 23604/2009, n.
34327/2009 e n. 41791/2009 della Cassazione,
sezione penale).
La giurisprudenza, inoltre,
ha evidenziato pure quali siano gli elementi
utili ai fini della qualificazione della
fattispecie concreta in termini di nolo a
caldo, nonché la differenza esistente, a
prescindere dal nomen iuris attribuito dalle
parti al rapporto negoziale, tra
quest'ultima e gli schemi contrattuali
dell'appalto e del subappalto (disciplinati
agli articoli 1655 e seguenti del codice
civile).
Nello specifico, l'appaltatore e
l'eventuale subappaltatore si obbligano nei
confronti del committente al compimento di
un'opera ovvero alla prestazione di un
servizio, organizzando i mezzi di produzione
e l'attività lavorativa per il
raggiungimento del risultato produttivo
autonomo. Diversamente, nel «nolo» il
locatore mette a disposizione soltanto il
macchinario ed, eventualmente, l'addetto al
suo utilizzo, senza alcuna ingerenza
nell'attività produttiva e/o
nell'organizzazione aziendale di chi prende
a noleggio.
«Nolo» senza responsabilità solidale. Il
ministero risponde ai consulenti del lavoro
che hanno chiesto chiarimenti in merito alla
corretta interpretazione dell'articolo 35,
comma 28, del dl n. 223/2006 (convertito
dalla legge n. 248/2006), concernente la
responsabilità solidale di appaltatore ed
eventuali subappaltatori per il versamento
delle ritenute fiscali e dei contributi
previdenziali e assicurativi dei lavoratori
dipendenti impiegati nell'esecuzione dei
lavori.
In particolare, i consulenti hanno
chiesto di sapere se il predetto regime di
solidarietà possa trovare applicazione anche
con riferimento alle tipologie contrattuali
cosiddette del «nolo a caldo» eccedenti il
2% dell'importo complessivo delle
prestazioni affidate, con la conseguente
responsabilità per l'assolvimento degli
obblighi fiscali e contributivi a carico del
committente-noleggiatore. La risposta del
ministero è negativa. La disciplina sulla
responsabilità solidale, spiega, è
evidentemente legata alla figura
dell'appalto e non a quella del nolo a caldo
(ferme restando forme patologiche di
utilizzo di tale ultimo strumento
contrattuale), sebbene non possa sottacersi
un importante indirizzo giurisprudenziale
volto a interpretare il complessivo quadro
normativo nel senso di una estensione quanto
più ampia possibile del regime solidaristico
in ragione di una maggior tutela per i
lavoratori interessati.
Più in particolare,
spiega il ministero, si ricordano le
argomentazioni sostenute dalla Corte di
cassazione con la sentenza n. 6208/2008 che
non ha escluso la possibilità di applicare
la solidarietà nei rapporti tra un consorzio
e imprese consorziate assegnatarie dei
lavori sia pur in assenza di un vero e
proprio contratto di subappalto.
Nello
specifico la Suprema corte, nel richiamare
l'articolo 141, comma 4, del dpr n.
554/1999, in virtù del quale l'affidamento
dei lavori da parte del consorzio alle
proprie consorziate non costituisce
subappalto, ha affermato che l'intenzione
del legislatore, secondo un'interpretazione
in chiave sistematica, non è stata quella di
escludere le speciali e necessarie tutele
previste a favore dei lavoratori contemplate
dalla disciplina civilistica dell'appalto
ovvero del subappalto.
Da ciò dunque
sembrerebbe evincersi che, in tali ipotesi,
sia comunque possibile applicare garanzie di
carattere sostanziale a tutela della persona
che lavora, prevalendo queste ultime sui
profili afferenti alla qualificazione
giuridica di tipo formale in merito alla
natura del negozio di affidamento dei
lavori.
---------------
Il decreto semplificazioni interviene in
materia.
Le ultime novità in materia di
responsabilità solidale negli appalti sono
in vigore dal 10 febbraio, in virtù della
pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del dl
n. 5/2012 (cosiddetto decreto
semplificazioni). Due, nello specifico, le
novità. La prima riguarda il trattamento di
fine rapporto di lavoratori (il tfr): la
solidarietà, stabilisce il decreto
semplificazioni, comprende «le quote» del
trattamento di fine rapporto in relazione al
periodo d'esecuzione del contratto di
appalto.
La novità, ha spiega il ministero del lavoro
(circolare n. 2/2012), elimina ogni ipotesi
interpretativa volta ad addebitare al
responsabile in solido l'intero importo del
tfr dovuto al lavoratore
dell'appaltatore/subappaltatore che, durante
il periodo di svolgimento dell'appalto,
abbia maturato il diritto al trattamento.
La seconda novità esclude dall'ambito della
responsabilità solidale «qualsiasi obbligo
per le sanzioni civili di cui risponde solo
il responsabile dell'inadempimento». In
pratica, viene eliminata l'interpretazione
fornita dallo stesso ministero
nell'interpello n. 3/2010 (si veda ItaliaOggi
del 10.04.2010) che invece riteneva
sussistere la solidarietà anche per tali
sanzioni in quanto aventi natura
risarcitoria (articolo ItaliaOggi
sette del 27.02.2012). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Giallo sulle Giunte dei mini-sindaci.
Verso le elezioni. Sancita l'abolizione ma
competenze al buio.
Giallo sulle Giunte negli oltre 1.900 Comuni
con meno di mille abitanti. Una delle
problematiche rimaste aperte con l'entrata
in vigore dell'articolo 16, comma 17, del Dl
138/2011 148 2011 concernente la riduzione
del numero dei consiglieri e degli assessori
comunali per i Comuni fino a 10mila
abitanti, è quella della sopravvivenza o
meno delle Giunte nei comuni sotto i mille;
in caso di mancata sopravvivenza, va poi
chiarito quale sia l'organo cui vanno
devolute le competenze della Giunta.
Il problema non è marginale soprattutto dal
momento che sono molti i Comuni con meno di
mille abitanti chiamati al turno elettorale
amministrativo di primavera.
Al riguardo, la circolare del ministero
dell'Interno, Dipartimento affari interni
del 16.02.2012 prende una posizione
netta, nel senso di ritenere alla luce della
lettera a) dell'articolo 16, comma 17, che
ha previsto la sola presenza nei Comuni
sotto i mille abitanti dei soli consiglieri
comunali, non essendo previste le figure di
assessori per questi Comuni, risulterebbe
abrogata di fatto la figura della Giunta e
verrebbero attribuite esclusivamente al
sindaco le ex competenze degli assessori.
In realtà, il quadro è caratterizzato da una
lacuna normativa che il Parlamento deve
colmare anche in sede di Codice delle
autonomie.
Dalla normativa non sembra emergere nessuna
disposizione che attribuisca espressamente
al sindaco le competenze che prima erano in
capo alla giunta ,competenze che tra l'altro
non sono indifferenti e che spaziano
dall'approvazione dei progetti di opere
pubbliche ai progetti di bilancio e della
relazione al rendiconto di gestione
(articolo Il Sole 24
Ore del 27.02.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
GIURISPRUDENZA |
AMBIENTE-ECOLOGIA: La fuliggine diventa «molesta» anche se non
si superano i limiti. Prevale la «comune
tollerabilità» dei condòmini.
La fuliggine che esce dalla canna fumaria di
un forno è molesta anche se le emissioni non
superano il limite di legge. Se è vero che è
buono il profumo del pane appena sfornato,
certamente non è altrettanto gradevole avere
la casa annerita dai vapori che escono
dall'impianto di aereazione di una
panetteria. Almeno così la pensavano gli
abitanti del condominio che ha dichiarato
guerra al proprietario di un forno, il cui
impianto di smaltimento spargeva la nera
fuliggine sulla facciata del palazzo.
La Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la
sentenza
27.02.2012 n. 7605, dà
partita vinta ai condomini e conferma la
condanna, inflitta al panettiere dal
Tribunale di Sassari, per il reato di "getto
pericoloso" di cose previsto dall'articolo
674 del Codice penale.
Inutile il tentativo del fornaio di
denunciare la contraddizione in cui, a suo
avviso, erano caduti i giudici di merito che
lo avevano invece assolto dall'accusa di
aver violato l'articolo 24 del decreto del
presidente della Repubblica n. 203 del 1988
con il quale sono state recepite le
direttive comunitarie sull'inquinamento
prodotto dalle realtà industriali. Una
decisione che sarebbe, a parere del
panificatore, un implicito via libera a
svolgere la sua attività.
Ma non è così. Gli ermellini spiegano,
infatti, che la molestia non c'è soltanto
nel caso in cui le emissioni superino il
tetto imposto da speciali norme giuridiche
ma anche quando si oltrepassa la misura
della comune tollerabilità per come fissata
dall'articolo 844 del Codice civile, il
quale stabilisce che nel giudizio devono
avere un peso lo stato dei luoghi e anche il
giusto bilanciamento tra le esigenze di
produzione e quelle della proprietà.
In
questo caso si affermano senz'altro le
seconde, al punto che la Corte di cassazione
avalla, considerando sufficienti le prove
raccolte, anche il rifiuto di assumere come
teste a discarico, oltre al tecnico addetto
alla manutenzione del forno anche un
condomino. Troppo poco per essere assolto.
In maniera diversa è andata invece a un
collega del ricorrente che non ha pagato
pegno pur avendo un impianto rumoroso. La
Cassazione, con la sentenza 05.09.2011 n.
33072 lo ha infatti "graziato" perché
del rumore si era lamentata soltanto una
famiglia. Per il reato di molestia serve,
infatti, che il fastidio sia avvertito da un
«numero indeterminato di persone»
(articolo Il Sole 24
Ore del 28.02.2012). |
PUBBLICO IMPIEGO: Avvocato
e dipendente Pa part-time. Sull'incompatibilità decide la Consulta.
Non è detto che l'attività professionale di
un avvocato sia incompatibile con quella di
dipendente pubblico part-time.
A porre il
dubbio è stata la Corte di Cassazione che,
con l'ordinanza n. 2929/2012, ha ritenuto
opportuno attendere «la decisione della
Corte costituzionale sul prospettato dubbio
di legittimità costituzionale» relativo alla
legge 339/2003.
In attesa che la Corte
costituzionale si pronunci, la Cassazione ha
deciso di sospendere l'efficacia della
decisione del Consiglio nazionale forense
che aveva cancellato dall'albo degli
avvocati un professionista che aveva
iniziato a lavorare come dipendente pubblico
part-time. Secondo il Cnf, la legge 339/2003
ha sancito l'incompatibilità anche
reatroattiva.
La Cassazione, invece, ha
dichiarato «non manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale
della legge 339 del 2003, articoli 1 e 2,
nella parte in cui non prevedono che il
regime di incompatibilità stabilito
dall'articolo 1 non si applichi ai
dipendenti pubblici a tempo parziale ridotto
non superiore al 50% del tempo pieno, già
iscritti negli albi degli avvocati».
Sempre in materia di avvocati, la Cassazione
(sentenza 2924/2012) ha respinto il ricorso
di un legale che aveva proposto reclamo
contro i risultati delle elezioni del
Consiglio dell'Ordine svoltesi senza che ne
fosse data notizia sul sito dell'Ordine
nazionale.
Secondo il Cnf, la mancata pubblicazione
«costituiva una mera irregolarità inidonea a
inficiare il risultato elettorale». L'avviso
delle elezioni, infatti, era stato
pubblicato sui giornali locali e affisso
nelle aule degli uffici giudiziari del
circondario. In più, l'avviso di
convocazione era stato inviato anche per
posta elettronica agli iscritti. Alle
elezioni, in effetti, era stato raggiunto il
quorum. La Cassazione, quindi, ha respinto
la richiesta di annullamento delle elezioni.
---------------
I principi
01 | ORDINANZA 2929/2012
Secondo la Corte di cassazione è opportuno
attendere la decisione della Corte
costituzionale sul dubbio di legittimità
costituzionale relativo alle legge 339/2003,
che ha stabilito l'incompatibilità, anche
retroattiva, tra la professione di avvocato
e il lavoro di dipendente pubblico.
In
attesa che la Corte costituzionale si
pronunci, la Cassazione ha deciso per
l'accoglimento dell'istanza del ricorrente
di sospendere l'efficacia della decisione
del Consiglio nazionale forense, che lo
aveva cancellato dall'albo.
02 | SENTENZA 2924/2012
Non sono nulle le elezioni del Consiglio
dell'Ordine degli avvocati che non sono
state pubblicizzate sul sito internet
dell'Ordine nazionale. La Cassazione ha
respinto il ricorso di un iscritto, che
lamentava la mancanza di un annuncio sul
web.
Secondo il Cnf, tale irregolarità è
«inidonea» a inficiare il risultato delle
elezioni, posto che queste erano state
pubblicizzate sui quotidiani locali e
attraverso l'affissione di avvisi in
Tribunale. Per di più, alle elezioni
contestate era stato raggiunto il quorum
(articolo Il Sole 24
Ore del 28.02.2012). |
LAVORI PUBBLICI: Circolazione.
Strade dissestate.
La caduta fortuita libera il Comune.
Il Comune non risponde, a titolo di
responsabilità per danni da cose in
custodia, delle lesioni personali occorse a
un ciclista, se la caduta dal mezzo non è
stata cagionata da un preteso avvallamento
insidioso del manto stradale ma solo dalla
distrazione del conducente della bicicletta,
che non si è accorto della presenza sulla
strada di una griglia per lo scolo delle
acque piovane. Il custode, infatti, è
responsabile dei danni patiti da terzi, a
meno che l'evento, come in questo caso, sia
riconducibile al caso fortuito.
Lo ha deciso la Corte di Cassazione
(sentenza n. 1310/2012), che ha così rigettato,
ritenendolo «manifestamente privo di
pregio», il ricorso avanzato da un uomo,
rimasto vittima di un incidente stradale
mentre viaggiava in sella alla propria
bicicletta.
L'uomo ha sostenuto infatti di
avere perso il controllo del mezzo a causa
di un «insidioso avvallamento» del manto
stradale, privo di idonea segnalazione e
dunque, a suo dire, «alquanto pericoloso per
gli utenti della strada». Ma i giudici di
merito hanno respinto la domanda di
risarcimento dei danni perché, si legge
nella sentenza, è stata ritenuta
«sufficiente una fugace occhiata alle foto
per rendersi conto che "l'insidioso
avvallamento" (...) non era altro che
un'ordinaria griglia per lo scarico delle
acque piovane».
Quindi «non era ipotizzabile
la lesione dell'aspettativa alla regolarità
del manto stradale, non potendosi
prescindere dagli elementi che ne
costituiscono una componente ricorrente» e
la caduta era «interamente addebitabile alla
distrazione» del ciclista «e non era
configurabile un nesso eziologico con la
griglia e con il lievissimo avvallamento in
cui essa è contenuta, rispondente alla
necessità tecnica di raccogliere le acque
confluenti nella fogna bianca». Di
conseguenza, i giudici hanno respinto la
domanda, riconoscendo «la tipica ipotesi di
esclusione della responsabilità oggettiva
del custode» in base all'articolo 1227,
comma 2, del Codice civile, «potendo il
sinistro essere evitato» se il danneggiato
«avesse impiegato l'ordinaria diligenza nel
percorrere la strada».
Stesso risultato al termine del giudizio in
Cassazione, con il definitivo rigetto di
tutte le censure avanzate dal ricorrente. I
giudici infatti, in linea con la
giurisprudenza, hanno chiarito che, in
relazione ai danni provocati dall'uso di un
bene demaniale, il comportamento colposo
dell'utente danneggiato «esclude la
responsabilità della Pa, qualora si tratti
di un comportamento idoneo a interrompere il
nesso eziologico tra la causa del danno e il
danno stesso». Mentre «in caso
contrario esso integra un concorso di colpa
ai sensi dell'articolo 1227 del Codice
civile, comma 1, con conseguente diminuzione
della responsabilità del danneggiante (e,
quindi, della Pa) in proporzione
all'incidenza causale del comportamento
stesso»
(articolo Il Sole 24
Ore del 27.02.2012). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Procedimento amministrativo, il
mancato esercizio del potere entro il
termine non determina l’illegittimità
dell’atto tardivamente adottato.
In assenza di una specifica disposizione che
espressamente preveda il termine come
perentorio, comminando la perdita della
possibilità di azione da parte
dell'Amministrazione al suo spirare o la
specifica sanzione della decadenza, il
termine stesso deve intendersi come
meramente sollecitatorio o ordinatorio ed il
suo superamento non determina
l'illegittimità dell'atto, ma una semplice
irregolarità non viziante.
Il principio è stato asserito dalla VI Sez.
del Consiglio di Stato nella
sentenza 27.02.2012 n. 1084.
I giudici di appello convengono che, allo
stato, non sussistono referenti normativi
dai quali trarre prescrizioni in ordine alla
natura perentoria del termine previsto per
l’esercizio del potere, né tantomeno in
ordine alla decadenza della potestà
amministrativa o all’illegittimità del
provvedimento tardivamente adottato, "conseguenze,
queste, che si potrebbero verificare, pure
senza una norma ad hoc, solo ove un effetto
legale tipico fosse collegato all'inutile
decorso del termine”.
Orientamento questo, peraltro, anche
autorevolmente avallato dalla Corte
costituzionale, la quale in più occasioni ha
precisato che il mancato esercizio delle
attribuzioni da parte dell'amministrazione
entro il termine previsto per la fine del
procedimento non comporta ex se, in
difetto di espressa previsione, la decadenza
del potere (cfr. Corte cost., 18.07.1997, n.
262 e 17.07.2002, n. 355).
L’utilità della norma che prevede un termine
per l’azione amministrativa (leggasi anche
l’art. 2 L. 241/1990) è, quindi, rilevante
sotto altri aspetti, ed in particolare
abilita l'interessato ad attivare la tutela
giurisdizionale contro l'inerzia o il
silenzio dell'amministrazione, ma non
esaurisce il potere dell'amministrazione di
provvedere (commento tratto da
www.diritto.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Ai
sensi dell'art. 21-septies l. n. 241/1990,
introdotto dalla l.n. 15/2005 "... è nullo
il provvedimento amministrativo che manca
degli elementi essenziali" e la
giurisprudenza è costante nell’affermare
l'essenzialità della sottoscrizione del
provvedimento amministrativo.
... RITENUTO che è fondato il primo motivo
di ricorso con il quale si deduce la nullità
dell’avviso per difetto di sottoscrizione;
infatti, ai sensi dell'art. 21-septies l. n.
241/1990, introdotto dalla l.n. 15/2005 "...
è nullo il provvedimento amministrativo che
manca degli elementi essenziali" e la
giurisprudenza è costante nell’affermare
l'essenzialità della sottoscrizione del
provvedimento amministrativo (cfr. Cons.
Stato, IV, 13.07.2011 n. 4269; VI,
18.09.2009, n. 5622; TAR Catania, 02.12.2011
n. 2883; TAR Lecce, I, 12.05.2011 n. 825;
TAR. Veneto, II, 13.11.2009, n. 2883)
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 25.02.2012 n. 178 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: L'art. 31, nono comma,
della legge 17.08.1942, n. 1150, come
modificato dall'art. 10 della legge 06.08.1967, n. 765, nel legittimare "chiunque" a
ricorrere contro le concessioni edilizie,
pur non avendo introdotto un'azione
popolare, va comunque correttamente inteso
nel senso che deve riconoscersi una
posizione qualificata e differenziata ai
singoli proprietari siti nella zona in cui
la costruzione è assentita, e a tutti coloro
che si trovino in una situazione di stabile
collegamento con la zona stessa, ove gli
stessi ritengano che per effetto della nuova
costruzione, in contrasto con le
prescrizioni urbanistiche, si determini una
rilevante e pregiudizievole alterazione del
preesistente assetto urbanistico ed
edilizio, che i ricorrenti intenderebbero,
invece, conservare.
Sicché non appare possibile sindacare nel
merito le valutazioni di convenienza
spettanti ai singoli proprietari degli
immobili circostanti, senza considerare che
il semplice fatto della loro situazione di
stabile collegamento con la nuova
costruzione ne legittimi la facoltà di
impugnativa, ai fini della caducazione della
concessione edilizia ritenuta illegittima e
pregiudizievole.
In altri termini, l'interesse qualificato a
ricorrere avverso il titolo edilizio
rilasciato a terzi è quello volto a
pretendere il rispetto dell'assetto
urbanistico-ambientale costituito con la
disciplina urbanistica, perché il contrasto
con siffatto assetto arreca pregiudizio a
coloro che siano titolari di immobili
ubicati nella zona ovvero che con la stessa
abbiano comunque, anche a titolo diverso,
uno stabile collegamento.
Di conseguenza, la posizione qualificata e
differenziata, sufficiente per riconoscere
la legittimazione attiva, sussiste in capo
al proprietario di un immobile sito nella
zona in cui la costruzione è permessa e a
coloro che si trovano in una posizione di
stabile collegamento con la zona stessa e
che abbiano un interesse, concreto ed
attuale, a ricorrere in relazione al tipo di
violazione che si eccepisce, la quale deve
essere tale da costituire la violazione di
un interesse urbanistico relativo alla zona
che deve risultare danneggiata
dall'intervento edificatorio dovendosi
precisare che la detta legittimazione va per
lo meno specificata nell'impugnazione, con
riferimento alla situazione concreta e
fattuale, indicando le ragioni, il come e la
misura in cui il provvedimento impugnato si
riflette sulla propria posizione
sostanziale, determinandone una lesione
concreta, immediata e attuale.
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La lesione all'interesse a godere della
veduta, essendo posizione giuridica
suscettibile di pregiudizio, legittima la
proposizione del ricorso giurisdizionale
contro la concessione edilizia.
Il criterio della vicinitas, seppur idoneo a
supportare la legittimazione al ricorso, non
esaurisce certo gli ulteriori profili
dell’interesse concreto all’impugnazione,
costituito dalla lesione effettiva e
documentata delle facoltà dominicali del
ricorrente.
Osserva in proposito il Collegio che effettivamente la ricorrente a
sostegno delle proprie ragioni, oltre a
radicare la legittimazione ad agire sulla vicinitas del terreno interessato dalla
realizzazione della piscina, ritiene di
essere lesa nel godimento del diritto al
panorama e di avere diritto alla demolizione
dei manufatti realizzati dal
controinteressato per violazione della
normativa sulle distanze.
A tale riguardo va premesso che secondo un
consolidato indirizzo della giurisprudenza
amministrativa “l'art. 31, nono comma,
della legge 17.08.1942, n. 1150, come
modificato dall'art. 10 della legge 06.08.1967, n. 765, nel legittimare "chiunque" a
ricorrere contro le concessioni edilizie,
pur non avendo introdotto un'azione
popolare, va comunque correttamente inteso
nel senso che deve riconoscersi una
posizione qualificata e differenziata ai
singoli proprietari siti nella zona in cui
la costruzione è assentita, e a tutti coloro
che si trovino in una situazione di stabile
collegamento con la zona stessa, ove gli
stessi ritengano che per effetto della nuova
costruzione, in contrasto con le
prescrizioni urbanistiche, si determini una
rilevante e pregiudizievole alterazione del
preesistente assetto urbanistico ed
edilizio, che i ricorrenti intenderebbero,
invece, conservare” (cfr. in particolare:
Cons. Stato, Sez. V, 28.06.2004, n.
4790).
Sicché non appare possibile sindacare
nel merito le valutazioni di convenienza
spettanti ai singoli proprietari degli
immobili circostanti, senza considerare che
il semplice fatto della loro situazione di
stabile collegamento con la nuova
costruzione ne legittimi la facoltà di
impugnativa, ai fini della caducazione della
concessione edilizia ritenuta illegittima e
pregiudizievole.
In altri termini,
l'interesse qualificato a ricorrere avverso
il titolo edilizio rilasciato a terzi è
quello volto a pretendere il rispetto
dell'assetto urbanistico-ambientale
costituito con la disciplina urbanistica,
perché il contrasto con siffatto assetto
arreca pregiudizio a coloro che siano
titolari di immobili ubicati nella zona
ovvero che con la stessa abbiano comunque,
anche a titolo diverso, uno stabile
collegamento (cfr. Cons. Stato, IV, 08.03.2011, n. 1423).
Di conseguenza, la posizione
qualificata e differenziata, sufficiente per
riconoscere la legittimazione attiva,
sussiste in capo al proprietario di un
immobile sito nella zona in cui la
costruzione è permessa e a coloro che si
trovano in una posizione di stabile
collegamento con la zona stessa e che
abbiano un interesse, concreto ed attuale, a
ricorrere in relazione al tipo di violazione
che si eccepisce, la quale deve essere tale
da costituire la violazione di un interesse
urbanistico relativo alla zona che deve
risultare danneggiata dall'intervento
edificatorio dovendosi precisare che la
detta legittimazione va per lo meno
specificata nell'impugnazione, con
riferimento alla situazione concreta e
fattuale, indicando le ragioni, il come e la
misura in cui il provvedimento impugnato si
riflette sulla propria posizione
sostanziale, determinandone una lesione
concreta, immediata e attuale (cfr. Cons.
Stato, V, 07.07.2005 n. 3757).
Inoltre, è
stato precisato che la lesione all'interesse
a godere della veduta, essendo posizione
giuridica suscettibile di pregiudizio,
legittima la proposizione del ricorso
giurisdizionale contro la concessione
edilizia (cfr. Cons. Stato, 15.06.2010,
n. 3744 e Cass. civ., Sez. III, 10.02.2005 n. 2705). Infine, è stato affermato che
“Il criterio della vicinitas, seppur idoneo
a supportare la legittimazione al ricorso,
non esaurisce certo gli ulteriori profili
dell’interesse concreto all’impugnazione,
costituito dalla lesione effettiva e
documentata delle facoltà dominicali del
ricorrente” (Cons. Stato, IV, 24.01.2011, n. 485).
Ora nel caso in esame, nel quale è certo che
parte ricorrente vanti un diritto al
panorama (in un contesto, peraltro, di
indiscutibile pregio paesaggistico e
ambientale), è tuttavia altrettanto
incontestata la circostanza che la piscina
in questione –in ragione delle
caratteristiche costruttive (manufatto
totalmente interrato) e delle specifiche
condizioni dettate nel nulla osta della
soprintendenza (tra i quali, rivestimenti in
pietra vulcanica e piantumazione di essenze
vegetali di tipo autoctono)- è inidonea a
recare alcun pregiudizio al panorama non
essendo in alcun modo di ostacolo alla
libera visuale.
Ciò è peraltro confermato
dalla documentazione prodotta dalla parte controinteressata (e non contestata, né
smentita dalla ricorrente) dalla quale si
evince come il terreno di proprietà dal
controinteressato, sul quale è stata
realizzata la piscina in contestazione, sia
ubicato ad una quota inferiore rispetto alle
quote della proprietà limitrofe, con
conseguente impossibilità di configurare
alcuna possibile lesione al godimento del
panorama.
Per le suesposte considerazioni il ricorso
va, dunque, dichiarato inammissibile per
carenza di interesse, atteso che nessun
pregiudizio concreto attuale e immediato è
configurabile in capo alla ricorrente
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 24.02.2012 n. 482 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
Se ha dei sospetti il datore può
controllare le vecchie e-mail.
Il controllo della posta
elettronica e degli accessi ad internet da
parte del datore di lavoro per verificare la
corretta esecuzione della prestazione è
vietato. Non lo è più, però, quando avviene
ex post. In seconda battuta, dunque,
l’azienda a seguito dell’emersione di
elementi di fatto “tali da raccomandare
l’avvio di una indagine retrospettiva” può
accedere alla corrispondenza telematica del
dipendente. E se ravvede delle violazioni
gravi licenziarlo.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez.
lavoro,
sentenza 23.02.2012 n. 2722,
respingendo il ricorso di un alto
funzionario di banca e confermando le
sentenze di primo e secondo grado.
Il dipendente aveva
divulgato informazioni protette
Nel 2004 un quadro direttivo della Banca
Bipop-Carire s.p.a, addetto all’ufficio
Advisory center, era stato licenziato “per
giusta causa” per aver divulgato
attraverso l’invio di e-mail a soggetti
esterni all’azienda notizie riservate
riguardanti un cliente dell’Istituto e per
aver posto in essere, grazie a queste
notizie, “operazioni finanziarie da cui
aveva tratto un vantaggio personale”.
La Corte di appello aveva confermato la
sentenza ravvisando una serie di violazioni:
l’obbligo di segretezza e correttezza
(previsti dall’articolo 2104 del codice
civile), il regolamento interno e il codice
deontologico. Nel complesso, il dipendente
aveva tenuto un comportamento “particolarmente
lesivo dell’elemento fiduciario”
sfruttando la propria posizione in azienda.
Il controllo non riguardava
lo svolgimento della prestazione
Contro questa sentenza il bancario è ricorso
in Cassazione, sostenendo, tra l’altro, che
il datore di lavoro avrebbe violato le
garanzie dello Statuto dei lavoratori sui
limiti nei controlli a distanza dei
dipendenti. Per la Suprema corte, però, il
caso è diverso
da quello tutelato dall’articolo 4 dello
Statuto. Infatti, l’attività di controllo
sulle strutture informatiche aziendali da
parte della banca “prescindeva dalla pura
e semplice sorveglianza sull’esecuzione
della prestazione”, essendo, invece, “diretta
ad accertare la perpetrazione di eventuali
comportamenti illeciti (poi effettivamente
riscontrati)”.
Un controllo al passato dunque che non
verteva sull’ “esatto adempimento delle
obbligazioni” discendenti dal rapporto
di lavoro, bensì “destinato ad accertare
un comportamento che poneva in pericolo la
stessa immagine dell’istituto presso terzi”
(tratto da e link a
www.diritto24.ilsole24ore.com). |
EDILIZIA PRIVATA: Rilascio
del permesso di costruire: attività
istruttoria dell'amministrazione per la
verifica delle condizioni di ammissibilità e
di legittimazione anche in ipotesi di
comproprietà.
Il Consiglio di Stato nella sentenza in
esame rileva come seppur è vero che, come la
Sezione ha avuto modo di puntualizzare (cfr.
Consiglio Stato, sez. IV, 08.06.2011, n.
3508 ) che si deve escludere un obbligo del
Comune di effettuare complessi accertamenti
diretti a ricostruire tutte le vicende
riguardanti la titolarità, o le limitazioni
negoziali al diritto di costruire su un
terreno (cfr. Consiglio Stato, sez. IV,
10.12.2007, n. 6332); il permesso di
costruire, infatti, non attribuisce alcun
diritto soggettivo in conseguenza
all'attività stessa, dato che il vicino ove
reputi leso un proprio diritto soggettivo
(ad es., in materia di distanze tra edifici)
può sempre agire innanzi all'A.G. per la
riduzione in pristino o il risarcimento del
danno (cfr. Consiglio Stato, V, 19.03.1999,
n. 277).
Tuttavia, il primo comma dell’art. 11,
d.P.R. 06.06.2001 n. 380 espressamente
prevede che il permesso di costruire è “rilasciato
al proprietario dell'immobile o a chi abbia
titolo per richiederlo”. La legge
impone, cioè, tra gli specifici requisiti di
legittimazione, che il richiedente dia lui
in primis, la dimostrazione del possesso da
parte sua dei titoli reali necessari per
poter intervenire sull'immobile per cui si
chiede la concessione edilizia, mentre il
Comune è onerato solo della relativa
verifica (cfr. Consiglio Stato, sez. V,
07.09.2009, n. 5223; Consiglio Stato, sez.
IV, 07.09.2007 n. 4703; idem, 07.07.2005 n.
3730).
Secondo le regole generali,
l'Amministrazione comunale, in sede di
verifica dei presupposti procedimentali per
l’istruttoria del permesso di costruire,
deve, ai sensi dell’art. 6, 1° co., lett.
a), della L. n. 241/1990 e s.m.i.,
verificare “…le condizioni di
ammissibilità, i requisiti di legittimazione
ed i presupposti rilevanti …” per
l’adozione del provvedimento finale. I
titoli per l'esercizio dello "ius
aedificandi" costituiscono dunque un
requisito documentale dell’istanza ed un
presupposto legale per la futura
edificazione, ma il difetto di tale
dimostrazione da parte del richiedente
impedisce all'amministrazione di procedere
oltre nell'esame del progetto (cfr.
Consiglio Stato, sez. V, 12.05.2003, n.
2506).
Anche in caso di comproprietà o di altri
diritti reali è necessario:
1) che l’istante dichiari puntualmente il
titolo di proprietà ed i titoli
civilisticamente idonei che legittimano la
sua istanza relativamente a tutte le aree
direttamente interessate dall’intervento;
ovvero alleghi manifestazioni scritte del
consenso degli aventi diritto;
2) che il responsabile del procedimento
verifichi l’ammissibilità complessiva della
domanda (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 23.02.2012 n. 983 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Non
comporta inefficacia del decreto di
occupazione la prassi diffusa tra le
amministrazioni esproprianti di non
apprendere subito il suolo espropriato
purché nel verbale di immissione in possesso
si dia atto che il suolo occupato e'
soggetto alla giuridica disponibilità
dell'espropriante.
Ad avviso del Consiglio di Stato si deve
escludere che la prassi –largamente diffusa
tra le amministrazioni esproprianti– di
tollerare una prolungata detenzione dei
suoli occupati da parte dei proprietari
ablati, anche dopo la redazione del verbale
di immissione in possesso e di redazione
dello stato di consistenza e fino
all’effettivo avvio dei lavori, comporti la
sopravvenuta inefficacia del decreto di
occupazione, atteso che per l’esecuzione di
quest’ultima è sufficiente la redazione di
un verbale nel quale si dia atto che il
suolo occupato, specificamente e
puntualmente individuato, è soggetto alla
giuridica disponibilità dell’espropriante,
il quale potrà iniziare i lavori in
qualsiasi momento successivo (fermo
restando, come è ovvio, il rispetto dei
termini fissati nella dichiarazione di
pubblica utilità) e non è necessariamente
tenuto ad apprendere materialmente fin da
subito il suolo occupato (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 23.02.2012 n. 981 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Concorso
pubblico: bastano annotazioni scritte nel
palmo della mano per l'esclusione dal
concorso.
La circostanza di non aver concretamente
copiato non è sufficiente ad evitare
l'esclusione dal concorso pubblico. Invero,
come rilevato dal Consiglio di Stato, il
d.P.R. n. 487 del 1994 -“Regolamento
recante norme sull'accesso agli impieghi
nelle pubbliche amministrazioni e le
modalità di svolgimento dei concorsi, dei
concorsi unici e delle altre assunzioni nei
pubblici impieghi”- all'art. 13
riconnette l’esclusione dalla prova
concorsuale non già ad un’effettiva e
conclamata copiatura, ma al semplice fatto
della violazione al divieto di portare con
sé “appunti manoscritti” di qualsiasi
genere, indipendentemente dall’uso che poi
in concreto se ne faccia.
Nel caso di specie, il Consiglio di Stato
rileva come la motivazione dell’esclusione è
agevolmente evincibile dal combinato
disposto del verbale della prova d’esame,
nel quale si dà atto puramente e
semplicemente della disposta estromissione
dell’odierno appellato dalla prova, e della
specifica “dichiarazione di comunicazione
di esclusione” sottoscritta dallo stesso
candidato, nella quale si precisa che egli è
stato scoperto da tre Ufficiali (uno dei
quali componente della Commissione
giudicatrice e gli altri due addetti alle
funzioni di sorveglianza) mentre era intento
a consultare “annotazioni” scritte
sul palmo della sua mano (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 23.02.2012 n. 980 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Accertamento
della sussistenza di un rapporto di pubblico
impiego di fatto ai fini del riconoscimento
delle differenze retributive, dell'indennità
di fine rapporto e delle altre prestazioni
contributive e previdenziali.
Il Consiglio di Stato nella sentenza in
esame ha evidenziato che:
1) in linea di principio, ogni attività
umana economicamente rilevante può essere
oggetto sia di rapporto di lavoro
subordinato sia di rapporto di lavoro
autonomo, e le modalità della prestazione,
la continuità, l'orario lavorativo
predeterminato sono elementi astrattamente
compatibili con diverse forme contrattuali
e, perciò, non decisivi. Pertanto in sede di
legittimità l’inclusione del rapporto
controverso nell'uno o nell'altro schema
contrattuale dipende dalla qualificazione
degli elementi rilevanti nei singoli casi
(cfr. Cassazione civile, sez. lav.,
08.02.2010, n. 2728);
2) il contratto d'opera ex art. 2222 c.c. si
caratterizza per il fatto che l'esecuzione
dell'attività commissionata avviene mediante
il prevalente lavoro del prestatore (arg. ex
Cassazione civile, sez. II, 21.05.2010, n.
12519);
3) quando la prestazione in contestazione
sia estremamente elementare, ripetitiva e
predeterminata nelle sue modalità di
esecuzione, il criterio rappresentato
dall'assoggettamento del prestatore
all'esercizio del potere direttivo,
organizzativo e disciplinare può non
risultare particolarmente significativo per
la qualificazione del rapporto di lavoro
(cfr. Cassazione civile, sez. lav.,
19.04.2010, n. 9252).
Se le norme in materia di assunzione del
personale pubblico escludono che il rapporto
di pubblico impiego possa essersi costituito
di fatto, la sussistenza dei ricordati
indici sintomatici non solo devono essere
comprovati per il riconoscimento delle
differenze retributive, dell'indennità di
fine rapporto e delle altre prestazioni
contributive e previdenziali ex art. 2126
c.c. (cfr. Consiglio Stato, sez. V,
10.11.2008, n. 5582; A.P. 05.03.1992, n. 5),
ma devono comporre un quadro coerente dello
svolgimento di fatto di un rapporto
impiegatizio (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 23.02.2012 n. 975 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Ai
sensi dell'art. 72, comma 2, del regolamento
di contabilità generale dello Stato, quando
in un'offerta per una gara d'appalto
pubblico vi è discordanza fra il prezzo
indicato in lettere e quello espresso in
cifre, è valida l'indicazione più
vantaggiosa per la p.a. appaltante e tale
soluzione può essere adottata legittimamente
quando si verifichi un'oggettiva divergenza
tra le due indicazioni del prezzo, non
importa se determinata da un errore ostativo
o da altra ragione, ma non anche quando la
discordanza scaturisca da un mero ed
evidente errore materiale, nel qual caso si
deve dare esclusivo rilievo al prezzo
espresso in maniera esatta.
In relazione all’offerta dell’impresa ...,
trova applicazione l'art. 72, comma secondo,
del r.d. 23.05.1924 n. 827 ("Quando in
una offerta all'asta vi sia discordanza fra
il prezzo indicato in lettere e quello
indicato in cifre, è valida l'indicazione
più vantaggiosa per l'amministrazione"),
secondo cui doveva essere attribuita
rilevanza all'offerta espressa in lettere,
poiché più vantaggiosa per l’amministrazione
(cfr: TAR Catania, IV, n. 473/2006 e
11.01.2007, n. 48; Consiglio di Stato, V,
09.10.2003, n. 6070 ; TAR Sardegna,
18.05.2001, n. 563, 19.11.2001, n. 1254 e
10.01.2002, n. 7; TAR Catanzaro, II,
13.01.2004, n. 62). La norma richiamata deve
ritenersi espressiva di un principio
generale, dettato, peraltro, dall'esigenza
di conservare validità all'offerta,
altrimenti nulla (cfr: Consiglio di Stato,
V, n. 1228 del 28.02.2002).
Il principio è costantemente affermato dalla
giurisprudenza in materia, secondo la quale
ai sensi dell'art. 72, comma 2, del
regolamento di contabilità generale dello
Stato, quando in un'offerta per una gara
d'appalto pubblico vi è discordanza fra il
prezzo indicato in lettere e quello espresso
in cifre, è valida l'indicazione più
vantaggiosa per la p.a. appaltante e tale
soluzione può essere adottata legittimamente
quando si verifichi un'oggettiva divergenza
tra le due indicazioni del prezzo, non
importa se determinata da un errore ostativo
o da altra ragione, ma non anche quando la
discordanza scaturisca da un mero ed
evidente errore materiale, nel qual caso si
deve dare esclusivo rilievo al prezzo
espresso in maniera esatta (cfr: Consiglio
di Stato, V, 28.02.2 n. 1228, cit., e
06.05.1997, n. 466; C.g.a., sez. consult.
05.05.1999, n. 170; TAR Catania, I, n. 227
dell'01.02.2001; Tar Sardegna, I, n.
1911/2005)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. IV,
sentenza 23.02.2012 n. 459 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Il
provvedimento di rettifica della graduatoria
finale di un concorso pubblico deve essere
preceduto da comunicazione di avvio del
procedimento di secondo grado, ai sensi
dell'art. 7 l. n. 241 del 1990, nei
confronti dei concorrenti che si sono
utilmente collocati nella graduatoria stessa
e che, in caso di positiva conclusione del
procedimento di autotutela attivato
dall'Amministrazione, verrebbero a subire un
pregiudizio nel proprio interesse
differenziato e qualificato coincidente con
il mantenimento del risultato della
selezione.
Più in generale l’omessa comunicazione di
avvio del procedimento preordinato
all’esercizio del potere di autotutela da
parte dell’Amministrazione comporta
l’illegittimità del provvedimento da essa
adottato a conclusione dello stesso.
In proposito la giurisprudenza ha avuto modo
di affermare che il provvedimento di
rettifica della graduatoria finale di un
concorso pubblico deve essere preceduto da
comunicazione di avvio del procedimento di
secondo grado, ai sensi dell'art. 7 l. n.
241 del 1990, nei confronti dei concorrenti
che si sono utilmente collocati nella
graduatoria stessa e che, in caso di
positiva conclusione del procedimento di
autotutela attivato dall'Amministrazione,
verrebbero a subire un pregiudizio nel
proprio interesse differenziato e
qualificato coincidente con il mantenimento
del risultato della selezione (cfr. TAR
Lazio Roma, sez. II, 13.12.2010, n. 36323).
Più in generale l’omessa comunicazione di
avvio del procedimento preordinato
all’esercizio del potere di autotutela da
parte dell’Amministrazione comporta
l’illegittimità del provvedimento da essa
adottato a conclusione dello stesso (cfr.
Consiglio di Stato sez. IV 22.03.2011 n.
1755)
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 23.02.2012 n. 168 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: In
presenza di una dichiarazione
dell'interessato in cui il documento è
descritto e dichiarato come allegato, i
principi di correttezza e buona fede
impongono all'Ente di richiedere
all'interessato l'integrazione della
documentazione o comunque di far constare
l'inesistenza (o lo smarrimento) del
documento, consentendo una nuova produzione
documentale.
In tema di procedure concorsuali, la
giurisprudenza ha avuto modo di rilevare
che, in presenza di una dichiarazione
dell'interessato in cui il documento è
descritto e dichiarato come allegato, i
principi di correttezza e buona fede
impongono all'Ente di richiedere
all'interessato l'integrazione della
documentazione o comunque di far constare
l'inesistenza (o lo smarrimento) del
documento, consentendo una nuova produzione
documentale (cfr. TAR Sicilia Catania, sez.
III, 21.07.2003, n. 1178).
In altri termini la comunicazione di avvio
del procedimento e la conseguente
partecipazione da parte della ricorrente
avrebbe potuto dare un utile contributo
all’attività dell’Amministrazione,
consentendo una concreta ponderazione degli
interessi in gioco (cfr. Consiglio di Stato
sez. V 21.04.2006, n. 2254)
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 23.02.2012 n. 167 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
scadenza del termine apposto
all'autorizzazione edilizia per l'avvio e la
conclusione dei lavori, riferendosi soltanto
alle modalità cronologiche di esercizio di
una facoltà del destinatario, non determina,
automaticamente, la cessazione di effetti
del provvedimento, ma costituisce soltanto
il presupposto per l'accertamento eventuale
della decadenza dall'autorizzazione
edilizia.
Invero, la decadenza della concessione
edilizia per mancata ultimazione dei lavori
nel termine previsto dalla legge, ancorché
assuma carattere esclusivamente oggettivo
-giacché essa presuppone il mero decorso del
tempo, eccettuati i casi di sospensione o
proroga connessi a factum principis, forza
maggiore o cause espressamente contemplate
dalla legge- e sebbene i suoi effetti
retroagiscano al momento dell'evento
estintivo, deve essere necessariamente
dichiarata dall’amministrazione.
... per
l'annullamento dell’ordinanza del Sindaco di
Reggio Calabria n. 414-93 del 27.11.1995,
pratica n. 380/93, con la quale è ordinata a
carico degli “eredi ...” la
demolizione delle opere di soprelevazione
(secondo, terzo, quarto e quinto piano f.t.)
su preesistente fabbricato ad un piano f.t.,
costruito con licenza edilizia n. 3685/173
del 05.07.1965, in località Pellaro, via S.
Cosimo;
...
La scadenza del termine apposto
all'autorizzazione edilizia per l'avvio e la
conclusione dei lavori, riferendosi soltanto
alle modalità cronologiche di esercizio di
una facoltà del destinatario, non determina,
automaticamente, la cessazione di effetti
del provvedimento, ma costituisce soltanto
il presupposto per l'accertamento eventuale
della decadenza dall'autorizzazione edilizia
(cfr. C.S., V, 18.09.2008, n. 4498).
Ed invero, secondo l’orientamento
giurisprudenziale che il collegio ritiene di
condividere, la decadenza della concessione
edilizia per mancata ultimazione dei lavori
nel termine previsto dalla legge, ancorché
assuma carattere esclusivamente oggettivo
-giacché essa presuppone il mero decorso del
tempo, eccettuati i casi di sospensione o
proroga connessi a factum principis,
forza maggiore o cause espressamente
contemplate dalla legge- e sebbene i suoi
effetti retroagiscano al momento dell'evento
estintivo, deve essere necessariamente
dichiarata dall’amministrazione (TAR
Calabria, Reggio Calabria, 20.04.2010, n.
420; v. pure C.S., V, 15.06.1998, n. 834;
TAR Abruzzo, Pescara, 28.06.2002, n. 595;
TAR Sardegna, II, 15.11.2005, n. 2126; TAR
Lazio, II, 24.11.2004, n. 13996).
Nella fattispecie in esame, il Comune di
Reggio Calabria non ha proceduto, prima di
adottare l’impugnato ordine di demolizione
delle opere realizzate –peraltro da lungo
tempo- ad accertare l’intervenuta decadenza
dell’autorizzazione edilizia che
originariamente li assentiva, con
conseguenti:
a) perdurante efficacia di essa; e
b) illegittimità del provvedimento
sanzionatorio
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 23.02.2012 n. 159 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Sulla
concessione o meno del congedo previsto
dall’art. 42, comma 5, del D.Lg.vo n.
151/2001, per l’assistenza di familiare
convivente con handicap in situazione di
gravità di cui all’art. 3, comma 3, della
legge n. 104/1992.
Il ricorrente afferma di aver diritto alla
concessione del congedo previsto dall’art.
42, comma 5, del D.Lg.vo n. 151/2001, per
l’assistenza di familiare convivente con
handicap in situazione di gravità di cui
all’art. 3, comma 3, della legge n.
104/1992.
L’amministrazione nega la concessione del
richiesto congedo e afferma nell’impugnato
provvedimento di diniego che “la L.
04/11/2010 n. 183, innovando la disciplina
dei permessi per l’assistenza ai portatori
di handicap in situazione di gravità, non ha
inciso sul requisito della convivenza,
intesa come dimora abituale e non come mera
convivenza anagrafica, quale presupposto
necessario alla concessione del congedo
richiesto”.
Infatti il familiare (padre) con riguardo
all’assistenza del quale il ricorrente
richiede il beneficio è residente a Taranto,
mentre Egli presta servizio presso il
Commissariato di Siderno (RC), sicché la
loro effettiva coabitazione è, all’evidenza,
impossibile e comunque non è affermata
neppure da parte attrice.
Il ricorrente contesta la decisione assunta
dall’amministrazione, sostenendo che il
requisito della convivenza non sarebbe più
richiesto a seguito della legge n. 183/2010
e che, comunque, esso dovrebbe intendersi in
senso anagrafico, cioè quale dimora
abituale, ai sensi dell’art. 43 cod. civ.,
non quale coabitazione.
Tali censure non possono condividersi.
Contrariamente a quanto sostenuto dal
ricorrente, il requisito della convivenza è
ancora richiesto dal testo dell’art. 42,
comma 5, del D.Lg.vo n. 151/2001 vigente (a
seguito delle modifiche introdotte dall’art.
3 del D.Lg.vo n. 115/2003, dall’art. 3,
comma 106, del D.Lg.vo n. 350/2003 e
dall’art. 1, comma 1266, della legge n.
296/2006) al momento dell’adozione del
provvedimento impugnato (e per verità anche
da quello successivamente introdotto
dall’art. 4, comma 1, lett. b), del D.Lg.vo
n. 119/2011).
Ciò si evince immediatamente dalla lettura
del primo periodo di detta disposizione,
secondo il quale: “La lavoratrice madre
o, in alternativa, il lavoratore padre o,
dopo la loro scomparsa, uno dei fratelli o
sorelle conviventi di soggetto con handicap
in situazione di gravità di cui all’articolo
3, comma 1, del presente testo unico e
all’articolo 33, commi 2 e 3, della legge
05.02.1992, n. 104, accertata ai sensi
dell’articolo 4, comma 1, della legge
medesima e che abbiano titolo a fruire dei
benefici di cui all’articolo 33, commi 1, 2
e 3, della medesima legge per l’assistenza
del figlio, hanno diritto a fruire del
congedo di cui al comma 2 dell’articolo 4
della legge 08.03.2000, n. 53, entro
sessanta giorni dalla richiesta.”.
Né, ad avviso del collegio, il requisito
della convivenza può essere inteso, ai fini
della concessione del beneficio in
questione, in senso meramente “anagrafico”,
implicando invece di necessità la effettiva
coabitazione con il familiare da assistere
(v. TAR Sicilia, I, 27.06.2011, n. 1213).
D’altronde, la “residenza” è un
concetto di fatto ed indica il luogo di
abituale dimora (art. 43, comma 2, cod.
civ.). La circostanza che esistano registri
della popolazione residente, tenuti dai
comuni, nonché sussista l’obbligo di
comunicare i mutamenti della residenza, non
modifica il dato focale del concetto di
residenza, quale descrizione di uno stato di
fatto. Da ciò deriva la conseguenza che
l’esistenza di un certificato anagrafico che
riporta una comune residenza del ricorrente
e del padre handicappato non può essere
risolutiva per affermare la loro “convivenza”
effettiva, quando, come si verifica nella
specie, essa non sussiste (circostanza non
in contestazione) (TAR Calabria-Reggio
Calabria,
sentenza 23.02.2012 n. 158 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
illegittima l'ingiunzione di demolizione,
emessa dopo almeno un trentennio dall’abuso,
senza l’indicazione -avuto riguardo anche
all'entità ed alla tipologia di questo- del
pubblico interesse, evidentemente diverso da
quello al ripristino della legalità, idoneo
a giustificare il sacrificio del
contrapposto interesse privato, posto che
anche nell'esercizio dei poteri repressivi
di cui all'art. 14 della legge n. 47/1985
l'amministrazione comunale, perseguendo la
finalità della norma di assicurare
l'ordinato svolgersi dell'attività
urbanistico-edilizia, deve adeguatamente
motivare sul pubblico interesse attuale al
sacrificio delle posizioni soggettive
facenti capo al privato, quando queste si
siano consolidate a cagione dell'affidamento
riposto per decorso del tempo e per la
prolungata inerzia dell'amministrazione
vigilante.
Il collegio non ha ragione, infatti, di
discostarsi dall’orientamento che il
Tribunale ha assunto con riferimento a casi
del tutto analoghi (v. ad esempio, TAR
Calabria, Reggio Calabria, 11.02.2011, n.
108).
Dagli atti del giudizio emerge che la
trasformazione in finestra della porta di
detto vano–negozio è stata realizzata, per
tutti gli alloggi dell’insediamento in
questione, moltissimi anni fa, all’inizio
degli anni ’60.
Ne consegue l’illegittimità della disposta
ingiunzione di demolizione, emessa dopo
almeno un trentennio dall’abuso senza
l’indicazione -avuto riguardo anche
all'entità ed alla tipologia di questo- del
pubblico interesse, evidentemente diverso da
quello al ripristino della legalità, idoneo
a giustificare il sacrificio del
contrapposto interesse privato, posto che
anche nell'esercizio dei poteri repressivi
di cui all'art. 14 della legge n. 47/1985
l'amministrazione comunale, perseguendo la
finalità della norma di assicurare
l'ordinato svolgersi dell'attività
urbanistico-edilizia, deve adeguatamente
motivare sul pubblico interesse attuale al
sacrificio delle posizioni soggettive
facenti capo al privato, quando queste si
siano consolidate a cagione dell'affidamento
riposto per decorso del tempo e per la
prolungata inerzia dell'amministrazione
vigilante (v. TAR Calabria, Catanzaro, II,
07.11.2008, n. 1490)
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 23.02.2012 n. 156 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
discrezionalità dell'ente è insindacabile in
sede di legittimità.
L'esercizio della
discrezionalità amministrava incontra i
propri limiti nel principio di
ragionevolezza e nel limite "naturale" del
dovere di rispettare le statuizioni
esistenti.
Il Consiglio di Stato è stato chiamato a
dirimere una questione dai tratti nuovi e
particolari riguardante la legittimità di un
provvedimento con cui un Ente ha provveduto
alla riorganizzazione del proprio ufficio
legale e sulla base del quale un
professionista ivi stabilmente impegnato
avrebbe patito una modifica del proprio
ruolo e delle proprie mansioni.
Nella specie, la Provincia provvedeva ad
emettere un provvedimento mediante il quale
veniva disposta la riorganizzazione del
proprio ufficio legale. Il professionista
ivi preposto lamentava che, a seguito del
provvedimento a suo dire illegittimo, dal
quale conseguiva il nuovo assetto
organizzativo dell’ufficio legale, era stato
posto in una posizione organizzativa, pur se
non inferiore, oggettivamente differente
rispetto a quella originaria.
Il professionista faceva dunque ricorso al
TAR chiedendo l’annullamento del
provvedimento ritenuto illegittimo. Il
tribunale amministrativo accoglieva il
ricorso ritenendo il provvedimento della
Provincia lesivo sia delle funzioni
dell’Avvocatura che di quelle del suo
dirigente. Il giudizio giungeva dunque
dinanzi al Consiglio di Stato su istanza
dell’ente Provincia soccombente in primo
grado.
La Provincia eccepiva come primo motivo sia,
il difetto di giurisdizione in capo al
giudice amministrativo in quanto la
controversia avrebbe avuto ad oggetto non
interessi legittimi bensì diritti soggettivi
sia, la mancanza di interesse in capo al
ricorrente stante che lo stesso, nell’ambito
del nuovo assetto organizzativo, aveva
ottenuto comunque un incarico parimenti
dirigenziale.
L’Ente eccepiva altresì, la violazione
dell’art. 3 del r.d. n. 1578 del 1933 e
degli art. 24 e 97 Cost., poiché il
coordinamento e la sovrintendenza del
direttore generale non inciderebbe sulle
prerogative e sull’autonomia dei componenti
dell’Ufficio Legale della Provincia non
invadendo l’aerea dello “ius postulandi”,
l’impossibilità di sottoporre il giudizio al
sindacato di legittimità in quanto attinente
una scelta di “merito” ed infine la
violazione dell’art. 50 d.lgs. n. 267 del
2000 stante che la designazione del
professionista a cui affidare la difesa
dell’Ente non può che spettare al legale
rappresentante dello stesso.
Il Consiglio di Stato ha rigettato il
ricorso confermando la sentenza di primo
grado.
Nella specie, i Giudici di Palazzo Spada,
con riguardo alla preliminare eccezione di
giurisdizione, hanno affermato che nel caso
in esame non è in discussione la posizione
personale del professionista ricorrente
bensì la legittimità o meno di un
provvedimento di macro-organizzazione posto
in essere dall’Ente provincia. Dunque, anche
in presenza di un risultato favorevole in
capo ad un unico soggetto che derivi
tuttavia da un provvedimento di natura di
macro organizzativa promanante da un Ente
Pubblico è da riconoscersi la giurisdizione
in capo al Giudice Amministrativo.
Quanto al merito il Consiglio di Stato ha
spiegato che il potere di coordinamento e di
sovrintendenza del direttore generale
dell’Ufficio legale dell’Ente Provincia non
può andare in alcun modo ad intaccare lo “ius
postulandi” in quanto espressione di una
qualità giuridica, ma ciò che rileva nel
caso in esame è la sottoposizione
dell’Ufficio legale alle direttive e agli
ordini del direttore generale il quale non
sarebbe legittimato ad interferire
sull’organizzazione interna degli stessi e
sulle modalità di organizzazione del lavoro.
Tanto appare evidente in quanto in primo
luogo trattasi di un’attività di tipo
tecnico ed in secondo luogo poiché gli
uffici degli enti pubblici devono
necessariamente godere di una speciale
libertà di organizzazione che consenta
l’esplicazione corretta e proficua
dell’attività.
Il principio fondamentale che il Consiglio
di Stato ha voluto dunque consolidare,
confermando l’estensione dei contorni del
potere di autorganizzazione
dell’Amministrazione, è nel senso di
confermare la piena discrezionalità
amministrativa che non può pertanto trovare
censura in sede di legittimità. Tale bisogno
di autonomia risulta ancor più pregnante
nell’ottica di consentire alla Pubblica
amministrazione di dotarsi
dell’organizzazione più proficua e coerente
per il raggiungimento degli interessi
pubblici.
I Giudici di Palazzo Spada hanno tuttavia
ritenuto di dover specificare ulteriormente
il punto chiarendo che, pur mantenendo
pacifico il principio sopra esposto,
l’esercizio in concreto di tale
discrezionalità non deve essere considerata
illimitata in quanto in tal senso si
travalicherebbero i confini della
discrezionalità giungendo a configurarsi una
situazione di incondizionata licenza senza
possibilità di alcun controllo.
Viceversa viene in considerazione un duplice
ordine di limiti con cui sempre si viene a
confrontare e spesso a “scontrare” la
discrezionalità amministrativa. Un primo
ordine di limiti è di matrice giuridica e
trova astrazione e conferma nel principio di
ragionevolezza mentre un secondo ordine di
limiti di tipo “naturale” è riassunto
nella necessità concreta di rispettare le
statuizioni esistenti, che, nel caso in
esame, risultano rappresentate dalle
guarentigie attribuite a determinate
categorie di soggetti operanti nell’ambito
della Pubblica Amministrazione.
In definitiva il Consiglio di Stato in tale
pronuncia richiama e conferma integralmente
la littera legis degli artt. 3, del
r.d. n. 1578 del 1933 e 15, co. 2, della
legge 70 del 1975, nei quali è espressamente
previsto che gli uffici legali degli enti
pubblici devono godere di autonomia e di
indipendenza, per cui al di là delle scelte
politiche, la parte squisitamente tecnica
non può essere sottoposta né a
condizionamenti né a valutazioni che possano
in qualche modo svilirne il modo di essere
(commento tratto da www.ipsoa.it - Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 14.02.2012 n.
730 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il permesso di costruire non si
può negare se esistano opere di
urbanizzazione primaria.
Il permesso di costruire è subordinato alla
esistenza delle opere di urbanizzazione
primaria, o alla previsione da parte del
Comune dell'attuazione delle stesse nel
successivo triennio, ovvero all'impegno
degli interessati di procedere
all'attuazione delle medesime
contemporaneamente alla realizzazione
dell’intervento oggetto del permesso.
La giurisprudenza, invero, si è occupata
soprattutto delle ipotesi in cui le norme di
attuazione richiedevano la previa
predisposizione di un piano di lottizzazione
per il rilascio del titolo edilizio,
ritenendo che il permesso di costruire
rilasciato in assenza di tale adempimento
non fosse da qualificare solo per questo
illegittimo. E secondo il consolidato
orientamento giurisprudenziale, riecheggiato
in questa pronuncia dai giudici del
Tribunale amministrativo di Venezia, ciò che
occorre verificare, anche in ipotesi di
previa presentazione di un piano attuativo,
è, oltre allo stato di edificazione della
zona, il suo grado di urbanizzazione
primaria e secondaria, in relazione
all'adeguatezza e fruibilità delle opere di
urbanizzazione medesime, a fronte della
consistenza dell’intervento stesso e
dell'incremento del carico urbanistico da
questo discendente.
In virtù del combinato disposto degli artt.
31 e 41-quinquies, ultimo comma, della legge
n. 1150/1942, l'espressione "esistenza"
delle opere di urbanizzazione, rilevante ai
fini della necessità o meno della previa
redazione di un piano di lottizzazione o di
altro strumento urbanistico attuativo prima
del rilascio della concessione edilizia,
deve essere intesa nel significato di
adeguatezza delle opere ai bisogni
collettivi; pertanto, tale valutazione sulla
congruità del grado di urbanizzazione di
un'area non può che essere effettuata alla
stregua della normativa sugli "standards"
urbanistici di cui al combinato disposto del
D.M. n. 1444/1968 e dell’art. 17 della legge
n. 765/1967.
Ne discende che l'equivalenza tra
pianificazione esecutiva e stato di adeguata
urbanizzazione è configurabile quando si
riscontri l'esistenza di opere di
urbanizzazione primaria e secondaria almeno
nelle quantità minime prescritte (cfr.
Consiglio Stato sez. V, 29.04.2000, n.
2562). I giudici veneti, in quest’ottica,
hanno avallato la tesi dei ricorrenti che
sostenevano l’illegittimità del diniego,
basato sull’art. 12 del T.U. Edilizi a, ai
sensi del quale è prescritta la previa
adozione di un piano attuativo per dotare il
terreno oggetto dell’intervento della
necessaria urbanizzazione servente; secondo
questi ultimi tale norma non poteva trovare
applicazione nella circostanza in commento,
perché la stessa Amministrazione aveva
incluso la loro area tra quelle di
completamento, già dotate di urbanizzazione
e suscettibili quindi di intervento diretto
(commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza
14.02.2012 n.
234 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Sottoscrizione dell'offerta tecnica, bando
di gara sovrano.
Ove il bando di gara per l'affidamento di un
appalto pubblico di servizi preveda
espressamente che l'offerta tecnica debba
essere, a pena di esclusione, debitamente
sottoscritta dal concorrente, va esclusa una
ditta che ha presentato detta offerta priva
di sottoscrizione.
La deducente, società
operante nel settore sanitario, ha impugnato
il provvedimento con cui la competente Unità
locale socio sanitaria aveva comunicato che
il servizio di somministrazione a tempo
determinato era stato affidato ad altra
ditta.
Quest’ultima, costituendosi in giudizio, ha
promosso ricorso incidentale, all’uopo
eccependo l’illegittimità dell’operato della
stazione appaltante nella parte in cui non
aveva provveduto all’esclusione dalla gara
della ricorrente principale, seconda
graduata, per omessa sottoscrizione
dell'offerta tecnica.
Tanto, ha proseguito, sarebbe avvenuto non
solo in violazione della legge di gara, ma
anche del combinato disposto degli artt. 74
e 46, comma 1-bis, D.Lgs. n. 163/2006.
Il TAR di Venezia, dovendo procedere
all’esame prioritario del gravame
incidentale, ha dapprima precisato come, in
linea di principio, la sottoscrizione di un
documento costituisce lo strumento mediante
il quale l'autore rende propria la
dichiarazione contenuta nello stesso,
consentendo così non solo di risalire alla
paternità dell'atto, ma anche di rendere
l'atto vincolante verso i terzi destinatari
dell’espressione di volontà (tra le tante,
Cons. Stato, Sez. V, 25.01.2011, n.
528).
E pertanto, ha rilevato la necessità
dell'apposizione della firma in calce,
ovvero a chiusura del documento, a
significazione della volontà di condividere
pienamente le asserzioni che precedono la
sottoscrizione.
E infatti, richiamando un fermo indirizzo
pretorio, non ha mancato di precisare come
nelle procedure concorsuali l'offerta
rappresenta una dichiarazione di volontà del
privato preordinata alla costituzione di un
rapporto giuridico; dunque, se da una parte
la sua sottoscrizione assolve alla funzione
di assicurarne la provenienza, la serietà,
l'affidabilità e l'insostituibilità,
dall’altra assume il connotato di condizione
essenziale per la sua ammissibilità, sia
sotto il profilo formale che sostanziale,
cosicché la sua mancanza inficia la validità
e la ricevibilità della manifestazione di
volontà contenuta nell'offerta (ex multis,
Cons. Stato, Sez. V, 07.11.2008, n.
5547).
Conseguentemente, la mancata sottoscrizione
dell’offerta, quale atto integrante la
domanda di partecipazione alla gara, non può
essere considerata un’irregolarità formale
sanabile nel corso del procedimento, perché
fa venire meno la certezza della provenienza
e della piena assunzione di responsabilità
in ordine ai contenuti della dichiarazione
nel suo complesso (Cons. Stato, Sez. IV, 31.03.2010, n. 1832).
Tanto, del resto, sulla scorta della
considerazione per cui l'offerta presentata
dal concorrente in una gara pubblica
costituisce una vera e propria proposta
contrattuale, ovvero un impegno a stipulare
un contratto in caso di aggiudicazione e,
così, la sua mancanza rappresenta una causa
di inesistenza della proposta negoziale.
Orbene, ripercorsa per grandi linee la ratio
sottesa alla disciplina dei contratti
pubblici, e in particolar modo alle modalità
di presentazione delle domande di
partecipazione, il giudicante, avuto
riguardo al caso sottoposto al suo vaglio,
ha evidenziato come era la stessa lex
specialis a prescrivere, a pena di
esclusione, la formalità della
sottoscrizione dell'offerta tecnica; non a
caso, la lettera d’invito precisava che: "…
saranno escluse dalla gara….le ditte
concorrenti per le quali manchi, o risulti
incompleta o irregolare, la documentazione
richiesta…".
Siffatta clausola escludendi, del resto, è
stata ritenuta pienamente conforme non solo
al dettato normativo di cui all’art. 74,
comma 1, D.Lgs. n. 163/2006, secondo cui le
offerte devono contenere gli elementi
prescritti dal bando, ma anche a quello
contenuto nell’art. 46, comma 1-bis, del
Codice dei contratti pubblici.
Quest’ultima disposizione, invero, prevede
espressamente che: "La stazione appaltante
esclude i candidati o i concorrenti in caso
di mancato adempimento alle prescrizioni
previste dal presente codice e dal
regolamento e da altre disposizioni di legge
vigenti, nonché nei casi di incertezza
assoluta sul contenuto o sulla provenienza
dell'offerta, per difetto di sottoscrizione
o di altri elementi essenziali”.
Alla stregua di tanto, il Collegio di
Venezia, stante la mancata sottoscrizione da
parte della ricorrente dell’offerta tecnica,
ha accolto il ricorso incidentale promosso
dalla controinteressata, aggiudicataria
dell’appalto de quo, per l’effetto
confermando, previa declaratoria di
improcedibilità del ricorso principale, la
legittimità dell’impugnato provvedimento (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR
Veneto, Sez. I,
sentenza 13.02.2012 n.
226 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'onere
della prova dell'ultimazione dei lavori
entro la data utile per ottenere il condono
grava sul richiedente la sanatoria.
Per conseguire il condono edilizio di
un'opera abusiva deve sussistere il
requisito principale di cui all'art. 39
della l. 724/1994, ossia l’ultimazione dei
lavori (che, secondo la giurisprudenza,
sulla base della formulazione dell'art. 3,
l. 28.02.1985 n. 47, applicabile anche nella
disciplina del condono del 1994 che la
richiama, deve comprendere il completamento
del rustico, la copertura, e le tamponature
dei muri, con esclusione dei soli serramenti
esterni, delle finiture o di quegli elementi
che non impediscono la fruibilità
dell’edificio).
Giova osservare che:
1) l'onere della prova dell'ultimazione dei
lavori entro la data utile per ottenere il
condono grava sul richiedente la sanatoria
(Consiglio Stato, sez. IV, 02.02.2011 , n.
752), il quale, dagli atti versati in
giudizio, non l’ha fornita e non l’ha
neppure dimostrata nell’odierno giudizio,
ove la questione è stata espressamente
revocata in dubbio dalla parte ricorrente
che ha offerto, a sua volta, conducenti
elementi di fatto a riscontro della censura;
2) nell’atto di donazione del 06.11.1995 (in
forza del quale il controinteressato, già
proprietario del suolo, diviene proprietario
del fabbricato ivi descritto) è contenuta,
presumibilmente, la descrizione
dell’edificio oggetto della domanda di
sanatoria presentata anteriormente (in data
27.02.1995), risultando “a rustico
composto da un piano seminterrato ed un
piano terra di cui esistono solamente
pilastri e solai di copertura di complessivi
metri quadrati centoquaranta circa”; ne
deriva una ulteriore conferma della mancanza
del requisito principale di cui al
menzionato art. 39 della l. 724/1994, ossia
l’ultimazione dei lavori (che, secondo la
giurisprudenza, sulla base della
formulazione dell'art. 3, l. 28.02.1985 n.
47, applicabile anche nella disciplina del
condono del 1994 che la richiama, deve
comprendere il completamento del rustico, la
copertura, e le tamponature dei muri, con
esclusione dei soli serramenti esterni,
delle finiture o di quegli elementi che non
impediscono la fruibilità dell’edificio:
cfr. Cassazione penale, sez. III,
12.08.1997, n. 9011; Cassazione penale, sez.
III, 10.05.1999, n. 7545; TAR Trentino Alto
Adige Trento, 05.11.2003, n. 390, ed altre)
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 13.02.2012 n. 149 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nelle
condizioni di un lungo decorso di tempo,
durante il quale il titolare di una
edificazione abusiva rimane inerte (al pari
dell’Amministrazione che non esercita i
propri doverosi poteri di controllo
dell’illecito), il privato sconta il rischio
della sopravvenienza normativa e del
conseguente mutamento del contesto
urbanistico di riferimento in senso
peggiorativo.
Invero, tale principio, oltre che sorretto
da ovvie considerazioni logiche, scaturisce
in maniera immediata e diretta proprio dal
principio della “doppia conformità” che è
predicato dall’art. 36 del DPR 380/2001 ai
fini della regolarizzazione formale del
fabbricato edificato sine titulo e che rende
non sanabile quell’edificio che, in origine
conforme allo strumento urbanistico, sia
transitato, al modificare di quest’ultimo,
in una condizione di illegittimità anche
sostanziale per violazione delle norme di
riferimento sopravvenute.
Si deve osservare che, nelle condizioni di
un lungo decorso di tempo, durante il quale
il titolare di una edificazione abusiva
rimane inerte (al pari dell’Amministrazione
che non esercita i propri doverosi poteri di
controllo dell’illecito), il privato sconta
il rischio della sopravvenienza normativa e
del conseguente mutamento del contesto
urbanistico di riferimento in senso
peggiorativo.
Invero, tale principio, oltre che sorretto
da ovvie considerazioni logiche, scaturisce
in maniera immediata e diretta proprio dal
principio della “doppia conformità”
che è predicato dall’art. 36 del DPR
380/2001 ai fini della regolarizzazione
formale del fabbricato edificato sine
titulo e che rende non sanabile
quell’edificio che, in origine conforme allo
strumento urbanistico, sia transitato, al
modificare di quest’ultimo, in una
condizione di illegittimità anche
sostanziale per violazione delle norme di
riferimento sopravvenute
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 13.02.2012 n. 148 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per la Corte di Cassazione anche il cambio
d'uso senza opere abusivo è reato, salvo tra
categorie omogenee.
La
sentenza 08.02.2012 n. 4943 della
III Sez. penale della Corte di Cassazione,
si occupa del cambio d'uso senza opere.
Scrive la Cassazione che la modificazione
della destinazione d'uso di un immobile,
anche senza opere, in contrasto con quanto
previsto dagli strumenti urbanistici integra
la fattispecie contravvenzionale di cui alla
lettera a) dell'art. 44 del Dpr 380/2001.
Fa eccezione il caso in cui le modificazioni
siano poste in essere tra categorie
omogenee.
Nel caso in esame, un'area agricola era
stata abusivamente destinata a campo di volo
da parte di una associazione di appassionati
(tratto da e link a http://venetoius.myblog.it). |
CONDOMINIO:
Vizi dell'immobile, colpe a metà.
Se il difetto è evidente si presume la
tolleranza dell'inquilino. La Cassazione
sugli affitti: il proprietario è
responsabile quando l'anomalia è occulta.
Locazioni: per i vizi dell'immobile
responsabilità suddivisa tra proprietario e
inquilino. Il locatore è infatti tenuto a
garantire che l'immobile concesso in
locazione sia idoneo all'uso pattuito ma il
conduttore, di converso, deve prestare
attenzione alla presenza di vizi evidenti
che, se non immediatamente contestati, si
presumono accettati e tollerati da
quest'ultimo sulla base di una complessiva
valutazione di convenienza dell'affare.
Quanto sopra, tuttavia, non vale a sollevare
da responsabilità il proprietario nel caso
in questi cui abbia sottaciuto alla
controparte la presenza di vizi occulti o
non facilmente individuabili che rendano di
fatto l'immobile inservibile all'utilizzo
pattuito.
Lo ha chiarito la III Sez.
civile della Corte di Cassazione con la
sentenza 07.02.2012 n. 1694.
Nel caso concreto i titolari di una società
che aveva preso in locazione alcuni locali
da adibire a discoteca aveva portato in
giudizio il proprietario dei medesimi per
ottenere la risoluzione per inadempimento
del relativo contratto e il risarcimento dei
danni conseguenti, lamentando il mancato
allacciamento dei servizi igienici alla rete
fognaria condominiale servita da un
depuratore.
In primo grado il tribunale
aveva però respinto la domanda di parte
attrice, perché nel contratto di locazione
era stato espressamente previsto dalle parti
che la società conduttrice avrebbe
provveduto alla manutenzione, anche
straordinaria, dei locali, con totale
esonero da responsabilità del locatore. I
giudici di primo grado, quindi, avevano
implicitamente ritenuto che il mancato
allacciamento degli impianti di scarico alla
rete fognaria, vista anche la specifica pattuizione contenuta nel contratto di
locazione, non poteva essere ritenuto un
vizio occulto e non conoscibile con
l'ordinaria diligenza da parte del
conduttore.
Di diverso avviso, invece, si
erano mostrati i giudici di appello
successivamente aditi dalla società
conduttrice, i quali avevano proprio puntato
sulla non conoscenza e non conoscibilità del
vizio in questione, ribaltando sul punto la
decisione di primo grado. La Corte di
appello aveva quindi accolto la domanda di
risoluzione per inadempimento del contratto
di locazione impugnato, respingendo però
quella diretta a ottenere il risarcimento
dei danni, non essendo stato provato
alcunché in ordine al pregiudizio economico
lamentato dalla società conduttrice.
I giudici di legittimità, nel riesaminare in
punto di diritto la questione controversa,
con la sentenza n. 1694 dello scorso 07.02.2012 hanno quindi confermato la
sentenza della corte di appello in ordine
alla responsabilità del locatore per il
mancato allacciamento degli impianti
sanitari dei locali alla rete fognaria
condominiale. La terza sezione della
Cassazione ha infatti ritenuto corretto il
riferimento operato dalla società
conduttrice all'art. 1578 del codice civile,
che disciplina appunto le conseguenze dei
vizi dai quali risulti affetto il bene
concesso in locazione.
Secondo i supremi
giudici un vizio quale quello denunciato
dalla conduttrice deve ritenersi per sua
stessa natura occulto, in quanto, essendo
nozione di fatto di comune esperienza che i
collegamenti fognari sono sotterranei, non
si può certo rimproverare al conduttore la
mancata conoscenza di una circostanza del
genere.
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La garanzia sulla manutenzione deve restare
invariata.
Il locatore-proprietario di un immobile
commerciale è tenuto non solo a consegnare
al conduttore un locale in buono stato di
manutenzione e a non occultare eventuali
vizi dell'immobile, ma anche a vigilare e
garantire che tale situazione rimanga
invariata nel tempo, trattandosi di un
obbligo strettamente connesso con quelli,
già a suo carico, di riparazione e
manutenzione dell'immobile locato. Vediamo
allora di considerare i principali diritti e
doveri del locatore e del conduttore in
relazione alle condizioni di fatto
dell'immobile concesso in locazione.
Obbligo di verifica e custodia anche delle
parti condominiali. Il proprietario non può
considerarsi dispensato dall'obbligo di
vigilanza e di custodia anche delle parti
comuni dell'edificio in cui si trova il
locale affittato.
Sussiste, dunque, la
responsabilità del locatore per i danni che
il conduttore subisce a causa di un bene
condominiale. Il locatore quindi è
responsabile per i danni che il conduttore
subisce a causa di danni al tetto, alla
facciata ecc.. Così, ad esempio, è
decisamente illecito il comportamento del
locatore che, proprietario dell'intero
stabile, si disinteressi di provvedere alla
manutenzione del tetto, sino al punto di
rendere inagibili i locali detenuti da un
conduttore a causa di rilevanti
infiltrazioni di acqua.
L'immobile concesso
in locazione deve pertanto restare sempre
perfettamente agibile, così da rendere
legittima la pretesa del locatore di
continuare a percepire regolarmente il
corrispettivo pattuito per la locazione. Va
peraltro precisato che al conduttore, nel
caso in cui si verifichi una riduzione o una
diminuzione nel godimento del bene
imputabile a negligenza del locatore, non è
consentito di sospendere il pagamento del
canone di locazione o di ridurlo
unilateralmente.
Denuncia dei vizi conoscibili. Il
proprietario deve consegnare un immobile in
buono stato, ma il conduttore, all'atto
della stipula del contratto, deve
controllare e denunciare i difetti
dell'immobile conosciuti o facilmente
riconoscibili (purché non occulti): in caso
contrario deve ritenersi che il medesimo
abbia implicitamente rinunciato a farli
valere, accettando la cosa nello stato in
cui risultava al momento della consegna, e
non potrà pertanto chiedere la risoluzione
del contratto o la riduzione del canone, né
il risarcimento del danno.
Quanto sopra vale
a maggior ragione se il conduttore, con
apposita clausola, da un lato riconosca il
locale commerciale idoneo all'uso pattuito,
dall'altro esoneri il locatore da ogni
eventuale inadempienza. In tal caso si deve
ritenere che il conduttore fosse consapevole
della necessità di interventi di
manutenzione, ma abbia valutato il canone
vantaggioso e per questo abbia concluso il
contratto.
Lavori per adeguare il locale a una
specifica attività commerciale. Spetta poi
al conduttore verificare che il locale abbia
quelle particolari caratteristiche
necessarie per svolgervi l'attività che si
ripromette di esercitarvi e per ottenere le
necessarie autorizzazioni amministrative.
Quindi è sempre quest'ultimo a doversi
preventivamente accertare che la sua
attività sia compatibile con la struttura e
con gli impianti dei locali visionati,
pretendendo eventualmente dal locatore
specifiche garanzie in proposito. In caso
contrario, il conduttore che accetta il
locale senza obiezioni si dovrà accollare
l'onere delle spese di adeguamento
dell'immobile locato.
Del resto, in via di
principio, non è onere del locatore ottenere
le necessarie autorizzazioni e, ove il
conduttore non riesca a ottenerle, non è
configurabile alcuna responsabilità per
inadempimento in capo al proprietario, e ciò
anche se la mancata concessione sia dipesa
da caratteristiche proprie dell'immobile.
Tuttavia, se il provvedimento amministrativo
necessario per la destinazione d'uso
convenuta sia stato definitivamente negato,
al conduttore è generalmente riconosciuta la
facoltà di chiedere la risoluzione del
contratto (salvo particolari accordi).
Si
deve inoltre sottolineare che le parti
possono far gravare sul locatore sia la
possibilità di apportare all'immobile
modificazioni necessarie per potervi
svolgere l'attività prevista (e così di
installarvi dispositivi necessari da un
punto di vista tecnico o giuridico) sia il
fatto che esso presenti o sia in condizione
di acquisire tutti i permessi richiesti
dalla legge. Quanto sopra è possibile solo
se nel contratto il proprietario si obblighi
espressamente ad apportare al locale le
modificazioni necessarie per potervi
svolgere l'attività prevista e ottenere con
certezza il rilascio delle autorizzazioni
amministrative.
Vizi e difetti di gravi nature nel corso
della locazione.
Durante la locazione nell'immobile possono
comparire vizi e difetti di grave natura,
tali da diminuire in modo apprezzabile o,
addirittura, far venire meno l'idoneità del
locale a servire all'uso pattuito. In tal
caso il conduttore non ha la possibilità di
richiedere l'intervento del locatore per le
necessarie riparazioni, né tanto meno può
provvedervi direttamente: questi può però
ottenere, a sua scelta, la risoluzione del
contratto o la riduzione del canone, oltre
al risarcimento del danno.
Infatti l'obbligo del locatore di effettuare
le riparazioni necessarie a mantenere
l'immobile in buono stato riguarda gli
inconvenienti eliminabili nell'ambito delle
opere di manutenzione, e, pertanto, non può
essere invocato per rimuovere guasti o
deterioramenti rilevanti (articolo ItaliaOggi
sette del 27.02.2012). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L’Ordine
professionale può difendere in sede
processuale gli interessi dei propri
iscritti, avendo rappresentanza della
categoria professionale in funzione della
quale è costituito, sia relativamente a
questioni inerenti la violazione delle norme
poste a tutela della professione, sia per il
perseguimento di vantaggi di natura
strumentale riferibili alla medesima
categoria.
Sussiste l’interesse della parte ricorrente
all’impugnazione dell’avviso, ancorché in
mancanza di una domanda di partecipazione
alla selezione, sia per la natura della
legittimazione a ricorrere dell’Ordine
professionale, che lo abilita direttamente a
proporre ricorso a tutela degli interessi
rappresentati senza il collegamento con una
domanda di partecipazione logicamente non
ipotizzabile da parte dell’Ordine stesso,
sia perché, a seguito della pronuncia
dell’Adunanza Plenaria nr. 4/2011, si deve
ritenere che la legittimazione ad impugnare
un bando per contestare una clausola
pacificamente escludente sussiste “a
priori”, senza necessità di radicare
l’interesse processuale in una domanda di
partecipazione, la cui sicura reiezione in
forza della clausola escludente risolverebbe
la sua presentazione in una mera formalità.
Va ritenuta la sussistenza della
legittimazione attiva in capo alla odierna
ricorrente: per giurisprudenza pacifica,
l’Ordine professionale può difendere in sede
processuale gli interessi dei propri
iscritti, avendo rappresentanza della
categoria professionale in funzione della
quale è costituito, sia relativamente a
questioni inerenti la violazione delle norme
poste a tutela della professione, sia per il
perseguimento di vantaggi di natura
strumentale riferibili alla medesima
categoria (TAR Lazio, Roma, II, 22.09.2005,
n. 7307, Consiglio di Stato, V, 07.03.2001,
nr. 1339, cui condivisibilmente si richiama
la difesa di parte ricorrente; cfr. anche
Consiglio Stato a. plen. 03.06.2011, n. 10
che riconosce la sussistenza della
legittimazione dell’Ordine professionale ad
agire contro procedure di evidenza pubblica
ritenute lesive dell'interesse
istituzionalizzato della categoria da esso
rappresentata, anche nell'ipotesi in cui
possa configurarsi un conflitto di interessi
con partecipanti alla selezione appartenenti
al medesimo Ordine).
Sussiste
l’interesse della parte ricorrente
all’impugnazione dell’avviso, ancorché in
mancanza di una domanda di partecipazione
alla selezione, sia per la natura della
legittimazione a ricorrere dell’Ordine
professionale, che lo abilita direttamente a
proporre ricorso a tutela degli interessi
rappresentati senza il collegamento con una
domanda di partecipazione logicamente non
ipotizzabile da parte dell’Ordine stesso,
sia perché, a seguito della pronuncia
dell’Adunanza Plenaria nr. 4/2011, si deve
ritenere che la legittimazione ad impugnare
un bando per contestare una clausola
pacificamente escludente sussiste “a
priori”, senza necessità di radicare
l’interesse processuale in una domanda di
partecipazione, la cui sicura reiezione in
forza della clausola escludente risolverebbe
la sua presentazione in una mera formalità
(TAR Milano Lombardia sez. I, 09.06.2011, n.
1493; Consiglio di Stato ad. Plen.
07.04.2011, n. 4) (TAR
Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 01.02.2012 n. 87 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Nel
caso in cui un’impresa autonomamente in
possesso di idonea qualificazione presenti
una dichiarazione di subappalto non conforme
a quanto richiesto dal disciplinare di gara,
riservandosi la facoltà di subappaltare
lavorazioni riconducibili a categorie per le
quali la lex specialis di gara esclude la
possibilità di un affidamento in subappalto,
l’impresa stessa non può essere
legittimamente esclusa dalla gara.
Invero, l'incompleta o erronea dichiarazione
del concorrente relativa all'esercizio della
facoltà di subappalto è suscettibile di
comportare l'esclusione dello stesso dalla
gara nel solo caso in cui questi risulti
sfornito in proprio della qualificazione per
le lavorazioni che ha dichiarato di voler
subappaltare, determinando negli altri casi
effetti unicamente in fase esecutiva, sotto
il profilo dell'impossibilità di ricorrere
al subappalto come dichiarato.
Tale soluzione appare in linea con il
principio di tassatività delle ipotesi di
esclusione, di recente ribadito dal
legislatore (v. comma 1-bis dell’art. 46 del
D.Lg.vo n. 163/2006).
... Considerato che la ricorrente risulta
dotata di autonoma, piena, qualificazione
per l’esecuzione dei lavori in questione e
che il bando di gara non contiene specifica
previsione di esclusione per il caso di
dichiarazione di volontà di ricorrere a sub
appalto, possibilità quest’ultima esclusa
dal bando medesimo “in deroga a quanto
stabilito dall’art. 37, comma 2, del D.Lg.vo
n. 163/2006”;
Ritenuto di condividere l’orientamento
giurisprudenziale in base al quale, nel caso
in cui un’impresa autonomamente in possesso
di idonea qualificazione presenti una
dichiarazione di subappalto non conforme a
quanto richiesto dal disciplinare di gara,
riservandosi la facoltà di subappaltare
lavorazioni riconducibili a categorie per le
quali la lex specialis di gara
esclude la possibilità di un affidamento in
subappalto, l’impresa stessa non possa
essere legittimamente esclusa dalla gara (C.
S., IV, 30.10.2009, n. 6708);
- che, invero, l'incompleta o erronea
dichiarazione del concorrente relativa
all'esercizio della facoltà di subappalto è
suscettibile di comportare l'esclusione
dello stesso dalla gara nel solo caso in cui
questi risulti sfornito in proprio della
qualificazione per le lavorazioni che ha
dichiarato di voler subappaltare,
determinando negli altri casi effetti
unicamente in fase esecutiva, sotto il
profilo dell'impossibilità di ricorrere al
subappalto come dichiarato;
- che tale soluzione appare in linea con il
principio di tassatività delle ipotesi di
esclusione, di recente ribadito dal
legislatore (v. comma 1-bis dell’art. 46 del
D.Lg.vo n. 163/2006) ...
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 27.01.2012 n. 81 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Edifici privi di collaudo, no al
sequestro preventivo senza pericolo di
crollo.
Secondo la Cassazione, la
mancanza del certificato di collaudo di
un'opera in cemento armato è insufficiente a
giustificare il sequestro preventivo in
assenza di prova dell'instabilità
dell'edificio.
Secondo la sentenza che può leggersi in
calce, la mancanza di
certificato di collaudo, richiesta ai sensi
dell'art. 67 D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (T.U.
Edilizia) per tutte le opere in cemento
armato o a struttura metallica, pur
integrando la contravvenzione prevista
all'art. 75 T.U.Ed., è insufficiente a
giustificare il sequestro preventivo della
costruzione se non v'è contestuale prova
dell'instabilità dell'edificio, ossia prova
concreta del pericolo per la pubblica
incolumità.
Questa la vicenda oggetto del giudizio:
circa nel 2001 vengono indagati quattro
soggetti per l'avvio di lavori di
edificazione immobiliare in assenza dei
prescritti titoli abilitativi (art. 44,
comma 1, lett. a), T.U.Ed.).
Nonostante durante le indagini preliminari
per tale contravvenzione venissero apposti i
sigilli all'immobile abusivo, i lavori
edificatori venivano proseguiti ed ultimati
dagli indagati che, successivamente, si
trasferivano a vivere nella costruzione
abusiva con le proprie famiglie, come
accertato dalla P.G. nel 2009.
Poco dopo il sequestro preventivo
dell'immobile abusivo, disposto nuovamente
dal Giudice per le indagini preliminari a
seguito degli accertamenti compiuti nel
2009, il pubblico ministero emetteva
provvedimento di dissequestro, rilevando
come la costruzione fosse stata ultimata in
tempo tanto risalente da ritenere pienamente
maturato il termine di prescrizione della
contravvenzione prevista all'art. 44, comma
1, lett. a), T.U.Ed.
Tuttavia, poiché la costruzione veniva
realizzata in cemento armato ed, essendo
totalmente abusiva, non era mai stata
sottoposta al collaudo statico prescritto
dall'art. 67 T.U.Ed., il P.M. avviava le
indagini per altro titolo di reato, ossia
quello previsto all'art. 75 T.U.Ed., a norma
del quale chi consente l'uso di costruzioni
prima del rilascio del certificato di
collaudo è punito con l'arresto fino ad un
anno ovvero l'ammenda da 103 a 1032 €.
Il PM, quindi, chiedeva nuovamente il
sequestro dell'immobile, ma la richiesta
veniva rigettata tanto dal GIP quanto, in
sede d'appello ex art. 322-bis c.p.p., dal
Tribunale.
I Giudici di merito, infatti, hanno ritenuto
insussistente il fumus boni iuris,
poiché, qualificato il reato di cui all'art.
75 T.U.Ed. come reato a consumazione
istantanea (ossia che viene commesso nel
momento nel quale non viene presentata la
richiesta di collaudo secondo il
procedimento descritto all'art. 67 T.U.Ed.)
e ad effetti permanenti (che si protraggono
sino a quando il collaudo non venga
effettivamente eseguito), l'ultimazione dei
lavori in tempo risalente determinerebbe il
decorso del termine di prescrizione.
Rispetto al periculum in mora viene
evidenziato, altresì, come il mero rischio
sismico e vulcanico caratteristico della
zona nella quale è stata realizzata la
costruzione in cemento armato non
collaudata, sia inidoneo a giustificare, in
concreto, l'adozione della misura cautelare.
I Giudici di merito hanno, quindi, ritenuto
necessaria la prova di un pericolo concreto
per la pubblica incolumità per giustificare
la misura, da desumere in base alle
caratteristiche specifiche dell'immobile per
il quale è richiesta l'adozione del
provvedimento cautelare reale.
Presenta ricorso per Cassazione il
Procuratore della Repubblica lamentando,
essenzialmente, l'erronea applicazione della
legge penale in ordine alla errata
qualificazione giuridica del reato
contestato, in particolare sottolineando
come la contravvenzione prevista all'art. 75
T.U.Ed. sia un reato permanente tout
court.
Condotta prevista e punita dalla norma
incriminatrice, infatti, non è la mancata
esecuzione del collaudo, bensì, il
consentire l'utilizzo di un'opera in cemento
armato prima del rilascio del prescritto
certificato, ossia condotta ancora
perdurante al momento della richiesta di di
sequestro dell'immobile.
La Suprema Corte sposa, seppur in termini
dubitativi (“anche se ci si muove
nell'ottica interpretativa della Procura
della Repubblica”), la qualificazione
della contravvenzione quale reato
permanente, rilevando come norma di analogo
tenore letterale sia stata pacificamente
ritenuta dalla giurisprudenza descrittiva di
tale tipologia di reato. Il riferimento è
all'abrogato art. 211 del R.D. 27.07.1934
(T.U. Leggi sanitarie) che, nella sua
formulazione originaria (la norma è stata
poi depenalizzata per effetto dell'art. 32
della l. 24.11.1989, n. 689), puniva il
proprietario di un immobile che consentisse
l'abitazione nello stesso in assenza
dell'autorizzazione del podestà (poi
certificato di abitabilità).
Tale norma incriminatrice, così come l'art.
75 T.U.Ed., descriverebbe, a dire della
Suprema Corte, un reato permanente a
condotta mista ovvero composta da un aspetto
commissivo permanente, ossa l'utilizzazione
dell'edificio, ed un aspetto ommissivo
istantaneo, ossia il mancata richiesta
dell'autorizzazione prescritta per legge
(sul punto la sentenza richiama, tra le
altre la Cass. Pen., Sez. III, 27.01.1998,
n. 364, disponibile in DeJure).
Per l'effetto la prescrizione del reato
contesta non decorrerebbe fintanto che
l'edificio continui ad essere abitato pur in
assenza dei certificati e/o delle
autorizzazioni imperativamente richieste,
dovendosi, quindi, attribuire valore
dirimente, per la qualificazione giuridica
del reato, all'aspetto commissivo
permanente.
La Cassazione, tuttavia, non reputa tale
aspetto sufficiente a superare la decisione
adottata dai giudici di merito poiché, pur
ritenendo potendosi ritenere sussistente il
fumus boni iuris, una volta
qualificato il reato contestato come
permanente, la Procura avrebbe omesso di
fornire elementi di prova idonei a
dimostrare, nel caso di specie e non solo in
astratto, il rischio per la pubblica
incolumità connesso all'utilizzo
dell'immobile abusivo in cemento armato non
collaudato.
La mancanza di certificato di collaudo,
richiesta ai sensi dell'art. 67 D.P.R.
06.06.2001, n. 380 (T.U.Edilizia) per tutte
le opere in cemento armato o a struttura
metallica è, quindi, insufficiente a
giustificare, in sé e per sé, il sequestro
preventivo della costruzione realizzata, a
meno che non venga contestualmente provata
dell'instabilità dell'edificio, a
dimostrazione della sussistenza di un
concreto pericolo per la pubblica
incolumità.
Il ricorso viene, quindi, rigettato
(commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di
Cassazione penale, sentenza 17.01.2012 n.
1411). |
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