e-mail
info.ptpl@tiscali.it

APPALTI
CONVEGNI
FORUM
G.U.R.I. - G.U.U.E. - B.U.R.L.
LINK
NEWS PUBBLICATE:
1-aggiornam. pregressi
2-Corte dei Conti
3-
dite la vostra ...
4-dottrina e contributi
5-funzione pubblica
6-giurisprudenza
7-modulistica
8-news
9-normativa
10-note, circolari e comunicati
11-quesiti & pareri
12-utilità
- - -
DOSSIER
:
13-
ABUSI EDILIZI
14-
AFFIDAMENTO IN HOUSE
15-AGIBILITA'
16-APPALTI
17-ARIA
18-ASL + ARPA
19-ATTI AMMINISTRATIVI
20-ATTI AMMINISTRATIVI (impugnazione-legittimazione)
21-ATTIVITA' COMMERCIALE IN LOCALI ABUSIVI
22-AVCP
23-BOSCO
24-BOX
25-CAMBIO DESTINAZIONE D'USO (con o senza opere)
26-CARTELLI STRADALI
27-CERTIFICATO DESTINAZIONE URBANISTICA
28-CERIFICAZIONE ENERGETICA e F.E.R.
29
-COMPETENZE GESTIONALI
30
-COMPETENZE PROFESSIONALI - PROGETTUALI
31-CONDOMINIO
32-CONSIGLIERI COMUNALI
33-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE
34-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (gratuità per oo.pp. e/o private di interesse pubblico)
35-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (prescrizione termine dare/avere)
36-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (rateizzato e/o ritardato versamento)
37-DEFINIZIONI INTERVENTI EDILIZI
38-DIA e SCIA
39-DIAP
40-DISTANZA dagli ALLEVAMENTI ANIMALI
41-DISTANZA dai CONFINI
42-DISTANZA dai CORSI D'ACQUA
43-DISTANZA dalla FERROVIA

44-DISTANZA dalle PARETI FINESTRATE
45-DURC
46-EDIFICIO UNIFAMILIARE
47-ESPROPRIAZIONE
48-INCARICHI LEGALI e/o RESISTENZA IN GIUDIZIO
49-INCARICHI PROFESSIONALI E PROGETTUALI
50-INCENTIVO PROGETTAZIONE
51-INDUSTRIA INSALUBRE
52L.R. 12/2005
53-L.R. 23/1997
54-LEGGE CASA LOMBARDIA
55-LOTTO INTERCLUSO
56-MAPPE CATASTALI (valore probatorio o meno)
57-MOBBING
58-MURO DI CINTA/RECINZIONE, DI CONTENIMENTO/SOSTEGNO, ECC.
59-OPERE PRECARIE
60-PARERE DI REGOLARITA' TECNICA, CONTABILE E DI LEGITTIMITA'
61-PERGOLATO e/o GAZEBO e/o BERCEAU
62-PERMESSO DI COSTRUIRE (annullamento e/o impugnazione)
63-PERMESSO DI COSTRUIRE (decadenza)
64-PERMESSO DI COSTRUIRE (deroga)
65-PERMESSO DI COSTRUIRE (legittimazione richiesta titolo)
66-PERMESSO DI COSTRUIRE (prescrizioni)
67-PERMESSO DI COSTRUIRE (proroga)
68-PERMESSO DI COSTRUIRE (verifica in istruttoria dei limiti privatistici al rilascio)
69
-
PERMESSO DI COSTRUIRE (volturazione)
70-
PERTINENZE EDILIZIE ED URBANISTICHE
71-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI
72-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI (aree a standard)
73-PISCINE
74-PUBBLICO IMPIEGO
75-RIFIUTI E BONIFICHE
76-
RINNOVO/PROROGA CONTRATTI
77-RUDERI
78-
RUMORE
79-SAGOMA EDIFICIO
80-SANATORIA GIURISPRUDENZIALE E NON (abusi edilizi)
81-SCOMPUTO OO.UU.
82-SEGRETARI COMUNALI
83-SIC-ZPS - VAS - VIA
84-SICUREZZA SUL LAVORO
85
-
SINDACATI & ARAN
86-SOPPALCO
87-SOTTOTETTI
88-SUAP
89-STRADA PUBBLICA o PRIVATA o PRIVATA DI USO PUBBLICO
90-
TELEFONIA MOBILE
91-VERANDA
92-VINCOLO CIMITERIALE
93-VINCOLO IDROGEOLOGICO
94-VINCOLO PAESAGGISTICO + ESAME IMPATTO PAESISTICO + VINCOLO MONUMENTALE
95-VINCOLO STRADALE
96-VOLUMI TECNICI

NORMATIVA:
dt.finanze.it
entilocali.leggiditalia.it

leggiditaliaprofessionale.it

simone.it

SITI REGIONALI
STAMPA
 
C.A.P.
Codice Avviamento Postale

link 1 - link 2
CONIUGATORE VERBI
COSTO DI COSTRUZIONE
(ag
g. indice istat):

link 1-BG - link 2-MI
link 3-CR
DIZIONARI
indici ISTAT:
link 1 - link 2-BG
link 3-MI

interessi legali:
link 1
MAPPE CITTA':
link 1 - link 2 - link 3
link 4 - link 5
METEO
1 - PAGINE bianche
2 - PAGINE gialle
PREZZI:
osservatorio prezzi e tariffe

prodotti petroliferi
link 1
- link 2
PUBBLICO IMPIEGO:
1 - il portale pubblico per il lavoro
2
- mobilità
 

AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di MARZO 2012

Alcuni files sono in formato Acrobat (pdf): se non riesci a leggerli, scarica gratuitamente il programma Acrobat Reader (clicca sull'icona a fianco riportata).  -      segnala un errore nei links                                                                                

aggiornamento al 29.03.2012

aggiornamento al 26.03.2012

aggiornamento al 19.03.2012

aggiornamento al 16.03.2012

aggiornamento al 12.03.2012

aggiornamento all'08.03.2012

aggiornamento al 05.03.2012

aggiornamento all'01.03.2012

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 29.03.2012

ã

MOBILITA'

PUBBLICO IMPIEGO: Il Comune di San Pellegrino Terme (BG) cerca, con mobilità volontaria, un geometra (o equivalente) per la copertura di n. 1 posto vacante all'Ufficio Tecnico - cat. C - a tempo pieno ed indeterminato.
Il bando integrale è leggibile cliccando qui ed il termine entro cui inviare le domande è il 10.04.2012, ore 12,00.

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Oggetto: trasmissione informatizzata della notifica preliminare di avvio lavori nei cantieri (Decreto del Direttore Generale Sanità n. 9056 del 14.09.2009 e Decreto del Direttore Regionale del Lavoro n. 117 del 23.09.2009) – integrazione con l’applicativo “Osservatorio sui contratti di lavori, servizi e forniture (Regione Lombardia, Direzione Generale Sanità, Governo della Prevenzione e Tutela Sanitaria, Prevenzione Ambienti di Vita e di Lavoro, nota 20.03.2012 n. 9172 di prot.).

UTILITA'

APPALTI: Gli atti del convegno "Appalti pubblici: le recenti novità (Manovra Monti - Decreto Semplificazioni - Linee Guida sulla offerta economicamente più vantaggiosa - Procedure negoziate)" tenutosi nel febbraio 2012 a cura del Centro Studi Marangoni (link a www.centrostudimarangoni.it):
- 1^ parte; - 2^ parte; - 3^ parte; - 4^ parte.

APPALTI: Gli atti del convegno "Le procedure di acquisto in economia" tenutosi nel novembre 2011 a cura del Centro Studi Marangoni (link a www.centrostudimarangoni.it):
- 1^ parte.

APPALTI SERVIZI: Gli atti del convegno "La riforma dei Servizi Pubblici Locali" tenutosi nell'ottobre 2011 a cura del Centro Studi Marangoni (link a www.centrostudimarangoni.it):
- 1^ parte; - 2^ parte.

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI SERVIZI: C. Rapicavoli, Servizi pubblici locali e liberalizzazioni: cosa cambia - La disciplina dei servizi pubblici locali dopo la conversione in legge del decreto liberalizzazioni (link a www.leggioggi.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: S. Camonita, Strade vicinali e regime giuridico-normativo (link a www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: A. Borzi, Inquinamento elettromagnetico: spunti sulla disciplina comunitaria e nazionale, tra precauzione e sostenibilità (parte prima) (link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: A. Fiale, La confisca penale delle costruzioni abusive e dei terreni abusivamente lottizzati (link a www.lexambiente.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 5 del 31.01.2012, "Aggiornamento Albo regionale delle imprese boschive - art. 57 legge regionale n. 31/2008" (decreto D.S. 24.01.2012 n. 368).

SINDACATI

APPALTI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: EE.LL.: la conversione in legge del decreto milleproroghe (CGIL-FP di Bergamo, nota 19.03.2012).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale. Corte dei conti Toscana. Con lo stop ai resti assunzioni bloccate.
RETROATTIVI/ Il decreto del Viminale impone un numero di attestazioni relative al 2009-2011 ma manca la disciplina di Economia e Consob.

Gli enti locali non possono utilizzare i resti delle possibilità di assunzione a tempo indeterminato di cui non si sono serviti negli anni precedenti.
È questa l'indicazione contenuta nel parere 13.03.2012 n. 30 della sezione regionale di controllo della Corte dei Conti della Toscana.
Si tratta di una lettura assai rigida, che segna una netta differenza rispetto alle regole dettate per le amministrazioni dello Stato.
Essa riduce ulteriormente la possibilità dei Comuni di effettuare assunzioni di personale, vanificandole di fatto per gli enti soggetti al Patto di stabilità di ridotte dimensioni. Il tutto con conseguenze assai pesanti sui comuni con popolazione superiore a mille abitanti che dal prossimo 1° gennaio dovrebbero essere soggetti al Patto. Se questa lettura si consoliderà, di fatto si avrà una condizione di sostanziale blocco delle assunzioni per la stragrande maggioranza dei Comuni.
Il Dl 78/2010 ha disposto, per la gran parte delle Pubbliche amministrazioni, il tetto del 20% della spesa del personale cessato nell'anno precedente come soglia massima per le assunzioni a tempo indeterminato. Agli enti locali sono inoltre richiesti il rispetto del Patto di stabilità, avere contenuto la spesa del personale entro quella dell'anno precedente e avere un rapporto tra spesa del personale e spesa corrente inferiore al 50 per cento. Il riferimento, per espressa indicazione contenuta nel comma 9 dell'articolo 14, va per le assunzioni del 2011 solamente al personale cessato nell'anno 2010. Il che impedisce già, a differenza di quanto le Sezioni unite della Corte dei Conti hanno stabilito per gli enti non soggetti al Patto di stabilità, di recuperare le cessazioni degli anni precedenti che non sono state utilizzate per nuove assunzioni.
Alle amministrazioni dello Stato l'articolo 9, comma 11, consente di recuperare le quote di cessazione degli anni precedenti che gli enti non hanno potuto utilizzare come base per nuove assunzioni in quanto non si raggiungeva la soglia di almeno 1 unità. Per la sezione di controllo della Corte dei Conti della Toscana, sulla base dei lavori preparatori, si deve ritenere che questa disposizione sia «applicabile agli enti di piccole dimensioni da individuarsi negli enti pubblici non economici e negli enti di ricerca nei confronti dei quali è pertanto riferita la disposizione normativa». E da ciò se ne trae la conseguenza della «esclusione degli enti locali».
Questa conclusione viene si basa su una lettura meramente formale, che non tiene conto del fatto che gli enti locali hanno generalmente una dimensione medio piccola nel numero dei dipendenti e che, quindi, molto spesso le cessazioni di 1 anno non consentono di effettuare neppure una assunzione. Essa determina inoltre una condizione di sperequazione negativa rispetto alle amministrazioni dello Stato, condizione che risulta essere del tutto ingiustificata alla luce della scelta legislativa di avere invece le stesse regole, si veda da ultimo la estensione ai comuni dei tetti alle assunzioni flessibili dettate per lo Stato (articolo Il Sole 24 Ore del 26.03.2012 - tratto da www.corteconti.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Indennità Amministratori locali.
La Corte dei Conti Sez. Reg.le Piemonte, con il parere 07.03.2012 n. 28, si esprime -come segue- in merito all'applicazione della riduzione del 50% dell'indennità di carica da corrispondere ad un amministratore comunale che svolge attività professionale di lavoratore autonomo, contestualmente a quella di lavoratore dipendente presso un'azienda di servizi ex municipalizzata (non in aspettativa):
"I presupposti legislativi previsti per operare la riduzione del 50% sono l'essere lavoratore dipendente e non aver richiesto l'aspettativa ed entrambi sono presenti nella fattispecie prospettata dall'amministrazione comunale richiedente.
La circostanza che il lavoratore dipendente svolga contemporaneamente attività di lavoratore autonomo, non è idonea ad escludere l'operatività della riduzione, ma al contrario ne giustifica ulteriormente l'applicazione, ove si tenga conto che la ratio della decurtazione va individuata anche nel minor tempo che i lavoratori dipendenti non collocati in aspettativa possono dedicare all'espletamento del mandato amministrativo.
Ritiene pertanto la Sezione che, nell'ipotesi di lavoratore dipendente che non abbia chiesto il collocamento in aspettativa e svolga contemporaneamente attività professionale di lavoratore autonomo, opera la riduzione del 50% dell'indennità di funzione, prevista dall'ultimo inciso del primo comma dell'art. 82 del TUEL
" (tratto da www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Comando e art. 9, comma 28, D.L. 78/2010.
La Corte dei Conti Sez. Reg.le Liguria, con il parere 27.02.2012 n. 7, si allinea alla posizione espressa dalla sezione di controllo per la Toscana (deliberazione n. 6/2012/PAR) e ritiene che le acquisizioni di personale in comando o distacco non possono essere formalmente annoverate tra le forme di lavoro flessibile il cui utilizzo è limitato dall'articolo 9, comma 28, del d.l. 78/2010, convertito in legge n. 122/2010. Aggiunge però le seguenti considerazioni:
- "Sebbene, come anche affermato dall'Ente, l'istituto del comando non sia da inquadrarsi tra le tipologie di assunzione di personale, non possono non essere considerati gli effetti derivanti dallo stesso in termini di mantenimento del principio di neutralità finanziaria";
- "... in applicazione del principio di neutralità finanziaria ...., nella diversa fattispecie ora all'esame, quale è quella del limite di assunzione del personale a tempo determinato di cui all'art. 9, comma 28, del d.l. n. 78 del 2010, la spesa relativa al personale utilizzato in posizione di comando può essere esclusa dall'ambito applicativo di cui all'art. 9, comma 28, del d.l. n. 78 del 2010 a condizione che la medesima spesa sia figurativamente mantenuta dall'Ente cedente ai soli fini dell'applicazione della norma richiamata" (tratto da www.publika.it).

NEWS

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl ministro Patroni Griffi conferma e anticipa gli approfondimenti annunciati da Fornero. L'articolo 18 si applica agli statali. Licenziamenti? Ragioni finanziarie invece che economiche.
L'articolo 18 si applica anche al lavoro pubblico. Lo ha confermato il ministro della funzione pubblica Patroni Griffi, con una lettera aperta pubblicata ieri sui giornali. Confermando quanto ItaliaOggi ha avuto modo di chiarire più volte (si vedano i numeri del 17 febbraio e del 23.03.2012).
L'intervento sulla stampa di Palazzo Vidoni sembra inizialmente tendere verso la soluzione opposta. Il ministro si meraviglia del dibattito sorto in merito all'applicabilità o meno dell'articolo 18 ai pubblici dipendenti, considerandolo «fuorviante».
Ma la lettera aperta, che sostanzialmente anticipa gli «approfondimenti» annunciati in tema dal ministro Fornero, non poteva che riportare la realtà dei fatti, che è quella discendente direttamente dalla legge. Il ministro Patroni Griffi, infatti, con riferimento ai dipendenti poco capaci ha affermato che «i licenziamenti discriminatori hanno una disciplina identica nel settore pubblico e nel settore privato. I licenziamenti disciplinari nel settore pubblico hanno poi una disciplina molto dettagliata proprio per evitare che possano essere utilizzati per finalità diverse»; a conferma dell'inevitabile simmetria della disciplina dei licenziamenti.
Quanto, invece, alle «ragioni economiche», Patroni Griffi prova a fare dei distinguo: «Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo o economico non può trovare applicazione nel pubblico in quanto in questi casi c'è una disciplina ad hoc che riguarda i casi in cui le pubbliche amministrazioni abbiano situazioni di soprannumero o rilevino comunque eccedenze di personale, in relazione alle esigenze funzionali o alla situazione finanziaria».
Si tratta solo di una sottigliezza tecnica. Il ministro afferma che nella p.a. non opera il motivo economico, ma poche parole dopo non può che ammettere la sussistenza del licenziamento per ragioni finanziarie, previsto espressamente dall'articolo 33 del dlgs 165/2001. Ci si deve riferire alle ragioni «finanziarie», invece che a quelle «economiche», per una ragione estremamente semplice: le amministrazioni pubbliche hanno una contabilità appunto solo finanziaria, posta, cioè, a misurare solo i volumi di entrata e spesa del denaro, senza riferirsi a grandezze economiche (costi, ammortamenti, scorte ecc.), utilizzate solo a corredo dei bilanci, impostati sulla parità finanziaria.
È evidente che un'amministrazione pubblica non può ritrovarsi in ambasce economiche per carenza di fatturato o ritardi nell'acquisizione dei pagamenti dei clienti o per crisi della domanda rispetto ai beni e servizi che produce. Per questo, correttamente, il citato articolo 33 del dlgs 165/2001 considera possibile il licenziamento anche individuale per giustificato motivo oggettivo dettato dalla «situazione finanziaria». Per esemplificare, un ente locale in dissesto o che non abbia rispettato il patto di stabilità, alla luce di tale norma non solo può, ma deve verificare la possibilità di alleggerire la spesa del personale collocando i propri dipendenti in esubero e in disponibilità, cioè sospendendo ogni prestazione lavorativa per 24 mesi, riducendo il trattamento economico all'80% di quello fondamentale e giungendo al licenziamento se nel frattempo il dipendente non sia stato trasferito presso qualche altra amministrazione.
Paradossalmente, davanti al giudice del lavoro un licenziamento per la «situazione finanziaria» di un ente pubblico può trovare, ai sensi della riforma paventata dell'articolo 18, tutela di molto inferiore a quella dovuta alle ragioni economiche di un ente privato. Infatti, la «situazione finanziaria» negativa di un'amministrazione pubblica non può che essere sorretta da atti pubblici, asseverati dagli organi di controllo amministrativo e contabile, tale che sostanzialmente risulterebbe impossibile in sede giurisdizionale accertare la simulazione di ragioni discriminatorie o disciplinari.
Per queste ragioni, anche se ancora l'articolo 18 non è stato riformato, nei confronti dei dipendenti pubblici opera già a partire dall'entrata in vigore della legge 183/2011 una disciplina di maggior rigore rispetto al lavoro privato, qualora intervengano licenziamenti per ragioni finanziarie (articolo ItaliaOggi del 28.03.2012).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALIEnti, oblio sul web. Dati personali sui siti per 15 giorni. Provvedimento del Garante. Rischio multe da 120 mila.
Diritto d'oblio sui siti istituzionali degli enti locali. I dati personali contenuti nelle delibere pubblicate sull'albo pretorio virtuale non devono continuare a essere diffusi oltre il termine di 15 giorni previsto dal Testo unico degli enti locali. Altrimenti l'ente rischia una sanzione amministrativa pecuniaria che va da 10 a 120 mila euro.
È quanto ha deciso il Garante con il provvedimento di prescrizione 23.02.2012 n. 73, che si occupa di modalità di pubblicazione dei provvedimenti amministrativi.
Nel caso specifico una signora si è lamentata del fatto che sul sito del comune fosse presente una delibera contenente i suoi dati anagrafici e l'informazione che avesse perso una causa tributaria con l'amministrazione, menzionando anche la condanna alle spese. Il problema è che la pubblicazione della deliberazione integrale si è protratta oltre il termine previsto dall'art. 124 del dlgs 267/2000 (Tuel), la norma che obbliga gli enti a pubblicare sul proprio sito le deliberazioni di comune e provincia per 15 giorni consecutivi, salvo specifiche disposizioni di legge.
Il Garante ha ricordato che i soggetti pubblici sono tenuti ad assicurare il rispetto dei limiti temporali previsti, rendendo accessibili i dati personali sul proprio sito web durante il circoscritto ambito temporale individuato dalle disposizioni di riferimento, anche per garantire il diritto all'oblio degli interessati. Mentre, trascorsi i termini specificatamente individuati, determinate notizie, documenti o sezioni del sito devono essere rimossi dal web o privati degli elementi identificativi degli interessati (così le «Linee guida in materia di trattamento di dati personali contenuti anche in atti e documenti amministrativi, effettuato da soggetti pubblici per finalità di pubblicazione e diffusione sul web», pubblicate in G.U. n. 64 del 19.03.2011).
Accertato il superamento del termine, il Garante ha vietato al comune di diffondere ulteriormente in internet i dati personali della signora. E ha prescritto di modificare le modalità di pubblicazione sul sito così da rispettare le Linee guida. Una volta trascorso il termine il comune potrà tenere sul sito regolamenti e deliberazioni, purché privati di dati personali, ha spiegato. Aggiungendo che, a questo proposito, sarebbe meglio creare una sezione apposita del sito nel quale inserire l'archivio di documentazione depurato da riferimenti specifici.
Il Garante ha anche fatto scattare i provvedimenti n. 74, 75 e 76 del 23.02.2012 per il blocco del trattamento dei dati nei confronti di tre società di telemarketing che effettuavano chiamate pubblicitarie indesiderate a utenze iscritte nel Registro delle opposizioni senza rendere identificabile la linea chiamante, e impedendo in tal modo agli abbonati di poter tutelare i loro diritti. Il Codice della privacy, infatti, vieta espressamente ai soggetti che effettuano chiamate commerciali e promozionali di camuffare o celare la loro identità.
Alla luce di queste violazioni, oltre a dichiarare illecito il trattamento dei dati effettuato dalle tre società, il Garante ha dunque disposto il blocco che impedisce alle tre società l'uso dei dati raccolti fino a quando esse non si metteranno in regola e invieranno agli Uffici dell'Autorità la documentazione che comprovi l'avvenuto adeguamento. Il Garante si è comunque riservato di valutare la possibilità di contestare alle società anche sanzioni amministrative (articolo ItaliaOggi del 28.03.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAInps. Indicati i documenti che nonostante la semplificazione non possono essere eliminati.
Autocertificazione con limiti. Sopravvivono Durc, agibilità, accertamenti medico legali.
Il Documento unico di regolarità contributiva (Durc), il certificato di agibilità, le attestazioni di regolarità contributiva non possono essere sostituiti con un'autocertificazione dell'interessato, nonostante la decertificazione prevista dal collegato lavoro.

Lo ribadisce l'Inps nella circolare 27.03.2012 n. 47.
L'Istituto di previdenza fa il punto sulla norma mirante alla semplificazione dei rapporti tra cittadini e Pubblica amministrazione, ricordando che l'articolo 15 della legge 183/2011 ha rafforzato il principio secondo cui la Pa deve acquisire d'ufficio le informazioni che sono necessarie allo svolgimento dell'istruttoria chiedendole all'amministrazione che le detiene.
In tal senso le modifiche introdotte dal collegato impongono alle Pubbliche amministrazioni non solo il divieto di richiedere certificati o atti di notorietà ma anche di accettarli (se prodotti di iniziativa dell'utente). Ne deriva che le certificazioni rilasciate dalla Pa in ordine a stati, qualità personali e fatti sono valide e utilizzabili solo nei rapporti tra privati. In quelli i con gli organi della Pa e i gestori di pubblici servizi, i certificati e gli atti di notorietà devono essere sostituiti dalle autocertificazioni. A tal fine è previsto che sui certificati rilasciati dalla Pa sia apposta la dicitura: «il presente certificato non può essere prodotto agli organi della pubblica amministrazione o ai privati gestori di pubblici servizi». Se il funzionario accetta un documento che reca tale formula commette un illecito disciplinare.
Così, i vertici dell'Istituto invitano le proprie strutture ad acquisire d'ufficio i dati necessari a istruire i processi amministrativi (a tal fine si stanno implementando i canali telematici) accettando, se del caso, le autocertificazioni. Quando si rende necessario acquisire agli atti dei dati contenuti in un provvedimento dell'autorità giudiziaria, che non rientrano nel novero di quelli che possono essere sostituiti da dichiarazioni del cittadino, allora quest'ultimo ha l'obbligo di fornire le indicazioni per il reperimento delle informazioni.
Alcune informazioni, però, non possono essere autocertificate. Oltre a quelle già menzionate si contano la certificazione di esposizione all'amianto rilasciata dall'Inail e i verbali relativi ad accertamenti medico legali redatti da strutture sanitarie pubbliche. Si tratta, infatti, di documenti rilasciati all'esito di valutazioni effettuate da organismi tecnici. Questi documenti possono essere presentati in copia, unitamente a una dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà sulla conformità all'originale in cui l'interessato deve anche dichiarare che quanto attestato non è stato revocato, sospeso o modificato.
Inoltre, secondo l'Inps, il legislatore è intervenuto in materia per limitare la certificazione senza, tuttavia, intaccare la facoltà delle amministrazioni di richiedere l'autocertificazione, al fine di evitare un aggravio del procedimento. Permane, così, per l'Inps la possibilità richiedere, a pena di esclusione, dichiarazioni sostitutive nelle procedure che prevedono la partecipazione di numerosi soggetti, per una valutazione comparativa di titoli (articolo Il Sole 24 Ore del 28.03.2012).

PUBBLICO IMPIEGO: Il dirigente risponde per dolo o colpa grave. E' tenuto ai danni se ha assegnato ai dipendenti mansioni superiori rispetto a quelle stabilite.
La responsabilità a cui si accenna nel quesito è qualificata dal nostro ordinamento come amministrativa e si configura ogni volta che il pubblico dipendente ... (articolo Il Sole 24 Ore del 26.03.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI: L'iscrizione agli elenchi condizionata dai crediti formativi, anzianità e numero d'incarichi. Revisori, il caso la fa da padrone. Il ruolo di auditor negli enti locali sarà assegnato a estrazione.
Una vera e propria rivoluzione per il sistema delle nomine a revisore degli enti locali: dal modello della scelta «politica» a quello della «dea bendata».
Il decreto del ministero dell'interno n. 1 del 2012, firmato dal ministro Annamaria Cancellieri lo scorso 15 febbraio e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 20 marzo, darà infatti il via alla formazione degli elenchi di professionisti che potranno ambire, attraverso sorteggio, ad assumere il ruolo auditor in comuni, province, città metropolitane, comunità montane, comunità isolane e unioni di comuni. La possibilità d'iscriversi sarà condizionata dai crediti formativi in materia di contabilità ed economia degli enti territoriali, dall'anzianità d'iscrizione agli albi professionali e dal numero d'incarichi pregressi.
Un nuovo elenco. Verrà istituito, presso il dipartimento per gli affari interni e territoriali del ministero dell'interno, l'elenco dei revisori dei conti degli enti locali; questo sarà costituito, su base regionale e per fasce, dai revisori legali nonché dai dottori commercialisti ed esperti contabili che, in seguito alla presentazione di specifica domanda telematica, dimostreranno di possedere i requisiti previsti dall'art. 3 del decreto ministeriale.
Per la prima fascia, quella dei comuni fino a 4.999 abitanti (5.683 secondo gli ultimi dati Ancitel), saranno richiesti: a) l'iscrizione da almeno due anni nel registro dei revisori legali o all'Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili; b) il conseguimento, nel periodo che va dal 1° gennaio al 30 novembre dell'anno precedente, di almeno dieci crediti formativi relativi alla partecipazione a corsi e/o seminari formativi in materia di contabilità pubblica e gestione economica e finanziaria degli enti territoriali.
Alla seconda fascia, riferita ai comuni con popolazione da 5 mila a 14.999 abitanti e alle unioni di comuni e comunità montane (in tutto 2.261 enti), potranno iscriversi coloro che: a) sono iscritti da almeno cinque anni nel registro dei revisori legali o all'Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili; b) hanno svolto, per la durata di tre anni, almeno un incarico di revisore dei conti presso un ente locale; c) hanno conseguito, nel periodo che va dal 1° gennaio al 30 novembre dell'anno precedente, almeno i citati dieci crediti formativi.
Per l'ultima fascia, quella dei comuni con popolazione pari o superiore a 15 mila abitanti e delle province (si tratta di 847 enti), saranno richiesti: a) l'iscrizione da almeno dieci anni nel registro dei revisori legali o all'Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili; b) l'aver svolto almeno due incarichi, ciascuno per la durata di tre anni, di revisore dei conti presso enti locali; c) il conseguimento, nel periodo che va dal l° gennaio al 30 novembre dell'anno precedente, degli stessi crediti formativi visti nei casi precedenti.
La domanda d'iscrizione. A regime l'elenco sarà aggiornato al 1° gennaio di ciascun anno: i soggetti che risulteranno già iscritti (per la fase transitoria si rinvia allo specifico box) dovranno, con modalità che saranno comunicate sul sito internet del ministero dell'interno, dimostrare il permanere dei requisiti a pena di cancellazione. Sarà prevista la possibilità, da parte di nuovi soggetti, di presentare domanda d'iscrizione: questa prevederà la possibilità di indicare, oltre alle fasce d'interesse (che, nell'ipotesi si abbiano i requisiti per più di una, non sono alternative fra loro), anche uno o più ambiti territoriali provinciali per cui non si è disponibili ad assumere l'incarico.
Particolare attenzione dovrà essere posta sulla formazione: a regime il decreto ministeriale prevede la valenza, fatto nuovo per la vigente disciplina di formazione professionale continua, non già della normale formazione accreditata dagli ordini o associazioni professionali bensì di «corsi e/o seminari formativi in materia di contabilità pubblica e gestione economica e finanziaria degli enti territoriali i cui programmi di approfondimento e i relativi test di verifica siano stati preventivamente condivisi con il ministero dell'interno». Una formazione caratterizzata, quindi, dal controllo sui contenuti e, soprattutto, da esami sui partecipanti che potrà essere organizzata, ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 3 del provvedimento in commento, anche dallo stesso ministero avvalendosi, senza oneri per lo stato, della scuola superiore dell'amministrazione dell'interno.
La procedura d'estrazione. Gli enti locali dovranno comunicare all'Ufficio territoriale del governo della prefettura competente, con almeno due mesi di anticipo, la scadenza dell'incarico del proprio organo di revisione economico-finanziario; in caso di cessazione anticipata, la comunicazione sarà inoltrata entro il terzo giorno successivo all'evento. La prefettura comunicherà quindi il giorno in cui si procederà all'estrazione, in seduta pubblica e alla presenza del prefetto o di un suo delegato, dei componenti degli organi di revisione da rinnovare.
Per ciascun componente da rinnovare saranno estratti tramite sistema informatico, con annotazione dell'ordine di estrazione, tre nominativi: il primo è designato per la nomina di revisore dei conti; gli altri subentrano, nell'ordine di estrazione, nell'eventualità di rinuncia o impedimento ad assumere l'incarico da parte del soggetto che li precede.
I risultati dell'estrazione saranno riportati in un verbale inviato a ciascun ente locale interessato che provvederà, con delibera del consiglio, a nominare quale organo di revisione economico-finanziaria i soggetti estratti (dopo aver verificato eventuali cause d'incompatibilità e impedimenti, ai sensi degli artt. 235, 236 e 238 del Tuel, nonché eventuali rinunce). In caso di organo collegiale le funzioni di presidente saranno attribuite al componente che ha ricoperto il maggior numero di incarichi di revisore presso enti locali e, in caso di egual numero di incarichi ricoperti, conterà la dimensione demografica di tali enti.
---------------
Le regole per la fase di prima applicazione.
Quando entrerà in vigore il meccanismo dell'estrazione? Non è possibile individuare una data precisa, serviranno infatti ancora diversi mesi. La pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto ministeriale, avvenuta il 20 marzo, è solo il punto di partenza del complesso iter necessario per formare l'elenco dei revisori dei conti degli enti locali: ci vorrà del tempo non solo per realizzare la procedura telematica, bisognerà prevedere anche un congruo termine per permettere la presentazione delle domande d'iscrizione (da pubblicizzare non solo sul sito internet del ministero dell'interno ma anche in Gazzetta Ufficiale); saranno poi necessari fino ad altri 90 giorni per valutare le richieste pervenute, verificandone i requisiti, in modo da procedere alla prima formazione dell'elenco che rimarrà in vigore fino al 28.02.2013 (data di prima manutenzione). Considerando sia le tempistiche riportare che il periodo estivo, crediamo che le estrazioni non possano avvenire prima dell'autunno: la partenza del nuovo sistema sarà comunque ufficializzata attraverso un avviso pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale e divulgato sulle pagine web dello stesso ministero dell'interno. Fino ad allora varranno le vecchie regole del Tuel.
Particolare interesse destano i requisiti, previsti dall'art. 4 del decreto ministeriale, per la fase di sua prima applicazione: esistono, infatti, due differenze significative rispetto a quelli a regime indicati nella parte superiore di questa pagina. La prima riguarda le caratteristiche dei crediti formativi: nella fase di start-up, non esistendo ancora i programmi di approfondimento e i test di verifica condivisi con il ministero dell'interno, il provvedimento normativo secondario ne richiede almeno 15, rispetto ai 10 a regime, purché riconosciuti dai competenti ordini professionali o dalle associazioni rappresentative degli stessi (sempre, ovviamente, per la partecipazione a corsi e/o seminari formativi in materia di contabilità pubblica e gestione economica e finanziaria degli enti territoriali). Sarebbero quindi esclusi dall'elenco, quantomeno fino alla fase a regime, anche i professionisti che pur avendo già svolto numerosi incarichi in enti locali non abbiano acquisito, pur essendo in regola con gli obblighi deontologici, i crediti indicati dal provvedimento.
Per l'appartenenza alla prima fascia viene aggiunto, infine, un ulteriore requisito: «Aver avanzato, entro la data di entrata in vigore del presente decreto, richiesta di svolgere la funzione quale organo di revisione di ente locale». Profetiche, in tal senso, le indicazioni fornite nel mese di febbraio dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili: veniva suggerito, infatti, l'invio di una semplice istanza, consegnata, spedita per raccomandata o magari inviata con la pec, a un comune o a una provincia per poter maturare il requisito. Ricordiamo, infine, che l'elenco sarà sottoposto a una prima manutenzione/aggiornamento il 28.02.2013, per poi entrare nella fase a regime a partire dall'01.01.2014 (articolo ItaliaOggi Sette del 26.03.2012 - tratto da www.corteconti.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: La legge di conversione del dl ambiente riduce il libero utilizzo dei materiali di riporto. Rifiuti, gestione del suolo a tappe. In attesa di nuove condizioni valgono le norme sui sottoprodotti.
Sì alla gestione dei «materiali di riporto» fuori dalla disciplina sui rifiuti, ma solo nel rispetto delle nuove condizioni tecniche dettate dal ministero dell'ambiente, e in attesa delle quali vanno comunque osservate le norme generali in materia di «sottoprodotti».
Esce ridimensionata dalle modifiche apportate dalla legge di conversione approvata definitivamente il 21.03.2012 la nuova disciplina sul «libero» utilizzo dei materiali eterogenei contenuti nel suolo e utilizzati per riempimenti e rilevati disegnata dal dl 2/2012 (c.d. «dl ambiente»). Con le novità apportate dalla legge di conversione del dl 2/2012, la nuova gestione dei materiali da riporto risulta quindi scandita in tre distinte fasi temporali: la prima, che va dal 25.01.2012 (data di entrata in vigore del decreto 2/2012) alla data di entrata in vigore della legge di conversione; la seconda, che andrà dalla data di entrata in vigore della citata legge di conversione (in attesa di pubblicazione sulla G.U.) a quella della entrata in vigore del citato dm ambiente (la cui deadline di adozione è stata stabilita dal dl 1/2012 nel 24.03.2012); la terza, che sarà operativa dalla entrata in vigore del nuovo dm ambiente. Vediamo, nel dettaglio, le tre fasi.
Le novità previste dal dl 2/2012. Mediante un'opera di interpretazione autentica ed estensiva della nozione di «suolo» recata dal dlgs 152/2006, l'originaria versione del «dl ambiente» ha sancito dal 25.01.2012 l'equiparazione allo stesso dei materiali di riporto in esso contenuti, con la conseguenza di rendere ufficialmente lecita la gestione di questi ultimi al di fuori dal regime dei rifiuti ove analoga gestione sia consentita per i primi.
In particolare, in base alla originaria formulazione del dl 2/2012, non sono dal 25.01.2012 considerati rifiuti (fermo restando l'obbligo di procedere a bonifica dei terreni contaminati oltre una certa soglia) le matrici di riporto contenute nelle porzioni di suolo definite dall'articolo 185, comma 1, lettere b) e c), dlgs 152/2006, ossia contenute: nel terreno (non scavato); nel suolo contaminato non scavato; nel suolo non contaminato escavato nel corso di attività di costruzione, purché riutilizzato allo stato naturale nello stesso sito a fini di costruzione.
Dalla stessa data non sono altresì considerati rifiuti, se soddisfano almeno una delle condizioni di cui agli articoli 183/1, lettera a) (il detentore non se disfa), 184-bis (sono dei sottoprodotti) e 184-ter (sono stati oggetto di recupero) del dlgs 152/2006, i materiali di riporto contenuti nel suolo escavato non contaminato e utilizzati in siti diversi da quelli di escavo.
Le novità della legge di conversione. La legge approvata il 21.03.2012 ha, come accennato, confermato l'impianto di fondo del decreto d'urgenza, delimitandone però la sfera d'azione, e ciò mediante due nuove disposizioni. In primo luogo, tale legge ha infatti introdotto una precisa definizione di «matrici materiali di riporto» facendoli coincidere con i soli «materiali eterogenei, disciplinati dal dm ambiente previsto dall'articolo 49 del dl 1/2012, utilizzati per la realizzazione di riempimenti e rilevati non assimilabili per caratteristiche geologiche e stratigrafiche al terreno in situ, all'interno dei quali possono trovarsi materiali estranei».
In secondo luogo, stabilendo che fino all'entrata in vigore del dm ambiente in parola tali matrici materiali di riporto eventualmente presenti nei terreni e nei suoli gestibili al di fuori della disciplina sui rifiuti (quelli ex articolo 185/1, lettere b) e c), ed ex articolo 185/4 del dlgs 152/2006 sopra citati) possono essere considerati sottoprodotti (dunque utilizzati in deroga al regime sui rifiuti) solo se rispettosi delle condizioni generali sui sottoprodotti stabilite dall'articolo 184-bis dello stesso codice ambientale.
La gestione dei materiali di riporto a «pieno regime». L'assetto definitivo della nuova disciplina sui materiali di riporto troverà un suo assetto definitivo solo con l'entrata in vigore del nuovo dm ambiente in materia di terre e rocce da scavo previsto dall'articolo 49 del dl 1/2012.
Tale decreto, superando le norme dettate per il periodo transitorio dalla legge di conversione del dl 2/2012, traccerà infatti in modo preciso e definitivo i confini entro i quali la gestione dei materiali di riporto potrà avvenire in deroga alla disciplina sui rifiuti (articolo ItaliaOggi Sette del 26.03.2012).

APPALTI SERVIZI: Liberalizzazioni. Riscritto il calendario per la riforma degli affidamenti
Servizi, pareri all'Antitrust con rischio ingorgo date. Tra luglio e agosto pioggia di decisioni con le analisi dei mercati locali.

Con la nuova riscrittura della riforma nel decreto liberalizzazioni appena convertito dal Parlamento, la disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica dovrebbe aver trovato un quadro definito.
Le amministrazioni affidanti sono chiamate ad avviare sin da ora l'analisi per qualificare i servizi interessati dal nuovo quadro, che oltre alle attività prive di rilevanza economica esclude una serie di settori (servizio idrico, gas, energia, farmacie e ferrovie regionali).
Il nuovo percorso è a tappe forzate, inizia con il Dm sui criteri per la verifica dell'attribuzione dei diritti di esclusiva: il decreto va adottato entro il 31 marzo.
Gli elementi desumibili dalla bozza consentono di avviare l'analisi istruttoria per rilevare su quali servizi possa essere configurata la gestione liberalizzata o invece l'attribuzione di diritti di esclusiva. La definizione delle condizioni per la gestione unitaria va realizzata con l'adozione della delibera-quadro per tutti i servizi in gestione entro il 13.08.2012. Considerando che i Comuni con più di 10mila abitanti, prima di adottare l'atto, devono ottenere il parere dell'Agcm sull'istruttoria, e che l'authority deve renderlo entro 60 giorni dalla richiesta, è concreto il rischio di ingolfamento.
Lo schema di Dm contiene poi due norme contraddittorie: l'articolo 2, comma 5, evidenzia l'adozione della delibera-quadro come condizione necessaria solo per l'affidamento con gara o a società mista, mentre l'articolo 5, comma 3 la esplicita come necessaria anche per gli affidamenti (derogatori) in house. In questa prima fase potrebbero essere facilitati i Comuni con meno di 10mila abitanti, che non devono richiedere il parere all'Agcm.
Molti degli elementi essenziali per l'analisi sull'attribuzione dei diritti di esclusiva nei servizi a rete (ad esempio rifiuti e Tpl) potranno tuttavia essere definiti solo dopo gli ambiti e bacini territoriali, che le Regioni devono individuare entro il 30 giugno.
I Comuni che intendano proporre alle Regioni sub-ambiti più piccoli rispetto alla Provincia devono formalizzare una richiesta, supportata da un progetto associativo, entro il 31 maggio. In base a questo quadro, gli elementi di riferimento effettivo per molti servizi potrebbero essere disponibili solo alla fine di giugno, con un margine veramente esiguo per il perfezionamento dell'istruttoria e del parere presso l'Agcm, in rapporto alla prima scadenza del 13.06.2012.
Superata questa fase, gli enti locali devono confrontarsi con le nuove scadenze delle gestioni esistenti, che vede il primo punto critico nel 31 dicembre, data alla quale cessano gli affidamenti in house non coerenti con i parametri comunitari e comunque superiori a 200mila euro di valore annuo del servizio). Questo stesso termine vale per le amministrazioni che, aggregando gli attuali gestori di uno stesso servizio, vogliano dar vita a una società affidataria in house del servizio per tutto l'ambito territoriale, per un valore anche superiore al limite dato nel comma 13 e per un periodo massimo di tre anni (quindi sino al 31.12.2015).
La soluzione è proposta in un'ottica di rafforzamento degli operatori pubblici in vista di future gare di ambito. Per le società miste in cui il socio privato sia stato scelto con gara ma non a doppio oggetto la scadenza delle gestioni è posticipata al 31.03.2013, mentre rimangono invariati i termini entro cui le quotate devono cedere le azioni in mano pubblica tra la metà del 2013 e la fine del 2015.
---------------
Il calendario
Percorso per l'affidamento dei servizi pubblici locali con rilevanza economica
31 marzo 2012|GOVERNO - MINISTRO AFFARI REGIONALI
Adozione Dm definizione criteri delibera-quadro (diritti di esclusiva)
31 maggio 2012|COMUNI ASSOCIATI
Proposta a Regioni per possibile definizione sub-ambito
30 giugno 2012|REGIONI
Definizione ambiti / bacini territoriali ottimali
13 agosto 2012|ENTI LOCALI - ENTI AFFIDANTI I SPL
Approvazione delibera-quadro generale per attribuzione diritti esclusiva su gestione SPL
31 dicembre 2012|ENTI LOCALI SOCI
Costituzione di società unico gestore in house per ambito di SPL ex aggregazione precedenti gestori affidatari diretti (deroga)
31 dicembre 2012|SOCIETÀ / PREFETTO (per esercizio potere sostitutivo)
Rilevazione cessazione gestioni esistenti in base a affidamenti in house non conformi
---------------
Il regolamento. Punti controversi. Delibere obbligate per tutti gli enti.
LA CONTRADDIZIONE/ Da un lato si punta ad aggregare gli «ambiti» e dall'altro si prevedono atti amministrativi diversi da una pluralità di soggetti.

Il regolamento di attuazione dell'articolo 4, comma 33-ter, del Dl 138/2011 dovrà certo superare lo scoglio della sua pratica attuazione, ma sottovalutarne la portata sarebbe un grave errore perché rappresenta un repentino cambiamento di rotta rispetto a quanto ad oggi immaginato dal percorso di riforma.
I maggiori dubbi suscitati dal processo di liberalizzazione dei servizi, ad oggi, riguardano l'assenza di un numero adeguato di imprenditori competenti e che siano in condizione di investire quanto indispensabile in settori impegnativi sul piano degli investimenti.
In fondo fu il medesimo problema con cui si misurò la Thatcher, che prese atto dell'impossibilità di liberalizzare il settore del trasporto pubblico locale ed optò per la deregulation: in pratica, non riuscendo a trovare privati in grado di gestire il servizio, aprì le porte a chi volesse svolgerne anche solo piccole porzioni.
La scelta del regolamento va nella stessa direzione, mettendo perciò in discussione l'idea che i servizi vadano gestiti unitariamente. Se il disegno sarà confermato verrà meno, in sostanza, l'idea che per una «gestione integrata» sia indispensabile un gestore unico, la cui necessità non è più assunta come dato ma deve essere dimostrata attraverso una verifica di mercato.
Così facendo, però, si rimette in discussione il processo oggi in corso, che mira a una crescita dimensionale delle aziende, attraverso una riduzione del numero degli ambiti e incoraggiando le fusioni. Si rischia di interrompere un lavoro già in corso e che sta cominciando a produrre i suoi frutti.
Si noti, ancora, che a differenza di quanto previsto dai commi 1 e 2 dell'articolo 4, il regolamento (articolo 1, comma 2) estende l'obbligo di formulare la delibera quadro a tutti gli enti territoriali, cioè anche alle autorità amministrative che esercitano funzioni nei servizi pubblici locali. Scelta ribadita, del resto, con specifico riferimento al trasporto pubblico (articolo 3 del regolamento) e dei rifiuti (articolo 4).
Tutto ciò, peraltro, non è privo di rischi e di problemi. Non è chiaro, anzitutto, come si possa conciliare una scelta di «frazionamento del servizio» con il processo di ampliamento degli ambiti auspicato dalla legge: sarà la Regione, ai sensi dell'articolo 3-bis, comma 1, del Dl 138/2011, infatti, a definire gli ambiti con l'intento di conseguire «economie di scala e di differenziazione idonee a massimizzare l'efficienza del servizio»; se è così, ha senso che a decidere sull'eventuale suddivisione del servizio stesso in più fasi e sulle diverse condizioni di concorrenzialità di ciascuna di queste sia un soggetto diverso?
Infine, una perplessità di fondo: fino a oggi i nostri enti non hanno certo brillato in tema di capacità di regolazione. Oggi si prospetta di affidare loro un lavoro ancora più complesso, e cioè di confrontarsi con soggetti specializzati. Siamo sicuri che le nostre autorità d'ambito saranno in grado di governare con efficacia i rapporti con un numero probabilmente elevato di operatori, quando hanno dimostrato di non riuscire a controllarne uno solo? Il rischio è di rendere ancora più difficoltoso il compito di chi deve "dettare le regole", con risultati prevedibili (articolo Il Sole 24 Ore del 26.03.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI: Professionisti. Per fornire crediti utili nel sistema riformato le attività formative si devono concludere con una verifica.
Revisori, nuovi corsi con test. In arrivo la circolare dell'Interno con le modalità per iscriversi negli elenchi.

Potrebbe arrivare in settimana l'ultimo tassello per la nuova disciplina di nomina dei revisori dei conti negli enti locali. Il ministero dell'Interno sta lavorando alla circolare, annunciata nei giorni scorsi insieme alla pubblicazione in «Gazzetta Ufficiale» (si veda Il Sole 24 Ore del 21 marzo) del decreto 23/2012 attuativo della riforma.
La circolare fisserà le regole per le domande di iscrizione negli elenchi, che correranno solo online all'interno di un sistema telematico chiamato a guidare l'intero meccanismo di estrazione, chiarirà le procedure per individuare gli ambiti provinciali d'interesse all'interno della regione di residenza (in realtà il sistema dovrebbe permettere di "spuntare" le Province da escludere) e detterà le modalità operative per certificare e verificare il rispetto dei requisiti chiesti per l'iscrizione nei tre elenchi destinati alle diverse fasce demografiche di enti locali.
Tutto il meccanismo dovrebbe essere pronto prima dell'estate, e prima della pausa dovrebbe andare in «Gazzetta Ufficiale» anche l'avviso che offrirà un mese di tempo per presentare domanda di iscrizione all'elenco da parte degli attuali revisori, in modo che le nuove nomine possano partire puntuali a fine settembre, cioè alla nuova data fissata dal rinvio alla riforma contenuta nel Milleproroghe.
Il lavoro sulla certificazione e sulla verifica dei requisiti di curriculum, in realtà, sarà svolto a braccetto con gli ordini professionali, che oltre all'anzianità d'iscrizione già ora gestiscono i dati sui crediti formativi ottenuti dagli iscritti. Sul versante della formazione, il decreto pubblicato la settimana scorsa in «Gazzetta» divide in due la disciplina: in sede di prima applicazione, la normativa riferisce il requisito dei crediti formativi a quelli ottenuti nel 2009-2011, e le verifiche non fisseranno caratteristiche rigide né per gli enti erogatori né per le modalità di svolgimento del corso.
Diverso è il panorama per le nuove attività di formazione, perché per ottenere crediti spendibili come revisore occorrerà frequentare corsi i cui programmi siano stati condivisi in via preventiva con il Viminale, e che si concludano con un «test di verifica» (la forma del test non è predefinita dal decreto e può essere scelta dall'organizzatore). Un modo, questo, per evitare il diffondersi di un "mercato dei crediti" e, in prospettiva, per creare un orizzonte condiviso fra Viminale e ordini professionali sulla formazione (e quindi sul ruolo) dei revisori contabili di Comuni e Province.
Il periodo di prima applicazione prevede inoltre regole a sé anche per quel che riguarda l'istanza, perché per chi non ha mai svolto la funzione (e di conseguenza può debuttare negli enti fino a 5mila abitanti) è sufficiente aver fatto richiesta presso un Comune. Una volta a regime, il meccanismo delle verifiche sui requisiti non sarà comunque invasivo, perché sarà affidato in larga parte alla certificazione presso gli ordini professionali e potrà essere affiancato da controlli a campione.
In realtà sulla richiesta «retroattiva» di crediti fissata nel decreto un punto problematico andrebbe risolto, oltre all'esclusione di professionisti che, per varie ragioni, non hanno chiesto crediti che all'epoca non erano prescritti. L'articolo 5 del Dlgs 39/2010 chiede che i revisori iscritti al Registro prendano parte a programmi di aggiornamento professionale secondo le modalità stabilite con regolamento dell'Economia, sentita la Consob.
La norma prescrive anche che il regolamento definisca le modalità con cui la formazione continua può essere svolta presso società o enti dotati di un'adeguata struttura organizzativa e secondo programmi accreditati sempre da Economia e Consob. Il regolamento, però, non è ancora stato emanato, e non si vede quindi in che modo e con quali programmi «società o enti» possano essere stati accreditati.
---------------
Le regole
01|L'ISCRIZIONE
Per essere iscritti negli elenchi regionali dei revisori dei conti di Comuni e Province occorrerà fare domanda entro un mese dall'avviso che sarà pubblicato in «Gazzetta Ufficiale». La circolare fisserà la disciplina per l'invio telematico delle domande e per l'esclusione delle province non d'interesse del professionista
02|IL DEBUTTO
Per chi non ha mai fatto il revisore è ora sufficiente aver fatto domanda in un ente locale (articolo Il Sole 24 Ore del 26.03.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALITributi. Rischi di impugnazione. Regolamenti Imu fermi in attesa dei correttivi statali.
La mancata introduzione (finora) nel Dl sulle semplificazioni fiscali delle norme che avrebbero dovuto modificare la disciplina Imu sta mettendo in seria difficoltà i Comuni. Anche se il Milleproroghe ha rinviato i termini per i preventivi al 30 giugno, molti enti (anche quelli a fine mandato, nonostante i dubbi in materia; si veda Il Sole 24 Ore del 19 marzo) stanno predisponendo il bilancio 2012, al cui interno il posto di primo piano è occupato proprio dalle aliquote e dalla disciplina regolamentare dell'Imu.
La mancanza di norme certe su molte modalità applicative della nuova imposta e le difficoltà di valutare le conseguenze della quota erariale devono però indurre i Comuni alla cautela nella determinazione delle aliquote, e nell'adozione di agevolazioni o di modalità applicative dell'entrata (per esempio i rimborsi della quota di Imu versata allo Stato), che potrebbero determinare gravi perdite di gettito.In questo panorama, appare opportuno che i Comuni attendano quanto meno la conversione definitiva del Dl fiscale, per evitare di introdurre una disciplina che potrebbe risultare contrastante con le modifiche normative o con le interpretazioni ministeriali.
Il regolamento (articolo 52 del Dlgs 446/1997) deve infatti essere trasmesso al ministero delle Finanze, che può impugnarlo per vizi di legittimità davanti ai giudici amministrativi, con un rischio oggi amplificato proprio dalla quota erariale. Per queste ragioni è consigliabile approvare il regolamento Imu con un quadro normativo più stabile.
L'approvazione del regolamento, se necessario, potrà intervenire anche dopo l'approvazione di aliquote e bilancio (purché entro il 30.06.2012, a termini attuali), in quanto la previsione dell'articolo 52, comma 2, del Dlgs 446/1997 (secondo cui i regolamenti vanno approvati non oltre il termine di approvazione del bilancio di previsione e non hanno effetto prima del 1° gennaio dell'anno successivo) è stata successivamente integrata dalla legge 338/2000 (articolo 53, comma 16) e dalla legge 448/2001 (articolo 27, comma 8) in base ai quali i regolamenti sulle entrate hanno effetto dal 1° gennaio dell'anno di riferimento, anche se approvati successivamente all'inizio dell'esercizio, purché entro il termine del bilancio di previsione.
A fronte di tale disposizione, che non lega l'approvazione dei regolamenti al bilancio (al contrario di quanto deve succedere per aliquote e tariffe delle entrate, necessarie per predisporre la manovra economica), è evidente che i regolamenti possono essere approvati anche dopo il bilancio (ma entro la scadenza), e avranno comunque efficacia dal 1° gennaio.
Per quanto l'adozione del regolamento Imu sia necessaria per una corretta applicazione del tributo (che vede sparsa la propria disciplina primaria in diverse normative), si ritiene quindi opportuno che anche i Comuni che stanno per approvare i propri bilanci rimandino il via libera al regolamento Imu, per evitare l'adozione di atti che si pongano in contrasto con le modifiche normative che il legislatore potrebbe ancora introdurre o con le interpretazioni che si attendono dal ministero delle Finanze; in questo caso, infatti, i regolamenti sarebbero subito da modificare, o potrebbero addirittura essere impugnati in sede giurisdizionale.
---------------
Gli aspetti controversi
01 | LE SCADENZE
Bilanci e regolamenti tributari vanno approvati entro il 30 giugno.
I regolamenti possono essere approvati dopo i bilanci, purché entro la scadenza, e conservano valore retroattivo a partire dal 1° gennaio
02 | I CORRETTIVI
Nella conversione sul decreto fiscale sono possibili interventi importanti sui beni dei Comuni, sull'Imu in agricoltura e sui meccanismi che disciplinano la quota erariale del tributo (articolo Il Sole 24 Ore del 26.03.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

QUESITI & PARERI

PUBBLICO IMPIEGO: Funzionari Arpa.
Domanda.
Si chiede se i funzionari dell'Agenzia regionale per la protezione dell'ambiente (Arpa) possano esser qualificati o meno pubblici ufficiali.
Risposta.
La Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza 01.02.2011 n. 3634, dopo avere evidenziato che l'Agenzia regionale per la protezione dell'ambiente (Arpa) è un ente di diritto pubblico preposto all'esercizio delle funzioni e delle attività tecniche per la vigilanza ed il controllo ambientale, nonché all'erogazione di prestazioni analitiche di rilievo sia ambientale che sanitario, ha sottolineato che non si può sostenere che «il pubblico ufficiale preposto al controllo e alla vigilanza ambientale, che venga a conoscenza dell'esistenza di rifiuti interrati e partecipi alle operazioni di rimozione, non assuma una posizione di garanzia, in relazione alle sue condotte omissive», anche se «il decreto legislativo numero 152, del 2006, non prevede specificamente che si debba interessare della tipologia e dello smaltimento del rifiuto».
«Va rilevato», aggiungono i Supremi giudici, «che tra i compiti fondamentali posti in capo alle regioni (e alle province), secondo quanto previsto dal citato decreto legislativo, numero 152, del 2006, articolo 196, rientra la predisposizione dei piani regionali di gestione dei rifiuti, con esercizio, tra le altre, di funzioni attinenti al controllo periodico su tutte le attività di gestione, intermediazione e commercio dei rifiuti predetti, compreso l'accertamento delle violazioni delle disposizioni in materia».
«Orbene», aggiunge la Suprema corte, «per l'esercizio delle funzioni de quibus, le regioni e le province si avvalgono del supporto dell'Arpa, per cui, l'affermazione del giudice di merito, secondo la quale non sarebbe ravvisabile nella specie l'esistenza di una norma di copertura in grado di legittimare una contestazione ex articolo 40, capoverso, codice penale, nei confronti dell'imputato non risulta corretto».
Nella fattispecie, è spontaneo chiedersi se i funzionari dell'agenzia regionale per la protezione dell'ambiente (Arpa) debbano essere considerati quali pubblici ufficiali o quali ufficiali o agenti di polizia giudiziaria (articolo ItaliaOggi Sette del 26.03.2012).

VARI: Caparra confirmatoria.
Domanda.
Qual è la disciplina fiscale applicabile alla caparra confirmatoria versata per un contratto preliminare? È sempre soggetta a imposta di registro o se il fisco ritiene che è un anticipo sconta l'Iva?
Risposta.
La dazione di somme a titolo di caparra confirmatoria, convenuta in un contratto preliminare, comporta l'applicazione dell'imposta proporzionale di registro nella misura dello 0,50%, di cui all'art. 6 della tariffa parte prima allegata al dpr n. 131/1986. Tale imposta è dovuta anche nel caso di caparre solo «promesse».
La caparra confirmatoria è, invece, estranea al campo di applicazione dell'Iva non potendo, per definizione, essere considerata «corrispettivo» di una cessione di beni o di una prestazione di servizi ai fini dell'applicazione del suddetto tributo.
Qualora però, le parti attribuiscano espressamente a tali somme anche una «funzione» di anticipo sul prezzo dovuto per la stipula del definitivo, tali modalità redazionali delle clausole contrattuali possono comportare una tassazione delle somme secondo le disposizioni fiscali previste per gli acconti prezzo, con conseguente loro assoggettamento a Iva, come peraltro ritenuto dall'Agenzia delle entrate (articolo ItaliaOggi Sette del 26.03.2012).

APPALTI: Documento Unico Valutazione Rischi da Interferenze: quando redigerlo
Domanda
Non avendo previsto la redazione del DUVRI in sede di appalto, nel momento in cui dovessero evidenziarsi variazioni tali da comportare rischi da interferenza, occorre redigerlo?
Risposta
La redazione del DUVRI, il Documento Unico Valutazione Rischi da Interferenze, è un obbligo di legge introdotto dal D.Lgs. 09.04.2008, n. 81, che è successivamente stato modificato dal D.Lgs. 03.08.2009, n. 106; esso è un vero e proprio obbligo per le aziende che intendano affidare mansioni e parti del lavoro a ditte esterne, in appalto.
Il reale obiettivo di tale Documento è far prestare maggiore attenzione ai responsabili dei lavori nell'osservazione e nella valutazione di tutti quei rischi potenziali o reali che possono essere riscontrati sul luogo di lavoro. Il DUVRI si può considerare, dunque, una valutazione dei "rischi di interferenza" tra materiali e strumentazioni, il cui contatto potrebbe rivelarsi deleterio e pericoloso, da scrivere, mostrare, e tener sempre presente.
Il Documento deve essere allegato al contratto di appalto o di opera e va adeguato in funzione dell'evoluzione dei lavori, servizi e forniture; deve essere quindi tenuto conto di ogni cambiamento o mutamento della situazione di rischio, essendo evidente la necessità di aggiornare (nel caso in esame di stendere ex novo) costantemente il DUVRI, a seconda della reale situazione di fatto.
Si ricorda che sono esentati dalla stesura del modello DUVRI i servizi di natura intellettuale, le forniture di materiali o attrezzature di durata inferiore o uguale ai due giorni o meno, che non siano però in ambienti a rischio (23.03.2012 - tratto da www.ispoa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: È possibile correggere in un FIR la data di emissione, scrivendo nelle annotazioni “correzione effettuata prima della partenza”? (19.03.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: È possibile che in un FIR la data di emissione sia diversa da quella di inizio del trasporto? (19.03.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: È possibile in un FIR a destino correggere numero e tipo di imballaggio? (19.03.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: È possibile scrivere nelle annotazioni, come correzione effettuata a destino, il numero e data di omologa? (19.03.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: È possibile l’utilizzo di un singolo FIR per rifiuti confezionati diversamente? (19.03.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: È possibile correggere in un FIR, al momento della presa in carico, la tipologia di imballaggio? (19.03.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: È possibile correggere in un FIR il dato relativo al conducente del veicolo? (19.03.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: È possibile correggere nel FIR il dato relativo alla targa del veicolo? (19.03.2012 - link a www.ambientelegale.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOGGETTO: Comunicazione al controinteressato del ricorso in materia di accesso.
Con e-mail del 20 luglio scorso la Sig.ra ..., qualificandosi dipendente di ente locale, ha chiesto di conoscere se, a parere di questa Commissione:
1) vi siano casi in cui la comunicazione del ricorso in materia di accesso non va comunicato al controinteressato;
2) nel caso in cui il controinteressato –di fatto– non venga a conoscenza della comunicazione del ricorso il procedimento possa procedere o debba essere sospeso.
Al riguardo la Commissione ritiene:
1) che il ricorso in tema di accesso vada sempre comunicato al controinteressato, qualora a ciò non abbia già provveduto direttamente il ricorrente;
2) che una volta che l’Amministrazione abbia correttamente effettuato la comunicazione al controinteressato l’eventuale mancata presa di conoscenza del contenuto della comunicazione da parte di quest’ultimo sia allo stesso imputabile, e quindi non precluda la prosecuzione del procedimento
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 28.09.2010 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Comunicazione del nominativo di autori di denunce o esposti.
Con nota del 15.07.2010 n. 0022686 il Comando della Polizia Municipale del Comune di Porto Sant’Elpidio ha chiesto di conoscere se, a parere di questa Commissione, debba dare corso alle richieste, avanzate da persone che in sede di procedimenti ispettivi o sanzionatori (per lo più relativi a rapporti di lavoro dipendente) siano state oggetto di denunzie o di esposti, di conoscere il nominativo del denunziante o dell’esponente.
Al riguardo la Commissione fa presente che secondo un orientamento giurisprudenziale “le finalità che sostengono le disposizioni che precludono ai datori di lavoro l'accesso alla documentazione contenente le dichiarazioni rese in sede ispettiva dai rispettivi dipendenti -fondate su un particolare aspetto della riservatezza, quello cioè attinente all'esigenza di preservare l'identità dei dipendenti autori delle dichiarazioni allo scopo di sottrarli a potenziali azioni discriminatorie, pressioni indebite o ritorsioni da parte del datore di lavoro-, prevalgono a fronte dell'esigenza contrapposta di tutela della difesa dei propri interessi giuridici, essendo la realizzazione del diritto alla difesa garantita “comunque” dall'art. 24, comma 7, della legge n. 241 del 1990” (Sez. V, 07.12.2009 n. 7678 e 29.07.2008, n. 3798; Sez. VI, 10.04.2003, n. 1923; 03.05.2002, n. 2366, 26.01.1999, n. 59).
Secondo altro orientamento, invece, “nell'ordinamento delineato dalla L. n. 241/1990, ispirato ai principi della trasparenza, del diritto di difesa e della dialettica democratica, ogni soggetto deve, pertanto, poter conoscere con precisione i contenuti e gli autori di segnalazioni, esposti o denunce che, fondatamente o meno, possano costituire le basi per l'avvio di un procedimento ispettivo o sanzionatorio, non potendo la p.a. procedente opporre all'interessato esigenze di riservatezza. La tolleranza verso denunce segrete e/o anonime è un valore estraneo al nostro ordinamento giuridico.
Emblematico, in tal senso, è l'art. 111 Cost. che, nel sancire (come elemento essenziale del giusto processo) il diritto dell'accusato di interrogare o far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, inevitabilmente presuppone che l'accusato abbia anche il diritto di conoscere il nome dell'autore di tali dichiarazioni. Tale sfavore verso le denunce e le dichiarazioni anonime emerge poi, a più riprese, dal codice di procedura penale: si pensi, ad esempio, all'art. 240 C.p.p. in forza del quale i documenti che contengono dichiarazioni anonime non possono essere acquisti né in alcun modo utilizzati, salvo che costituiscano il corpo del reato o provengano comunque dall'imputato; all'art. 195, comma 7, C.p.p. che sancisce l'inutilizzabilità della testimonianza di chi si rifiuta o non è in grado di indicare la persona o la fonte da cui appreso la notizia dei fatti oggetto dell'esame; all'art. 203 C.p.p. che pure prevede l'inutilizzabilità delle informazioni rese dagli informatori alla polizia giudiziaria quando il nome di tali informatori non venga svelato
” (così TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 29.10.2008 n. 1469, sulla base dei precedenti di cui C.d.S. Sez. V, 27.05.2008 n. 2511; Sez. VI, 23.10.2007 n. 5569; Sez. VI, 25.06.2007 n. 3601; Sez. VI, 12.04.2007, n. 1699; Sez. V, 22.06.1998 n. 923; Ad. Plen. 04.02.1997 n. 5).
Entrambi gli orientamenti danno luogo a perplessità. Il primo orientamento perché in sostanza interpreta restrittivamente il disposto dell’art. 24, comma 7, relativo alla garanzia dell’accesso finalizzato alla “conoscenza necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici”, limitandolo alla cura e difesa in sede giurisdizionale, trascurando che la legge assicura una prima difesa in sede amministrativa dinanzi a questa Commissione; e su questa base nega al datore di lavoro l’accesso in sede amministrativa, per la considerazione che l’interessato potrà comunque ottenerlo in sede giurisdizionale. Ma in tal modo chi voglia ottenere l’accesso è costretto a seguire la costosa e più lunga via giurisdizionale. Ma anche il secondo orientamento dà luogo a dubbi: perché consentendo l’accesso in sede amministrativa espone effettivamente il lavoratore ad azioni ritorsive.
Ritiene pertanto la Commissione che una equa via di mezzo possa essere quella di ammettere l’accesso al contenuto degli esposti o delle denunzie solo qualora ricorrano le seguenti condizioni:
1) che il provvedimento, ispettivo o sanzionatorio, sia direttamente fondato sulle dichiarazioni acquisite da parte del denunziante o dell’esponente e non sugli accertamenti obiettivi che, sia pure a seguito delle denunce e delle dichiarazioni ricevute, l’Amministrazione ha poi autonomamente effettuato; e cioè soltanto nei casi in cui la denuncia o la dichiarazione abbia costituito la diretta ed essenziale causa giustificatrice del provvedimento lesivo e non semplicemente l’occasione per attivare i poteri d’ufficio dell’Amministrazione (cfr. C.d.S., Sez. VI, n. 5199/2009, in Commissione per l’accesso, Giurisprudenza 2009, pag. 270);
2) che il documento al quale è stato chiesto di accedere, non consenta, con gli opportuni omissis, di desumerne l’autore;
3) che, ove non sia possibile oscurare l’identità dell’autore, l’accesso possa essere concesso soltanto nel caso in cui l’interessato possa dare specifica prova, che la mancata conoscenza del nominativo di detto autore gli precluderebbe la cura o difesa dei suoi interessi giuridici in giudizio
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 28.09.2010 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOGGETTO: Comunicazione elenco incarichi conferiti a legali esterni.
Con nota del 12.08.2010 n. 0025447 il Servizio Legale del Comune di Porto Sant’Elpidio ha chiesto di conoscere se, a parere di questa Commissione, debba dare corso alla richiesta, avanzata da una persona per asseriti motivi di studio, di ottenere l’elenco degli incarichi conferiti dal Comune a legali esterni nel periodo 1999-2009, con precisazione delle parti, degli avvocati e dell’oggetto delle cause. Al riguardo il Servizio Legale fa presente che un elenco del genere non esiste agli atti del Comune e quindi dovrebbe essere compilato appositamente.
Osserva la Commissione che, ai sensi dell’art. 2 del d.P.R. n. 184/2006 l’accesso è consentito soltanto a documenti amministrativi “materialmente esistenti al momento della richiesta”, dal momento che la pubblica amministrazione “non è tenuta ad elaborare dati in suo possesso al fine di soddisfare le richieste d’accesso”.
Si ritiene pertanto che la richiesta d’accesso in esame debba essere respinta
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 28.09.2010 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOGGETTO: Richiesta di accesso agli atti – Consiglieri comunali di minoranza.
Il Ministero dell’Interno chiede a questa Commissione il parere circa le difficoltà, rappresentate dalla Prefettura di Rieti, di alcuni consiglieri di minoranza di un Comune della Provincia ad esercitare il diritto di accesso agli atti e ai documenti dell’ente, ai sensi dell’art. 43, comma 2, TUEL.. In particolare, l’Amministrazione esprime dubbi sulla previsione regolamentare dell’ente che riconosce l’esenzione dall’imposta di bollo, dai diritti di segreteria e dai costi di riproduzione solo per le copie “richieste per l’esercizio del mandato di consigliere…necessarie ed indispensabili per la discussione di argomenti posti all’ordine del giorno di sedute del Consiglio comunale e delle Commissioni”, mentre sottopone a costi tutti gli altri atti.
In proposito il Ministero dell’Interno ricorda che con due circolari (n. 23/1993 e n. 24/1999), recependo il parere del Ministero delle finanze, aveva affermato l’esenzione dal bollo dell’accesso dei consiglieri comunali in funzione del loro mandato elettivo.
La limitazione dell’esenzione dell’imposta di bollo dei diritti di segreteria e dei costi di riproduzione alle richieste dei consiglieri comunali in questione è illegittima.
Il “diritto di accesso” ed il “diritto di informazione” dei consiglieri comunali nei confronti della P.A. trovano la loro disciplina specifica nell’art. 43 del d.lgs. n. 267/2000 (TU degli Enti locali) che riconosce ai consiglieri comunali e provinciali il “diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato”.
Dal contenuto della citata norma si evince il riconoscimento in capo al consigliere comunale di un diritto dai confini più ampi sia del diritto di accesso ai documenti amministrativi attribuito al cittadino nei confronti del Comune di residenza (art. 10, T.U. enti locali) sia, più in generale, nei confronti della P.A. quale disciplinato dalla legge n. 241/1990. Tale maggiore ampiezza di legittimazione è riconosciuta in ragione del particolare munus espletato dal consigliere comunale, affinché questi possa valutare con piena cognizione di causa la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, onde poter esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della P.A., opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata (a maggior ragione, per ovvie  considerazioni, qualora il consigliere comunale appartenga alla minoranza, istituzionalmente deputata allo svolgimento di compiti di controllo e verifica dell’operato della maggioranza). A tal proposito, il Giudice amministrativo individua la situazione giuridica in capo ai consiglieri comunali con l’espressione “diritto soggettivo pubblico funzionalizzato”, vale a dire un diritto che “implica l’esercizio di facoltà finalizzate al pieno ed effettivo svolgimento delle funzioni assegnate direttamente al consiglio comunale”.
A tal fine il consigliere comunale non deve motivare la propria richiesta di informazioni, poiché, diversamente opinando, la P.A. si ergerebbe ad arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell’organo deputato all’individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi. Conseguentemente, gli Uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un Consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato.
Anche per quanto riguarda le modalità di accesso alle informazioni e alla documentazione richieste dal consigliere comunale, costituisce principio giurisprudenziale consolidato (cfr., fra le molte, C.d.S., Sez. V, 22.05.2007 n. 929) quello secondo cui il diritto di accesso agli atti di un consigliere comunale non può subire compressioni per pretese esigenze di natura burocratica dell’Ente, tali da ostacolare l’esercizio del suo mandato istituzionale, con l’unico limite di poter esaudire la richiesta (qualora essa sia di una certa gravosità) secondo i tempi necessari per non determinare interruzione alle altre attività di tipo corrente e ciò in ragione del fatto che il consigliere comunale non può abusare del diritto all’informazione riconosciutogli dall’ordinamento pregiudicando la corretta funzionalità amministrativa dell’ente civico con richieste non contenute entro i limiti della proporzionalità e della ragionevolezza.
Proprio al fine di evitare che le continue richieste di accesso si trasformino in un aggravio della ordinaria attività amministrativa dell’ente locale, la Commissione per l’accesso ha riconosciuto la possibilità per il consigliere comunale di avere accesso diretto al sistema informatico interno (anche contabile) dell’ente attraverso l’uso della password di servizio (fra gli ultimi, cfr. parere del 29.11.2009).
Contrasta con i richiamati principi ogni regola organizzativa che impedisca o comprima il diritto di accesso dei consiglieri comunali, compresa, a maggior ragione, quella che vorrebbe subordinare il rilascio di atti e documenti al pagamento dei costi di riproduzione e di bollo come nella specie.
Per quanto riguarda, in particolare, l’imposta di bollo si ricorda che il Ministero delle finanze, con risoluzione n. 151/E del 05.10.2001, ha esentato dall’imposta di bollo chiunque faccia istanza di accesso e a maggior ragione tale risoluzione deve trovare applicazione per i consiglieri comunali
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 28.09.2010 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOGGETTO: Richiesta di parere concernente il diritto di accesso dei consiglieri comunali di minoranza.
Due consiglieri del Comune di Baselice chiedono parere in ordine al Regolamento Comunale per il diritto di accesso agli atti, approvato con delibera n. 16 del 28.4.2010, ritenendo che alcune parti della disciplina avrebbero leso le prerogative in materia di accesso stabilite per i consiglieri comunali.
In particolare, il regolamento prevede che:
1) la domanda di accesso dovrà essere “sottoposta al Dirigente dell’Ufficio o, in mancanza, al Sindaco, il quale deciderà sulla singola istanza/richiesta entro il termine di giorni 10 decorrenti dalla data dell’istanza”;
2) il dirigente o il Sindaco possano ritardare l’accesso agli atti, subordinandolo ad un primo termine di 10 gg. solo per pronunciarsi sull’istanza ed a un successivo termine non precisato per il rilascio della documentazione;
3) l’accesso dei consiglieri è vietato “a dati normalmente non accessibili al pubblico, motivato da interessi di tipo personale o professionale”;
Preliminarmente, la Commissione rileva che il regolamento Comunale non risulta a suo tempo trasmesso a questa Commissione, in contrasto con quanto stabilito dal d.P.R. 12.04.2006 n. 184, art. 11, comma 3. Si segnala pertanto l’esigenza che a ciò venga provveduto.
Quanto poi alle segnalazioni degli istanti si fa presente che:
- sub 1) la richiesta di accesso va indirizzata normalmente al dirigente o al responsabile o addetto dell’ufficio competente ad autorizzare in via generale l’accesso e non al Sindaco, con la conseguenza che la norma in questione non appare conforme all’art. 6, comma 6, d.P.R. n. 184/2006.
Tuttavia, una volta ristretta nei predetti limiti soggettivi, la previsione di un “filtro” sull’istanza di accesso attribuito alla competenza del responsabile dell’ufficio non è di per sé solo lesivo delle prerogative del consigliere comunale, dovendosi valutare volta per volta se il sindacato operato sia illegittimo. Invero, se, da un lato, l’ente non ha il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un Consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato, altrimenti si ergerebbe ad arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche; tuttavia, dall’altro, le richieste dei consiglieri non possono avere carattere emulativo ed aggravare eccessivamente, superando i limiti della proporzionalità e della ragionevolezza, la corretta funzionalità dell'amministrazione comunale (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.09.2005, n. 4471);
- sub 2) la fissazione di specifici termini per provvedere sulla richiesta di accesso e la mancanza di termini per il rilascio dei documenti, potrebbe determinare, in alcuni casi, la concreta soppressione delle prerogative del consigliere, soprattutto quando il Comune, in caso di procedimenti in corso o urgenti o che richiedano l’espletamento delle funzioni politiche entro un termine inferiore a quello previsto, non consenta l’accesso agli atti in tempi utili al consigliere per prendere conoscenza delle fonti di informazione ritenute necessarie.
Onde scongiurare tali prospettive, appare opportuna l’integrazione del regolamento, con l’aggiunta di una “clausola di salvaguardia” che imponga alla p.a. di garantire l’accesso nell’immediatezza e, comunque, nei tempi più celeri e ragionevoli possibili da valutare caso per caso in funzione delle diverse esigenze del mandato (ad es. consentendo al consigliere nei casi di urgente necessità o gravosità della richiesta di prendere subito visione degli atti, anche con mezzi informatici, dilazionando nel tempo il rilascio delle copie);
- sub c) la limitazione dell’accesso del consigliere comunale ad atti c.d. riservati o segreti, nella formulazione della norma regolamentare, non appare conforme all’art. 43, co. 2, del TUEL che non prevede alcuna limitazione all’accesso da parte dei consiglieri. A questi ultimi, infatti, non possono essere opposte alla richiesta del consigliere esigenze di tutela della riservatezza dei terzi, essendo i consiglieri comunali tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge ex art. 43, co. 2, d.lgs. n. 267/2000 (cfr Consiglio di Stato n. 5879/2005; C.d.S., Sez. V, 04.05.2004 n. 2716; TAR Sardegna, Sez. II, 30.11.2004 n. 1782).
Per la restante parte, inerente l’accesso per motivi personali o professionali, seppur al consigliere comunale e provinciale di norma non può essere opposto alcun diniego, sono comunque fatti salvi i casi in cui l’accesso sia piegato dal consigliere ad esigenze meramente personali o al perseguimento di finalità emulative
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 28.09.2010 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOGGETTO: Equiparazione di una istanza, prodotta da dipendenti della polizia municipale, a “documento amministrativo” ai sensi della legge n. 241/1990.
Una ex dirigente della Polizia Municipale -riammessa in servizio dopo un annoso contenzioso giudiziario- dopo essere venuta a conoscenza dalla stampa locale che con nota del 27.05.2010 prot. n. 9545 alcuni colleghi (n. 13) avevano presentato un esposto che la riguardava, relativamente alla possibile alterazione che il suo ritorno al lavoro avrebbe ingenerato sulla serenità dell’ambiente lavorativo, e ritenendo tale esposto “…lesivo della propria immagine pubblica e della propria professionalità e in quanto tale da utilizzare per finalità processuali” ha presentato istanza di accesso al predetto esposto.
A seguito del rigetto dell’istanza, motivata dal fatto che “la nota in oggetto non rientra nella nozione di documento amministrativo”, l’ente civico chiede sulla questione il parere di questa Commissione.
Al riguardo, si osserva che la nota in questione costituisce indubbiamente un documento amministrativo e non rientra tra le categorie per le quali è vietato l’accesso; come tale è ostensibile ai sensi dell’art. 22, co. 1, lett. d), della legge n. 241/1990 che annovera tra i documenti accessibili anche gli atti interni o non relativi ad uno specifico procedimento
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 28.09.2010 - link a www.commissioneaccesso.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVIOGGETTO: Accesso alla documentazione amministrativa relativa al rilascio di una informazione antimafia.
Con nota del 18.08.2010 la Prefettura di Udine ha comunicato che una ditta appaltatrice, avendo appreso, da un certificato antimafia che le era stato rilasciato, che in fase istruttoria era stato acquisito un rapporto della DIA, ha presentato domanda di accesso a tale rapporto. Ciò premesso l’Amministrazione ha chiesto se, a parere di questa Commissione, sia opportuno concedere tale accesso.
Al riguardo si fa presente che l’art. 3 del D.M. 10.06.1994 n. 415, come integrato dal D.M. 17.11.1996 n. 508, nelle categorie dei “documenti inaccessibili per motivi di ordine e sicurezza pubblica ovvero ai fini di prevenzione e repressione della criminalità” comprende, al punto b), le “relazioni di servizio ed altri atti o documenti presupposto per…. adempimenti istruttori relativi a licenze, concessioni od autorizzazioni comunque denominate ….che contengono notizie relative a situazioni di interesse per l’ordine e la sicurezza pubblica e all’attività di prevenzione e repressione della criminalità salvo che, per disposizioni di legge o di regolamento, ne siano previste particolari forme di pubblicità o debbano essere uniti a provvedimenti o atti soggetti a pubblicità”.
Ora è indubbio che il rapporto in questione sia un adempimento istruttorio che contiene notizie relative a situazioni di interesse per l’ordine e la sicurezza pubblica e all’attività di prevenzione e repressione della criminalità; e che quindi sia sottratto all’accesso ai sensi della citata disposizione regolamentare.
Né a diversa conclusione può indurre l’art. 7, comma 2, del regolamento di cui al dPR 12.04.2006 n. 184, che prevede che l’accoglimento della domanda d’accesso “comporta anche la facoltà di accesso agli altri documenti nello stesso richiamati e appartenenti al medesimo procedimento, fatte salve le eccezioni di legge o di regolamento”. Infatti nel caso in esame ricorre appunto l’eccezione prevista dal citato art. 3 del D.M. n. 415/1994, dal momento che nessuna norma prevede che il rapporto della DIA sia soggetto a particolari forme di pubblicità o debba essere unito all’autorizzazione antimafia.
Si esprime pertanto il parere che domanda d’accesso non debba essere accolta
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 14.09.2010 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOOGGETTO: Istanza di accesso a schede di valutazione di una procedura concorsuale.
Con fax del 19.06.2010 la Città di Caserta, Polizia Municipale, Area Comando ha comunicato:
1) che il dipendente ..., che aveva partecipato ad una procedura concorsuale per il passaggio dalla posizione C4 a C5, ha chiesto copia delle schede di valutazione di tutti i concorrenti interessati a detto passaggio, al fine di accertare l’equità e l’uniformità dei giudizi e delle valutazioni;
2) che la domanda d’accesso è stata respinta perché ritenuta preordinata ad un controllo generalizzato dell’attività dell’Amministrazione.
Sulla questione viene chiesto il parere di questa Commissione.
Al riguardo si fa presente che chi ha partecipato ad una selezione di tipo concorsuale ha l’evidente interesse di poter poi controllare se, ai suoi danni, siano stati commessi errori o parzialità. Pertanto il Sig. ... ha indubbiamente diritto, ai sensi dell’articolo 24, comma 7, della legge n. 241/1990, di accedere alle schede di valutazione richieste, limitatamente però a quelle dei concorrenti che l’abbiano preceduto nella graduatoria, dal momento che negli altri casi l’esistenza di eventuali errori o parzialità non potrebbe causargli alcun danno, con conseguente carenza di interesse all’accesso
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 14.09.2010 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Diritto di accesso dei consiglieri comunali. Modifiche al Regolamento del Comune di Pacentro (AQ). Richiesta parere.
Il Sig. ..., consigliere di minoranza del Comune di Pacentro (AQ), chiede parere in ordine alle modifiche e integrazioni apportate dal Consiglio comunale con deliberazione numero n. 20 del 09.08.2008 al Regolamento approvato con deliberazione n. 35 del 24.06.2002, con le quali è stato stabilito, in particolare (art. 4, comma 7), che i consiglieri possono prendere visione di tutti gli atti per un’ora e per due giorni settimanali e che qualora le richieste dei Consiglieri riguardano documentazioni particolarmente corpose, complessa o generiche il diritto può essere limitato (art. 4, comma 10). Il Sig. ... chiede anche quale sono, nel caso in cui la Commissione riscontrasse delle irregolarità nelle modifiche e integrazioni introdotte, i rimedi utilizzabili per rimuoverle.
Costituisce giurisprudenza consolidata di questa Commissione in adesione dell’orientamento espresso dal giudice amministrativo (cfr., parere 3 febbraio 2009) quello secondo il quale il “diritto di accesso” ed il “diritto di informazione” dei consiglieri comunali nei confronti della P.A. –che trovano la loro disciplina specifica nell’art. 43 del d.lgs. n. 267/2000 (T.U. degli Enti locali) che riconosce ai consiglieri comunali e provinciali il “diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato”– ha un contenuto più ampio rispetto sia al diritto di accesso ai documenti amministrativi attribuito al cittadino nei confronti del Comune di residenza (art. 10, T.U. Enti locali) sia, più in generale, nei confronti della P.A. quale disciplinato dalla legge n. 241/1990.
Tale maggiore ampiezza di legittimazione è riconosciuta in ragione del particolare munus espletato dal consigliere comunale, affinché questi possa valutare con piena cognizione di causa la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, onde poter esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della P.A., opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata (a maggior ragione, per ovvie considerazioni, qualora il consigliere comunale appartenga alla minoranza, istituzionalmente deputata allo svolgimento di compiti di controllo e verifica dell’operato della maggioranza).
A tal fine il consigliere comunale non deve motivare la propria richiesta di informazioni, poiché, diversamente opinando, la P.A. si ergerebbe ad arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell’organo deputato all’individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi. Conseguentemente, gli Uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un Consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato.
Anche per quanto riguarda le modalità di accesso alle informazioni e alla documentazione richieste dal consigliere comunale, costituisce principio giurisprudenziale consolidato (cfr., fra le molte, C.d.S., Sez. V, 22.05.2007 n. 929) quello secondo cui il diritto di accesso agli atti di un consigliere comunale non può subire compressioni per pretese esigenze di natura burocratica dell’Ente, tali da ostacolare l’esercizio del suo mandato istituzionale, con l’unico limite di poter esaudire la richiesta (qualora essa sia di una certa gravosità) secondo i tempi necessari per non determinare interruzione alle altre attività di tipo corrente e ciò in ragione del fatto che il consigliere comunale non può abusare del diritto all’informazione riconosciutogli dall’ordinamento pregiudicando la corretta funzionalità amministrativa dell’ente civico con richieste non contenute entro i limiti della proporzionalità e della ragionevolezza.
Il ricorso a supporti magnetici o l’accesso diretto al sistema informatico interno dell’Ente, ove operante, sono strumenti di accesso certamente consentiti al consigliere comunale che favorirebbero la tempestiva acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare l’ordinaria attività amministrativa.
Nel caso che ne occupa, più che le nuove modalità di accesso dei consiglieri comunali di cui all’art. 4, comma 7, che non sembrano contenere irregolarità atteso che sono ispirate dall’esigenza di evitare ritardi e disservizi nell’ordinaria attività amministrativa, è la modifica introdotta dal comma 10 dello stesso articolo che illegittimamente comprime il diritto di accesso dei consiglieri limitandolo ad libitum nel caso in cui le richieste riguardino documentazioni particolarmente corpose e complesse (non quelle generiche che, come tali, possono essere disattese).
Il rimedio per rimuovere la predetta illegittimità è solo il ricorso al TAR Abruzzo (avverso il diniego opposto dall’amministrazione ad una richiesta specifica, atteso che il termine per ricorrere direttamente avverso il Regolamento è maturato), ricorso che, del resto, era stato già preannunciato, in sede di discussione consiliare, qualora la proposta di modifica del Regolamento fosse stata approvata nei termini contestati (cfr. delibera n. 20/2008)
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 14.09.2010 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOGGETTO: Richiesta parere sulla verifica della legittimazione a richiedere l’accesso a documenti amministrativi da parte di un Comitato di cittadini.
Con e-mail dell'01.07.2010 l’amministrazione del Comune di San Giorgio del Sannio ha chiesto di conoscere se l’ente civico debba verificare, prima di concedere l’accesso ai documenti richiesti, la legittimazione del richiedente, qualificatosi coordinatore di un comitato di cittadini.
Al riguardo, l’art. 6, co. 1, del d.P.R. n 184/2006 dispone, tra l’altro, che “qualora… … sorgano dubbi sulla legittimazione del richiedente, sulla sua identità, sui suoi poteri rappresentativi …..l’amministrazione invita l’interessato a presentare richiesta d’accesso formale…” e l’art. 5, co. 2, stesso decreto precisa d’altra parte che “il richiedente deve… dimostrare…, ove occorra, i propri poteri di rappresentanza del soggetto interessato”.
Alla stregua delle citate disposizioni, la Commissione è del parere che, ove sorgano dubbi sulla legittimazione dell’istante –come pare nella specie, difettando la prova documentale della titolarità della carica in capo all’istante– l’amministrazione debba invitare l’interessato a regolarizzare l’istanza
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 14.09.2010 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOGGETTO: Accesso di consigliere comunale al protocollo informatico del Comune.
L’ente civico istante ha negato ad un consigliere comunale l’accesso al protocollo informatico, manifestando dubbi sulla legittimità della pretesa del consigliere di accedere al protocollo “direttamente dal monitor del computer in dotazione ai dipendenti”.
Questa Commissione ha già affrontato in altra occasione (seduta del 23.2.2010) proprio la questione inerente l’accesso diretto del consigliere comunale al sistema informatico del Comune istante, esprimendosi positivamente per le argomentazioni che di seguito si riportano per quanto interessa.
In particolare, quanto alle modalità di accesso alle informazioni e alla documentazione richieste dal consigliere comunale, costituisce principio giurisprudenziale consolidato (cfr., fra le molte, C.d.S., Sez. V, 22.05.2007 n. 929) quello secondo cui il diritto di accesso agli atti di un consigliere comunale non può subire compressioni per pretese esigenze di natura burocratica dell’Ente, tali da ostacolare l’esercizio del suo mandato istituzionale, con l’unico limite di poter esaudire la richiesta (qualora essa sia di una certa gravosità) secondo i tempi necessari per non determinare interruzione alle altre attività di tipo corrente e ciò in ragione del fatto che il consigliere comunale non può abusare del diritto all’informazione riconosciutogli dall’ordinamento pregiudicando la corretta funzionalità amministrativa dell’ente civico con richieste non contenute entro i limiti della proporzionalità e della ragionevolezza.
Tale essendo il consolidato orientamento del giudice amministrativo e di questa Commissione, le motivazioni del diniego opposto alla consultazione diretta del protocollo tramite monitor in dotazione al personale non sono condivisibili né in punto di gravosità per l’ufficio (in quanto è ben possibile senza un eccessivo dispendio mettere a disposizione un monitor dedicato alle esigenze dei consiglieri, senza che questi ultimi interferiscano con le attività in corso, aggravando il carico dei dipendenti) né in punto di proporzionalità e/o ragionevolezza (in quanto il consigliere comunale ha chiesto di consultare direttamente il protocollo limitatamente alle ore pomeridiane negli orari di apertura degli uffici), dovendo invece l’amministrazione in modo responsabile compiere ogni sforzo diligente e tecnico per assicurare al consigliere l’esercizio del diritto di accesso.
Alla luce dei soprarichiamati principi si ritiene illegittimo il diniego opposto dall’ente alla consultazione diretta del protocollo da parte del consigliere
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 14.09.2010 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOGGETTO: Richiesta di esonero dal pagamento del costo di riproduzione ex art. 25 legge n. 241/1990.
L’azienda istante chiede se il rilascio di documenti, richiesti dal personale dipendente ad “uso tentativo di conciliazione e/o giudiziale”, sia esente dal pagamento del costo di riproduzione in virtù dell’esonero previsto dall’art. 10 della legge n. 533/1973 e se i costi di spedizione della documentazione al domicilio del richiedente siano a carico dell’amministrazione.
Quanto al primo quesito, la Commissione osserva preliminarmente che la fattispecie, pur inerendo all’ambito di applicazione di un’esenzione tributaria o fiscale, interferisce con il rimborso dei costi di riproduzione ex art. 25 legge n. 241/1990 e, come tale, rientra tra le materie di competenza di questa Commissione.
Ciò posto, si rileva che l’art. 10 della Legge n. 533 del 1973 –rubricato “gratuità del giudizio”– al primo comma dichiara esenti dall’imposta di bollo, di registro e da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura, tra gli altri, gli atti relativi alle “controversie individuali di lavoro” (nonché a quelle concernenti il pubblico impiego e le controversie di previdenza ed assistenza) ed “ai provvedimenti di conciliazione dinanzi agli uffici del lavoro e della massima occupazione o previsti da contratti o accordi collettivi di lavoro”.
La regola della gratuità degli atti inerenti alle controversie di lavoro pubblico e privato, desumibile dall’ampia formulazione del citato articolo, tuttavia incontra il limite specifico nell’onere di rimborso del costo di riproduzione dei documenti richiesti ex art. 25 della legge n. 241/1990.
Ed infatti, alla stregua della rubrica dell’art. 10 legge n. 533/1973 (gratuità giudizio) nonché dell’interpretazione letterale di tale disposizione (atti relativi a controversie e a provvedimenti di conciliazione), l’esenzione è riferibile alle spese, di qualsiasi specie, ricollegabili alla fruizione del servizio giustizia e dunque a quelle occorrenti per il compimento di atti giudiziali (es. notifiche) ovvero di atti pregiudiziali (avvio della conciliazione) strutturalmente e necessariamente finalizzati alla tutela giurisdizionale dei crediti di lavoro, ma non anche a procedimenti di diversa natura e finalità, come nella specie, quello di accesso a documenti amministrativi, essendo meramente occasionale l’uso dei documenti richiesti per fini conciliativi o giudiziali (fatti salvi, in caso di necessità, i poteri acquisitivi in sede giudiziale o conciliativa).
Non pare, poi, che la disposizione dell’art. 10 della legge n. 533/1973 sia suscettibile di interpretazione analogica ad atti non giudiziari (o non pregiudiziali), essendo vietata dal carattere eccezionale delle norme di esenzione (ex art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile).
Pertanto, trattandosi di documenti non legati da un nesso strutturale necessario con la controversia di lavoro ovvero con la conciliazione, la Commissione è del parere che per i costi di riproduzione degli atti oggetto dell’accesso non operi l’esenzione sancita in generale per l’esercizio dei diritti dei lavoratori dall’art. 41 della legge n. 300/1970 e in particolare nell’ambito del processo del lavoro, dall’art. 10 della legge n. 533/1973.
Quanto al secondo quesito prospettato, oltre alle considerazioni già svolte sopra con riguardo all’inapplicabilità dell’esenzione, si ribadisce che per costo –secondo la giurisprudenza amministrativa (cfr. C.d.S., Sez. V, 25.10.1999, n. 1709), alla quale si è allineata anche quella di questa Commissione (cfr. parere 01.07.2008)– non deve intendersi solo quello di riproduzione del documento, ma anche tutti gli altri sostenuti dall’amministrazione (quali, per esempio, quelli concernenti la ricerca dei documenti e/o l’istruzione della pratica).
Ne consegue che l’eventuale richiesta di rimborso, oltre che dei costi di fotoriproduzione, anche delle spese sostenute per l’invio della documentazione al domicilio del richiedente l’accesso deve considerarsi legittima, non essendo tale richiesta limitativa del diritto di accesso, né tanto meno illogica ed irragionevole
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 14.09.2010 - link a www.commissioneaccesso.it).

GIURISPRUDENZA

VARISe l'arroganza diventa reato.
LE INDICAZIONI/ Il classico «lei non sa chi sono io» assume rilevanza anche penale. Se la cava invece chi «minaccia» i gatti.

«Lei non sa chi sono io» è solo una frase fuori moda e un po' patetica ma unita a un «te la farò pagare» diventa un reato. Almeno se la facenda finisce davanti a un giudice.
L'espressione, spiega la Corte di Cassazione, V Sez. penale, con la sentenza 27.03.2012 n. 11621, va letta in "combinato disposto" con la promessa di una vendetta che può essere percepita dall'ascoltatore più plausibile, proprio perché chi la pronuncia lascia intendere di essere in una posizione in cui può nuocere.
Secondo la Corte prima di escludere la valenza minatoria, come aveva fatto il giudice di pace, va valutato anche il contesto in cui l'espressione viene pronunciata. La capacità di intimidire è quindi direttamente proporzionale anche «all'alta tensione verbale».
Con la pronuncia depositata ieri la Cassazione torna per la seconda volta a sottolineare l'inopportunità di ricorrere a un modo di dire che è indice di arroganza e maleducazione e spesso, anche di fantasia. La prima volta lo ha fatto nel 2006 (sentenza n. 138) confermando una sanzione disciplinare a carico di un avvocato. Il legale non aveva gradito che una dipendente dell'ordine degli avvocati, intenta a fare fotocopie, avesse dimenticato di accoglierlo come meritava.
Attenzioni che aveva "garbatamente" richiesto dicendo alla signora: «Si deve mettere da parte e darmi la precedenza. Lei non sa chi sono io? Qui è diventato un mercato, una volta si diceva, prego avvocato si accomodi». Nella condanna gli ermellini avevano considerato anche che l'avvocato, nel suo sproloquio, non aveva usato il titolo di dottoressa. Non sapeva chi era la signora che faceva le fotocopie.
La passa invece liscia chi, per colpire gli umani, tenta la vendetta "trasversale" e minaccia il gatto. Non c'è da meravigliarsi. Capita. E certamente non piacerà agli amanti dei felini la sentenza 11646, con cui ieri la Suprema corte ha liquidato come "spacconeria" o "fanfaronata" la frase «Ti avveleno tutti i gatti, non te ne faccio ritrovare neanche uno».
Avvertimento che non può in alcun modo rappresentare la «condotta idonea a limitare la libertà morale del destinatario», senza la quale non c'è minaccia (articolo Il Sole 24 Ore del 28.03.2012).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAIl preavviso di rigetto ex art. 10-bis legge n. 241/1990 è previsto solo per i procedimenti avviati ad istanza di parte e, quindi, non si applica al procedimento della Soprintendenza di annullamento dell'autorizzazione paesaggista rilasciata dal Comune.
Il preavviso di provvedimento negativo di cui all’art. 10-bis l. n. 241 del 1990 non si applica a questo procedimento, che è volto all’annullamento, in tempi stretti e perentori, dell’autorizzazione paesaggistica (o, in questo specifico caso, del parere sull’istanza di sanatoria) sub specie di riesame di quell’atto da parte dell’Autorità statale, e che si configura come una fase di riscontro della già ritenuta possibilità giuridica di mutare lo stato dei luoghi (Cons. Stato, Ad. plen. 14.12.2001, n. 9; VI, 27.08.2010, n. 5980).
Il preavviso di diniego –che è finalizzato ad aprire una fase, anche non breve, di confronto endoprocedimentale- è di suo incompatibile con la stretta tempistica del vaglio delle condizioni di legittimità di un atto legittimante già rilasciato e produttivo di taluni effetti. Si tratta di uno strumento partecipativo che la legge prevede solo “nei procedimenti ad istanza di parte” e che non trova applicazione per questa sequenza di secondo grado, che è avviata d’ufficio e che, pur configurando un secondo tratto di un'unica vicenda amministrativa di cogestione del vincolo, segue la cesura procedimentale del già avvenuto rilascio del provvedimento di base che conclude la fase ad istanza di parte (la fase soprintendentizia concreta una sequenza officiosa, avviata con la trasmissione degli atti da parte del Comune).
Quanto ai contenuti e alla funzione pratica, si deve poi considerare che, data la struttura e l’ambito di vaglio consentito all’amministrazione statale, siffatto preavviso non potrebbe consistere in un’autonoma comunicazione dei “motivi che ostano all’accoglimento della domanda”, ma diverrebbe senz’altro la comunicazione delle motivazioni in diritto per le quali l’autorità statale ritiene che quella locale abbia agito illegittimamente.
Dunque, senza avere un’utilità particolare ai fini della miglior cura dell’interesse pubblico, coinciderebbe di fatto con i contenuti propri dell’annullamento stesso, che anticiperebbe improduttivamente e solo ne rallenterebbe gli effetti, ostacolando la sua funzione di estrema difesa del vincolo (di cui a Corte cost, 27.06.1986, n. 151; 18.10.1996, n. 341; 25.10.2000, n. 437; Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9). Si tratterebbe dunque solo di un’inutile e anzi dannosa duplicazione di atti (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.03.2012 n. 1803 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIModalità di individuazione delle situazioni giuridicamente tutelate che legittimano il diritto di accesso alla documentazione amministrativa.
Il fatto legittimante l’accesso alla documentazione amministrativa, ossia il possesso di “un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso”, giusta la nozione di cui all’art. 22 della legge n. 241 del 1990, non presuppone una predeterminazione rigida delle situazioni giuridicamente tutelate, in quanto la loro individuazione è data dal raccordo con il documento per il quale è chiesto l'accesso.
In questo senso, la valutazione sulla fondatezza o meno della domanda di ostensione si fonda sulla sussumibilità della pretesa concreta in una fattispecie normativa, secondo una valutazione prognostica e secondo un rapporto di chiara percepibilità (Consiglio di Stato, sez. VI, 18.09.2009, n. 5625). Ciò implica che l’accesso possa essere riconosciuto facendo perno sulla situazione sostanziale vantata dal richiedente e sul fatto lesivo da questi vantato.
In tal senso vanno le pronunce che hanno riconosciuto tale interesse non solo, secondo una proposizione più generale, ai soggetti territorialmente vicini (come nel caso tipico dei rilasci di titoli abilitativi in edilizia, da ultimo Consiglio di Stato, sez. V, 14.05.2010, n. 2966), ma anche a singoli o enti in relazione a fatti amministrativi che potevano incidere sull’attività da questi svolta (si veda, in relazione ad una associazione privata che per statuto svolge attività per la diffusione e lo sviluppo delle discipline sportive d’acqua, la pronuncia del Consiglio di Stato, sez. VI, 07.04.2010, n. 1962) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.03.2012 n. 1768 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'aggiudicazione provvisoria di un contratto non vincola l'Amministrazione che può sempre procedere, ove ne ricorrano i presupposti, al suo annullamento.
L’aggiudicazione provvisoria di un contratto non e' idonea a generare alcun affidamento qualificato, per cui la mancata conclusione della procedura o anche il suo annullamento, può sempre aver luogo, salvo l’obbligo di motivazione in relazione all’esistenza dei presupposti necessari (Consiglio di Stato, sez. V, 27.04.2011, n. 2479) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.03.2012 n. 1766 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il meccanismo del silenzio-assenso previsto dall’art. 12, comma 1, del codice dei contratti riguarda solo l’approvazione dell’aggiudicazione provvisoria, mentre l’aggiudicazione definitiva richiede una provvedimento espresso dell’Amministrazione.
L’art. 11, comma 5, del codice dei contratti afferma che “la stazione appaltante, previa verifica dell'aggiudicazione provvisoria ai sensi dell'articolo 12, comma 1, provvede all'aggiudicazione definitiva”. Il Consiglio di Stato rileva che dal testo normativo, non è dato capire se la verifica, di cui parla il citato comma 5 dell’art. 11, coincida in tutto con il meccanismo di approvazione dell’aggiudicazione provvisoria, indicato nel comma 1 dell’art. 12 successivo.
Tuttavia, se è vero che le due norme contengono un’indicazione semanticamente diversa, è del pari vero che non vi è diversità di spazio giuridico diverso tra i due meccanismi subprocedimentali e, soprattutto, non è dato rinvenire quale ulteriore attività dell’amministrazione potrebbe giustificare una diversità concettuale. Il completamento delle attività di cui all’art. 12, comma 1, del codice dei contratti pubblici, ossia l’approvazione dell’organo competente nel rispetto dei termini previsti dai singoli ordinamenti, ed, in mancanza, entro trenta giorni, salva la disciplina dell’interruzione dei termini, esaurisce i poteri specifici dell’amministrazione in questa fase processuale. Decorso il termine, l’aggiudicazione si intende approvata per cui, a norma nel comma 5 dell’art. 11 del codice dei contratti, “la stazione appaltante … provvede all'aggiudicazione definitiva”.
Il testo normativo evidenzia quindi, da un lato, un obbligo di procedere all’emissione di un provvedimento espresso di aggiudicazione definitiva e, dall’altro, la sua obbligatorietà, tranne l’attivazione degli altri poteri generali di controllo spettanti alla stazione appaltante, ma estranei alla suddetta fase subprocedimentale.
Conclusivamente, scaduto il termine di trenta giorni dall’aggiudicazione provvisoria ed in assenza di un provvedimento espresso, l’emissione del provvedimento di aggiudicazione definitiva diviene concretamente esigibile da parte del privato, attesa la natura vincolata di tale atto e l’inesistenza di poteri interdittivi della pubblica amministrazione, se non quelli generali di cui si vedrà in seguito. Ovviamente, tale situazione non incide sulla conseguibilità in concreto dell’affidamento del contratto, atteso che a valle di questa situazione si collocano ulteriori adempimenti (ed in particolare, nell’ambito della stessa fase subprocedimentale, quelli tesi a conferire efficacia dell’aggiudicazione definitiva, nonché i controlli sul contratto stipulato) che possono influire sull’effettivo svolgimento della prestazione e sul pregiudiziale affidamento.
Si tratta, però, di momenti di controllo successivi, che non incidono quindi sulla fase in esame e sulla nascita del vincolo in capo alla pubblica amministrazione. Il meccanismo del silenzio assenso prefigurato dall’art. 12, comma 1, riguarda solo l’approvazione dell’aggiudicazione provvisoria, mentre l’aggiudicazione definitiva richiede una manifestazione di volontà espressa dell’Amministrazione, ossia un provvedimento (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.03.2012 n. 1766 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOConcorso pubblico: le cancellature a penna nell'elaborato non sono segni di riconoscimento.
In materia di pubblici concorsi, le regole che vietano l'apposizione di segni di riconoscimento sugli elaborati scritti sono finalizzate a garantire l'anonimato di tali prove, a salvaguardia della par condicio tra i candidati, per cui ciò che rileva non è tanto l'identificabilità dell'autore dell'elaborato attraverso un segno a lui personalmente riferibile, quanto piuttosto l'astratta idoneità del segno a fungere da elemento di identificazione.
Ciò ricorre quando la particolarità riscontrata assuma un carattere oggettivamente ed incontestabilmente anomalo rispetto alle ordinarie modalità di estrinsecazione del pensiero e di elaborazione dello stesso in forma scritta, in tal caso a nulla rilevando che in concreto la commissione o singoli componenti di essa siano stati, o meno, in condizione di riconoscere effettivamente l'autore dell'elaborato scritto (cfr. Cons. Stato Sez. IV, 25-06-2010, n. 4119; Sez. V , 16-02-2010, n. 877 ; Sez. VI, 08.02.2006 n. 5220; Sez. V, 29.09.1999, n. 1208).
Ritiene il Collegio che l’apposizione di cancellature (peraltro non isolate, ma in un certo numero) a penna nell’elaborato è fatto riconducibile ad una incertezza usuale nei candidati, rilevabile nella maggior parte degli elaborati di una selezione concorsuale e non connotata da un carattere di anomalia tale da poter mettere la Commissione o un suo componente in condizione di riconoscerne l’autore. Per questo, essa non è configurabile come segno di riconoscimento (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.03.2012 n. 1740 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILiti temerarie: il Consiglio di Stato bacchetta il Comune soccombente e applica l'art. 26 c.p.a condannandolo d'ufficio anche al pagamento di una "sanzione" pecuniaria.
Nella sentenza in esame il Consiglio di Stato sul presupposto che la pronuncia di accoglimento del ricorso in esame si fonda su ragioni manifeste e interviene dopo che in ben tre gradi di giudizio procedere ad applicare l’art. 26, co. 2, c.p.a. -nel testo originario applicabile ratione temporis– laddove stabilisce che «2. Il giudice, nel pronunciare sulle spese, può altresì condannare, anche d’ufficio, la parte soccombente al pagamento in favore dell’altra parte di una somma di denaro equitativamente determinata, quando la decisione è fondata su ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali consolidati».
Ed invero, la nuova formulazione dell’art. 26, co. 2, c.p.a. ad opera del correttivo approvato dal d.lgs. 15.11.2011, n. 195, con decorrenza 08.12.2011 -<>- deve ritenersi applicabile ai soli atti introduttivi o di costituzione in giudizio in resistenza, rispettivamente notificati o depositati successivamente all’08.12.2011, in quanto dal carattere sanzionatorio della norma discende che la sua applicazione, in ossequio al principio generale di irretroattività delle fattispecie di responsabilità amministrativa (art. 1, l. n. 689 del 1981), è circoscritta alle condotte processuali successive alla sua entrata in vigore. Circa l’ambito applicativo della norma e i criteri di liquidazione della speciale indennità, il collegio rinvia, a mente del combinato disposto degli art. 74, co. 1, e 88, co. 1, lett. d), c.p.a., alla sentenza della medesima sezione 31.05.2011, n. 3252.
Nella specie il collegio, in assenza di elementi fattuali che consentano l’applicazione di parametri diversi, non ha motivo di discostarsi dal criterio della «percentuale sulle spese di lite» e, conseguentemente, stima equo condannare il Comune ad una somma pari a quella liquidata a titolo di rifusione delle spese di giudizio (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.03.2012 n. 1733 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIPrincipi giurisprudenziali consolidati in materia di associazioni temporanee di imprese.
Nel caso di partecipazione alle procedure di gara di appalti pubblici di organismi costituiti da più imprese (a.t.i., consorzi), secondo consolidati principi (cfr. Cons. St., ad. plen., 07.04.2011, n. 4; ad. plen., 15.04.2010, n. 1; sez. V, 19.09.2011, n. 5279; sez. VI, 09.02.2011, n. 888):
a) il possesso dei requisiti generali e speciali deve sussistere in capo a ogni singola impresa, non solo alla data di scadenza del termine per la presentazione delle domande indicato dal bando, ma al momento dell’aggiudicazione provvisoria, di quella definitiva nonché della stipula del contratto;
b) l’immodificabilità della compagine soggettiva degli organismi che partecipano a procedure di evidenza pubblica riguarda, senza possibilità di deroghe, le modifiche di tipo “additivo” (che si realizzano allorquando un soggetto giuridico formalmente nuovo si aggiunge, nel corso del procedimento di gara, a quelli originari);
c) le a.t.i. non possono in alcun modo variare la loro composizione rispetto a quella risultante dall’impegno presentato in sede di offerta, nel quale devono essere precisate tutte le circostanze che legittimano le singole imprese alla partecipazione alla gara, risolvendosi in una non consentita modifica anche solo la diversa configurazione dell’a.t.i. quanto ai requisiti di partecipazione richiesti ai raggruppamenti e alle singole partecipanti (mandataria e mandanti); invero, l’art. 37, co. 9 e 10, sancendo il principio della immodificabilità soggettiva dei partecipanti alle gare, tende ad assicurare una conoscenza piena, da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, dei soggetti che intendono contrarre con essa, consentendo una verifica preliminare e compiuta dei requisiti, verifica che non deve essere resa vana, in corso di gara, con modificazioni di alcun genere; la ratio di tale divieto è dunque quella di consentire un controllo preliminare serio e non aggirabile.
Un’attenuazione del principio di immodificabilità soggettiva delle a.t.i. si rinviene nella disciplina dettata dall’art. 51 cit. nella ricorrenza, tuttavia, di precise condizioni.
L’art. 51 regola le vicende soggettive fisiologiche del candidato, dell’offerente e dell’aggiudicatario prima della fase di sottoscrizione ed esecuzione del contratto; nel caso di ricorso a tale strumento, la norma governa il necessario rapporto che si deve instaurare tra partecipanti e stazione appaltante, in guisa tale:
a) da onerare quest’ultima, indipendentemente da una formale comunicazione in tal senso, del compito di svolgere il doveroso relativo sub-procedimento incentrato sulla verifica del possesso dei requisiti, sia di ordine generale, sia di ordine speciale, da parte del nuovo soggetto, non potendo quest’ultimo avvantaggiarsi della qualificazione del dante causa;
b) da escludere l’esercizio di qualsivoglia potere di veto da parte della stazione appaltante;
c) da postulare l’accettazione, da parte del successore, del procedimento nello stato in cui si trova, sicché non potrebbe essere modificata l’offerta già presentata dal dante causa, o le condizioni di aggiudicazione.
In quest’ottica è stata reputata insufficiente, nel caso di una a.t.i., la mera comunicazione, formulata dopo l’aggiudicazione provvisoria e proveniente dalla sola mandataria, in ordine alla posizione della trasformata società e, soprattutto, in assenza di una tempestiva verifica, da parte della stazione appaltante, in ordine all’avvenuta trasformazione, ai caratteri ed ai requisiti del nuovo soggetto che deve dimostrare il possesso dei requisiti (cfr. Cons. Stato, sez. V, 23.07.2010, n. 4849; sez. V, 05.12.2008, n. 6046; sez. IV, 04.10.2007, n. 5197).
Nel caso di partecipazione alla gara di appalto di un costituendo r.t.i., la cauzione provvisoria deve essere inderogabilmente intestata non solo alla società capogruppo ma anche alle singole mandanti: ciò affinché possa essere individuata l’obbligazione garantita in tutti i suoi elementi soggettivi ed oggettivi onde evitare il configurarsi di una carenza di garanzia per la stazione appaltante con riferimento a quei casi in cui l’inadempimento non dipenda dalla capogruppo designata ma dalle future mandanti (cfr. Cons. St., ad. plen., 04.10.2005, n. 8) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.03.2012 n. 1732
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTINegli appalti pubblici i partecipanti devono non solo essere in possesso dei requisiti, ma anche dichiararlo.
In base a un consolidato indirizzo giurisprudenziale tutti i soggetti che a qualunque titolo concorrono a pubblici appalti (in veste di affidatari, sub affidatari, consorziati, componenti di a.t.i., ausiliari in sede di avvalimento), devono non solo essere in possesso dei requisiti generali e speciali richiesti dalla legge e dal bando, ma anche dichiararlo, assumendosi le relative responsabilità in caso di omissione (cfr. da Cons. St., ad. plen., 07.04.2011, n. 4; ad. plen., 15.04.2010, n. 1, cui si rinvia a mente degli artt. 74 e 120, co. 10, c.p.a.) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.03.2012 n. 1731 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI:  Partecipazione alla gara di appalto di una associazione temporanea di imprese: presupposti per ottenere il beneficio della riduzione della cauzione provvisoria.
Nel caso di partecipazione alla gara di appalto di un costituendo r.t.i., la cauzione provvisoria deve essere inderogabilmente intestata non solo alla società capogruppo ma anche alle singole mandanti (cfr. Cons. St., ad. plen., 04.10.2005, n. 8), il beneficio della riduzione della cauzione provvisoria deve essere accordato esclusivamente nei casi in cui venga dimostrato il possesso della certificazione di qualità in capo a tutte le imprese associate, indipendentemente dalla tipologia di raggruppamento (cfr. Cons. St., sez. V, 12.05.2003, n. 2512).
Anche secondo un diverso indirizzo, che pur distingue fra le varie tipologie di raggruppamenti, nel caso di partecipazione alla gara d'appalto di un'associazione temporanea di imprese, la riduzione del 50% della cauzione provvisoria è consentita:
I) nel caso di associazione temporanea di imprese di tipo orizzontale, solo qualora tutte le imprese associate siano in possesso della certificazione di qualità, stante il regime di responsabilità solidale delle imprese stesse;
II) nel caso di associazione temporanea di imprese di tipo verticale -caratterizzata da una specializzazione diversificata delle associate e, quindi, da una divisione qualitativa del lavoro pro quota- soltanto se alcune delle imprese associate siano in possesso di certificazione di qualità (o comunque di tanto abbiano fornito la prova), in quanto in tale ipotesi la responsabilità correlata alle garanzie risulta ripartita pro quota fra tutte le imprese del raggruppamento (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.03.2012 n. 1731 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASanatoria edilizia in zona vincolata: il responsabile dell'abuso deve dimostrare che l'immobile precario e' stato realizzato armonizzandolo con i pregi paesistici dell’area.
Nel caso di specie il Collegio ha rilevato che in una situazione caratterizzata dalla realizzazione di manufatti precari in zona vincolata grava sul responsabile dell’abuso dimostrare come nel caso di specie eccezionalmente la realizzazione degli immobili abusivi sia avvenuta in termini tali da consentire la loro armonizzazione con i pregi paesistici dell’area (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.03.2012 n. 1727 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAnche il subappalto garantisce la concorrenza.
Il Consiglio di Stato nella sentenza in esame dopo aver affermato di non poter negare le differenze strutturali che intercorrono tra l’avvalimento, istituto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, recepito dall’art. 47 della direttiva 2004/18/CE e trasfuso nell’art. 49 del decreto legislativo n. 163 del 2006, volto a consentire ad un imprenditore il possesso mediato ed indiretto dei requisiti di partecipazione ad una gara, ed il subappalto, contratto secondario o derivato, posto “a valle” del contratto di appalto ed attinente alla sua esecuzione, procede comunque a rilevare numerosi profili della disciplina di cui agli artt. 37, comma 11 e 118 del codice sui contratti pubblici che, sotto il profilo funzionale, possono essere considerati indici di un sostanziale inserimento del subappalto tra gli strumenti idonei a garantire la maggiore concorrenza tra gli operatori economici e l’allargamento del mercato, nella prospettiva propria dell’art. 47 della direttiva 2004/18, al pari dell’avvalimento.
Tra questi meritano rilievo: l’inserimento del subappalto tra gli strumenti che consentono la realizzazione di lavori ad elevato contenuto tecnologico da parte di soggetti affidatari non in grado di eseguirli nell’art. 37, disciplinante i raggruppamenti temporanei; l’obbligo a carico dei concorrenti, all’atto dell’offerta, di indicare i lavori o le parti di opere che intendono subappaltare, con la conseguenza, in caso di mancata indicazione, che l’autorizzazione al subappalto non potrà essere accordata; l’obbligo di deposito presso la stazione appaltante del contratto di appalto e della certificazione attestante il possesso da parte del subappaltatore dei requisiti di qualificazione prescritti in relazione alla prestazione subappaltata oltre alla dichiarazione relativa al possesso dei requisiti di ordine generale; l’insussistenza nei confronti del subappaltatore dei divieti previsti dall’art. 10 della legge n. 575/1965 e successive modificazioni; l’autorizzazione al subappalto da parte della stazione appaltante, previa verifica dei requisiti in capo al subappaltatore; la possibilità che la stazione appaltante stabilisca nel bando di gara di corrispondere direttamente al subappaltatore l’importo dovuto per le sue prestazioni; l’obbligo per il subappaltatore di praticare per le prestazioni affidate in subappalto gli stessi prezzi unitari risultanti dall’aggiudicazione; la responsabilità solidale dell’appaltatore degli adempimenti da parte del subappaltatore relativi agli obblighi di sicurezza.
Si tratta di disposizioni e condizioni che, nell’intento di ridurre i margini di autonomia del rapporto appaltatore – subappaltatore, attraendolo sotto il controllo diretto della stazione appaltante ed imponendo il rispetto di regole di trasparenza volte a scongiurare i rischi di aggiramento della disciplina dell’evidenza pubblica tramite il subingresso di un soggetto diverso da quello scelto tramite la gara, tendono a stabilire una relazione diretta tra committente e subappaltatore.
Nel contempo, esse soddisfano la finalità dell’art. 47, p.2 della direttiva 2004/18/CE («Un operatore economico può, se del caso e per un determinato appalto, fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con questi ultimi. In tal caso deve dimostrare alla amministrazione aggiudicatrice che disporrà dei mezzi necessari, ad esempio mediante presentazione dell’impegno a tal fine di questi soggetti»), già sottolineata dalla giurisprudenza comunitaria (Corte di Giustizia C.E. 02.12.1999, n. 176), di consentire all’autorità aggiudicatrice la verifica delle capacità dei terzi ai quali un prestatore, che non soddisfi da solo i requisiti minimi prescritti per partecipare alla procedura di aggiudicazione di un appalto, intenda ricorrere, con lo scopo di fornire garanzia che l'offerente avrà effettivamente a disposizione i mezzi di cui si avvarrà durante il periodo di durata dell'appalto “a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami” con l’ausiliario e, quindi, anche in virtù di un contratto di subappalto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.03.2012 n. 1726
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L'istanza di accesso alla documentazione amministrativa può essere riproposta solo a seguito di nuovi elementi o fornendo una diversa rappresentazione dell'interesse legittimante l'accesso.
L’azione, nel giudizio in materia di accesso alla documentazione amministrativa, è ancorata “a termini di decadenza”, il giudizio ha “struttura impugnatoria” e che l’“istanza di accesso non è reiterabilead libitum, ma può essere riproposta solo a seguito di nuovi fatti ed elementi, o fornendo una diversa prospettazione dell’interesse giuridicamente rilevante che legittima al diritto di accesso (Cons. Stato, ad plen., 18.04.2006, n. 7) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.03.2012 n. 1724 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa revoca della concessione non è mai automatica alla stregua di una risoluzione civilistica, ma necessita di un procedimento in contraddittorio.
La revoca della concessione, in quanto revoca di un precedente atto espressione di potere amministrativo (la concessione, appunto), non può mai ritenersi automatica, alla stregua di una risoluzione civilistica, poiché il potere amministrativo è un potere necessariamente ad esercizio procedimentalizzato (cd. principio di articolazione), e deve sottostare, per esigenze legate alla tutela del principio di legalità, ai requisiti della tipicità, oltre che della nominatività.
Ciò significa che, per espungere dall’ordinamento un atto amministrativo, occorre un preciso atto amministrativo che abbia una sua specifica funzione, descritta dalla legge, e segua un ordine procedimentale, descritto dalla l. n. 241 del 1990 (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.03.2012 n. 1713
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Significato ed effetti della "concessione".
Il Consiglio di Stato nella sentenza in esame osserva come il termine “concessione” può assumere diversi significati a seconda dei contesti normativi; e che altrettanto differenziati, sempre in ragione dei contesti normativi, possono essere gli effetti di un atto denominato “concessione”.
Così, nel caso del bene demaniale dato in concessione ad un privato per uso individuale (come l’esercizio di un’attività imprenditoriale) è intuitivo che l’ente pubblico non risponde, almeno in linea di principio, dei danni a terzi, prodotti eventualmente dal concessionario.
Nel caso in esame, invece, si tratta di lavori di pubblica utilità, che includono anche l’espropriazione di immobili, progettati e finanziati dallo Stato per un interesse pubblico del quale lo Stato è titolare per legge (appunto il r.d. n. 215/1933), e tale rimane anche dopo l’atto di concessione. Quest’ultimo, infatti, non è che un mezzo tecnico, una modalità organizzativa attraverso la quale lo Stato raggiunge il suo scopo. Tanto è vero che (come risulta anche esplicitamente dall’art. 4, secondo comma, del decreto di concessione) gli immobili espropriati dovranno essere intestati catastalmente al “Demanio dello Stato”; che è come dire che per effetto dell’espropriazione gli immobili divengono di proprietà dello Stato, non del concessionario.
In questa luce, appare chiaro che, almeno nei rapporti esterni, il Ministero non è esonerato da responsabilità per gli effetti dell’attività del concessionario, quanto meno quando, come nella specie, l’attività dannosa sia stata posta in essere in conformità al progetto e al relativo mandato, e abbia realizzato l’obiettivo previsto. Si potrà forse giudicare diversamente nell’ipotesi di danni a terzi prodotti ad es. per colpa nell’esecuzione dei lavori, ma non è questo il caso (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 23.03.2012 n. 1695 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il nuovo provvedimento adottato dall'Amministrazione nelle more del giudizio di appello ha effetto caducante sul precedente provvedimento con conseguente improcedibilità del ricorso.
Secondo l’orientamento consolidato del Consiglio di Stato la carenza di interesse in ordine all'annullamento del provvedimento originariamente impugnato, sopravvenuta nelle more del giudizio di appello, comporta la dichiarazione di improcedibilità, non soltanto dell'appello, ma altresì dell'originario ricorso proposto davanti al giudice di primo grado e determina, l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata (v., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V, 06.09.2007, n. 4681; Sez. IV, 17.04.2002, n. 2031).
E infatti, se viene adottato un nuovo atto in esito ad una rinnovata istruttoria, la nuova determinazione è idonea a rappresentare l’unica volontà provvedimentale della amministrazione produttiva di effetti nella sfera giuridica del destinatario, con conseguente venire meno di ogni efficacia lesiva della prima determinazione e dunque di ogni interesse alla sua caducazione (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 23.03.2012 n. 1689 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIProcedura di Valutazione di Impatto Ambientale: natura, posizioni soggettive coinvolte e limiti del sindacato del giudice amministrativo.
Il Consiglio di Stato nella controversia in esame ha ritenuto di soffermarsi, sia pur sinteticamente, sopra la natura della procedura di VIA e delle posizioni soggettive in essa coinvolte, il tipo di sindacato esercitabile dal giudice amministrativo, e le relative conseguenze in ordine ai limiti, cognitori e probatori, dei suoi poteri.
Circa l’esatta individuazione della natura del potere e l’ampia latitudine della discrezionalità esercitata dall’amministrazione in sede di VIA, in quanto istituto finalizzato alla tutela preventiva dell’ambiente inteso in senso ampio, il collegio non intende deflettere dagli approdi esegetici cui è pervenuta la più recente giurisprudenza (internazionale e nazionale), da cui emerge la natura ampiamente discrezionale delle scelte effettuate, giustificate alla luce dei valori primari ed assoluti coinvolti (cfr., da ultimo, Cons. St., sez. VI, 13.06.2011, n. 3561; sez. IV, 05.07.2010, n. 4246; sez. V, 12.06.2009, n. 3770; Corte giust., 25.07.2008, c-142/2007; Corte cost., 07.11.2007, n. 367, cui si rinvia a mente del combinato disposto degli artt. 74, co.1, e 88, co. 2, lett. d), c.p.a.).
E’ stato chiarito che nel rendere il giudizio di valutazione di impatto ambientale, l’amministrazione esercita una amplissima discrezionalità che non si esaurisce in un mero giudizio tecnico, in quanto tale suscettibile di verificazione tout court sulla base di oggettivi criteri di misurazione, ma presenta al contempo profili particolarmente intensi di discrezionalità amministrativa e istituzionale in relazione all’apprezzamento degli interessi pubblici e privati coinvolti; la natura schiettamente discrezionale della decisione finale risente dunque dei suoi presupposti sia sul versante tecnico che amministrativo.
Le posizioni soggettive delle persone e degli enti coinvolti nella procedura sono pacificamente qualificabili in termini di interesse legittimo ed è altrettanto assodato che le relative controversie non rientrano nel novero delle tassative ed eccezionali ipotesi di giurisdizione di merito sancite oggi dall’art. 134 c.p.a. (cfr., sotto l’egida della precedente normativa, identica in parte qua, Cons. St., ad. plen., 09.01.2002, n. 1).
Premesso che a seguito della storica decisione di questo Consiglio (cfr. sez. IV, 09.04.1999, n. 601), è pacifico che il sindacato giurisdizionale sugli apprezzamenti tecnici dell’amministrazione possa svolgersi attraverso la verifica diretta dell’attendibilità delle operazioni compiute da quest’ultima, sotto il profilo della loro correttezza quanto a criterio tecnico ed a procedimento applicativo, è necessario precisare che il controllo del giudice amministrativo sulle valutazioni discrezionali deve essere svolto extrinsecus, nei limiti della rilevabilità ictu oculi dei vizi di legittimità dedotti, essendo diretto ad accertare il ricorrere di seri indici di invalidità e non alla sostituzione dell’amministrazione.
Sulla scorta di ricevuti principi (cfr., da ultimo e negli esatti termini, Cass. civ., sez. un., 17.02.2012, nn. 2312 e 2313; Corte cost., 03.03.2011, n. 175; Cons. St., sez. VI, 09.02.2011, n. 871), cui si rinvia a mente del combinato disposto degli artt. 74, co. 1, e 88, co. 2, lett. d), c.p.a.:
a) la sostituzione, da parte del giudice amministrativo, della propria valutazione a quella riservata alla discrezionalità dell’amministrazione costituisce ipotesi di sconfinamento vietato della giurisdizione di legittimità nella sfera riservata alla p.a., quand’anche l’eccesso in questione sia compiuto da una pronuncia il cui contenuto dispositivo si mantenga nell’area dell’annullamento dell’atto;
b) in base al principio di separazione dei poteri sotteso al nostro ordinamento costituzionale, solo l’amministrazione è in grado di apprezzare, in via immediata e diretta, l’interesse pubblico affidato dalla legge alle sue cure;
c) conseguentemente, il sindacato sulla motivazione delle valutazioni discrezionali:
   I) deve essere rigorosamente mantenuto sul piano della verifica della non pretestuosità della valutazione degli elementi di fatto acquisiti;
   II) non può avvalersi di criteri che portano ad evidenziare la mera non condivisibilità della valutazione stessa;
   III) deve tenere distinti i profili meramente accertativi da quelli valutativi (a più alto tasso di opinabilità) rimessi all’organo amministrativo, potendo esercitare più penetranti controlli, anche mediante c.t.u. o verificazione, solo avuto riguardo ai primi (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.03.2012 n. 1640
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMessi notificatori: nessun compenso aggiuntivo per le notifiche di atti dell'Amministrazione Finanziaria.
E’ pacifico in giurisprudenza (per tutte, cfr. Cons. Gius. Amm. 28.09.1998, n. 546; Cons. Stato, sez. V, 03.09.1985, n. 280; 30.09.1992, n. 910; 12.02.2008, n. 493; 02.08.2010, nn. 5090 – 5099; 06.12.2010, n. 8542) che il principio di omnicomprensività della retribuzione introdotto dall’art. 19 del d.p.r. 01.06.1079, n. 191 impedisce di attribuire compensi aggiuntivi per lo svolgimento di attività lavorative comunque riconducibili ai doveri istituzionali dei dipendenti pubblici e che in tale ambito si colloca anche l’attività di notificazione svolta dai messi comunali nell’interesse dell’amministrazione finanziaria o di altre amministrazioni dello Stato, tenendo conto dell’evoluzione dell’ordinamento.
La notificazione degli atti, invero, è mansione tipica e specifica della categoria del messo comunale già secondo la definizione contenuta nell’art. 273 del TULCP n. 383 del 1934 (“il messo comunale e quello provinciale sono autorizzati a notificare gli atti delle rispettive amministrazioni….Possono anche notificare atti nell’interesse di altre amministrazioni pubbliche che ne facciano richiesta …”) e viene svolta nel normale orario di ufficio e mediante l’utilizzo degli strumenti organizzativi messi a disposizione dell’amministrazione di appartenenza.
Correttamente il Giudice di prime cure ha, quindi, affermato che l’art. 19 del d.p.r. 01.06.1979, n. 191 –confermato dalle successive norme dettate dalla contrattazione collettiva per il personale dipendente degli enti locali- ha escluso la corresponsione di indennità aggiuntive alla retribuzione annua lorda derivante dal trattamento economico di livello e di progressione economica orizzontale, in quanto inglobante qualsiasi retribuzione per prestazioni a carattere sia continuativo che occasionale, ad eccezione di quelle indennità specificatamente individuate, tra cui non sono ricompresi i diritti invocati dal ricorrente; ha in connessione evidenziato, altresì, che la ratio della disposizione, derivando dall’esigenza di uniformare il trattamento economico dei dipendenti pubblici, in specie degli enti locali, e di globalità della previsione della connessa spesa pubblica, ha in via generale portata preclusiva della corresponsione di compensi ulteriori alle complessive voci retributive individuate in sede contrattuale, con la conseguenza che possono essere esclusi dal divieto normativo i soli compensi dovuti a seguito dello svolgimento da parte dei dipendenti di compiti ulteriori ed estranei alle ordinarie mansioni, e dunque non direttamente ricollegabili allo status professionale, mentre la notifica degli atti effettuata per conto dell’amministrazione finanziaria, rientra nelle mansioni proprie della qualifica di appartenenza del dipendente comunale con la qualifica di messo notificatore, sicché non può dar luogo a compenso aggiuntivo.
Fermo tanto, quanto alle leggi delle quali il ricorrente assume la violazione, l’art. 4 della l. n. 249 del 1976 è stato abrogato dall’art. 4 della l. 12.07.1991, n. 201 che fissa la nuova misura dei compensi esclusivamente per i notificatori speciali mentre nulla prevede per i messi comunali, eliminando qualunque collegamento tra i messi comunali (vigile urbano con funzioni di notificatore) e i notificatori speciali; l’art. 14, secondo comma della l. n. 890 del 1982 è stato, di conseguenza, implicitamente abrogato, atteso il rinvio al primo comma dell’abrogato articolo 4 della l. n. 249 del 1976.
E’, poi, del tutto irrilevante ai fini del riconoscimento del diritto il fatto che le notificazioni riguardino atti dell’amministrazione finanziaria, essendo il Comune l’unico soggetto legittimato a riscuotere le indennità per l’attività di notifica come testualmente dispongono l’art. 10, della l. n. 265 del 1999 (Notificazione degli atti delle pubbliche amministrazioni), che al comma 2 stabilisce testualmente “Al comune che vi provvede spetta da parte dell’amministrazione richiedente, per ogni singolo atto notificato, oltre alle spese di spedizione a mezzo posta raccomandata con avviso di ricevimento, una somma determinata con decreti dei Ministri del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, dell’interno e delle finanze” ed il decreto del Ministero del Tesoro del Bilancio e della Programmazione Economica del 14.03.2000 “Al Comune che vi provvede spetta da parte dell’amministrazione richiedente, per ogni singolo atto notificato, la somma di lire …”.
Invero, il conferimento da parte dell’amministrazione finanziaria al Comune del compito di procedere tramite i messi municipali alla notificazione degli atti finanziari, va inquadrato nella figura giuridica del mandato ex lege in favore del comune e come tale insuscettibile sia a determinare l’inquadramento del messo comunale nell’organizzazione dell’amministrazione richiedente che ad attribuirgli diritti nei confronti della medesima amministrazione.
Il messo municipale, in altri termini, rimane comunque dipendente dell’ente locale ed agisce, anche nell’esecuzione del compito di cui si discute, in adempimento degli obblighi ad esso rivenienti dal rapporto di impiego con il comune (in tal senso, Cass. Civ. 30.10.2008, n. 26118 e da ultimo Cass. Sez. Unite, 27.01.2010, n. 1627, che in materia di responsabilità per errori e ritardi nella notifica degli atti dell’amministrazione finanziaria, ha escluso la responsabilità del messo notificatore, affermando che unico responsabile è il Comune nei cui confronti si instaura un rapporto di preposizione gestoria che deve essere qualificato come mandato “ex lege”, la cui violazione costituisce, se del caso, fonte di responsabilità esclusiva a carico del comune, non essendo ravvisabile l’instaurazione di un rapporto di servizio diretto tra l’amministrazione finanziaria e i messi comunali, che operano alle esclusiva dipendenza dell’ente territoriale.
In conclusione, conformemente alla univoca giurisprudenza qui in rilievo, deve ritenersi, che il ricorrente, che riveste la qualifica di vigile messo, è tenuto ad effettuare l’attività di notificazione di tutti gli atti in relazione ai quali si assume il relativo compito, normativamente previsto, la stessa amministrazione comunale da cui dipende e, dunque, anche gli atti di altre amministrazioni, siccome rientranti tra gli ordinari compiti di ufficio, senza che vi sia titolo ad emolumenti differenziati (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.03.2012 n. 1635 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl servizio di polizia stradale non è una funzione che spetta automaticamente ai dipendenti con la qualifica di cantoniere o capo cantoniere, ma consegue ad una scelta dell’amministrazione.
Nel giudizio in esame i ricorrenti, con qualifica di cantonieri e capo cantonieri tendono al riconoscimento del diritto all’espletamento di specifici servizi di polizia stradale e chiedono, di conseguenza, la consegna dei blocchetti per l’elevazione delle contravvenzioni per le violazioni delle norme del codice della strada. Il Consiglio di Stato ha confermato la statuizione del Giudice di prime cure a tenore della quale l’espletamento del servizio di polizia stradale non è funzione che spetta automaticamente ai dipendenti con la suddetta qualifica di cantoniere o capo cantoniere, ma consegue ad una scelta dell’amministrazione.
L’art. 12, comma 2, del codice della strada non attribuisce i servizi di polizia stradale immediatamente ed in via automatica ai dipendenti degli enti locali, ma prevede la possibilità che a detto personale vengano assegnati specifici e limitati servizi di polizia stradale e precisamente solo quelli di prevenzione ed accertamento delle violazioni in materia di circolazione stradale e di tutela e controllo sull’uso delle strade, allorché l’amministrazione istituisca il servizio e individui i dipendenti ai quali assegnare delle funzioni. In sostanza, spetta all’amministrazione assegnare ai dipendenti con la qualifica indicata dalla norma citata l’espletamento del suddetto servizio.
Ciò presuppone che il servizio sia disposto e organizzato dall’amministrazione che, d’altro canto, non ha alcun onere né obbligo di istituire il servizio e tanto meno di affidarlo a tutti i dipendenti che abbiano una determinata qualifica e che abbiano superato il corso.
In conclusione, l’aver superato il corso di qualificazione costituisce mero presupposto per l’espletamento del servizio, ma non attribuisce di per sé alcun diritto all’espletamento del servizio di polizia stradale che, invece, può essere affidato solo dall’ente (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.03.2012 n. 1634 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Violazione di sigilli e ruolo del custode.
In tema di violazione di sigilli, la nomina a custode costituisce un "munus publicum" obbligatorio che prescinde anche dall'accettazione del custode e che non richiede, per la nomina dello stesso, ulteriori formalità rispetto a quelle indicate dalla legge, tanto che il soggetto nominato custode rimane investito della relativa funzione per il solo fatto della nomina, portata debitamente a sua conoscenza (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.03.2012 n. 8550 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di ristrutturazione.
La semplice congiunzione fisica dell'opera con una già esistente non basta a qualificare l'opera stessa come ristrutturazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.03.2012 n. 8021 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Compatibilità paesaggistica ed effetto estensivo.
La disposizione dell'art. 181, c. 1-ter, DLvo 42/2004 (introdotta con l'art. 1, c. 36, L. 308/2004) prevede la non punibilità per fatti ritenuti dal Legislatore meno lesivi dello interesse protetto a condizione che venga accertata la compatibilità paesaggistica dei lavori eseguiti.
La norma prevede la inapplicabilità delle sanzioni penali non per premiare ad un comportamento fattivo del richiedente la procedura (come avviene nella ipotesi del comma quinto ove la punibilità e esclusa in casi di tempestivo ripristino del bene), ma in considerazione della non lesività della condotta in rapporto agli interventi eseguiti; trattasi, di conseguenza, di una causa di non punibilità di natura oggettiva e non soggettiva che può estendersi ai concorrenti nel reato secondo le regole generali (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.02.2012 n. 7900 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abusi edilizi e soggetti responsabili.
È responsabile del reato di costruzione abusiva anche il mero esecutore dei lavori quando sia ravvisabile un profilo di colpa collegato alla conoscenza del carattere illecito dei lavori: ciò è configurabile quando non ha adempiuto all'onere di accertare il rilascio del provvedimento abilitante.
L'esecutore è, invece, esonerato da responsabilità nella ipotesi di lavori eseguiti in difformità dal titolo, gravando espressamente sul direttore dei lavori l'obbligo di curarne la corrispondenza al progetto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.02.2012 n. 7888 - tratto da www.lexambiente.it).

CONDOMINIO: La Cassazione su un manufatto che percorre tutto il muro. Vale il principio sulla cosa comune. La canna fumaria è affare di tutti. Per la legittimità dell'opera non conta il diritto di veduta.
Per valutare se sia legittima la realizzazione da parte di un condominio di una canna fumaria che percorre tutto il muro condominiale non bisogna considerare se il nuovo manufatto impedisca o meno la veduta del proprietario dell'attico ma individuare se, con la realizzazione di essa, sia impedito o meno agli altri comproprietari il normale uso del detto muro perimetrale.
In altri termini, in casi del genere non bisogna fare applicazione delle norme a tutela del diritto di veduta del proprietario dell'immobile, bensì del principio generale desumibile dall'art. 1102 del codice civile, in base al quale ciascun partecipante può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso.

Queste le interessanti conclusioni alle quali è pervenuta la II Sez. della Corte di Cassazione con la recente sentenza 23.02.2012 n. 2741.
La controversia tra condomini che ha portato alla decisione in questione nasceva a seguito della realizzazione da parte dei proprietari di un locale condominiale adibito a pizzeria di una nuova e più efficiente canna fumaria che partiva dal forno del locale (collocato a piano terra) e si inerpicava lungo il muro condominiale, sboccando a ridosso della terrazza dell'attico. Il proprietario di quest'ultimo si rivolgeva quindi al tribunale per richiedere la rimozione della canna fumaria, per la presunta violazione del suo diritto di veduta e delle norme sulle distanze nelle costruzioni. Il proprietario del locale pizzeria e il conduttore si difendevano però sottolineando il fatto di avere ottenuto una specifica autorizzazione dell'assemblea condominiale, nonché eccependo l'inesistenza di un oggettivo pregiudizio a danno del proprietario dell'ultimo piano.
Dette eccezioni venivano considerate valide dal tribunale, che riteneva legittima la nuova canna fumaria, ma tale decisione veniva ribaltata dalla Corte di appello, che ordinava la rimozione parziale del manufatto in questione da tenere almeno a tre metri sotto la soglia della terrazza annessa all'attico. Nella sentenza di secondo grado si precisava, infatti, che ogni condomino ha diritto a esercitare una vista a piombo fino alla base dell'edificio (oltre che quella panoramica intorno al caseggiato), mentre la possibilità di un altro condomino di appoggiare la canna fumaria è ammessa solo ove la stessa non leda il diritto di veduta del vicino. Del resto, i giudici di secondo grado avevano ricordato come, in riferimento a un caso simile, i giudici supremi, in una decisione risalente nel tempo, avessero già precisato che qualora il proprietario di un attico condominiale agisca per denunciare la collocazione di un canna fumaria che arrechi pregiudizio alla vista che si gode dal suo appartamento, l'indagine sulla legittimità del fatto denunciato va condotta con riferimento alle norme sul diritto di veduta, in quanto la domanda giudiziale è rivolta a tutelare la veduta del singolo appartamento e non certo il muro condominiale.
La sentenza della Corte di appello veniva però contestata dai proprietari della pizzeria che, presentando ricorso per cassazione, insistevano nell'affermare la legittimità della collocazione della canna fumaria, sottolineando come il manufatto installato fosse stata indicata come la soluzione migliore anche dal consulente tecnico del giudice. La Suprema corte, però, con la decisione indicata, ha dato ragione ai proprietari della pizzeria, ricordando che se le norme in materia condominiale consentono al singolo condomino di servirsi di un bene comune (compreso il muro perimetrale del caseggiato), anche se rispettando determinati limiti, a maggior ragione deve essere consentito al condomino di poter utilizzare liberamente un manufatto di proprietà esclusiva.
In ogni caso i giudici supremi hanno sottolineato come la distanza di tre metri sia quella che deve essere rispettata tra le costruzioni e, quindi, non poteva essere applicata al caso esaminato.
Infatti, come sottolineato dalla Cassazione, è difficile qualificare una canna fumaria (cioè un tubo in metallo) come una costruzione, trattandosi di manufatto che costituisce un semplice accessorio di un impianto (nella specie un forno), facente parte di una unità immobiliare di proprietà esclusiva, collocato non nel fondo adiacente a quello del condomino che ne denuncia la illegittimità, ma nello spazio non condominiale.
In altre parole, nel caso di specie non erano presenti le condizioni per applicare le norme sulle distanze legali e, di conseguenza, per valutare la legittimità o meno dell'opera, non bisognava considerare se la stessa avesse ridotto o escluso il diritto di veduta del proprietario dell'ultimo piano, ma se l'utilizzo del muro condominiale fosse da considerare legittimo, e cioè rispettoso di quella norma fondamentale secondo cui ciascun partecipante può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri condomini di farne ugualmente uso.
In mancanza di un'indagine per accertare se, con la realizzazione della nuova canna fumaria, fosse stato impedito il normale godimento del muro perimetrale, la Cassazione ha quindi accolto il ricorso del proprietario della pizzeria, rimettendo la stessa questione alla Corte di appello, che dovrà nuovamente esaminare il caso secondo le nuove indicazioni fornite dai giudici di legittimità (articolo ItaliaOggi Sette del 26.03.2012).

ESPROPRIAZIONEIl Consiglio di stato sulla manovra economica 2011. Espropri con scia. Illegittimità? C'è danno morale.
Se c'è espropriazione illegittima, c'è anche danno morale. Il cittadino che viene espropriato del proprio terreno ha diritto a che l'amministrazione, se sbaglia, paghi non solo il valore del bene. L'ente deve pagare anche i danni non patrimoniali. Può costare, dunque, molto caro non seguire le procedure. La manovra 2011 (decreto legge 98) appesantisce il conto delle espropriazioni (prevedendo appunto il ristoro del danno morale). E questo anche per vecchi espropri, iniziati prima dell'entrata in vigore del decreto 98 citato.
È quanto ha stabilito il Consiglio di stato, con la
sentenza 02.11.2011 n. 5844, chiamato a pronunciarsi su una lite insorta tra il comune di Nuoro e una serie di cittadini rimasti senza terreni.
L'amministrazione, infatti, decide di realizzare alcune opere di urbanizzazione del territorio. Ma il luogo prescelto coinvolge le proprietà di alcuni privati. Così, vengono approvati i progetti e si procede con un'occupazione d'urgenza, con valenza di dichiarazione di pubblica utilità. I terreni vengono progressivamente trasformati fino a ottenere una quadro irreversibile. Tuttavia, i decreti di espropriazione, necessari per completare la procedura di espropriazione, arrivano in ritardo. L'occupazione dell'amministrazione, nata come legittima, diviene illegittima. Si tratta, infatti, di un'occupazione appropriativa, non ammessa dalla legge.
Il tribunale amministrativo per la regione Sardegna, adito dai cittadini lesi dal comportamento dell'amministrazione, annulla l'espropriazione e quantifica i danni. I ricorrenti ritengono il risarcimento non appagante e si rivolgono in appello al Consiglio di stato, che rimescola le carte. La sentenza richiamata, oltre a ribadire che al cittadino dev'essere corrisposto un risarcimento del danno che sia rapportato al reale pregiudizio arrecato per la perdita della proprietà, ossia al valore venale del bene, fa un ulteriore passo in avanti. Ai danni patrimoniali, dice la Corte, si sommano quelli non patrimoniali. Con la «Manovra economica 2011», dl n. 98 del 06.07.2011, infatti, è stato introdotta una nuova norma nel Testo Unico in materia di espropriazioni, finalizzata a riconoscere al proprietario illecitamente espropriato un indennizzo comprensivo sia del pregiudizio patrimoniale sia di quello non patrimoniale.
Nel caso specifico quest'ultimo, visto come «danno morale», viene quantificato, in via equitativa, in 50 mila euro, da rivalutare sulla base degli indici Istat. Una bella somma, quindi, che va ad aggiungersi al valore venale del bene espropriato. E, soprattutto, un prezzo salato per l'amministrazione caduta in errore. Si noti come il riconoscimento del danno morale spetti anche ai cittadini espropriati prima dell'entrata in vigore della nuova legge che lo ha introdotto, fatti salvi i processi esauriti. Il che potrebbe incoraggiare i cittadini, oggi più di ieri, a ricorrere al giudice amministrativo, aumentando la mole del contenzioso in materia di espropriazioni illegittime (articolo ItaliaOggi del 28.03.2012 - tratto da www.corteconti.it).

AGGIORNAMENTO AL 26.03.2012

ã

Ma l'approvazione dei progetti di opere pubbliche non è di competenza della Giunta Comunale ??

     Come tutti sanno, la progettazione delle opere pubbliche si sviluppa su tre livelli ovverosia: progetto preliminare, definitivo ed esecutivo. Mentre il primo va di pari passo con l'approvazione del bilancio di previsione (quindi, Consiglio Comunale) per gli altri due la competenza è in capo alla Giunta Comunale.
     Ad essere precisi, si potrebbe puntualizzare che il progetto esecutivo rientri nella competenza dirigenziale (alla stregua di non poca giurisprudenza sul tema) ... ma non è questo l'aspetto che si vuole qui trattare.
     Orbene, forse è scappata -anche ai più attenti- un'eccezione e cioè: i progetti di ampliamento dei cimiteri esistenti e di costruzione dei nuovi, la cui approvazione è di competenza consiliare. Al riguardo, si leggano le due sentenze sotto riportate ... e se ne facciano tesoro.
26.03.2012 - LA SEGRETERIA PTPL
 

COMPETENZE GESTIONALI - LAVORI PUBBLICINel caso di costruzione di nuovi cimiteri o di ampliamento di quelli esistenti, la competenza all’approvazione dei relativi progetti appartiene in ogni caso al Consiglio Comunale, e ciò sia se l’opera sia esterna alla fascia di rispetto dei 200 metri, e quindi nell’ipotesi di localizzazione ordinaria, sia se venga ubicata ad una distanza a questa inferiore, ben potendo, tra l’altro, lo stesso organo consiliare ridurre addirittura la fascia di rispetto medesima.
La ratio ispiratrice di una competenza speciale dell’organo consiliare in materia di approvazione di progetti di opere cimiteriali deve essere individuata nell’esigenza di sottoporre alla discussione democratica ed al controllo da parte dell’organo rappresentativo di tutta la comunità locale l’opportunità circa la realizzazione di strutture che assumono particolare rilevanza, sia in riferimento ad esigenze di tutela igienico-sanitaria che di valore ambientale, oltre che per quanto concerne non secondari aspetti di natura affettiva e morale appartenenti all’intera collettività.
---------------
Analogamente a quanto avviene per il progetto, anche gli studi di fattibilità (per l'ampliamento del cimitero comunale) devono essere preventivamente sottoposti all’esame del Consiglio Comunale e non anche della Giunta.
---------------
La competenza a procedere sia a modificazioni del Programma Triennale che all’aggiornamento dell’elenco annuale –come nel caso di specie in cui la realizzazione dell’opera pubblica in questione era stata anticipata nell’anno 2003 in luogo della originaria previsione per il 2004– appartiene al Consiglio Comunale e non anche alla Giunta, secondo il chiaro tenore letterale dell’art. 42, secondo comma, lett. b), del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267.

L’art. 55 del D.P.R. 10.09.1990 n. 285 stabilisce che “I progetti di ampliamento dei cimiteri esistenti e di costruzione dei nuovi devono essere preceduti da uno studio tecnico delle località, specialmente per quanto riguarda l'ubicazione, l'orografia, l'estensione dell'area e la natura fisico-chimica del terreno, la profondità e la direzione della falda idrica e devono essere deliberati dal consiglio”.
Inoltre, l’art. 28 della legge 01.08.2002 n. 166, modificativo dell’art. 338 R.D. 24.07.1934, n. 1265, prevede che i cimiteri debbano essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato; detta norma prevede, inoltre, che “il consiglio comunale può approvare, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la costruzione di nuovi cimiteri o l'ampliamento di quelli già esistenti ad una distanza inferiore a 200 metri dal centro abitato, purché non oltre il limite di 50 metri, quando ricorrano, anche alternativamente, due condizioni:
a) risulti accertato dal medesimo consiglio comunale che, per particolari condizioni locali, non sia possibile provvedere altrimenti;
b) l'impianto cimiteriale sia separato dal centro urbano da strade pubbliche almeno di livello comunale, sulla base della classificazione prevista ai sensi della legislazione vigente, o da fiumi, laghi o dislivelli naturali rilevanti, ovvero da ponti o da impianti ferroviari
”.
Infine, ai fini che qui interessano, la medesima norma stabilisce che “per dare esecuzione ad un'opera pubblica o all'attuazione di un intervento urbanistico, purché non vi ostino ragioni igienico-sanitarie, il consiglio comunale può consentire, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto degli elementi ambientali di pregio dell'area, autorizzando l'ampliamento di edifici preesistenti o la costruzione di nuovi edifici”.
Da tale complesso normativo discende che, nel caso di costruzione di nuovi cimiteri o di ampliamento di quelli esistenti, la competenza all’approvazione dei relativi progetti appartiene in ogni caso al Consiglio Comunale, e ciò sia se l’opera sia esterna alla fascia di rispetto dei 200 metri, e quindi nell’ipotesi di localizzazione ordinaria, sia se venga ubicata ad una distanza a questa inferiore, ben potendo, tra l’altro, lo stesso organo consiliare ridurre addirittura la fascia di rispetto medesima.
La ratio ispiratrice di una competenza speciale dell’organo consiliare in materia di approvazione di progetti di opere cimiteriali deve essere individuata nell’esigenza di sottoporre alla discussione democratica ed al controllo da parte dell’organo rappresentativo di tutta la comunità locale l’opportunità circa la realizzazione di strutture che assumono particolare rilevanza, sia in riferimento ad esigenze di tutela igienico-sanitaria che di valore ambientale, oltre che per quanto concerne non secondari aspetti di natura affettiva e morale appartenenti all’intera collettività.
Con riferimento al caso di specie, si tratta della realizzazione di un ampliamento del cimitero comunale rientrante entro la fascia di rispetto dei 200 metri, circostanza non contestata dall’Amministrazione resistente e risultante dalla documentazione tecnica depositata agli atti del giudizio; inoltre, la deliberazione di Giunta Municipale n. 81 dell’11.04.2003 di approvazione del progetto preliminare, la cui adozione era stata giustificata da esigenze di rinnovazione procedimentale, si caratterizza per la sua autonomia rispetto ai precedenti provvedimenti approvativi del progetto preliminare dell’opera (ossia la deliberazione di Giunta n. 328 del 03.11.1999, annullato in sede di autotutela, e quella di Consiglio n. 7 dell’11.02.1998 avente ad oggetto la progettazione originaria), per cui non vi è dubbio alcuno che, ratione temporis, il regime giuridico che deve essere considerato ai fini della corretta individuazione del procedimento da seguire è quello introdotto dall’art. 338 T.U.L.S. come modificato dall’art. 28 della legge 01.08.2002 n. 166.
In conclusione, non solo la competenza in merito all’approvazione dei progetti relativi alle opere cimiteriali de quibus apparteneva al Consiglio Comunale (TAR Campania, V Sezione, 03.07.2003 n. 9298) e non anche alla Giunta, ma l’Amministrazione avrebbe dovuto anche specificamente seguire il procedimento previsto dall’art. 338 T.U.L.S. come modificato dall’art. 28 della legge 01.8.2002 n. 166.
In tal senso parimenti fondata è la doglianza, contenuta nel quinto motivo di ricorso, relativa al dedotto vizio di incompetenza ascrivibile alla violazione dell’art. 55 del D.P.R. 10.09.1990 n. 285, posto che, analogamente a quanto avviene per il progetto, anche gli studi di fattibilità avrebbero dovuto essere preventivamente sottoposti all’esame del Consiglio Comunale e non anche della Giunta.
Deve, pertanto, concludersi per l’accoglimento del primo e quinto motivo di ricorso, con consequenziale annullamento della deliberazione di Giunta Municipale n. 81 dell’11.04.2003 avente ad oggetto l’approvazione del progetto preliminare dell’opera pubblica de qua, nonché per invalidità derivata, di quelle n. 99 del 05.05.2003 e n. 116 del 14.05.2003, rispettivamente di approvazione dei progetti definitivo ed esecutivo della medesima, oltre che dell’impugnato decreto di occupazione di urgenza e comunicazione di presa di possesso e redazione dello stato di consistenza, con assorbimento del secondo, quarto, sesto motivo di censura e restanti profili del primo.
Parimenti fondato è il terzo motivo di censura con cui parte ricorrente ha impugnato la deliberazione n. 94 del 28.04.2003 con cui la Giunta Municipale di Barano d’Ischia aveva modificato l’elenco dei lavori da realizzare nell’anno 2003 in riferimento al Programma Triennale dei Lavori Pubblici per il triennio 2003/2005.
Infatti, la competenza a procedere sia a modificazioni del Programma Triennale che all’aggiornamento dell’elenco annuale –come nel caso di specie in cui la realizzazione dell’opera pubblica in questione era stata anticipata nell’anno 2003 in luogo della originaria previsione per il 2004– appartiene al Consiglio Comunale e non anche alla Giunta, secondo il chiaro tenore letterale dell’art. 42, secondo comma, lett. b), del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267.
Deve pertanto concludersi per la fondatezza del motivo di ricorso con consequenziale annullamento della deliberazione della Giunta Municipale di Barano d’Ischia n. 94 del 28.04.2003 (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 21.01.2004 n. 228 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - LAVORI PUBBLICIE' illegittima, per incompetenza, la deliberazione di Giunta Comunale circa l'approvazione del progetto esecutivo per l’ampliamento del cimitero.
Sul punto non è superfluo rilevare che la disposizione in questione (art. 55, comma 1, del D.P.R. 10.09.1990, n. 285 - Approvazione del regolamento di polizia mortuaria) costituisce una norma speciale, mai abrogata, che deroga in modo specifico alla competenza generale di tipo residuale stabilita dall’articolo 35 della legge 08.06.1990 n. 142, abrogato dall'articolo 274 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267 e riprodotto nell'articolo 48 di quest’ultimo.
---------------
L’inserimento di un’opera pubblica nell’elenco annuale delle opere pubbliche da realizzare non equivale certo alla approvazione del relativo progetto preliminare: una cosa è il progetto preliminare di un’opera (che deve rispettare le prescrizioni dell’articolo 16 della legge n. 109 citata) e una cosa è il suo inserimento nell’elenco annuale delle opere da realizzare.
Del resto la stessa disposizione invocata dal comune prescrive che l’inserimento dell’opera nell’elenco presuppone che il relativo progetto preliminare sia stato previamente approvato.
... per l’annullamento, previa sospensione dell’esecuzione della disposizione del dirigente del servizio tecnico normalità del comune di Napoli prot. n. 10 dell'08.10.2002, recante autorizzazione all’occupazione in via d’urgenza di suolo della ricorrente, delle delibere G.M. n. 3116 del 02.08.2002 e n. 3219 del 06.09.2002, recanti approvazione del progetto esecutivo per l’ampliamento del cimitero di Secondigliano e di ogni altro atto presupposto, connesso e/o conseguente.
...
Fondato e assorbente risulta il terzo motivo di gravame con cui viene dedotta la violazione dell’articolo 55, comma 1, del D.P.R. 10.09.1990, n. 285 (Approvazione del regolamento di polizia mortuaria), cioè l’incompetenza della giunta comunale all’approvazione del progetto.
Il motivo è fondato.
La disposizione del citato articolo 55 dispone infatti testualmente che “i progetti di ampliamento dei cimiteri esistenti e di costruzione dei nuovi devono essere preceduti da uno studio tecnico delle località, specialmente per quanto riguarda l'ubicazione, l'orografia, l'estensione dell'area e la natura fisico-chimica del terreno, la profondità e la direzione della falda idrica e devono essere deliberati dal consiglio comunale”.
Nel caso in esame il progetto definitivo dell’opera –non impugnato dalla ricorrente, non depositato agli atti di causa e semplicemente citato dalle delibere di approvazione del progetto esecutivo– è stato adottato dalla giunta, al pari delle impugnate delibere di approvazione in linea tecnica ed economica del progetto esecutivo.
Appare quindi sussistente la violazione della disposizione dell’articolo 55.
Sul punto non è superfluo rilevare che la disposizione in questione –come del resto già affermato in giurisprudenza– costituisce una norma speciale, mai abrogata, che deroga in modo specifico alla competenza generale di tipo residuale stabilita dall’articolo 35 della legge 08.06.1990 n. 142, abrogato dall'articolo 274 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267 e riprodotto nell'articolo 48 di quest’ultimo (TAR Umbria 07.02.2002, n. 75, TAR Umbria 06.03.1998, n. 190).
Deve poi aggiungersi che non persuasiva è la difesa articolata sul punto dal comune: questo infatti sostiene che il Consiglio comunale –con delibera n. 268 del 02.08.2002 (che ha ratificato la delibera G.M. n. 2864 del 26.07.2002)– ha inserito il progetto per cui è causa nel programma triennale e nell’elenco annuale dei lavori pubblici; poiché l’articolo 14, comma 6, della legge 11.02.1994, n. 109 dispone che “l'inclusione di un lavoro nell'elenco annuale … è subordinata alla previa approvazione della progettazione preliminare”, il comune sembra sostenere che la delibera n. 268 contiene l’approvazione del progetto preliminare e che tanto basterebbe a garantire l’osservanza della disposizione dell’articolo 55.
In realtà l’inserimento di un’opera pubblica nell’elenco annuale delle opere pubbliche da realizzare non equivale certo alla approvazione del relativo progetto preliminare: una cosa è il progetto preliminare di un’opera (che deve rispettare le prescrizioni dell’articolo 16 della legge n. 109 citata) e una cosa è il suo inserimento nell’elenco annuale delle opere da realizzare.
Del resto la stessa disposizione invocata dal comune prescrive che l’inserimento dell’opera nell’elenco presuppone che il relativo progetto preliminare sia stato previamente approvato.
A ciò si aggiunge che –seguendo la tesi del comune– si avrebbe una scansione temporale del procedimento di approvazione del progetto a dir poco anomala dato che la (implicita) approvazione del progetto preliminare da parte del consiglio sarebbe posteriore di quasi tre anni all’approvazione del progetto definitivo da parte della giunta (avvenuta il 03.11.1999 a mezzo della delibera n. 4009) e sarebbe contemporanea alla approvazione in linea tecnica del progetto esecutivo (la delibera n. 268 del consiglio comunale reca infatti la medesima data del 02.08.2002 della delibera della giunta di approvazione in linea tecnica del progetto esecutivo).
La riconosciuta fondatezza del vizio di incompetenza è preclusiva dell’esame degli ulteriori motivi dedotti che risultano pertanto assorbiti.
Il ricorso deve dunque essere accolto: le delibere G.M. n. 3116 del 02.08.2002 e n. 3219 del 06.09.2002 devono pertanto essere annullate per incompetenza; parimenti deve essere annullata in via di illegittimità derivata la disposizione del dirigente del servizio tecnico normalità del comune di Napoli prot. n. 10 dell'08.10.2002 (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 21.07.2003 n. 9298 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

MOBILITA'

PUBBLICO IMPIEGO: Il Comune di Filago (BG) cerca, con mobilità volontaria, un geometra (o equivalente) per la copertura di n. 1 posto vacante all'Ufficio Tecnico - cat. C - a tempo pieno ed indeterminato.
Il bando integrale è leggibile cliccando qui ed il termine entro cui inviare le domande è il 30.04.2012, ore 12,00.

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Art. 18 e pubblico impiego - Professoroni allo sbaraglio (CGIL-FP di Bergamo, nota 23.03.2012).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 24.03.2012 n. 71 "Testo del decreto-legge 25.01.2012, n. 2, coordinato con la legge di conversione 24.03.2012, n. 28, recante: «Misure straordinarie e urgenti in materia ambientale»".

AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - ENTI LOCALI - INCARICHI PROFESSIONALI/PROGETTUALI - VARI: G.U. 24.03.2012 n. 71, suppl. ord. n. 53/L, "Testo del decreto-legge 24.01.2012, n. 1, coordinato con la legge di conversione 24.03.2012, n. 27, recante: «Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività»".

ENTI LOCALI: G.U. 20.03.2012 n. 67 "Regolamento adottato in attuazione dell’articolo 16, comma 25, del decreto-legge 13.08.2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14.09.2011, n. 148, recante: «Istituzione dell’elenco dei revisori dei conti degli enti locali e modalità di scelta dell’organo di revisione economico-finanziario»" (Ministero dell'Interno, decreto 15.02.2012 n. 23).

APPALTI: G.U. 17.03.2012 n. 65 "Regolamento sul procedimento per la soluzione delle controversie ai sensi dell’art. 6, comma 7, lettera n), del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163" (A.V.C.P., provvedimento 01.03.2012).
---------------
Codice appalti, nuove regole per la soluzione delle controversie.
Pubblicato il nuovo regolamento che disciplina il procedimento per la soluzione delle controversie di cui all'art. 6, comma 7, lettera n), del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163.
L'Authority per i lavori pubblici ha modificato la disciplina sul procedimento per la soluzione delle controversie ai sensi dell'art. 6, comma 7, lettera n), del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 e successive modifiche ed integrazioni.
Possono presentare istanza di parere i seguenti soggetti:
- la stazione appaltante, in persona del soggetto legittimato ad esprimere all'esterno la volontà del richiedente;
- l'operatore economico, in persona del soggetto legittimato ad esprimere all'esterno la volontà del richiedente;
- i soggetti portatori di interessi pubblici o privati, nonché portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, in persona del soggetto legittimato ad esprimere all'esterno la volontà' del richiedente.
L'istanza può essere presentata congiuntamente dalla stazione appaltante e da una o più parti interessate.
Non sono ammissibili le istanze presentate:
- da soggetti che non rientrano tra quelli individuati in precedenza;
- su questioni che non sono oggetto di una controversia insorta fra le parti durante lo svolgimento di una procedura ad evidenza pubblica di cui al decreto legislativo n. 163/2006 e successive modifiche ed integrazioni;
- su questioni che attengono alla fase successiva al provvedimento di aggiudicazione definitiva;
- su questioni per la risoluzione delle quali e' stato già presentato ricorso innanzi all'autorità giudiziaria;
- in violazione di quanto disposto dal decreto in relazione alle modalità di presentazione della domanda.
Non sono ammissibili le istanze non correttamente compilate e/o non sottoscritte dalla persona fisica legittimata ad esprimere all'esterno la volontà del soggetto richiedente (commento tratto da www.ipsoa.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: L. Spallino, Piano Casa Regione Lombardia 2012: quadro degli interventi straordinari (link a www.studiospallino.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Bottone, Per chi “suona” la Campania? - Il Paesaggio come alibi, il salvataggio dell’abusivismo come scopo (24.03.2012).

ENTI LOCALI: G. Bertagna e A. Sacchi, I piani di razionalizzazione (tratto dalla newsletter di www.publika.it n. 48 - marzo 2012).

ENTI LOCALI: F. Albo, Il dissesto finanziario negli enti locali alla luce del decreto legislativo n. 149/2011 (link a www.ipsoa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: L. Bellagamba, Lavori a scomputo sotto soglia: l’incerta determinazione n. 7/2012 dell’Autorità (20.03.2012 - link a www.linobellagamba.it).

APPALTI: L. Bellagamba, Tassatività delle cause di esclusione: la non condivisibile tesi del TAR Valle d’Aosta (20.03.2012 - link a www.linobellagamba.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: G. Panassidi, La pubblicità on-line per finalità di pubblicità legale degli atti amministrativi, dei bandi di gara e dei bilanci (gennaio 2012 - link a www.lexitalia.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - SEGRETARI COMUNALI: Direttore Generale.
Dalla Corte dei Conti Sez. Reg.le Lombardia -parere 15.03.2012 n. 71- arriva la conferma dei consolidati orientamenti circa il divieto, per gli enti con popolazione inferiore a 100.000 abitanti, di nominare il Direttore Generale sia in favore di soggetto esterno che mediante attribuzione delle relative funzioni al Segretario Comunale ed anche con segreteria convenzionata.
Infatti, a seguito dell'entrata in vigore dell'articolo 2, commi 183-186, della legge 23.12.2009, n. 191 (Finanziaria 2010) e decorso il periodo transitori previsto (articolo 1, comma 2, del d.l. 25.01.2010, n. 2, convertito con modificazioni dalla legge 26.03.2010, n. 42) ovvero intervenuta la scadenza degli incarichi già conferiti, la soppressione della figura del direttore generale è definitiva.
Alle esigenze gestorie ed operative degli enti di piccole dimensioni si dovrà sopperire affidando ai dipendenti in servizio le relative specifiche responsabilità, riconoscendo loro la posizione organizzativa in applicazione del CCNL ovvero al Segretario Comunale nell'ambito delle competenze di coordinamento attribuitegli dall'articolo 97, comma 4, del TUEL (tratto da www.publika.it).

EDILIZIA PRIVATACorte conti su opere di urbanizzazione. Esecuzione diretta solo se c'è l'accordo.
La realizzazione senza gara, con affidamento diretto al privato titolare del permesso di costruire, di opere di urbanizzazione primaria di importo inferiore a 5 milioni non è possibile per le convenzioni già stipulate alla data del 06.12.2011, ma il privato e il comune possono modificare la convenzione prevedendo l'esecuzione diretta da parte del costruttore.

È quanto afferma la Corte dei conti, con il parere 14.03.2012 n. 64 della sezione regionale di controllo per la Lombardia, che ha preso in esame gli effetti della nuova norma che disciplina la possibilità di procedere all'esecuzione diretta, senza gara, delle opere di urbanizzazione primaria di importo inferiore alla soglia comunitaria.
Oggetto della delibera era quindi l'articolo 45 del decreto legge n. 201/2011, convertito nella legge n. 214/2011, che ha introdotto all'interno del corpo dell'articolo 16 del dpr n. 380/2001, il comma 2-bis il quale dispone che «nell'ambito degli strumenti attuativi e degli atti equivalenti comunque denominati nonché degli interventi in diretta attuazione dello strumento urbanistico generale, l'esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria di cui al comma 7, di importo inferiore alla soglia di cui all'articolo 28, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, funzionali all'intervento di trasformazione urbanistica del territorio, è a carico del titolare del permesso di costruire e non trova applicazione il decreto legislativo 12.04.2006, n. 163».
Questa nuova norma, che prevede la possibilità (ma non l'obbligo) dell'esecuzione diretta con esclusione della gara, si applica soltanto alle opere sotto soglia perché per l'esecuzione «a scomputo» di opere di urbanizzazione di importo superiore alla soglia comunitaria rimane ferma sia l'ipotesi della gara indetta dal privato per la realizzazione delle opere di urbanizzazione, sia l'ipotesi dell'esercizio da parte dell'amministrazione delle funzioni di stazione appaltante.
La magistratura contabile si esprime rispetto a una fattispecie in cui la nuova norma del decreto-legge n. 201/2011 era entrata in vigore fra il perfezionarsi della convenzione edilizia ed il suo adempimento mediante procedura negoziata ex articolo 57, comma 6, del Codice dei contratti pubblici con invito di almeno tre operatori economici. In altre parole si chiedeva alla Corte dei conti se la norma sull'affidamento diretto potesse o meno rendere superflua la procedura negoziata prevista dalla convenzione per l'individuazione del soggetto tenuto alla realizzazione delle opere di urbanizzazione accessorie e imporre l'automatico affidamento dei lavori allo stesso soggetto titolare della convenzione medesima.
In particolare la Corte ha affermato che il sopravvenire del decreto n. 201/2011 (entrato in vigore il 06.12.2011) «non può incidere, salvo diverso accordo delle parti, su una fattispecie in cui diritti e obblighi reciproci (sotto il profilo esecutivo) sono già definiti contrattualmente; è chiaro, infatti, che diversamente opinando una delle parti dell'accordo vedrebbe irrimediabilmente leso il suo interesse consolidato nell'accordo pattizio». I magistrati contabili specificano quindi che la novella introdotta dall'articolo 45 si applicherà alle sole convenzioni edilizie concluse successivamente la sua entrata in vigore (articolo ItaliaOggi del 23.03.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI: Contratti ex art. 90 TUEL e limitazioni al lavoro flessibile.
La Corte dei Conti Sez. Reg.le Campania, con il parere 13.03.2012 n. 65, su quanto in oggetto, conferma che:
"Le assunzioni a tempo determinato ex art. 90 del TUEL, oltre che essere soggette ai vincoli di cui all'art. 1, comma 557, della legge 296 del 2006 e norme collegate, devono anche rispettare, se e in quanto recanti oneri a carico del bilancio dell'ente per l'anno 2012, le disposizioni limitative di cui alla legge n° 183 del 2011, concorrendo i connessi oneri a determinare, per natura e per tipologia, l'ammontare delle spese soggette all'osservanza del limite del 50% fissato dal già menzionato art. 9, comma 28, del decreto legge n. 78 del 2010, come integrato dall'art. 4, comma 102, della legge 12.11.2011 n° 183 (cfr. Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Campania, deliberazione n° 493/2011 del 20.12.2011)" (tratto da www.publika.it).

QUESITI & PARERI

ESPROPRIAZIONE: Ad una srl agricola - Indennità corrisposta a titolo di esproprio: quale il trattamento ai fini delle imposte dirette?
Domanda
Si chiede di conoscere il trattamento ai fini delle imposte dirette di un'indennità corrisposta a titolo di esproprio (per realizzazione di opere di pubblica utilità) di terreni agricoli (zona omogenea "E", area destinata ad esclusivo uso agricolo) ad una società agricola (S.r.l.) con requisiti I.A.P., precisando che detta S.r.l. agricola non ha sinora optato per la tassazione del reddito a valori catastali, rimanendo soggetta a normale tassazione sul reddito di impresa.
A prescindere dall'indicazione della plusvalenza nel bilancio di esercizio, si richiede se, come succede per i soggetti che non esercitano un'impresa commerciale, vi siano requisiti di non imponibilità dell'indennità di esproprio nel caso in esame.
Risposta
Non si ritiene corretto quanto precisato nell'ultima parte dal gentile lettore; premesso che l'argomento è piuttosto complesso si è dell'avviso che per i soggetti che non esercitano impresa commerciali siano imponibili le indennità in commento. Si ritiene, fermo restando che bisognerebbe avere un quadro completo di informazioni, che l'indennità nel caso specifico possa concorrere a tassazione ai fini delle imposte dirette.
In base al disposto dell'art. 11, comma 5, della l. 30.12.1991, n. 413, le plusvalenze realizzate da soggetti non imprenditori derivanti da indennità di esproprio o di somme percepite a seguito di cessioni volontarie nel corso di procedimenti espropriativi nonché delle altre somme ivi indicate -relativamente a terreni destinati ad opere pubbliche o ad infrastrutture urbane all'interno delle zone omogenee di tipo A, B, C, D di cui al D.M. 02.04.1968, definite dagli strumenti urbanistici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica ed economica e popolare di cui alla L. n. 167 del 1998 e successive modificazioni- sono soggette ad imposizione diretta (redditi diversi) a norma dell'art. 67, comma 1, lettera b), del D.P.R. n. 917 del 22.12.1986.
In merito, con la circolare n. 194/E del 24.07.1998 è stato precisato che le indennità e le altre somme sopra menzionate devono essere assoggettate a tassazione a condizione che siano state corrisposte relativamente ad aree destinate alla realizzazione di opere pubbliche o di infrastrutture urbane all'interno delle anzidette zone omogenee di tipo A, B, C e D.
Ne deriva, al contrario, che qualora l'esproprio venga disposto per destinare l'area ad interventi di edilizia residenziale pubblica ed economica e popolare di cui alla citata legge, la relativa indennità di esproprio è sempre assoggettata a tassazione, non assumendo alcun rilievo la collocazione dell'area in questione nelle diverse zone omogenee in cui è ripartito il territorio. Infatti, le zone omogenee vengono prese in considerazione, ai fini della tassazione delle indennità di esproprio, solo quando si riferiscono a procedimenti espropriativi relativi ad aree destinate alla realizzazione di opere pubbliche o di infrastrutture urbane. Le istruzioni impartite con la richiamata circolare n. 194/E del 1998 sono da ritenersi tuttora operanti anche a seguito dell'entrata in vigore del D.P.R. 08.06.2001, n. 327 (art. 35, comma 1).
Di conseguenza è ininfluente il fatto che il terreno espropriato sia ubicato in zona "E", considerato che la tipologia della zona, di tipo "A", "B", "C" e "D", di cui al comma 5 dell'art. 11 della L. n. 413/1991, rileva solo qualora l'esproprio sia finalizzato alla realizzazione di "opere pubbliche o di infrastrutture urbane"; mentre tale collocazione non assume alcun rilievo quando la procedura di esproprio sia disposta per destinare l'area ad interventi di edilizia economica e popolare ai sensi della L. n. 167 del 1962 (19.03.2012 - tratto da www.ipsoa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Oggetto: Regolamento comunale in itinere: non accessibilità.
Il responsabile dell’URP del Comune di Mantova, con e-mail del 15 marzo scorso, ha chiesto se sia legittimo differire l’accesso ad un regolamento comunale approvato dalla Giunta ma non ancora dal Consiglio comunale.
Al riguardo si fa presente che la situazione prospettata rientra nella fase di “attività amministrativa diretta all’emanazione di atti normativi”, per la quale l’art. 24, comma 1, c), della legge n. 241/1990 esclude il diritto d’accesso.
Eventuali domande d’accesso, pertanto, dovranno essere differite al momento della pubblicazione del regolamento (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 19.04.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO - SICUREZZA LAVORO: Oggetto: Accesso a verbali di visita ispettiva in materia di salute e sicurezza del lavoro.
Con nota del 19.03.2011 la S.V. ha comunicato che un dipendente del Conservatorio “E. R. Duni” di Matera, che dichiara di agire a tutela del proprio diritto alla salute ed alla sicurezza nei luoghi di lavoro, ha chiesto di accedere ai verbali di visita ispettiva con i quali la ASL ha rilevato, negli edifici dell’Istituto, varie violazioni, oggettivamente imputabili alla S.V., alle norme in materia di salute e sicurezza del lavoro.
Al riguardo viene prospettato alla Commissione che la domanda d’accesso dovrebbe essere respinta, sia perché il procedimento avviato con la visita ispettiva non è ancora concluso, sia perché, trattandosi di atti relativi ad un contenzioso, opererebbe l’esclusione prevista dall’art. 4, comma 2, del regolamento per l’accesso vigente presso l’Istituto. In via subordinata si prospetta l’opportunità di un differimento dell’accesso, ai sensi dell’art. 9, comma 2, del regolamento generale n. 184/2006.
Osserva la Commissione che né la legge n. 241/1990 né il regolamento dell’Istituto precludono l’accesso agli atti infraprocedimentali relativi ad un contenzioso (che peraltro allo stato non risulta) tra terzi qualora vi sia un congruo interesse personale, diretto, attuale e giuridicamente protetto del richiedente; interesse che nel caso in esame palesemente sussiste, atteso che il dipendente intende tutelare il proprio diritto fondamentale alla salute. L’accesso pertanto non può essere senz’altro negato.
Attesa peraltro l’evidente lesione del diritto alla riservatezza della S.V. che potrebbe derivare da un accesso effettuato prima che il Conservatorio abbia potuto esplicitare le proprie eventuali controdeduzioni, può ritenersi applicabile la citata disposizione dell’art. 9, comma 2, del regolamento n. 184/2006, secondo cui “il differimento dell’accesso è disposto ove sia sufficiente per assicurare una temporanea tutela agli interessi di cui all’art. 24, comma 6, della legge”, che riguarda –tra l’altro– la riservatezza delle persone; e che di conseguenza l’accoglimento dell’accesso possa essere differito al momento in cui l’accertamento ispettivo diventerà incontestabile da parte dell’Amministrazione.
Va peraltro precisato che, in attesa della prescritta messa a norma degli impianti e delle strutture, i luoghi in cui l’indagine ispettiva ha rilevato situazioni di pericolo dovranno essere senza indugio opportunamente segnalati e –ove possibile- preclusi sia pure parzialmente al transito dei dipendenti, al fine di richiamare questi ultimi ad una condotta improntata ad una responsabile cautela (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 19.04.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Oggetto: Diritto di visionare gli atti in originale e di leggere i nominativi delle persone nominate negli atti oppure oscurati.
Il Sig. ... chiede di sapere se il cittadino abbia il diritto di:
1) prendere visione degli atti in originale, o debba accontentarsi di prendere visione di fotocopie degli stessi;
2) leggere i nominativi delle persone nominate negli atti, o debba accontentarsi di prendere visione di atti con i nominativi oscurati.
Ai sensi dell’art. 25, comma 1, l.n. 241/1990 e s.m.i. il diritto di accesso si esercita mediante esame ed estrazione di copia dei documenti amministrativi. Esame significa visione del documento originale o di copia conforme. La fotocopia integra il momento del rilascio di copia del documento ove richiesto dall’accedente.
Il diritto di accesso comprende quello di prendere visione (ed eventualmente di estrarre copia) del documento nella sua integralità, compreso i nominativi delle persone nello stesso indicate. L’oscuramento dei nominativi costituisce solo una modalità che rende più agevole per l’amministrazione provvedere alla richiesta di accesso a tutela della riservatezza dei soggetti controinteressati.
Naturalmente, ove la domanda di accesso fosse finalizzata a conoscere proprio quei nominativi, l’esercizio del diritto di accesso sarebbe sottoposto al vaglio della sua ammissibilità, in riferimento sia alla titolarità di una posizione giuridicamente tutelata, sia alla sua prevalenza sul diritto alla riservatezza dei controinteressati secondo le modalità previste dalla legge (art. 25 cit. e art. 3, d.p.r. n. 184/2006) (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 19.04.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Oggetto: Diritto di accesso a delibera comunale non più affissa all’Albo Pretorio.
Il Dr. ... chiede a questa Commissione parere circa l’opposizione fatta dall’amministrazione comunale di Lacedonia (AV) ad una sua richiesta di accesso ad una delibera di Giunta municipale in quanto non più affissa all’Albo Pretorio. L’istante si chiede se il diritto di accesso e la trasparenza hanno un limite temporale; precisa che il Comune in questione ha istituito l’Albo Pretorio on-line (pur mantenendo l’affissione cartacea in bacheca), ma non pubblica le determine degli uffici e pubblica on-line solo gli atti di Giunta e di Consiglio privi degli allegati.
La motivazione addotta dal Comune di Lacedonia per opporsi alla richiesta di accesso in oggetto non ha alcun giuridico fondamento.
Ai sensi dell’art. 10, comma 1, TUEL, tutti gli atti dell’amministrazione comunale (e provinciale) sono pubblici e il regolamento assicura ai cittadini il diritto di accesso agli atti amministrativi (comma 2). Di fronte a tali disposizioni –cui la giurisprudenza amministrativa e di questa Commissione ricollega un diritto pressoché illimitato e incondizionabile, se non nelle ipotesi di atti “riservati” per espressa indicazione di legge o per effetto di una temporanea e motivata dichiarazione del sindaco o del presidente della provincia che ne vieti l’esibizione (comma 1)– non solo non acquista pregio la motivazione addotta dall’amministrazione comunale, ma nessun’altra motivazione sarebbe stata idonea ad impedire l’esercizio del diritto di accesso che, si ribadisce, non è subordinato, per quanto riguarda atti, documenti ed informazioni in possesso di enti locali, ad alcun particolare requisito soggettivo in capo all’accedente.
L’ente locale può solo dettare le modalità dell’esercizio del diritto per evitare interferenze pregiudizievoli sull’ordinaria attività amministrativa (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 19.04.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Oggetto: Legittimità dell’aumento del costo di riproduzione di atti.
Il Sig. ... chiede il parere di questa Commissione in ordine alla legittimità della delibera n. 128 del 13.11.2008 della G.M. di Lastra a Signa che ha portato il costo di copia formato A4 ad euro 0,50 e del formato A3 ad euro 1.
La decisione assunta dal Comune di Lastra a Signa sembra legittima.
Ai sensi dell’art. 25, comma 1, l.n. 241/1990 e s.m.i. il rilascio di copia è subordinato soltanto al rimborso del costo di riproduzione, salve le disposizioni vigenti in materia di bollo, nonché i diritti di ricerca e di misura. Tali principi, stabiliti per l’accesso agli atti di amministrazioni centrali, valgono anche per gli enti locali che li fanno propri inserendoli nel proprio regolamento. L’entità del costo di riproduzione deve, dunque, compensare l’effettivo costo di riproduzione nonché i diritti di ricerca e visura, costo che solo se determinato immotivatamente in misura irragionevole potrebbe essere contestato.
Non è questo il caso in esame, in cui usando motivatamente della propria discrezionalità, la Giunta municipale ha rimodulato la tabella dei diritti di segreteria in materia di urbanistica ed edilizia privata fissando i costi per la copia di atti nella misura sopraindicata che, considerati i diritti legati alla ricerca e visura degli atti, non sembra essere viziato da irragionevolezza (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 19.04.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Oggetto: mancata risposta dell’ENEL a richieste di notizie.
Con nota del 14.02.2011 il Dott. ... ha comunicato che l’ENEL non ha dato alcuna risposta a varie note da lui inviate per ottenere la verifica della correttezza degli importi esposti in bolletta; ed ha chiesto in proposito un intervento di questa Commissione.
Al riguardo questa Commissione fa presente che la propria competenza è limitata all’esame di controversie relative al diritto d’accesso a documenti amministrativi; e che essa pertanto, pur non potendo non rilevare che una ingiustificata omissione di rispondere alle richieste dell’utenza non è conforme né ai doveri di correttezza professionale né al dovere di trasparenza che ogni gestore di pubblico servizio è tenuto ad osservare, non ha alcun potere di intervenire per imporre all’ENEL di rispondere all’utente (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 06.04.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Oggetto: Comune di Poggio Sannita: consiglieri comunali: accesso ai tabulati telefonici del Comune.
Con nota in data 08.11.2010, pervenuta il successivo giorno 19, i consiglieri comunali di Poggio Sannita Sigg. ..., ... e ... hanno comunicato di avere chiesto al Sindaco l’accesso ai tabulati telefonici di alcuni uffici comunali e di averne ricevuto un diniego. Chiedono pertanto un parere di questa Commissione sul comportamento del Sindaco.
Al riguardo la Commissione, con parere del 14.12.2010, ha fatto presente che vero è che i tabulati telefonici non sono qualificabili documenti amministrativi, ai sensi dell’art. 22, comma 1, lett. d), della legge n. 241/1990, dal momento che essi costituiscono rappresentazione di eventi materiali e non di atti detenuti dalla Pubblica Amministrazione o di attività da essa compiuti. Ma l’art. 43 del testo unico n. 267/2000 attribuisce ai consiglieri comunali, in considerazione della natura pubblica del loro munus, non il semplice diritto d’accesso previsto dalla legge n. 241/1990 ma anche il più ampio diritto di ottenere dagli uffici del comune “tutte le notizie e le informazioni in loro possesso” che siano utili all’esercizio del mandato dei consiglieri stessi; con la conseguenza che l’unico limite di tale diritto è costituito dalla circostanza che si tratti di documenti, notizie od informazioni già acquisiti dal comune e non già di documenti, notizie od informazioni che il Comune, a seguito della richiesta del consigliere comunale, dovrebbe acquisire.
La Commissione ha pertanto espresso il parere che il Sindaco sia tenuto a consentire l’accesso ai tabulati telefonici che il gestore del servizio trasmette usualmente al Comune.
Con nota del 21 marzo scorso il Sindaco ha fatto presente che i tabulati telefonici non sono allegati dal gestore alle fatture inviate periodicamente al Comune; ed ha chiesto se sia tenuto richiederli al gestore per mettersi in grado di consentire l’utile esercizio del diritto d’accesso da parte dei suindicati consiglieri.
Al riguardo la Commissione non può che ribadire quanto già precisato: e cioè che il diritto d’accesso può essere esercitato soltanto su documenti, notizie od informazioni già acquisiti dal comune e non anche su documenti, notizie od informazioni che il Comune, a seguito della richiesta del consigliere comunale, dovrebbe acquisire.
Pertanto se il gestore non trasmette al Comune i tabulati telefonici, nemmeno nella usuale forma ridotta che prevede l’oscuramento delle ultime cifre, la domanda d’accesso deve essere respinta (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 06.04.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Oggetto: Istanza di accesso alle delibere di Consiglio comunale decorso il periodo di pubblicazione di cittadino non residente.
Il Comune di Monterosso al Mare ha chiesto parere a questa Commissione su un’istanza di accesso del Sig. M.E. ad alcune delibere adottate nella seduta del Consiglio comunale del 29.09.2010. Poiché l’istante è titolare di beni immobili nel territorio comunale ma non cittadino residente, l’autorità comunale ha chiesto all’accedente di motivare più specificamente i motivi della sua richiesta sotto il profilo della titolarità di un interesse diretto, concreto ed attuale ai sensi dell’art. 22, comma 1, lett. b), della l. n. 241/1990 e s.m.i
Il Sig. M.E. ha riproposto formale richiesta di accesso motivandola come segue:
1 – delibera n. 23/2010: poiché lo scrivente risulta essere contribuente comunale per quanto riguarda il versamento dei tributi relativi ai rifiuti solidi urbani, credo che sia lecito essere a conoscenza dei tempi e ragione sociale delle aziende che forniscono tale servizio e concorrono quindi a determinare l’ammontare dei tributi pagati dallo scrivente;
2 – delibera n. 24-25-26/2010: in qualità di regolare contribuente che con i propri versamenti (vedi ICI) concorre alla formazione del bilancio comunale credo sia lecito essere a conoscenza di come la A.C. impiega il denaro pubblico (e quindi anche quello dello scrivente) acquistando ad esempio beni immobiliari e concorrendo ad interessare direttamente il bilancio comunale e le sue variazioni/equilibri;
3 – delibera n. 27/2010: credo sia lecito da parte di ogni cittadino conoscere i regolamenti comunali già al momento della loro approvazione proprio per snellire e favorire il conseguente funzionamento degli uffici pubblici;
4 – delibera n. 29/2010: in qualità di cittadino che paga regolarmente le cartelle relative alla fornitura di acqua potabile e relative al collegato servizio di depurazione acque credo sia perfettamente lecito poter visionare la delibera che tratta lo statuto della società pubblica ACAM che fornisce detti servizi sul territorio comunale.
Le motivazioni del Sig. M.E. sono state ritenute dal Comune di Monterosso al Mare generiche e prive della dimostrazione di un interesse diretto e concreto giuridicamente tutelato.
La Prefettura di La Spezia, intervenuta sulla vicenda con nota del 01.02.2011, dopo aver chiesto chiarimenti all’autorità comunale, ha suggerito, facendo leva su precedenti giurisprudenziali del giudice amministrativo, di riconsiderare l’istanza di accesso in questione. Da qui la richiesta di parere alla Commissione per l’accesso.
Per quanto riguarda la legittimazione all’accesso agli atti adottati da enti locali, correttamente il Comune di Monterosso al Mare (SP) richiama il principio del “doppio regime”, distinguendo, in linea con la consolidata giurisprudenza di questa Commissione, la diversa posizione dei cittadini residenti e non. Per i primi, cittadini residenti (siano essi persone fisiche, associazioni o persone giuridiche), il principio fondamentale che informa l’orientamento consolidato della Commissione sull’applicazione dell’art. 10, TUEL è quello di “specialità”: si ritiene cioè che il legislatore abbia adottato una disciplina specifica per gli enti locali versata nel TUEL approvato con il d.lgs. n. 267/2000.
Tale specialità comporta, in linea generale, che le norme contenute nella l. n. 241/1990 si applicano al TUEL solo in via suppletiva, ove necessario, e nei limiti in cui siano con esso compatibili. E mentre, per l’accesso agli atti di amministrazioni centrali dello Stato (e sue articolazioni periferiche) l’art. 22, comma 1, lett. b), l. n. 241/1990 prevede che la legittimazione all’accesso spetti soltanto ai soggetti titolari di un “interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”, l’art. 10 del TUEL non stabilisce invece alcuna restrizione e si limita a prevedere l’esistenza di un’area di atti (non precisata) il cui accesso o è assolutamente precluso per legge o è differibile (tale essendo l’effetto pratico della necessaria dichiarazione del Sindaco) nei casi previsti da un apposito regolamento, a tutela della riservatezza. Secondo la Commissione i diversi contenuti delle due disposizioni citate caratterizzano la specificità del diritto di accesso dei cittadini comunali configurandolo alla stregua di un’azione popolare che non deve essere accompagnata né dalla titolarità di una situazione giuridicamente rilevante né da un’adeguata motivazione.
La mancanza del requisito della residenza nel soggetto interessato all’accesso a documenti adottati da amministrazioni locali impedisce l’applicazione della più favorevole disposizione dell’art. 10, TUEL, facendo rivivere l’operatività dei presupposti stabiliti dal richiamato art, 22. comma 1, lett. b), della l.n. 241/1990 e s.m.i
E’ dunque alla luce dell’esistenza in capo al Sig. M.E. di un interesse diretto, concreto ed attuale che deve essere valutata l’ammissibilità della sua istanza in riferimento alla tipologia dei singoli atti richiesti.
Secondo la consolidata giurisprudenza del giudice amministrativo, correttamente citata nella nota della Prefettura di La Spezia, <<…ai fini della sussistenza del presupposto legittimante per l’esercizio del diritto di accesso deve esistere un interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l’accesso, non necessariamente consistente in un interesse legittimo o in un diritto soggettivo, ma comunque giuridicamente tutelato, non potendo identificarsi con il generico ed indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento della attività amministrativa, ed un rapporto di strumentalità tra tale interesse e la documentazione di cui si chiede l’ostensione.>>
Nella fattispecie, per fare alcuni esempi, si potrebbe configurare un interesse diretto, concreto ed attuale, correlato al diritto di proprietà su immobili insistenti sul territorio comunale, nei casi in cui un atto dell’Ente incidesse su tale diritto (provvedimento di variazione urbanistica o edilizia, rilascio di permesso di costruire su un terreno limitrofo, ecc.) e, in riferimento alla posizione di contribuente (requisito soggettivo rivendicato a sostegno della domanda di accesso), nei casi di provvedimento che influisse sullo specifico rapporto tributario connesso al possesso del bene immobile o di istanze aventi ad oggetto (per citare fattispecie ricorrente nei pareri di questa Commissione) l’accesso all’elenco dei contribuenti (senza che venga peraltro pregiudicato il diritto alla riservatezza). Nessuna di tali ipotesi ricorre nella specie per cui l’interesse del Sig. M.E. sottostante alla sua domanda di accesso. non perde il carattere di genericità che ne impedisce l’ammissibilità. Diversamente opinando si avallerebbe l’equiparazione del titolare di un diritto di proprietà immobiliare al cittadino residente, eludendo il dettato normativo così come ritenuto operativo dalla consolidata giurisprudenza.
Non vi è nessun motivo giuridico di opporsi alla richiesta di accesso al Regolamento comunale -come anche segnalato dalla Prefettura nella citata nota– atto generale la cui conoscenza costituisce diritto di ogni cittadino. Ma alla pubblicità di tale atto, così come delle delibere comunali, il Comune di Monterosso ha già provveduto rendendo operativo, dal 01.01.2011, il sito istituzionale informatico in ossequio anche alle disposizioni introdotte dall’art. 32, l.n. 69/2009 (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 06.04.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: Oggetto: Accesso agli atti di gara di concorrente non aggiudicatario.
Il Comune di Castelgrande, dopo aver premesso che per consolidata giurisprudenza è ormai pacifico che una ditta partecipante a gara d’appalto per l’affidamento di lavori, servizi e/o forniture non risultata aggiudicataria abbia il diritto di accesso agli atti prodotti dal soggetto che, al contrario, si è aggiudicato l’appalto medesimo, chiede a questa Commissione se possa ritenersi corretta –considerato appunto l’innegabile diritto di accesso del concorrente non aggiudicatario– la non applicazione della disposizione di cui all’art. 3, d.p.r. n. 184/2006 che fa obbligo alla P.A. cui è indirizzata la richiesta di accesso di dare comunicazione al controinteressato.
La Commissione ha affrontato più volte il tema del diritto di accesso in materia di procedure ad evidenza pubblica di gare di appalto, da ultimo con il parere espresso nella seduta del 15.03.2011 di cui, per chiarezza e completezza, si ritiene poter richiamare e trascrivere qui di seguito la parte motiva.
<<L’orientamento consolidato di questa Commissione è nel senso di ritenere che l’art. 13, co. 5, lett. a), d.lgs. 163/2006 (Codice dei contratti) esclude il diritto d’accesso e ogni forma di divulgazione con riferimento “alle informazioni fornite dagli offerenti nell’ambito delle offerte o a giustificazione delle medesime, che costituiscano, secondo motivata e comprovata motivazione dell’offerente, segreti tecnici o commerciali”. Ma il successivo comma 6 ammette l’accesso anche in tali casi qualora esso sia richiesto “in vista della tutela in giudizio dei propri interessi in relazione alla procedura di affidamento del contratto nell’ambito del quale viene formulata la richiesta di accesso”.
In proposito, il Consiglio di Stato (Sez. V, 09.12.2008 n. 6121) ha chiarito che le disposizioni in questione sembrano “ripetere, specificandoli, i principi dell’art. 24 della legge n. 241/1990, che stabilisce una complessa operazione di bilanciamento tra gli interessi contrapposti alla trasparenza e alla riservatezza….Per non dilatare in modo irragionevole la portata della norma si deve ritenere che essa imponga di effettuare un accurato controllo in ordine dell’effettiva utilità della documentazione richiesta, alla stregua di una sorta di prova di resistenza”: dal che “discende che non è consentito esercitare l’accesso alla documentazione posta a corredo dell’offerta selezionata ove l’impresa aggiudicataria abbia dichiarato che sussistono esigenze di tutela del segreto tecnico o commerciale ed il richiedente non abbia dimostrato la necessità di utilizzare tale documentazione in uno specifico giudizio”.
Pertanto, sarà cura dell’amministrazione interessata comunicare preliminarmente la domanda di accesso al controinteressato e, qualora quest’ultimo manifesti la propria opposizione all’accesso, la p.a. dovrà valutare in concreto anzitutto se gli elaborati allegati all’offerta della ditta aggiudicataria contengano davvero segreti tecnici e/o commerciali e poi l’effettiva necessità di utilizzare il chiesto documento in uno specifico giudizio, potendosi concedere l’accesso soltanto se effettivamente finalizzato ad esigenza di tutela giurisdizionale, potendo bastare a tal fine la dichiarazione dell’accedente di voler utilizzare il documento a fini di tutela giurisdizionale, senza alcun esame preventivo della reale utilità della sua domanda, salvo la sua macroscopica illogicità o inconferenza
.>> (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 06.04.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Oggetto: richiesta di parere in merito alla nozione di controinteressato all’accesso.
L’istante chiede di sapere se alcuni soggetti (come il privato che ha sottoscritto l’atto amministrativo di cui è chiesta l’ostensione ovvero che è stato nominato nell’atto; il funzionario amministrativo che ha sottoscritto l’atto; il legale rappresentante attuale o cessato dalla carica di una persona giuridica) possano o meno essere annoverati nella qualifica di controinteressati all’accesso ai documenti amministrativi ai sensi dell’art. 22 legge n 241/1990.
Questa Commissione, in conformità all’orientamento della giurisprudenza amministrativa, è del parere che, in linea generale, la posizione di controinteressato in materia di diritto di accesso non va ancorata al solo dato formale della menzione di tale soggetto negli atti e nei documenti cui si riferisce l’accesso oppure al dato estrinseco che gli atti e i documenti medesimi riguardino tale soggetto, ma anche al dato sostanziale della serietà e meritevolezza di tutela nel merito della posizione del controinteressato all’accesso, nel senso che occorre valutare la sussistenza della fondatezza di un’eventuale opposizione da parte di quest’ultimo soggetto.
Ciò è confermato dall’art. 22 della legge n. 241/1990 come modificato dalla legge n. 15/2005 che, nell’introdurre la nozione di “controinteressati”, li ha identificati in quei “soggetti individuati o facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto, che dall’esercizio dell’accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza” (si veda anche l’art. 3 del d.P.R. 12.04.2006, n. 184, che al comma 3 ha precisato che i soggetti controinteressati sono individuati tenuto anche conto del contenuto degli atti connessi, di cui all'articolo 7, comma 2).
Quindi, sono controinteressati non tutti i soggetti contemplati o riguardati dall’atto ma solo quelli che dall’esercizio dell’accesso vedrebbero in concreto compromesso il loro diritto alla riservatezza.
Con riguardo ai soggetti menzionati dall’istante, la Commissione rileva che, se tutti sono in astratto potenzialmente idonei ad essere annoverati quali controinteressati all’accesso, tuttavia in concreto non è possibile fornire una risposta difettando nella specie gli elementi descrittivi delle singole situazioni che avrebbero riguardato i soggetti indicati, ferma restando, in ogni caso, la potestà della p.a. interessata di valutare caso per caso se i soggetti indicati possano vedere compromesso il loro diritto alla riservatezza (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 06.04.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Oggetto: richiesta di parere in tema di limiti al diritto di accesso del consigliere comunale.
L’istante, lamentando l’impossibilità di svolgere il ruolo di consigliere comunale poiché ostacolato dalle stringenti disposizioni regolamentari approvate dal Comune in tema di diritto di accesso dei consiglieri, chiede un parere a questa Commissione sulla legittimità del regolamento comunale.
Preliminarmente, la Commissione rileva che il regolamento Comunale non risulta a suo tempo formalmente trasmesso a questa Commissione, in contrasto con quanto stabilito dal d.P.R. 12.04.2006 n. 184, art. 11, comma 3. Si segnala pertanto l’esigenza che a ciò venga provveduto.
Nel merito, si formulano le seguenti considerazioni:
- art. 2, co. 1, in combinato disposto con art. 4 co. 1: in astratto, l’attribuzione di un filtro sull’istanza di accesso attribuito al Sindaco o all’Assessore potrebbe essere lesiva delle prerogative del consigliere comunale, in quanto l’ente si ergerebbe ad arbitro delle forme di esercizio dell’accesso del consigliere che non deve motivare la sua richiesta.
Resta comunque fermo che anche i consiglieri comunali, in uno spirito di leale cooperazione, non debbono creare agli uffici comunali aggravi di lavoro tali da incidere sul normale andamento dell’attività amministrativa né comunque piegare l’accesso a finalità emulative ed abnormi;
- art. 2, co. 2 e 3: stando alla lettera della disposizione, appare fortemente limitato l’accesso dei consiglieri comunali nella parte in cui si prevede che, dopo la richiesta al sindaco, all’assessore o al segretario comunale, successivamente ci si dovrà rivolgere presso il dipendente dell’ufficio per prendere visione degli atti e documenti e quindi successivamente si possa estrarre copia dei documenti presso il servizio competente.
Sembra che la presa visione sia congegnata come un adempimento preliminare all’ottenimento dell’atto richiesto. Va, invece, considerato che sia la visione che il diritto ad ottenere copia dei documenti dell’ente sono alcune delle espressioni in cui si sostanzia lo speciale accesso dei consiglieri comunali previsto dal citato art. 43 TUEL;
- art. 2, co. 4, in combinato disposto con art. 4 co. 2: la previsione di un termine di 10 gg. per evadere la richiesta di accesso potrebbe in astratto determinare la concreta soppressione delle prerogative del consigliere nei casi di procedimenti urgenti o che richiedano l’espletamento delle funzioni politiche entro un termine inferiore a quello previsto.
Onde scongiurare tale pericolo, è necessario che l’ente garantisca l’accesso al consigliere comunale nell’immediatezza, e comunque nei tempi più celeri e ragionevoli possibili. Nel caso in cui l’accesso non possa essere garantito subito (per eccessiva gravosità della richiesta), rientrerà nelle facoltà del responsabile del procedimento dilazionare opportunamente nel tempo il rilascio delle copie, ferma restando la facoltà del consigliere comunale di prendere visione, nel frattempo, di quanto richiesto negli orari stabiliti presso gli uffici comunali competenti, anche con mezzi informatici;
- art. 3, co. 2: è in linea con la costante giurisprudenza respingere la domanda di accesso perché riguardante “atti ancora da adottare”, ma si ricorda che sono accessibili in base all’art. 24, comma 1, lett. d), legge n. 241/1990 anche gli atti interni (relativi o meno ad uno specifico procedimento) e, per consolidato orientamento del giudice amministrativo gli atti preparatori, relazioni o pareri informali e persino “brogliacci di giunta”.
Inoltre, quanto al rigetto della richiesta di accesso agli atti adottati successivamente ad una certa data o intere categorie di documenti, si rammenta che, seppur anche le richieste di accesso ai documenti avanzate dai Consiglieri comunali ai sensi dell’art. 43, co. 2, d.lgs. n. 267/2000 debbano rispettare il limite di carattere generale –valido per qualsiasi richiesta di accesso agli atti- della non genericità della richiesta medesima (cfr. C.d.S., Sez. V, n. 4471 del 02.09.2005 e n. 6293 del 13.11.2002) non è generica l’istanza relativa all’accesso a tutti gli atti precedenti e successivi a quelli specificamente indicati qualora nell’istanza siano indicati gli elementi necessari e sufficienti alla puntuale identificazione dei documenti richiesti;
- art. 6: seppur l’esercizio della funzione di consigliere comunale comporta il diritto ad ottenere i documenti amministrativi e le notizie richieste ma non a disporre senza limiti del tempo del personale degli uffici, tuttavia la limitazione dell’orario d’accesso solo in due giorni al mese pare, in assenza di adeguati meccanismi elastici, di per sé sola lesiva delle prerogative del consigliere comunale;
- art. 7, co. 2: l’esclusione dall’accesso delle minutazioni dei verbali delle riunioni degli organi collegiali, delle registrazioni, degli appunti utilizzati per la formazione del verbale delle sedute non è compatibile con l’ampiezza del diritto di accesso dei consiglieri comunali. Tale ampiezza determina, di riflesso, che l’accesso può in astratto indirizzarsi, oltre che, in generale, verso qualsiasi “notizia” o “informazione”, soprattutto verso tutti “documenti amministrativi e non” formati o, comunque, utilizzati ai fini dell’attività amministrativa, ricomprendendo anche gli atti istruttori interni in qualche modo preparatori e/o propedeutici all’atto definitivo. Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa –e in linea con essa quella di questa Commissione– è consolidata nell’ammettere, ai sensi dell’art. 22, comma 1, lett. d), della legge n. 241/1990, l’accesso anche agli atti preparatori, relazioni o pareri informali anche se non hanno una autonoma rilevanza, estendendo tale diritto anche a bozze o a brogliacci (in questo senso, cfr., da ultimo, parere Commissione 20.04.2009);
- art. 7, co. 3: la sottrazione all’accesso di atti di consulenza redatti da professionisti, di pareri resi da legali dopo l’avvio di un contenzioso nonché di atti relativi a richiesta di conciliazione in materia lavoristica e di documenti secretati dal Sindaco non è compatibile con l’art. 43 TUEL. Infatti, le ipotesi di segretezza delle informazioni nei casi specificamente determinati dalla legge (tra cui il segreto professionale o altre ipotesi di segreto) non possono incidere sul diritto di accesso dei consiglieri comunali, essendo estraneo all’ampiezza di tale diritto qualunque divieto di “ottenere notizie e informazioni” su atti o documenti che possano essere qualificati “segreti” e come tali sottratti alla sua visione (o estrazione di copia).
La segretezza che pure opera nei confronti del consigliere comunale non è quella legata alla natura dell’atto ma al suo comportamento che non può essere divulgativo (“nei casi specificamente determinati dalla legge”) del contenuto degli atti ai quali ha avuto accesso, stante il vincolo previsto dal citato art. 43 all’osservanza del segreto d’ufficio nelle ipotesi specificatamente determinate dalla legge nonché al divieto di divulgazione dei dati personali ai sensi del d.lgs. 196/2003 e successive modificazioni (cfr. in senso favorevole TAR Toscana Firenze Sez. II, 06.04.2007, n. 622).
Si fa, comunque, presente che l’autorità competente ad annullare eventuali determinazioni amministrative illegittime è il giudice amministrativo e non anche questa Commissione, salve le iniziative di modifica regolamentare rimesse alla autonoma valutazione del Consiglio Comunale (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 06.04.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Oggetto: richiesta di parere in materia di accesso dei consiglieri comunali ad atti processuali penali, contabili e di lavoro.
L’ente istante rappresenta che tre consiglieri comunali hanno chiesto l’accesso a copie di eventuali atti giudiziari relativi a vari procedimenti (contabili, penali e giuslavoristi) avviati per condotte asseritamente illegali contestate a carico dell’ex sindaco e segretario comunale, al fine di verificare se l’interesse comunale fosse stato correttamente tutelato dalla pregressa gestione politica. Dubitando della legittimità dell’accesso a tali atti -attesa la genericità dell’istanza e alla luce di alcune pronunce rese su casi analoghi da questa Commissione (plenum 22.10.2002, 05.10.2004)- viene chiesto a questa Commissione un parere sulla spettanza o meno del diritto di accesso ai consiglieri comunali.
In via generale, come già affermato in precedenza (cfr. plenum 14.07.2009), il diritto d’accesso dei consiglieri comunali e provinciali agli atti amministrativi dell’ente locale è disciplinato espressamente dall’art. 43, comma 2, d.lgs. 18.08.2000, n. 267 (Testo unico ordinamento degli enti locali), il quale prevede in capo agli stessi il diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente comunali o provinciali, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del loro mandato. Dal contenuto di tale norma emerge chiaramente che i consiglieri comunali hanno diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d’utilità all’espletamento del proprio mandato, senza alcuna limitazione, essendo estraneo all’ampiezza di tale diritto qualunque divieto di “ottenere notizie e informazioni” su atti o documenti che possano essere qualificati “segreti” e come tali sottratti alla sua visione (o estrazione di copia).
La giurisprudenza del Consiglio di Stato, infatti, si è orientata nel senso di ritenere che ai consiglieri comunali spetti un’ampia prerogativa a ottenere informazioni senza che possano essere opposti profili di riservatezza nel caso in cui la richiesta riguardi l’esercizio del mandato istituzionale, restando fermi, peraltro, gli obblighi di tutela del segreto e i divieti di divulgazione di dati personali secondo la vigente normativa sulla riservatezza (secondo la quale, ai sensi dell’art. 43, comma 2, d.lgs. 18.08.2000, n. 267, i consiglieri comunali e provinciali “sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge”).
In argomento, inoltre, è intervenuta la sentenza del Consiglio di Stato n. 2716 del 04.05.2004, la quale nel ribadire l’ampio diritto di accesso dei consiglieri comunali nell’espletamento del loro mandato, ha precisato che “i consiglieri comunali, nella loro veste di componenti del massimo organo di governo del Comune, hanno titolo ad accedere anche agli atti concernenti le vertenze nelle quali il Comune è coinvolto nonché ai pareri legali richiesti dall’amministrazione comunale, onde prenderne conoscenza e poter intervenire al riguardo”.
L’eventuale segretezza (delle indagini o professionale) che pure opera nei confronti del consigliere comunale non è quella legata alla natura dell’atto ma al suo comportamento che non può essere divulgativo (“nei casi specificamente determinati dalla legge”) del contenuto degli atti ai quali ha avuto accesso, stante il vincolo previsto in capo al consigliere comunale dal citato art 43 all’osservanza del segreto d’ufficio nelle ipotesi specificatamente determinate dalla legge nonché al divieto di divulgazione dei dati personali ai sensi del d.lgs. 196/2003 e successive modificazioni (cfr. in senso favorevole TAR Toscana Firenze Sez. II, 06.04.2007, n. 622).
Nella specie, anzitutto non sono pertinenti le fattispecie risolte nei plenum indicati, inerendo oltre che a casi diversi da quello in esame, all’interpretazione della disciplina generale dell’accesso contenuta nella legge n 241/1990 e non anche a quella specifica di cui all’art 43 TUEL specificamente prevista per il consigliere comunale; inoltre, la richiesta di informazioni, indubbiamente utile all’esercizio del mandato politico dei consiglieri comunali, come pure ritiene implicitamente l’ente, non risulta affatto generica, essendo ben individuati i soggetti (ex sindaco e segretario comunale) e conseguentemente individuabili gli eventuali contenziosi in corso e i relativi atti giudiziari.
Per tali ragioni, la Commissione ritiene che la richiesta di accesso formulata dai consiglieri comunali sia da accogliere (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 06.04.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Sig. ...: denegato diritto d’accesso.
Con e-mail del 04.11.2010 il Sig. ... trasmetteva una relazione, indirizzata anche alle Autorità in indirizzo, con cui lamentava di non aver potuto esercitare, a causa di ostacoli di varia natura oppostigli da funzionari della Provincia di Potenza, il diritto d’accesso ai documenti amministrativi del progetto “Vie blu” gestito dalla Provincia stessa, malgrado tale diritto gli fosse stato riconosciuto da questa Commissione con parere del 04.03.2010. L’interessato chiedeva pertanto un ulteriore intervento da parte di questa Commissione.
Questa Commissione, con parere del 14.12.2010, faceva presente che l’ordinamento vigente non le attribuiva il potere di effettuare ulteriori diretti interventi dopo l’emissione del parere; e che pertanto la richiesta dell’interessato non poteva essere accolta. Rilevava peraltro che l’interessato con l’indicata relazione aveva prospettato un quadro di sistematica elusione del proprio diritto d’accesso e del dovere di trasparenza dell’attività amministrativa, in contrasto con i principi generali sanciti rispettivamente dalla legge n. 241/1990 e dal decreto legislativo n. 150/2009; e pertanto invitava la Provincia di Potenza a voler riferire sulla questione, ai fini di un’eventuale menzione di essa nella relazione annuale sulla trasparenza della pubblica amministrazione che questa Commissione è tenuta a presentare alle Camere ed al Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi dell’art. 27, comma 5, della legge n. 241/1990.
Con ampia e dettagliata nota del 25.01.2011 la Provincia di Potenza ha in particolare riferito:
- che è stato il ... a non voler prendere visione dell’intera documentazione messagli a disposizione il 12.04.2010, ed a rifiutarsi di ottemperare alle procedure previste per l’accesso, tra cui l’esplicitazione degli elementi utili all’individuazione dei documenti richiesti e dello specifico interesse alla loro ostensione, genericamente indicato come interesse “a verificare l’esattezza delle retribuzioni a lui corrisposte”;
- che a seguito di segnalazioni dello stesso ... il locale Ispettorato del lavoro ha effettuato ispezioni, che hanno accertato la regolarità e l’esattezza dell’operato della Provincia.
L’interessato, dal canto suo, con e-mail del 18.02.2011 ha in sostanza contestato il contenuto degli atti messi a sua disposizione.
La Commissione, preso atto della perdurante contrapposizione tra le parti e constatata l’inutilità di richiedere ulteriori informazioni, non ritiene di dover compiere ulteriori interventi, fermo restando il diritto dell’interessato di tutelarsi in sede giurisdizionale; e, considerato che il competente Ispettorato del lavoro, in posizione di terzietà, ha accertato la regolarità e l’esattezza dell’operato della Provincia, ritiene che la questione debba essere archiviata (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 15.03.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Consiglieri comunali: accesso alle liquidazioni dei buoni di economato.
Con nota dell’01.02.2011 il Comune di Trevico (AV) ha chiesto il parere di questa Commissione in ordine alla richiesta, presentata dai consiglieri comunali di minoranza, di ottenere copia delle liquidazioni dei buoni di economato relativi al periodo 2 gennaio-31.12.2010.
Al riguardo il Comune esprime perplessità, considerato che si tratterebbe di una forma di controllo specifico non inerente alle funzioni di indirizzo politico amministrativo e comunque di una forma di controllo prettamente contabile, demandato dall’art. 239 del TUEL al revisore dei conti.
Al riguardo la Commissione osserva che l’art. 43 del TUEL dà diritto ai consiglieri comunali di ottenere dagli uffici del Comune tutti i documenti che i richiedenti ritengano necessari per l’espletamento del loro mandato, senza alcuna esclusione; e che pertanto non sussiste alcun motivo per negare la copie suindicate.
Si tratta infatti non dell’esercizio delle funzioni di indirizzo politico amministrativo, che spetta al consiglio comunale nella sua collegialità, ma dell’esercizio del generale potere di controllo del singolo consigliere sull’operato dell’amministrazione comunale, che nel caso in esame si affianca –senza sostituirlo- a quello specifico compiuto dal revisore dei conti a fini esclusivamente contabili (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 15.03.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Accesso di movimento politico culturale ad atti comunali.
L’Associazione ”Movimento Politico Culturale Avanguardia Angri” ha chiesto al Comune di Angri, tramite un suo aderente, di visionare il verbale del bando di gara relativo alla delibera di G.M. n. 71 del 06/07/2010 e copia della relazione dei Revisori dei conti in merito alla delibera del Commissario Straordinario n. 96 del 12/03/2010, ricevendo un diniego per carenza di motivazione.
Il Sig. ..., nella sua qualità di Presidente pro-tempore della predetta Associazione, sottopone al parere di questa Commissione la legittimità di tale diniego. Per quanto riguarda la legittimazione all’accesso dei cittadini residenti (siano essi persone fisiche, associazioni o persone giuridiche), il principio fondamentale che informa l’orientamento consolidato della Commissione sull’applicazione dell’art. 10, TUEL è quello di “specialità": il legislatore ha, cioè, adottato una disciplina specifica per gli enti locali versata nel TUEL approvato con il d.lgs. n. 267/2000. Tale specialità comporta, in linea generale, che le norme contenute nella l. n. 241/1990 si applicano al TUEL solo in via suppletiva, ove necessario, e nei limiti in cui siano con esso compatibili.
Nella materia che ne occupa, mentre l’art. 22, comma 1, lett. b), l. n. 241/1990 prevede che la legittimazione all’accesso spetti soltanto ai soggetti titolari di un “interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”, l’art. 10 del TUEL non stabilisce invece alcuna restrizione e si limita a prevedere l’esistenza di un’area di atti (non precisata) il cui accesso o è assolutamente precluso per legge o è differibile (tale essendo l’effetto pratico della necessaria dichiarazione del Sindaco) nei casi previsti da un apposito regolamento, a tutela della riservatezza. Secondo la Commissione i diversi contenuti delle due disposizioni citate caratterizzano la specificità del diritto di accesso dei cittadini comunali configurandolo alla stregua di un’azione popolare che non deve essere accompagnata né dalla titolarità di una situazione giuridicamente rilevante né da un’adeguata motivazione.
Ne consegue, sul presupposto che l’Associazione istante abbia sede nel Comune di Angri, l’illegittimità nella specie del diniego opposto dall’Ente locale (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 15.03.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Accesso di consiglieri comunali a documenti di ingente mole comportanti anche notevoli spese di copia.
Il Segretario Generale del Comune di Bernareggio si preoccupa che la richiesta di un consigliere comunale relativa ad un'ingente mole di documenti concernenti, in particolare, i lavori della nuova biblioteca e la realizzazione di una casa alloggio, possa compromettere lo svolgimento regolare delle altre attività degli uffici e che, soprattutto, alcune riproduzioni grafiche comportino –in quanto non eseguibili all’interno dell’Ente– elevati costi.
Chiede, pertanto, a questa Commissione il parere “se è corretto consentire solo la visione del materiale richiesto, dalla lettura del quale il consigliere comunale potrà acquisire tutte le informazioni che, ai sensi dell’art. 43 del T.U. n. 267/2000 ha diritto di conoscere per poi, eventualmente, richiedere copia di specifici documenti. La visione potrebbe avvenire previo accordo con il Responsabile del Settore competente, secondo i tempi necessari per non determinare interruzione delle altre attività di tipo corrente”.
La soluzione operativa che il Comune ritiene di seguire appare corretta.
La Commissione ha avuto già modo di affermare (per un caso analogo cfr. parere del 22.02.2011) che l’esercizio dell’incondizionato diritto dei consiglieri comunali riconosciuto dall’art. 43, TUEL deve essere concordato con l’amministrazione comunale allorché il contenuto complesso dei documenti richiesti renda gravoso il suo adempimento pregiudicando il regolare espletamento dell’ordinaria attività amministrativa dell’Ente o comporti anche spese di copia che potrebbero essere evitate limitando l’accesso, in via preliminare, alla sola visione degli atti circoscrivendone poi il rilascio solo ad alcuni di essi (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 15.03.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Richiesta parere in pendenza di ricorso al Difensore Civico.
Il Ten. ..., Vice-Comandante del Corpo della Polizia Municipale del Comune di Ugento (Lecce), chiede il parere di questa Commissione in ordine alla legittimità del diniego opposto dal Comando della Polizia Municipale alla domanda di accesso relativa a documentazione e informazioni in materia ambientale, e più specificamente in materia di vigilanza ambientale ed abusi edilizi, presentata dal Sig. ...
Tale parere viene chiesto a seguito della richiesta da parte del Difensore Civico della Provincia di Lecce di controdeduzioni sul ricorso presentato dallo stesso Sig. ..................... avverso il non accoglimento della sua domanda di accesso.
Come questa Commissione ha avuto modo di sottolineare in precedenti occasioni non è istituzionalmente corretto che venga richiesto e, tanto più emesso, un parere (che, fra l’altro, non avrebbe alcun effetto giuridico se non quello di creare una possibile discordanza di valutazioni) allorché sia in corso un giudizio sul ricorso amministrativo presentato dinanzi l’Organo competente (Difensore Civico).
Solo nel caso in cui sia quest’ultimo, nell’esercizio delle proprie funzioni, a sottoporre un quesito che la Commissione sarebbe legittimamente investita del conseguente parere (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 15.03.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Accesso a documenti di gara d’appalto per affidamento sevizio di assistenza domiciliare anziani: limiti.
Con e-mail del 26.01.2011 l’ente istante ha chiesto di conoscere se, a parere di questa Commissione, possa essere rigettata la domanda, presentata dal concorrente classificatosi al secondo posto di una gara d’appalto per l’affidamento del servizio di assistenza domiciliare agli anziani, per accedere alla documentazione presentata dalle altre ditte concorrenti (e cioè offerta tecnica, offerta economica, dichiarazioni, ect.). Al riguardo, l’istante ha precisato che l’offerta tecnica contiene le modalità lavorative e di organizzazione industriale del servizio che costituiscono segreto tecnico e commerciale.
L’orientamento consolidato di questa Commissione è nel senso di ritenere che l’art. 13, co. 5, lett. a), d.lgs. n 163/2006 esclude il diritto d’accesso e ogni forma di divulgazione con riferimento “alle informazioni fornite dagli offerenti nell’ambito delle offerte o a giustificazione delle medesime, che costituiscano, secondo motivata e comprovata motivazione dell’offerente, segreti tecnici o commerciali”. Ma il successivo comma 6 ammette l’accesso anche in tali casi qualora esso sia richiesto “in vista della tutela in giudizio dei propri interessi in relazione alla procedura di affidamento del contratto nell’ambito del quale viene formulata la richiesta di accesso”.
In proposito, il Consiglio di Stato (Sez. V, 09.12.2008 n. 6121) ha chiarito che le disposizioni in questione sembrano “ripetere, specificandoli, i principi dell’art. 24 della legge n. 241/1990, che stabilisce una complessa operazione di bilanciamento tra gli interessi contrapposti alla trasparenza e alla riservatezza…. Per non dilatare in modo irragionevole la portata della norma si deve ritenere che essa imponga di effettuare un accurato controllo in ordine dell’effettiva utilità della documentazione richiesta, alla stregua di una sorta di prova di resistenza”: dal che “discende che non è consentito esercitare l’accesso alla documentazione posta a corredo dell’offerta selezionata ove l’impresa aggiudicataria abbia dichiarato che sussistono esigenze di tutela del segreto tecnico o commerciale ed il richiedente non abbia dimostrato la necessità di utilizzare tale documentazione in uno specifico giudizio”.
Pertanto, sarà cura dell’amministrazione interessata comunicare preliminarmente la domanda di accesso al controinteressato e, qualora quest’ultimo manifesti la propria opposizione all’accesso, la p.a. dovrà valutare in concreto anzitutto se gli elaborati allegati all’offerta della ditta aggiudicataria contengano davvero segreti tecnici e/o commerciali e poi l’effettiva necessità di utilizzare il chiesto documento per agire o reagire in uno specifico giudizio, potendosi concedere l’accesso soltanto se effettivamente finalizzato ad esigenza di tutela giurisdizionale, potendo bastare a tal fine la dichiarazione dell’accedente di voler utilizzare il documento a fini di tutela giurisdizionale, senza alcun esame preventivo della reale utilità della sua domanda, salvo la sua macroscopica illogicità o inconferenza (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 15.03.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Comunicazione dati inerenti il domicilio di proprietari di immobili confinanti.
Con e-mail del 07.02.2010 l’istante, intenzionato ad offrire in vendita un proprio terreno agricolo ai terzi confinanti titolari del diritto di prelazione agraria, ha chiesto di conoscere se, a parere di questa Commissione, sia possibile ottenere dalla p.a. (Agenzia del Territorio o delle Entrate) i dati relativi al domicilio dei proprietari degli immobili confinanti, dato necessario per poter inviare a questi ultimi l’offerta di acquisto del terreno. Al riguardo, l’istante segnala di aver potuto reperire, tramite visure catastali, soltanto l’identità anagrafica ed il codice fiscale dei confinanti.
Da quanto è possibile evincere dall’istanza, si chiede se sia possibile ottenere dalle amministrazioni indicate un’informazione (cioè il domicilio fiscale di un soggetto) ricavandola da altri dati già in possesso dell’istante (e cioè identità anagrafica e c.f.). Ciò posto, osserva la Commissione che, ai sensi dell’art. 22, comma 4, della legge n. 241/1990, (e salvo quanto previsto dal decreto legislativo 30.06.02003 n. 196 in materia di accesso a dati personali da parte della persona cui i dati si riferiscono) “non sono accessibili le informazioni in possesso di una pubblica amministrazione che non abbiano forma di documento amministrativo”, così come definito dall’art. 22 comma 1 lettera d) della legge n. 241/1990, e posto che l’art. 2, comma 2, del d.P.R. n. 184/2006 dispone, inoltre, che “la pubblica amministrazione non è tenuta ad elaborare dati in suo possesso al fine di soddisfare le richieste di accesso” (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 15.03.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Accesso di cittadino alla documentazione relativa a denuncia inizio attività.
Lo Sportello Unico per l’edilizia del Comune di Borgonovo Val Tidone ha chiesto a questa Commissione parere in ordine ad una richiesta di accesso ai documenti relativi alla D.I.A. di un cittadino residente avente ad oggetto opere per eliminazione di barriere architettoniche in un’abitazione civile. A tale richiesta si è opposto il controinteressato eccependo che, trattandosi di dati inerenti il figlio minorenne disabile verrebbe a mancare un interesse diretto e concreto ad accedere.
L’opposizione all’accesso, nei limiti di quanto richiesto, non pare accoglibile.
Secondo l’orientamento della Commissione, inaugurato con la direttiva 10.02.1996 e che sembra più aderente all’art. 10 TUEL (“Tutti gli atti dell’amministrazione comunale e provinciale sono pubblici, ad eccezione di quelli riservati per espressa indicazione di legge o per effetto di una temporanea e motivata dichiarazione del sindaco o del presidente della provincia che ne vieti l’esibizione…”) il diritto di accesso agli atti degli enti locali non è condizionato alla titolarità in capo al soggetto accedente di una situazione giuridica differenziata, atteso che l’esercizio di tale diritto è equiparabile all’attivazione di un’azione popolare finalizzata ad una più efficace e diretta partecipazione del cittadino all’attività amministrativa dell’ente locale e alla realizzazione di un più immanente controllo sulla legalità dell’azione amministrativa.
Il principio fondamentale che informa l’orientamento della Commissione sull’applicazione del citato art. 10, TUEL è quello di “specialità:” il legislatore ha, cioè, adottato una disciplina specifica per gli enti locali versata nel TUEL approvato con il d.lgs. n. 267/2000. Tale specialità comporta, in linea generale, che le norme contenute nella l. n. 241/1990 si applicano al TUEL solo in via suppletiva, ove necessario, e nei limiti in cui siano con esso compatibile.
Nella materia che ne occupa, mentre l’art. 22, comma 1, lett. b), l. n. 241/1990 prevede che la legittimazione all’accesso spetti soltanto ai soggetti titolari di un “interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”, l’art. 10 del TUEL non stabilisce invece alcuna restrizione per cui l’istanza di accesso non deve essere accompagnata né dalla titolarità di una situazione giuridicamente rilevante né da un’adeguata motivazione (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 15.03.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Consiglieri comunali: richiesta di una comunicazione settimanale di tutte le determinazioni dei responsabili di settore.
Con nota dell’11 gennaio scorso codesto Comune ha chiesto il parere di questa Commissione circa la richiesta, avanzata da alcuni consiglieri comunali, di ricevere, sino alla fine del loro mandato, copia di tutte le determinazioni dei responsabili di settore.
Al riguardo si osserva che, ai sensi della vigente normativa (dPR 20.10.1998 n. 428, dPCM 31.10.2000, dPR 28.12.2000 n. 445, dPCM 14.10.2003), ogni comune deve provvedere a realizzare il protocollo informatico, al quale possono poi liberamente accedere i consiglieri comunali, i quali pertanto -tramite tale protocollo– possono prendere visione di tutte le determinazioni e le delibere adottate dall’ente; ciò in ottemperanza al principio generale di economicità dell’azione amministrativa, che riduce allo stretto necessario la redazione in forma cartacea dei documenti amministrativi.
Pertanto i consiglieri interessati, dal momento che possono liberamente e direttamente accedere in via informatica a qualsiasi determinazione dei responsabili di settore, non hanno necessità –salvo specifiche eccezioni– di ottenere anche, ed in via generalizzata, copia delle richieste determinazioni, adempimento che costituirebbe una palese diseconomia di gestione con inutile aggravio del normale lavoro degli uffici (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 22.02.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Accesso di consiglieri comunali ad atti amministrativi in materia di edilizia e urbanistica.
Due gruppi consiliari del Comune di Turriaco hanno chiesto l’accesso (mediante rilascio di copia) a tutti i titoli abilitativi all’edificazione previsti dalla normativa vigente (autorizzazioni, concessioni, permessi e denunce di attività) dal 2000 fino al 18.05.2010.
Chiedono a questa Commissione il parere in ordine al diniego –da essi definito “probabile”– che il Comune sembra opporre con la seguente motivazione: ”Giurisprudenza consolidata sostiene che il diritto di accesso sia correttamente esercitato e la richiesta deve essere precisa e puntuale e non indiscriminata, cioè priva dell’individuazione specifica dell’oggetto su cui si dovrebbe esercitare il diritto di accesso…omissis…Nel caso in oggetto le richieste non sono state espresse nelle forme e modalità previste e ritenute opportune al fine di “non aggravare eccessivamente sulla corretta funzionalità amministrativa dell’ente civico”. Inoltre la richiesta deve essere “specifica e dettagliata, indicando l’esatta individuazione degli estremi identificativi degli atti e dei documenti o, qualora siano ignoti tali estremi, almeno degli elementi che consentano l’individuazione dell’oggetto dell’accesso”.
La giurisprudenza riportata dal Comune nella propria lettera (del 16.06.2010) di risposta all’istanza di accesso dei consiglieri comunali interessati (pertinente all’oggetto del quesito) stabilisce per i consiglieri comunali non un limite al loro diritto di accesso (che sarebbe illegittimo) ma modalità di attuazione dello stesso per renderlo compatibile –specialmente quando la mole dei documenti richiesti è notevole– con lo svolgimento dell’ordinaria attività amministrativa dell’ente locale. E’ in questi limiti che va interpretato il presunto diniego del Comune di Turriaco che, fra l’altro, nelle ultime righe della stessa lettera di risposta si dichiara disponibile ad accogliere la richiesta invitando i richiedenti a “prendere apposito appuntamento con il Servizio Tecnico per la visione degli atti specifici e circostanziati per i quali si chiede estrazione e copia.”
E’ un invito ad una concreta collaborazione che sembra opportuno che i consiglieri comunali istanti accolgano anche al fine di evitare una infruttuosa conflittualità (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 22.02.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: Estrazione copia di elaborati di un concorso pubblico.
Il Comune di Serrastretta ha bandito ed espletato un concorso pubblico per l’assunzione di un vigile. Alcuni concorrenti giudicati idonei alla prima prova e quindi non ammessi agli esami successivi hanno presentato istanza di accesso agli atti. L’accesso è stato consentito immediatamente sia per quanto riguarda l’elaborato del candidato richiedente che per quello del concorrente vincitore e degli idonei, e ciò in ottemperanza –sottolinea lo stesso Comune– della consolidata giurisprudenza amministrativa.
Viene chiesto a questa Commissione il parere in ordine alla richiesta di un candidato di estrarre copia degli elaborati dei concorrenti risultati idonei e se, in caso positivo, l’accoglimento dell’istanza debba essere subordinato al consenso dei controinteressati.
La risposta al quesito, in linea con la consolidata giurisprudenza del giudice amministrativo, e anche di questa Commissione, è positiva.
In materia di concorsi pubblici ed in tutti i casi di atti endoprocedimentali il diritto di accesso del concorrente ad accedervi è pieno, non limitato alla sola visione ma anche al rilascio di copia e non condizionato all’assenso del controinteressato il quale, consapevole di partecipare ad una procedura a contenuto comparativo e selettivo, non può opporre motivi di riservatezza a tutela della propria posizione giuridica se non nei casi specificatamente previsti dalla legge (v., per esempio, la normativa sulla partecipazione a gara per l’assegnazione di appalti pubblici) (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 22.02.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: richiesta di accesso a documenti in presenza di contro interessati. Mancata ottemperanza alle decisioni della commissione. Richiesta di parere.
L’istante rappresenta che la Commissione ha già pronunciato una favorevole decisione in esito ad un ricorso -regolarmente notificato ai controinteressati (come pure noto all’amministrazione resistente)- riconoscendogli l’accesso a non meglio specificati documenti amministrativi. Precisa poi che l’amministrazione non avrebbe ottemperato alla pronuncia in quanto, a dire della stessa pa, dovrebbero nuovamente essere informati i controinteressati ai fini di eventuali opposizioni, così perpetuando l’atteggiamento ostruzionistico all’accesso.
Viene, pertanto, chiesto se, nonostante la decisione della Commissione, l’amministrazione possa (ed entro quale termine massimo) ritardare l’accesso ovvero in caso negativo, quali rimedi abbia il cittadino per obbligare l’amministrazione al rilascio dei documenti.
La Commissione osserva che se i controinteressati hanno già avuto comunicazione della copia del ricorso proposto dall’interessato e non hanno opposto alcunché, l’amministrazione non dovrà informare ulteriormente i controinteressati né attendere un’eventuale opposizione da parte loro, in quanto gli obblighi di comunicazione ai controinteressati, previsti dagli artt. 3 e 12 dpr n. 184/2006, devono essere assolti nell’ambito del procedimento amministrativo di accesso ovvero nel procedimento giustiziale innanzi alla Commissione.
Resta fermo che, in caso di perdurante ritardo dell’amministrazione nel concedere l’accesso, pur dopo una decisione favorevole al cittadino in sede di ricorso, la Commissione -nell’esercizio della propria attività consultiva o giustiziale- non può obbligare l’amministrazione, difettando in capo alla prima poteri ordinatori nei confronti della p.a. (ex art. 25 L n. 241/1990), fatta salva l’eventuale possibilità del cittadino di adire il competente Giudice amministrativo, dotato di poteri coercitivi per dare attuazione concreta al diritto di accesso (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 22.02.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Coordinamento tra disciplina dell’accesso e del ricorso gerarchico amministrativo; modalità di tutela dell’istante per l’accesso ai documenti amministrativi. Richiesta di parere.
L’istanza in oggetto sembra porre un duplice ordine di questioni. Da un lato, sembrerebbe indicare un difetto di coordinamento tra disciplina dell’accesso e del ricorso gerarchico amministrativo in quanto, a dire dell’istante, se l’interessato ha chiesto l’accesso per valutare un’eventuale erroneità dell’operato dell’amministrazione e quest’ultima impieghi trenta giorni per consegnare i documenti richiesti, allora di fatto sarebbe inibita la possibilità di proporre ricorso gerarchico, i cui termini di proposizione sarebbero ormai tramontati nelle more dell’accesso. D’altra parte, sembra invece porsi la più semplice questione di quali siano le modalità di tutela dell’istante avverso il comportamento dell’amministrazione che neghi, in tutto o in parte, l’accesso ai documenti amministrativi.
Ciò posto, se la questione fosse nei termini da ultimo descritti, si rammenta che qualora la p.a. neghi, in modo espresso o tacito, in tutto o in parte l’accesso, limitandolo o differendolo, il richiedente può presentare, nel termine di trenta giorni, ricorso gerarchico amministrativo ovvero rivolgersi al tribunale amministrativo regionale ovvero al difensore civico competente per ambito territoriale, oppure alla Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi.
Qualora, invece, il problema fosse il delineato difetto di coordinamento tra la disciplina dell’accesso e quella del ricorso gerarchico amministrativo, la Commissione, pur comprendendo l’importanza e la delicatezza del problema prospettato, non si ritiene competente ai sensi dell’art. 27 legge n. 241/1990, inerendo il parere a settori diversi da quelli strettamente concernenti l’esercizio del diritto di accesso.
Compito della Commissione è infatti quello di garantire la trasparenza dell'attività delle pubbliche amministrazioni, provvedendo anche a dare impulso al governo per modificare il tessuto normativo vigente in tema di accesso ai documenti amministrativi, ma senza poter entrare in altri ambiti, pur connessi, come quello della tutela giurisdizionale o giustiziale amministrativa.
Quindi la Commissione non è tenuta a pronunciarsi sulla presente richiesta, limitandosi a considerare che in mancanza di espressa previsione legislativa, la mera circostanza di aver presentato un'istanza di accesso ai documenti amministrativi, di per sé, non sospende né interrompe la decorrenza dei termini per proporre ricorso gerarchico (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 22.02.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Consiglieri comunali: accesso per via telematica agli archivi informatizzati dei rispettivi enti: quesiti vari.
Con fax del 20.12.2010 codesta Regione Autonoma ha posto a questa Commissione i seguenti quesiti relativi all’accesso per via telematica dei consiglieri comunali della Regione agli archivi informatizzati dei rispettivi enti:
1) se l’accesso possa essere differito sino al momento in cui l’ente abbia adeguato il proprio sistema informatico ed il proprio regolamento alle esigenze specifiche di tale accesso;
2) se l’accesso debba essere limitato alla consultazione del solo elenco degli atti protocollati oppure consenta anche la consultazione degli atti stessi;
3) se l’accesso possa essere escluso per particolari categorie di atti (ad esempio, gli atti elencati nel protocollo riservato del sindaco);
4) se l’accesso possa essere esercitato anche sugli atti precedenti all’assunzione della carica di consigliere comunale;
5) se l’accesso debba avvenire soltanto in modalità locale, e cioè mettendo a disposizione dei consiglieri una postazione all’interno dell’ente, o possa avvenire anche in modalità remota, e cioè da qualsiasi postazione, anche esterna all’ente;
6) se il temporaneo vincolo di riservatezza previsto per alcune tipologie di documenti (gare, appalti, concorsi, ecc.) operi anche nei confronti dei consiglieri comunali.
Al riguardo la Commissione esprime il seguente parere.
1) Non sono stati indicati i motivi per i quali un archivio informatizzato, che sarebbe già operante, potrebbe –di fatto- essere utilizzato dai consiglieri comunali solo previo adeguamento del sistema operativo e del regolamento comunale ad esigenze specifiche dell’accesso proprie di questi ultimi. Se comunque tali motivi sono effettivamente sussistenti e precludono –di fatto- l’accesso per via telematica dei consiglieri comunali non può – ovviamente – che prendersi atto della situazione. Peraltro, trattandosi dell’applicazione di norme risalenti ormai a molti anni fa e che gli enti interessati hanno il dovere e la responsabilità di attuare, ciò non significa che l’accesso possa essere differito sine die né esclude che, nelle more dell’adeguamento, i consiglieri comunali possano usufruire delle postazioni di coloro che hanno accesso al protocollo informatico.
Va infatti ricordato che gli enti locali, al pari di tutte le pubbliche amministrazioni, sono tenuti a curare tutti gli adempimenti a loro carico e quindi devono dotarsi anche dei mezzi (personale, strumentazioni tecniche e materiali vari) necessari all'assolvimento dei compiti finalizzati a garantire il diritto di accesso di cui all’art. 43, comma 2, del T.U.E.L (cfr., su quest'ultimo punto, Cons. Stato, Sez. V, 04.05.2004 n. 2716; cfr. anche Cons. Stato, sez. V, 22.05.2007 n. 929, secondo cui il diritto di accesso agli atti di un consigliere comunale non può subire compressioni per pretese esigenze di natura burocratica dell’Ente, tali da ostacolare l’esercizio del suo mandato istituzionale).
Alla luce delle suesposte considerazioni, si ritiene che l’ente comunale debba compiere in modo responsabile ogni sforzo per assicurare al consigliere comunale l’esercizio del diritto di accesso in via telematica mediante utilizzo della pec per lo scambio di documenti e informazioni, come già ritenuto da questa Commissione con parere n. 3 dell’11 gennaio scorso.
2) Attesa l’ampiezza di poteri d’accesso che l’art. 43 del testo unico sugli enti locali di cui al d.P.R. n. 267/1990 attribuisce ai consiglieri comunali deve ritenersi che essi abbiano diritto di accedere non soltanto all’elenco degli atti protocollati nell’archivio informatico ma anche agli atti stessi.
3) Il diritto d’accesso dei consiglieri comunali non incontra alcun limite legato ad esigenze di riservatezza o addirittura di segreto, dal momento che il citato art. 43 prevede espressamente che i consiglieri debbano mantenere il segreto, con ciò presupponendo che essi abbiano titolo a prendere conoscenza delle notizie o dei documenti segretati. Per quanto poi riguarda eventuali protocolli riservati del sindaco, va precisato che le uniche eccezioni all’accesso sono costituite da eventuali documenti che attengano alla normale vita di relazione del sindaco come privato cittadino e non già come vertice dell’amministrazione comunale.
4) Il diritto d’accesso può essere esercitato sugli atti formati o comunque detenuti da una pubblica amministrazione per motivi di pubblico interesse, indipendentemente dalla data in cui essa li ha formati o acquisiti.
5) Atteso che i consiglieri comunali possono accedere sia a notizie o a documenti segreti sia a notizie od a documenti riservati sarebbe opportuno che l’accesso avvenisse soltanto in modalità locale, mettendo a disposizione dei consiglieri una o più postazioni all’interno dell’ente. Non può peraltro escludersi che l’ente, nell’ambito della sua autonomia organizzativa e –ovviamente- tenendo conto della relativa spesa, possa prevedere forme di accesso anche in modalità remota, e cioè da specifiche postazioni esterne all’ente, in grado di assicurare che terzi non legittimati possano usufruirne.
6) L’esigenza di effettività della funzione di controllo attribuita ai consiglieri comunali postula che essi possano acquisire tempestiva conoscenza di quanto ad essi necessario per l’esercizio del loro mandato. Deve quindi ritenersi che il temporaneo vincolo di riservatezza previsto per alcune tipologie di documenti (gare, appalti, concorsi, ecc.) non operi anche nei confronti dei consiglieri comunali (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta dell'01.02.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Accesso: spese di estrazione di copia.
Con la e-mail a riscontro il Sig. ... ha comunicato che, recatosi presso gli uffici del Comune di Monteverdi Marittimo per ottenere copia di un’ordinanza consistente in una sola pagina, gli sarebbe stato fatto presente che non avrebbe potuto trascrivere a mano il contenuto dell’ordinanza e che per l’eventuale estrazione della copia avrebbe dovuto pagare euro 25, per i diritti tecnici e di segreteria disposti dalla delibera consiliare 09.11.2005 n. 57.
Al riguardo la Commissione, premesso che la delibera consiliare citata non attiene al diritto d’accesso ma alle “tariffe da applicare per servizi prestati dall’U.T.C. nell’interesse di privati,” quali “gli atti ed i provvedimenti soggetti a tassa come concessioni comunali, …. le autorizzazioni per abitabilità di nuove case urbane e rurali, di edifici o parte di essi, ….. altri servizi, spesso effettuati su domanda specifica degli interessati, che comportano spese di vario genere per istruttoria di pratiche” (ipotesi tutte palesemente estranee a quella in esame), fa presente che:
- ai sensi dell’art. 22 della legge n. 241/1990, il diritto d’accesso consiste nel diritto “di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi”, e che nel diritto di visione è insito il diritto di prendere brevi appunti ma non anche quello di trascrivere a mano l’intero contenuto del documento qualora ciò comporti una inutile perdita di tempo dell’impiegato che deve presenziare alla visione;
- che ai sensi del successivo art. 25 il rilascio di copia in carta libera è subordinato soltanto al rimborso del costo di riproduzione (che questa Commissione ha ritenuto potersi quantificare in euro 0,25 ogni due pagine, per le copie in carta libera, ed in euro 0,00, per le copie in via telematica) ed al pagamento degli eventuali diritti di ricerca e di visura;
- che il rilascio di copia di un’ordinanza, che oltre tutto, a quanto si desume dall’esposto del Sig. ..., sarebbe tuttora vigente, non sembra possa comportare oneri tecnici o di ricerca (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta dell'01.02.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Diritto di accesso del consigliere comunale alle liste dei contribuenti comunali.
Il Sig. ..., consigliere di minoranza del Comune di Praia a Mare, dopo aver illustrato il conflitto che da qualche tempo si è instaurato con l’amministrazione comunale (in particolare con il dirigente responsabile dell’Area Entrate e Tributi), in merito al diritto di accesso ai documenti detenuti dall’ente (ed in particolare alle liste dei contribuenti morosi), conflitto che lo ha costretto a rivolgersi ripetutamente al Tar territorialmente competente con esito al medesimo favorevole (e con soccombenza del Comune in alcuni casi al ristoro delle spese legali, circostanza non trascurabile ai fini della possibile esistenza di un danno erariale, n.d.r.), chiede parere a questa Commissione in ordine al diritto dell’amministrazione comunale di poter sospendere o differire l’accesso ai documenti da ultimo richiesti concernenti le “liste di carico” e i “ruoli di riscossione coattiva” di alcuni tributi comunali. Allega alla richiesta fotocopia di corrispondenza intrattenuta con il Comune e delle decisioni adottate dal giudice amministrativo sul precedente contenzioso.
Ritiene la Commissione che il preteso diritto del Comune di Praia a Mare di sospendere o differire l’istanza di accesso, ancorché motivato dallo scrupolo di tutelare la privacy dei cittadini contribuenti, non abbia giuridico fondamento.
Il “diritto di accesso” ed il “diritto di informazione” dei consiglieri comunali nei confronti della P.A. trovano la loro disciplina specifica nell’art. 43, comma 2, del d.lgs. n. 267/2000 (TU degli Enti locali) che riconosce ai consiglieri comunali e provinciali il “diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato”.
Dal contenuto della citata norma si evince il riconoscimento in capo al consigliere comunale di un diritto dai confini più ampi sia del diritto di accesso ai documenti amministrativi attribuito al cittadino nei confronti del Comune di residenza (art. 10, T.U. enti locali) sia, più in generale, nei confronti della P.A. quale disciplinato dalla legge n. 241/1990.
Tale maggiore ampiezza di legittimazione è riconosciuta in ragione del particolare munus espletato dal consigliere comunale, affinché questi possa valutare con piena cognizione di causa la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, onde poter esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della P.A., opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata. A tal proposito, il Giudice amministrativo individua la situazione giuridica in capo ai consiglieri comunali con l’espressione “diritto soggettivo pubblico funzionalizzato”, vale a dire un diritto che “implica l’esercizio di facoltà finalizzate al pieno ed effettivo svolgimento delle funzioni assegnate direttamente al consiglio comunale”.
A tal fine il consigliere comunale non deve motivare la propria richiesta di informazioni, poiché, diversamente opinando, la P.A. si ergerebbe ad arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell’organo deputato all’individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi. Conseguentemente, gli Uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un Consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato e tanto meno subordinare il rilascio della documentazione richiesta al pagamento dei costi di riproduzione.
Quanto alle modalità del rilascio della stessa documentazione, il consigliere comunale deve essere messo in grado di conoscerla tempestivamente al fine di poter svolgere le sue funzioni con piena cognizione di causa, tanto più quando esse si riferiscono ad argomenti posti all’ordine del giorno delle sedute consiliari.
In ordine alla specifica richiesta di accesso a documenti concernenti imposte e tasse, ed in particolare le liste dei contribuenti morosi o meno, questa Commissione si è espressa anche recentemente in senso positivo riconoscendo sia al cittadino ex art. 10 del TUEL (parere del 16.11.2010), sia, e tanto più, al consigliere comunale ex art. 43 dello stesso TUEL (parere dell’11.01.2011) il diritto di accesso ai documenti richiesti, atteso che la salvaguardia della privacy è recessiva rispetto al diritto del cittadino e, a fortiori del consigliere comunale, di vigilare sulla correttezza dell’azione dell’amministrazione comunale, salvo la responsabilità degli stessi derivante da una diffusione contra legem dei dati acquisiti (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta dell'01.02.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Richiesta parere su silenzio-rifiuto al rilascio di atti, notizie ed informazioni opposto dal Comune di Lauria.
Il Dott. ..., in qualità di procuratore speciale del Condominio ..., nonostante ripetuti documentati tentativi di richiesta di accesso agli atti, notizie ed informazioni, nonché di indicazione del responsabile del procedimento, relativi ad una domanda di rimborso IVA ai sensi della l. n. 449/1997, art. 12 per interventi di riparazione e miglioramento sismico, si è visto sempre opporre il silenzio-rifiuto dell’amministrazione comunale. Su tale comportamento, che egli definisce gravemente omissivo, chiede il parere di questa Commissione, invitando la stessa a sospendere il giudizio sul ricorso presentato sullo stesso oggetto in data 09.12.2010 trattandosi di questioni concernenti gli enti locali.
Il silenzio-rifiuto del Comune di Lauria è illegittimo.
Infatti, l’art. 10, comma 2, TUEL assicura al cittadino (e a qualunque altro soggetto giuridico avente residenza nel Comune) il più ampio diritto di accesso ed assicura allo stesso l’informazione sullo stato degli atti e delle procedure che comunque lo riguardi. Nel caso di specie, pertanto, oltre, al generale diritto di accesso del cittadino agli atti comunali si aggiunge l’interesse diretto del Condominio rappresentato dal dott. ... a conoscere lo stato della pratica relativa alla domanda di rimborso in questione, rafforzato dalla necessità di attivare le iniziative finalizzate alla tutela dei diritti e dei legittimi interessi dei condomini facenti parte dell’…
Si rammenta che, in caso di perdurante diniego del Comune di Lauria, l’eventuale ricorso, trattandosi di un atto di ente locale, potrà essere presentato al Difensore Civico (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta dell'01.02.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Accesso di consigliere comunale a fatture di società mista partecipata dal Comune.
Il Comune di Varallo chiede a questa Commissione parere circa la legittimità del diniego della richiesta di un consigliere comunale (di minoranza) di avere copia delle fatture emesse nel biennio 2009-2010 e del bilancio 2009 di società mista a prevalente partecipazione comunale (57%), “trattandosi di atti non detenuti dal Comune ma dalla società stessa e soprattutto in relazione al fatto che si potrebbe ipotizzare la violazione dei diritti del socio privato”.
Il quesito va affrontato e risolto alla luce del disposto contenuto nell’art. 43, comma 2, del TUEL che riconosce al consigliere comunale (e provinciale) il “diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato”.
La dizione letterale della disposizione richiamata, sulla quale si è formata una giurisprudenza consolidata, non lascia alcun dubbio sul diritto del consigliere comunale (e provinciale) ad accedere, in funzione del proprio munus pubblico, a qualunque documento e/o informazione relativi ad aziende ed enti dipendenti dal Comune (o dalla Provincia), come nel caso di specie di società mista a prevalente capitale pubblico.
Circa il rappresentato timore della violazione dei diritti del socio privato, si sottolinea come nel caso che ne occupa il socio privato non ha una posizione giuridica diversa dal socio pubblico quanto alla salvaguardia della privacy -alla quale presumibilmente vuole riferirsi la generica espressione “diritti del socio privato”- e che la salvaguardia della privacy è recessiva rispetto al diritto del consigliere comunale di vigilare sulla correttezza dell’azione dell’amministrazione comunale, salvo la responsabilità del medesimo derivante da una diffusione contra legem dei dati acquisiti (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta dell'01.02.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Modalità di tutela del cittadino in caso di inottemperanza da parte della PA ad un parere reso dalla Commissione accesso.
L’istante, a seguito del favorevole parere di questa Commissione, aveva richiesto all’amministrazione comunale di Monsano (AN) di poter accedere ai registri dello stato civile, dei fogli di famiglia e del ruolo matricolare. Tuttavia il Comune aveva contestato il parere, non consentendo l’accesso. Chiedeva pertanto se fosse opportuno presentare un ricorso alla Commissione sulla stessa questione.
La Commissione, esaminata la questione prospettata dall’istante, si è già pronunciata, rendendo il richiesto parere nel plenum del 15.05.2010. Seppur in astratto l’interessato ha facoltà di proporre ricorso a questa Commissione sulla stessa questione, tuttavia si rappresenta sin da ora che, ai sensi dell’art. 25 della legge n. 241 del 1990, la tutela amministrativa avverso i dinieghi all'accesso agli atti delle amministrazioni comunali provinciali e regionali non rientra nell'ambito di competenza di questa Commissione (che decide i ricorsi contro le amministrazioni centrali e periferiche dello Stato) bensì del Difensore Civico.
Resta comunque salva la facoltà dell’interessato di adire il TAR avverso sia gli atti o i comportamenti dell’Amministrazione che non si sia attenuta alle indicazioni di questa Commissione (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta dell'01.02.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Parere sul termine per la conclusione del procedimento di accesso ai documenti amministrativi ex lege n. 241/1990.
L’istante chiede a questa Commissione quale sia il termine entro cui l’amministrazione, nella specie il Genio Civile cui aveva inoltrato una richiesta di accesso di alcuni imprecisati atti, doveva provvedere al rilascio dei documenti richiesti.
La Commissione premette che la risposta al quesito è facilmente reperibile nelle FAQ (Frequently Asked Question) consultabili sul sito della commissione (www.commissioneaccesso.it).
Ad ogni buon conto, rappresenta che ai sensi dell’art. 25 della legge n. 241/1990, qualora non sia possibile l’accoglimento immediato della richiesta di accesso in via informale (ex art. 5 d.P.R. n. 184/2006), il procedimento di accesso deve concludersi nel termine di 30 giorni decorrenti dalla presentazione della richiesta all'ufficio competente. L’amministrazione può rispondere in modo positivo e permettendo così l'accesso agli atti, sia in modo negativo, rigettando la richiesta o facendo decorrere inutilmente i 30 giorni che determinano la formazione del silenzio rigetto.
Nella specie, l’interessato ha facoltà di rivolgersi in via impugnatoria a questa Commissione nel caso di diniego di accesso agli atti di amministrazione centrale e periferica statale (nei trenta giorni successivi alla piena conoscenza del provvedimento impugnato o alla formazione del silenzio-rigetto amministrazione) ovvero di adire in via giurisdizionale il Tar competente per territorio (entro il termine decadenziale di 30 gg.) (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta dell'01.02.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Richiesta di pagamento di diritti di bollo sui documenti ammessi all’accesso.
L’istante lamenta che il Comune di Mercato San Severino ha subordinato il rilascio di copia di documenti, attinenti ad una procedura espropriativa, al pagamento dei diritti di bollo, come previsto da una delibera della G.C. del 17.11.2010 che impone il rilascio di copie necessariamente autenticate.
Questa Commissione ritiene che la richiesta sia illegittima.
La previsione del rilascio esclusivo di copie autenticate, con pagamento in forma obbligatoria delle marche da bollo, anche quando il soggetto che via abbia interesse chieda copia semplice dei documenti stessi, si pone in contrasto con l’art. 25, co. 1, legge n. 241/1990 secondo cui “l’esame dei documenti è gratuito. Il rilascio di copia è subordinato soltanto al rimborso del costo di riproduzione, salve le disposizioni vigenti in materia di bollo, nonché i diritti di ricerca e di visura” nonché con la previsione di cui all’art. 7, c. 6, del d.P.R. 12.04.2006, n. 184 che prevede: “in ogni caso, la copia dei documenti è rilasciata subordinatamente al pagamento degli importi dovuti ai sensi dell'articolo 25 della legge secondo le modalità determinate dalle singole amministrazioni. Su richiesta dell'interessato, le copie possono essere autenticate”.
Del resto, tali previsioni vanno integrate con le specifiche disposizioni in materia di bollo (ex d.P.R. n. 642/1972), come interpretate dall’Agenzia delle Entrate, la quale ha affermato che l’imposta di bollo non è dovuta qualora oggetto dell’istanza di accesso sia, oltreché l’esame degli atti, anche il rilascio di copie semplici (non conformi) degli stessi (Risoluzione n. 151/E del 05.10.2001).
Nella fattispecie, poiché l’istante non ha chiesto l’autentica delle copie rilasciate e sussiste l’esenzione dall’imposta di bollo, la sua istanza è sottoposta al pagamento dei soli costi di riproduzione, di ricerca e visura (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta dell'01.02.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Oggetto: Accesso di consigliere comunale. Fattispecie.
La Sig.ra ..., capogruppo consiliare nel Comune di Verderio Inferiore, lamenta che in occasione della predisposizione del nuovo PGT, e della discussione per la sua approvazione, la sua richiesta di avere copia della relativa documentazione abbia ricevuto il diniego della immediata messa a disposizione (necessaria al suo gruppo per esprimere un voto consapevole) da parte del Sindaco, documentazione che comunque sarebbe stata rilasciata appena tre giorni prima della seduta consiliare previo pagamento delle spese di riproduzione, secondo quanto stabilito dal regolamento vigente. La stessa capogruppo lamenta, infine, la reticenza da parte del Sindaco nell’inserire nell’ordine del giorno interrogazioni proposte dal suo gruppo opponendo, per una di esse, la non legittimazione del consigliere comunale ad entrare nel merito dell’affidamento di incarichi.
Il “diritto di accesso” ed il “diritto di informazione” dei consiglieri comunali nei confronti della P.A. trovano la loro disciplina specifica nell’art. 43 del d.lgs. n. 267/2000 (TU degli Enti locali) che riconosce ai consiglieri comunali e provinciali il “diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato”.
Dal contenuto della citata norma si evince il riconoscimento in capo al consigliere comunale di un diritto dai confini più ampi sia del diritto di accesso ai documenti amministrativi attribuito al cittadino nei confronti del Comune di residenza (art. 10, T.U. enti locali) sia, più in generale, nei confronti della P.A. quale disciplinato dalla legge n. 241/1990.
Tale maggiore ampiezza di legittimazione è riconosciuta in ragione del particolare munus espletato dal consigliere comunale, affinché questi possa valutare con piena cognizione di causa la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, onde poter esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della P.A., opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata. A tal proposito, il giudice amministrativo individua la situazione giuridica in capo ai consiglieri comunali con l’espressione “diritto soggettivo pubblico funzionalizzato”, vale a dire un diritto che “implica l’esercizio di facoltà finalizzate al pieno ed effettivo svolgimento delle funzioni assegnate direttamente al consiglio comunale”.
A tal fine il consigliere comunale non deve motivare la propria richiesta di informazioni, poiché, diversamente opinando, la P.A. si ergerebbe ad arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell’organo deputato all’individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi.
Conseguentemente, gli Uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un Consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato e tanto meno subordinare il rilascio della documentazione richiesta al pagamento dei costi di riproduzione.
Quanto alle modalità del rilascio della stessa documentazione, il consigliere comunale deve essere messo in grado di conoscerla tempestivamente al fine di poter svolgere le sue funzioni con piena cognizione di causa, tanto più quando esse si riferiscono ad argomenti posti all’ordine del giorno delle sedute consiliari.
In ordine, infine, all’inerzia dimostrata dal Sindaco nell’inserimento all’ordine del giorno di interrogazioni provenienti da un consigliere o da un gruppo consiliare, la Commissione può solo suggerire di far valer nelle sedi competenti (giudice amministrativo) l’eventuale violazione di norme regolamentari di organizzazione dei lavori del Consiglio comunale (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta dell'11.01.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Oggetto: Richiesta parere in ordine ad istanza di accesso alla documentazione di una pratica edilizia.
L’amministrazione comunale di Tortolì ha ricevuto una domanda di accesso ad una pratica edilizia relativa alla ristrutturazione di un fabbricato da destinare alla vendita di prodotti alimentari. L’istanza è stata presentata dal Sig. F.S. in qualità di amministratore di una società del settore con la motivazione di “accertare la conformità dei locali alle concessioni edilizie e al rispetto delle normative vigenti sul commercio”.
Il Comune di Tortolì chiede a questa Commissione se sia tenuto al rilascio degli elaborati progettuali allegati a permessi di costruire già rilasciati ed anche a procedimenti di autorizzazione edilizia ancora non definiti.
Nella specie, trattandosi di atto emesso da ente locale, si rende applicabile l’art. 10 del TUEL il quale consente un “indiscriminato” (cioè svincolato dalla dimostrazione della titolarità di un interesse diretto, concreto ed attuale, così come previsto per i soggetti interessati all’accesso a documenti prodotti o detenuti da amministrazioni centrali, ex art. 24, comma 1, lett. b), della legge n. 241/1990) accesso documentale al cittadino (diritto estensibile alle persone giuridiche e associazioni) che sia residente nello stesso Comune.
Nella specie, ove la società istante (e non l’amministratore che ha presentato la domanda) non avesse sede legale nel Comune di Tortolì l’accesso sarebbe subordinato, come detto, alla dimostrazione di un interesse diretto (oltre che concreto ed attuale) che non può configurarsi nella generica motivazione dell’accertamento della conformità dei locali alle norme edilizie e a quelle vigenti nel settore del commercio.
Per quanto concerne la documentazione afferente a procedimenti ancora in corso -fermi restando i principi applicabili in punto di legittimazione all’accesso come sopra richiamati- l’amministrazione può ricorrere al potere di differimento che gli è consentito dall’art. 24, comma 4, legge n. 241/1990 (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta dell'11.01.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Oggetto: Accesso di consigliere comunale agli elenchi dei contribuenti locali e dei cittadini morosi.
La dott.ssa ..., responsabile dell’area entrate e tributi del Comune di Praia a Mare, chiede se possa continuare a fornire ad un consigliere comunale –che poi ne ha fatto uso improprio divulgandoli anche a mezzo stampa– elenchi di contribuenti morosi nel pagamento dei tributi comunali, essendo, fra l’altro, preoccupata che la reiterazione della condotta divulgativa possa comportare la sua stessa responsabilità nella qualità di responsabile del trattamento dei dati.
La soluzione dei quesiti sottoposti deve essere adottata alla luce della disposizione contenuta nell’art. 43, comma 2, TUEL che, nella prima parte, riconosce al consigliere comunale il diritto di ottenere dagli uffici comunali “tutte le notizie e le informazioni utili all’espletamento del proprio mandato" e, nella seconda parte e proprio per bilanciare l’illimitato diritto di accesso, gli impongono l’obbligo del segreto “nei casi specificamente determinati dalla legge”.
Ora, indipendentemente dall’inclusione della divulgazione dei contribuenti morosi fra i casi soggetti al segreto, sembra a questa Commissione che gli Uffici comunali non possano limitare in alcun caso il diritto di accesso del consigliere comunale, ancorché possa sussistere il pericolo della divulgazione di dati di cui il medesimo entri in possesso. La responsabilità di aver messo in condizione il consigliere comunale di conoscere dati sensibili cede di fronte al diritto di accesso incondizionato del medesimo, ma può essere invocata dal terzo eventualmente danneggiato solo nei confronti di chi (consigliere comunale) del suo diritto ha fatto un uso contra legem (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta dell'11.01.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Oggetto: Diritto del consigliere comunale di minoranza di accedere agli atti istituzionali mediante uso della posta elettronica certificata (cd pec).
Un consigliere comunale di minoranza lamenta che l’ente comunale, pur rilasciando copia elettronica delle deliberazioni di consiglio e di giunta, aveva addotto, per gli atti preparatori, l’impossibilità di spedizione a mezzo posta elettronica certificata, rendendosi comunque disponibile ad altre modalità di trasmissione (non informatica).
Tanto premesso chiede di conoscere il parere della Commissione in ordine alla legittimità dell’uso delle tecnologie informatiche per l’esercizio del diritto di accesso ex art. 43 TUEL ed in particolare se possa chiedere ed ottenere dall’amministrazione il rilascio in formato digitale (a mezzo pec) delle deliberazioni consiliari e di Giunta e dei relativi atti preparatori, così da ottenere in modo rapido ed economico la documentazione necessaria all’espletamento del mandato in vista delle riunioni consiliari.
Il quesito sottoposto all’esame della Commissione concerne una problematica relativa all’impiego delle tecnologie informatiche non strettamente ricompresa nella sfera di competenza della Commissione, che esprime pareri in materia di accesso ai sensi dell’art. 11, co 1, lettera a) del d.P.R. n. 184/2006 nell’esercizio della vigilanza sull’attuazione del principio di piena conoscibilità.
Tuttavia, posto che la questione formulata concerne anche le modalità di esercizio del diritto di accesso, disciplinato dall’art. 43 TUEL, la Commissione ritiene di svolgere le seguenti considerazioni.
Preliminarmente, si osserva che, nell'ambito del nostro ordinamento, esiste un complesso "sistema" normativo in materia di informatizzazione e digitalizzazione della pubblica amministrazione, rivolta alla promozione ed alla valorizzazione delle risorse informatiche che semplificano lo scambio di informazioni tra amministrazioni nonché le modalità di accesso ai documenti.
Si pensi, in linea generale, al nuovo art. 3-bis della L. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005) secondo cui, per conseguire maggiore efficienza nelle loro attività, le amministrazioni pubbliche incentivano l’uso della telematica nei rapporti interni tra le diverse amministrazioni e tra queste ed i privati. Altri cardini della digitalizzazione della p.a. sono costituiti dal D.lgs. n.42/2005, sul c.d. sistema pubblico di connettività, nonché dal regolamento sull’utilizzo della posta elettronica certificata emanato con d.P.R. 11.02.2005 n. 68 -che costituiscono la base giuridica per l’attuazione del progetto e-Government (con l’obiettivo di implementare l’utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nei servizi resi ai cittadini)- e dal d.lgs. n 82/2005, relativo al codice dell’amministrazione digitale, che assicura a cittadini e imprese il diritto di chiedere ed ottenere l'uso delle tecnologie telematiche (tra cui l’uso della pec) nelle comunicazioni con le pubbliche amministrazioni (cfr. art. 3, 4, 6) nonché la possibilità per le singole amministrazioni di disciplinare l'accesso telematico a dati, documenti e procedimenti (art. 52). Di recente, si noti l’art. 11, co. 5, d.lgs. n 150/2009 secondo cui al fine di rendere effettivi i principi di trasparenza, le pubbliche amministrazioni provvedono a dare attuazione agli adempimenti relativi alla posta elettronica certificata di cui all’art. 16 d.lgs. n 82/2005 e 16-bis della legge n 2/2009 nonché dell’art. 34, co. 1, legge n. 69/2009.
Del resto, la possibilità di esercitare l’accesso per via telematica è espressamente prevista dall'art. 13 del regolamento di cui al d.P.R. n. 184 del 12.04.2006, che rinvia all’art. 38 d.P.R. n. 445/2000 per quanto riguarda le modalità di invio telematico delle domande e relative sottoscrizioni nonché agli articoli 4 e 5 del d.P.R. n. 68/2005, recante disposizione per l’invio di posta elettronica. Inoltre, le singole amministrazioni, nell’esercizio dei poteri organizzatori occorrenti per l'esercizio del diritto di accesso previsto dall'art. 1, comma 2, del suddetto d.P.R. n. 184/2006, devono attenersi al contenuto minimo stabilito dal successivo art. 8 dello stesso regolamento le cui lett. c) e d) riguardano, rispettivamente, l’ammontare dei diritti e spese da corrispondere per il rilascio di copie dei documenti e l’accesso ad informazioni contenute in strumenti informatici.
Più in particolare, per gli enti locali, l'art. 12 d.lgs. n. 267/2000 dispone che tali organismi esercitino i compiti conoscitivi e informativi concernenti le loro funzioni in modo da assicurare, anche tramite sistemi informativo-statistici automatizzati, la circolazione delle conoscenze e delle informazioni fra le amministrazioni, per consentirne, quando prevista, la fruizione su tutto il territorio nazionale.
In base al quadro normativo di riferimento e alla ormai generalizzata diffusione degli strumenti informatici presso i soggetti pubblici e privati, questa Commissione ritiene che l’accesso telematico “deve” essere consentito, soprattutto ove richiesto, non solo nei reciproci rapporti posti in essere tra le pubbliche amministrazioni medesime ed in quelli da esse intrattenuti con l'utenza privata ma anche nei rapporti tra le stesse amministrazioni locali e i componenti eletti nei loro organi consiliari.
Il diritto di accesso telematico va garantito anche alla luce del generale dovere della Pubblica Amministrazione di ispirare la propria attività al principio di buon andamento e conseguente economicità e proficuità dell’azione (ex art. 97 Cost.) nonché del principio di leale cooperazione istituzionale tra soggetti pubblici (art. 120 Cost.).
E’ evidente, infatti, che la formazione e l’invio di copie digitali (anziché cartacee) degli atti amministrativi al consigliere comunale consente non solo di risparmiare denaro pubblico (pur a fronte dell'iniziale investimento per le acquisizioni sia dell'hardware che del software), ma anche minori tempi di lavorazione delle richieste di accesso, con più conveniente utilizzazione del personale preposto alle relative incombenze.
Inoltre, il principio di leale collaborazione, che regola l’acquisizione dei documenti tra soggetti pubblici, deve essere estensivamente interpretato ed applicato nell’ottica di favorire e semplificare non solo i rapporti tra le pubbliche amministrazioni ma anche i rapporti interorganici nell’ambito della singolo ente, soprattutto nel caso in cui sia lo stesso consigliere istante che richieda di esercitare l’accesso in via digitale.
Pertanto, la Commissione ritiene che l'Ente civico, nell’ambito della normale potestà regolamentare ad esso spettante ex art. 117 Cost, abbia la possibilità di prevedere, nelle modalità di rilascio di copia delle deliberazioni e degli atri atti, l’uso della tecnologia informatica, onde non pregiudicare o appesantire l’ordinaria attività amministrativa. Ad una disciplina statutaria o regolamentare rinvia, del resto, l'art. 125 TUEL a proposito delle forme da osservarsi per la messa a disposizione dei consiglieri dei testi delle deliberazioni adottate dalla Giunta.
Si consideri, peraltro, che secondo la giurisprudenza amministrativa gli Enti Locali, al pari di tutte le pubbliche amministrazioni, sono tenuti a curare tutti gli adempimenti a loro carico e, quindi, a dotarsi di tutti i mezzi (personale, strumentazioni tecniche e materiali vari) necessari all'assolvimento dei loro compiti finalizzati a garantire il diritto di accesso di cui all’art. 43, co. 2, del T.U.E.L (cfr., su quest'ultimo punto, Cons. Stato, Sez. V, 04.05.2004 n. 2716; cfr. anche Cons. Stato, sez. V, 22.05.2007 n. 929 secondo cui il diritto di accesso agli atti di un consigliere comunale non può subire compressioni per pretese esigenze di natura burocratica dell’Ente, tali da ostacolare l’esercizio del suo mandato istituzionale).
Alla luce delle suesposte considerazioni, si ritiene che l’ente comunale debba compiere in modo responsabile ogni sforzo diligente e tecnico per assicurare al consigliere comunale l’esercizio del diritto di accesso in via digitale mediante utilizzo della pec per lo scambio di documenti e informazioni (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta dell'11.01.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: Oggetto: Accesso a fatture di pagamento e documenti di regolarità contributiva di imprese aggiudicatarie di appalti pubblici.
L’ente civico istante espone che una società cooperativa aveva chiesto il rilascio delle determinazioni di aggiudicazione, delle fatture di pagamento e relativi documenti unici di regolarità contributiva (cd durc) delle imprese affidatarie di appalti di lavori comunali dall'01.05.2010 in poi. Pur confermando l’accessibilità alle determine di aggiudicazione (trattandosi peraltro di atti pubblici), l’amministrazione manifesta a questa Commissione alcune perplessità sulla ostensione delle fatture e relativi “durc”, stante la particolarità del tipo di informazioni richieste.
Non risultando se la società istante abbia partecipato o meno alle procedure di appalto di lavori e servizi cui afferiscono i documenti richiesti, la Commissione ritiene che la questione prospettata vada risolta alla stregua del doppio regime del diritto di accesso (previsto per il cittadino residente e non) dalla legge n. 241/1990 e dal d.lgs. n. 267/2000.
Qualora l’istanza di accesso provenga da un concorrente alle gare di appalto, il partecipante ad un procedimento ha pieno diritto ad accedere agli atti dello stesso procedimento ai sensi dell’art. 10, legge n. 241/1990, senza necessità di dimostrare la titolarità di un interesse diretto e concreto e senza che la sua istanza sia motivata, trattandosi di c.d. accesso endoprocedimentale. L’unico limite all’accesso è previsto dall’art. 24 della citata legge per i documenti relativi a “interessi industriali e commerciali” (come peraltro confermato, in materia di procedimenti ad evidenza pubblica, dall’art. 13 d.lgs. 163/2006 Codice dei contratti pubblici), fatta salva comunque la prevalenza dell’accesso ogniqualvolta la conoscenza dei documenti sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici.
Se invece l’istanza sia presentata da soggetto estraneo alla procedura, opera l’accesso cd “esoprocedimentale” riconosciuto dall’art. 10, co. 1, d.lgs. n. 267/2000 ai cittadini residenti ed alle ditte, aventi o meno personalità giuridica, con sede legale nel territorio comunale. Infatti, la richiamata disciplina sancisce espressamente, ed in linea generale, per i cittadini (ed analogamente per le società, enti o associazioni) residenti (o aventi sede nel comune) il principio della pubblicità di tutti gli atti dell’amministrazione comunale e provinciale, ad eccezione di quelli riservati per espressa indicazione di legge o per effetto di una temporanea e motivata dichiarazione del sindaco che ne vieti l’esibizione, conformemente a quanto stabilito dal regolamento, in quanto la loro diffusione possa pregiudicare il diritto alla riservatezza delle persone, dei gruppi o delle imprese.
Nella specie, poiché la società istante ha sede nel Comune (e dunque non rileverebbe l’eventuale difetto di motivazione dell’istanza) e non pare davvero che la documentazione richiesta contenga davvero segreti tecnici e commerciali (e cioè fatture di pagamento e attestazioni di regolarità nell’assolvimento degli obblighi legislativi nei confronti degli enti previdenziali), l’istanza di accesso deve essere accolta (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta dell'11.01.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Sig. ...: denegato diritto d’accesso.
Con e-mail del 04.11.2010 il Sig. ... ha trasmesso una relazione, indirizzata anche alle Autorità in indirizzo, con cui lamenta di non aver potuto sinora esercitare, a causa di ostacoli di varia natura oppostigli da funzionari della Provincia di Potenza, il diritto d’accesso ai documenti amministrativi del progetto “Vie blu” gestito dalla Provincia stessa, malgrado tale diritto gli sia stato riconosciuto da questa Commissione con parere del 04.03.2010. L’interessato chiede pertanto un’ulteriore intervento da parte di questa Commissione.
Al riguardo questa Commissione non può che far presente che l’ordinamento vigente non le attribuisce il potere di effettuare ulteriori diretti interventi dopo l’emissione del parere o della decisione su ricorso amministrativo; e che pertanto la richiesta dell’interessato non può essere accolta.
Pur tuttavia la Commissione non può esimersi dal rilevare che da quanto esposto dall’interessato nell’indicata relazione emergerebbe un quadro di sistematica elusione del diritto d’accesso del ... e del dovere di trasparenza dell’attività amministrativa, in contrasto con i principi generali sanciti rispettivamente dalla legge n. 241/1990 e dal decreto legislativo n. 150/2009, principi che attengono entrambi al “livello essenziale delle prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione” (art. 29 della legge n. 241/1990 ed art. 11 del decreto legislativo n. 150/2009), e che pertanto, per il loro rilievo di norme di diretta integrazione della Costituzione, costituiscono principi non derogabili da parte della pubblica amministrazione.
Attesa pertanto l’esigenza di verificare la fondatezza delle dichiarazioni dell’interessato si invita il Presidente della Provincia di Potenza a voler riferire sulla questione, ai fini di un’eventuale menzione di essa nella relazione annuale sulla trasparenza della pubblica amministrazione che questa Commissione è tenuta a presentare alle Camere ed al Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi dell’art. 27, comma 5, della legge n. 241/1990.
La presente è inviata, per opportuna conoscenza, anche alla Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche, istituita dal citato decreto legislativo, per le eventuali valutazioni di competenza in ordine ai comportamenti dei responsabili degli uffici che hanno dato luogo alla vicenda.
Si allega, ad ogni buon fine, copia della relazione trasmessa dall’interessato (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 14.12.2010 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Consiglieri comunali: limitazioni all’esercizio del loro mandato da parte del Sindaco - Quesito.
Con nota in data 11 novembre scorso il gruppo consiliare di minoranza del Comune di Sorianello ha fatto presente che il Sindaco ha adottato misure atte ad ostacolare l’esercizio del loro mandato, dal momento che:
a) ha disposto che il diritto d’accesso dei consiglieri comunali agli atti e alle notizie in possesso dagli uffici comunali, e l’eventuale estrazione di copia, possa avvenire soltanto il giovedì dalle 8,30 alle 10,30;
b) in tali limiti, di fatto, il rapporto dei consiglieri comunali di minoranza con gli uffici comunali avverrebbe sempre alla presenza o del Sindaco, o di assessori o di consiglieri di maggioranza;
c) l’eventuale rilascio di copie sarebbe sempre differito, entro un limite massimo di 30 giorni.
Al riguardo la Commissione osserva:
a) i consiglieri comunali hanno una legittimazione all’accesso più ampia e non già più ristretta di quella degli altri cittadini. Di conseguenza, non esiste alcun motivo per cui essi non possano acquisire tutte le notizie ritenute necessarie anche nel normale orario di apertura degli uffici al pubblico. Pertanto l’arco temporale disposto dal Sindaco per l’accesso dei consiglieri comunali è giustificato soltanto se inteso come periodo riservato ai consiglieri comunali, con esclusione del pubblico;
b) l’art. 43 del t.u. n. 267/2000 prevede che i consiglieri comunali possano ottenere tutte le notizie e le informazioni utili all’espletamento del loto mandato direttamente dagli uffici comunali. Quindi non è richiesto né un assenso preventivo all’accesso da parte del Sindaco né un controllo concomitante sull’operato e sulle dichiarazioni degli uffici da parte degli esponenti della maggioranza; controllo concomitante che, potendo condizionare il comportamento degli uffici e quindi compromettere la piena trasparenza dell’azione amministrativa, deve ritenersi contra legem;
c) il rilascio delle copie, ove i documenti siano già immediatamente disponibili, dovrebbe essere effettuato -di regola- lo stesso giorno. In ogni caso, detto termine non dovrebbe superare la settimana dalla richiesta d’accesso (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 14.12.2010 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOGGETTO: Comune di Poggio Sannita: consiglieri comunali: accesso ai tabulati telefonici del Comune.
Con nota in data 08.11.2010, pervenuta il successivo giorno 19, i consiglieri comunali di Poggio Sannita Sigg. ..., ... e ... hanno comunicato di avere chiesto al Sindaco l’accesso ai tabulati telefonici di alcuni uffici comunali e di averne ricevuto un diniego.
Chiedono pertanto un parere di questa Commissione sul comportamento del Sindaco.
Al riguardo, la Commissione fa presente che vero è che i tabulati telefonici non sono qualificabili come documenti amministrativi, ai sensi dell’art. 22, comma 1, lett. d), della legge n. 241/1990, dal momento che essi costituiscono rappresentazione di eventi materiali e non di atti detenuti dalla Pubblica Amministrazione o di attività da essa compiuti, ma l’art. 43 del Testo unico degli enti locali n. 267 del 2000 attribuisce ai consiglieri comunali, in considerazione della natura pubblica del loro munus, non il semplice diritto d’accesso previsto dalla legge n. 241 del 1990 ma il più ampio diritto di ottenere dagli uffici del Comune “tutte le notizie e le informazioni in loro possesso” che siano utili all’esercizio del mandato dei consiglieri stessi; con la conseguenza che l’unico limite di tale diritto è costituito dalla circostanza che si tratti di notizie e di informazioni già acquisite dal Comune e non già di notizie ed informazioni che il Comune, a seguito della richiesta del consigliere comunale, dovrebbe acquisire.
Si esprime pertanto il parere che il Sindaco sia tenuto a consentire l’accesso ai tabulati telefonici che il gestore del servizio trasmette periodicamente al Comune (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 14.12.2010 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: Accesso di organizzazione sindacale all’organizzazione dell’orario di lavoro del personale della Polizia Municipale.
In data 01.10.2010 è pervenuta al Comune di Ciriè la richiesta di accesso agli atti di un’organizzazione sindacale del seguente tenore: “La scrivente O.S., ai sensi della vigente normativa, chiede le vengano forniti tutti i dati necessari per la verifica di una corretta applicazione dei dispositivi contrattuali e concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro di tutto il personale appartenente al Servizio della Polizia Municipale.
A tal proposito si chiedono nello specifico le bollature attestanti l’inizio e la fine del servizio giornaliero, compresi gli straordinari e tutte le prestazioni lavorative effettuate a qualunque altro titolo di ogni dipendente del succitato Servizio a far data dall'01/01/2009.
Si chiede inoltre, per lo stesso periodo di riferimento, il corrispettivo delle ore straordinarie liquidate e/o messe a recupero per ognuno, nonché la quanificazione dei servizi ed il trattamento economico riconosciuto per prestazione lavorativa in giorno di riposo settimanale secondo la disciplina dell’art. 24 CCNL 14/09/2000 e s.m..

In ordine all’accoglimento della richiesta l’amministrazione comunale ha espresso le seguenti perplessità:
1 – la richiesta sembra tendere ad un controllo generalizzato dell’operato dell’Ente, vietato dall’art. 24, comma 3, della legge n. 241/1990 e s.m.i.;
2 – in alcune parti la richiesta è orientata all’acquisizione di dati che devono essere elaborati ad hoc dall’Ente, in quanto non riportati in documenti amministrativi.
La vigente disciplina in tema di accesso prevede che la legittimazione attiva spetti a quanti “abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso” (art. 22, 1° comma, legge n. 241 del 1990).
L’applicazione di tali previsioni alla legittimazione attiva delle Organizzazioni sindacali ha indotto il Consiglio di Stato e, parallelamente, la Commissione (cfr. parere del 14.01.2009), secondo un ormai consolidato orientamento, ad affermare che le Organizzazioni sindacali possono accedere ai documenti amministrativi in materia di gestione del personale solo quando l’istanza è volta a tutelare un interesse proprio del sindacato.
In altri termini, la giurisprudenza ha interpretato il carattere della personalità dell’interesse, ossia la riferibilità delle situazioni a tutela delle quali l’interesse è azionato concretamente ed immediatamente alla sfera giuridica dell’istante, nel senso che questo debba essere proprio dell’Organizzazione e non dei singoli associati.
Inoltre, affinché le Organizzazioni sindacali siano legittimate è necessario che esista un rapporto di strumentalità tra il documento amministrativo oggetto della richiesta e la situazione giuridica soggettiva sostanziale di cui si è titolari, in quanto il diritto di accesso deve essere riferito, come si è detto, ad un interesse proprio dell’Organizzazione sindacale.
In definitiva, le Organizzazioni sindacali, quali soggetti rappresentativi di interessi collettivi, non possono considerarsi titolari di un potere generale di controllo sull’attività amministrativa inteso come connotato implicito dell’attività sindacale, idoneo a consentire comunque l’accesso a tutti i documenti amministrativi, altrimenti si verrebbe ad estendere la latitudine dei diritto di accesso ai documenti amministrativi, fino a configurarlo come una sorta di azione popolare, diretta a consentire una forma di controllo generalizzato sull’amministrazione (cfr., tra i tanti, TAR Emilia Romagna – Parma, sentenza 10.01.2003, n. 16).
Nella fattispecie, la richiesta dell’O.S. sembra diretta all’accertamento del rispetto del CCNL nell’organizzazione dell’orario di lavoro e del trattamento economico del personale della Polizia Municipale, per cui la motivazione che legittima all’accesso è sussistente. Di contro, il contenuto della richiesta e le modalità con le quali il Comune di Ciriè dovrebbe soddisfarla sembrano giustificare le perplessità formulate nell’istanza di parere in quanto effettivamente finalizzate ad un controllo generalizzato ed implicanti un’attività elaborativi da parte dell’amministrazione comunale.
La richiesta dell’O.S. potrebbe, conseguentemente, essere soddisfatta con una informativa da parte del Comune sull’applicazione in materia della disciplina contenuta del CCNL corredata da documentazione a campione di posizioni lavorative di alcune unità di personale ricadenti nelle fattispecie oggetto della domanda di accesso.
Peraltro, qualora l’O.S. istante avesse sede legale nel Comune di Ciriè, si renderebbe applicabile l’art. 10 del TUEL, secondo il quale l’accesso al cittadino (diritto estensibile alle persone giuridiche e alle associazioni) non incontra alcun limite oggettivo per cui la richiesta pur così “invasiva” dovrà essere accolta. Ovviamente i tempi del rilascio della documentazione non potranno pregiudicare lo svolgimento dell’ordinaria attività amministrativa comunale (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 14.12.2010 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Quesito in merito alla correttezza delle modalità di accesso ai documenti amministrativi adottate dal Comune di Boves (CN).
La signora ..., a seguito di una richiesta presentata al Comune di Boves per accedere ad alcuni atti di un concorso a cui ha partecipato, ha chiesto il 12.10.2010 a questa Commissione alcune delucidazioni in merito all’esercizio del diritto di accesso, ritenendo le modalità adottate dal Comune di Boves non aderenti al dettato della legge 241/1990, e che, qualora così fosse, il parere della Commissione venga trasmesso all’Amministrazione.
In particolare la signora ... lamenta il fatto che il Comune imponga, in caso di richiesta di accesso a un documento, la presentazione di due distinte istanze, una per la sola visione e una per l’ottenimento di copia, e riporta ad esempio quanto accadutole l’08.09.2010, in sede di esercizio del diritto di accesso agli atti: avendo, dopo una rapida consultazione dei documenti, chiesto che le venisse rilasciata copia del materiale stesso, le è stato fatto compilare un modulo di “Richiesta copia” e le è stato comunicato che l’Amministrazione avrebbe provveduto al rilascio delle copie entro trenta giorni da questa nuova istanza.
Non appare legittimo a questa Commissione separare il procedimento a seguito del quale viene concessa la visione dei documenti da quello per ottenere l’estrazione di copia, poiché l’esercizio del diritto di accesso deve considerarsi unitario e comprensivo di entrambe le modalità. Ciò emerge dalla lettura dell’art. 25, c. 1, della legge 241 del 1990, il quale prevede che “il diritto di accesso si esercita mediante esame ed estrazione di copia dei documenti amministrativi”, e dalla lettura dell’art. 22, c. 1, lett. a), della legge 241 del 1990, il quale prevede che per diritto di accesso deve intendersi “il diritto degli interessati di prendere visione ed estrarre copia di documenti amministrativi”.
Pertanto, salvo il caso in cui sia lo stesso accedente a voler esercitare il diritto nella forma della sola visione del documento, la disciplina dell’accesso prevede l’esame e l’estrazione di copia come modalità congiunte e ordinarie dell’esercizio del diritto, senza richiamare deroghe o eccezioni di sorta (cfr. ex multis TAR Lazio, sez. III, 30.03.2006, n. 2212).
Ciò non comporta, tuttavia, il diritto per l’accedente alla completa contestualità di visione e copia: va ricordato infatti che, se tale ultima modalità del diritto di accesso non può essere garantita nell’immediatezza, ad esempio per la notevole mole dei documenti chiesti, rientrerà nelle facoltà del responsabile del procedimento dilazionare opportunamente nel tempo il rilascio delle copie richieste, al fine di contemperare tale adempimento straordinario con l’esigenza di assicurare il normale funzionamento dell’attività ordinaria degli uffici, fermo restando che il diritto di accesso non può comunque subire compressioni per pretese esigenze di natura burocratica dell’ente, specie quando, come nell’esempio odierno, ciò causa un inutile aggravio di adempimenti e un allungamento dei tempi di esercizio del diritto (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 14.12.2010 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOGGETTO: Diritto di accesso di un condomino al contenuto di una segnalazione inviata dall’amministratore all’ASL.
Un condomino, abitante in un palazzo ove l’amministratore pro tempore aveva segnalato alla ASL gravi anomalie nel sistema di evacuazione dei fumi provenienti dalle canne fumarie collettive, riferiva di avere inoltrato alla stessa ASL istanza di accesso per acquisire copia della segnalazione in quanto l’amministratore condominiale ne aveva negato più volte il rilascio. Sennonché, la competente ASL, pur rilasciando copia dell’esposto, aveva oscurato l’intestazione, la firma ed altri particolari contenuti nella segnalazione.
Tanto premesso, l’istante chiedeva a questa Commissione un parere per ottenere dalla ASL la copia integrale della segnalazione fatta dal condominio, senza le cancellature apposte al documento.
E’ senza alcun dubbio sussistente un interesse diretto, concreto, attuale dell’istante ad avere copia della segnalazione sia quale condomino, titolare del potere di controllo sulla gestione delle cose comuni (tra cui anche le canne fumarie collettive di aspirazione dei fumi), sia quale eventuale soggetto destinatario dell’esposto in previsione di eventuali procedimenti sanzionatori o ispettivi, tanto che l’amministrazione ha rilasciato copia della segnalazione al condomino istante.
In tale duplice ottica, non appaiono poi sussistere ragioni giustificative dell’oscuramento di alcune parti della segnalazione (verosimilmente inerenti alle generalità dei soggetti coinvolti), prevalendo comunque il diritto di accesso rispetto alla riservatezza.
Ed infatti, l’interesse alla riservatezza, da un lato, non può essere invocato sul contenuto e sugli autori di esposti, segnalazioni o denunce, non costituendo fatti circoscritti al solo autore e all’Amministrazione competente al suo esame, ma riguardando direttamente anche i soggetti “denunciati”, i quali ne risultano comunque incisi; dall’altro, essa recede quando venga in rilievo l’accesso per le necessità di cura e difesa degli interessi giuridici del richiedente ai sensi dell’art. 24, co. 7, legge n. 241/1990, salvo i casi di dati sensibili o supersensibili.
Alla luce di quanto esposto, non pare che la p.a. possa opporre all’interessato esigenze di riservatezza, oscurando dati inerenti il contenuto o le generalità indicate nell’esposto, non venendo peraltro in apparente considerazione dati sensibili o supersensibili (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 14.12.2010 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Richiesta di accesso di consigliere comunale ad atti del Comune inerenti il pagamento dei tributi per le concessioni cimiteriali.
Un consigliere comunale -segnalando che l’ente civico aveva negato l’accesso all’elenco completo, per nominativo, delle concessioni cimiteriali perpetue per le quali l’amministrazione ha chiesto il rinnovo del canone in quanto implicherebbero, a dire dell’amministrazione, la conoscenza di dati riservati inaccessibili ai sensi del codice di protezione dei dati personali approvato con d.lgs. n. 196/2003- sottopone a questa Commissione i seguenti quesiti al fine di conoscere se:
1. l’accesso alle concessioni cimiteriali rientri nell’ambito di quello previsto dall’art. 43 TUEL;
2. l’accesso possa riguardare qualsiasi informazione utile all’esercizio del mandato;
3. l’istanza di accesso debba essere motivata o necessariamente presentata per iscritto e debbano essere indicati specificamente gli estremi degli atti;
4. l’amministrazione possa sindacare l’interesse del consigliere all’accesso agli atti;
5. il diritto di accesso dei consiglieri possa incontrare limiti per la natura riservata delle informazioni;
6. il consigliere comunale, ai fini dell’accesso, debba essere titolare di un interesse diretto attuale e concreto.
Secondo un consolidato orientamento di questa Commissione il “diritto di accesso” ed il “diritto di informazione” dei consiglieri comunali nei confronti della P.A. trovano la loro disciplina specifica nell’art. 43 del d.lgs. n. 267/2000 (TU degli Enti locali) che riconosce ai consiglieri comunali e provinciali il “diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato”.
Dal contenuto della citata norma si evince il riconoscimento in capo al consigliere comunale di un diritto dai confini più ampi sia del diritto di accesso ai documenti amministrativi attribuito al cittadino nei confronti del Comune di residenza (art. 10, T.U. enti locali) sia, più in generale, nei confronti della P.A. quale disciplinato dalla legge n. 241/1990. Tale maggiore ampiezza di legittimazione è riconosciuta in ragione del particolare munus espletato dal consigliere comunale, affinché questi possa valutare con piena cognizione di causa la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, onde poter esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della P.A., opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata (a maggior ragione, per ovvie considerazioni, qualora il consigliere comunale appartenga alla minoranza, istituzionalmente deputata allo svolgimento di compiti di controllo e verifica dell’operato della maggioranza). A tal proposito, il Giudice amministrativo individua la situazione giuridica in capo ai consiglieri comunali con l’espressione “diritto soggettivo pubblico funzionalizzato”, vale a dire un diritto che “implica l’esercizio di facoltà finalizzate al pieno ed effettivo svolgimento delle funzioni assegnate direttamente al consiglio comunale”.
L’ampia accezione conferita al diritto di accesso dei consiglieri comunali, tale da involgere qualsiasi informazione ritenuta dal richiedente utile all’espletamento del mandato elettivo, con esclusione delle sole richieste strumentali ed indeterminate, svincola l’istanza sia dall’onere motivazionale, e dunque dalla prova dell’interesse diretto, concreto ed attuale all’accesso ai documenti richiesti, che da quello formale della espressione in forma scritta, altrimenti la P.A. si ergerebbe ad arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell’organo deputato all’individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi. Conseguentemente, gli Uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un Consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato.
Anche il Giudice di secondo grado accredita una nozione particolarmente lata di informazioni utili all’espletamento del mandato consiliare, precisando che dal “termine "utili" contenuto nella norma in oggetto non consegue, quindi, alcuna limitazione al diritto di accesso dei consiglieri comunali, bensì l’estensione di tale diritto a qualsiasi atto ravvisato utile all’espletamento del mandato” (Consiglio di Stato, Sez. V, 09.10.2007, n. 5264). Né per altro verso può riconoscersi all’Amministrazione uno spazio di sindacato in punto all’interesse del consigliere alla visione degli atti e all’ottenimento delle informazioni, poiché "l’interesse del consigliere comunale ad ottenere determinate informazioni o copia di specifici atti detenuti dall’amministrazione civica non si presta, pertanto, ad alcuno scrutinio di merito da parte degli uffici interpellati in quanto, sul piano oggettivo, esso ha la medesima latitudine dei compiti di indirizzo e controllo riservati al Consiglio comunale (al cui svolgimento è funzionale)” (Consiglio di Stato, Sez. V, 02.09.2005, n. 4471; TAR Liguria, Sez. I, 01/07/2003, n. 827).
Nel caso di specie, le informazioni richieste attengono formalmente all’esercizio del mandato consiliare, essendo esse preordinate a verificare l’efficacia e l’imparzialità dell’azione amministrativa in un settore particolarmente nevralgico come quello dell’effettiva riscossione delle imposte comunali da parte dell’amministrazione competente (TAR Abruzzo, 08/03/2002, sentenza n. 303); e pertanto sono da ritenere accessibili dal consigliere comunale.
Ed anche i dubbi che possono sorgere riguardo alla tutela della riservatezza dei dati richiesti dai consiglieri comunali perdono di fondamento di fronte alla chiara lettera del disposto normativo di cui al 2° comma del medesimo art. 43, laddove stabilisce che “essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge” (cfr. C.d.S. n. 5879/2005; C.d.S., Sez. V, 04.05.2004 n. 2716) nonché di fronte alle previsioni del codice di protezione dei dati personali che consente il trattamento dei dati sensibili da parte di soggetti pubblici, tra l’altro, per funzioni di controllo e indirizzo politico, direttamente connesse all’espletamento del mandato elettivo (arg. ex art. 67, co. 1, lett. a); art. 65, co. 4, lett. b). Inoltre, le richieste di accesso ai documenti avanzate dai Consiglieri comunali ai sensi dell’art. 43, co. 2, d.lgs. n. 267/2000 devono rispettare il limite di carattere generale –valido per qualsiasi richiesta di accesso agli atti- della non genericità della richiesta medesima, con la conseguenza che, oltre alla necessità che l’interessato alleghi la sua qualità, permane l’esigenza che le istanze siano comunque formulate in maniera specifica e dettagliata, recando l’esatta indicazione degli estremi identificativi degli atti e dei documenti o, qualora siano ignoti tali estremi, almeno degli elementi che consentano, come nella specie è avvenuto, l’individuazione dell’oggetto dell’accesso (cfr. C.d.S., Sez. V, n. 4471 del 02.09.2005 e n. 6293 del 13.11.2002).
Infine, l’ampiezza del diritto di accesso dei consiglieri comunali determina, di riflesso, che l’accesso può in astratto indirizzarsi, oltre che, in generale, verso qualsiasi “notizia” o “informazione”, soprattutto verso tutti “i documenti amministrativi e non” formati o, comunque, utilizzati ai fini dell’attività amministrativa, ricomprendendo anche gli atti istruttori interni in qualche modo preparatori e/o propedeutici all’atto definitivo. Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa –e in linea con essa quella di questa Commissione– è consolidata nell’ammettere, ai sensi dell’art. 22, comma 1, lett. d), della legge n. 241/1990, l’accesso anche agli atti preparatori, relazioni o pareri informali anche se non hanno una autonoma rilevanza, estendendo tale diritto anche a bozze o a brogliacci (in questo senso, cfr., da ultimo, parere Commissione 20.04.2009).
Si ritiene che i soprarichiamati principi abbiano dato esauriente risposta ai quesiti sottoposti (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 14.12.2010 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOGGETTO: Consigliere comunale: rapporto diretto con gli uffici comunali.
Con e-mail del 15.10.2010 il Sig. ..., consigliere comunale di Montaldo Mondovì (CN), ha comunicato a questa Commissione di avere presentato, per l’espletamento del proprio mandato, varie domande d’accesso a documenti ed informazioni degli uffici comunali e di avere ricevuto dal sindaco un rifiuto, per la considerazione che le domande erano indirizzate non personalmente al sindaco, legale rappresentante dell’amministrazione comunale, ma al segretario comunale e agli uffici competenti. Sulla questione l’interessato chiede il parere di questa Commissione.
Al riguardo si fa presente che ai sensi dell’art. 43, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 e del conforme art. 30, comma 1, del regolamento sull’accesso del Comune di Montaldo Mondovì, i consiglieri comunali hanno diritto di ottenere tutti i documenti, le notizie e le informazioni utili all’espletamento del loro mandato “dagli uffici” comunali. La normativa prevede quindi tra consigliere comunale ed uffici comunali un rapporto diretto, interno all’amministrazione comunale.
Ne deriva che è estraneo al sistema che la richiesta d’accesso debba essere indirizzata personalmente al sindaco. Né a ciò osta che il sindaco abbia la qualità di legale rappresentante dell’amministrazione comunale. Tale qualità, infatti, rileva esclusivamente ai fini dei rapporti del comune con soggetti terzi, esterni alla struttura organizzativa comunale.
Si esprime pertanto il parere che il rifiuto suddetto sia privo di fondamento giuridico (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 16.11.2010 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOGGETTO: Diritto di accesso del cittadino. In particolare, al bollettino di pagamento della Tari di un terzo cittadino.
La Sig.ra ..., responsabile del Servizio finanziario del Comune di Mamoiada, sottopone a questa Commissione tre quesiti del seguente tenore:
a – se un cittadino possa avere copia del bollettino di pagamento della Tari di un altro cittadino e, in caso positivo, se debba essere informato il controinteressato;
b- se qualunque cittadino (anche se non titolare di un interesse diretto, concreto ed attuale) possa chiedere copia delle determinazioni e dei relativi allegati durante i 15 giorni di pubblicazione;
c – se il cittadino che abbia anche un interesse diretto, concreto ed attuale abbia diritto di prendere visione anche degli allegati e se, in questo caso, si debba tutelare la privacy o garantire la trasparenza.
In ordine al primo quesito, questa Commissione ha già avuto modo (cfr., parere del 24.02.2009) di affrontare la problematica relativa al diritto di accesso all’elenco dei contribuenti soggetti all’imposta sui redditi.
In quella occasione la Commissione osservava che <<il fondamento normativo dell’accesso in esame è da rinvenirsi nell’art. 69 del d.P.R. 600/1973, come modificato dall’art. 42 della legge n. 133 del 06.08.2008 (“accesso agli elenchi dei contribuenti”). Il 1° comma del citato art. 69 prevede la pubblicazione con cadenza annuale degli elenchi nominativi dei contribuenti il cui reddito è stato accertato dagli uffici delle imposte dirette e di quelli sottoposti a controllo globale a sorteggio.
Precedentemente alla parziale modifica intervenuta con l’intervento legislativo del 2008, la disposizione assicurava, inoltre, la conoscibilità da parte di chiunque di tali elenchi al comma 6, laddove stabiliva che gli elenchi “sono depositati per la durata di un anno, ai fini della consultazione da parte di chiunque, sia presso lo stesso ufficio delle imposte, sia presso i comuni interessati”.
Nel vigore della disposizione suddetta, l’orientamento di questa Commissione era nel senso che, relativamente al diritto d’accesso ad imposte e tasse “i dati anagrafici e gli elenchi dei contribuenti che hanno presentato le dichiarazioni annuali modello 740/770 ed IVA non hanno nulla a che vedere con i documenti amministrativi la cui accessibilità la l. 241/1990 vuole garantire e quindi esulano dal suo ambito di applicazione”.
Il nuovo co. 6° dell’art. 69 in questione, risultante dalla modifica apportata dal ricordato art. 42 l. 133 del 2008, riconduce, invece, l’accesso agli elenchi dei contribuenti nell’ambito della disciplina del diritto d’accesso ai documenti amministrativi di cui alla legge n. 241/1990, con una limitazione temporale per l’esercizio dello stesso diritto rispetto alla disciplina generale. Infatti, dopo aver riaffermato che gli elenchi sono depositati per la durata di un anno sia presso lo stesso ufficio delle imposte, sia presso i comuni interessati, la nuova disposizione prevede che “…Nel predetto periodo” (e cioè entro l’anno) “è ammessa la visione e l’estrazione di copia degli elenchi nei modi e con i limiti stabiliti dalla disciplina in materia d’accesso di cui agli artt. 22 e seguenti della legge 07.08.1990, n. 241……..”
.>>
La stessa Commissione chiariva, inoltre, che ancorché l’istanza fosse stata inoltrata ad un Comune, esulava dallo speciale accesso degli enti locali di cui al T.U.E.L. n. 267 del 2000, in quanto si trattava di accesso nei confronti di atti non del Comune, bensì dell’Agenzia delle entrate che si avvale dei Comuni per la pubblicazione prevista dall’art. 69 del d.P.R. 600/1973.
Nella fattispecie, invece, l’accesso è richiesto nei confronti di un terzo contribuente relativamente ad un tributo locale (Tari). Il principio giuridico da adottare in questa ipotesi per rispondere al quesito è quello contenuto nell’art. 10, TUEL che consente a qualsiasi cittadino di avere conoscenza degli atti del Comune senza limitazioni oggettive (tranne quelle imposte con delibera sindacale) né soggettive (l’accesso non è subordinato alla titolarità di un interesse diretto, concreto ed attuale, così come previsto invece per l’accesso agli atti di amministrazioni centrali) e pertanto a prendere non solo visione e ad estrarre copia degli elenchi dei contribuenti comunali, ma ad avere ogni tipo di informazione in possesso dell’amministrazione comunale, fra le quali rientra certamente anche quella attinente al pagamento del tributo locale da parte di altro cittadino.
L’istanza, conseguentemente, deve essere accolta riconoscendo al richiedente il diritto all’informazione richiesta (cioè di una risposta dell’amministrazione comunale in ordine all’avvenuto pagamento o meno del tributo), ma senza il rilascio di copia del bollettino di pagamento del terzo. La comunicazione al cittadino controinteressato sembrerebbe opportuna, ma l’eventuale opposizione non potrà incidere sul diritto di accesso del richiedente nei limiti sopraindicati.
Per quanto riguarda la legittimazione all’accesso dei cittadini residenti, il principio fondamentale che informa l’orientamento consolidato della Commissione sull’applicazione dell’art. 10, TUEL è quello di “specialità:” il legislatore ha, cioè, adottato una disciplina specifica per gli enti locali versata nel TUEL approvato con il d.lgs. n. 267/2000. Tale specialità comporta, in linea generale, che le norme contenute nella legge n. 241/90 si applicano al TUEL solo in via suppletiva, ove necessario, e nei limiti in cui siano con esso compatibile.
Nella materia che ne occupa, mentre l’art. 22, comma 1, lett. b), legge n. 241/1990 prevede che la legittimazione all’accesso spetti soltanto ai soggetti titolari di un “interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”, l’art. 10 del TUEL non stabilisce invece alcuna restrizione e si limita a prevedere l’esistenza di un’area di atti (non precisata) il cui accesso o è assolutamente precluso per legge o è differibile (tale essendo l’effetto pratico della necessaria dichiarazione del Sindaco) nei casi previsti da un apposito regolamento, a tutela della riservatezza. Secondo la Commissione i diversi contenuti delle due disposizioni citate caratterizzano la specificità del diritto di accesso dei cittadini comunali configurandolo alla stregua di un’azione popolare che non deve essere accompagnata né dalla titolarità di una situazione giuridicamente rilevante né da un’adeguata motivazione.
Ne consegue la risposta positiva ai quesiti sub 2 e 3, nel senso del riconoscimento del diritto di accesso incondizionato ed illimitato del cittadino ai documenti indicati. La tutela della privacy va circoscritta, secondo i principi generali, ai dati sensibili dei terzi che riguardano la propria sfera personale, secondo quanto previsto dall’art. 24, comma 6, lett. d), della legge n. 241/1990 e salva l’operatività della salvaguardia del successivo comma 7 (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 16.11.2010 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOGGETTO: Richiesta di accesso a cartellini relativi alla carta d’identità di un defunto.
L’istante ha rappresentato che, a fronte della formale richiesta presentata in qualità di erede per accedere alla copia dei cartellini relativi alla carta d’identità del defunto padre onde verificare l’eventuale apposizione di firme apocrife su atti stipulati dal proprio genitore, il Comune aveva negato l’accesso alla predetta documentazione, ostandovi un divieto previsto da una specifica disposizione del regolamento comunale.
Tanto premesso, ha chiesto a questa Commissione di esprimere un parere sulla legittimità del diniego di accesso, precisando che aveva l’esigenza di tutelare in sede giudiziaria i propri diritti di erede -verosimilmente violati da condotte illecite di terzi che, sottoscrivendo falsamente contratti e documentazione inerente i beni del proprio padre caduti poi in successione- e che lo stesso regolamento comunale (art. 3, co. 6) garantiva comunque l’accesso ai documenti amministrativi per curare o per difendere i propri interessi.
Alla stregua della situazione descritta, è indubbio che l’istante vanti un interesse diretto, concreto ed attuale ad accedere ai documenti richiesti (e di ciò non pare dubitare nemmeno l’amministrazione comunale), in considerazione dell’esigenza di curare il suo interesse giuridicamente rilevante dedotto, esigenza cui l’ordinamento giuridico attribuisce una consistenza tale da garantire comunque l’accesso in questione, ex art. 24, co. 7, della legge n. 241/1990, come del resto risulta ribadito dal regolamento comunale, secondo cui “deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici” (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 16.11.2010 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOGGETTO: Diritto di accesso dei consiglieri comunali ai dati anagrafici di cittadini.
Il Comune di Valle Aurina, a fronte di richieste di accesso ai dati anagrafici dei cittadini pervenute da strutture locali (come il coro, la chiesa, l’orchestra, i vigili del fuoco, ect.) per la promozione di manifestazioni o eventi culturali o ricreativi, ha chiesto a questa Commissione di conoscere:
-) se i consiglieri comunali possano accedere ai dati anagrafici dei cittadini comunali, avvalendosi della generale prerogativa loro riconosciuta dall’art. 43 d.lgs. n. 267/2000 ovvero se tale diritto sia limitato dalla disciplina sulla tenuta degli atti anagrafici ex art. 34 d.P.R. n. 223/1989 che consente la comunicazione degli elenchi della popolazione residente esclusivamente ad altre pubbliche amministrazioni per usi di pubblica utilità o per fini statistici e di ricerca;
-) se il responsabile dell'ufficio anagrafico -responsabile del trattamento dei dati personali ai sensi del d.lgs. 196/2003- possa essere soggetto a sanzioni nel caso il consigliere comunale divulghi i dati ai terzi interessati a conoscere i dati anagrafici dei cittadini.
A parere di questa Commissione i quesiti formulati coinvolgono diverse problematiche tra cui indubbiamente:
1) la compatibilità tra il trattamento dei dati personali, operazione rientrante nell’area disciplinata dal d.lgs. n. 196/2003 (Codice in materia di protezione di dati personali), ed il diritto di informazione del consigliere comunale e provinciale previsto dall’art. 43 del TUEL, tenuto conto che l’art. 59 d.lgs. n. 196/2003 fa salve espressamente le disposizioni di legge in materia di accesso ai documenti amministrativi contenenti dati personali e quindi giustificherebbe la trasmissione di dati personali al consigliere comunale e provinciale alla luce della specifica disposizione dell’art. 43, co. 2, TUEL;
2) la coerenza dei limiti posti al trattamento dei dati personali, essendo richiesto che questi ultimi siano “raccolti e registrati per scopi determinati” (art. 11, comma 1, lett. b), rispetto alla ampiezza del diritto all’informazione dei consiglieri che parrebbe configurare una sorta di controllo generalizzato. Tuttavia, se il trattamento dei dati personali da parte di soggetti pubblici è consentito soltanto per lo svolgimento di funzioni istituzionali (art. 18 co. 2 d.lgs. n. 196/2003) e nel rispetto dei principi di pertinenza (art. 11, co. 1, lett. d), d.lgs. cit.), allora ai consiglieri comunali e provinciali dovrebbe essere consentito l’accesso ai dati personali nella misura in cui siano pertinenti ed utili effettivamente allo svolgimento dei loro compiti, spettando comunque alle Amministrazioni interessate accertare se la richiesta di accesso sia effettivamente funzionale al mandato politico del consigliere;
3) il coordinamento tra il diritto dei consiglieri comunali ad ottenere la trasmissione dei dati personali dei cittadini con i limiti posti dalla speciale disciplina di cui all’art. 34 d.P.R. 223/1989 che consente l’uso di intere basi dati anagrafici alle sole amministrazioni pubbliche (ed al Comune per fini di comunicazione istituzionale ex art. 177 d.lgs. n. 196/2003) e per esclusivo uso di pubblica utilità, potendo detta disposizione escludere gli amministratori locali o i titolari di cariche elettive dall’uso di tali elenchi di dati anagrafici per scopi culturali o ricreativi.
Al riguardo, il Garante per la protezione dei dati personali, per quanto noto, è già intervenuto in altre occasioni sull’utilizzo dei dati anagrafici da parte dei consiglieri comunali (cfr tra gli altri, pareri del 12.02.2004; 20.05.1998; 08.02.2001, 07.03.2001 e da ultimo, parere 06.04.2010 reso dopo l’entrata in vigore del Codice di protezione dei dati personali).
Tuttavia, posto che le questioni oggi enucleate ineriscono ad una fattispecie diversa da quelle affrontate dal Garante, la Commissione ritiene opportuno acquisire in proposito l’attuale parere del Garante per la protezione dei dati personali, in applicazione dei principi stabiliti dall’art. 25, co. 4, della legge 241/1990 (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 16.11.2010 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOGGETTO: ASP Bruno Pai di Ostiano (CR): accesso consiglieri comunali di Ostiano.
Con e-mail del 27.09.2010 l’ASP Bruno Pai di Ostiano (CR), premesso di essere gestita da un Consiglio di amministrazione composto da cinque membri, di cui tre nominati dal Comune di Ostiano e due nominati dalla Regione Lombardia, ha riferito che due consiglieri comunali di Ostiano, dichiarando di agire “per espletamento del proprio mandato elettorale”, hanno rispettivamente chiesto copia di tutti i bilanci dell’Ente a partire dall’anno 2000 e tutte le deliberazioni dell’Ente a partire dall’anno 2009.
Ciò premesso l’Azienda chiede se, a parere di questa Commissione, i consiglieri comunali di Ostiano:
1) possano esercitare nei confronti dell’ASP gli speciali poteri d’accesso loro attribuiti dall’art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000;
2) siano tenuti a corrispondere le somme previste per il rilascio delle copie.
Preliminarmente, la Commissione rileva che l'estensione del diritto di accesso riconosciuto ai consiglieri comunali è particolarmente ampia, dal momento che, a norma del citato articolo 43, comprende tutti i documenti amministrativi e tutte le informazioni utili allo svolgimento del mandato, senza necessità che venga indicata una specifica motivazione; in caso contrario l’Amministrazione comunale si ergerebbe ad arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell'organo deputato all’individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi (Consiglio di Stato, Sez. V, 02/09/2005, n. 4471; TAR Liguria - Sez. I, 01/07/2003, n. 827).
Nel caso di specie le informazioni richieste attengono formalmente all'esercizio del mandato consiliare, essendo esse preordinate a verificare l'efficacia e l'imparzialità dell'azione amministrativa in un settore particolarmente nevralgico qual è quello della salute pubblica e privata.
Ciò premesso la Commissione osserva che il citato articolo prevede che i consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere non solo dai rispettivi uffici ma anche “dalle loro aziende ed enti dipendenti” tutte le notizie e le informazioni utili all’espletamento del loro mandato. Ora nel concetto di “enti dipendenti” dal Comune rientrano sicuramente non solo le aziende di cui il Comune è esclusivo titolare ma anche le aziende delle quali il Comune abbia –come nel caso in esame- l’effettivo controllo.
Deve quindi ritenersi che i consiglieri comunali di Ostiano abbiano diritto di ottenere il chiesto accesso.
In proposito si precisa che, trattandosi di accesso esercitato per l’adempimento di una pubblica funzione e non per fini personali, i richiedenti non sono tenuti a corrispondere alcuna somma per il rilascio delle copie (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 26.10.2010 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALIOGGETTO: Pubblicazione su internet di atti del consiglio e della giunta comunale.
Il Comune di Origgio, nella prospettiva di modificare il proprio “Regolamento per il funzionamento del Consiglio comunale”, chiede a questa Commissione il parere circa gli effetti sulla tutela della privacy della pubblicazione su Internet dei testi delle deliberazioni di Consiglio e di Giunta comunali e della registrazione delle sedute consiliari.
Innanzitutto, in ordine alla possibilità di pubblicare in Internet tutte le deliberazioni adottate dal Comune, la normativa attualmente vigente non pone alcun limite, se non quelli stabiliti dall’art. 24, L. n. 241/1990 che esclude dall’accesso alcuni specifici documenti per motivi di segretezza. Anzi, la più recente legislazione (art. 11, d.lgs. n. 150/2009) favorisce ed amplia la trasparenza “intesa come accessibilità totale, anche attraverso lo strumento della pubblicazione sui siti istituzionali delle amministrazioni pubbliche”.
E’ evidente che la decisione di pubblicare su Internet i testi delle deliberazioni di Consiglio e Giunta comunali e delle registrazioni delle rispettive sedute può andare incontro ai prospettati problemi di tutela della riservatezza sia dei consiglieri comunali (per il contenuto dei loro interventi) che dei terzi destinatari o indicati nelle deliberazioni (per i dati sensibili personali esternalizzati).
Ove decidesse di mantenere ferma questa iniziativa, il Comune potrebbe valutare la possibilità di disciplinare in maniera diversa la “pubblicizzazione” a seconda della tipologia dell’atto che si vuole esternare, cioè del suo contenuto obiettivo.
La pubblicazione informatica degli atti di interesse generale, che investono nel loro complesso la comunità amministrata, non dovrebbe generare problemi di tutela di riservatezza, coincidendo tale tipologia di atti con quelli generalmente esposti nell’albo pretorio che contiene, come è noto, gli atti destinati per legge, regolamento o disposizione comunale, alla conoscenza pubblica e che una recente norma (art. 32, L. n. 69/2009) espressamente impone anche per gli atti e provvedimenti amministrativi la cui pubblicazione ha effetto di pubblicità legale (l’albo pretorio informatico è già utilizzato dai Comuni).
Per gli atti a destinazione individuale sui quali la potestà amministrativa incide nella sfera giuridica del singolo cittadino positivamente (concessioni, autorizzazioni) o negativamente (espropriazioni, occupazioni), non sembrano presentarsi particolari problemi di riservatezza –quanto al contenuto- scaturendo essi da procedimenti amministrativi tipici con presenza del contraddittorio (e di controinteressati).
Per quanto riguarda, infine, la residua categoria dei provvedimenti individuali basati per lo più sulla titolarità di requisiti soggettivi personali la tutela della riservatezza acquista una funzione più pregnante e più delicata proprio per la esposizione di dati più sensibili che bisognerebbe preservare dalla conoscenza diffusa e libera quale è quella della rete telematica.
Ovviamente, per le tre le tipologie di atti sopra sinteticamente delineati il rischio di affievolire la tutela della riservatezza mediante l’accesso diretto al contenuto degli interventi dei consiglieri comunali è maggiore indistintamente per tutte.
Premesse tali considerazioni di ordine generale, questa Commissione ritiene che un più approfondito parere potrebbe essere fornito dall’Autorità garante della Privacy, che avrà certamente affrontato le problematiche legate alla diffusione dei dati via Internet e alla quale la richiesta di parere risulta già indirizzata (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 26.10.2010 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOGGETTO: Richiesta di accesso di un cittadino agli atti della protezione civile.
L’istante, in qualità di cittadino del comune di Villa Santa Lucia, ha lamentato che l’ente civico aveva negato l’accesso ad alcuni documenti (in particolare concernenti delibere e regolamenti istitutivi della protezione civile locale) ed informazioni (tra l’altro, inerenti ai mezzi in dotazione, sui nominativi dei responsabili del controllo dei mezzi, sugli iscritti alla protezione e sulla rendicontazione dell’attività), difettando -a dire dell’amministrazione- un interesse diretto, concreto ed attuale ai sensi della legge n. 241/1990. Tanto premesso, ha chiesto a questa Commissione di conoscere se il diniego fosse illegittimo alla stregua del diverso diritto sancito dall’art. 10 d.lgs. n. 267/2000.
Ciò posto, la questione prospettata deve essere necessariamente affrontata alla stregua del doppio regime di accesso (previsto per il cittadino residente e non) sia quanto alla sussistenza dell’interesse qualificato all’accesso sia quanto alla possibilità del cittadino di accedere anche a mere informazioni.
Quanto al primo aspetto, secondo l’orientamento consolidato della Commissione, il diritto di accesso agli atti degli enti locali del cittadino-residente ex art. 10 d.lgs. n. 267/2000 non è condizionato (diversamente da quanto l’art. 22, comma 1, lett. b, legge n. 241/1990 prescrive per l’accesso ai documenti di amministrazioni centrali dello Stato) alla titolarità in capo al soggetto accedente di una situazione giuridica differenziata, atteso che l’esercizio di tale diritto è equiparabile all’attivazione di un’azione popolare finalizzata ad una più efficace e diretta partecipazione del cittadino all’attività amministrativa dell’ente locale e alla realizzazione di un più immanente controllo sulla legalità dell’azione amministrativa.
Non è, dunque, possibile subordinare il diritto di accesso del cittadino-residente alla dimostrazione della titolarità di un interesse giuridicamente rilevante. Nel caso contrario, ossia qualora l’istante non fosse cittadino residente, l’accesso potrà essere consentito previa dimostrazione della titolarità di una situazione giuridicamente rilevante e sufficientemente qualificata ex art. 22, co. 1, lett. b, della legge n. 241/1990.
Quanto al secondo aspetto, seppur la speciale disciplina prevista dall’art. 10 del d.lgs. n. 267/2000 consenta al cittadino l’accesso anche alle informazioni di cui è in possesso l’amministrazione, tuttavia alla stregua della consolidata giurisprudenza amministrativa è possibile negare l’accesso allorché la richiesta comporti per l’amministrazione, come emerge dal tenore dell’istanza di accesso in esame, un’opera di elaborazione dei dati in suo possesso al fine di soddisfare le richieste di accesso (TAR Sicilia Catania, Sez. IV, 03.05.2008, n. 715; TAR Marche Ancona Sez. I Sent., 10-12-2008, n. 2096).
 Da tali premesse, si può concludere come alla stregua dell’art. 10 d.lgs. n. 267/2000 l’istanza di accesso debba essere accolta solo in parte, rendendo disponibile la documentazione inerente le delibere di giunta ed i regolamenti comunali sulla protezione civile (che peraltro dovrebbe risultare già pubblicata) ma non anche le restanti informazioni oggetto dell’istanza, estranee all’ambito oggettivo dell’accesso del cittadino residente (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 26.10.2010 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOGGETTO: Comunicazione del nominativo di autore di un esposto.
A fronte di un’istanza di accesso presentata al Comune di Trecate da parte del proprietario di alcuni cani per conoscere le generalità di chi aveva inoltrato una segnalazione, da cui era stata avviata una successiva verifica circa il preteso disturbo della quiete pubblica e del riposo derivante dal continuo abbaiare dei cani, il Comando Polizia Municipale ha chiesto a questa Commissione di sapere se possa dare riscontro negativo a detta richiesta, evitando di comunicare il nominativo dell’autore dell’esposto.
L’ente istante ha precisato, altresì, che l’accedente intende tutelare la propria reputazione asseritamente lesa dalla segnalazione, mentre il denunciante si è opposto all’accesso, asserendo di temere eventuali ritorsioni a danno della propria incolumità.
La Commissione ribadisce il costante orientamento giurisprudenziale secondo cui il diritto alla riservatezza non può essere invocato quando la richiesta di accesso ha per oggetto, come nella presente fattispecie, il nome di coloro che hanno reso segnalazioni, denunce o rapporti informativi nell’ambito di un procedimento ispettivo (cfr., C.d.S. Sez. V, 27.05.2008 n. 2511; Sez. VI, 23.10.2007 n. 5569; Sez. VI, 25.06.2007 n. 3601; Sez. VI, 12.04.2007, n. 1699; Sez. V, 22.06.1998 n. 923; Ad. Plen. 04.02.1997 n. 5; cfr anche TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, 29.10.2008 n. 1469).
Ed infatti, ai sensi dell’art. 24 della legge n. 241 del 1990, nel testo novellato, al comma 7, "deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici. Nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l’accesso è consentito nei limiti in sia strettamente indispensabile e nei termini previsti dall’art. 60 del decreto legislativo 30.06.2003, n. 196, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale".
Nel caso in esame, l’istanza di accesso è diretta a conoscere le generalità di chi ha effettuato la segnalazione al Comune, segnalazione da cui è scaturita la successiva verifica da parte degli uffici comunali delle lamentele circa il disturbo della quiete pubblica derivanti dai latrati dei cani.
Non venendo quindi in rilievo i dati sensibili o supersensibili di cui al menzionato art. 60, sono irrilevanti i timori manifestati dall’opponente di esporsi ad eventuali azioni ritorsive, con la conseguenza che deve essere riconosciuto l’accesso al nominativo del denunciante (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 26.10.2010 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOGGETTO: Accesso dei consiglieri comunali agli atti di Società controllate.
Con nota n. 16922 del 19.08.2010 il Sindaco di Castiglione dello Stiviere ha fatto presente che il Comune è unico socio di una S.r.l., che a sua volta è socia di maggioranza di una seconda S.r.l. che opera in campo ambientale e non ha rapporti diretti con il Comune. Ciò premesso il Sindaco ha chiesto di conoscere se, a parere di questa Commissione, i consiglieri comunali di Castiglione dello Stiviere abbiano diritto di ottenere da tale seconda Società le notizie e le informazioni previste dall’art. 43, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000.
Al riguardo si osserva che il citato articolo prevede che i consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dai rispettivi uffici “nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti” tutte le notizie e le informazioni utili all’espletamento del loro mandato. Ora nel concetto di “enti dipendenti” dal Comune rientra sicuramente non solo la Società di cui il Comune è unico socio ma anche la Società alla quale il Comune abbia esternalizzato proprie funzioni e della quale abbia di diritto –come nel caso in esame– o di fatto l’effettivo controllo.
Deve quindi ritenersi che i consiglieri comunali di Castiglione delle Stiviere abbiano a loro volta diritto di accedere agli atti ed alle informazioni della Società in questione, irrilevante restando la circostanza che formalmente i rapporti tra il Comune e quest’ultima non siano diretti ma mediati dall’interposizione di un’altra Società (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 12.10.2010 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: Accesso agli atti della procedura di progressione economica orizzontale.
Con nota del 30.07.2010 n. 0022686, il Comando della Polizia Municipale di Caserta ha comunicato che un proprio dipendente, che aveva partecipato ad una procedura per l’attribuzione della progressione economica orizzontale per il 2009, risultando non utilmente collocato in graduatoria, ha chiesto l’accesso agli atti della procedura stessa, ed in particolare alle schede di valutazione di tutti i concorrenti collocati in posizione utile.
Tale domanda è stata respinta, perché ritenuta preordinata ad un controllo generalizzato dell’operato dell’Amministrazione. Sulla questione viene chiesto il parere di questa Commissione, facendo presente che la questione è stata sottoposta al Difensore Civico (senza peraltro precisare se ciò sia avvenuto mediante formale ricorso, ai sensi dell’art. 25 della legge n. 241/1990, ovvero mediante semplice richiesta di parere).
Al riguardo la Commissione osserva, in via preliminare, che se la questione ha formato oggetto di apposito ricorso al Difensore Civico questa Commissione non ha alcuna competenza per intervenire, poiché le controversie in materia di accesso ad atti comunali sono di esclusiva competenza del Difensore Civico.
Se invece al Difensore Civico è stato richiesto un semplice parere ciò non preclude a questa Commissione di esprimere il proprio avviso, nei seguenti termini. In casi analoghi è stato costantemente ritenuto che, trattandosi di accesso procedimentale, ai sensi dell’art. 10 della legge n. 241/1990, l’interessato abbia diritto di ottenere copia dei documenti della procedura, ed in particolare delle schede valutative dei concorrenti utilmente graduati, dal momento che questi ultimi, partecipando ad una selezione pubblica, hanno implicitamente accettato che i loro dati personali esposti nella graduatoria stessa potessero essere resi conoscibili da tutti gli altri concorrenti a ciò interessati (quali sono senza dubbio i concorrenti non utilmente graduati).
Né in ciò può ravvisarsi un controllo generalizzato dell’attività della pubblica Amministrazione, dal momento che in tali casi l’accesso concerne i documenti amministrativi di un singolo specifico procedimento e non la generale attività dell’Amministrazione (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 12.10.2010 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOOGGETTO: Accesso a graduatoria interna per progressione orizzontale.
Con e-mail del 22.08.2010, la Sig.ra ..., dipendente comunale, premesso di avere partecipato ad una selezione interna per progressione orizzontale e di avere poi chiesto copia della relativa graduatoria, ottenendone un rifiuto, chiede se a parere di questa Commissione:
1) possa inoltrare domanda di riesame al Comune;
2) tutti gli altri partecipanti collocati in graduatoria debbano ritenersi
controinteressati, dal momento che la graduatoria espone i loro dati personali, e debbano quindi essere preventivamente invitati a comunicare la loro eventuale opposizione.
Al riguardo la Commissione ritiene:
1) che l’interessato all’accesso, in caso di rifiuto da parte dell’Amministrazione, possa presentare domanda di riesame. Va però tenuto presente, in primo luogo, che l’Amministrazione, qualora tale domanda non sia fondata su circostanze o interessi già rappresentati nell’originaria domanda d’accesso, non è tenuta a provvedere e, in secondo luogo, che la domanda di riesame non sospende né interrompe il termine stabilito dall’art. 25, comma 4, della legge n. 241/1990 per proporre ricorso al difensore civico, sicché l’interessato potrebbe consumare inutilmente il termine per proporre tale ricorso;
2) che, trattandosi di accesso endoprocedimentale, ai sensi dell’art. 10, della legge n. 241/1990 l’interessato abbia diritto di ottenere copia della chiesta graduatoria senza alcun necessità di una preventiva notifica agli altri graduati, dal momento che questi ultimi, partecipando ad una selezione pubblica, hanno implicitamente accettato che i loro dati personali esposti nella graduatoria stessa potessero essere resi conoscibili da tutti gli altri concorrenti a ciò interessati (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 12.10.2010 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOGGETTO: Richiesta di parere concernente l’accesso al registro di protocollo da parte di un consigliere comunale.
Con nota pervenuta il 09.09.2010 l’Arch. ..., capogruppo di minoranza del consiglio comunale di Melizzano, ha rappresentato che l’ente aveva negato l’accesso al protocollo entrata/uscita dal 18.12.2009 all’11.01.2010. Chiede pertanto un parere a questa Commissione sulla legittimità del diniego in quanto lesivo delle prerogative in materia d’accesso stabilite per i consiglieri comunali.
La Commissione osserva, anzitutto, che il Comune non pare abbia negato il diritto del consigliere all’accesso al protocollo ma anzi ha comunicato la possibilità di accedere negli orari previsti dal regolamento prendendo visione e richiedendo copia degli atti.
Semmai, a fronte delle considerazioni aggiuntive formulate in linea generale dall’ente comunale sia sull’inammissibilità di richieste che si traducano in eccessivo e minuzioso controllo degli atti, determinando la paralisi dell’attività amministrativa, sia sulla necessità che il consigliere comunale debba essere portatore di un interesse diretto, concreto ed attuale, questa Commissione ritiene di rammentare i consolidati principi che regolano il diritto di accesso dei consiglieri.
Il “diritto di accesso” ed il “diritto di informazione” dei consiglieri comunali nei confronti della P.A. trovano la loro disciplina specifica nell’art. 43 del d.lgs. n. 267/2000 (T.U. degli Enti locali) che riconosce ai consiglieri comunali e provinciali il “diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato”.
Dal contenuto della citata norma si evince il riconoscimento in capo al consigliere comunale di un diritto dai confini più ampi sia del diritto di accesso ai documenti amministrativi attribuito al cittadino nei confronti del Comune di residenza (art. 10, T.U. Enti locali) sia, più in generale, nei confronti della P.A. quale disciplinato dalla legge n. 241/1990.
Tale maggiore ampiezza di legittimazione è riconosciuta in ragione del particolare munus espletato dal consigliere comunale, affinché questi possa valutare con piena cognizione di causa la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, onde poter esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della P.A., opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata (a maggior ragione, per ovvie considerazioni, qualora il consigliere comunale appartenga alla minoranza, istituzionalmente deputata allo svolgimento di compiti di controllo e verifica dell’operato della maggioranza).
A tal fine il consigliere comunale non deve motivare la propria richiesta di informazioni, poiché, diversamente opinando, la P.A. si ergerebbe ad arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell’organo deputato all’individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi. Conseguentemente, gli Uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un Consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato.
In tale ottica, non appare compatibile con l’art. 43 TUEL la disciplina di cui all’art. 22 della legge n. 241/1990 nel quale si fa riferimento alla titolarità di un interesse diretto, concreto ed attuale quale requisito soggettivo per avere diritto all’accesso e ai poteri dell’amministrazione di accertare la presenza di tale condizione.
Infatti, “ogni limitazione all’esercizio previsto dall’art. 43 interferisce inevitabilmente con la potestà istituzionale del consigliere comunali di sindacare la gestione dell’ente onde assicurarne –in uno con la trasparenza e la piena democraticità– anche il buon andamento”.
Anche per quanto riguarda le modalità di accesso alle informazioni e alla documentazione richieste dal consigliere comunale, costituisce principio giurisprudenziale consolidato (cfr., fra le molte, C.d.S., Sez. V, 22.05.2007 n. 929) quello secondo cui il diritto di accesso agli atti di un consigliere comunale non può subire compressioni per pretese esigenze di natura burocratica dell’Ente, tali da ostacolare l’esercizio del suo mandato istituzionale, con l’unico limite di poter esaudire la richiesta (qualora essa sia di una certa gravosità) secondo i tempi necessari per non determinare interruzione alle altre attività di tipo corrente e ciò in ragione del fatto che il consigliere comunale non può abusare del diritto all’informazione riconosciutogli dall’ordinamento pregiudicando la corretta funzionalità amministrativa dell’ente civico con richieste non contenute entro i limiti della proporzionalità e della ragionevolezza.
La non specificità della richiesta (che, peraltro, riguarda il registro di protocollo inerente ad un periodo di tempo delimitato) e la gravosità della stessa (riguardando del resto gli atti in entrata e in uscita inerenti un brevissimo lasso di tempo dal 18.12.2009 all’11.01.2010) non costituiscono validi motivi per limitare il diritto di accesso in esame (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 12.10.2010 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOGGETTO: Richiesta di parere concernente l’accesso all’elenco delle determine di vari settori del Comune da parte di Consiglieri comunali.
Con nota pervenuta il 09.09.2010, l’Arch. ..., capogruppo di minoranza del consiglio comunale di Melizzano, ha rappresentato che l’ente comunale:
a) aveva negato l’accesso all’elenco delle determine di vari settori del Comune dall’anno 2005 sino ad oggi, in quanto riguardanti atti adottati precedentemente alla elezione del consigliere;
b) aveva svolto considerazioni generali sia sull’inammissibilità di richieste dei consiglieri che si traducano in eccessivo e minuzioso controllo degli atti sia sulla necessità che il consigliere comunale debba essere portatore di un interesse diretto, concreto ed attuale.
Pertanto, l’istante ha chiesto a questa Commissione un parere sulla condotta tenuta dal Comune, ritenendo illegittimo il comportamento descritto ai precedenti punti sub a) e b) poiché lesivo delle prerogative in materia d’accesso stabilite per i consiglieri comunali.
Quanto al primo punto, si ricorda che non v’è alcuna valida ragione per comprimere il diritto di accesso dei consiglieri comunali quando la richiesta riguardi atti relativi ad anni precedenti l’elezione alla carica poiché, secondo la giurisprudenza consolidata e le precedenti pronunce di questa Commissione (cfr in senso conforme plenum 22.09.2009), le richieste di accesso agli atti del Comune formulate dai consiglieri comunali, qualora rientrino nelle facoltà di esercizio del loro munus, non possono essere irragionevolmente limitate, attesa l’ampiezza del diritto di accesso riconosciuto al consigliere dall’art. 43 del d.lgs. 18.08.2000.
Quanto al secondo punto, la Commissione, nel ribadire i principi generali espressi in materia di accesso dei consiglieri comunali, ritiene che:
1) ancorché anche le richieste di accesso ai documenti avanzate dai Consiglieri comunali ai sensi dell'art. 43, co. 2, d.lgs. n. 267/2000 debbano rispettare il limite di carattere generale –valido per qualsiasi richiesta di accesso agli atti– della non genericità della richiesta medesima (cfr. C.d.S., Sez. V, n. 4471 del 02.09.2005 e n. 6293 del 13.11.2002), nella fattispecie l’istanza non appare inammissibile per genericità atteso che il registro generale di protocollo costituisce di per sé documento autonomo –come tale suscettibile di accesso– dalla lettura del quale il consigliere comunale potrà acquisire tutte le informazioni che, ai sensi dell’art. 43, comma 2, T.U. n. 267/2000 ha diritto di conoscere per poi, eventualmente, richiedere l’accesso a specifici documenti.
In ogni caso, costituisce principio giurisprudenziale consolidato (cfr., fra le molte, C.d.S., Sez. V, 22.05.2007 n. 929) quello secondo cui il diritto di accesso agli atti di un consigliere comunale non può subire compressioni per pretese esigenze di natura burocratica dell’Ente, tali da ostacolare l’esercizio del suo mandato istituzionale, con l’unico limite di poter esaudire la richiesta (qualora essa sia di una certa gravosità) secondo i tempi necessari per non determinare interruzione alle altre attività di tipo corrente e ciò in ragione del fatto che il consigliere comunale non può abusare del diritto all’informazione riconosciutogli dall’ordinamento pregiudicando la corretta funzionalità amministrativa dell’ente civico con richieste non contenute entro i limiti della proporzionalità e della ragionevolezza;
2) il “diritto di accesso” ed il “diritto di informazione” dei consiglieri comunali nei confronti della P.A. trovano la loro disciplina specifica nell’art. 43 del d.lgs. n. 267/2000 (T.U. degli Enti locali) che riconosce ai consiglieri comunali e provinciali, in ragione del particolare munus espletato, un diritto dai confini più ampi sia del diritto di accesso ai documenti amministrativi attribuito al cittadino nei confronti del Comune di residenza (art. 10, T.U. Enti locali) sia, più in generale, nei confronti della P.A. quale disciplinato dalla legge n. 241/1990.
A tal fine il consigliere comunale non deve motivare la propria richiesta di informazioni, poiché, diversamente opinando, la P.A. si ergerebbe ad arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell’organo deputato all’individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi. Conseguentemente, gli Uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un Consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato.
In tale ottica, non appare compatibile con l’art. 43 TUEL la disciplina di cui all’art. 22 della legge n. 241/1990 nel quale si fa riferimento alla titolarità di un interesse diretto, concreto ed attuale quale requisito soggettivo per avere diritto all’accesso e ai poteri dell’amministrazione di accertare la presenza di tale condizione. Infatti, “ogni limitazione all’esercizio previsto dall’art. 43 interferisce inevitabilmente con la potestà istituzionale del consigliere comunale di sindacare la gestione dell’ente onde assicurarne –in uno con la trasparenza e la piena democraticità– anche il buon andamento” (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 12.10.2010 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOGGETTO: Richiesta di parere concernente il diritto di accesso dei consiglieri comunali.
Con nota pervenuta il 09.09.2010 l’Arch. ..., capogruppo di minoranza del consiglio comunale di Melizzano, ha comunicato che:
a) con deliberazione n. 26/2009 del 21.07.2009 sono stati approvati gli artt. 2 e 5 del regolamento consiliare per l’accesso agli atti dei consiglieri comunali. Tali modifiche avrebbero leso le prerogative in materia d’accesso stabilite per i consiglieri comunali e pertanto ne sollecitava l’annullamento;
b) l’ente comunale ha, in più occasioni, illegittimamente negato, in tutto o in parte, in modo espresso o tacito, l’accesso a copie di documenti vari (determine, delibere, elaborati progettuali) richiesti per lo svolgimento del proprio mandato consiliare.
Quanto al punto sub a), si rileva preliminarmente che il regolamento Comunale non risulta a suo tempo trasmesso a questa Commissione, in contrasto con quanto stabilito dal d.P.R. 12.04.2006 n. 184, art. 1, co. 2. Si segnala pertanto l’esigenza che a ciò venga provveduto.
In particolare, il regolamento comunale:
1) all’art. 2 ultimo comma ha disposto che l’accesso non può riguardare “….atti e delibere adottati precedentemente all’elezione del consigliere comunale…”, salvo per quelli presupposti o comunque collegati ad atti da adottarsi nell’espletamento del mandato;
2) all’art. 5, co. 1, sono stati aggiunti gli orari “….nei giorni di martedì, mercoledì, giovedì, venerdì dalle ore 8 alle ore 14” in cui i consiglieri comunali possono accedere agli uffici del comune;
3) all’art. 5, co. 5, è previsto che l’accesso si esercita unicamente mediante rilascio di copie “unicamente… in forma cartacea…”;
4) all’art. 5, co. 6, è fissato il termine di rilascio delle copie in “…trenta giorni lavorativi…” per richieste di oltre cinque atti ovvero di documenti con fogli superiori a trenta.
In merito alle segnalazioni dell’istante, si rappresenta che:
- sub 1) non v’è alcuna valida ragione per comprimere il diritto di accesso dei consiglieri comunali quando la richiesta riguardi atti relativi ad anni precedenti l’elezione alla carica poiché, secondo la giurisprudenza consolidata e le precedenti pronunce di questa Commissione (cfr in senso conforme plenum 22.09.2009), le richieste di accesso agli atti del Comune formulate dai consiglieri comunali, qualora rientrino nelle facoltà di esercizio del loro munus, non possono essere irragionevolmente limitate, attesa l’ampiezza del diritto di accesso riconosciuto al consigliere dall’art. 43 del d.lgs. 18.08.2000;
- sub 2) la limitazione dell’orario d’accesso agli uffici (aperti ai consiglieri 6 ore al giorno per quattro giorni a settimana, ad esclusione della giornata di lunedì e del mercoledì pomeriggio) non è di per sé sola lesiva delle prerogative del consigliere comunale, dal momento che l’esercizio della funzione di consigliere comunale comporta il diritto ad ottenere i documenti amministrativi e le notizie richieste, senza subire compressioni per pretese esigenze di natura burocratica dell’ente, ma non a disporre senza limiti del tempo del personale degli uffici. Quindi, la disposizione non sembra contenere irregolarità atteso che è ispirata dall’esigenza di evitare ritardi e disservizi nell’ordinaria attività amministrativa;
- sub 3) la contrazione delle modalità di accesso alla esclusiva forma cartacea non appare conforme ai generali principi di economicità ed efficienza dell’azione amministrativa poiché l’ente ha il dovere di corrispondere alla richiesta di accesso su supporto informatico (ovvero mediante password di servizio), tenendo conto sia dell’esigenza di non appesantire ingiustificatamente l’onere finanziario che l’accoglimento della richiesta comporta sia al fine di evitare che le continue richieste di accesso si trasformino in un aggravio della ordinaria attività amministrativa dell’ente locale;
- sub 4) la previsione di un termine per evadere la richiesta di accesso (ordinario di 7 gg. e speciale di 30 gg. nei casi di numerosi documenti) potrebbe in astratto determinare la concreta soppressione delle prerogative del consigliere nei casi di procedimenti urgenti o che richiedano l’espletamento delle funzioni politiche entro un termine inferiore a quello previsto. Onde scongiurare tale pericolo, è necessario che l’ente garantisca l’accesso al consigliere comunale nell’immediatezza, e comunque nei tempi più celeri e ragionevoli possibili. Nel caso in cui l’accesso non possa essere garantito subito (per eccessiva gravosità della richiesta), rientrerà nelle facoltà del responsabile del procedimento dilazionare opportunamente nel tempo il rilascio delle copie, ferma restando la facoltà del consigliere comunale di prendere visione, nel frattempo, di quanto richiesto negli orari stabiliti presso gli uffici comunali competenti, anche con mezzi informatici. In tale ottica, del resto, si pone anche il regolamento in esame che l’art. 5, co. 2, del regolamento assicura sempre l’accesso, durante l’ordinario orario di ufficio, alle proposte di deliberazioni all’o.d.g. del Consiglio e alla documentazione correlata.
Si fa, infine, presente che l’autorità competente ad annullare eventuali determinazioni amministrative illegittime è il giudice amministrativo e non anche questa Commissione, salve le iniziative di modifica regolamentare (già attivate ma purtroppo tramontate) rimesse alla autonoma valutazione del Consiglio Comunale.
Quanto al punto sub b), si rammenta che alle istanze di accesso formulate dai consiglieri comunali in funzione del mandato non possono essere opposti dinieghi di sorta –con le poche eccezioni contingenti da motivare puntualmente e salvo il caso, da comprovare adeguatamente, che essi agiscano per un interesse personale– determinandosi altrimenti un illegittimo ostacolo all'esercizio delle loro funzioni che comprendono la verifica della correttezza dell'operato degli organi comunali (cfr. C.d.S., Sez. IV, 21.08.2006, n. 4855).
Con riguardo al caso di specie, essendo esplicitato che i documenti sono utili allo svolgimento del mandato politico e non emergendo, prima facie, che la richiesta sia indeterminata o irragionevole, appare ingiustificato il diniego opposto in forma espressa o tacita alle istanze di accesso rivolte dal consigliere (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 12.10.2010 - link a www.commissioneaccesso.it).

NEWS

AMBIENTE-ECOLOGIAAmbiente. Chiarite le modalità di presentazione del Mud. La comunicazione Sistri anche con i vecchi moduli.
Doppia abrogazione che conferma. Non convenzionale, ma sicuramente pratica la soluzione prospettata per superare il dilemma sulle modalità di presentazione del modello unico di dichiarazione ambientale (Mud), un adempimento che coinvolge oltre 300mila imprese e enti.
Sia i produttori iniziali di rifiuti sia i gestori di impianti di recupero e smaltimento potranno scegliere se comunicare i dati relativi al 2011 per mezzo del portale Sistri, compilando on-line il cosiddetto "Mudino", o usando i tradizionali moduli e le regole di presentazione definite dal Dpcm 27.04.2010. La possibilità di utilizzare anche quest'anno la vecchia modulistica, abrogata prima dal Dlgs 205/2010 e poi dal Dpcm del 23.12.2011, è indirettamente confermata dalla diffusione del software per la compilazione tramite i siti internet delle Camere di commercio.
Il temporaneo ripristino dei moduli abrogati, che anche l'anno scorso era stato legittimato dalla circolare del ministero dell'Ambiente del 02.03.2011, supera le difficoltà connesse alla "comunicazione Sistri", introdotta dal Dm istitutivo della tracciabilità dei rifiuti (articolo 12, comma 1, Dm 17.12.2009) e in seguito confermata dal regolamento d'attuazione Sistri (articolo 28, comma 1, Dm 52/2011), come unica possibilità di adempiere all'obbligo di comunicazione annuale al catasto dei rifiuti. L'accesso al portale Sistri per l'imputazione dei dati è riservato ai delegati Sistri dell'impresa o dell'ente e impone l'impiego delle chiavette Usb con i certificati di firma digitale. Questa scelta esclude perciò le associazioni imprenditoriali, se non sono state delegate, e i consulenti.
Il portale Sistri non consente neppure l'acquisizione telematica dei file di dati elaborati dai software gestionali utilizzati dalle imprese, funzionalità da anni garantita dal sito www.mudtelematico.it, un sistema che consente alle associazioni e ai consulenti delegati dalle imprese di trasmettere le dichiarazioni sottoscrivendole con la propria smart card.
I produttori iniziali di rifiuti, a differenza dei gestori di impianti di recupero o smaltimento per i quali è prescritta la trasmissione dei dati su supporto magnetico o l'invio telematico, potranno scegliere anche di predisporre il Mud definito dal Dpcm 27.04.2010 su supporto cartaceo, spedendolo o consegnandolo alle Camere di commercio.
Oltre al programma per la compilazione del vecchio Mud, è stato rilasciato anche il software che permette ai gestori di veicoli fuori uso di elaborare il file di dichiarazione conforme alle specifiche definite dal Dpcm 23.12.2011, che quest'anno può essere trasmesso solo tramite il sito www.mudtelematico.it.
È disponibile anche il sito www.mudcomuni.it, dedicato alla raccolta dei Mud dei Comuni (o consorzi di Comuni e Comunità montane) ai quali il Dpcm 23.12.2011 ha imposto per la prima volta la compilazione on-line dei dati relativi alla raccolta dei rifiuti urbani e speciali raccolti sulla base di una convenzione, prevedendo però che i Comuni privi di smart card possano stampare la dichiarazione, sottoscriverla e inviarla con raccomandata alla Camera di commercio competente. Innovativa anche la possibilità di immettere automaticamente nel sito i dati già predisposti per altre rilevazioni statistiche introdotte da leggi regionali.
Confermate, infine, anche le consuete regole per la comunicazione annuale sulle apparecchiature elettriche immesse sul mercato dai produttori e dagli importatori e ai Raee raccolti, recuperati e smaltiti.
---------------
Le istruzioni
01|LE REGOLE
Il Dlgs 205/2010 e il Dpcm del 23.12.2011 avevano abrogato la vecchia modulistica, ma non avevano predisposto una nuova procedura
02|LA PRASSI
Lo scorso anno l'utilizzo dei vecchi moduli era stato previsto con circolare ministeriale, quest'anno è indirettamente confermato dalla diffusione dei software ufficiali
03|LE CONSEGUENZE
L'accesso al portale Sistri è riservato ai delegati dell'impresa, ed esclude quindi le associazioni imprenditoriali e i consulenti (articolo Il Sole 24 Ore del 25.03.2012).

ENTI LOCALI - SEGRETARI COMUNALIPiano di prevenzione nella lotta alla corruzione nella p.a.. Operazione pulizia. Protagonisti i segretari degli enti.
Lotta alla corruzione nella p.a. a 360°. I piani di prevenzione della corruzione dovranno essere adottati anche da regioni ed enti locali. Con la possibilità che, per questi ultimi, la mancata adozione comporti l'avvio di un procedimento di commissariamento ad acta, al pari della mancata adozione di altri atti fondamentali quali il bilancio. Sarà il segretario dell'ente locale inoltre a dover svolgere la funzione di dirigente responsabile della prevenzione della corruzione. Occorrerà rivedere pertanto anche le norme che regolano la sua nomina, oggi del tutto fiduciaria.
È quanto si ricava dalla lettura della prima individuazione dei settori di indagine sul fenomeno della lotta alla corruzione, redatta dalla Commissione di studio su trasparenza e corruzione nella pubblica amministrazione, presieduta da Roberto Garofoli. Particolare attenzione è stata dedicata all'allargamento ad altri settori della p.a. delle misure contenute nel ddl anticorruzione e alle sinergie tra le prefetture e il segretario comunale o provinciale.
Il Piano di prevenzione. Innanzitutto, la Commissione ha proposto di emendare al predetto ddl che le amministrazioni centrali trasmettano alla Funzione pubblica un apposito Piano di prevenzione della corruzione che sia predisposto da un dirigente appositamente nominato quale «responsabile». È ovvio che un progetto non può restare solo incardinato a livello di p.a. centrale. Ecco, pertanto, la proposta di «allargare» le disposizioni in materia di anticorruzione anche alle amministrazioni indicate all'art. 1, comma del Testo unico sul pubblico impiego. Se, da un lato, a vigilare sulle p.a. centrali (agenzie ed enti pubblici inclusi) sorgerà infatti l'Autorità nazionale anticorruzione, ci si pone il problema di come coordinare tali compiti per la «galassia» del sistema amministrativo pubblico. In particolare per regioni, province, comuni e le loro forme associative.
Regioni. Per quanto riguarda le regioni, la Commissione ha proposto che il ddl preveda obbligatoriamente l'adozione del Piano anticorruzione rinviando in sede di intesa con le stesse regioni all'individuazione del dirigente responsabile con compiti ben precisi e con uno status di maggiore indipendenza.
Enti locali. Sul fronte enti locali invece la Commissione individua nel prefetto la figura da valorizzare per dare piena efficacia al Piano. Il prefetto potrà supportare le amministrazioni locali al momento di redigere il Piano anticorruzione ma anche di monitorarne la reale approvazione.
A tal fine, si legge nel testo in esame, in considerazione dell'importanza che il Piano assume nella vita politico-amministrativa dell'ente, valuti il legislatore di inserire una norma ad hoc che preveda, in caso di mancata adozione del Piano, l'avvio di un procedimento di nomina di commissario ad acta, così come oggi si prevede nel Tuel, per esempio nel caso di mancata approvazione del bilancio o del rendiconto di gestione.
Il segretario dell'ente. Per le province e i comuni si pone il problema di chi possa svolgere la figura del dirigente responsabile della prevenzione della corruzione con i compiti di redigere il Piano della prevenzione. Il documento redatto ieri individua tale figura in quella del segretario dell'ente, in quanto «è sempre stato strumento di garanzia della legalità e dell'imparzialità nelle amministrazioni locali». Questi nuovi compiti comporteranno, anche con norme ad hoc nel testo del ddl, di apporre delle modifiche allo status di segretario, così da garantirne una sua maggiore indipendenza dall'organo politico.
Quindi, per la Commissione, si dovrebbe tornare all'antico, rivedendo le procedure di nomina dei segretari «al fine di ridurne l'attuale tasso di fiduciarietà». La Commissione propone che sia il Viminale a proporre al sindaco una rosa di nomi, selezionati sulla base di una domanda da parte degli interessati e in possesso di specifici requisiti. Da questa rosa, il primo cittadino poi nominerà «il prescelto» (articolo ItaliaOggi del 24.03.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Il licenziamento economico già esiste per gli statali.  È il caso del personale in esubero rispetto alle esigenze funzionali o finanziarie.
La riforma dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori avrà effetti anche nella pubblica amministrazione, sebbene alcuni di essi siano in buona parte già operativi, per effetto della legge 183/2011. Il nuovo articolo 18 (si veda ItaliaOggi di ieri), una volta entrata in vigore la riforma, varrà anche per il lavoro pubblico, per effetto dell'articolo 51, comma 2, del d.lgs 165/2001, ai sensi del quale «La legge 20.05.1970, n. 300, e successive modificazioni ed integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti».
Nessun dubbio, dunque, che per i dipendenti pubblici valgano le regole di volta in volta vigenti poste dallo Statuto dei lavoratori. Dunque, anche i dipendenti pubblici non potranno ottenere il reintegro nel posto di lavoro, qualora siano stati coinvolti in licenziamenti individuali per «ragioni economiche».
Nel caso del lavoro privato la fattispecie del licenziamento dovuto a ragioni economiche è ancora da definire. Per la pubblica amministrazione è già operante da qualche mese il nuovo testo dell'articolo 33 del d.lgs 165/2001, come modificato dall'articolo 16 della legge 183/2011, a mente del quale le pubbliche amministrazioni debbono effettuare annualmente la ricognizione del personale eventualmente in esubero; laddove rilevino situazioni di soprannumero o comunque eccedenze di personale, «in relazione alle esigenze funzionali o alla situazione finanziaria» sono tenute ad osservare le procedure previste dai successivi commi dell'articolo 33: le amministrazioni entro 90 giorni dalla comunicazione ai sindacati della situazione di esubero, devono verificare se il personale interessato possa essere reimpiegato all'interno del medesimo ente, o possa andare in mobilità (cioè essere trasferito) verso altri enti della provincia o della regione. In mancanza di ciò, essere inserito nelle liste dei lavoratori in disponibilità: cioè dei lavoratori sostanzialmente licenziati, che restano per 24 mesi al massimo inseriti nella lista, con il trattamento economico pari all'80% dello stipendio, dell'indennità integrativa speciale e dell'assegno per il nucleo familiare.
É evidente che «la situazione finanziaria» come giustificativo della norma pubblicistica di rapporto del lavoro alle dipendenze della p.a. risulta analoga e sovrapponibile alle «esigenze economiche» di cui parla la riforma dell'articolo 18. Nel caso delle amministrazioni locali, lo stato di dissesto finanziario o la violazione delle soglie di spesa per il personale, come la violazione del patto di stabilità, possono essere ragioni sufficienti per la risoluzione del rapporto di lavoro, senza possibilità di reintegro.
In quanto ai licenziamenti disciplinari, anch'essi sono previsti nel lavoro pubblico dall'articolo 55-quater del d.lgs 165/2001. Si estenderà, dunque, ai lavoratori pubblici la previsione che rimetterà al giudice la scelta se condannare al reintegro, o al pagamento dell'indennizzo, il lavoratore licenziato in esito ad un procedimento disciplinare, riconosciuto privo di fondamento in sede giudiziale. Ai dipendenti pubblici si applicherà anche l'Aspi, la nuova indennità sostitutiva della disoccupazione ordinaria e della mobilità. Che però,varrà solo per i lavoratori pubblici assunti con contratti a tempo determinato. Per gli altri l'unico «ammortizzatore» è l'indennità del periodo di disponibilità (articolo ItaliaOggi del 23.03.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATASanabile il durc negativo. Il committente paga i premi dell'appaltatore. L'Inail spiega l'intervento sostitutivo: serve una comunicazione preventiva.
Il committente che intenda sostituirsi all'appaltatore nel pagare il debito Inail deve preventivamente informare l'istituto assicuratore, al fine di verificare l'attualità dell'inadempienza contributiva.
Lo precisa l'Inail nella nota 21.03.2012 n. 2029 di prot. in merito all'intervento sostitutivo della stazione appaltante in caso di Durc negativo.
Intervento sostitutivo.
L'articolo 4 del dpr n. 207/2010 prevede che, in presenza di un Durc negativo (cioè con irregolarità nei versamenti dovuti agli istituti previdenziali e/o alle casse edili), le stazioni appaltanti si sostituiscano al debitore (appaltatore e/o subappaltare del quale abbiano avuto il Durc negativo) e procedano a pagare, in tutto o in parte, il debito contributivo trattenendo il relativo importo dal corrispettivo dovuto.
Ambito di intervento. Ai fini dell'applicazione dell'intervento sostitutivo, l'Inail spiega che l'inadempienza indicata nel Durc riguarda un determinato «operatore economico», termine con cui si intende qualsiasi soggetto, sia persona fisica sia giuridica, che sia parte di un rapporto contrattuale soggetto alla disciplina del codice dei contratti pubblici e che ai fini Durc sia tenuto all'obbligo assicurativo nei confronti di Inail e Inps e, nel caso di imprese edili, anche nei confronti della cassa edile.
Inoltre, il termine «contratto pubblico» comprende tutte le tipologie di appalti pubblici, i servizi e le attività in convenzione e/o concessione, nonché tutti gli altri contratti, assoggettati a una procedura di evidenza pubblica e disciplinati dal codice dei contratti pubblici, avente a oggetto un dare o un facere funzionale alla realizzazione di un risultato e/o di un vantaggio e dietro pagamento di un corrispettivo.
Indicazioni operative. Sotto il profilo procedurale, l'Inail spiega che, ricevuto il Durc attestante l'irregolarità, la stazione appaltante deve comunicare preventivamente alla sede Inail che ha accertato l'inadempienza, per posta elettronica o posta elettronica certificata, la volontà di attivare l'intervento sostitutivo. A tal fine va utilizzato un modello appositamente predisposto in cui va indicato l'importo che si intende versare all'Inail.
Ricevuta la richiesta della stazione appaltante, la sede Inail procede tempestivamente a verificare l'attualità dell'inadempienza contributiva attestata sul Durc al fine di tenere conto di eventuali pagamenti o di variazioni relative al dovuto intervenuti tra la data di emissione del Durc e la data di ricezione della comunicazione preventiva.
Inoltre, la stessa sede Inail comunicherà al responsabile del procedimento della stazione appaltante il codice Iban e, se nel frattempo l'inadempienza Inail si è ridotta rispetto all'importo indicato dalla stazione appaltante nella comunicazione preventiva, anche il minor ammontare del debito ancora da versare all'Inail (articolo ItaliaOggi del 23.03.2012).

ENTI LOCALI: Controlli contabili doc in comune. L'incarico ai soli revisori regolarmente iscritti al registro.  La circolare del ministro Cancellieri ribadisce il pieno riconoscimento professionale della categoria.
Saranno «solo» i revisori legali regolarmente iscritti al Registro ad avere la titolarità dell'incarico presso gli 8 mila comuni italiani e tutti gli enti locali obbligati per legge a nominare i revisori per il monitoraggio contabile dei loro bilanci.
«È il pieno riconoscimento della categoria professionale», sottolinea il presidente dell'Inrl Virgilio Baresi, «che assume un'importanza rilevante nell'imminenza dei decreti attuativi del dlgs 39/2010 in materia di revisione attualmente all'esame di apposite commissioni istituite presso il Mef e nelle quali l'Istituto è presente e parte propositiva con i suoi delegati incaricati dalla presidenza dell'Inrl.
Determinante l'attenzione mostrata dal ministro Cancellieri che, attraverso la fattiva collaborazione del prefetto Frattasi, ha emanato la circolare. Si tratta di una attestazione istituzionale che segue di poche settimane un altro riconoscimento a livello locale, ovvero il provvedimento del presidente della regione Abruzzo Chiodi che ha indicato proprio nei revisori i referenti per i consorzi preposti alla ricostruzione
».
A questo punto il contesto professionale nel quale operano gli oltre 150 mila revisori legali italiani, di cui la maggioranza non iscritta a ordini professionali, è delineato e certificato da una specifica direttiva del governo.
Appare evidente a tutti che oltre all'esclusività del ruolo super partes assegnato, la specifica che «soltanto» i revisori legali con titolarità certificata possono ricoprire questi incarichi negli enti locali e nelle regioni, rappresenta un definitivo chiarimento sul fatto che nessun ordine professionale può vantare paternità esclusive su questa categoria che tra l'altro è composta prevalentemente da liberi professionisti non appartenenti al sistema ordinistico ed inoltre da dottori commercialisti, consulenti del lavoro e da avvocati.
«Chi perservera nel confondere i ruoli o peggio si arroga esclusive rappresentanze», conclude il presidente dell'Inrl, «va contro l'evidenza della legge italiana e i dettami europei».
Il reale contesto legislativo. Il decreto n. 1 firmato il 15.02.2012 dal ministro dell'interno è, nella sostanza, un atto previsto e dovuto nella parte in cui si limita a dare attuazione ai principi introdotti dalla legge 14 settembre 2011 n. 148 (art. 16, comma 25) a proposito della costituzione degli organi di revisione negli enti locali. Il suo contenuto, dunque, non sorprende.
«Il problema», osserva Giovanni Cinque consulente legale dell'Inrl, «deriva invece dal fatto che il predetto impianto normativo, che mette sullo stesso piano i revisori iscritti al registro, i commercialisti e gli esperti contabili, è assolutamente incompatibile con il decreto legislativo 39/2010 che, come sappiamo, ma come evidentemente non tutti sanno a livello istituzionale, riserva l'attività di revisione legale solo ed esclusivamente ai professionisti iscritti nell'apposito registro. L'attuale situazione di caos normativo raggiunge vette ancora più alte se si pensa che, a livello regionale, la stessa legge 14.09.2011 n. 148 (art. 14, lett. e) prevede invece che l'organo di revisione sia costituito solo ed esclusivamente da soggetti iscritti al registro dei revisori legali, in coerenza con la legge n. 39.
Siamo dunque lontanissimi dall'osservanza di quei principi di armonizzazione dei sistemi contabili pubblici che sono di casa in Europa ma che da noi, per il momento, vengono soltanto sbandierati. Non sembra infine secondario sottolineare che, a causa di un contesto legislativo così disarticolato, vi è confusione totale anche sui requisiti di formazione necessari per competere a livello locale. L'auspicio è che il dialogo avviato dall'Istituto e dal suo presidente con i ministeri coinvolti possa portare a una soluzione concordata e definitiva di una situazione tanto confusa da apparire intollerabile
» (articolo ItaliaOggi del 23.03.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - VARIDl liberalizzazioni approvato in via definitiva. Tutte le novità per le amministrazioni locali. Enti, la tesoreria unica è legge. Più concorrenza nelle utility, revisione Imu, poteri sui taxi.
Ritorno al vecchio sistema di tesoreria unica. Nuova iniezione di concorrenza nei servizi pubblici locali. Revisione della disciplina dell'Imu, con restrizione delle agevolazioni per gli enti non commerciali e introduzione di una nuova fattispecie agevolativa a favore del settore edile. Attribuzione ai comuni del potere di incrementare le licenze per i taxi. Previsione della possibilità di emettere obbligazioni di scopo garantite da beni immobili ai fini della realizzazione di opere pubbliche.
Sono queste le principali misure per gli enti locali contenute nel dl liberalizzazioni (n. 1/2012) che ieri ha ricevuto il via libera definitivo dalla camera (i sì sono stati 365, i no 61, gli astenuti 6). Poche, ma significative, le novità rispetto al testo originario, fra cui quella che consente alle p.a. di saldare i propri debiti anche attraverso l'istituto della compensazione, su cui, peraltro, si sono appuntati i rilievi critici (al momento non superati) della Ragioneria generale dello stato.
Tesoreria unica. Le relative norme hanno subito solo modifiche marginali. I termini per il trasferimento delle somme alla tesoreria statale diventano un po' meno stringenti: non più «entro il» ma «alla data del» 29 febbraio e del 16 aprile. La sostanza, però, non cambia di molto. Nel corso dei lavori parlamentari, si era cercato di trovare una soluzione al problema della differenza fra gli interessi all'1% garantiti dalla tesoreria statale e quelli, spesso superiori, previsti dalle convenzioni di tesoreria in essere, ma l'emendamento è stato stralciato per mancanza di copertura finanziaria.
Positiva, invece, la previsione in base alla quale i tesorieri e i cassieri provvedono ad adeguare la propria operatività alle disposizioni della tesoreria unica il giorno successivo a quello del versamento, ma, nelle more di tale adeguamento, continuano ad adottare i vecchi criteri gestionali.
Servizi pubblici locali. Gli enti locali, dopo aver individuato i contenuti specifici degli obblighi di servizio pubblico e universale, dovranno valutare la realizzabilità di una gestione concorrenziale, adottando un'apposita deliberazione quadro con i crismi che saranno definiti da un decreto ministeriale e limitando i diritti di esclusiva alle ipotesi in cui l'iniziativa privata risulti inadeguata. Il parere dell'Antitrust sarà obbligatorio solo per gli enti con più di 10.000 abitanti e comunque mai vincolante.
Confermati l'obbligo di gara per gli affidamenti superiori ai 200.000 euro e la ridefinizione del calendario delle scadenze per le gestioni esistenti, con dead line che nella maggior parte dei casi si colloca tra la fine del 2012 e la primavera del 2013, ma con la previsione di una clausola di salvaguardia che garantisce la continuità delle prestazioni qualora le procedure per i nuovi affidamenti vadano per le lunghe. I bacini territoriali ottimali non dovranno più avere obbligatoriamente l'estensione minima del territorio provinciale, poiché le regioni potranno definire ambiti territoriali più limitati, motivando la scelta in base a criteri di differenziazione territoriale e socio-economica.
Imu. L'esenzione a favore degli immobili degli enti non commerciali viene circoscritta alle fattispecie in cui essi operano «con modalità non commerciali». Qualora l'unità immobiliare abbia un'utilizzazione mista (commerciale e non), l'esenzione si applica solo alla frazione di unità nella quale si svolge l'attività di natura non commerciale.
Confermata anche la previsione che consente ai comuni di ridurre l'aliquota di base dell'Imu fino allo 0,38% per i fabbricati costruiti e destinati dall'impresa costruttrice alla vendita, fintanto che permanga tale destinazione e non siano in ogni caso locati, e comunque per un periodo non superiore a tre anni dall'ultimazione dei lavori.
Taxi. Saranno i comuni a decidere sull'eventuale incremento del numero di licenze, previo parere della nuova Autorità dei trasporti (articolo ItaliaOggi del 23.03.2012 - tratto da www.corteconti.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALIPiccoli comuni alle urne tra dubbi (sui gettoni) e certezze. Mini-enti falcidiati. Scattano subito i tagli alle poltrone.
I piccoli comuni si avviano alle elezioni amministrative con la certezza dei tagli alle poltrone e qualche dubbio sul trattamento economico dei consiglieri.
Sul primo versante, la manovra di Ferragosto (dl 138/2011) ha usato la mano pesante, sforbiciando sia le giunte sia i consigli in tutti i municipi fino a 10.000 abitanti.
Il decreto milleproroghe (dl 216/2011) ha confermato che il taglio scatterà dal primo rinnovo amministrativo e, quindi, fin da subito per i quasi 800 comuni di tale fascia demografica che andranno alle elezioni a maggio.
Nei comuni fino a 1.000 abitanti, scompare la figura degli assessori e il numero di consiglieri è ridotto a 6. Come chiarito dalla circolare del ministero dell'interno n. 2379/2011 (si veda ItaliaOggi del 23 febbraio), tutte le funzioni oggi assegnate alle giunte spetteranno ai sindaci, che potranno delegarle (come previsto dall'art. 2, c. 186, lett. c), della legge 191/2009, come modificata dalla legge 42/2010) a non più di 2 consiglieri. Sempre fra i consiglieri dovrà obbligatoriamente essere scelto il vicesindaco.
Fra 1.001 e 3.000 abitanti, la delega delle funzioni del sindaco ai consiglieri è solo facoltativa; in alternativa, potranno essere nominati non più di 2 assessori «veri», mentre il numero dei consiglieri sarà, anche in tal caso, pari a 6 (oltre al sindaco).
Fra 3.001 e 5.000 abitanti, i consiglieri salgono a 7 più il sindaco con 3 assessori, mentre fra 5.001 e 10.000 ci saranno 10 consiglieri e 4 assessori.
Emolumenti dei consiglieri. Sul punto si registra qualche incertezza. L'art. 16, comma 18, del dl 138 ha previsto l'eliminazione dei gettoni di presenza per i consiglieri dei comuni fino a 1.000 abitanti. In origine, la decorrenza di tale misura era allineata a quella prevista dal precedente comma 9, che detta i tempi per l'avvio delle unioni attraverso le quali i mini-comuni dovranno obbligatoriamente (e i comuni fra 1.000 e 5.000 abitanti facoltativamente, in alternativa all'obbligo di gestione associata delle sole funzioni fondamentali) esercitare tutte le funzioni amministrative e tutti i servizi pubblici loro spettanti.
Prima dell'intervento del milleproroghe, il comma 9 individuava come spartiacque il «giorno della proclamazione degli eletti negli organi di governo del comune che, successivamente al 13.08.2012, sia per primo interessato al rinnovo» fra quelli facenti parte di ciascuna unione ex art. 16. Successivamente, il dl 216/2011 (o meglio, la relativa legge di conversione, legge 14/2012) ha prorogato tale termine di nove mesi, facendolo slittare al 13.05.2013. Tale proroga non ha riguardato, però, il comma 18, il quale, tuttavia, rinvia espressamente alla «data» fissata dal comma 9.
Pertanto, si pongono due problemi interpretativi: da un lato, individuare quale sia, ai fini del comma 18, la «data» di cui al comma 9 (il 13.05.2013 o quella successiva nella quale il primo comune dell'unione va a elezioni); dall'altro, capire se la proroga di tale «data» valga anche rispetto al divieto di corrispondere i gettoni. In ordine al primo punto, sembra chiaro che il legislatore abbia inteso collegare l'azzeramento dei gettoni dei consiglieri comunali alla partenza della nuova governance delle unioni, nella quale il ruolo dei consigli comunali è destinato a divenire marginale rispetto a quello degli omologhi organi delle nuove forme associative.
Più delicata la seconda questione: da parte dei primi commentatori, la mancata enunciazione del comma 18 da parte del «milleproroghe» è stata interpretata come una conferma del termine originario, per cui il divieto di erogare i gettoni scatterebbe dal primo rinnovo successivo al 13.08.2012 (e non al 13.05.2013). Sembra invece più corretto affermare che la proroga del termine di cui al comma 9 comporta implicitamente anche lo slittamento di quello previsto dal comma 18, trattandosi di fatto, come detto, dello stesso termine (articolo ItaliaOggi del 23.03.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Se non c'è un regolamento il sindaco non può comprimere i poteri dei consiglieri. Diritto di accesso illimitato. Ma non bisogna intralciare il lavoro degli uffici.
In assenza di apposite norme regolamentari di disciplina del diritto di accesso dei consiglieri, il sindaco può individuare autonomamente delle limitazioni al suddetto diritto, anche con riferimento a esigenze di tutela dei dati personali?

L'esercizio del diritto di accesso è previsto dal secondo comma dell'articolo 43 del dlgs 267/2000, definito dal Consiglio di stato (sent. n. 4471/2005) «diritto soggettivo pubblico funzionalizzato», finalizzato al controllo politico-amministrativo sull'ente nell'interesse della collettività e, come tale, diverso dal diritto di accesso previsto dalla legge n. 241/1990, riconosciuto ai soggetti interessati allo scopo di predisporre la tutela di posizioni soggettive lese. Il diritto del consigliere comunale di ottenere dall'ente tutte le informazioni utili all'espletamento del mandato non incontra neppure alcuna limitazione derivante dalla loro eventuale natura riservata, in quanto il consigliere è vincolato al segreto d'ufficio.
Gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali possono rinvenirsi, per un verso, nel fatto che esso deve avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali e, per altro verso, che esso non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche, ovvero meramente emulative, fermo restando tuttavia che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso (Consiglio di stato, sez. V, n. 6963/2010).
Anche la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi ha richiamato il consolidato principio giurisprudenziale (ex multis Consiglio di stato, sez. V. n. 929/2007) secondo cui il diritto del consigliere di accesso agli atti «non può subire compressioni per pretese esigenze di natura burocratica dell'ente con l'unico limite di poter esaudire la richiesta, qualora sia di una certa gravosità, secondo i tempi necessari per non determinare interruzione delle altre attività di tipo corrente».
Il consigliere deve quindi contemperare il diritto di accesso con l'esigenza di non intralciare lo svolgimento dell'attività amministrativa e il regolare funzionamento degli uffici comunali, comportando ad essi il minor aggravio possibile, sia dal punto di vista organizzativo che economico (Corte dei conti, sez. Liguria n. 1/2004). Sul tema dell'esercizio del diritto di accesso ad atti dell'amministrazione comunale da parte del consigliere comunale si è espressa la Commissione per l'acceso ai documenti amministrativi. Relativamente all'ammissibilità dell'accesso ad atti istituzionali del comune mediante uso di tecnologie informatiche, nonché all'acquisizione in formato digitale (a mezzo Pec) delle deliberazioni consiliari e di giunta e dei relativi atti preparatori, la Commissione ha ritenuto che, sulla base del quadro normativo vigente e della oramai generalizzata diffusione degli strumenti informatici presso i soggetti pubblici e privati, «l'accesso telematico debba essere sempre consentito, soprattutto ove richiesto, non solo nei reciproci rapporti posti in essere tra le pubbliche amministrazioni e in quelli da esse intrattenuti con l'utenza privata, ma anche nei rapporti tra le stesse amministrazioni locali e i componenti eletti nei loro organi consiliari».
Il secondo parere verte sulla problematica relativa all'accesso di un consigliere comunale agli elenchi dei contribuenti locali e dei cittadini morosi nel pagamento dei tributi comunali. Al riguardo, la Commissione osserva che «la disposizione contenuta nell'art. 43 comma 2, Tuel riconosce al consigliere comunale il diritto di ottenere dagli uffici comunali tutte le notizie e le informazioni utili all'espletamento del proprio mandato e gli impone l'obbligo del segreto nei casi specificatamente determinati dalla legge. Indipendentemente dall'inclusione, fra i casi soggetti al segreto, della divulgazione dei contribuenti morosi, gli uffici comunali non possono limitare in alcun caso il diritto di accesso del consigliere comunale, ancorché possa sussistere il pericolo della divulgazione dei dati di cui il medesimo entri in possesso. La responsabilità di aver messo in condizione il consigliere comunale di conoscere dati sensibili cede di fronte al diritto di accesso incondizionato del medesimo, ma può essere invocata dal terzo eventualmente danneggiato solo nei confronti di chi (consigliere comunale) del suo diritto abbia fatto un uso contra legem».
Circa la possibilità che il sindaco sia facoltizzato, in assenza di puntuali disposizioni regolamentari, ad individuare autonomamente i limiti al diritto di accesso dei consiglieri, appare dirimente la sentenza del Tar Campania n. 19672/2008 con la quale è stato accolto il ricorso avverso un decreto sindacale recante la disciplina delle modalità di esercizio del diritto di accesso. Il Tar ha ritenuto sussistente il vizio di incompetenza, considerato che la materia del diritto di accesso dei consiglieri avrebbe dovuto trovare la propria disciplina nel regolamento (articolo ItaliaOggi del 23.03.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALISulla nomina dei revisori locali non decide più la politica.
Massima trasparenza sul procedimento di scelta del revisore legale degli enti locali. Infatti, il relativo elenco, articolato su base regionale, deve essere reso pubblico attraverso un'apposita sezione sulla home page del sito internet del ministero dell'interno. Lo stesso Viminale, poi, è obbligato a rendere nota, con avviso da pubblicarsi sulla Gazzetta Ufficiale, la data di effettivo avvio del nuovo procedimento per la scelta dei revisori in scadenza di incarico.
È quanto si ricava dalla lettura del decreto Mininterno 15.02.2012 (si veda ItaliaOggi del 17 marzo scorso), che è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 20 marzo, in merito alle disposizioni previste dalla manovra di Ferragosto 2011. Un procedimento del tutto rivoluzionario, che, di fatto, sottrae all'organo politico la scelta dei nominativi che devono comporre il collegio dei revisori dei conti (ovvero il revisore unico).
Criteri di trasparenza, innanzitutto. Dopo la verifica dei presupposti, diversi in base alla fascia demografica di appartenenza dell'ente locali, il Dm in esame dispone che ogni elenco, uno per ogni articolazione regionale, deve necessariamente riportare, per ciascun revisore in ordine rigorosamente alfabetico, i dati anagrafici, la residenza e la data ed il numero di iscrizione nel registro dei revisori legali o all'Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili. Della composizione degli elenchi, come detto, se ne dovrà dare la massima pubblicità. Infatti, si dovranno pubblicare sul sito www.interno.it, dipartimento per gli affari interni e territoriali, con effetti di pubblicità legale ai sensi dell'articolo 32 della legge n. 69/2009.
Trasparenza anche nel procedimento di effettivo avvio del nuovo procedimento di scelta, mediante estrazione a sorte. Come si ricorderà, il procedimento di scelta avviene «pescando» con modalità «random» i nominativi dagli elenchi, attraverso un procedimento telematico che si svolgerà presso la sede di ogni prefettura. L'articolo 5 del dm precisa che, una volta completata la fase di formazione dell'elenco, il Viminale dovrà pubblicare sulla Gazzetta Ufficiale (oltre che sulle proprie pagine internet), da quando saranno avviate le nuove procedure.
Gli enti locali, poi, sono tenuti a dare comunicazione della scadenza dell'incarico del proprio organo di revisione alla Prefettura della provincia di appartenenza «con almeno 15 giorni di anticipo nel primo mese di effettivo avvio del nuovo procedimento di scelta» e, successivamente, almeno due mesi prima della scadenza stessa. Sarà poi cura di ogni Prefettura, rendere noto agli enti locali il giorno in cui si procederà alla scelta dei revisori. Di tutto il procedimento di estrazione verrà redatto apposito verbale e comunicato all'ente locale affinché provveda alla nomina del collegio o del revisore legale scelto.
Infine, l'articolo 6 del Dm precisa che, in caso di composizione collegiale dell'organo di revisione, le funzioni di presidente sono svolte dal revisore che, in carriera, ha ricoperto il maggior numero di incarichi di revisore presso enti locali e, in caso di ulteriore parità, sarà data preferenza alla maggiore dimensione demografica degli enti in cui si è ricoperto l'incarico (articolo ItaliaOggi del 22.03.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGOL'Inps pretende il biglietto bus da chi assiste un disabile.
Chi assiste un disabile grave distante 150 chilometri dalla propria dimora e vuole fruire dei premessi previsti dalla legge 104/92 è meglio che ci vada in treno o in autobus. Perché se copre in auto la distanza da casa alla dimora del disabile, a meno che no esibisca al ritorno uno scontrino di pedaggio autostradale, rischia di vedersi contestare l'assenza ingiustificata dal lavoro.

É quanto si evince dalla
circolare 06.03.2012 n. 32 dell'Inps che reca i primi chiarimenti su come applicare le novità introdotte dal decreto legislativo 119/2011 alle disposizioni sui permessi per chi assiste un portatore di handicap.
Il provvedimento non è vincolante per l'amministrazione scolastica. Ma proviene comunque da fonte autorevole. E dunque, i chiarimenti in esso contenuti possono essere comunque utili a dissipare lo stato di incertezza in cui versano gli addetti ai lavori a causa dell'estrema complessità delle nuove norme. La nuova stesura dell'art. 33 della legge 194/1992, infatti, prevede che se il disabile da assistere risiede o dimora ad una distanza superiore ai 150 chilometri dal luogo dove vive l'assistente, quest'ultimo, ogni volta che fruisce un permesso per adempiere alla prestazione di assistenza, al ritorno deve provare di esserci andato, esibendo un titolo di viaggio o altro documento idoneo.
In buona sostanza, come spiega anche l'Inps, si tratta di una delle rare disposizioni di legge che impongono espressamente l'inversione dell'onere della prova. E qui la faccenda si complica. Perché la legge fa riferimento al mero titolo di viaggio, quale mezzo di prova. Il che vuol dire che bisogna tirare fuori il biglietto di un mezzo pubblico per giustificare il permesso. Va detto subito, peraltro, che il biglietto di per sé non è utile a provare che il latore del medesimo lo abbia effettivamente utilizzato.
Ma in ogni caso è l'unica ipotesi espressamente prevista dalla legge. E quindi l'Inps ha consigliato agli interessati di viaggiare con i mezzi pubblici se intendono fruire del permesso. Anche se bisogna raggiungere zone interne. Pazienza se ciò comporta un ulteriore onere, che si aggiunge a quello della prestazione di assistenza a distanza di oltre 150 chilometri da casa (articolo ItaliaOggi del 20.03.2012).

PUBBLICO IMPIEGOCongedi retribuiti e non Adesso si cumula tutto.
I congedi retribuiti biennali per assistere i portatori di handicap si cumulano con quelli non retribuiti. E la somma di tutti i periodi di premesso così fruiti non può eccedere i 24 mesi per singolo lavoratore. Il disabile però ha comunque diritto a giovarsi di due anni di assistenza con esonero dal servizio del lavoratore interessato. Pertanto, se l'assistente esaurisce il biennio, cumulando le differenti tipologie di permesso, la restante parte del biennio può essere fruito da un altro lavoratore.

Lo prevede LA
circolare 28.02.2012 n. 28 emanata dall'Inps.
Il provvedimento è vincolante solo per i lavoratori delle varie sedi dell'ente previdenziale, ma proviene comunque da una fonte autorevole. E quindi può essere utile anche alle scuole, in sede di applicazione della normativa sui congedi. Che ha subito recenti modifiche da parte del legislatore, con le quali sono state recepite anche alcune sentenza additive della Corte costituzionale. Dunque, il biennio di congedo si applica una volta sola nell'ambito della vita lavorativa.
Conseguentemente i congedi previsti dall'art. 42 del decreto legislativo 151/2001 si sommano a quelli dell'art. 4 della legge 53/2000 ai fini del biennio. Pertanto, se un lavoratore esaurisce il biennio, per esempio, se utilizza 6 mesi del congedo non retribuito e 18 mesi del congedo retribuito, non ha diritto a fruire di altri periodi di assenza. Fermo restando che si fa riferimento solo ai periodi previsti dall'art. 4 della legge 53/2000 e a quelli dell'art. 42 del decreto legislativo 151/2001. La preclusione, infatti, non vale per altre tipologie di assenze tipiche previste dalla legge o dal contratto. Come per esempio i permessi previsti dall'art. 33 dalla legge 104/1992.
Tornando all'esempio di prima, dunque, al disabile rimangono 6 mesi di congedo retribuito da far sfruttare al proprio assistente. E dunque, se l'assistente esaurisce il congedo di sua spettanza, la parte residua può essere fruita dal soggetto che lo sostituisce. Tale soggetto va individuato secondo una scala di priorità tassativa che risulta così costituita: coniuge, genitore, figlio, fratello (o sorella). Lo scorrimento della scala di priorità va effettuato secondo il criterio della supplenza (articolo ItaliaOggi del 20.03.2012).

APPALTI SERVIZIServizi pubblici. Le conseguenze della bozza di Dm attuativo delle liberalizzazioni.
Delibera quadro «estesa» a tutti i settori economici. Anche gli ambiti devono effettuare la verifica pre-affidamenti
L'INDAGINE/ La possibilità di concedere esclusive dipende dall'analisi delle modalità gestionali di ogni aspetto dell'attività.

Cominciano a delinearsi i criteri che gli enti locali e i soggetti istituzionali individuati come enti di governo degli ambiti territoriali ottimali dovranno seguire nell'istruttoria per l'attribuzione dell'esclusiva nella gestione dei servizi pubblici locali con rilevanza economica; il passo fondamentale è dato dalla bozza del Dm che illustra i parametri e i contenuti della delibera-quadro (si veda Il Sole 24 Ore del 13 marzo).
Le amministrazioni locali devono svolgere una verifica preliminare per acquisire tutti gli elementi utili per individuare quanti fra i "loro" servizi pubblici sono di rilevanza economica. Molte attività, infatti, sono facilmente riconducibili all'ambito dell'articolo 4 della legge 148/2011, in quanto le caratteristiche di rilevanza economica sono codificate dalla normativa di settore (come nel caso della gestione dei rifiuti o del trasporto pubblico locale), ma molte altre vanno analizzate caso per caso nel rispetto del principio comunitario.
Si pensi, ad esempio, alla ristorazione scolastica, in cui la tariffa è in media inferiore del 30/40% del costo di produzione e sulla gestione pesa molto l'intervento pubblico. In questo quadro, il servizio può risultare privo di rilevanza economica (come evidenziato dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 6529/2010).
La verifica sulle condizioni per attribuire i diritti di esclusiva deve analizzare il quadro storico e l'attuale modello gestionale del servizio, individuando le attività principali e quelle complementari, con l'indicazione delle eventuali compensazioni economiche ai gestori. Il primo focus deve puntare sull'articolazione operativa del servizio, distinguendo le possibili fasi di gestione separata e rilevando l'eventuale offerta di servizi sostituivi.
Il punto centrale è costituito dall'analisi delle esigenze della comunità, con riferimento alle caratteristiche sociali e demografiche, economiche, ambientali e geomorfologiche dell'ambito territoriale di riferimento.
Questi elementi possono risultare determinanti per la statuizione degli obblighi di servizio pubblico, per la definizione degli standard zonali minimi e per il conseguente orientamento verso una gestione unitaria.
L'istruttoria deve evidenziare anche il valore del servizio (che può risultare decisivo, ad esempio, per l'affidamento in house) e gli investimenti da programmare.
Le risultanze della verifica devono essere quindi sottoposte al confronto con il mercato, con una consultazione per acquisire manifestazioni di interesse degli operatori sulla gestione in concorrenza del servizio.
Questa fase dovrebbe permettere anche di rilevare la sussistenza di situazioni di monopolio naturale o, all'opposto, la possibilità di liberalizzare il servizio o singole sue fasi.
La consultazione con gli operatori permette comunque di riscontrare l'incidenza sulla gestione imprenditoriale degli obblighi di servizio pubblico e universale e degli standard minimi delle prestazioni, oltre che delle caratteristiche della domanda dell'utenza e di tariffe sostenibili per realizzare e mantenere la coesione sociale, al fine della verifica della redditività.
Lo schema di decreto individua anche dei parametri integrativi per il settore dei trasporti pubblici locali e per quello dei rifiuti, richiedendo per questi ultimi la valutazione distinta delle operazioni di spazzamento, raccolta, raccolta differenziata, trasporto, commercializzazione, gestione degli impianti di trattamento, recupero, riciclo e smaltimento di tutti i rifiuti urbani e assimilati, nonché la proiezione gestionale con riferimento alle singole fasi ed alla possibile gestione congiunta.
---------------
Le istruzioni per l'uso
01|ANALISI DELLA QUALIFICAZIONE DEI SPL
L'ente locale deve rilevare la qualificazione dei servizi pubblici locali affidati in chiave di rilevanza economica o meno.
Tale analisi preliminare deve essere effettuata mediante applicazione del principio relativistico.
02|ISTRUTTORIA PER L'ATTRIBUZIONE DEI DIRITTI DI ESCLUSIVA
L'ente locale la deve sviluppare per i Spl (Servizi pubblici locali) con rilevanza economica in base all'articolo 4, commi 1 e 2 della legge 148/2011.
L'istruttoria deve essere sviluppata seguendo lo schema di percorso e i contenuti essenziali previsti nel decreto ministeriale attuativo e può già essere avviata.
03|ANALISI STORICA DELLA SITUAZIONE DEL SPL AFFIDATO
Analisi dello stato storico del servizio.
Possibile confronto con piano industriale del soggetto gestore.
04|FOCUS ASSETTO SPL
Rilevazione dell'articolazione operativa del Spl (Servizi pubblici locali) anche per singole fasi.
Analisi delle esigenze della comunità locale.
Definizione degli obblighi di servizio pubblico e degli standard prestazionali.
Individuazione delle compensazioni.
Analisi del valore del servizio.
05|CONSULTAZIONE CON IL MERCATO
Confronto con gli operatori di mercato per rilevare possibile quadro concorrenziale.
Analisi delle situazioni di monopolio o degli spazi di effettiva liberalizzazione.
Riscontro dell'incidenza degli obblighi di servizio pubblico sulla gestione imprenditoriale e sulla redditività della stessa.
06|FORMALIZZAZIONE DELL'ISTRUTTORIA
Formalizzazione degli elementi elaborati e richiesta di parere all'Agcm (Garante della concorrenza) da produrre entro 60 giorni.
Adozione della delibera-quadro entro 30 giorni dal parere dell'Agcm (Garante della concorrenza).
L'anticipazione.
---------------
Appalti. Decreto in vigore dal 21 marzo. Beni e servizi da programmare anno per anno.
Anche gli acquisti di beni e servizi vanno programmati dalle amministrazioni, anno per anno, insieme al bilancio. L'elencazione dell' attività contrattuale della Pa infatti non è più limitata ai lavori pubblici, ma dal prossimo 21 marzo si estende anche ai servizi e alle forniture.
Dando attuazione a quanto previsto dal Codice degli appalti entra in vigore, proprio mercoledì, il Dm Infrastrutture dell'11.11.2011 (pubblicato sulla «Gazzetta» del 6 marzo scorso) con gli schemi tipo per la programmazione triennale e l'elenco annuale dei contratti pubblici.
Il provvedimento sostituisce i modelli precedenti, datati 2005, pensati prima del Codice dei contratti (Dlgs 163/2006) che ha unificato le procedure per tutti gli appalti, di lavori , servizi e forniture. Ecco perché i nuovi modelli di programmazione si estendono per la prima volta anche ai beni e ai servizi.
A queste ultime due tipologie di contratti pubblici è riservata la scheda 4 dell'Allegato, quella appunto con il «Programma annuale forniture e servizi dell'amministrazione» che va compilata indicando la tipologia di contratto, il responsabile del procedimento, l'importo e le risorse finanziarie disponibili.
Ma in realtà gli enti locali hanno possibilità di discostarsene: sia perché il Ministero precisa che sono «fatte salve le competenze legislative e regolamentari delle Regioni e delle Province autonome» come riconosce in modo esplicito il provvedimento, sia perché la norma sulla programmazione annuale per servizi e forniture non è vincolante. Si chiarisce infatti che le amministrazioni aggiudicatrici «possono» adottare il modello, rendendo quindi la scelta una semplice facoltà.
Unica condizione è che per inserire un acquisto da programmare nell'anno l'ente deve aver completato la progettazione, cioè , deve avere disponibile: una relazione tecnico-illustrativa del contesto in cui va inserito il contratto, le prescrizioni per i documenti della sicurezza, il calcolo della spesa e degli oneri complessivi, il capitolato e lo schema di contratto.
Ma quella sui servizi e le forniture non è l'unica novità che gli enti locali dovranno affrontare nel mettere mano alla programmazione degli appalti: il nuovo decreto è molto più stringente sui vincoli per inserire un lavoro nell'elenco annuale. Rispetto al modello del 2005 non basta più indicare il livello raggiunto dalla progettazione, i vincoli ambientali e le finalità. Occorre avere già in mano la conformità urbanistica che -specifica l'articolo 3- «deve essere perfezionata entro la data di approvazione del programma triennale e relativo elenco annuale».
In altre parole, mentre in base al Dm del 2005 era sufficiente indicare una vaga «conformità urbanistica» dell'opera per inserirla nell'elenco annuale, dal 21 marzo invece l'effettiva fattibilità dell'opera (permessi, coerenza con il Prg e con la destinazione d'uso dell'area) va verificata e acquisita a monte, fin dall'inserimento di quell'intervento nel programma triennale che viene compilato molto tempo prima. Un paletto pensato per rendere più realistico l'elenco annuale che, appunto, potrà contenere solo i progetti realmente fattibili, sui quali sono già state acquisite tutte le autorizzazioni, ma che rischia di rallentare, e di molto, la programmazione dei lavori, visto che proprio la fase delle autorizzazioni e della localizzazione dell'opera è tra le più lunghe e complesse di quelle dell'iter realizzativo.
---------------
Le verifiche
Documenti necessari per inserire un contratto di fornitura nell'elenco annuale:
1) Relazione illustrativa
2) Documenti per la sicurezza
3) Calcolo della spesa
4) Capitolato
5) Schema di contratto (articolo Il Sole 24 Ore del 19.03.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALIRisorse umane. Effetti paradossali dal cambio di regole. L'incognita Patto sui piccoli blocca anche il personale.
Dal 2013 i piccoli Comuni tra 1.001 e 5mila abitanti precipiteranno tra i limiti e le rigide regole del Patto di stabilità. La questione non è solamente finanziaria, ma abbraccia anche la gestione delle risorse umane. Infatti, attualmente, il contenimento della spesa di personale ha due binari.
Da una parte ci sono i Comuni sopra i 5mila abitanti e le Province, che devono ridurre i costi rispetto all'anno precedente ai sensi del comma 557 della legge Finanziaria 2007; dall'altra gli enti non soggetti a Patto, che devono contenere le spese nel limite di quelle sostenute nel 2004 (comma 562 stessa legge). Dal 2013 anche questi enti rientreranno di conseguenza nella prima casistica.
I dubbi sollevati dalla normativa sono molto consistenti, come mostra fra l'altro il fatto che la Corte dei conti del Veneto (delibera 98/2012) ha rimesso la questione alle Sezioni riunite. Tra le altre cose, gli operatori si chiedono se ci siano scelte da fare nel corso di questo esercizio, e come programmare la gestione del personale per evitare che, dal 2013, si rimanga ingessati?
La prima idea è certamente quella di fare in modo che la spesa del 2012 risulti la più alta possibile, così da diventare base di riferimento per l'anno futuro. Ragionare in questo modo non sembra però molto virtuoso. Infatti, le assunzioni andrebbero programmate sulla base delle effettive esigenze e non esclusivamente su vincoli di natura finanziaria. Purtroppo, però, è il legislatore che con i suoi tagli lineari ed orizzontali abitua a simili comportamenti. Si pensi solamente ai limiti sul lavoro flessibile: va tagliata del 50% la spesa sostenuta nell'anno 2009, a prescindere dalle eventuali e reali necessità operative (e senza le deroghe sulla polizia locale e servizi educativi/scolastici del 2012).
Tra l'altro, proprio queste assunzioni a tempo determinato o con altre forme flessibili, erano il naturale metodo per la sostituzione dei dipendenti assenti dal servizio permettendo anche di mantenere adeguati livelli di spesa di personale per il futuro.
A meno che questa non sia l'occasione buona per rimettere mano all'interpretazione che, se anche non chiaramente condivisa dalla Ragioneria dello Stato, è stata suggellata dalla Corte dei conti, Sezione Autonomie. Questa interpretazione prevede che l'obbligo di riduzione della spesa di personale debba avvenire in termini progressivi e costanti rispetto all'anno precedente (Deliberazioni n. 1 e 3 del 2010).
È evidente che regole sul turn-over e spese di personale da ridurre di anno in anno collidono e portano al collasso la gestione del personale.
E proprio il turn-over sarà un'altra sfida per gli enti minori. Infatti, ad oggi, chi non è soggetto a Patto può assumere nel limite delle cessazioni dell'anno precedente. Dal 2013, anche queste amministrazioni, potranno invece assumere nel limite del 20% delle cessazioni dell'anno precedente.
Un bel pasticcio. Se infatti un piccolo Comune avrà una cessazione nel 2012 e non potrà ricoprirla in quanto nel 2011 non vi era alcuna fuoriuscita di personale, difficilmente riuscirà a portarla a termine anche nel 2013, quando scatterà il 20 per cento.
Certo, rimane sempre la mobilità, considerata neutra (né assunzione, né cessazione) quando avviene tra amministrazioni che hanno limitazioni alle assunzioni. Ma già in questi mesi ci si rende conto che la cessione di contratti tra un ente e l'altro è diventata molto complicata, perché ognuno si aggrappa fortemente alle proprie risorse umane. Una possibile, ulteriore, alternativa potrebbe arrivare dalla gestione associata delle funzioni fondamentali (rinviata di nove mesi) e le convenzioni per l'utilizzo a tempo parziale del personale, disciplinate dall'articolo 14 del contratto nazionale del 2004.
Rapporto tra spese di personale e spese correnti al di sotto del 50% e vincoli sul fondo delle risorse decentrate chiudono il quadretto delle norme che renderanno impossibile l'applicazione delle regole per i comuni che transiteranno nel patto di stabilità.
--------------
I paletti
01|LA REGOLA
Dal 2013 il Patto di stabilità si estende anche ai Comuni compresi fra 1.001 e 5mila abitanti
02|SPESE DI PERSONALE
I Comuni soggetti al Patto devono rispettare regole diverse nella gestione della spesa di personale rispetto agli enti esclusi. I Comuni soggetti al Patto, per esempio, devono ridurre le uscite rispetto all'anno precedente, mentre quelli esclusi sono tenuti solo a mantenere i livelli del 2004
03|TURN-OVER
I Comuni soggetti al Patto devono rispettare le regole del turn-over, mentre quelli esclusi hanno la possibilità di assumere nel limite delle cessazioni dell'anno precedente (articolo Il Sole 24 Ore del 19.03.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALIBilanci 2012 a rischio con le elezioni. Scadenze. Dopo la proroga a giugno non è certo che siano atti «indifferibili»
Il Testo unico degli enti locali (articolo 38, comma 5) stabilisce che i consigli durano in carica sino all'elezione dei nuovi, limitandosi, dopo la pubblicazione del decreto di indizione dei comizi elettorali, ad adottare gli atti urgenti ed improrogabili. Fissate le elezioni per il 6 e 7 maggio, i consigli comunali in scadenza si ritroveranno a dover decidere se deliberare il rendiconto di gestione con scadenza prevista al 30.04.2012 e il bilancio di previsione con scadenza prevista il 30 giugno.
Al riguardo non vi sono dubbi sul fatto che l'approvazione del rendiconto di gestione costituisca atto urgente e improrogabile, in quanto atto la cui scadenza è prefissata per legge (si veda la circolare del ministero dell'Interno FL 6/2009 e la circolare Anci 36/2009), e anche in considerazione degli effetti negativi che la mancata approvazione del rendiconto nei termini comporta.
Qualche problema invece sembra sorgere per l'approvazione, da parte del consiglio in scadenza, del bilancio di previsione 2012, dal momento che la scadenza è stata prorogata al 30 giugno e quindi quasi due mesi dopo lo svolgimento delle elezioni. Al riguardo deve evidenziarsi la presenza di giurisprudenza amministrativa (Tar Lombardia) che si è orientata nel senso che la limitazione delle funzioni del Consiglio Comunale, nei 46 giorni antecedenti la data fissata per le elezioni, ai soli atti che siano «urgenti e improrogabili» e non possano pertanto attendere di essere portati all'attenzione del nuovo consiglio, trova inderogabile applicazione soprattutto laddove il potere esercitato in prossimità del suo spirare regoli situazioni future che sono in grado di produrre effetti permanenti e che vincolano nelle scelte discrezionali il successivo titolare della potestà amministrativa.
Per il bilancio 2012, vista la sua possibilità di approvazione entro il 30.06.2012 e quindi ad opera della nuova amministrazione, una sua approvazione da parte del consiglio comunale in scadenza sembra porre il problema del rispetto dei requisiti di urgenza e improrogabilità; ciò tenuto conto soprattutto del fatto che si tratterebbe di scelte che vincolerebbero o condizionerebbero anche la nuova amministrazione (vi veda Tar Puglia n. 382/2004), anche alla luce della giurisprudenza più recente che appare restrittiva al riguardo.
A tal fine va segnalata, tra le altre la sentenza della Corte Costituzionale, la n. 68/2010 che, pur intervenendo in materia regionale (ma con principi validi per l'intero ordinamento delle autonomie), ha sancito chiaramente il principio che nell'immediata vicinanza al momento elettorale, pur restando ancora titolare della rappresentanza del corpo elettorale, il Consiglio non solo deve limitarsi ad assumere determinazioni del tutto urgenti o indispensabili, ma deve comunque astenersi, al fine di assicurare una competizione libera e trasparente, da ogni intervento che possa essere interpretato come una forma di captatio benevolentiae nei confronti degli elettori; interessante sul punto è poi la sentenza 578/2011 del Tar Friuli, che ha escluso la validità di delibere adottate in pendenza di elezioni in assenza di un termine di necessaria esecuzione.
Su questa falsariga è intervenuta in queste settimane anche la circolare della Regione Friuli Venezia Giulia n. 2/2012, del 5 marzo, dove si dice che a decorrere da quella data i Consigli comunali, nell'esercizio della loro discrezionalità amministrativa, potranno autonomamente, individuare i casi in cui ricorrono gli estremi dell'urgenza e improrogabilità richiesti dalla normativa per giustificare l'esercizio delle funzioni loro proprie.
La circolare aggiunge che «si reputa conveniente» -ricordare che questi casi sono senz'altro da rinvenire «ogniqualvolta l'inattività degli organi comporti un danno per l'ente o si configuri come un inadempimento in relazione a precisi obblighi derivanti da leggi, provvedimenti amministrativi o comunque collegati a vincoli contrattuali; si evidenzia, inoltre, la necessità che l'improrogabilità e l'urgenza vengano adeguatamente motivate, specialmente quando sono atti per il cui compimento non è prescritto un termine».
-------------
L'incognita
01|LA REGOLA
Nei 46 giorni precedenti alle elezioni amministrative, il consiglio comunale può occuparsi solo degli atti indifferibili e urgenti, cioè quelli che non possono essere lasciati all'amministrazione subentrante perché obbligati da scadenze vincolanti
02|LA PROROGA
Per il 2012, il termine di presentazione dei bilanci preventivi di Comuni e Province è stato fissato al 30.06.2012, cioè due mesi dopo il turno elettorale
03|LA CONSEGUENZA
L'approvazione dei preventivi 2012 da parte dei consigli uscenti può essere contestata dove i Comuni sono interessati dalle elezioni del 6 e 7 maggio (articolo Il Sole 24 Ore del 19.03.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

APPALTI FORNITUREFornitore inadempiente? Al comune va risarcito anche il danno all'immagine.
Il comune incassa anche il danno alla «credibilità politica» per l'inadempimento del fornitore: la risoluzione del contratto impone di ristorare la lesione all'immagine dell'amministrazione presso i cittadini-elettori. Non paga soltanto i danni patrimoniali il fornitore del comune che si vede risolvere il contratto per inadempimento: l'impresa rivelatasi negligente nell'esecuzione della prestazione pattuita è tenuta anche a rifondere il pregiudizio arrecato all'immagine dell'amministrazione locale, che viene lesa nella sua credibilità politica presso i cittadini.

Lo precisa la sentenza 22.03.2012 n. 4542 della III Sez. civile della Corte di Cassazione.
Danno alla popolarità. Confermata la condanna a carico di un'azienda rea di aver noleggiato al comune una tensostruttura che alla prova dei fatti si è dimostrata fatiscente, nonostante gli «altolà» della commissione provinciale di vigilanza. Insomma: l'amministrazione ci ha messo la faccia e ha rimediato una figuraccia perché la struttura inadeguata è stata utilizzata per spettacoli organizzati nell'ambito di una manifestazione culturale su cui pure la giunta puntava molto. E la società dovrà pagare 100 mila euro di danni all'ente locale per aver compromesso lo svolgimento della stagione teatrale all'aperto. Vediamo perché.
È pacifico, intanto, che anche le persone giuridiche, accanto a quelle fisiche, possano ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale: non conta, peraltro, se la lesione scaturisce da una responsabilità contrattuale o aquiliana. È vero: nel caso di enti collettivi il risarcimento scatta per la «lesione di diritti della personalità che altrettanto garantiti delle persone fisiche che compongono l'ente». Ma proprio per questo sbaglia l'azienda inadempiente a dolersi del risarcimento liquidato all'amministrazione: la decisione di noleggiare la tensostruttura per realizzare un'iniziativa culturale scaturisce dall'esigenza acquisire una maggiore considerazione presso i cittadini-elettori: è allora evidente che la reputazione e il prestigio costituiscono beni essenziali anche per il comune, che sul rapporto con gli amministrati si gioca la sua credibilità da portare «all'incasso» alle successive elezioni.
Insomma: non c'è dubbio che il calo di popolarità, inteso come diminuzione della considerazione presso i consociati, sia un danno non patrimoniale immediatamente risarcibile per gli enti territoriali rappresentativi.
Due profili. La spiegazione è offerta dagli stessi giudici con l'ermellino: anche le persone giuridiche, tra cui vanno compresi gli enti territoriali esponenziali, come per esempio i comuni, possono essere lesi in quei diritti immateriali della personalità, che sono compatibili con «l'assenza di fisicità».
Qualche esempio? I diritti all'immagine, alla reputazione, all'identità storica, culturale, e politica che sono protetti dalla Costituzione: ecco perché in tale ipotesi le amministrazioni ben possono agire per il ristoro del danno. Va ricordato poi che nell'ipotesi di lesione dell'immagine della persona giuridica o di un ente territoriale, il danno non patrimoniale, in quanto tale, deve essere necessariamente liquidato alla persona giuridica o all'ente in via equitativa, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto. Insomma: il giudice di secondo grado non ha sbagliato a condannare l'impresa.
Il danno alla «credibilità politica» risulta liquidabile come conseguenza della diminuzione della considerazione del comune da due punti di vista: sotto il profilo dell'incidenza negativa che la diminuzione comporta nell'agire del sindaco e della giunta e anche rispetto al calo di popolarità presso i cittadini in genere o presso settori o categorie di essi con le quali l'ente di interagisce di solito. Il danno non patrimoniale, dunque, va inteso come un classico danno-conseguenza previsto dall'ordinamento giuridico. All'azienda non resta che pagare le spese processuali (articolo ItaliaOggi del 23.03.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOSolo peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico possono derogare alla regola generale che subordina l'instaurazione di un rapporto d'impiego con un ente pubblico alla partecipazione ad un concorso pubblico.
A termini dell’art. 5, comma 18, della legge 08.01.1979, n. 3, per la instaurazione di un valido rapporto di impiego con un ente pubblico è necessaria la partecipazione ad un concorso o ad una prova selettiva pubblica, perché il concorso pubblico, quale meccanismo imparziale di selezione tecnica e neutrale dei più capaci sulla base del criterio del merito, costituisce la forma generale e ordinaria di reclutamento per le pubbliche amministrazioni, nonché un ineludibile presidio delle esigenze di trasparenza e di efficienza dell'azione amministrativa.
Le eccezioni a tale regola consentite dall'art. 97 della Costituzione possono essere disposte solo con legge e debbono rispondere a “peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico” (Corte Costituzionale, sentenza n. 81, del 22.02.2006) … ”altrimenti la deroga si risolverebbe in un privilegio a favore di categorie più o meno ampie di persone” (Corte Costituzionale, sentenza n. 205 del 17.05.2006) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.03.2012 n. 1625
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGODipendenti degli enti locali: nessun riconoscimento giuridico ed economico alle mansioni superiori esercitate di fatto.
L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con decisione n. 22 del 18.11.1999, ha rimarcato che le mansioni svolte, superiori a quelle dovute sulla base del provvedimento di nomina o di inquadramento, sono del tutto irrilevanti ai fini economici e di progressione di carriera, salvo che la legge non disponga altrimenti e che l’attribuzione della mansioni e del relativo trattamento economico devono trovare presupposto nel provvedimento stesso di nomina o di inquadramento. Nel pubblico impiego, in sostanza, è la qualifica e non le mansioni il parametro di riferimento per la retribuzione, considerata la rigidità organizzatoria propria della pubblica amministrazione, legata anche ad esigenze fondamentali di controllo della spesa pubblica, così come previsto dall’articolo 97 della Costituzione.
In ordine al disposto dell’articolo 36 della Costituzione, richiamato nel caso di specie dall’appellante unitamente alla sentenza della Corte Costituzionale n. 296/19909, come da giurisprudenza ricorrente deve osservarsi che la norma trova applicazione nel pubblico impiego in concorso con altri principi di pari rilevanza, quali il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione e la rigida determinazione delle attribuzioni e responsabilità dei funzionari. Tali principi non consentono di dare riconoscimento giuridico ed economico alle mansioni superiori esercitate di fatto (Cons., Stato, sez. VI, 18.09.2009, n. 5605).
Giova rilevare che tale limite ha carattere di generalità nel pubblico impiego, tanto che per i dipendenti degli enti locali la possibilità di riconoscimento delle mansioni superiori è stata esclusa dai vari D.P.R. che hanno recepito gli accordi collettivi di categoria, per evitare che con tale conferimento si potesse far luogo dello slittamento in alto delle varie qualifiche, con conseguenti squilibri e lievitazione della spesa pubblica.
Deve osservarsi, da ultimo, che gli artt. 56 e 57 del D.lgs. n. 29 del 31.03.1993, pure evocati dall’appellante, escludono la rilevanza delle mansioni superiori svolte di fatto da un pubblico dipendente, in quanto il divieto di riconoscimento delle stesse ai fini di un diverso inquadramento è coerente ai dettati costituzionali, in particolare all’articolo 97 che, per il principio di imparzialità obbliga alla osservanza delle regole di selezione e di accesso al pubblico impiego, per il buon andamento della pubblica amministrazione e per dare ad essa certezze sul piano organizzativo e finanziario (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.03.2012 n. 1623 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROGETTUALI: Sebbene l’art. 90, comma 8, del codice dei contratti pubblici sancisca l’incompatiblità fra esecuzione dei lavori ed attività di progettazione degli stessi, il medesimo principio deve ritenersi applicabile anche agli appalti di servizi di progettazione, con conseguente divieto di aggiudicazione dell’incarico di progettazione definitiva ai professionisti che abbiano elaborato o concorso ad elaborare la progettazione preliminare, qualora da ciò possa derivare in capo agli stessi una posizione di vantaggio rispetto ai concorrenti.
La giurisprudenza del Giudice amministrativo d’appello ha di recente sancito che, sebbene l’art. 90, comma 8, del codice dei contratti pubblici sancisca l’incompatiblità fra esecuzione dei lavori ed attività di progettazione degli stessi, il medesimo principio deve ritenersi applicabile anche agli appalti di servizi di progettazione, con conseguente divieto di aggiudicazione dell’incarico di progettazione definitiva ai professionisti che abbiano elaborato o concorso ad elaborare la progettazione preliminare, qualora da ciò possa derivare in capo agli stessi una posizione di vantaggio rispetto ai concorrenti (Cons. Stato, IV, 03/05/2011, n. 2650) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 22.03.2012 n. 890 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO: La previsione del bando, quale lex specialis della procedura, non può disapplicarsi nemmeno se in contrasto con la normativa primaria, essendo necessaria la previa impugnazione della stessa e la sua caducazione ad opera del giudice o della stessa Amministrazione in sede di autotutela.
La previsione del bando, quale lex specialis della procedura, non può disapplicarsi nemmeno se in contrasto con la normativa primaria –come pare evidente in questo caso, atteso il chiaro disposto degli artt. 46 e ss. del D.P.R. n. 445 del 2000– essendo necessaria la previa impugnazione della stessa e la sua caducazione ad opera del giudice o della stessa Amministrazione in sede di autotutela (cfr. Consiglio di Stato, V, 11.01.2012, n. 82) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 22.03.2012 n. 887 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sulla mancata indicazione dei concreti soggetti per i quali la dichiarazione viene resa.
Le dichiarazioni relative all'assenza di condanne penali, da parte degli amministratori e direttori tecnici sono da questi rese non nel proprio interesse, bensì nell'interesse dell'impresa concorrente, sicché è possibile che l'amministratore che sottoscrive gli atti di gara renda le dichiarazioni anche in vece degli altri soggetti coinvolti, osservando le prescrizioni di cui all'art. 47, commi 1 e 2, d.P.R. n. 445 del 2000 (nel caso di specie, il disciplinare di gara, correttamente inteso, commina l'esclusione per la sola ipotesi che la dichiarazione ex art. 38, d.lgs. n. 163 del 2006 sia stata del tutto omessa, mentre non può farsene discendere la sanzione dell'esclusione nel caso in cui il legale rappresentante dell'impresa capogruppo abbia sottoscritto la dichiarazione anche per conto degli altri amministratori, le cui generalità sono peraltro desumibili dal certificato di iscrizione al registro delle imprese, che lo stesso disciplinare impone di allegare all'offerta) (massima tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it - TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza 22.03.2012 n. 749 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: I consiglieri comunali possono impugnare gli atti del consiglio nel quale siedono esclusivamente quando questi incidano sulla possibilità di esercitare adeguatamente il mandato.
Nel caso di specie due consiglieri comunali hanno impugnato innanzi al Consiglio di Stato la sentenza del giudice di primo grado che aveva dichiarato inammissibile il ricorso dai medesimi proposto avverso alcune deliberazioni del Consiglio Comunale con le quali per esempio erano stati riconosciuti ed approvati debiti fuori bilancio ai sensi dell’art. 194, primo comma, lett. a ed e, d.lgs. n. 267/2000.
Il Consiglio di Stato ha rigettato l'appello sulla base del pacifico orientamento giurisprudenziale secondo il quale i consiglieri di ente locale sono legittimati all’impugnazione degli atti del consiglio nel quale siedono esclusivamente quando questi incidano sulla possibilità di esercitare adeguatamente il mandato (C. di S., VI, 19.05.2010, n. 3130; V, 19.02.2007, n. 826; 15.12.2005, n. 7122; 31.01.2001, n. 358).
Inoltre si precisa nella sentenza che l’omissione o il ritardo nel fornire ai consiglieri dell’ente locale gli atti presupposti ad una proposta di delibera non costituisce lesione del diritto allo “jus ad officium” e quindi non legittima il consigliere alla proposizione del ricorso, restando la sua tutela affidata all’espressione a verbale del proprio dissenso in quanto corollario del più generale principio sopra affermato (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.03.2012 n. 1610 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Non è necessario che vengano redatti i verbali di gara in contestualità.
Il Consiglio di Stato nella sentenza in commento per ciò che riguarda la contestualità della verbalizzazione ha affermato che questa non è necessaria: essa può essere redatta anche in un secondo momento, purché in sede di procedura di gara, il segretario verbalizzante prenda i necessari appunti per poter in un secondo momento redigere con attenzione il relativo verbale, non essendo certamente possibile durante le convulse e veloci fasi della gara la compiuta ed esatta verbalizzazione degli accadimenti.
Quanto, poi, al fatto che alcune contestazioni dell’appellante non sono state verbalizzate, al di là del fatto che una tale pratica è irregolare, ciò non può però considerarsi un “vulnus”, in quanto in ogni caso, anche in mancanza di verbalizzazione, è sempre possibile far valere eventuali ritenute illegittimità (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.03.2012 n. 1599
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La sigillazione, prevista con varie modalità dalla “lex specialis” ha la sua ragione sia nel dimostrare la provenienza della busta e sia nell’evitare che la stessa possa essere manomessa, potendo procedersi ad estrarre il contenuto della stessa e modificarlo in un secondo momento e, proprio per ciò, il bando ha previsto una serie di modalità alternative tra loro (ceralacca, nastro antistrappo o strumenti equivalenti), tutte capaci di garantire la finalità sopra indicata.
Nel caso di specie, la presenza di una busta già presigillata dal fornitore, non poteva essere chiusa in altro modo e la sovrapposizione di un timbro e di una sigla da parte del presentatore garantisce, da un lato, la provenienza della busta medesima da parte dell’impresa partecipante, e, dall’altro, individua una garanzia di sigillazione tale da non poter essere manomessa, a pena di alterare l’originalità della chiusura e i simboli sopra apposti dal presentatore.
Né si dica che tali modalità avrebbero permesso la manomissione e la ricomposizione con altra busta, in quanto ciò, astrattamente sarebbe stato possibile, con qualunque sigillazione.
Pertanto, le modalità di sigillazione rispondono alle indicazioni del bando di gara e vanno ritenute coerenti con esse, in quanto strumenti equivalenti (ammessi dalla disciplina di gara).
Il punto fondamentale della questione, già rilevato in primo grado e sul quale l’appellante ritiene che la sentenza appellata non si sia adeguatamente pronunciata, concerne la mancata sigillazione della busta “a sacchetto” conformemente a quanto previsto dal bando.
Ora, la sigillazione, prevista con varie modalità dalla “lex specialis” ha la sua ragione sia nel dimostrare la provenienza della busta e sia nell’evitare che la stessa possa essere manomessa, potendo procedersi ad estrarre il contenuto della stessa e modificarlo in un secondo momento e, proprio per ciò, il bando ha previsto una serie di modalità alternative tra loro (ceralacca, nastro antistrappo o strumenti equivalenti), tutte capaci di garantire la finalità sopra indicata.
Nel caso di specie, la presenza di una busta già presigillata dal fornitore, non poteva essere chiusa in altro modo e la sovrapposizione di un timbro e di una sigla da parte del presentatore garantisce, da un lato, la provenienza della busta medesima da parte dell’impresa partecipante, e, dall’altro, individua una garanzia di sigillazione tale da non poter essere manomessa, a pena di alterare l’originalità della chiusura e i simboli sopra apposti dal presentatore.
Né si dica che tali modalità avrebbero permesso la manomissione e la ricomposizione con altra busta, in quanto ciò, astrattamente sarebbe stato possibile, con qualunque sigillazione.
Pertanto, le modalità di sigillazione rispondono alle indicazioni del bando di gara e vanno ritenute coerenti con esse, in quanto strumenti equivalenti (ammessi dalla disciplina di gara) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.03.2012 n. 1599
- link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - SEGRETARI COMUNALI: Procedimento di nomina del Segretario comunale o provinciale.
E'
inequivocabile che il Sindaco (o il Presidente della Provincia) può provvedere alla nomina “solo in presenza e dopo l’intervenuta assegnazione, da parte dell’Ages, del Segretario in precedenza individuato; ove manchi l’assegnazione, non può farsi luogo ad alcuna nomina e quella eventualmente disposta deve stimarsi tamquam non esset per carenza del suo unico ed indefettibile presupposto.
Detto altrimenti, la nomina del Segretario procede dal perfezionamento di una fattispecie a formazione progressiva, di cui l’assegnazione da parte dell’Agenzia è un elemento essenziale e costitutivo: non è pensabile, infatti, alla luce dei principi generali, che un ente pubblico (nello specifico, la Provincia o il Comune) possa avvalersi di un impiegato appartenente al ruolo di una differente amministrazione, senza aver preventivamente raggiunto con quest’ultima una specifica intesa (il termine, qui ovviamente utilizzato in senso atecnico, allude alla convergenza oggettiva che deve necessariamente realizzarsi, in sede procedimentale, tra le richieste formulate dall’ente locale e l’esito delle verifiche delegate istituzionalmente all’Agenzia)”.
Ai fini del decidere, appare opportuno richiamare la normativa che disciplina la materia e precisamente il D.Lgs. n. 267 del 2000, il D.P.R. 04.12.1997, n. 465 nonché il contratto collettino nazionale di lavoro dei segretari comunali e provinciali siglato il 16.05.2001, i quali –per quanto di rilevanza in questa sede– prevedono che:
- “il comune e la provincia hanno un segretario titolare dipendente dell’Agenzia autonoma per la gestione dell’albo dei segretari comunali e provinciali, di cui all’art. 102 e iscritto all’albo di cui all’art. 98” (art. 97, comma 1, D.Lgs. n. 267 del 2000);
- “l’iscrizione all’albo è subordinata al possesso dell’abilitazione concessa dalla Scuola superiore per la formazione e la specializzazione dei dirigenti della pubblica amministrazione locale ovvero dalla sezione autonoma della Scuola superiore dell’amministrazione dell’Interno” (art. 98, comma 4, D.Lgs. n. 267 del 2000);
- “al relativo corso si accede mediante concorso nazionale a cui possono partecipare i laureati in giurisprudenza, scienze politiche, economia” (art. 98, comma 5, D.Lgs. n. 267 del 2000);
- il consiglio nazionale di amministrazione dell’Agenzia autonoma per la gestione dell’albo dei segretari comunali e provinciali dispone l’iscrizione nell’albo, nella prima fascia professionale, degli idonei ai concorsi all’uopo espletati (art. 12 D.P.R. n. 465 del 1997);
- i segretari comunali e provinciali risultano iscritti in specifiche fasce professionali (art. 12 D.P.R. n. 465 del 1997);
- “il sindaco e il presidente della provincia nominano il segretario, che dipende funzionalmente dal capo dell’amministrazione, scegliendo tra gli iscritti all’albo di cui all’art. 98” (art. 99, comma 1, D.Lgs. n. 267 del 2000; art. 15 del D.P.R. n. 465 del 1997);
- “la nomina è disposta non prima di 60 giorni e non oltre 120 giorni dalla data di insediamento del sindaco e del presidente della provincia, decorsi i quali il segretario è confermato” (art. 99, comma 3, D.Lgs. n. 267 del 2000; art. 15 D.P.R. n. 465 del 1997);
- “l’avvio della procedura di nomina è pubblicizzato nelle forme stabilite dal consiglio nazionale di amministrazione. L’Agenzia fornisce, a richiesta i curricula relativi alle caratteristiche professionali dei segretari. La nomina del segretario ha effetto dall’accettazione” (art. 15, comma 4, D.P.R. n. 465 del 1997);
- “1. la nomina a segretario avviene nel rispetto delle previsioni del T.u.e.l. n. 267/2000 e del DPR n. 465/1997. 2. A tal fine, a seguito dell’avvio della procedura che deve essere pubblicizzato nelle forme stabilite dal Consiglio nazionale di amministrazione, la Sezione regionale dell’Agenzia competente trasmette ai sindaci che ne hanno fatto richiesta l’elenco dei segretari iscritti e che non siano già titolari di incarichi presso altri enti, con i relativi curricula” (art. 17 CCNL);
- “il rapporto di lavoro dei segretari comunali e provinciali è costituito e regolato da contratti individuali, secondo le disposizioni di legge, della normativa comunitaria e del presente contratto collettivo di lavoro. Il rapporto di lavoro con l’Agenzia nazionale si instaura con la sottoscrizione del contratto individuale con la prima nomina a segretario generale” (art. 15 CCNL);
- l’eventuale “mancata accettazione della prima nomina comporta automaticamente la cancellazione dall’albo” (art. 13 del D.P.R. n. 465 del 1997; art. 17 CCNL).
Come già si evince da quanto riportato:
- risultava istituita un’Agenzia autonoma per la gestione dell’albo dei segretari comunali e provinciali, “avente personalità giuridica di diritto pubblico e sottoposta alla vigilanza del Ministero dell’Interno” (art. 102 D.Lgs. n. 267 del 2000; art. 1 del D.P.R. n. 465 del 1997), poi venuta meno a seguito dell’entrata in vigore del D.L. 31.05.2010, n. 78;
- in linea con le previsioni dell’art. 12 del D.P.R. n. 465 del 1997, il contratto collettivo nazionale del 2001 ha previsto tre fasce professionali per l’iscrizione all’albo dei segretari comunali e provinciali e precisamente la fascia C, attinente ai segretari idonei alla titolarità di comuni fino a 3.000 abitanti, i quali abbiano superato il concorso ed il corso previsti per l’accesso in carriera (art. 13 D.P.R. n. 465 del 2001), la fascia B, in cui sono inseriti i segretari risultati idonei, a seguito del superamento del corso di specializzazione della Scuola Superiore di cui all’art. 14 del D.P.R. n. 467 del 1997, alla titolarità di sedi di comuni fino a 65.000 abitanti, e, infine, la fascia A, ricomprendente i segretari idonei, a seguito del superamento del secondo corso di specializzazione della Scuola Superiore, alla titolarità di comuni con popolazione superiore a 65.000 abitanti, nonché di comuni capoluogo di provincia e di province, con la precisazione che per l’ammissione ai corsi di specializzazione è richiesta una specifica anzianità di servizio pari ad almeno due anni nella fascia C o, in relazione al corso previsto per la fascia A, “in comuni di classe II o superiore” (cfr., tra l’altro, accordo sottoscritto il 13.01.2009 e, in precedenza, art. 31 CCNL).
Tutto ciò premesso, appare evidente che la nomina del segretario comunale costituisce il risultato di un iter complesso, il quale –all’epoca della vicenda della ricorrente- vedeva primariamente coinvolti l’Agenzia sopra indicata ed il Sindaco.
A seguito delle riforme varate sul finire degli anni novanta del secolo scorso (cc.dd. “riforme Bassanini”), i segretari comunale e provinciali sono, infatti, divenuti dipendenti dell’Agenzia (cfr. art. 97, comma 1, del TUEL, già richiamato) ma si tratta comunque di funzionari che intrattengono un rapporto funzionale di servizio con gli enti locali di assegnazione.
Come osservato dal Consiglio di Stato (cfr. Sez. V, 31.07.2006, n. 4694), sussiste “embricazione” tra due rapporti, da identificare con quello di impiego e quello di servizio, la quale chiaramente rivela che l’atto di assegnazione dell’Agenzia costituisce uno snodo fondamentale del procedimento di nomina.
La procedura –così come desumibile dalle previsioni di cui sopra ma anche dalla deliberazione del Consiglio Nazionale di Amministrazione n. 150 del 15.07.1999– risulta, infatti, così articolata:
- avvio del procedimento di nomina da parte del Sindaco (o dal Presidente della Provincia) tramite richiesta all’Agenzia di pubblicare avviso di ricerca di un segretario per l’ente;
- pubblicazione dell’avviso di vacanza sul sito internet dell’Agenzia;
- individuazione da parte dell’amministrazione richiedente del nominativo del segretario da nominare e conseguente richiesta di assegnazione indirizzata all’Agenzia;
- assegnazione da parte dell’Agenzia, una volta accertato il possesso, in capo al segretario individuato, dei requisiti prescritti per l’assunzione dell’incarico;
- adozione da parte del Sindaco (o del Presidente della Provincia) del provvedimento di nomina del segretario assegnato;
- accettazione da parte del nominato ed assunzione in servizio dello stesso.
Ciò detto, è inequivocabile che il Sindaco (o il Presidente della Provincia) può provvedere alla nomina “solo in presenza e dopo l’intervenuta assegnazione, da parte dell’Ages, del Segretario in precedenza individuato; ove manchi l’assegnazione, non può farsi luogo ad alcuna nomina e quella eventualmente disposta deve stimarsi tamquam non esset per carenza del suo unico ed indefettibile presupposto. Detto altrimenti, la nomina del Segretario procede dal perfezionamento di una fattispecie a formazione progressiva, di cui l’assegnazione da parte dell’Agenzia è un elemento essenziale e costitutivo: non è pensabile, infatti, alla luce dei principi generali, che un ente pubblico (nello specifico, la Provincia o il Comune) possa avvalersi di un impiegato appartenente al ruolo di una differente amministrazione, senza aver preventivamente raggiunto con quest’ultima una specifica intesa (il termine, qui ovviamente utilizzato in senso atecnico, allude alla convergenza oggettiva che deve necessariamente realizzarsi, in sede procedimentale, tra le richieste formulate dall’ente locale e l’esito delle verifiche delegate istituzionalmente all’Agenzia)” (cfr. C.d.S., dec. citata).
Stante quanto precisato, il Collegio ritiene di poter affermare che –in carenza del rispetto della procedura di cui sopra ed, in particolare, dell’espletamento da parte dell’Agenzia dell’attività alla stessa spettante– alcun valido rapporto di servizio potrà mai instaurarsi tra il Sindaco ed il Segretario Comunale e, dunque, non potrà utilmente maturare e, conseguentemente, essere ravvisato il periodo di servizio richiesto per l’ammissione al corso di specializzazione interno per il conseguimento dell’idoneità a segretario di fascia più alta
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-ter, sentenza 20.03.2012 n. 2682 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANessuna sanatoria di abusi edilizi per il richiedente che non provi la data di realizzazione delle opere.
Nel caso di proposizione di una istanza di sanatoria di un immobile abusivo, il richiedente ha l’onere di dimostrare la sussistenza dei presupposti previsti dalla legge e, in particolare, quale sia stata la data di realizzazione delle opere.
Ove poi un interessato intenda far rilevare dall’amministrazione comunale che l’edificio è stato realizzato in un’epoca in cui ancora la normativa allora vigente non richiedeva titoli edilizi (e pertanto chieda un atto accertativo in alternativa a quello di sanatoria che presuppone l’abusività delle opere), egli comunque abbia l’onere di dimostrare tutte le relative circostanze di fatto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 20.03.2012 n. 1563
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: I vincoli espropriativi imposti su beni determinati dallo strumento urbanistico hanno, per legge, durata limitata a cinque anni. Alla scadenza, se non è intervenuta dichiarazione di pubblica utilità dell'opera prevista, il vincolo preordinato all'esproprio decade.
La decadenza dei vincoli urbanistici espropriativi o che, comunque, privano la proprietà del suo valore economico, comporta l'obbligo per il Comune di "reintegrare" la disciplina urbanistica dell'area interessata dal vincolo decaduto con una nuova pianificazione. Ne consegue che il proprietario dell'area interessata può presentare un'istanza, volta a ottenere l'attribuzione di una nuova destinazione urbanistica e l'amministrazione è tenuta a esaminarla, anche nel caso in cui la richiesta medesima non sia suscettibile di accoglimento, con l'obbligo di motivare congruamente tale decisione, fermo restando, naturalmente, il potere discrezionale dell'amministrazione comunale in ordine alla verifica e alla scelta della destinazione, in coerenza con la più generale disciplina del territorio e con l'interesse pubblico al corretto e armonico suo utilizzo.
Pertanto, la giurisprudenza amministrativa ha costantemente affermato:
a) l’illegittimità del "silenzio serbato dall'Amministrazione rispetto alla diffida volta ad ottenere l'emanazione degli atti necessari a conferire una nuova destinazione urbanistica all'area dell'istante";
b) che l'Amministrazione ha l'obbligo di "attribuire una nuova destinazione all'area interessata e, in caso di inerzia, il privato potrà agire in via giurisdizionale mediante gli strumenti previsti contro il silenzio-rifiuto dall'art. 2, l. n. 205/2000";
c) che l'accoglimento del gravame proposto contro il silenzio-rifiuto formatosi su una diffida a provvedere sulla definizione urbanistica di un'area già oggetto di vincolo espropriativi scaduto comporta esclusivamente l'obbligo dell'Amministrazione di provvedere sull'istanza del soggetto interessato e di attribuire all'area una specifica e appropriata destinazione urbanistica.

Va ricordato che i vincoli espropriativi imposti su beni determinati dallo strumento urbanistico hanno, per legge, durata limitata a cinque anni. Alla scadenza, se non è intervenuta dichiarazione di pubblica utilità dell'opera prevista, il vincolo preordinato all'esproprio decade (cfr. l’art. 2 L. n. 1187 del 1968 ed ora l’art. 9 del T.U. delle norme in materia di espropriazione per pubblica utilità, approvato con D.P.R. 08.06.2001, n. 327).
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, la decadenza dei vincoli urbanistici espropriativi o che, comunque, privano la proprietà del suo valore economico, comporta l'obbligo per il Comune di "reintegrare" la disciplina urbanistica dell'area interessata dal vincolo decaduto con una nuova pianificazione. Ne consegue che il proprietario dell'area interessata può presentare un'istanza, volta a ottenere l'attribuzione di una nuova destinazione urbanistica e l'amministrazione è tenuta a esaminarla, anche nel caso in cui la richiesta medesima non sia suscettibile di accoglimento, con l'obbligo di motivare congruamente tale decisione (cfr. Cons. St., Sez. IV, 22.06.2004 n. 4426; TAR Campania, Salerno, Sez. I, 03.06.2009, n. 2825; TAR Sicilia, Palermo, Sez. III, 25.06.2009 n. 1167; Catania, Sez. I, 13.03.2008 n. 467; 18.07.2006 n. 1183; 21.06.2004 n. 1733), fermo restando, naturalmente, il potere discrezionale dell'amministrazione comunale in ordine alla verifica e alla scelta della destinazione, in coerenza con la più generale disciplina del territorio e con l'interesse pubblico al corretto e armonico suo utilizzo (cfr. Cons. St., sez. IV, 08.06.2007, n. 3025).
Pertanto, la giurisprudenza amministrativa ha costantemente affermato:
a) l’illegittimità del "silenzio serbato dall'Amministrazione rispetto alla diffida volta ad ottenere l'emanazione degli atti necessari a conferire una nuova destinazione urbanistica all'area dell'istante" (cfr. TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 19.05.2005 n. 860; TAR Napoli, Sez. VIII, 16.09.2008 n. 10204);
b) che l'Amministrazione ha l'obbligo di "attribuire una nuova destinazione all'area interessata e, in caso di inerzia, il privato potrà agire in via giurisdizionale mediante gli strumenti previsti contro il silenzio-rifiuto dall'art. 2, l. n. 205/2000" (cfr. Cons. St., Sez. IV, 28.01.2002 n. 456);
c) che l'accoglimento del gravame proposto contro il silenzio-rifiuto formatosi su una diffida a provvedere sulla definizione urbanistica di un'area già oggetto di vincolo espropriativi scaduto comporta esclusivamente l'obbligo dell'Amministrazione di provvedere sull'istanza del soggetto interessato e di attribuire all'area una specifica e appropriata destinazione urbanistica (cfr. TAR Veneto, Sez. I, 12.03.2004 n. 639) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 20.03.2012 n. 454 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Sono al di fuori dello schema ablatorio-espropriativo con le connesse garanzie costituzionali (e quindi non necessariamente con l'alternativa di indennizzo o di durata predefinita) i vincoli che importano una destinazione (anche di contenuto specifico) realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, che non comportino necessariamente espropriazione o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica e quindi siano attuabili anche dal soggetto privato e senza necessità di previa ablazione del bene. Ciò può essere il risultato di una scelta di politica programmatoria tutte le volte che gli obiettivi di interesse generale, di dotare il territorio di attrezzature e servizi, siano ritenuti realizzabili (e come tali specificatamente compresi nelle previsioni pianificatorie) anche attraverso l'iniziativa economica privata - pur se accompagnati da strumenti di convenzionamento. Si fa riferimento, ad esempio, ai parcheggi, impianti sportivi, mercati e complessi per la distribuzione commerciale, edifici per iniziative di cura e sanitarie o per altre utilizzazioni quali zone artigianali o industriali o residenziali; in breve, a tutte quelle iniziative suscettibili di operare in libero regime di economia di mercato.
---------------
Sono vincoli preordinati all'espropriazione o di carattere sostanzialmente espropriativo solo quelli che implicano uno svuotamento incisivo della proprietà, mentre non lo sono i vincoli di destinazione imposti dal piano regolatore per attrezzature e servizi realizzabili anche ad iniziativa privata o promiscua, in regime di economia di mercato, anche se accompagnati da strumenti di convenzionamento (ad esempio parcheggi, impianti sportivi, mercati e strutture commerciali, edifici sanitari, zone artigianali, industriali o residenziali).
In questa prospettiva, le destinazioni a parco urbano, a verde urbano, a verde pubblico, a verde pubblico attrezzato, a parco giochi e simili si pongono al di fuori dello schema ablatorio-espropriativo e costituiscono espressione di potestà conformativa (avente validità a tempo indeterminato), quando lo strumento urbanistico consente di realizzare tali previsioni, non già ad esclusiva iniziativa pubblica, ma ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, senza necessità di ablazione del bene.

Va rammentato che la Corte costituzionale (con la fondamentale sentenza 20.05.1999, n. 179) ha affermato (al p. 5.) che sono al di fuori dello schema ablatorio-espropriativo con le connesse garanzie costituzionali (e quindi non necessariamente con l'alternativa di indennizzo o di durata predefinita) i vincoli che importano una destinazione (anche di contenuto specifico) realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, che non comportino necessariamente espropriazione o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica e quindi siano attuabili anche dal soggetto privato e senza necessità di previa ablazione del bene. Ciò può essere il risultato di una scelta di politica programmatoria tutte le volte che gli obiettivi di interesse generale, di dotare il territorio di attrezzature e servizi, siano ritenuti realizzabili (e come tali specificatamente compresi nelle previsioni pianificatorie) anche attraverso l'iniziativa economica privata - pur se accompagnati da strumenti di convenzionamento. Si fa riferimento, ad esempio, ai parcheggi, impianti sportivi, mercati e complessi per la distribuzione commerciale, edifici per iniziative di cura e sanitarie o per altre utilizzazioni quali zone artigianali o industriali o residenziali; in breve, a tutte quelle iniziative suscettibili di operare in libero regime di economia di mercato.
In tal senso si è consolidato un vasto orientamento giurisprudenziale (cfr. Cons. St. Sez. IV 29.08.2002 n. 4340, idem 30.06.2005 n. 3524; idem 12.05.2010 n. 2843; Tar Milano, Sez. II, 29.01.2009, n. 989; TAR Salerno, Sez. II, 27.04.2011 n. 764) che ha affermato che sono vincoli preordinati all'espropriazione o di carattere sostanzialmente espropriativo solo quelli che implicano uno svuotamento incisivo della proprietà, mentre non lo sono i vincoli di destinazione imposti dal piano regolatore per attrezzature e servizi realizzabili anche ad iniziativa privata o promiscua, in regime di economia di mercato, anche se accompagnati da strumenti di convenzionamento (ad esempio parcheggi, impianti sportivi, mercati e strutture commerciali, edifici sanitari, zone artigianali, industriali o residenziali).
In questa prospettiva, le destinazioni a parco urbano, a verde urbano, a verde pubblico, a verde pubblico attrezzato, a parco giochi e simili si pongono al di fuori dello schema ablatorio-espropriativo e costituiscono espressione di potestà conformativa (avente validità a tempo indeterminato), quando lo strumento urbanistico consente di realizzare tali previsioni, non già ad esclusiva iniziativa pubblica, ma ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, senza necessità di ablazione del bene.
Pertanto, una volta esclusa per l'area di cui si tratta la qualità di vincolo di natura espropriativa nella destinazione ad essa impressa dall'impugnato P.G.T, va applicata la regola generale secondo cui le scelte effettuate dall'Amministrazione all'atto di adozione del piano regolatore costituiscono apprezzamenti di merito sottratti come tali al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o abnorme illogicità (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 20.03.2012 n. 449 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVICondizioni per la formazione del silenzio assenso.
Per invocare la formazione del silenzio assenso ai sensi dell’art. 20 della legge n. 241/1990 va dimostrato, oltre al decorso del tempo, il possesso di tutte le condizioni di carattere oggettivo e dei requisiti soggettivi necessari per lo svolgimento dell’attività per la quale vi è richiesta di autorizzazione amministrativa (vedi C.d.S., sez. V, 11.02.1999, n. 145) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.03.2012 n. 1545 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nessuna durata predefinita per le autorizzazioni all'esercizio di impianti di distribuzione del carburante, ma verifica del Comune del permanere dei requisiti di compatibilità.
A seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 32/1998, è cambiata radicalmente la natura del titolo in base al quale il privato esercita l’attività di esercizio di impianto di distribuzione carburanti, con la conseguenza che la disciplina di tale attività dovrà ritrovarsi per intero nell’autonoma e diversa disciplina dell’autorizzazione, senza che possa ritenersi automaticamente in questa trasfuso (non essendovi, peraltro, disposizione alcuna in tal senso) il contenuto dispositivo della precedente e non più sussistente concessione.
Ed in questo senso, va rilevato come il sopravvenuto d.lgs. abbia nella sostanza sostituito al termine diciottennale, che assisteva le cessate concessioni, un termine determinato in ragione del suo tempo massimo pari a quindici anni dalla prima verifica di compatibilità, entro il quale il Comune deve rinnovare la stessa verifica con un procedimento apposito il cui esito può essere:
1) o la rinnovata pronuncia di compatibilità;
2) ovvero quella di incompatibilità, con il conseguente iter procedurale che può condurre alla chiusura dell’impianto, laddove il titolare dello stesso non chieda ovvero non presenti un piano di adeguamento, ovvero presentandolo non ne consegua l’approvazione.
Da ciò consegue che l’autorizzazione è sottoposta, quanto alla sua efficacia temporale, non ad una durata specificamente predefinita, bensì alla verifica del permanere dei requisiti di compatibilità ex art. 1 cit. D.lgs., da effettuarsi da parte della pubblica amministrazione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.03.2012 n. 1543 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa sentenza che accoglie la domanda volta ad obbligare la P.A. a concludere il procedimento con provvedimento espresso non determina anche la sussistenza della competenza dell'autorità inerte.
Quando l’interessato presenti una istanza ad una Amministrazione e poi chieda al giudice amministrativo una sentenza che dichiari l’obbligo di provvedere perché l’istanza non è stata esaminata, la sentenza di accoglimento di tale domanda non determina anche la sussistenza della competenza dell’autorità inerte, che si pronuncia sull’istanza anche declinando la propria competenza (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 19.03.2012 n. 1539 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gare d'appalto: segretezza delle offerte.
E' legittima l'operazione di gara nel caso in cui un commissario abbia inavvertitamente provocato un taglio di 26 centimetri nella busta contenente l’offerta economica di un concorrente.
Il taglio, infatti, "non offre alcuna possibilità né di estrarre né tantomeno di visionare , anche parzialmente, il contenuto di detta busta" e che "al fine di evitare che, anche in astratto sia minacciata la segretezza del relativo contenuto ed al contempo per consentire la verifica pubblica dell’entità della lacerazione, la stessa viene immediatamente riposta all’interno della busta chiusa con colla e controfirmata …".
Pertanto, ritiene il Collegio, non vi è stata commistione tra busta contenente offerta economica ed offerta tecnica, non risulta che la Commissione (e nemmeno un singolo membro della stessa ) sia venuta preventivamente all’apertura delle buste a conoscenza dell’offerta economica del concorrente e deve comunque darsi atto che tale offerta economica ha mantenuto formalmente e sostanzialmente, ad onta della lacerazione della busta in essa contenuta, le caratteristiche della segretezza.

La vicenda in controversia è incentrata su un episodio accaduto durante i lavori della Commissione giudicatrice della gara di appalto di che trattasi in cui veniva (involontariamente) operato un taglio di circa 26 cm sulla busta contenente il plico economico della concorrente Acciona Agua, lì dove tale circostanza di fatto, pacificamente avvenuta e documentata come da constatazione riportata in apposito verbale da parte della Commissione in questione, costituirebbe, ad avviso di parte appellante ragione idonea ad invalidare gli atti tutti del procedimento concorsuale nonché quelli successivi dell’Amministrazione in quanto assunti in violazione dei principi della segretezza delle offerte , della pubblicità delle sedute di gara nonché della par condicio dei concorrenti.
Le doglianze formulate non meritano positiva considerazione perché frutto di una (erronea) lettura e qualificazione del fatto sopra evidenziato, circostanza che contrariamente a quanto dedotto con gli atti di gravame all’esame costituisce indice di un operato della Commissione giudicatrice che non ha affatto “falsato” la procedura e gli esiti della gara , non si pone in contrasto con i principi di segretezza e parità di trattamento, ma anzi contrassegna, come acutamente oltreché correttamente osservato dal primo giudice, un percorso amministrativo lineare e trasparente.
Ove si proceda ad individuare e precisare con esattezza i contorni entro cui far rientrate l’accadimento in questione, ci si avvede come l’assunto interpretativo sostenuto dalla parte appellante sia privo di giuridico fondamento.
Invero, quanto alla sua fisiologica esistenza, non è certamente messo in discussione l’intervenuto taglio della busta, ma esso è pur sempre consistito in una “mera” lacerazione della busta per una misura , 26 cm, inidonea a permettere l’estrazione del documento ivi contenuto e/o a consentire la lettura del documento stesso. Il Collegio è ben a conoscenza dell’orientamento giurisprudenziale secondo cui la possibilità anche solo di fatto di prendere visione del contenuto delle buste non ancòra ufficialmente aperte compromette l’imparzialità dell’operato della Commissione (Cons. Stato Sez. V 19.05.2009; idem Sez. VI 02/03/2009 n. 1180) ma non è questo il caso che ci occupa.
Nella specie, in pratica non si è verificata una vera e propria apertura della busta, ma unicamente una lesione della stessa di una consistenza tale da far rimanere intonso il contenuto documentale ivi riposto, sì che dal verificarsi di un siffatto accadimento non è dato inferire l’avvenuta previa conoscenza da parte della Commissione di gara della offerta economica, non potendosi conseguentemente ipotizzare, contrariamente a quanto sostenuto dalla parte appellante, che sia, intervenuta una qualche violazione, neanche potenziale, delle regulae iuris che sovraintendono alla procedura di espletamento delle gare di appalto, costituite dalla segretezza delle offerte e dalla par condicio dei concorrenti.
La regolarità formale e sostanziale dell’operato della Commissione è attestata dalle risultanze che emergono dai processi verbali redatti e sottoscritti dalla Commissione stessa, da individuarsi precisamente in:
● quello stilato nella seduta tecnica del 12.01.2010 in cui si constata, contestualmente all’accaduto, il taglio inavvertitamente prodotto con il taglierino da uno dei commissari e si dà altresì atto che il suddetto taglio “non offre alcuna possibilità né di estrarre né tantomeno di visionare , anche parzialmente, il contenuto di detta busta” e che “al fine di evitare che, anche in astratto sia minacciata la segretezza del relativo contenuto ed al contempo per consentire la verifica pubblica dell’entità della lacerazione, la stessa viene immediatamente riposta all’interno della busta chiusa con colla e controfirmata …”;
● quello della seduta pubblica del 31.03.2010 con cui si comunica quanto accaduto, dandosi atto che il plico contenente l’offerta economica era regolarmente chiuso , non essendo stato necessario aprirlo. Dallo stesso verbale risulta altresì che si è proceduto all’apertura della busta contenente il plico lacerato e che “il Presidente richiama l’attenzione dei tutti i presenti , facendo contestualmente avvicinare il rappresentante della Società Acciona Agua, che dal taglio della busta non si sarebbe mai potuto evincere il contenuto dell’offerta, giacché i fogli ivi custoditi hanno dimensioni maggiori rispetto al taglio inavvertitamente prodotto. Non essendovi alcuna obiezione da parte dei presenti, si procede alla risigillatura della busta”.
Ora, non v’è dubbio che quanto ivi attestato, avuto riguardo alla qualità e valenza di atto pubblico fidefacente propria del verbale (vedi artt. 2699 e ss codice civile), dà contezza e fa piena prova della veridicità e dell’entità dei fatti compiuti, nonché delle modalità di svolgimento dell’attività della stessa Commissione (Cons. Stato Sez. IV 12/02/2010 n. 805; Sez. V 1973/2001 n. 1642). Dalle circostanze come riferite non sono evincibili elementi di giudizio che facciano ritenere essere stata compromessa, in ragione ed a seguito dell’episodio in contestazione, l’imparzialità dell’attività amministrativa espletata e/o la trasparenza delle operazioni poste in essere come compiutamente descritte.
Nondimeno la società appellante insiste nel dedurre alcune circostanze qualificate come manchevolezze che inficerebbero la procedura concorsuale, ed in primo luogo il fatto che la Commissione non avrebbe adottato le dovute cautele atte a scongiurare “accidentali” manomissioni dei plichi.
La doglianza non ha fondamento, dal momento che non è ravvisabile dalla disamina degli atti la mancanza da parte della Commissione di cautele in ordine alla conservazione dei plichi e non risulta che la documentazione di gara sia rimasta esposta al rischio di manomissione; in ogni caso, non vi è stata alcuna alterazione documentale, e dall’incidente accaduto involontariamente non è evincibile in concreto e neppure potenzialmente una qualche compromissione degli aspetti di segretezza e tutto ciò non può andare a disdoro della legittimità delle operazioni di gara poste in essere.
Lamenta poi parte appellante nei confronti dell’avvenuta verbalizzazione altri “vizi” che a suo avviso, darebbero luogo a veri proprie inadempienze, come il non aver riferito circa il tempo trascorso tra il taglio e l’approntamento delle cautele nonché in ordine alle modalità con cui si sarebbe verificato l’accidentale taglio e se questo sia stato procurato in presenza di tutta la Commissione.
Ora, a prescindere dal fatto che la parte interessata non risulta abbia presentato querela di falso volta ad inficiare ab imis fundamentis il contenuto dei verbali di che trattasi, va qui ricordata la funzione strumentale e di carattere probatorio che ha la verbalizzazione ( cfr Cons. Stato Sez. IV n. 805/2010 già citata ) per cui le dedotte eventuali irregolarità avuto riguardo al carattere sicuramente marginale delle dedotte “deficienze” non valgono ad invalidare i processi verbali stilati dalla Commissione, non senza far rilevare che comunque i rilievi mossi non sono idonei ad evidenziare la compromissione della procedura di gara sotto il profilo della correttezza e dell’osservanza delle modalità procedurali di espletamento della gara.
Per concludere sul punto, non vi è stata commistione tra busta contenente offerta economica ed offerta tecnica, non risulta che la Commissione (e nemmeno un singolo membro della stessa) sia venuta preventivamente all’apertura delle buste a conoscenza dell’offerta economica di Acciona Agua e deve comunque darsi atto che tale offerta economica ha mantenuto formalmente e sostanzialmente, ad onta della lacerazione della busta in essa contenuta, le caratteristiche della segretezza
(Consiglio di Stato. Sez. IV, sentenza 16.03.2012 n. 1506 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Appalti pubblici e dichiarazioni ex art. 38.
I rappresentanti delle società concorrenti in procedure ad evidenza pubblica devono rendere, a pena di esclusione, le dichiarazioni di cui all’art. 38 D.lgs. 163/2006 (Codice dei contratti), a prescindere da qualsiasi verifica in ordine alla ripartizione interna dei compiti societari.
Questo il principio ribadito dal Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza 16.03.2012 n. 1471, chiamato a pronunciarsi sulla legittima partecipazione ad una gara per l’affidamento del servizio di pulizia di una società che non aveva provveduto a presentare la dichiarazione ex art. 38 di un suo amministratore.
I Giudici di Palazzo Spada, confermando la decisione assunta in primo grado, affermano che: “in applicazione del chiaro disposto dell’articolo 38 Codice Contratti, gli amministratori muniti di potere di rappresentanza devono necessariamente rendere la dichiarazione richiesta dalla legge a prescindere dal fatto, peraltro di difficile (e dubbia) prova, che nella sostanza non svolgano attività.
Occorre ora aggiungere che il riferimento ai poteri sostanziali è stato utilizzato da parte della giurisprudenza, non già per restringere –come vorrebbe l'appellante– il novero dei soggetti chiamati a rendere la dichiarazione ma, al contrario, per ampliarlo anche a coloro che, pur non rivestendo formalmente la carica di amministratore, sono investiti di sostanziali poteri di rappresentanza; in tale ultima direzione si muove anche la sentenza 16.11.2010 n. 8059 del Consiglio di Stato, (….) («…La mancanza della formale qualifica di amministratore della società non può essere considerata sufficiente per sottrarsi all'applicazione degli obblighi dichiarativi imposti dalla norma richiamata. La prevalente giurisprudenza del Consiglio di Stato, condivisa dal Collegio, ha, infatti, chiarito che, per l'individuazione dei soggetti tenuti alle dichiarazioni sostitutive finalizzate alla verifica del possesso dei requisiti di moralità, quando si tratti di titolari di organi di persone giuridiche, al fine di ricomprenderli nella nozione di "amministratori muniti di poteri di rappresentanza" occorre esaminare i poteri, le funzioni e il ruolo effettivamente e sostanzialmente attribuiti al soggetto considerato, al di là delle qualifiche formali rivestite (in tal senso cfr. Cons. St., sez. VI, 08.02.2007, n. 523, che nella categoria degli amministratori, ai fini dell'art. 38 cit., fa rientrare sia i "soggetti che abbiano avuto un significativo ruolo decisionale e gestionale societario" sia i procuratori ai quali siano conferiti poteri di "partecipare a pubblici appalti formulando le relative offerte"; sez. VI, 12.10.2006, n. 6089; sez. V, 28.06.2004, n. 4774; sez. V, 28.05.2004, n. 3466) …
»).”
Un eventuale giudizio sull’effettiva ripartizione dei poteri in seno alla società interessata deve invece necessariamente riguardare i procuratori speciali e gli institori.
Nei confronti di questi ultimi soggetti non vige infatti un obbligo incondizionato di presentare le dichiarazioni ex art. 38 del Codice dei contratti e soltanto nel caso in cui abbiano il potere di rappresentare l’ente verso l’esterno sono tenuti a rendere le dichiarazioni in esame.
In conclusione, nel ribadire che il c.d. potere di soccorso deve ritenersi esercitabile soltanto quando le prescrizioni formali della lex specialis sono state formulate in modo impreciso ed equivoco e non anche quando sussista una chiara e precisa previsione di legge, la sentenza afferma che la funzione principale dell’art. 38 del D.lgs. 163/2006 è quella di attuare un “controllo effettivo sull’idoneità morale degli operatori economici con riferimento a tutti i soggetti in grado di impegnare all’esterno l’impresa.” (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIOgni provvedimento amministrativo deve essere motivato salvo che nelle ipotesi di atti normativi e di atti a contenuto generale. La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione in relazione alle risultanze dell'istruttoria.
Si ritiene necessaria una motivazione approfondita quando la stazione appaltante considera l’offerta nel complesso inaffidabile. L’onere motivazionale nel provvedimento negativo è stato tuttavia inteso con una certa flessibilità permettendo all’amministrazione di effettuare una valutazione di tutti gli elementi dell’offerta ritenendola nel complesso inaffidabile oppure di soffermarsi anche solo su singole, ma essenziali, componenti dell’offerta; se tali elementi essenziali non risultano congrui, in ossequio ad una concezione ‘sostanziale’ dell’agire amministrativo, non si reputa necessario esaminare le giustificazioni riguardanti le altre componenti, meno rilevanti, dell’offerta stessa "… in quanto è da presumere che quelle voci incidano sulla serietà ed affidabilità dell'intera offerta, di modo che, accertata l'incongruità degli elementi giustificativi presentati e di conseguenza delle sottostanti voci di prezzo, non occorre che quel giudizio di incongruità sia anche suffragato da un ulteriore, separato, giudizio di incongruità della globalità dell'offerta…”.
---------------
L'orientamento giurisprudenziale che nel caso di positiva valutazione di congruità dell'offerta sospettata di anomalia ritiene sufficiente la motivazione per relationem, non esclude che vada comunque garantita la possibilità ai soggetti interessati di ricostruire l'iter logico giuridico seguito dalla stazione appaltante per l'adozione del provvedimento. In altri termini, per un verso, non v'è dubbio che il richiamo alle giustificazioni fornite dall'operatore economico può essere utilmente effettuato per spiegare le ragioni della valutazione di congruità; tuttavia, per altro verso, tale facilitazione non esonera la stazione appaltante dall’obbligo di mettere la parte interessata in condizione di apprezzare l'iter logico giuridico seguito dall’amministrazione.
Nel caso di specie, in presenza di giustificazioni e di una relazione negativa da parte del RUP, sarebbe stato necessario una motivazione più approfondita del giudizio di congruità perché:
a) la motivazione in generale deve avere un’ampiezza maggiore o minore a seconda delle acquisizioni istruttorie, in ogni caso deve fare comprendere il percorso logico-giuridico compiuto dall’amministrazione;
b) il richiamo per relationem può anche assolvere all’obbligo di motivazione, nel caso di decisione di congruità, ma non per questo esime l’amministrazione da una valutazione complessiva di tutto ciò che è emerso nella fase istruttoria del procedimento;
c) deve trovare, anche solo in via analogica, applicazione l’articolo 6, comma 1, lett. e), l. 07.08.1990 n. 241 a tenore del quale “l'organo competente per l'adozione del provvedimento finale, ove diverso dal responsabile del procedimento, non può discostarsi dalle risultanze dell'istruttoria condotta dal responsabile del procedimento se non indicandone la motivazione nel provvedimento finale”; con riferimento all’odierna fattispecie, l’atto di aggiudicazione, certamente di competenza di soggetto diverso dal RUP, non poteva ignorare, senza motivare, quanto rappresentato da quest’ultimo proprio in vista della scelta relativa all’aggiudicazione o meno;
d) ragionando diversamente il controinteressato non verrebbe posto in condizione di capire la ragione per cui la stazione appaltante abbia valutato positivamente le giustificazioni e non favorevolmente quelle espresse dal RUP.
---------------
Il responsabile del procedimento nell'attuale sistema costituisce il "motore" del sub-procedimento di valutazione di congruità delle offerte sospette di anomalia. Conseguentemente non sussiste il paventato vizio di incompetenza del RUP con riferimento all’attività da questi compiuta nella fase di valutazione della congruità dell’offerta sospettata di anomalia perché, nel caso di specie, il RUP ha doverosamente manifestato alla stazione appaltante le sue perplessità in ordine alla conformità dell’offerta lasciando a quest'ultima le determinazioni finali.

Come è noto, ogni provvedimento amministrativo deve essere motivato salvo che nelle ipotesi di atti normativi e di atti a contenuto generale. La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione in relazione alle risultanze dell'istruttoria.
Con riferimento specifico alla materia oggetto di esame, si ritiene necessaria una motivazione approfondita (Cons. St., V, 23.08.2006, n. 4949) quando la stazione appaltante considera l’offerta nel complesso inaffidabile. L’onere motivazionale nel provvedimento negativo è stato tuttavia inteso con una certa flessibilità permettendo all’amministrazione di effettuare una valutazione di tutti gli elementi dell’offerta ritenendola nel complesso inaffidabile oppure di soffermarsi anche solo su singole, ma essenziali, componenti dell’offerta; se tali elementi essenziali non risultano congrui, in ossequio ad una concezione ‘sostanziale’ dell’agire amministrativo, non si reputa necessario esaminare le giustificazioni riguardanti le altre componenti, meno rilevanti, dell’offerta stessa "… in quanto è da presumere che quelle voci incidano sulla serietà ed affidabilità dell'intera offerta, di modo che, accertata l'incongruità degli elementi giustificativi presentati e di conseguenza delle sottostanti voci di prezzo, non occorre che quel giudizio di incongruità sia anche suffragato da un ulteriore, separato, giudizio di incongruità della globalità dell'offerta…” (Cons. St., V, 18.09.2008, n. 4493).
---------------
Più complessa invece appare la questione –come nella fattispecie sottoposta a giudizio– relativa alla valutazione positiva operata dall’amministrazione all’esito del procedimento di verifica perché, per un primo orientamento, l’atto che decreta l’aggiudicazione dell’offerta non richiede una motivazione approfondita sostanzialmente ripetitiva delle giustificazioni valutate favorevolmente dall’amministrazione, potendo in tal caso trovare sostegno "per relationem" nelle stesse giustificazioni presentate dal concorrente (Cons. St., V, 20.05.2008, n. 2348; Cons. St., V, 23.08.2006, n. 4949); incombe sull’impresa interessata, dunque, l’onere di contestare l’esito della gara, di ricercare e prospettare al giudice gli specifici elementi da cui evincere l’illegittimità dell’operato della stazione appaltante (Cons. St., V, 10.02.2009, n. 748).
Per altro orientamento, invece, anche il giudizio positivo deve essere motivato sia in ossequio all’obbligo generale di motivazione dei provvedimenti amministrativi sia a tutela della par condicio dei concorrenti (Cons. St., IV, 22.03.2005, n. 1231).
A giudizio del Collegio l'orientamento giurisprudenziale che nel caso di positiva valutazione di congruità dell'offerta sospettata di anomalia ritiene sufficiente la motivazione per relationem, non esclude che vada comunque garantita la possibilità ai soggetti interessati di ricostruire l'iter logico giuridico seguito dalla stazione appaltante per l'adozione del provvedimento. In altri termini, per un verso, non v'è dubbio che il richiamo alle giustificazioni fornite dall'operatore economico può essere utilmente effettuato per spiegare le ragioni della valutazione di congruità; tuttavia, per altro verso, tale facilitazione non esonera la stazione appaltante dall’obbligo di mettere la parte interessata in condizione di apprezzare l'iter logico giuridico seguito dall’amministrazione.
Nel caso di specie, in presenza di giustificazioni e di una relazione negativa da parte del RUP, sarebbe stato necessario una motivazione più approfondita del giudizio di congruità perché:
a) la motivazione in generale deve avere un’ampiezza maggiore o minore a seconda delle acquisizioni istruttorie, in ogni caso deve fare comprendere il percorso logico-giuridico compiuto dall’amministrazione;
b) il richiamo per relationem può anche assolvere all’obbligo di motivazione, nel caso di decisione di congruità, ma non per questo esime l’amministrazione da una valutazione complessiva di tutto ciò che è emerso nella fase istruttoria del procedimento;
c) deve trovare, anche solo in via analogica, applicazione l’articolo 6, comma 1, lett. e), l. 07.08.1990 n. 241 a tenore del quale “l'organo competente per l'adozione del provvedimento finale, ove diverso dal responsabile del procedimento, non può discostarsi dalle risultanze dell'istruttoria condotta dal responsabile del procedimento se non indicandone la motivazione nel provvedimento finale”; con riferimento all’odierna fattispecie, l’atto di aggiudicazione, certamente di competenza di soggetto diverso dal RUP, non poteva ignorare, senza motivare, quanto rappresentato da quest’ultimo proprio in vista della scelta relativa all’aggiudicazione o meno;
d) ragionando diversamente il controinteressato non verrebbe posto in condizione di capire la ragione per cui la stazione appaltante abbia valutato positivamente le giustificazioni e non favorevolmente quelle espresse dal RUP.
Va quindi confermata la sentenza nella parte in cui ha rilevato l’illegittimità per difetto di motivazione dell’atto impugnato in primo grado.
---------------
Occorre in ultimo soffermarsi sulla questione adombrata, nell’atto di appello avverso il dispositivo della sentenza (si vedano in particolare le pagine n. 11-12), relativa all’incompetenza del responsabile del procedimento ad esprimere un giudizio definitivo sul carattere anomalo o meno delle offerte, trattandosi di attività di competenza della commissione giudicatrice.
Con specifico riferimento al ruolo del responsabile del procedimento, va ricordato che il regolamento, all’art. 121, comma 2, prevede, nel caso di aggiudicazione con il criterio del prezzo più basso, la sospensione della seduta pubblica da parte del soggetto che presiede la gara e la comunicazione al responsabile del procedimento; quest’ultimo procederà alla verifica delle giustificazioni presentate dai concorrenti ai sensi dell'articolo 86, comma 5, del codice avvalendosi degli uffici o organismi tecnici della stazione appaltante ovvero della commissione di gara, ove costituita. Il successivo comma 4 precisa che il responsabile del procedimento, oltre ad avvalersi degli uffici o organismi tecnici della stazione appaltante o della stessa commissione di gara, ove costituita, qualora lo ritenga necessario può richiedere la nomina della specifica commissione prevista dall'articolo 88, comma 3, del codice. Nel caso di selezione mediante il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, è l’art. 121, comma 9, a disciplinare il procedimento e ad individuare gli organi competenti.
Per queste ragioni non v'è dubbio che il responsabile del procedimento nell'attuale sistema costituisce il "motore" del sub-procedimento di valutazione di congruità delle offerte sospette di anomalia. Conseguentemente non sussiste il paventato vizio di incompetenza del RUP con riferimento all’attività da questi compiuta nella fase di valutazione della congruità dell’offerta sospettata di anomalia perché, nel caso di specie, il RUP ha doverosamente manifestato alla stazione appaltante le sue perplessità in ordine alla conformità dell’offerta lasciando a quest'ultima le determinazioni finali
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 16.03.2012 n. 1467 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI:  Diritto di accesso: la veste societaria è ininfluente atteso che in materia di accesso nel novero delle ‘pubbliche amministrazioni’ rientrano tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse, disciplinata dal diritto nazionale o comunitario.
L’attività amministrativa, cui gli artt. 22 e 23 della legge n. 241 del 1990 correlano il diritto d’accesso, ricomprende non solo quella di diritto amministrativo, ma anche quella di diritto privato posta in essere dai soggetti gestori di pubblici servizi che, pur non costituendo direttamente gestione del servizio stesso, sia collegata a quest’ultima da un nesso di strumentalità derivante anche, sul versante soggettivo, dalla intensa conformazione pubblicistica (Cons. St., sez. VI, 26.01.2006 n. 229; id., 30.12.2005 n. 7624; id., 07.08.2002 n. 4152; id., 08.01.2002 n. 67) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12.03.2012 n. 1403 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVIIl Comune per sopravvenute ragioni di interesse pubblico può revocare unilateralmente la concessione del servizio di gestione di parcheggi pubblici rilasciata al privato.
L’istituto della concessione amministrativa (pacificamente ricorrente nel caso di specie di concessione del servizio di gestione dei parcheggi pubblici del Comune), vale a dire la presenza di un provvedimento amministrativo a monte, con il quale sono esternate le ragioni di interesse pubblico sottostanti all’attribuzione ad uso esclusivo ad un soggetto privato di un bene pubblico, doppiato a valle dal regolamento convenzionale del rapporto concessorio, sorto per effetto dell’atto autoritativo, a mezzo di un contratto.
Ne consegue che la pubblica amministrazione concedente conserva per tutta la durata del rapporto il potere di incidere unilateralmente sulla posizione giuridica del privato concessionario attraverso l’atto di ritiro del provvedimento concessorio, per sopravvenute esigenze di interesse pubblico, come del resto stabilito in via generale dall’art. 21-quinquies l. n. 241/1990, ancorché introdotto successivamente ai fatti di causa, ed in particolare dal comma 1-bis di tale disposizione, riferito specificamente agli effetti della revoca “su rapporti negoziali” (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.03.2012 n. 1381 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIPrincipi consolidati in materia di interpretazione delle clausole del bando di gara.
"Le regole contenute nella lex specialis di una gara vincolano non solo i concorrenti, ma anche la stessa Amministrazione, che non conserva alcun margine di discrezionalità nella loro concreta attuazione. Il rigore formale che caratterizza la disciplina delle procedure di gara risponde, per un verso, ad esigenze pratiche di certezza e celerità, e per altro verso alla necessità di garantire l'imparzialità dell'azione amministrativa e la parità di condizioni tra i concorrenti, da ciò scaturendo la conseguenza che solo in presenza di una equivoca formulazione della lettera di invito o bando di gara può ammettersi una interpretazione diversa da quella letterale (cfr. C.d.S., V, 02.08.2010, n. 5075).
Le preminenti esigenze di certezza connesse allo svolgimento delle procedure concorsuali di selezione dei partecipanti impongono di ritenere di stretta interpretazione le clausole del bando di gara, delle quali va preclusa qualsiasi esegesi non giustificata da un'obiettiva incertezza del loro significato; parimenti, si devono reputare comunque preferibili, a tutela dell'affidamento dei destinatari, le espressioni letterali delle previsioni da chiarire, evitando che il procedimento ermeneutico conduca all'integrazione delle regole di gara palesando significati del bando non chiaramente desumibili dalla sua lettura testuale (C.d.S., IV, 05.10.2005, n. 5367; V, 15.04.2004, n. 2162).
Nell'interpretazione delle clausole del bando per l'aggiudicazione di un contratto della P.A. deve darsi, pertanto, prevalenza alle espressioni letterali in esse contenute, escludendo ogni procedimento ermeneutico in funzione integrativa diretto ad evidenziare pretesi significati e ad ingenerare incertezze nell'applicazione (C.d.S., V, 30.08.2005, n. 4413)
.” (Cons. St. Sez. V, 19.09.2011, n. 5282) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.03.2012 n. 1372 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARIVademecum sui certificati medici. Tutti i modi in cui è possibile la contestazione da parte del datore. Parere della Fondazione Studi dei consulenti del lavoro fa luce su una materia complessa.
Il datore di lavoro può contestare i certificati medici trasmessi dal lavoratore in presenza di uno stato di malattia che si presume falso? E in che modo?
Il parere n. 10 della Fondazione Studi del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro fornisce una disamina di un tema complesso, anche alla luce della recente sentenza 09.03.2012 n. 3705 della Corte di Cassazione.
1. IL QUADRO NORMATIVO.
Come è noto, l'art. 2110 c.c. prevede che –in ipotesi di infortunio, di malattia, di gravidanza o di puerperio– si realizza una sospensione del rapporto di lavoro, caratterizzata dal perdurare dell'obbligazione retributiva o indennitaria, entro un certo limite temporale (c.d. comporto). In particolare, l'art. 2110, c.c., comma 1 stabilisce che: «In caso di infortunio, di malattia, di gravidanza o di puerperio, se la legge (o le norme corporative] non stabiliscono forme equivalenti di previdenza o di assistenza, è dovuta al prestatore di lavoro la retribuzione o un'indennità nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali [dalle norme corporative) dagli usi o secondo equità».
A sua volta, in merito al controllo dello stato di malattia del lavoratore, l'art. 5, legge n. 300 del 1970, prevede che: «Sono vietati accertamenti da parte del datore di lavoro sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente. Il controllo delle assenze per infermità può essere effettuato soltanto attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, i quali sono tenuti a compierlo quando il datore di lavoro lo richieda. Il datore di lavoro ha facoltà di far controllare la idoneità fisica del lavoratore da parte di enti pubblici ed istituti specializzati di diritto pubblico».
Pertanto:
a) il datore di lavoro non può eseguire personalmente, o attraverso medici di sua fiducia, accertamenti sullo stato di salute del dipendente;
b) lo stesso datore di lavoro conserva, però, la facoltà di controllo sull'idoneità fisica e sull'infermità del dipendente ma –diversamente dal controllo dell'attività lavorativa– non può esercitarla direttamente, bensì avvalendosi di enti pubblici ed enti specializzati di diritto pubblico.
La centralità dell'utilizzo del servizio sanitario pubblico nell'accertamento della malattia del dipendente è stata di recente ribadita dall'art. 25, legge 04.11.2010, n. 183 (c.d. Collegato lavoro), il quale ha uniformato il regime legale del rilascio e della trasmissione delle certificazioni per il caso di assenza per malattia dei dipendenti pubblici e di quelli privati, disponendo che la malattia protratta per un periodo superiore a dieci giorni e, in ogni caso, il secondo evento morboso nell'anno solare (1°gennaio-31 dicembre) devono essere giustificati (a partire, quindi, dal terzo evento) esclusivamente mediante certificazione medica rilasciata da:
a) una struttura sanitaria pubblica;
b) un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale.
Peraltro, alla luce della recente sentenza della Corte di cassazione (n. 3705 del il 09.03.2012), il certificato medico può essere rilasciato solo a seguito di visita al paziente, essendo esclusa l'ammissibilità di certificati di tipo «anamnestico», in cui il sanitario si limita ad attestare quanto sostenuto dal dipendente rispetto al proprio stato di salute.
2. LA CONTESTAZIONE DELLO STATO DI MALATTIA DEL DIPENDENTE DA PARTE DEL DATORE DI LAVORO.
La giurisprudenza consolidata ritiene che il certificato medico attestante lo stato di malattia del dipendente può essere contestato dal datore di lavoro, che abbia motivo di ritenere insussistente la denunciata malattia del lavoratore (v. ad es. Cass. civ. Sez. lavoro, 10.05.2000, n. 6010, in Notiz. Giur. Lav., 2000; Trib. Milano, 16.09.1998, in Orient. Giur. Lav., 1998, I, 648).
In particolare, il datore di lavoro può domandare in giudizio la verifica dell'attendibilità della certificazione prodotta dal lavoratore, anche laddove non abbia richiesto una visita di controllo (Cass. civ. Sez. lavoro, 27.12.1997, n. 13056, in Mass. Giur. It., 1997; nel senso che tale diritto di contestazione spetta anche al lavoratore, v. Trib. Parma, 14.01.2000, in Riv. It. Dir. Lav., 2001, II, 70).
Infatti, il controllo delle assenze del lavoratore per infermità previsto dall'art. 5, legge 20.05.1970, n. 300, non costituisce l'unico mezzo concesso al datore di lavoro per contestare l'attendibilità del certificato medico prodotto dal lavoratore, che può sempre mettere in dubbio tale certificazione mediante il ricorso all'autorità giudiziaria (Cass. Sez. lavoro, 13.02.1990, n. 1044, in Notiz. Giur. Lav., 1990, 228).
Ciò in quanto la natura di atti pubblici dei certificati redatti da medici appartenenti al servizio sanitario nazionale conferisce a tali documenti la fede pubblica, fino a querela di falso, per ciò che concerne i seguenti fatti:
- la provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato;
- i fatti che il pubblico ufficiale medesimo attesta di aver compiuto o essere avvenuti in sua presenza (Cass. Sez. lavoro, 22.05.1999, n. 5000; Cass. Sez. lavoro, 14.01.1987, n. 217).
Viceversa, la fede pubblica non si estende alla diagnosi, e dunque ai giudizi del sanitario relativi allo stato di malattia ed all'impossibilità temporanea della prestazione lavorativa. Tali valutazioni, pur essendo dotate di un elevato grado di attendibilità in ragione della qualifica funzionale e professionale del pubblico ufficiale, non sono vincolanti per il giudice, che può anche decidere di sconfessarle in presenza di elementi probatori di segno contrario.
Si ritiene, infatti, che l'art. 5, comma 3, legge 20.05.1970 n. 300, nella parte in cui demanda solo ad enti pubblici il controllo della idoneità fisica del lavoratore su richiesta del datore di lavoro, lascia integro il potere-dovere del giudice di merito di controllare l'attendibilità degli accertamenti sanitari, avvalendosi dei poteri istruttori che gli conferisce il rito del lavoro; deve quindi escludersi che la norma citata -che ha inteso garantire l'imparzialità della valutazione tecnica affidandola ad organi pubblici- abbia attribuito a dette indagini una particolare insindacabile efficacia probatoria (Cass. Sez. lavoro, 11.05.2000, n. 6045, in Notiz. Giur. Lav., 2000; Cass. Sez. lavoro, 03.07.1987, n. 5830; Cass. civ., 05.11.1985, n. 5387; Cass. civ., 18.04.1985, n. 2572; Cass. civ., 11.08.1983, n. 5356).
3. LE MODALITÀ DI CONTESTAZIONE DEL CERTIFICATO MEDICO.
Nel giudizio di valutazione attestante l'effettivo stato di malattia del dipendente, è stato accordato rilievo alle seguenti circostanze.
A) L'incongruenza tra la prognosi (ad es., numerose settimane di malattia) e la diagnosi: ad es., per un caso di lombosciatalgia, Cass. Sez. lavoro, 05.05.2000, n. 5622 ha ritenuto ingiustificata l'assenza di tre mesi autorizzata dal medico curante, in quanto «... il disturbo certificato non [era] di entità tale da poter costituire impedimento totale al lavoratore rilevante per un periodo relativamente lungo...» (v. anche: Pret. Parma, 22.07.1995, in Riv. It. Dir. Lav., 1995, II, 876; Trib. Parma, 07.11.1996, ivi, 1997, II, 120; Trib. Parma, 14.01.2000, in Riv. Critica Dir. Lav., 2000, 409).
B) Anche l'incongruenza tra la prognosi (o la diagnosi) e la terapia prescritta al lavoratore può invalidare la certificazione medica, come è stato affermato nel caso di una «sindrome ansioso-depressiva» che il giudice non ha considerato di gravità tale da impedire il lavoro per mesi, tanto più che il medico stesso non aveva prescritto alcuna terapia farmacologica (Pret. Torino, 19.01.1989, in Riv. It. Dir. Lav., 1989, II, 298).
C) Ancora, è stato accordato rilevo alla tardività della visita medica rispetto all'inizio della malattia, che ha privato di attendibilità una diagnosi riferita ai periodi pregressi (Trib. Roma, 02.06.2000, in Riv. It. Dir. Lav., 2000, II, 695).
D) Le circostanze complessive di fatto e il comportamento del lavoratore (giudizio di tipo presuntivo, ex art. 2729 c.c.).
   1) Ad esempio, il giudice può rilevare l'incompatibilità tra la malattia denunciata e la condotta del lavoratore, sorpreso a svolgere un'altra attività lavorativa (Cass. civ. Sez. lavoro, 03.03.2001, n. 6236, in Lavoro nella Giur., 2001: nel caso la Corte ha valutato anche la rilevanza disciplinare del comportamento per la violazione da parte del lavoratore del dovere di non ritardare la propria guarigione).
   2) Ancora, è stata ritenuta ingiustificata l'assenza di un giorno di una dipendente in quanto ella aveva reiteratamente domandato di assentarsi dal servizio nella medesima giornata della presunta malattia, ma tale richiesta era stata respinta dal datore di lavoro; nel caso, poi, il certificato non era stato rilasciato da un medico del Servizio sanitario nazionale e non indicava l'esecuzione di nessuna visita alla paziente (Trib. Milano, 03.07.1991, in Orient. Giur. Lav., 1991, 754).
E) Il contrasto di valutazioni tra il contenuto del certificato del medico curante del lavoratore e gli accertamenti compiuti dal medico di controllo: in tal caso, il giudice di merito non deve recepire acriticamente la certificazione ufficiale, ma deve compiere un esame comparativo tra i due certificati al fine di stabilire quale delle due contrastanti certificazioni sia maggiormente attendibile (Cass. Sez. lavoro, 05.09.1988, n. 5027, in Dir. Lav., 1988, II, 371; Cass. civ., 11.11.1982, n. 5969).
F) Infine, come anticipato, anche l'omessa visita al paziente può costituire un valido motivo di contestazione del certificato medico (Cass. sent. n. 3705, 09.03.2012, cit.) (articolo ItaliaOggi del 20.03.2012).

APPALTIR.t.i. di tipo orizzontale: il TAR fornisce i chiarimenti.
Il TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, con sentenza 27.02.2012 n. 159, si e' pronunciato su un ricorso di un RTI (raggruppamento temporaneo di impresa) con riferimento ad una gara pubblica di rilevante importanza.
La sentenza in commento è di ampia vastità e complessità; diverse le questioni sollevate.
Il ricorso.
La ricorrente R.T.I. - Raggruppamento Temporaneo di Imprese, (di seguito RTI ricorrente) costituita da una cooperativa e una società ricorreva avverso l’aggiudicazione ad un RTI concorrente in via definitiva di una gara che l’Azienda Ospedaliero – Universitaria di una città emiliana aveva indetto ai sensi dell’art. 153 commi 1-14 del D.Lgs. n. 163 del 2006 (c.d. “finanza di progetto”), per l’affidamento della concessione avente ad oggetto la progettazione e la costruzione di una nuova centrale tecnologica, inclusi gli interventi edili, di un impianto di tri/cogenerazione, di nuovi cunicoli tecnologici nonché la gestione del patrimonio impiantistico ed immobiliare del Policlinico. Il bando prevede una gara a procedura ristretta ex art. 55 del D.Lgs. n. 163/2006 da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
In materia di finanza di progetto si evidenzia brevemente che il D.Lgs. 163/2006 prevede che per la realizzazione di lavori pubblici o di lavori di pubblica utilità, inseriti nella programmazione triennale e nell'elenco annuale, ovvero negli strumenti di programmazione formalmente approvati dall'amministrazione aggiudicatrice sulla base della normativa vigente, finanziabili in tutto o in parte con capitali privati, le amministrazioni aggiudicatrici possono, in alternativa all'affidamento mediante concessione, assegnare una concessione ponendo a base di gara uno studio di fattibilità, mediante pubblicazione di un bando finalizzato alla presentazione di offerte che contemplino l'utilizzo di risorse totalmente o parzialmente a carico dei soggetti proponenti.
Con riferimento alla sentenza oggetto del presente commento la RTI ricorrente impugna, oltre al provvedimento di aggiudicazione definitiva, anche i seguenti atti relativi :
1. alla nota di comunicazione dell’aggiudicazione ;
2. alla deliberazione del Direttore Generale di aggiudicazione provvisoria;
3. agli atti e i verbali di gara nelle parti in cui o non escludono la RTI aggiudicatrice dalla gara, o attribuiscono a tale concorrente un punteggio migliore o, infine, attribuiscono a RTI ricorrente principale un punteggio illegittimamente inferiore a quello dovuto.
L’analisi del TAR.
Secondo la RTI ricorrente, la RTI aggiudicatrice avrebbe dovuto essere esclusa dalla gara perché la quota di partecipazione all’esecuzione dei lavori nella categoria prevalente dell’impresa mandante , essendo pari al 8,5%, é inferiore alla quota minima del 10%, prescritta dall’art. 95, comma 2, del D.P.R. n. 554 del 1999; norma, questa, espressamente richiamata nel bando di gara.
Tale disposizione recita: “Per le associazioni temporanee di imprese e per i consorzi di cui all’art. 10, primo comma, lett. d), e) ed e-bis), della legge, di tipo orizzontale, i requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi richiesti nel bando di gara per le imprese singole devono essere posseduti dalla mandataria o da una impresa consorziata nelle misure minime del 40%; la restante percentuale è posseduta cumulativamente dalle mandanti o dalle altre imprese consorziate ciascuna nella misura minima del 10% di quanto richiesto all’intero raggruppamento. L’impresa mandataria in ogni caso possiede i requisiti in misura maggioritaria.”.
Per i giudici amministrativi dalla chiarezza della norma si evince con nitidezza che la misura minima percentuale del 10% di cui deve essere in possesso ciascuna impresa mandante costituita in RTI di tipo orizzontale è riferita unicamente al possesso dei “requisiti economico–finanziari e tecnico–organizzativi” per la partecipazione alla gara.
Il TAR condivide, inoltre, quanto stabilito dalla giurisprudenza amministrativa in riferimento ai RTI di tipo orizzontale, laddove ha precisato che, in generale, “(…) nei casi di raggruppamento temporaneo di imprese di tipo orizzontale, non vi è una correlazione logica tra il possesso dei requisiti e la misura della partecipazione individuale all'esecuzione stessa, tanto è vero che l'offerta congiunta comporta la responsabilità solidale nei confronti della amministrazione di tutte le imprese raggruppate; per cui la ripartizione tra i partecipanti dell'aliquota che ciascuno di essi s'impegna ad effettuare, mentre assume un valore significativo all'interno, del raggruppamento, non incide sul rapporto contrattuale con l'amministrazione appaltante”.
Da tali premesse logicamente discende che detta disposizione in alcun modo preclude che un’impresa mandante di RTI orizzontale in possesso del predetto requisito minimo di partecipazione alla gara, possa poi, in fase di esecuzione dei lavori, realizzarne una quota inferiore; fermo restando, però, che tale quota corrisponda a quella di partecipazione della stessa mandante al Raggruppamento, secondo quanto espressamente prescrive l’art. 37, comma 13, del D.Lgs. n. n. 163 del 2006. Tale norma prevede che “I concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento”.
Un altro aspetto contestato dalla RTI ricorrente è quello che la Commissione di gara avrebbe dovuto escludere RTI aggiudicataria perché ha presentato una cauzione provvisoria di importo dimezzato senza averne diritto, stante che la mandante è esecutrice di categorie di lavori in riferimento alle quali non è in possesso della relativa certificazione di qualità richiesta ai sensi dell’art. 40, comma 7, D.Lgs. n. 163 del 2006.
Il TAR rileva che anche tale motivo é infondato; la giurisprudenza amministrativa ha osservato in proposito che, "(…) poiché la riduzione dell'importo cauzionale è giustificata dalla maggiore affidabilità strutturale ed operativa dell'impresa, è necessario che tale requisito sia posseduto con riferimento all'oggetto specifico dell'appalto, ma che tale collegamento significa che, nel caso l’appalto ricomprenda una pluralità di lavori o servizi, debba esservi corrispondenza solo tra la categoria prevalente dei lavori posti in gara e quella a cui si riferisce la certificazione di qualità".
In sostanza il Tribunale amministrativo respinge il ricorso ritenendo, tuttavia, che vi siano i giusti motivi per disporne l’integrale compensazione delle spese, tenuto conto della peculiarità delle questioni trattate (commento tratto da www.ipsoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire e prescrizioni da osservare. E' reato non dire quando iniziano i lavori edilizi ed il nome di chi li esegue.
Rientra tra le prescrizioni previste dal permesso di costruire, la cui inosservanza integra il reato di cui all'art. 44, comma primo, lett. a), d.P.R. 06.06.2001, n. 380, anche l'obbligo di comunicazione della data di inizio lavori e del nominativo dell'impresa costruttrice.

La Suprema Corte si pronuncia per la prima volta, con la sentenza in commento, su una questione particolare che investe un reato invero non molto approfondito nella giurisprudenza di legittimità, quello previsto e sanzionato dall'art. 44, comma primo, lett. a), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
La Corte, nell'affrontare il tema sottoposto alla sua attenzione, ha affermato che la fattispecie di inosservanza delle prescrizioni contenute nel titolo edilizio, da tale disposizione sanzionata, è applicabile anche nel caso in cui chi abbia ottenuto il rilascio del titolo edilizio non provveda a comunicare all'autorità comunale il nominativo della ditta esecutrice dei lavori ovvero non indichi quando questi ultimi avranno inizio.
Il fatto
La vicenda processuale che ha costituito l'occasione per la Cassazione per occuparsi della questione giuridica in esame, traeva origine da una condanna inflitta al titolare di un permesso di costruire il quale, anche nella qualità di committente dei lavori per la realizzazione di un complesso residenziale, aveva eseguito la demolizione di alcuni fabbricati preesistenti, senza osservare le prescrizioni contenute nel titolo abilitativo che, in particolare, imponevano la comunicazione, con congruo anticipo, della data di inizio lavori e del nominativo dell'impresa costruttrice, ritenendo dunque integrata la violazione della lett. a) dell'art. 44 del T.U. edilizia.
Il ricorso
Il verdetto veniva confermato dal giudice chiamato a pronunciarsi sull'opposizione al decreto penale di condanna emesso in prima battuta dal G.i.p., così costringendo l'imputato ha proporre ricorso per cassazione contro la condanna alla pena dell'ammenda inflittagli. In particolare, il ricorrente deduceva la violazione di legge rilevando che, per errore, il giudice di merito aveva ritenuto sussistere la violazione in esame per la violazione delle prescrizioni contenute nel permesso di costruire, in realtà non effettivamente inerenti l'attività edilizia, da individuarsi tenendo conto del disposto dell'art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001.
La decisione della Cassazione
La Corte Suprema ha, però, disatteso la tesi difensiva, ritenendo, invece, configurabile il reato in esame in caso di violazione delle prescrizioni contenute nel titolo abilitativo edilizio quali, in particolare, quelle relativa alla mancata comunicazione del nominativo della ditta esecutrice dei lavori e della data di inizio di questi ultimi.
Come di consueto è utile, per il lettore, un breve inquadramento normativo della questione.
L'art. 44, comma primo, lett. a) del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, prevede "Salvo che il fatto costituisca più grave reato e ferme le sanzioni amministrative" l'applicazione della pena dell'ammenda fino a 10.329 euro per l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dal presente titolo, in quanto applicabili, nonché dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal permesso di costruire".
La giurisprudenza di legittimità, già sotto la vigenza della legge n. 47 del 1985 (che, all'art. 20, lett. a), conteneva una previsione di identico contenuto), aveva affermato che la disposizione in esame ha un contenuto estremamente generico e si presta ad una pluralità indiscriminata di utilizzazioni con conseguente insufficienza della interpretazione letterale, se non altro perché urta con il principio della tassatività delle fattispecie legali penali.
Da qui, dunque, la necessità di procedere alla delimitazione dell'ambito applicativo della fattispecie in esame, facendo in particolare riferimento alla collocazione di esso in un contesto normativo volto a disciplinare l'attività edilizia. In base alla ratio che si enuclea da tale contesto, secondo la Cassazione "le norme, prescrizioni e modalità esecutive" indicate dalla lett. a) devono intendersi riferite soltanto a quelle regole di condotta che sono direttamente afferenti all'attività edilizia (Cass., Sez. III, n. 8965 del 23/05/1990, dep. 21/06/1990, imp. G., in Ced Cass., n. 184671, fattispecie relativa ad annullamento, perché il fatto non è preveduto dalla legge come reato, di sentenza con la quale il pretore aveva motivato il giudizio di colpevolezza ritenendo che l'apposizione di insegna luminosa all'esterno di un esercizio commerciale è disciplinata dal regolamento edilizio ed, essendo attinente alla estetica edilizia urbana, la relativa mancanza di autorizzazione prevista dal medesimo regolamento si traduce nella violazione della lett. a).
Le Sezioni Unite penali della Cassazione, peraltro, ebbero modo di affermare, sotto la vigenza dell'abrogata fattispecie dell'art. 20 della legge n. 47 del 1985, che l'art. 4, comma quarto, l. 28.02.1985 n. 47 prevede due obblighi a carico di coloro che costruiscono:
1) la tenuta in cantiere della concessione edilizia;
2) la esposizione di un cartello contenente gli estremi della concessione e degli autori dell'attività costruttiva.
La violazione di tali obblighi è penalmente sanzionata a norma della lett. a), ma solo a condizione che gli stessi siano espressamente previsti dai regolamenti edilizi o dalla concessione (Cass., Sez. U, n. 7978 del 29/05/1992, dep. 14/07/1992, P.M. in proc. Aramini ed altro, in Ced Cass., n. 191176).
Sempre le Sezioni Unite penali, con una decisione altrettanto importante (Cass., Sez. U, n. 11635 del 12/11/1993, dep. 21/12/1993, P.M. in proc. Borgia ed altri, in Ced Cass., n. 195358), ebbero ad affermare che la previsione della lett. a), configura una ipotesi di norma penale in bianco, atteso che per la determinazione del precetto viene fatto rinvio a dati prescrittivi, tecnici e provvedimentali, di fonte extrapenale.
Il precetto, infatti, comprende, oltre alle parziali difformità delle opere eseguite, la violazione degli strumenti urbanistici e del regolamento edilizio, l'inosservanza delle prescrizioni della concessione edilizia e l'inosservanza delle modalità esecutive dell'opera risultanti dai suddetti strumenti e dalla concessione edilizia stessa, oltre che dalla legge.
La Cassazione, nella medesima occasione, ha rilevato che l'accertamento che il giudice penale è chiamato a compiere con riferimento alla suddetta fattispecie contravvenzionale consiste nel verificare la conformità tra l'ipotesi di fatto, ossia l'opera eseguenda od eseguita, e la fattispecie legale, quale risultante dagli elementi extrapenali indicati in massima.
Più di recente, la Corte ha precisato che le inosservanze penalmente sanzionate dalla lett. a) devono riguardare la condotta di trasformazione urbanistica o edilizia del territorio, non potendosi estendere il campo di applicazione della norma sanzionatoria a violazioni afferenti ad adempimenti amministrativi; per tale ragione, ha escluso che rientrasse tra le prescrizioni, la cui inosservanza integra il reato di cui all'art. 44, comma primo lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001, la presentazione, da parte del committente o del responsabile dei lavori appaltati, del documento unico di regolarità contributiva delle imprese o dei lavoratori autonomi (cosiddetto D.U.R.C.), prima che abbiano inizio i lavori oggetto del permesso di costruire o della denuncia di inizio attività (Cass., Sez. III, n. 21780 del 27/04/2011, dep. 31/05/2011, imp. C. e altro, in Ced Cass., n. 250390).
Tenuto conto dell'esegesi della norma in questione, ben può comprendersi la soluzione offerta dalla Suprema Corte nel caso in esame.
Ed infatti, la specifica prescrizione, contenuta nel permesso di costruire, che obbligava a comunicare con congruo anticipo la data di inizio lavori e la ditta assuntrice degli stessi aveva certamente attinenza con l'attività edilizia, in quanto scopo della comunicazione è quello di agevolare la verifica, da parte dell'amministrazione comunale, dell'inizio dell'intervento nei termini e consentire una tempestiva verifica sull'attività edilizia posta in essere.
Non si tratta dunque, come sottolineano gli Ermellini, di una semplice formalità amministrativa, ma di un adempimento strettamente connesso ai contenuti ed alle finalità del permesso di costruire ed agli obblighi di vigilanza di cui all'art. 27 T.U. edilizia, imposti al dirigente ed al responsabile dell'ufficio comunale competente, cosicché la correlazione con l'attività edilizia assentita risulta del tutto evidente (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione civile, sentenza 23.02.2012 n. 7070 - sentenza tratta da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo la giurisprudenza amministrativa, In ordine al titolo abilitativo per la realizzazione di soppalchi interni alle abitazioni occorre distinguere i casi nei quali, in relazione alla tipologia e alla dimensione dell'intervento, può essere sufficiente una denuncia di inizio di attività, dai casi nei quali occorre una vera e propria concessione edilizia, oggi permesso di costruire; deve infatti ritenersi sufficiente una d.i.a. nel caso in cui il soppalco sia di modeste dimensioni e al servizio della preesistente unità immobiliare mentre, viceversa, deve ritenersi necessario il permesso di costruire quando il soppalco sia di dimensioni non modeste e comporti una sostanziale ristrutturazione dell'immobile preesistente, ai sensi dell'art. 3, comma 1, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, comportando un incremento delle superfici dell'immobile e quindi anche un ulteriore possibile carico urbanistico.
Seconda la giurisprudenza della Cassazione penale, l'esecuzione di soppalchi nella ristrutturazione interna di un edificio, pure se non realizzi un mutamento di destinazione d'uso, costituisce opera che richiede il permesso a costruire o, in alternativa, la denuncia d'inizio di attività, poiché comporta modifica delle superfici interne, la quale, a norma dell'art. 10, comma 1, lett. c) T.U. dell'edilizia (D.P.R. n. 380 del 2001) è necessaria e sufficiente a far sorgere tale obbligo, indipendentemente, quindi, da una contemporanea modifica della sagoma o del volume.

6b- Venendo ai soppalchi, la questione va risolta alla luce dei convergenti principi fissati dalla giurisprudenza amministrativa e da quella della Cassazione penale, di cui alle statuizioni qui di seguito riprodotte:
● quanto alla giurisprudenza amministrativa: “In ordine al titolo abilitativo per la realizzazione di soppalchi interni alle abitazioni occorre distinguere i casi nei quali, in relazione alla tipologia e alla dimensione dell'intervento, può essere sufficiente una denuncia di inizio di attività, dai casi nei quali occorre una vera e propria concessione edilizia, oggi permesso di costruire; deve infatti ritenersi sufficiente una d.i.a. nel caso in cui il soppalco sia di modeste dimensioni e al servizio della preesistente unità immobiliare mentre, viceversa, deve ritenersi necessario il permesso di costruire quando il soppalco sia di dimensioni non modeste e comporti una sostanziale ristrutturazione dell'immobile preesistente, ai sensi dell'art. 3, comma 1, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, comportando un incremento delle superfici dell'immobile e quindi anche un ulteriore possibile carico urbanistico” (Tar Campania, Napoli, sez. IV, 10.12.2007, n. 15871 e 27.06.2005, n. 8681).
● quanto a quella della Cassazione penale, in una vicenda aventi contenuti analoghi a quella qui data sia in fatto che in diritto e che, in ragione di tanto, appare il caso di riportare di seguito nella sua interezza: “La questione relativa alla costruzione di soppalchi, nell'eseguire opere interne in preesistenti costruzioni, veniva risolta nel senso che non occorressero né concessione né autorizzazione nel vigore della l. n. 47 del 1985, art. 26 e della l. n. 493 del 1993, art. 4, come modificato dalla l. n. 662 del 1996, art. 2, comma 60 (v. Cass., 3^, 4746/1998; id., 6189/2000); si riteneva, quindi, sufficiente la DIA, la cui mancanza era punita con una sanzione pecuniaria.
Intervenuta la nuova normativa, col D.P.R. n. 380 del 2001, Cass., 3^, 40829/2005 ha confermato tale indirizzo -con riguardo a fattispecie analoga a quella in esame, regolata dalla medesima legislazione regionale-, sulle seguenti considerazioni: "La realizzazione di opere interne anche in base al testo unico deve ritenersi consentita, come avveniva nella legislazione previgente, previa mera denunzia di inizio dell'attività a condizione che non integri veri e propri interventi di ristrutturazione comportanti modifiche della sagoma o della destinazione d'uso (cfr. Cass. 3577 del 2001) e ciò perché in base all'attuale disciplina sono assentibili con la denuncia d'inizio dei lavori, cosiddetta semplice ossia quella prevista dal D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 22, commi 1 e 2 (...), tutti quegli interventi per i quali non è richiesto il permesso a costruire e per quello in questione tale permesso, alle condizioni sopra indicate, non è richiesto giacché, anche se è aumentata la superficie in concreto utilizzabile, non sono stati modificati volume e sagoma. La L.R. Campania citata nella decisione impugnata per quanto concerne la questione in esame ossia la realizzabilità delle opere interne, in base a semplice denuncia d'inizio attività, alle condizioni dianzi evidenziate, è conforme alla disciplina statale".
L'orientamento (relativo a fatti accertati il (omissis), cui la sentenza impugnata si è attenuta, non può, con riguardo alla fattispecie in esame (fatti protrattisi fino al (omissis), essere condiviso.
Il D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 10, comma 3, lett. c), (T.U. dell'edilizia) definisce infatti interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, subordinati a permesso a costruire, "gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso".
Le opere interne, dunque, non sono più autonomamente regolate, e, nell'assetto dello stesso T.U. possono essere eseguite previa mera DIA, a condizione che: a) non integrino veri e propri interventi di ristrutturazione edilizia comportanti aumento di unità immobiliari, ovvero modifiche dei volumi, dei prospetti o delle superfici; b) non integrino veri e propri interventi di ristrutturazione edilizia con mutamento di destinazione d'uso; c) non comportino comunque mutamenti di destinazione d'uso di immobili compresi nelle zone omogenee A). E, nell'ipotesi considerata, il carattere minore dell'intervento appare da escludere, essendosi realizzato -come nessuno dubita- un aumento delle superfici, necessario e sufficiente ad imporre il permesso a costruire (o, in alternativa, la cd. superdia).
L'idea che la nuova normativa ancora richieda -perché debba considerarsi insufficiente la semplice DIA- una contemporanea modifica di volume e sagoma costituisce, in realtà, un riflesso dell'impostazione precedente, e, segnatamente, della disciplina contenuta nella l. n. 662 del 1996, art. 2, comma 60, là dove, al comma 7, lett. e), del sostituito dalla L. n. 493 del 1993, art. 4, si richiede la sola denuncia di inizio attività per le "opere interne di singole unità immobiliari che non comportino modifiche della sagoma e dei prospetti e non rechino pregiudizio alla statica dell'immobile", apparendo peraltro chiaro, in termini definitori, che una qualche modifica in tal senso avrebbe escluso il carattere interno dell'intervento.
La nuova disciplina comporta invece che, in caso di interventi di ristrutturazione, l'organismo edilizio risulti in parte diverso per effetto della diversità di disposizione interna degli spazi, e che, ai fini della necessità del permesso a costruire (od, in alternativa, della denuncia di inizio dell'attività) debba aversi riguardo -a parte le ipotesi di mutamento di destinazione d'uso- alle "modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici". Ciascuna modifica, dunque, autonomamente realizza la fattispecie, senza possibilità di sovrapposizione, come si deduce dalla disgiuntiva finale (v., negli stessi sensi, Cass., 3^, ud. 20.09.2006, Montilli).
Né la conclusione può essere influenzata dalla normativa regionale, solo evocata nel provvedimento impugnato. La L.R. Campania n. 19 del 2001, art. 2, comma 1, lett. a), invero, autorizza, in base a semplice denuncia d'inizio attività, "gli interventi edilizi, di cui al D.L. 05.10.1993, n. 398, art. 4, convertito, con modificazioni, dalla l. 04.12.1993, n. 493, come sostituito dalla l. 23.12.1996, n. 662, art. 2, comma 60, lettere a), b), c), d) e) f)", così richiamando proprio la previgente disciplina.
Al riguardo, deve osservarsi che l'abolizione della categoria delle opere interne, nel T.U. dell'edilizia, appare significativamente ribadita dalla abrogazione espressa di cui all'art. 136, comma 2, lett. f), riguardante, in generale, la l. n. 47 del 1985, art. 26, lett. h), relativa al medesimo complesso normativo riprodotto dalla legge regionale. Il carattere formale del rinvio, desumibile dalla stessa formulazione letterale della disposizione unitariamente considerata, comporta, con riguardo alla ipotesi prevista nella lett. e) più sopra interamente riprodotta, che quella abrogazione non possa non essersi riflettuta sulla corrispondente previsione della legislazione regionale: sicché il regime delle opere interne resta correlato a quello dell'intervento edilizio complessivo che, attraverso l'esecuzione delle stesse, viene posto in essere (nella specie, di ristrutturazione edilizia).
Da ciò discende il principio di diritto secondo cui "l'esecuzione di soppalchi nella ristrutturazione interna di un edificio, pure se non realizzi un mutamento di destinazione d'uso, costituisce opera che richiede il permesso a costruire o, in alternativa, la denuncia d'inizio di attività, poiché comporta modifica delle superfici interne, la quale, a norma dell'art. 10, comma 1, lett. c) T.U. dell'edilizia (D.P.R. n. 380 del 2001) è necessaria e sufficiente a far sorgere tale obbligo, indipendentemente, quindi, da una contemporanea modifica della sagoma o del volume.
Tale disciplina è applicabile pure in presenza della disposizione dell'art. 2 L.R. Campania, che dichiara sufficiente la semplice denuncia d'inizio attività in ipotesi di opere interne di singole unità immobiliari che non comportino modifiche della sagoma e dei prospetti e non rechino pregiudizio alla statica dell'immobile, risultando la corrispondente disposizione della legislazione statale richiamata (l. n. 662 del 1996, art. 2, comma 60) abrogata dall'art. 36, comma 2, lett. h), dello stesso T.U. La sentenza impugnata va dunque annullata, con rinvio al Tribunale di Napoli, il cui G.I.P. si atterrà all'enunciato principio.
” (Cass. penale, sez. III, 22.09.2006, n. 37705).
6c- Quanto ai “sopralzi”, è ben vero che la loro realizzazione è stata resa possibile a mezzo di “semplice denuncia di inizio attività” dall’art. 1, comma 6, lettera d, della l. 21.12.2001, n. 443, ma ancora vero che il ricorso ad essa è consentito solo “in diretta esecuzione di idonei strumenti urbanistici diversi da quelli indicati alla lettera c), ma recanti analoghe previsioni di dettaglio” ed ancora vero che negli stessi sensi, in conformità alla norma statale, recita quella regionale (art. 2, comma 1, lettera d, l.r. n. 19 del 2001).
Conformità alla strumentazione urbanistica di dettaglio, qui non solo non comprovata, ma cui non è fatto cenno alcuno.
6d- E ciò a tacersi dei profili paesaggistici che, ancorché solo genericamente evocati in seno al provvedimento, non appaiono estranei alla fattispecie (nella sua interezza) ove si abbia presente il contesto di ristrutturazione qui dato (in presenza, cioè, di “un'unità immobiliare allo stato grezzo…..”, implicante distribuzione degli spazi e delle superfici) incidente, nel suo coacervo, su esterni ed interni (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 22.02.2012 n. 908 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'obbligo di motivazione, normalmente attenuato nei casi di atti dovuti ed a contenuto vincolato, si riespande quando la sola descrizione degli abusi accertati non rifletta di per sé l'illecito contestato, occorrendo, in siffatte evenienze, in aggiunta ad una descrizione materiale delle opere accertate, una qualificazione giuridica dell'intervento abusivo, onde consentirne la sussunzione in una delle diverse, e tra loro alternative, fattispecie incriminatici e nella corrispondente sanzione.
---------------
La costruzione di un soppalco di modeste dimensioni ad uso deposito all'interno di un appartamento è, di regola, opera che, non comportando aumento di volume né aumento della superficie utile né modifica della destinazione d'uso dell'immobile, non è riconducibile alla categoria della ristrutturazione edilizia e quindi non necessita di permesso di costruire, ma di semplice denuncia di inizio attività.
-------------
Il permesso di costruire non occorre allorquando la costruzione di una scala non determini una significativa trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e, al contrario, si tratti di mera pertinenza, essendo preordinata ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale, funzionalmente inserita al servizio dello stesso, sfornita di un autonomo valore di mercato e caratterizzata da un volume minimo, tale da non consentire una destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell'immobile al quale accede e, comunque, tale da non comportare un aumento del carico urbanistico.

Preliminarmente, giova rammentare che il Testo Unico sull'Edilizia, referente normativo anche in materia di vigilanza e repressione degli abusi edilizi, sanziona, sul piano amministrativo, la condotta di realizzazione di manufatti edilizi abusivi in una pluralità di disposizioni incriminatici (art. 27, 31, 32 comma 3, 33, 34, 35, 37), ciascuna delle quali corrispondente ad un'autonoma fattispecie di illecito, caratterizzata da propri presupposti e per esse, in relazione alla gravità dell'abuso, prevede tre tipi diversi di sanzione: la demolizione, la sanzione pecuniaria, l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale o anche la confisca amministrativa, tutte strumentali rispetto alla precipua funzione riparatoria dell'ordine urbanistico violato e tendenzialmente applicabili in via alternativa ovvero consequenziale.
In siffatto contesto, appare di evidenza intuitiva come l'obbligo di motivazione, normalmente attenuato nei casi di atti dovuti ed a contenuto vincolato, si riespanda quando la sola descrizione degli abusi accertati non rifletta di per sé l'illecito contestato, occorrendo, in siffatte evenienze, in aggiunta ad una descrizione materiale delle opere accertate, una qualificazione giuridica dell'intervento abusivo, onde consentirne la sussunzione in una delle diverse, e tra loro alternative, fattispecie incriminatici e nella corrispondente sanzione (TAR Campania, Napoli, Sez. II, 23.09.2008 n. 10617).
Applicando tale principio al caso in esame, il difetto di motivazione appare particolarmente evidente, tenuto conto della dubbia riconducibilità di alcune delle opere contestate ad interventi la cui realizzazione richiede il previo rilascio del permesso di costruire.
Ciò è tanto più evidente per la realizzazione del tubo in pvc e all’intonaco al piano terra: infatti, gli interventi edilizi prima citati rientrano nella nozione di manutenzione ordinaria, ex art. 3, comma 1, lett. a), D.P.R. n. 380/2001 (secondo cui si intendono per "interventi di manutenzione ordinaria... gli interventi edilizi che riguardano le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e quelle necessarie ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti"), per i quali il successivo l'art. 6, comma 1, lett. a), dispone che sono eseguiti senza alcun titolo abilitativo (TAR Campania, Salerno, Sez. I, 24.05.2011 n. 967).
Si aggiunga che, dall’esame degli atti, non risulta che tali opere abbiano comportato la benché minima modificazione di superfici, volumi, altezze, aspetto esteriore e destinazione funzionale, ma si sono risolti in una mera attività manutentiva rivolta esclusivamente a conservare in condizioni di funzionalità e fruibilità il preesistente manufatto.
Quanto al soppalco (per il quale la ricorrente ha escluso qualsiasi incremento di superficie utilizzabile o di volumetria), deve richiamarsi l’orientamento espresso da questo TAR, secondo cui la costruzione di un soppalco di modeste dimensioni ad uso deposito all'interno di un appartamento è, di regola, opera che, non comportando aumento di volume né aumento della superficie utile né modifica della destinazione d'uso dell'immobile, non è riconducibile alla categoria della ristrutturazione edilizia e quindi non necessita di permesso di costruire, ma di semplice denuncia di inizio attività (TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 20.04.2010 n. 2040 e 27.03.2007, n. 2859).
-------------
Con riferimento alla realizzazione della scala di n. 6 gradini, l’amministrazione non ha fornito alcun elemento motivazionale a sostegno della necessità del previo rilascio del permesso di costruire, specie tenuto conto dell’indirizzo pretorio secondo cui tale titolo edilizio non occorre allorquando la costruzione di una scala non determini una significativa trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e, al contrario, si tratti di mera pertinenza, essendo preordinata ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale, funzionalmente inserita al servizio dello stesso, sfornita di un autonomo valore di mercato e caratterizzata da un volume minimo, tale da non consentire una destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell'immobile al quale accede e, comunque, tale da non comportare un aumento del carico urbanistico (TAR Campania Napoli, Sez. VII, 27.05.2009 n. 2945 e 20.11.2007 n. 14443; TAR Lazio, Latina, Sez. I, 07.05.2010 n. 740; TAR Piemonte, Sez. I, 25.03.2008 n. 505)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 22.02.2012 n. 872 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn caso di ordine di demolizione delle opere abusive non è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990, trattandosi di atto dovuto, sicché non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario.
Per costante giurisprudenza, in caso di ordine di demolizione delle opere abusive non è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990, trattandosi di atto dovuto, sicché non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario (Consiglio di Stato, Sez. VI, 24.09.2010 n. 7129; TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 13.01.2011 n. 84 e Sez. VIII, 29.01.2009 n. 5001; TAR Campania, Salerno, Sez. II, 13.04.2011 n. 702) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 22.02.2012 n. 872 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALISocietà partecipate, incarichi di consulenza con procedure Ue.
I principi comunitari della gara devono essere applicati anche agli incarichi di consulenza delle società partecipate sebbene non siano appalti di servizi.
Lo ha sancito il TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, con la sentenza 17.02.2012 n. 130.
Nel caso in esame una società con partecipazione di capitale pubblica totalitaria, costituita secondo il modello societario in house, avente a oggetto la riqualificazione di un vasto ambito urbano, aveva indetto una gara pubblica per il conferimento di un incarico di consulenza a un esperto con competenze specialistiche in materia di pianificazione urbana.
All'esito della procedura di valutazione comparativa il secondo classificato aveva contestato gli atti di gara deducendone l'illegittimità dal momento che non si trattava di un appalto di servizi bensì di un contratto d'opera professionale, inquadrabile tra i contratti di cui all'articolo 2230 c.c.: per questo motivo, secondo il ricorrente, la gara espletata non era doverosa e la procedura non doveva essere soggetta alle norme del codice dei contratti di cui al dlgs 163 del 2006.
Il Collegio respinge il ricorso. Innanzitutto, i giudici amministrativi precisano che ciò che caratterizza l'appalto è l'assunzione del compimento di un servizio, con assunzione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, ai sensi dell'articolo 1655 c.c.: si tratta, pertanto di un'obbligazione di risultato che, di regola avviene mediante un'organizzazione di media o grande impresa.
La mancanza degli elementi sopraccitati nella fattispecie in oggetto, invece, comporta la qualificazione del rapporto in termini di contratto d'opera professionale, non sussistendo alcuna assunzione di rischio e tenuto conto del contenuto della prestazione richiesta che costituisce un'attività individuale di assistenza e consulenza con la quale il professionista mette a disposizione i propri mezzi e capacità professionali, indipendentemente dal raggiungimento di un risultato.
Tuttavia, anche se d'accordo con il ricorrente nella qualificazione del contratto, il Collegio chiarisce che anche per i contratti di consulenza debbano essere applicati i principi del Trattato dell'Ue ossia il principio di concorrenza e di quelli, che ne rappresentano attuazione e corollario, di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione e parità di trattamento. «Tali principi, infatti, si elevano a principi generali di tutti i contratti pubblici, e sono direttamente applicabili, a prescindere dalla ricorrenza di specifiche norme comunitarie o interne e in modo prevalente su eventuali disposizioni interne di segno contrario» (articolo ItaliaOggi del 24.03.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

CONDOMINIOÈ ammessa la tenda in terrazza. Tutto ciò che è removibile non lede il decoro architettonico. La Cassazione: estetica compromessa solo per effetto di modifiche strutturali visibili dall'esterno.
Non può essere ritenuto colpevole di lesione del decoro architettonico del caseggiato il condomino che abbia trasformato una soffitta in un appartamento, ricorrendo solo a opere interne e utilizzando tendaggi e altri oggetti rimuovibili, in quanto in tal caso non può dirsi compromessa l'estetica del fabbricato, che si verifica solo per effetto di modifiche sulla struttura dell'edificio che siano visibili e apprezzabili dall'esterno.
È quanto ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con ordinanza 30.01.2012 n. 1326.
La vicenda. La questione ha inizio quando una condomina trasforma una soffitta, posta all'ultimo piano del caseggiato, in un appartamento a uso residenziale, suscitando la reazione di altri due condomini i quali, nella convinzione che le opere di trasformazione eseguite avessero alterato il decoro dell'edificio, non solo impedivano l'allaccio del locale agli impianti di luce e gas ma, successivamente, si rivolgevano al tribunale competente per richiedere la rimozione dei manufatti illecitamente costruiti.
Secondo gli attori, inoltre, il decoro dell'edificio condominiale era stato compromesso anche dall'abusivo deposito di materiale sul terrazzo comune, nonché dall'affissione di alcuni tendaggi. Le circostanze in tal modo denunciate erano però state considerate irrilevanti dal tribunale interpellato, il quale aveva ordinato l'allaccio delle utenze e condannato gli attori al risarcimento dei danni subiti dalla condòmina che non aveva potuto affittare l'immobile privo delle essenziali utenze.
Tale decisione era stata poi confermata dalla Corte di appello. E alle stesse conclusioni è pervenuta la Suprema corte, nella citata ordinanza dello scorso mese di gennaio. La sesta sezione della Corte di cassazione ha infatti precisato come la trasformazione della soffitta in locale abitabile era stata effettuata solo mediante opere interne, senza variazione né ampliamento di volume dei locali originari e, comunque, in modo tale da evitare che fosse compromesso l'accesso al lastrico solare di proprietà condominiale. Per quanto sopra i giudici supremi hanno escluso la lesione del decoro architettonico del fabbricato, che è logicamente incompatibile con l'insussistenza di modifiche esterne dello stabile.
Il principio. L'alterazione del decoro del fabbricato, per essere validamente contestata, deve essere apprezzabile, situazione che ricorre allorché le modifiche siano visibili dall'esterno. In altre parole, il condomino non può mai (senza autorizzazione del condominio) modificare solo quelle parti esterne, siano esse comuni o di proprietà individuale, che incidano sul decoro architettonico dell'intero corpo di fabbrica o di parti significative di esso. Del resto la Suprema corte ha precisato anche come, ai fini del decoro architettonico, non può essere rilevante l'apposizione di tendaggi e stracci sul terrazzo dell'edificio (che sono rimovibili), in quanto tale comportamento non è in grado di alterare, in modo visibile e significativo, la particolare struttura e la complessiva armonia che conferiscono al fabbricato una propria specifica identità.
In altre parole, tali comportamenti non meritano di essere considerati ai fini della lesione del decoro architettonico, cioè delle linee e delle strutture che connotano lo stabile stesso e gli imprimono una determinata, armonica fisionomia e una specifica identità, perché non riguardano opere edili incidenti sulla sagoma o la facciata dell'edificio, bensì la posa di oggetti rimovibili, che non possono quindi pregiudicarne il decoro architettonico.
Allo stesso modo la Cassazione ha sottolineato come dalla richiesta della condòmina di poter allacciare il nuovo appartamento alle utenze di luce e gas non potesse derivare alcun danno agli altri condomini, in quanto tale operazione non comportava modifiche murarie strutturali o alterazioni delle linee architettoniche dell'edificio, ma adeguamenti e aggiunte funzionali che, come tali, non rilevano sulla estetica del fabbricato.
In ogni caso la Suprema corte ha affrontato anche la questione del risarcimento del danno richiesto dalla condòmina per la compromissione dell'usufruibilità della soffitta trasformata in appartamento per la mancata disponibilità degli allacciamenti conseguente agli impedimenti illegittimamente posti in essere dai propri vicini. A questo proposito è stato ricordato che in casi del genere il danno non può che riferirsi esplicitamente e inequivocabilmente alla mancata utilizzazione locatizia del locale divenuto abitabile
---------------
La nozione. Il pregiudizio deve tradursi in un'alterazione incisiva.
La nozione di decoro architettonico, come meglio chiarita nel tempo dalle numerose decisioni di merito e di legittimità che si sono prodotte sul tema, viene in rilievo in materia di innovazioni condominiali vietate e denota una qualità positiva dell'edificio, derivante dal complesso delle sue caratteristiche costruttive principali e secondarie, di modo che una modifica strutturale di una parte del medesimo, anche di modesta consistenza, pur non incidendo sulle linee architettoniche preesistenti, può essere idonea a far venir meno quelle caratteristiche influenti sull'estetica del fabbricato e, quindi, sullo stesso decoro architettonico.
Quella del decoro architettonico è spesso una strada obbligata per quei condomini che vogliano comunque opporsi a innovazioni decise dalla maggioranza assembleare perché, ai sensi dell'art. 1120, secondo comma, c.c., le stesse possono essere considerate legittime soltanto ove non rechino pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza dell'edificio, non ne modifichino, appunto, il decoro architettonico o non rendano alcune parti comuni inservibili all'uso cui sono destinate.
In questi casi, affinché l'opposizione dei condomini sia legittima, il pregiudizio all'aspetto architettonico deve tradursi in un'alterazione di particolare incidenza sullo stile architettonico dell'edificio e sulle linee caratteristiche principali di esso, idonea di per sé a diminuire il pregio estetico del fabbricato e, quindi, il valore economico dello stesso, riferito sia all'unità complessiva sia alle singole unità in proprietà esclusiva. La difformità deve quindi essere immediatamente apprezzabile ictu oculi da parte delle persone di media preparazione culturale e tecnica che si trovino a passare sulla strada, in quanto tali condizioni sono quelle che ricorrono in occasione dell'apprezzamento del pregio estetico di un edificio, nonché in occasione della valutazione economica dello stesso sia in termini di insieme che di singole porzioni.
Al fine di stabilire se le opere di modifica del fabbricato abbiano pregiudicato il decoro architettonico, come opportunamente specificato dalla Suprema corte, devono comunque essere tenute presenti le condizioni in cui quest'ultimo si trovava prima dell'esecuzione delle opere stesse, con la conseguenza che una modifica non può essere ritenuta pregiudizievole per il decoro architettonico se apportata a un edificio la cui estetica sia stata già menomata a seguito di precedenti lavori ovvero che sia di mediocre livello architettonico (Cassazione civile, sezione seconda, sentenza 29.07.1989, n. 3549).
Dal punto di vista economico, l'alterazione del decoro architettonico dell'edificio in condominio postula un mutamento estetico implicante un pregiudizio economicamente valutabile. Tuttavia, secondo la Cassazione, quando la modifica non sia del tutto trascurabile e non abbia arrecato anche un vantaggio, deve sempre ritenersi insito nel pregiudizio estetico quello economico, senza necessità di un'espressa motivazione sotto tale profilo tutte le volte in cui non sia stato espressamente eccepito e provato che la modifica ha anche arrecato un vantaggio economicamente valutabile (Cassazione civile, sezione seconda, sentenza 06.10.1997, n. 9717).
Il diritto di opposizione alle opere eseguite con pregiudizio delle caratteristiche architettoniche dell'edificio spetta a tutti i condomini, i quali possono chiedere la riduzione in pristino del fabbricato e il risarcimento dei danni. Anche all'amministratore è riconosciuto il potere di agire in giudizio per chiedere la demolizione delle modifiche pregiudizievoli alla statica e all'estetica dell'edificio.
Sul punto la giurisprudenza, annoverando detta facoltà dell'amministratore tra gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni, ha per esempio riconosciuto la legittimazione attiva dell'amministratore ad agire in giudizio senza l'autorizzazione dell'assemblea per conseguire la demolizione della soprelevazione realizzata in violazione delle prescrizioni e delle cautele fissate dalle norme speciali antisismiche ovvero per conseguire la rimozione delle modifiche dell'edificio che importino l'alterazione dell'estetica (Cassazione civile, sezione seconda, sentenza 12.10.2000, n. 13611) (articolo ItaliaOggi Sette del 19.03.2012).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Integra il reato di omissione di atti d'ufficio (art. 328, comma secondo cod. pen.) la condotta del segretario comunale che, a fronte della richiesta di un consigliere comunale di accesso agli atti, ometta di fornirgli e di rispondere nei termini di legge, essendo irrilevante che gli atti richiesti non rientrino nelle competenze deliberative del Consiglio (in motivazione, la Corte ha chiarito che il potere di sindacato ispettivo, di stimolo e controllo sull'attività degli organi comunali previsto dall'art. 42 T.U.E.L dà diritto ai consiglieri di ottenere qualsiasi informazione necessaria per il suo esercizio).
---------------
Svolgimento del processo
Con la sentenza in epigrafe, la Corte d'appello di Brescia, a seguito di impugnazione della parte civile C.O., ha riformato in toto quella di primo grado del giorno 22.09.2004 del Tribunale di Bergamo, emessa a seguito di giudizio abbreviato, condannando G.G. per due episodi del reato di cui all'art. 328 c.p., comma 2, al risarcimento dei danni in favore della parte civile, liquidati in complessivi Euro 4.000,00 (fatti del (OMISSIS)).
Al G. era stato contestato detto reato perché, quale Segretario comunale del Comune di (OMISSIS), richiesto legittimamente dal consigliere comunale C.O. in data (OMISSIS) di ottenere atti del Comune, ometteva di fornirli e di rispondere nel termine di legge.
Con la sentenza impugnata i giudici del gravame hanno osservato, anzitutto, sul dedotto impedimento del difensore dell'imputato, che non è applicabile la disciplina di cui all'art. 420-ter del giudizio ordinario a quello in camera di consiglio davanti alla Corte d'appello. Ha poi rilevato che la disposizione del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 42 (T.U.E.L.), che contiene l'elencazione della materie nelle quali è esercitabile da parte del consiglio comunale il sindacato politico amministrativo sulla attività del Comune, non limita, esaurendolo, il potere di tale sindacato. Quel limite potrà valere per l'attività deliberativa, ma l'attività di controllo del consigliere comunale si estende a ogni materia di competenza della amministrazione. Tale interpretazione è confermata proprio dal testo dell'art. 22 dello Statuto del Comune di (OMISSIS) e dall'art. 48 del Regolamento del consiglio comunale, il primo dei quali stabilisce che i consiglieri comunali hanno diritto di ottenere tutte le informazioni in possesso degli uffici comunali e tutti gli atti pubblici utili all'espletamento del loro mandato, ribadendo il potere di interpellanza, di mozione e di altre istanze di controllo. Una corretta ermeneusi del citato art. 48, comma 4, induce a far ritenere che il diritto dei consiglieri all'informazione riguarda oltre che le materie di competenza del consiglio comunale anche quelle ricomprese nell'espletamento del mandato di cui al comma 1, laddove i commi 2 e 3 fanno riferimento ad atti e non a materie. Tutto ciò consentiva di escludere la mancanza di dolo dell'imputato, non solo per la sua qualità. Esclusione peraltro già evidente dalla risposta irridente che G., rivendicando un appartenenza politica, aveva dato al C..
Avverso la predetta sentenza propone ricorso per cassazione il difensore dell'imputato, deducendo i seguenti motivi di ricorso.
1) Inosservanza dell'art. 420-ter in quanto la Corte d'appello all'udienza (camerale) del 22.11.2005 aveva rigettato la richiesta di differimento del procedimento per legittimo impedimento del difensore, le cui ragioni erano state adeguatamente comprovate con certificato medico attestante l'avvenuto ricovero in data (OMISSIS) per un intervento chirurgico con prognosi di 25 giorni; richiesta tempestivamente inviata a mezzo telefax in data 15.11.2005. L'indicazione del tipo di intervento era stata omessa per ragioni di privacy (l'intervento aveva poi comportato una degenza fino al (OMISSIS) e una convalescenza di 60 giorni). Osserva il ricorrente che il difensore non aveva alcun obbligo di farsi sostituire da altro professionista e che orientamenti giurisprudenziali (cita Cass. 11.10.2000 e Cass., 10.10.2000) e dottrinali si sono espressi nel senso della estensione dell'art. 420-ter c.p.p. anche ai giudizi camerali.
2) Inosservanza degli artt. 576 e 538 c.p.p.. La Corte d'appello aveva liquidato il danno in Euro 4.000,00, peraltro senza alcuna prova e senza motivazione sul punto (cita Cass., 06.04.1995 e Cass., 14.06.2006), motivazione certamente necessaria anche in caso di danno non patrimoniale (cita Cass., 01.10.1999 e Cass., 23.01.1997). In proposito rileva ancora che nelle ipotesi, come quella di specie, in cui il giudice penale deve decidere ai soli effetti civili, egli deve limitarsi a rimuovere l'effetto extrapenale, ma il proscioglimento pronunciato in primo grado rimane irrevocabile, con la conseguenza che il giudice penale non può provvedere sul risarcimento del danno. La pronuncia del giudice penale potrebbe solo aprire la strada a un'azione davanti al giudice civile (cita Cass., 07.04.1997 e Cass., 30.10.1997).
3) Inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 328 c.p., comma 2, e mancanza e manifesta illogicità della motivazione. Nella specie, la documentazione richiesta dal consigliere comunale C. esulava dalle materie di competenza del consiglio comunale, trattandosi di materia edilizia (D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 42 (T.U. Enti Locali)). L'art. 48, comma 4, del Regolamento del consiglio comunale e della Commissioni consiliari di (OMISSIS) prevede che il diritto di accesso a notizie e informazioni utili per l'espletamento del mandato riguarda solo le materie di competenza consiliare, mentre l'art. 21 prevede che il responsabile del procedimento debba negare l'informazione qualora la richiesta sia presentata per scopi diversi da quelli attinenti al mandato:
C., peraltro, non aveva detto quali fossero le finalità per le quali intendeva esplicare il suo diritto di accesso. Ciò aveva specifici riflessi in ordine alla mancanza del dolo del reato contestato.
In data 13.03.2009 ha depositato memoria il difensore della parte civile ai sensi dell'art. 611 c.p.p.. Contesta il fondamento di tutti i motivi, osservando, sul primo, che le norme che disciplinano il rito ordinario e in particolare le norme sulla obbligatorietà della presenza del difensore non sono estensibili al rito camerale con cui proceda la Corte d'appello (Cita Cass., sez. u., 26.06.2006 n. 3146 e Corte cost. del 1998, n. 373). Peraltro, il certificato medico non attestava l'assoluta impossibilità a comparire e impediva ogni valutazione sulla ricorrenza dell'impedimento. Sul secondo motivo di ricorso, replica nel senso che è infondata la doglianza sulla pronuncia della condanna al risarcimento dei danni e sulla liquidazione del danno da parte della Corte d'appello, non potendosi negare il relativo potere del giudice del gravame che decide sulla responsabilità penale ai soli effetti civili (cita Cass., 09.07.2007 n. 36079 e Cass., 27.10.2006 n. 38948). Infine, con riferimento al terzo motivo di ricorso, osserva che, come correttamente ritenuto dalla Corte di merito, la norma del regolamento del Comune di (OMISSIS) (art. 42, citato dal ricorrente) riproduce esattamente il D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 43.
Entrambi le norme tutelano i diritti dei consiglieri comunali di ottenere qualsiasi atto o qualsiasi informazione utile all'espletamento del loro mandato in generale (quindi anche il potere di interpellanza, mozione e di ogni altro atto di sindacato); onde neppure è necessario che il consigliere comunale specifichi le ragioni della sua richiesta. Si tratta di concetti più volte ribaditi dalla giurisprudenza amministrativa (cita Cons. Stato, sez. 5, 21.02.1994, n. 119).
Motivi della decisione
Il ricorso non merita accoglimento.
...
Infine, neppure il terzo motivo merita accoglimento.
Va premesso che i precedenti di questa Corte citati dalla difesa del ricorrente, i quali sarebbero favorevoli al G., o sono del tutto estranei all'oggetto del presente giudizio, oppure non sono condivisibili per non affrontare il problema nei sui corretti termini. Infatti, mentre la sentenza Cass., sez. 6, n. 18033 dep. 04.05.2001, Gremmo riguarda una fattispecie di richiesta di atti da parte di un consigliere comunale a organismo del tutto estraneo al comune, la pronuncia Cass., sez. 6, n. 21735 - dep. 29.05.2008, Vitellaro riguarda una richiesta di accesso di un privato fatta a uffici comunali. La sentenza Cass., sez. 6, n. 43492, - dep. il 13.11.2003, Biondi riguarda, sì, una richiesta di un consigliere comunale di copia di alcune delibere, ma rivolta al vicesindaco; quest'ultima decisione, peraltro, come emerge dalla motivazione, non si confronta minimamente con la normativa speciale che riguarda i consiglieri comunali, omettendo di prenderla in considerazione.
Ciò premesso, osserva la Corte che indubbiamente, il D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 42 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), recante la rubrica "Attribuzioni dei consigli", dopo avere stabilito che il consiglio è l'organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, elenca gli atti che rientrano nelle competenze deliberative dei consigli comunali. Tra essi certamente non rientrano gli atti concernenti l'attività edilizia. Il successivo art. 43 ("Diritti dei consiglieri") riconosce ai consiglieri comunali il diritto di accesso e, nel ricalcare in modo pedissequo la L. 12.06.1990, n. 142, art. 31, che già riproduceva, con diversa formulazione, i contenuti della L. 27.12.1985, n. 816, art. 24 (norme entrambe rimaste abrogate dalla entrata in vigore del T.U.E.L.) prevede, nel quadro del più ampio diritto di accesso di cui all'art. 10 del testo unico, assicurato a ogni cittadino, il cosiddetto diritto di accesso conoscitivo dei consiglieri comunali, i quali "...hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato" anche se "sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge". E la dottrina individua i soggetti chiamati a collaborare con i consiglieri comunali nei funzionari del comune e, prima di ogni altro, nel Segretario comunale.
Sarebbe del tutto riduttivo ed errato ritenere, come ritiene il ricorrente, che il diritto di accesso del consigliere comunale, e quindi il suo diritto di ottenere qualsiasi notizia o informazione, sia limitato alle materie cui si riferiscono gli atti previsti dal citato art. 42, cioè alle materie sulle quali il consiglio ha un potere deliberativo. Quest'ultima norma va, infatti, letta parallelamente all'art. 43 dello stesso testo unico, secondo cui "I consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di iniziativa su ogni questione sottoposta alla deliberazione del consiglio. Hanno inoltre il diritto di chiedere la convocazione del consiglio secondo le modalità dettate dall'art. 39, comma 2, e di presentare interrogazioni e mozioni". E il sindaco o gli assessori da lui delegati devono rispondere, entro 30 giorni, alle interrogazioni e ad ogni altra istanza di sindacato ispettivo presentata dai consiglieri (art. 43, comma 3).
I cosiddetti diritti di sindacato ispettivo, di stimolo e di controllo, sull'attività degli organi comunali garantiti da quest'ultima norma, danno conto dell'ampio spettro di tale diritto dei consiglieri comunali, funzionale, dunque, non solo a ottenere qualsiasi notizia o informazione ai fini del consapevole esercizio dei poteri e diritti relativi alle materie previste dall'art. 42, ma anche alla informazione necessaria per l'esercizio dei poteri e diritti rientranti nel sindacato ispettivo degli organi comunali (Cons. Stato, sez. 5, 21.02.1994, n. 119): poteri e diritti che configurano, dal lato passivo, un vero e proprio dovere di supporto dei consiglieri comunali nella esecuzione del proprio mandato, da parte dei funzionari degli uffici dell'ente. L'ampiezza del diritto è, d'altra parte confermata dalla giurisprudenza amministrativa la quale ha ritenuto che nessuna norma prevede che l'istanza di accesso -che si estendevi rilascio di copia dei documenti richiesti secondo le procedure d'accesso ex L. 07.08.1990, n. 241- debba contenere le ragioni della singola richiesta, in quanto, in caso contrario si giungerebbe all'assurdo di permettere ai controllati di esercitare un controllo sulla attività dei controllanti (Cons. Stato, Sez. 5, 22.02.2000, n. 940; Cons. Stato, sez. 5, 07.05.1996, n. 528): esattamente ciò che intendeva fare l'imputato nel caso di specie.
E non v'è dubbio che la norma penale di cui all'art. 328 c.p., comma 2, si estenda alla tutela del diritto di informazione e di accesso del consigliere comunale previsti dalle disposizioni di cui si è fatto cenno, al pari della tutela spettante a qualsiasi cittadino introdotta nel codice penale con la riforma dei diritti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione (L. 26.04.1990, n. 86, art. 16) pressoché coeva alla emanazione della L. 07.08.1990, n. 241 contenente le nuove norme sul procedimento amministrativo e sul diritto di accesso ai documenti amministrativi.
Né l'imputato può sostenere che, nel caso, norme regolamentari del Comune di (OMISSIS) prevedono limitazioni del diritto di informazione del consigliere comunale alle materie di cui al D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 42, in quanto è noto a tutti che una norma sub primaria non può contenere previsioni difformi da quella primaria, che, nella specie, non poteva non trovare applicazione.
Considerazione quest'ultima che ha indotto la Corte d'appello a ritenere la sussistenza del dolo da parte del segretario comunale, che proprio per la sua qualità, e contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa anche nel ricorso per cassazione, ha inteso sostenere la buona fede del ricorrente basandola sulle norme regolamentari del Comune di (OMISSIS), in piena antitesi con quanto si è sinora detto.
Per tutte le considerazioni esposte il ricorso del G. deve essere rigettato. Consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al rimborso delle spese sostenute dalla parte civile C.O., liquidate, come da nota spese, in Euro 2.761,00.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al rimborso delle spese sostenute dalla parte civile C.O., liquidate, come da nota spese, in Euro 2.761,00 (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 20.05.2009 n. 21163).

COMPETENZE GESTIONALILa procura alle liti può essere conferita al difensore direttamente dal Sindaco, cui è attribuita la rappresentanza dell’Ente, senza previa autorizzazione della Giunta Municipale, spettando a quest’ultima solo una competenza residuale, per le materie non riservate al Sindaco dalla legge o dallo statuto del Comune interessato; quanto ai poteri del dirigente, disciplinati dall’art. 107 del citato Testo Unico, sembra corretto ritenere che tra essi non rientri in via generale –salvo esplicita previsione statutaria in tal senso– l’autorizzazione a stare in giudizio.
Il Collegio non condivide la tesi della difesa della ... s.p.a., secondo cui, a norma del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 (Testo Unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), non sarebbe “la Giunta comunale, bensì…il Dirigente del competente ufficio a dover autorizzare, con propria determina, il Sindaco a promuovere o a resistere ad una determinata lite, a pena della inammissibilità della costituzione in giudizio”.
A quest’ultimo riguardo, infatti, il Collegio stesso non ritiene di doversi discostare dal proprio precedente orientamento (Cons. St., sez. VI, 09.06.2006, n. 3452) –conforme sul punto ad autorevole indirizzo della Cassazione (Cass. SS.UU. nn. 186/2001 e 17750/2002)– secondo cui la procura alle liti può essere conferita al difensore direttamente dal Sindaco, cui è attribuita la rappresentanza dell’Ente, senza previa autorizzazione della Giunta Municipale, spettando a quest’ultima solo una competenza residuale, per le materie non riservate al Sindaco dalla legge o dallo statuto del Comune interessato; quanto ai poteri del dirigente, disciplinati dall’art. 107 del citato Testo Unico, sembra corretto ritenere che tra essi non rientri in via generale –salvo esplicita previsione statutaria in tal senso– l’autorizzazione a stare in giudizio (
Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 01.10.2008 n. 4744 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI: A prescindere dalla dubbia legittimità di una disposizione statutaria secondo cui si attribuisce ai dirigenti il potere di promuovere e resistere alle liti -considerato che, secondo un fermo orientamento della Corte di Cassazione, la rappresentanza in giudizio del comune è riservata, in via esclusiva, al Sindaco e non può essere esercitata dal dirigente titolare della direzione di un ufficio o di un servizio neppure se così preveda lo statuto comunale- il riconosciuto potere dei dirigenti di promuovere o resistere alle liti riguarda la loro legittimazione processuale e non già la rappresentanza dell’ente, che è l’elemento rilevante in materia di notifica degli atti.
---------------
Per quanto concerne l’eccezione di inammissibilità dell’appello, per essere stato proposto dal sindaco senza la previa delibera del competente dirigente comunale, si deve convenire che, al riguardo, non solo da questo Consiglio ma, in epoca più recente, anche dalla Corte di Cassazione è stato affermato che occorre la previa determinazione del dirigente in ordine alla opportunità di promuovere una lite o resistere in giudizio.
In particolare, la Corte di Cassazione ha chiarito che, nel vigore dell’ordinamento degli enti locali approvato con il d.lgs. 18.08.2000 n. 267, la norma dello statuto comunale che attribuisce al dirigente la funzione di gestione amministrativa deve ritenersi comprensiva dell’attribuzione al medesimo del potere di determinazione -in luogo della delibera autorizzativa della giunta municipale- in ordine alla opportunità di promuovere o resistere ad una lite, atteso che tale determinazione non appartiene all’attuazione dell’indirizzo politico-amministrativo generale del Comune (spettante al sindaco ed alla giunta), ma alla gestione amministrativa del singolo caso, ed assume il carattere di una proposta e di una valutazione di natura tecnica, la quale viene accolta discrezionalmente dal sindaco, quale capo dell’amministrazione ed esclusivo rappresentante dell’ente locale dinanzi agli organi giudiziari.

La notifica del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado è, infatti, avvenuta, come si è appena visto, al Comune di Roma presso il II Dipartimento Ufficio Contravvenzioni, nella persona del dirigente pro tempore, anziché al Comune di Roma -nella persona del sindaco, legale rappresentante dell’ente- presso la sua sede, e, pertanto, in difformità da quanto disposto dall’art. 145 c.p.c. per le notifiche alle persone giuridiche.
Né ha alcun fondamento la tesi dell’appellato, secondo la quale la notifica sarebbe rituale, perché il vigente (anche all’epoca in cui il ricorso è stato proposto) statuto comunale attribuisce ai dirigenti il potere di promuovere e resistere alle liti.
Invero, a prescindere dalla dubbia legittimità di una disposizione siffatta -considerato che, secondo un fermo orientamento della Corte di Cassazione, la rappresentanza in giudizio del comune è riservata, in via esclusiva, al Sindaco e non può essere esercitata dal dirigente titolare della direzione di un ufficio o di un servizio neppure se così preveda lo statuto comunale (cfr., tra le sentenze più recenti, Cass. civ., Sez. Trib., 07.06.2004 n. 10787)- il riconosciuto potere dei dirigenti di promuovere o resistere alle liti riguarda la loro legittimazione processuale e non già la rappresentanza dell’ente, che è l’elemento rilevante in materia di notifica degli atti.
Per quanto concerne, poi, l’eccezione di inammissibilità dell’appello, per essere stato proposto dal sindaco senza la previa delibera del competente dirigente comunale, si deve convenire che, al riguardo, non solo da questo Consiglio, con il precedente invocato a sostegno di detta argomentazione (Sez. IV, 05.07.1999 n. 1164), ma, in epoca più recente, anche dalla Corte di Cassazione (cfr. Cass. Civ., Sez. Trib., 17.12.2003 n. 19380) è stato affermato che occorre la previa determinazione del dirigente in ordine alla opportunità di promuovere una lite o resistere in giudizio.
In particolare, la Corte di Cassazione ha chiarito che, nel vigore dell’ordinamento degli enti locali approvato con il d.lgs. 18.08.2000 n. 267, la norma dello statuto comunale che attribuisce al dirigente la funzione di gestione amministrativa deve ritenersi comprensiva dell’attribuzione al medesimo del potere di determinazione -in luogo della delibera autorizzativa della giunta municipale- in ordine alla opportunità di promuovere o resistere ad una lite, atteso che tale determinazione non appartiene all’attuazione dell’indirizzo politico-amministrativo generale del Comune (spettante al sindaco ed alla giunta), ma alla gestione amministrativa del singolo caso, ed assume il carattere di una proposta e di una valutazione di natura tecnica, la quale viene accolta discrezionalmente dal sindaco, quale capo dell’amministrazione ed esclusivo rappresentante dell’ente locale dinanzi agli organi giudiziari (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 25.01.2005 n. 155 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI: Il ricorso per Cassazione deve essere considerato ammissibile. Esso è stato proposto dal Sindaco pro-tempore previa delibera del dirigente degli affari legali, organo tecnico preposto alla valutazione di proponibilità del ricorso stesso.
E’ noto che, a seguito dell’emanazione del d.lgs. n. 267/2000 e del d.lgs. n. 165/2001, sono state apportate innovazioni in materia di decentramento amministrativo e di poteri degli organi amministrativi locali. Mentre appartiene al Sindaco ed alla Giunta l’attuazione dell’indirizzo politico-amministrativo dell’ente, il dirigente è preposto all’attuazione dell’indirizzo amministrativo. Orbene, la valutazione di opportunità e di proponibilità della proposizione di un ricorso per Cassazione contro una decisione della Commissione tributaria regionale non appartiene all’indirizzo amministrativo generale del Comune, ma alla gestione del singolo caso.
Nella fattispecie, la determinazione del dirigente degli affari legali assume il carattere di una proposta e di una valutazione tecnica, la quale viene accolta discrezionalmente dal Sindaco, quale capo dell’Amministrazione e rappresentante pro-tempore dell’ente locale dinanzi agli organi giudiziari. Appare evidente che il regolamento generale delle entrate comunali, emanato nel 1999, è superato quanto alla necessità di delibera della Giunta per proporre ogni singolo ricorso.
La giurisprudenza di questa Corte di Cassazione considera tuttora il Sindaco come legale rappresentante pro-tempore del Comune per quanto attiene alla capacità di stare in giudizio, previa delibera della Giunta, mentre il dirigente amministrativo degli affari legali è configurabile quale organo tecnico deputato a proporre ogni iniziativa giudiziaria, apparendo incongruo che detto dirigente “autorizzi” il Sindaco a stare in giudizio.
---------------
DIRITTO

Deve essere preliminarmente presa in esame l’eccezione di inammissibilità del ricorso, proposta per la prima volta dalla difesa del C.Z.A.I. di Verona con la discussione orale e relative “note di udienza”. Il Consorzio resistente deduce che la delibera intesa alla proposizione del ricorso per Cassazione doveva essere assunta dalla Giunta Comunale e non per determinazione del dirigente del settore affari legali del Comune.
6. L’eccezione è infondata e il ricorso per Cassazione deve essere considerato ammissibile. Esso è stato proposto dal Sindaco pro-tempore previa delibera del dirigente degli affari legali, organo tecnico preposto alla valutazione di proponibilità del ricorso stesso. E’ noto che, a seguito dell’emanazione del d.lgs. n. 267/2000 e del d.lgs. n. 165/2001, sono state apportate innovazioni in materia di decentramento amministrativo e di poteri degli organi amministrativi locali. Mentre appartiene al Sindaco ed alla Giunta l’attuazione dell’indirizzo politico-amministrativo dell’ente, il dirigente è preposto all’attuazione dell’indirizzo amministrativo. Orbene, la valutazione di opportunità e di proponibilità della proposizione di un ricorso per Cassazione contro una decisione della Commissione tributaria regionale non appartiene all’indirizzo amministrativo generale del Comune, ma alla gestione del singolo caso.
Orbene, in questo caso la determinazione del dirigente degli affari legali assume il carattere di una proposta e di una valutazione tecnica, la quale viene accolta discrezionalmente dal Sindaco, quale capo dell’Amministrazione e rappresentante pro-tempore dell’ente locale dinanzi agli organi giudiziari. Appare evidente che il regolamento generale delle entrate comunali, emanato nel 1999, è superato quanto alla necessità di delibera della Giunta per proporre ogni singolo ricorso.
7. La giurisprudenza di questa Corte di Cassazione considera tuttora il Sindaco come legale rappresentante pro-tempore del Comune per quanto attiene alla capacità di stare in giudizio, previa delibera della Giunta, mentre il dirigente amministrativo degli affari legali è configurabile quale organo tecnico deputato a proporre ogni iniziativa giudiziaria, apparendo incongruo che detto dirigente “autorizzi” il Sindaco a stare in giudizio.
8. Per vero, Cass. 11.05.2001, n. 6546, cui la difesa del C.Z.A.I. di Verona ha fatto riferimento, mentre afferma il principio che solo il Sindaco può stare in giudizio ed è necessaria la delibera della Giunta, fa carico al Comune di produrre lo Statuto, “alla cui sola stregua si sarebbe potuta ipotizzare la potestà autorizzatoria”, lasciando intendere come sulla base dello statuto comunale o dei relativi regolamenti sia possibile conferire al dirigente il potere di proporre se stare in giudizio nelle liti passive.
Cassazione 05.04.2002, n. 4845 ritiene che la rappresentanza del Comune spetta in via primaria al Sindaco, ma i dirigenti di Uffici generali possono essere incaricati di promuovere le liti e resistervi, mediante trasposizione nello statuto comunale o in un regolamento della norma secondo la quale i dirigenti stanno in giudizio per il Comune.
9. Ed è quanto operato dal Comune di Verona, il quale col proprio statuto -art. 80, comma 4- ha attribuito alla dirigenza la funzione di gestione amministrativa, nella quale deve essere ricompresa anche la delibera-proposta al Sindaco di resistere ad un ricorso in materia tributaria.
Vale la pena di puntualizzare che, nel caso di specie, sta in giudizio dinanzi alla Corte di Cassazione il Sindaco e che la questione si pone unicamente in ordine all’atto presupposto, vale a dire alla delibera preliminare alla proposizione del ricorso per Cassazione, laddove nei casi sopra ricordati si poneva (anche) la questione se il Comune potesse essere rappresentato in giudizio dal dirigente.
10. Non risultano utilizzabili nel caso di specie i precedenti di questa Corte 10.02.2003, n. 1949 e 26.02.2003, n. 2878, nei quali la sez. III ha ritenuto che la legittimazione a rappresentare il Comune in giudizio spetti al Sindaco, al vice-sindaco in caso di suo impedimento e al Segretario generale in caso di delega del Sindaco o di attribuzione per statuto o regolamento: infatti non si discute della rappresentanza in giudizio del Comune da parte del Sindaco (che in questo caso è costituito in giudizio quale legale rappresentante pro-tempore dell’ente) ma della delibera preliminare.
Lo stesso è a dirsi per la sentenza n. 2878/2003, la quale si occupa della legittimazione a stare in giudizio -per negarla in capo al dirigente- ma non della delibera preliminare. Può quindi passarsi all’esame del merito. ... (Corte di Cassazione, Sez. civile, sentenza 17.12.2003 n. 19380).

AGGIORNAMENTO AL 19.03.2012

ã

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATASull'accertamento della compatibilità paesaggistica senza il parere obbligatorio e vincolante della Soprintendenza (Regione Lombardia, D.G. Sistemi Verdi e Paesaggio, Coordinamento Giuridico e Amministrativo, parere 16.03.2012).
---------------
Anche la Regione Lombardia conferma, in risposta ad un quesito formulato da un comune del varesotto, quanto statuito dal TAR Lombardia-Brescia, di cui ne davamo notizia con l'aggiornamento dello scorso 02.02.2012.
Ora, staremo a vedere se alcuni funzionari della Soprintendenza saranno ancora "duri di comprendonio" nel non rilasciare il richiesto parere obbligatorio e vincolante !!
19.03.2012 - LA SEGRETERIA PTPL

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: L. Spallino, Piano Casa Regione Lombardia: genesi e quadro generale edizione 2012 (link a www.studiospallino.it).

EDILIZIA PRIVATA: L. Spallino, Piano Casa Regione Lombardia 2012: timeline (link a www.studiospallino.it).

ESPROPRIAZIONE: R. G. Vaccari, L’espropriazione indiretta (link a http://venetoius.myblog.it).

PUBBLICO IMPIEGO: S. Liali, Novità su congedi, aspettative e permessi (link a www.ipsoa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: L. Oliveri, La configurazione delle consulenze e delle prestazioni d'opera ai fini dell'applicazione del codice dei contratti - le procedure comparative per gli incarichi di collaborazione (dicembre 2006 - link a www.lexitalia.it).

CORTE DEI CONTI

SEGRETARI COMUNALI: Agenzia segretari, tutto un bluff. Soppressione solo sulla carta. In due anni spesi 2 milioni. Corte dei conti sugli enti cancellati dal dl 78/2010. Non c'è volontà di eliminare l'Ages.
A distanza di quasi due anni, l'iter di soppressione dell'Agenzia per la gestione dell'albo dei segretari comunali e provinciali (Ages) incontra notevoli risvolti critici sia sotto il profilo dell'economicità che dell'efficienza. Anzi, la scarsa attenzione dedicata al problema dall'amministrazione subentrante, ovvero il ministero dell'interno, nonché il lungo perpetrarsi di modalità ancora provvisorie, induce a dubitare che si voglia portare a compimento il processo di soppressione statuito dal decreto legge n. 78/2010.
Nel frattempo, tra spese di personale e quelle relative a servizi vari, l'ex Ages ha sostenuto costi per poco più di 2 milioni di euro.
È il j'accuse che la sezione centrale di controllo sugli enti della Corte dei Conti, Sez. centrale di controllo, ha messo nero su bianco nel testo della deliberazione 08.03.2012 n. 1, avente per oggetto la verifica sullo stato di attuazione del processo di soppressione e incorporazione di enti e organismi pubblici previsto dall'articolo 7 della manovra varata nel maggio 2010. Un processo che oltre a coinvolgere l'Ages comprende, tra gli altri, l'ente teatrale italiano, l'Istituto per la promozione industriale e l'Istituto di studi e analisi economica.
Con riferimento all'Ages, la Corte ha sottolineato che, in tempi brevi, il Viminale, con decreto del 31.07.2010, ha istituito un'unità di missione con il compito di svolgere le attività gestionali per sei mesi. Ma, di proroga in proroga, tale unità sarà attiva sino al prossimo 30 giugno. Tralasciando le vicissitudini riportate, che hanno comunque condotto al mancato varo del rendiconto, per effetto della mancanza dell'organo di revisione, la Corte sottolinea che, a oggi, «è ancora in via di definizione il dm interno che contenga le date di effettivo esercizio delle funzioni trasferite e l'individuazione delle risorse umane, strumentali e finanziare».
La Corte ha anche messo nero su bianco i costi dell'Ages, nonostante la disposta soppressione. Interessanti le voci relative ai servizi. Da un lato i servizi legati al funzionamento degli uffici dell'ex Agenzia, quali, tra gli altri, l'elaborazione e stampa degli stipendi, la cui spesa sostenuta dall'01/08/2010 al 31/12/2011 è stimata in oltre 90 mila euro e la tenuta della contabilità economico patrimoniale che viene stimata in oltre 174 mila euro. Sommando altre voci, la spesa sostenuta dopo la soppressione ammonta a 292 mila euro oltre Iva. Vi è però un secondo gruppo messo a fuoco dalla Corte, ovvero quello delle spese strutturali.
Tra queste, i servizi informativi, la cui spesa per il periodo 01/08/2010-31/12/2011 è stimata in poco più di 510 mila euro, una voce di spesa «Global service agenzia in Roma» stimata in circa 500 mila euro più Iva, la fornitura di buoni pasto, costata 304 mila euro, servizi assicurativi per 227 mila euro, servizi esterni per l'informatica della sede centrale (52 mila euro), servizi legati all'espletamento dell'ultimo concorso dei segretari comunali e provinciali, pari a 186 mila euro. Aggiungendo altre voci, la Corte mette nero su bianco che tali servizi, detti strutturali, ammontano a 1,7 milioni di euro.
In definitiva, per la Corte, il processo di soppressione dell'Ages, ancora oggi non definito, sembra celare difficoltà nell'adozione di decisioni definitive legate alle sorti dell'ente, ma non si può non vedere che, di fatto, si sono prodotte situazioni e circostanze che mostrano gravi criticità per i profili dell'economicità e dell'efficienza. Una gestione transitoria che per sua natura si deve risolvere in tempi brevi, gestisce l'ordinarietà da quasi due anni in quanto sono assenti gli strumenti, giuridici e finanziari, per porre fine alla vicenda (articolo ItaliaOggi del 16.03.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICI: Niente scappatoie sul Patto. Opere urgenti? Risorse da risparmi o tasse.
Gli enti locali hanno l'obbligo di rispettare i limiti alla capacità di indebitamento imposti, da ultimo, dall'articolo 8 della legge di stabilità 2012, in quanto principi di coordinamento della finanza pubblica. Ne consegue che, anche in presenza di opere pubbliche il cui avvio è di somma urgenza, l'ente ha l'onere di reperire le necessarie risorse attraverso la contrazione di altre voci di spesa o aumentando il livello delle entrate.
È quanto ha messo nero su bianco la sezione regionale di controllo della Corte dei Conti per la Lombardia, nel testo del parere 06.03.2012 n. 56, con cui sono stati forniti, per la prima volta, i necessari chiarimenti alla disposizione contenuta nell'articolo 8 della legge n. 183/2011.
Nel merito, il comune di Tremenico, evidenziava la possibilità di avviare con urgenza di un'opera pubblica volta a eliminare pericoli per l'incolumità e la sicurezza urbana, assumendo un nuovo mutuo, conciliandole con le limitazioni all'indebitamento imposte dalla citata legge di stabilità. Come si ricorderà, la norma precisa che l'ente locale può assumere nuovi mutui e accedere ad altre forme di finanziamento solo se l'importo annuale degli interessi, sommato a quello dei mutui precedentemente contratti, ai prestiti obbligazionari emesse e alle aperture di credito stipulate, non superi il 12% nel 2011, l'8% nel 2012, il 6% nel 2013 e il 4% nel 2014, riferito alle entrate relative ai primi tre titoli delle entrate del rendiconto del penultimo anno precedente quello in cui viene prevista l'assunzione dei mutui.
La Corte ha, pertanto, rilevato che tali disposizioni in materia di debito pubblico degli enti locali costituiscono principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, sottolineando che la natura delle disposizioni sopra richiamate riguarda non solo il rispetto del limite della capacità di indebitamento ma anche l'andamento decrescente tra il peso dei mutui (o delle altre obbligazioni) e le entrate poste nei bilanci degli enti locali. Ne consegue che l'ente ha il dovere di rispettare la normativa che disciplina l'indebitamento e, in presenza di opere urgenti, ha l'onere di reperire ulteriori risorse proprie ovvero procedere a economie di spesa.
L'inderogabilità della norma, infatti, proiettandosi sui bilanci futuri dell'ente, comporta che, anche nell'ipotesi di assoluta necessità di realizzare un'opera pubblica, l'ente locale deve, in primo luogo, cercare di individuare altre modalità di finanziamento della spesa, contraendo altre voci di spesa oppure aumentando il livello delle entrate, nei limiti della normativa vigente. Ma queste sono scelte rimesse alla esclusiva valutazione e competenza dell'ente (articolo ItaliaOggi del 16.03.2012 - tratto da www.corteconti.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Presupposti indispensabili per considerare lecito il ricorso agli incarichi esterni sono: 1) che si tratti di esigenze alle quali non si può far fronte con personale in servizio; 2) che l’incarico venga conferito ad un esperto di particolare e comprovata competenza; 3) che vengano preventivamente determinati la durata, il luogo, l’oggetto ed il compenso della collaborazione.
... Per quanto riguarda il conferimento dell’incarico, l’articolo 7, comma 6, del decreto legislativo 165/2001, nel testo vigente all’epoca dei fatti, stabiliva che “per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, le amministrazioni pubbliche possono conferire incarichi individuali ad esperti di provata competenza, determinando preventivamente durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione”.
Pertanto, presupposti indispensabili per considerare lecito il ricorso agli incarichi esterni sono:
1) che si tratti di esigenze alle quali non si può far fronte con personale in servizio;
2) che l’incarico venga conferito ad un esperto di particolare e comprovata competenza;
3) che vengano preventivamente determinati la durata, il luogo, l’oggetto ed il compenso della collaborazione (Corte di Conti, Sez. II giurisdiz. centrale d'appello, sentenza 29.07.2008 n. 256 - link a www.corteconti.it).

NEWS

ENTI LOCALIRevisori degli enti locali, ultimi giorni per le istanze.
Professionisti. Decreto atteso per martedì in «Gazzetta».
LA SCADENZA/ Chi non ha mai svolto la funzione in precedenza deve presentare domanda entro l'entrata in vigore del nuovo regolamento.

Ancora pochi giorni di tempo per i professionisti che vogliono debuttare nel ruolo di revisori dei conti degli enti locali e devono presentare la richiesta di essere inseriti negli elenchi regionali previsti dalla riforma.
Il decreto attuativo del ministero dell'Interno, firmato il 15 febbraio scorso, è ormai arrivato all'ultimo miglio del proprio iter e dovrebbe approdare in «Gazzetta Ufficiale» a breve, probabilmente martedì prossimo. Il provvedimento del Viminale, all'articolo 4, prevede che i revisori al debutto debbano presentare la richiesta di iscrizione «entro la data di entrata in vigore» dello stesso decreto attuativo: anche per questo nelle settimane scorse il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili ha esortato gli interessati a presentare domanda in un Comune (a prescindere dal fatto che nell'ente locale fosse o meno in scadenza il revisore o il collegio attuale). «Naturalmente –spiega Giosuè Boldrini, consigliere delegato agli Enti pubblici nel Cndcec– si tratta di un meccanismo irrazionale, ma l'esigenza principale è ora quella di evitare che una serie di professionisti interessati siano tagliati fuori per le incertezze applicative».
Incertezze che proprio non mancano, come mostra anche il comunicato diffuso ieri dal Viminale, in cui si spiega che il ministero provvederà a «diramare istruzioni di dettaglio» sui passaggi applicativi della riforma che ha cambiato le procedure di nomina, appena il decreto attuativo «in corso di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale» terminerà il proprio iter. Prima non si può.
La nebbia da diradare è fitta, dopo l'incrocio sfortunato tra il decreto attuativo della riforma (scritta all'articolo 16, comma 25 della manovra-bis di Ferragosto; Dl 138/2011) e la norma del Milleproroghe che negli stessi giorni in cui veniva firmato il provvedimento ha rimandato di nove mesi, cioè a fine settembre 2012, il debutto della stessa riforma (articolo 29, comma 11-bis, del Dl 216/2011).
I nodi da sciogliere non sono pochi. La riforma toglie al consiglio comunale il proprio ruolo nella nomina dei revisori, per sottrarre la scelta dei controllori dalla volontà dei controllati, e affida il tutto a un'estrazione da elenchi regionali tenuti dalle Prefetture.
Per essere inseriti negli elenchi occorre fare una richiesta, dopo di che sarà il possesso dei diversi requisiti (in termini di curriculum e di anzianità di iscrizione al registro dei revisori contabili o all'ordine dei dottori commercialisti ed esperti contabili) a indirizzare l'aspirante revisore a una delle tre fasce demografiche previste dalla riforma: la prima è dedicata agli enti fino a 4.999 abitanti (ed è l'unica opzione per chi si trova alla prima esperienza di revisione in un Comune o in una Provincia), la seconda è rivolta agli enti fra 5 e 14.999 abitanti (servono almeno 5 anni di iscrizione, un mandato pieno già svolto da revisore e 10 crediti formativi sul tema accumulati fra gennaio e novembre dell'anno precedente; in prima applicazione i crediti richiesti sono 15 nell'ultimo triennio) e la terza, riservata a chi ha almeno 10 anni di iscrizione e due esperienze da revisore locale (oltre ai crediti), permette di operare in tutti gli enti locali.
Oltre alla pubblicazione del provvedimento, c'è poi da mettere in piedi l'architettura informatica che guiderà istanze ed estrazioni. Anche su questo aspetto, oltre che sulle precise tappe applicative del nuovo sistema, arriveranno nelle prossime settimane i chiarimenti del Viminale.
---------------
Il quadro.
01|LA RIFORMA
L'articolo 16, comma 25, del Dl 138/2011 cambia il sistema di nomina dei revisori dei conti in Comuni e Province. La scelta è sottratta ai consigli comunali e provinciali, e affidata all'estrazione da elenchi regionali, suddivisi in tre fasce: la prima fascia, che consente di svolgere la funzione negli enti fino a 4.999 abitanti, è riservata ai revisori al debutto
02|L'ISTANZA
Chi non ha in curriculum precedenti mandati da revisore dei conti, deve presentare una «richiesta di svolgere la funzione» entro la data in vigore del decreto attuativo
03|L'ATTUAZIONE
Il decreto sarà pubblicato in «Gazzetta Ufficiale» nei prossimi giorni, probabilmente martedì; per questa ragione il Cndcec ha invitato tutti gli interessati a presentare richiesta in un Comune, a prescindere dal fatto che lì il mandato sia in scadenza (articolo Il Sole 24 Ore del 17.03.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Testamento politico in naftalina. Slitta la relazione di fine mandato per i sindaci ricandidati. Il ministro dell'interno congela il regolamento atteso dalla Conferenza stato-città.
La relazione di fine mandato può attendere. I sindaci in scadenza che si ricandideranno alle elezioni amministrative del 6 e 7 maggio saranno dunque esonerati dall'obbligo di informare i cittadini su cosa hanno fatto e come hanno speso i soldi pubblici.
L'obbligo di redigere (e di rendere pubblico sul sito internet del comune) quello che da più parti è stato definito come una sorta di «testamento politico» del primo cittadino costituisce uno dei fiori all'occhiello dell'ultimo decreto legislativo attuativo del federalismo fiscale, il dlgs n. 149/2011, che è anche uno degli ultimi provvedimenti approvati dal governo Berlusconi.
La relazione di fine mandato avrebbe dovuto debuttare dalle prossime elezioni di maggio se il governo presieduto da Mario Monti avesse deciso di rispettare il timing previsto nello stesso dlgs.
Entro 90 giorni dall'entrata in vigore del dlgs (05.10.2011), e dunque entro il 05.01.2012, il ministero dell'interno, d'intesa col Mef, avrebbe dovuto approvare, previo accordo in Conferenza stato-città, lo schema tipo per la redazione del testamento politico dei sindaci, nonché uno schema semplificato per i comuni con meno di 5.000 abitanti.
Fatto sta che i tecnici del dicastero guidato da Anna Maria Cancellieri si sono subito messi al lavoro per predisporre una bozza di provvedimento da portare in Stato-città in tempo utile per le prossime amministrative.
Ma con sorpresa nell'ultima riunione della Conferenza (quella del 1° marzo in cui tra l'altro è stato raggiunto l'accordo sulla ripartizione del fondo di riequilibrio dei comuni e delle province) dello schema di relazione di fine mandato non c'è stata traccia. Il testo, atteso per l'esame, è stato alla fine cancellato dall'ordine del giorno, tutto dedicato invece alla finanza locale.
Il decreto è stato però esaminato lo stesso «fuori sacco» su richiesta degli stessi enti locali (evidentemente preoccupati per l'entrata in vigore dell'obbligo di trasparenza) e la Cancellieri è stata chiara: slitta tutto. «E' bene soprassedere», ha detto il ministro, «per quest'anno si deroga in attesa che il Viminale definisca gli ultimi dettagli dello schema tipo». Un vero e proprio time-out, quello chiesto dal ministro, che renderà però impossibile l'applicazione delle nuove regole sin dalle prossime elezioni amministrative nelle quali sarà coinvolto un campione significativo di comuni (1017 comuni, in pratica uno su otto).
Ma cosa c'è (o meglio ci sarebbe dovuto essere) nella relazione di fine mandato di così «compromettente»? Nulla per un sindaco che non abbia niente da nascondere. Il decreto attuativo del federalismo chiede di far luce su:
- sistema ed esiti dei controlli interni;
- eventuali rilievi della Corte dei conti;
- azioni intraprese per il rispetto dei saldi di finanza pubblica programmati e stato del percorso di convergenza verso i fabbisogni standard;
- situazione finanziaria e patrimoniale del comune e delle società controllate;
- quantificazione dell'indebitamento.
Il dlgs n. 149/2011 impone la sottoscrizione della relazione non oltre il novantesimo giorno antecedente la data di scadenza del mandato. Entro e non oltre dieci giorni successivi alla sottoscrizione il documento deve essere certificato dall'organo di revisione del comune.
Il sindaco inadempiente, prosegue il decreto, deve spiegare le ragioni della mancata compilazione dandone notizia sul sito istituzionale del comune. Una gogna mediatica da cui per quest'anno i sindaci saranno al riparo.
Fondo di riequilibrio e Imu. Intanto a tenere banco nella dialettica governo-comuni c'è il problema della ripartizione del fondo di riequilibrio (che quest'anno ammonta a 6,8 miliardi, si veda ItaliaOggi del 02/03/2012).
I conti infatti sembrano non tornare per molti comuni e a far saltare il banco per i sindaci è l'incerta quantificazione del gettito Imu che nelle attese di Monti dovrebbe compensare i tagli al fondo. Tuttavia, le prime cifre circolate sulla ripartizione delle spettanze sono largamente inferiori alle attese dei singoli enti (il che per il momento ne impedisce la pubblicazione sul portale dell'Ifel) nonostante sulla quantificazione del fondo l'Anci abbia espresso parere favorevole nella Stato-città del 1° marzo.
Il presidente dell'Anci, Graziano Delrio, ha chiesto alla Conferenza «l'urgente convocazione del tavolo tecnico sulla finanza locale» per verificare «il percorso di attuazione del decreto salva Italia ed i suoi riflessi sulla predisposizione del bilancio di previsione per il 2012». Una richiesta di incontro è stata anche inviata ai relatori del dl fiscale, Antonio Azzolini e Mario Baldassarri (articolo ItaliaOggi del 16.03.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI SERVIZI: Liberalizzazioni cum grano salis. Vanno verificati gli standard di qualità e l'offerta sostitutiva. Le novità del regolamento degli Affari regionali sull'apertura al mercato dei servizi pubblici locali.
La possibilità di liberalizzare i servizi pubblici locali di rilevanza economica sarà verificata con riguardo alle esigenze delle comunità locali, all'offerta di servizi sostitutivi, agli standard minimi di qualità e sarà conseguente a una consultazione pubblica aperta agli operatori del settore interessati alla gestione del servizio; soltanto dopo aver effettuato la verifica l'ente potrà decidere se sia opportuno mantenere sistemi di esclusiva.
Sono questi alcuni dei profili di maggiore rilievo dello schema di regolamento, di iniziativa del ministro per gli affari regionali, di concerto con quello dell'economia e dell'interno, sulla verifica della concorrenzialità nell'ambito delle gestioni dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. Il provvedimento, ancora non definitivo e in attesa di iniziare l'iter dei pareri, attua il contenuto dell'articolo 4 del decreto legge 13.08.2011, n. 138, che impone ai comuni di liberalizzare tutte le attività economiche, compatibilmente con le caratteristiche di universalità e accessibilità del servizio e limitando, negli altri casi, l'attribuzione di diritti di esclusiva alle ipotesi in cui, in base ad una analisi di mercato, la libera iniziativa economica privata non risulti idonea a garantire un servizio rispondente ai bisogni della comunità.
Il regolamento, che si applicherà a tutti gli enti territoriali anche associati o consorziati, disciplina quindi i criteri per la verifica di mercato e per l'adozione della relativa delibera quadro, oltre alle modalità di pubblicità dei dati relativi alla gestione dei servizi. Si prevede in particolare che la verifica, da concretizzare in una relazione istruttoria, debba in primo luogo prendere in considerazione le attuali modalità di gestione del servizio pubblico, facendo quindi una fotografia della situazione presente sul mercato e mettendo in risalto eventuali compensazioni economiche riconosciute ai gestori del servizio.
La verifica dovrà poi prendere in considerazione una pluralità di elementi fra i quali l'articolazione operativa del servizio e le eventuali distinte fase di gestione separata e, dall'altro lato, l'eventuale offerta di servizi sostitutivi; le esigenze della comunità locale facendo riferimento alle caratteristiche sociali, demografiche, economiche, ambientali del territorio sul quale insiste la gestione. Altri profili da prendere in esame sono quelli concernenti gli obblighi di servizio pubblico, gli standard minimi delle prestazioni, il valore economico stimato del servizio pubblico locale, gli eventuali investimenti da programmare, anche per opere infrastrutturali, con i relativi tempi di attuazione.
La verifica dovrà essere effettuata attraverso una procedura di consultazione del mercato, adeguatamente pubblicizzata per raccogliere le manifestazioni di interesse degli operatori del settore di riferimento alla gestione in concorrenza del servizio, ovvero di sue singole fasi suscettibili di gestione separata. Nella verifica si dovrà evidenziare la sussistenza di situazioni di monopolio naturale, anche con riferimento alla gestione delle opere infrastrutturali e degli impianti fissi, nonché la possibilità di liberalizzare il servizio o singole fasi dello stesso, l'incidenza, sulla gestione degli standard minimi delle prestazioni e delle caratteristiche della domanda dell'utenza e di tariffe sostenibili per realizzare e mantenere la coesione sociale, al fine della verifica della redditività.
Si dovrà infine fare riferimento anche alle esperienze di altre aree geografiche. A queste caratteristiche generali il regolamento aggiunge alcune specifiche per il settore del trasporto pubblico e dei rifiuti. Una volta effettuata la verifica l'ente locale adotterà la delibera che, a sua volta, sarò trasmessa all'Antitrust per il parere da rendere entro 60 giorni in merito alle ragioni per un'eventuale attribuzione di diritti di esclusiva e alla correttezza della scelta eventuale di procedere all'affidamento simultaneo con gara di una pluralità di servizi pubblici locali. Ricevuto il parere la delibera quadro verrà adottata entro i trenta giorni successivi.
Il regolamento istituisce anche l'Osservatorio dei servizi pubblici locali, presso la Conferenza unificata, che dovrà assicurare, mediante un sistema di benchmarking, il progressivo miglioramento della qualità ed efficienza di gestione dei servizi (articolo ItaliaOggi del 16.03.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATASull'acquisizione d'ufficio del Durc repetita non iuvant.
Durc da acquisire d'ufficio. Dopo la conversione in legge del dl 5/2012 sulle semplificazioni, divengono ben quattro le disposizioni che ripetono la stessa previsione, ma non risolvono il problema creato dal ministero del lavoro sull'autocertificabilità del documento.
La legge di conversione del decreto semplificazioni ha introdotto nell'articolo 14 un nuovo comma 6-bis, ai sensi del quale «nell'ambito dei lavori pubblici e privati dell'edilizia, le amministrazioni pubbliche acquisiscono d'ufficio il documento unico di regolarità contributiva con le modalità di cui all'articolo 43 del decreto del presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445».
È un raro caso nel quale il legislatore si mostra molto incerto o della chiarezza o della efficacia delle proprie disposizioni. Infatti, norme in tutto e per tutto analoghe sono già vigenti. La prima disposizione a prevederlo è stato l'articolo 16-bis, comma 10, del dl 185/2008, convertito in legge 2/2009: «Le stazioni appaltanti pubbliche acquisiscono d'ufficio, anche attraverso strumenti informatici, il documento unico di regolarità contributiva (Durc) dagli istituti o dagli enti abilitati al rilascio in tutti i casi in cui è richiesto dalla legge». Poi, è intervenuto l'articolo 6, comma 3, del dpr 207/2010: «Le amministrazioni aggiudicatrici acquisiscono d'ufficio, anche attraverso strumenti informatici, il documento unico di regolarità contributiva in corso di validità». Da ultimo l'articolo 44-bis del dpr 445/2000, introdotto dall'articolo 15, comma 1, lettera d), della legge 183/2011: «Le informazioni relative alla regolarità contributiva sono acquisite d'ufficio».
Insomma, dovrebbe essere chiaro: il Durc non può essere chiesto alle imprese, ma le pubbliche amministrazioni debbono acquisirlo d'ufficio. In cosa l'articolo 14, comma 6-bis, della legge di conversione del decreto semplificazioni dovrebbe rappresentare una semplificazione, tuttavia, è difficile capire. La disposizione, infatti, non aiuta in alcun modo, come invece sarebbe stato opportuno, a superare i problemi posti dalla «decertificazione» operata con la citata legge 183/2011. Il Durc, infatti, è senza alcuna ombra di dubbi un certificato e, dunque, non potrebbe essere utilizzato dalle amministrazioni appaltatrici.
Il decreto semplificazioni non ha risolto questa situazione, esentando, ad esempio, espressamente il Durc dalla decertificazione. Il ministero del lavoro con nota 16.01.2012, n. 619, poi confermata da Inps e Inail, ha ritenuto che il Durc non sia nemmeno autocertificabile, in chiaro contrasto con quanto prevede, invece, l'articolo 38, comma 2, del dlgs 163/2006. Anche su questo la conversione del dl semplificazioni tace. L'ennesima ripetizione del dovere di acquisire d'ufficio il Durc sta già creando problemi interpretativi e operativi. Sono già state avanzate teorie secondo le quali, stando al tenore letterale dell'articolo 14, comma 6-bis, del dl semplificazioni la richiesta del Durc d'ufficio dovrebbe considerarsi obbligatoria solo per lavori pubblici ed attività edilizie, ad esclusione, allora, delle procedure di acquisizione di servizi e forniture.
Tale tesi non appare accoglibile, perché il dovere di acquisire d'ufficio il Durc è fissato da più norme, nessuna delle quali appare modificata o derogata dall'articolo 14, comma 6-bis e, per altro, detto dovere è conforme al principio generale dell'articolo 43 del dpr 445/2000 (articolo ItaliaOggi del 16.03.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: P.a., ai raggi X personale e spesa. Circolare Rgs con le indicazioni.
Definito il cronoprogramma relativo al monitoraggio sull'andamento annuale della consistenza del personale pubblico e sulla relativa spesa, nonché le modalità operative per la relazione allegata al conto annuale del 2011.

Lo ha messo nero su bianco la Ragioneria generale dello stato nella circolare 09.03.2012 n. 8, con la quale, d'intesa con la funzione pubblica, ha fornito le indicazioni operative in merito alle rilevazioni obbligatorie previste dal titolo V del testo unico sul pubblico impiego.
Monitoraggio
Per il corrente anno parteciperanno al monitoraggio, che comporta l'invio trimestrale dei dati mensili relativi all'andamento delle spese e dell'occupazione, un campione di 598 comuni, le province, le aziende sanitarie, quelle ospedaliere universitarie, nonché gli enti pubblici non economici con più di 200 unità di personale e gli enti di ricerca e sperimentazione. Rispetto allo scorso anno, il monitoraggio 2012 si caratterizza per la sostanziale riduzione del campione di enti locali che vi partecipano. Rispetto agli 840 enti del 2011, si passa al campione attuale di 598, sostituendo, in gran parte, molti enti locali con un numero di dipendenti inferiore alle duecento unità.
Per la trasmissione dei dati, gli enti interessati dovranno utilizzare l'apposito portale Sico (www.sico.tesoro.it), secondo un calendario prestabilito. In pratica, i dati afferenti al primo trimestre 2012 dovranno essere trasmessi entro il 30 aprile, i dati del secondo semestre entro il 31 luglio, quelli relativi al terzo trimestre entro il 31 ottobre e, infine, i dati dell'ultimo trimestre 2012 dovranno essere inviati entro il 31.01.2013.
Relazione conto annuale
Secondo la circolare firmata dal ragioniere generale Mario Canzio, per quanto riguarda gli enti locali (ovvero comuni, Unioni di comuni e province), l'invio dei dati da allegare al conto annuale del 2011 avverrà in una «sostanziale invarianza» di contenuto rispetto alla rilevazione operata per il 2010. Per i ministeri, le Agenzie fiscali e la presidenza del Consiglio, invece, le informazioni sulla localizzazione e sul tipo di struttura dell'unità organizzativa che rileva, saranno riportate nell'apposita maschera di rilevazione. Novità in arrivo, invece, per le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale. Queste amministrazioni, per la prima volta, trasmetteranno i dati direttamente nel predetto portale Sico.
Anche per la relazione in oggetto, la Ragioneria definisce un preciso crono-programma. In dettaglio, gli enti locali trasmetteranno i dati 2011, nell'arco temporale che va dal 15 marzo al 07.05.2012. Le aziende sanitarie saranno invece impegnate dal 1° giugno al 31 luglio e, infine, ministeri, agenzie fiscali e presidenza del consiglio procederanno alla rilevazione dal 2 luglio al 31 agosto. In nessun caso, si precisa nella circolare, le rilevazioni dovranno essere trasmesse in forma cartacea.
A tal fine, la stessa Ragioneria mette a disposizione degli enti interessati un servizio di help desk all'indirizzo di posta elettronica assistenza.pi@tesoro.it (per assistenza relativa monitoraggio) e relazione.sico@tesoro.it (per problematiche relative alla relazione) (articolo ItaliaOggi del 16.03.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Le determine su internet. Anche gli atti dirigenziali da pubblicare online. Il sito web istituzionale sostituisce l'affissione all'albo pretorio del comune.
Quali sono gli adempimenti che il comune deve espletare in ordine alla pubblicazione delle determinazioni dirigenziali sui siti informatici, a seguito dell'emanazione dell'art. 32 della legge 28.06.2009, n. 69, recante norme per l'eliminazione degli sprechi relativi al mantenimento di documenti in forma cartacea?
L'art. 32, comma 1, della legge 28.06.2009, n. 69 dispone che «gli obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti amministrativi aventi effetto di pubblicità legale si intendono assolti con la pubblicazione nei propri siti informatici da parte delle amministrazioni e degli enti pubblici obbligati», e il successivo comma 5 prevede che a decorrere dall'01.01.2011 le pubblicità effettuate in forma cartacea non hanno effetto di pubblicità legale.
La disciplina ha implicitamente modificato l'art. 124 del dlgs n. 267/2000 nella parte in cui dispone che la pubblicazione avvenga «mediante affissione all'albo pretorio nella sede dell'ente», sostituita dalla pubblicazione sul sito istituzionale dell'ente, fermo restando il termine di 15 giorni consecutivi salvo specifiche disposizioni di legge.
In merito il Consiglio di stato, con sentenza n. 1370 del 15.03.2006, ha stabilito che «la pubblicazione all'albo pretorio del comune è prescritta dall'art. 124, T.u. n. 267/2000 per tutte le deliberazioni del comune e della provincia ed essa riguarda non solo le deliberazioni degli organi di governo (consiglio e giunta municipali) ma anche le determinazioni dirigenziali».
Lo strumento informatico ha sostituito, dunque, il tradizionale albo pretorio, rimanendo inalterati, sotto la nuova forma, gli obblighi di pubblicazione.
L'ente nazionale per la digitalizzazione della pubblica amministrazione - Digit P.a., nelle due linee guida per i siti web della pubblica amministrazione ed in particolare nel «Vademecum sulle modalità di pubblicazione dei documenti nell'albo online», predisposto sulla base della direttiva n. 8 del 26.11.2009 del ministro per la pubblica amministrazione e l'innovazione, ha specificato che «per gli enti locali l'attività dell'albo consiste nella pubblicazione di tutti quegli atti sui quali viene apposto il referto di pubblicazione», includendo tra tali atti le deliberazioni ed altri provvedimenti comunali tra cui anche le determinazioni in argomento (articolo ItaliaOggi del 16.03.2012).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Nomina del capogruppo.
Come viene disciplinata la nomina di un capogruppo consiliare nel caso in cui, all'interno di un gruppo consiliare composto da due consiglieri, pur in presenza di regolare designazione del capogruppo consiliare con presa d'atto del Consiglio comunale, il secondo consigliere abbia rivendicato il proprio diritto alla designazione di capogruppo, avendo riportato il maggior numero di voti nella lista?

L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai capigruppo (in particolare, art. 38, comma 3 – art. 39, comma 4 e art. 125 del dlgs n. 267/2000). Pertanto, la materia dei gruppi consiliari è regolata primariamente dalle norme statutarie e regolamentari proprie di ogni singolo ente locale, per cui è alla stregua di tali norme che occorre valutare e risolvere le questioni ad essa afferenti.
Se, nel caso di specie, lo statuto comunale prevede che il capogruppo è «eletto dagli appartenenti al gruppo», rinviando al regolamento la disciplina della formazione, del funzionamento e delle attribuzioni dei gruppi consiliari e questo prevede che i singoli gruppi devono comunicare, per iscritto, al presidente ed al segretario comunale il nome del proprio capogruppo alla prima riunione del consiglio neo eletto; che con la stessa procedura dovranno segnalarsi le successive variazioni della persona del capogruppo; che in mancanza di tali comunicazioni viene considerato capogruppo ad ogni effetto il consigliere del gruppo che abbia riportato il maggior numero di voti nelle liste di appartenenza, appare evidente che le variazioni della persona del capogruppo debbano essere comunicate con nota sottoscritta «dai singoli gruppi», stante la necessità di seguire «la stessa procedura» utilizzata per la prima designazione.
L'automatica individuazione del capogruppo nel consigliere che abbia riportato il maggior numero di voti nelle liste di appartenenza è un criterio residuale che può essere utilizzato solo all'atto dell'insediamento del consiglio comunale e in mancanza di comunicazioni (articolo ItaliaOggi del 16.03.2012).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAL’attività della Pubblica Amministrazione, volta alla verifica del titolo di proprietà del soggetto richiedente un permesso di costruire o presentante una DIA (ai sensi degli articoli 11 e 23 del DPR 380/2001), non può spingersi al punto di imporre all’Amministrazione stessa minuziose analisi dei titoli civilistici o tanto meno la risoluzione di controversie fra privati proprietari.
L’attività della Pubblica Amministrazione, volta alla verifica del titolo di proprietà del soggetto richiedente un permesso di costruire o presentante una DIA (ai sensi degli articoli 11 e 23 del DPR 380/2001), non può spingersi al punto di imporre all’Amministrazione stessa minuziose analisi dei titoli civilistici o tanto meno la risoluzione di controversie fra privati proprietari (cfr., fra le tante, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 10.2.2012, n. 496) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 15.03.2012 n. 855 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIANelle more della classificazione del territorio comunale, ai sensi dell'art. 6, comma 1, lett. a), l. n. 447 del 1995, sono operativi i limiti c.d. "assoluti" di rumorosità ma non anche quelli c.d. "differenziali", in ragione dell'univoca formulazione dell'art. 8, comma 1, d.P.C.M. 14.11.1997, secondo cui, ove si fosse voluto far sopravvivere integralmente il regime transitorio di cui all'art. 6, d.P.C.M. 01.03.1991 (comma 1 relativo ai c.d. limiti "assoluti" e comma 2 relativo ai c.d. limiti "differenziali"), si sarebbe dovuto operare il rinvio ad entrambe le fattispecie e, quindi, non al solo comma 1.
Appare, infatti, non persuasiva la tesi che afferma, per giustificare il richiamo parziale al solo comma 1 dell'art. 6, d.P.C.M. 01.03.1991, cit., la diretta applicabilità dei limiti "differenziali" in quanto ancorati, per il loro ambito di riferimento, ad una suddivisione del territorio ricavabile dalla disciplina urbanistica (pertanto, non esigente una specifica norma autorizzante la sua operatività nella fase transitoria, per i comuni sprovvisti del piano di zonizzazione acustica), posto che già nella vigenza di quel decreto i limiti "differenziali" erano circoscritti alle zone non esclusivamente industriali e, ciò nonostante, si era avvertita la necessità di effettuarne un esplicito richiamo, al fine di garantirne l'operatività fin dalla fase transitoria, con la conseguenza che il rinvio operato al solo comma 1 dell'art. 6, cit., depone inequivocabilmente per una scelta normativa che subordina, a partire dal 1997, l'applicabilità del criterio "differenziale" all'introduzione della disciplina a regime e cioè all'adozione del piano comunale di zonizzazione acustica: donde l'illegittimità dei provvedimenti amministrativi che, nei comuni sprovvisti di zonizzazione acustica, come nel caso di specie, configurino come ipotesi di "inquinamento acustico" i casi di accertato superamento del solo limite "differenziale" d'immissione sonora.

Deve premettersi che il comune di Giussano non era dotato, all’epoca dei fatti, di un piano di zonizzazione acustica del territorio comunale.
In proposito, la giurisprudenza amministrativa è costante nell’affermare che, nelle more della classificazione del territorio comunale, ai sensi dell'art. 6, comma 1, lett. a), l. n. 447 del 1995, sono operativi i limiti c.d. "assoluti" di rumorosità ma non anche quelli c.d. "differenziali", in ragione dell'univoca formulazione dell'art. 8, comma 1, d.P.C.M. 14.11.1997, secondo cui, ove si fosse voluto far sopravvivere integralmente il regime transitorio di cui all'art. 6, d.P.C.M. 01.03.1991 (comma 1 relativo ai c.d. limiti "assoluti" e comma 2 relativo ai c.d. limiti "differenziali"), si sarebbe dovuto operare il rinvio ad entrambe le fattispecie e, quindi, non al solo comma 1; appare, infatti, non persuasiva la tesi che afferma, per giustificare il richiamo parziale al solo comma 1 dell'art. 6, d.P.C.M. 01.03.1991, cit., la diretta applicabilità dei limiti "differenziali" in quanto ancorati, per il loro ambito di riferimento, ad una suddivisione del territorio ricavabile dalla disciplina urbanistica (pertanto, non esigente una specifica norma autorizzante la sua operatività nella fase transitoria, per i comuni sprovvisti del piano di zonizzazione acustica), posto che già nella vigenza di quel decreto i limiti "differenziali" erano circoscritti alle zone non esclusivamente industriali e, ciò nonostante, si era avvertita la necessità di effettuarne un esplicito richiamo, al fine di garantirne l'operatività fin dalla fase transitoria, con la conseguenza che il rinvio operato al solo comma 1 dell'art. 6, cit., depone inequivocabilmente per una scelta normativa che subordina, a partire dal 1997, l'applicabilità del criterio "differenziale" all'introduzione della disciplina a regime e cioè all'adozione del piano comunale di zonizzazione acustica: donde l'illegittimità dei provvedimenti amministrativi che, nei comuni sprovvisti di zonizzazione acustica, come nel caso di specie, configurino come ipotesi di "inquinamento acustico" i casi di accertato superamento del solo limite "differenziale" d'immissione sonora (cfr. TAR Emilia Romagna, sez. Parma, 12.01.2012, n. 7; TAR Puglia, sez. I, 14.05.2010, n. 1896).
Nella fattispecie in questione deve, inoltre, considerarsi la situazione di fatto ed in particolare la destinazione commerciale e produttiva della zona di esercizio dell’attività, che non poteva, quindi, contemplare in alcun modo una porzione di immobile adibita ad abitazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 14.03.2012 n. 851 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIALe precedenti autorizzazioni ottenute dal ricorrente allo scarico in acque superficiali non rendono irragionevole l'ordinanza comunale con la quale si intima alla ricorrente stessa il convogliamento nella fognatura comunale di tutti i reflui provenienti dall'immobile di sua proprietà.
Invero, l’art. 7, co. III, Regolamento della Regione Lombardia 3/2006 prevede l’obbligo di allacciamento alla rete fognaria e solo se ciò non è possibile, è ammissibile lo scarico in acque superficiali nel rispetto dei limiti di emissione. Emerge, quindi, evidente un obbligo di allacciamento alla rete fognaria laddove possibile, anche se in precedenza il ricorrente era stato autorizzato ad effettuare scarichi in acque superficiali.

... per l'annullamento dell’Ordinanza del Comune di Solbiate Olona con cui Il Responsabile del Settore ha ordinato alla ricorrente il convogliamento nella fognatura comunale di tutti i reflui provenienti dall'immobile di sua proprietà ...
...
Ciò premesso, va evidenziato che l’art. 7, co. III, Regolamento della Regione Lombardia 3/2006 prevede l’obbligo di allacciamento alla rete fognaria e solo se ciò non è possibile, è ammissibile lo scarico in acque superficiali nel rispetto dei limiti di emissione. Emerge, quindi, evidente un obbligo di allacciamento alla rete fognaria laddove possibile, anche se in precedenza il ricorrente era stato autorizzato ad effettuare scarichi in acque superficiali.
Ne deriva che le precedenti autorizzazioni ottenute dal ricorrente allo scarico in acque superficiali non rendono irragionevole il provvedimento in questa sede impugnato (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 14.03.2012 n. 839 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell'art. 8, comma 6, L. 22.02.2001 n. 36, pur se i Comuni possono adottare un regolamento atto ad assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l'esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici, tuttavia, ciò non implica la fissazione di limiti di esposizione ai campi elettromagnetici diversi da quelli stabiliti dallo Stato, non rientrando tale potere nelle competenze comunali; pertanto, il Comune, mediante il formale utilizzo degli strumenti di natura edilizia-urbanistica, non può adottare misure derogatorie ai predetti limiti di esposizione fissati dallo Stato, quali il generalizzato divieto di installazione delle stazioni radiobase per telefonia cellulare in tutte le zone territoriali omogenee a destinazione residenziale ovvero introdurre misure che, pur essendo tipicamente urbanistiche (distanze, altezze, etc.), non siano funzionali al governo del territorio, ma alla tutela della salute dai rischi dell'elettromagnetismo.
... per l'annullamento del provvedimento del Dirigente del Settore Sportello per l'Edilizia Centro Storico ed Isole del Comune di Venezia 19/12/2011 prot. n. 527063, con cui si ordina a Vodafone di non effettuare l'intervento di cui alla D.I.A. presentata in data 29/09/2011 e si dichiara improcedibile la domanda di autorizzazione paesaggistica presentata contestualmente, nonché della istruttoria in data 07/12/2011, non conosciuta e dell'art. 50 del Regolamento Edilizio Comunale, di cui alla Variante al P.R.G., adottata con deliberazione di Consiglio Comunale 13/10/2003 n. 158, modificata ed integrata con delibera di Consiglio Comunale 13/06/2006 n. 83 e approvata con deliberazione della Giunta Regionale del Veneto 28/07/2009 n. 2311 nonché delle deliberazioni medesime, nella parte in cui vieta la installazione delle S.R.B. nella fascia di rispetto dei c.d. siti sensibili.
...
Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
Infatti, l’art. 50 del regolamento edilizio del Comune di Venezia, posto a fondamento del provvedimento di diffida impugnato, deve essere ritenuto illegittimo per le seguenti ragioni.
- La legge 22.02.2001 n. 36, in materia di protezione dalle esposizioni ai campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici, all’art. 4, stabilisce che sono riservate allo Stato “le funzioni relative alla determinazione dei limiti di esposizione, dei valori di attenzione e degli obiettivi di qualità…in considerazione del preminente interesse nazionale alla definizione di criteri unitari e di normative omogenee in relazione alle finalità di cui all’art. 1”. Tali limiti, valori e obiettivi sono stati posti con il D.P.C.M. 08.07.2003, sulla base del criterio dei limiti di immissione delle irradiazioni nei luoghi particolarmente protetti. Viceversa, l’art. 8 della legge n. 36/2001, stabilisce le competenze in materia delle Regioni, cui spetta determinare i criteri localizzativi degli impianti di telefonia, e dei Comuni (comma 6), i quali “possono adottare un regolamento per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici”.
- La circolare regionale n. 12 del 12.07.2001 nel fissare i criteri e gli indirizzi ai quali il regolamento comunale si dovrà attenere nel dare applicazione all’art. 8, comma 6, della legge n. 36 del 2001, ha stabilito che il regolamento comunale, mentre “potrà definire i siti sensibili (scuole, asili, ospedali, case di cura, parchi e aree per il gioco e lo sport), in corrispondenza dei quali può essere esclusa l’installazione d’impianti di telecomunicazione”, “in nessun caso potrà prevedere deroghe ai parametri del D.M. n. 381/1998 perché i limiti di tutela sanitaria sono di competenza dello Stato (art. 4 comma 2, della legge quadro)”, quindi non è consentito imporre delle distanze di rispetto predeterminate che gli impianti devono osservare”. Pertanto, la circolare regionale, da una parte vieta la localizzazione degli impianti di telefonia in corrispondenza dei siti sensibili, dall’altro, preclude al Comune l’adozione del criterio distanziale.
- Da tale quadro normativo si evince che non spetta ai Comuni la competenza a stabilire criteri, volti a proteggere la salute dei cittadini dall’esposizione ai campi elettromagnetici, diversi da quelli stabiliti dallo Stato.
- Sul punto si è più volte pronunciato anche il Coniglio di Stato: si veda tra le ultime, la sentenza n. 2371 del 27.04.2010, VI sez., secondo la quale: “ai sensi dell'art. 8, comma 6, L. 22.02.2001 n. 36, pur se i Comuni possono adottare un regolamento atto ad assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l'esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici, tuttavia, ciò non implica la fissazione di limiti di esposizione ai campi elettromagnetici diversi da quelli stabiliti dallo Stato, non rientrando tale potere nelle competenze comunali; pertanto, il Comune, mediante il formale utilizzo degli strumenti di natura edilizia-urbanistica, non può adottare misure derogatorie ai predetti limiti di esposizione fissati dallo Stato, quali il generalizzato divieto di installazione delle stazioni radiobase per telefonia cellulare in tutte le zone territoriali omogenee a destinazione residenziale ovvero introdurre misure che, pur essendo tipicamente urbanistiche (distanze, altezze, etc.), non siano funzionali al governo del territorio, ma alla tutela della salute dai rischi dell'elettromagnetismo".
- Nel caso di specie, la disposizione impugnata, avendo l’effetto di sovrapporre una determinazione cautelativa, ispirata al principio di precauzione, alla normativa statale che ha fissato i limiti di radiofrequenza, deve essere ritenuta illegittima, sia per violazione della legge 36/2001 e del DPCM 08.07.2003, sia per eccesso di potere per violazione della circolare citata, e deve, pertanto essere annullata.
- Segue, per invalidità derivata, l’annullamento del provvedimento impugnato di diffida a non effettuare l’intervento di cui alla DIA, non trovandosi, peraltro, l’impianto in questione, in corrispondenza di un sito sensibile (il che sarebbe vietato dalla circolare regionale e dal regolamento edilizio comunale), bensì a distanza di esso (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 14.03.2012 n. 377 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La validità ovvero l'efficacia dell'ordine di demolizione non risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di un'istanza ex art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, posto che nel sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto, sicché, se, da un lato, la presentazione dell'istanza ex art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001 cit. determina inevitabilmente un arresto dell'efficacia dell'ordine di demolizione, all'evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la demolizione di un'opera che, pur realizzata in assenza o difformità dal permesso di costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica vigente, dall'altro, occorre ritenere che l'efficacia dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che l'atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza.
All'esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione dell'accertata conformità dell'intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso sia al momento della presentazione della domanda, con conseguente venir meno dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata. Di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di demolizione riacquista la sua efficacia.

Sul punto va ricordato quanto affermato dalla Giurisprudenza prevalente (da ultimo TAR Campania Napoli Sez. II, Sent. del 02-03-2012, n. 1081), orientamento condiviso da questo Collegio, nella parte in cui ha sancito che la …."validità ovvero l'efficacia dell'ordine di demolizione non risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di un'istanza ex art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, posto che nel sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto, sicché, se, da un lato, la presentazione dell'istanza ex art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001 cit. determina inevitabilmente un arresto dell'efficacia dell'ordine di demolizione, all'evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la demolizione di un'opera che, pur realizzata in assenza o difformità dal permesso di costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica vigente, dall'altro, occorre ritenere che l'efficacia dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che l'atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza.
All'esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione dell'accertata conformità dell'intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso sia al momento della presentazione della domanda, con conseguente venir meno dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata. Di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di demolizione riacquista la sua efficacia…
" (in termini, Cons. St., sez. IV, 19.02.2008, n. 849; TAR, Campania, Napoli, sez. II, 14.09.2009, n. 4961) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 14.03.2012 n. 374 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gare, in commissione no ad esterni per sostituire i funzionari in ferie.
Illegittimo comporre la commissione di gara con commissari esterni per sostituire i funzionari impossibilitati a partecipare ai lavori, perché in ferie.
Lo chiarisce il TAR Piemonte, Sez. I con la sentenza 10.03.2012 n. 336, che ha annullato gli atti di approvazione di una gara d'appalto svolta col criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, valutata da una commissione composta irregolarmente e in violazione dell'articolo 84 del dlgs 163/2006.
Tale ultima disposizione stabilisce al comma 3 che «la commissione è presieduta di norma da un dirigente della stazione appaltante». Al successivo comma 8 il medesimo articolo dispone che «i commissari diversi dal presidente sono selezionati tra i funzionari della stazione appaltante. In caso di accertata carenza in organico di adeguate professionalità, nonché negli altri casi previsti dal regolamento in cui ricorrono esigenze oggettive e comprovate, i commissari diversi dal presidente sono scelti tra funzionari di amministrazioni aggiudicatrici di cui all'articolo 3, comma 25, ovvero con un criterio di rotazione» tra professionisti o professori universitari di ruolo.
Dunque, il codice dei contratti restringe a casi molto precisi la possibilità per le amministrazioni appaltanti di avvalersi di professionisti esterni, per comporre le commissioni di gara. Lo scopo è garantire il più possibile l'imparzialità dell'azione amministrativa e, ovviamente, anche il corretto impiego di risorse pubbliche. È inutile la duplicazione della spesa per professionisti esterni, se l'ente dispone delle professionalità necessarie a svolgere le funzioni di commissario di gara.
Nel caso di specie, l'ente appaltante doveva svolgere le operazioni di gara nel corso di una settimana del mese di luglio, proprio quando i funzionari qualificati professionalmente per svolgere il ruolo di commissari erano in ferie. La soluzione escogitata, dunque, è consistita nell'incaricare professionisti esterni. Ma, osserva il Tar, in questo modo si è giustificato l'incarico a esterni per fare fronte non alla carenza assoluta di professionalità, bensì per rimediare ad un'esigenza contingente dipendente da scelte organizzative dell'ente, che avrebbe potuto collocare le operazioni di gara in un altro periodo dell'anno o disporre diversamente le ferie.
Non solo si è palesemente violata la norma del codice dei contratti, ma, aggiunge la sentenza, se si ammettesse la possibilità di incaricare esterni per «sostituzione ferie» si consentirebbe di avvalersi di professionisti ad arbitrio dell'ente.
Sono evidenti anche aspetti non considerati dalla sentenza del Tar, inerenti la responsabilità erariale. Infatti, l'ente ha utilizzato incarichi esterni in totale assenza dei presupposti non solo previsti dal codice dei contratti, ma anche dall'articolo 7, comma 6, del dlgs 165/2001, dando vita ad una spesa non giustificabile ed illegittima. Per altro, se fosse possibile sostituire i dipendenti assenti per ferie con incarichi esterni, gli enti sarebbero legittimati a creare una sorta di apparato amministrativo parallelo (articolo ItaliaOggi del 16.03.2012).

APPALTIL’esatta interpretazione delle norme di cui all'art. 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, del dlgs 163/2206 comporta, sempre, l’obbligo per i concorrenti di segnalare l’importo degli oneri economici imputati esclusivamente alle misure di sicurezza sul lavoro, anche se ciò non è previsto dal bando, così da consentire alla stazione appaltante di valutare la congruità dell’importo destinato ai citati costi.
--------------
L’art. 131 del codice dei contratti pubblici prevede -per i bandi di gara relativi agli appalti di lavori- la necessità di evidenziare gli oneri di sicurezza non soggetti a ribasso.
Tale evenienza normativa comporta, in via analogica, anche per le altre procedure di gara, in cui la stazione appaltante ha omesso di specificare e prevede i costi per la sicurezza, che il relativo importo venga, comunque, scorporato nelle offerte dei singoli concorrenti e sottoposto a verifica per valutare la sua congruità rispetto alle esigenze di tutela dei lavoratori.
Al riguardo, è stato statuito che ”…La mancanza di una specifica previsione sul tema in seno alla lex specialis non toglie, quindi, che la norma primaria, immediatamente precettiva ed idonea ad eterointegrare le regole procedurali, imponesse agli offerenti di indicare separatamente i costi per la sicurezza per le ragioni precedentemente esposte“.

L’art. 87, comma 4, ultimo periodo, del codice dei contratti pubblici, testualmente prevede che i costi relativi alla sicurezza “devono essere specificamente indicati nell’offerta e risultare congrui rispetto all’entità e alle caratteristiche dei servizi o delle forniture”.
Non solo.
Il comma 3-bis del precedente art. 86 recita: “nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell'anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all'entità e alle caratteristiche dei lavori, dei "servizi o delle forniture”.
L’esatta interpretazione delle due citate norme, secondo autorevole e costante giurisprudenza, comporta, sempre, l’obbligo per i concorrenti di segnalare l’importo degli oneri economici imputati esclusivamente alle misure di sicurezza sul lavoro, anche se ciò non è previsto dal bando, così da consentire alla stazione appaltante di valutare la congruità dell’importo destinato ai citati costi.
Infine si deve osservare che l’art. 131 del codice dei contratti pubblici prevede -per i bandi di gara relativi agli appalti di lavori- la necessità di evidenziare gli oneri di sicurezza non soggetti a ribasso.
Tale evenienza normativa comporta, in via analogica, anche per le altre procedure di gara, in cui la stazione appaltante ha omesso di specificare e prevede i costi per la sicurezza, che il relativo importo venga, comunque, scorporato nelle offerte dei singoli concorrenti e sottoposto a verifica per valutare la sua congruità rispetto alle esigenze di tutela dei lavoratori.
Al riguardo il Consiglio di Stato ha precisato che: ”…La mancanza di una specifica previsione sul tema in seno alla lex specialis non toglie, quindi, che la norma primaria, immediatamente precettiva ed idonea ad eterointegrare le regole procedurali, imponesse agli offerenti di indicare separatamente i costi per la sicurezza per le ragioni precedentemente esposte“ (Cons. di St. 4849/2010).
Da tale insegnamento il Collegio non ha motivo di discostarsi, così che la mancanza di una previsione espressa, nella disciplina speciale di gara, della prescrizione contenuta nella norma primaria circa la necessità di indicare separatamente i costi di sicurezza, comporta, conseguentemente ed automaticamente, la sanzione dell’esclusione dalla gara, proprio perché l’offerta è, sotto diversi profili, non ultimo quello costituzionale, incompleta, ed impedisce alla stazione appaltante un concreto e puntuale controllo circa la sua affidabilità.
Diversamente si verrebbe ad autorizzare un’integrazione dell’offerta originaria, alterando irreversibilmente (non solo la par condicio tra i concorrenti, ma anche) la procedura in contraddittorio che, invece, è riservato, esclusivamente, alla verifica ed al controllo sulle offerte anomale di cui all’art. 88 del codice dei contratti pubblici.
In altre parole, così facendo, si avrebbe una vera e propria interpretatio abrogans della disciplina normativa inerente ai costi della sicurezza che, invece, impone, per le ragioni sopra esposte, tale formale indicazione già in sede di offerta (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 09.03.2012 n. 341 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIE’ principio normativamente statuito dal D.lgs. 163/2006 quello della intangibilità ed immodificabilità del bando di gara una volta reso pubblico, con la sola possibilità per la stazione appaltante di agire in autotutela cassando in radice la stessa lex specialis. Ogni eventuale integrazione, anche se migliorativa è vietata proprio per la tutela della par condicio tra i concorrenti.
Quindi inserire, a posteriori, criteri tecnici di valutazione dell’offerta, costituisce un vizio insanabile della procedura.
---------------
E' illegittima la procedura di gara secondo cui il RUP ha assunto un ruolo attivo ed esclusivo nella determinazione circa la congruità dell’offerta e tale attività è stata, poi, pedissequamente mutuata dalla Commissione di gara, così che la stessa ha delegato al RUP non solo accertamenti e verifiche di natura tecnica, ma anche la valutazione di tali operazioni.

La disamina del bando di gara e del conseguente capitolato permette di rilevare che la stazione appaltante, mentre rappresenta e definisce in modo tecnico e puntuale il servizio oggetto di gara, nondimeno non fornisce alcun dimensionamento dello stesso, così che lo stesso è rimesso ad una ponderata e quanto mai soggettiva valutazione circa i tempi, le modalità e la quantità delle prestazioni richieste.
Ciò è confermato proprio dal quesito, al riguardo, avanzato dalla parte ricorrente alla stazione appaltante circa il dimensionamento del servizio complessivo oggetto di gara.
Risulta dagli atti prodotti che la stazione appaltante non ha ritenuto necessario indicare tale dato quantitativo, rinviando alle generiche indicazioni fornite nella lex specialis.
In difetto di un obiettivo metro di paragone cui valutare la congruità dell’offerta, la stazione appaltante ha, nel procedimento di verifica, utilizzato proprio tale criterio ponderato con i dati strutturali ed organizzativi della società ricorrente.
E’ principio normativamente statuito dal D.lgs. 163/2006 quello della intangibilità ed immodificabilità del bando di gara una volta reso pubblico, con la sola possibilità per la stazione appaltante di agire in autotutela cassando in radice la stessa lex specialis. Ogni eventuale integrazione, anche se migliorativa è vietata proprio per la tutela della par condicio tra i concorrenti.
Quindi inserire, a posteriori, criteri tecnici di valutazione dell’offerta, costituisce un vizio insanabile della procedura.
Non solo.
La disamina dei verbali di gara, in atti, evidenzia che l’intera procedura di verifica dell’offerta della società SIBI è stata realizzata e condotta dal RUP, il quale, al termine del procedimento, ha, di fatto, escluso la concorrente.
Non vi è prova che la commissione giudicatrice, unico organo deputato a valutare l’esclusione, ha partecipato a tale istruttoria, né che la stessa abbia criticamente valutato l’attività tecnica operata dal RUP, limitandosi pedissequamente a recepire i risultati da questi proposti.
Invero anche la sussistenza di un rapporto fiduciario e la totale stima delle capacità tecniche che la commissione ha riposto nel RUP, non esime la prima ad assumere autonome determinazioni in merito alla verifica, che possono coincidere totalmente con i risultati proposti dal RUP, nondimeno esigono una autonoma e formale determinazione che, sostanzialmente, dimostri tale essenziale attività critica, che certamente non può limitarsi ad una presa d’atto, nei tempi limitatissimi di cui al verbale della commissione in atti, in cui i citati lavori hanno impegnato la commissione per circa 15 minuti.
Il Collegio ritiene, in conformità ad un consolidato orientamento al quale aderisce (Cons. st., sez. V, 22.01.2008, n. 3108), che assume valore dirimente il fatto obiettivo che il RUP, come emerge da tutta la documentazione versata in atti, ha assunto un ruolo attivo ed esclusivo nella determinazione circa la congruità dell’offerta e tale attività è stata, poi, pedissequamente mutuata dalla Commissione di gara, così che la stessa ha delegato al RUP non solo accertamenti e verifiche di natura tecnica, ma anche la valutazione di tali operazioni.
Per tali motivi il ricorso va accolto, le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 09.03.2012 n. 340 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICILa buca in strada è omicidio colposo. Cassazione condanna un dirigente.
Dirigente della provincia, assunto da soli due mesi, viene condannato per omicidio colposo a seguito di omessa manutenzione stradale. La responsabilità per i sinistri occorsi sulle strade provinciali, anche quelli mortali, grava su di lui, e non può essere «alleggerita» dalla «presenza in organico di cantonieri».

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, IV Sez. penale, con la sentenza 08.03.2012 n. 9175.
Nel caso di specie il dirigente è stato ritenuto responsabile per un incidente da doversi attribuire, secondo i giudici, agli omessi controlli sulla strada, con particolare riferimento alla «pulizia dei fossi adiacenti la carreggiata». Le piogge abbondanti, infatti, hanno determinato la formazione di una grossa pozzanghera, che, a sua volta, ha provocato lo sbandamento di un veicolo che percorreva la strada allagata. Ne è derivata la morte del conducente, a seguito di un impatto con un furgone blindato che stava provenendo dal senso opposto.
L'omesso controllo sulla strade provinciali è costato al dirigente una condanna al pagamento di una multa, oltre al risarcimento dei danni della parte civile.
L'imputato, durante il processo, ha cercato di difendersi affermando che l'incidente dovesse ricondursi, oltre che all' elevata velocità del conducente, ad alcuni lavori di manutenzione di un passo carrabile privato, situato proprio in corrispondenza del luogo dell'impatto, che avrebbero determinato una deviazione fatale delle acque piovane.
I giudici, tuttavia, basandosi sugli accertamenti tecnici, hanno ritenuto che la (prevalente) causa dell'incidente fosse la cattiva manutenzione dei canali di scolo (del tutto ostruiti), da cui è scaturito l'allagamento della strada. Non importa, spiegano i giudici, che il dirigente avesse preso servizio da soli due mesi. La sua responsabilità, infatti, inizia con il primo giorno di lavoro.
Inoltre la presenza di cantonieri addetti ai lavori di manutenzione non può mai alleggerire la responsabilità del dirigente, il quale risponde autonomamente di tutti gli incidenti riconducibili alle cattive condizioni delle strade di proprietà dell'ente di appartenenza (articolo ItaliaOggi del 17.03.2012).

ATTI AMMINISTRATIVIL'obbligo di provvedere dell'Amministrazione presuppone che l'istanza del richiedente sia rivolta ad ottenere un provvedimento cui questi abbia un diretto interesse e che essa non appaia subito irragionevole ovvero risulti all'evidenza infondata.
Pertanto, scopo del ricorso contro il silenzio-rifiuto è ottenere un provvedimento esplicito dell'Amministrazione, che elimini lo stato di inerzia ed assicuri al privato una decisione che investe la fondatezza o meno della sua pretesa.
La fonte dell'obbligo giuridico di provvedere consiste, di solito, in una norma di legge, di regolamento od in un atto amministrativo, ma non necessariamente deve derivare da una disposizione puntuale e specifica, potendosi, talora, desumere anche da prescrizioni di carattere generale e/o dai principi generali regolatori dell'azione amministrativa.
------------
Il rimedio giurisdizionale previsto dall'art. 117 c.p.a. è volto esclusivamente a far accertare l'inerzia dell'Amministrazione nel pronunziarsi in ordine ad una istanza, a fronte della quale -a carico della stessa Amministrazione- sussiste un obbligo a provvedere; di conseguenza il giudice investito della relativa cognitio deve limitarsi a constatare l'illegittimità del comportamento omissivo con conseguente dichiarazione dell'obbligo a provvedere, senza peraltro poter entrare nel merito della fondatezza o meno della pretesa sostanziale sottesa all'istanza di provvedere.
Pertanto, si può ritenere che, a prescindere dall'esistenza di una specifica disposizione normativa impositiva, l'obbligo di provvedere sussiste in tutte quelle ipotesi in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano) di quest'ultima.

Occorre premettere che il presupposto per l'applicazione del rito speciale è il silenzio della P.A. e, in particolare, l'omissione di provvedimento che acquista rilevanza come ipotesi di silenzio-rifiuto, attraverso il relativo, caratteristico procedimento, quando la medesima si sia resa inadempiente, restando inerte, ad un obbligo di provvedere. Quest'ultimo può scaturire dalla legge, o dalla peculiarità della fattispecie, per la quale ragioni di equità impongono l'adozione di un provvedimento al fine, soprattutto, di consentire al privato (data la particolarità del processo amministrativo, che è sostanzialmente un processo sull'atto) di adire la giurisdizione per far valere le proprie ragioni. L'obbligo di provvedere dell'Amministrazione, poi, a sua volta, presuppone che l'istanza del richiedente sia rivolta ad ottenere un provvedimento cui questi abbia un diretto interesse e che essa non appaia subito irragionevole ovvero risulti all'evidenza infondata (cfr. TAR Lazio Roma, sez. I, 01.12.2010, n. 34860).
Pertanto, scopo del ricorso contro il silenzio-rifiuto è ottenere un provvedimento esplicito dell'Amministrazione, che elimini lo stato di inerzia ed assicuri al privato una decisione che investe la fondatezza o meno della sua pretesa (ex multis: Cons. Stato: Sez. VI 10.06.2003 n. 3279; Sez. V 12.10.2004 n. 6528; Sez. V 26.04.2005, n. 1913; Sez. V 05.02.2007, n. 457).
La fonte dell'obbligo giuridico di provvedere consiste, di solito, in una norma di legge, di regolamento od in un atto amministrativo, ma non necessariamente deve derivare da una disposizione puntuale e specifica, potendosi, talora, desumere anche da prescrizioni di carattere generale e/o dai principi generali regolatori dell'azione amministrativa ( cfr. Tar Calabria-Catanzaro n. 939/2009)
Il rimedio giurisdizionale previsto dall'art. 117 c.p.a. è volto esclusivamente a far accertare l'inerzia dell'Amministrazione nel pronunziarsi in ordine ad una istanza, a fronte della quale -a carico della stessa Amministrazione- sussiste un obbligo a provvedere; di conseguenza il giudice investito della relativa cognitio deve limitarsi a constatare l'illegittimità del comportamento omissivo con conseguente dichiarazione dell'obbligo a provvedere, senza peraltro poter entrare nel merito della fondatezza o meno della pretesa sostanziale sottesa all'istanza di provvedere (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 02.03.2011, n. 1345).
Pertanto, si può ritenere che, a prescindere dall'esistenza di una specifica disposizione normativa impositiva, l'obbligo di provvedere sussiste in tutte quelle ipotesi in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano) di quest'ultima (cfr.: Cons. Stato Sez. V 22-11-1991 n. 1331).
Orbene, applicando i suesposti principi al caso di specie, si può ritenere fondata la pretesa della ricorrente ad ottenere la declaratoria di illegittimità del silenzio serbato dal Comune di Nocera Inferiore a seguito dell'avvio del procedimento ad iniziativa di parte innescato dalla ricorrente con la richiesta di denominazione della strada ove si trova il fabbricato di proprietà del ricorrente ed il numero civico, richiesta da ultimo inoltrata con atto ricevuto dall’Amministrazione in data 21.03.2011 (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 08.03.2012 n. 453 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADagli artt. 49 e 60 del dpr n. 753/1980 la giurisprudenza ha ritenuto di dover ricavare la regola che i medesimi siano applicabili non solo all'erezione di un manufatto del tutto nuovo, ma anche alle modifiche a manufatti esistenti capaci comunque di aggravare la limitazione della visuale, ed inoltre ha precisato che tali norme richiedono che l’autorizzazione in deroga sia rilasciata prima dell'inizio dei lavori, perché, trattandosi di opere che incidono sulla sicurezza ferroviaria, la deroga condiziona la stessa possibilità di rilascio delle autorizzazioni necessarie alla realizzazione del manufatto.
L’art. 49 del DPR 11.07.1980, n. 753, recante “norme in materia di polizia, sicurezza e regolarità dell'esercizio delle ferrovie e di altri servizi di trasporto” dispone che “lungo i tracciati delle linee ferroviarie è vietato costruire, ricostruire o ampliare edifici o manufatti di qualsiasi specie ad una distanza, da misurarsi in proiezione orizzontale, minore di metri trenta dal limite della zona di occupazione della più vicina rotaia”, e l’art. 60 prevede che le distanze siano derogabili dagli uffici lavori compartimentali delle F.S., per le ferrovie dello Stato “quando la sicurezza pubblica, la conservazione delle ferrovie, la natura dei terreni e le particolari circostanze locali lo consentano”.
Dalle norme citate la giurisprudenza, tenuto conto della loro ratio, ha ritenuto di dover ricavare la regola che le medesime siano applicabili non solo all'erezione di un manufatto del tutto nuovo, ma anche alle modifiche a manufatti esistenti capaci comunque di aggravare la limitazione della visuale (cfr. Cassazione civile, Sez. I, 25.09.1996, n. 8452), ed inoltre ha precisato che tali norme richiedono che l’autorizzazione in deroga sia rilasciata prima dell'inizio dei lavori, perché, trattandosi di opere che incidono sulla sicurezza ferroviaria, la deroga condiziona la stessa possibilità di rilascio delle autorizzazioni necessarie alla realizzazione del manufatto (cfr. Tar Campania, Napoli, Sez. II, 11.04.2008, n. 2075).
In base a tali premesse il Collegio ritiene che il rispetto delle norme citate avrebbe richiesto il preventivo ottenimento di una nuova autorizzazione per ottenere la deroga ad innalzare di circa cinque metri il manufatto già esistente in fregio alla linea ferroviaria ad una distanza inferiore a quella stabilita dalla legge
(TAR Veneto, Sez. III, sentenza 08.03.2012 n. 333 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 96, primo comma, lett. f), del RD 25.07.1904, n. 523, vieta ad una distanza minore di 10 metri dal piede degli argini “le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno”, con una formula ampia, tale da ricomprendere qualsiasi manufatto che per le sue caratteristiche sia idoneo a compromettere il libero deflusso delle acque o l’espletamento dei necessari lavori di manutenzione.
Il divieto contenuto nella norma sopra citata si applica peraltro indistintamente a tutti i corsi d’acqua acquisiti al demanio dello Stato, senza che rilevi l’iscrizione o meno negli apposti elenchi.

Come sopra più volte osservato, il progetto prevede l’innalzamento da circa 5 mt. a circa 10 mt. dell’altezza della discarica, e l’art. 96, primo comma, lett. f), del RD 25.07.1904, n. 523, vieta ad una distanza minore di dieci metri dal piede degli argini “le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno”, con una formula ampia, tale da ricomprendere qualsiasi manufatto che per le sue caratteristiche sia idoneo a compromettere il libero deflusso delle acque o l’espletamento dei necessari lavori di manutenzione (per l’individuazione della ratio del divieto cfr. Tribunale Sup.re acque, 24.06.2010, n. 104; id. 29.04.2002, n. 58).
Il divieto contenuto nella norma sopra citata si applica peraltro indistintamente a tutti i corsi d’acqua acquisiti al demanio dello Stato, senza che rilevi l’iscrizione o meno negli apposti elenchi (cfr. Tar Piemonte, Sez. I, 20.04.2007, n. 1732).
Ne discende che nel caso di specie gli atti impugnati sono illegittimi anche per il mancato rispetto delle distanze dal corso d’acqua (tale conclusione risulta confortata anche dalla revisione progettuale di cui è stata data lettura dal difensore della parte controinteressata nella pubblica udienza, ove è espressamente previsto l’arretramento del nuovo argine di contenimento dal corso d’acqua per rientrare nella fascia di rispetto dal canale di 10 metri prevista dal RD 25.07.1904, n. 523, e l’allargamento della fascia arginale da utilizzare per la manutenzione dai mezzi consortili).
Nelle proprie difese la Regione e la controinteressata contestano che il corso d’acqua sia iscritto nel registro delle acque pubbliche e quindi che sia sottoposto al regime vincolistico di cui al D.lgs. 22.01.2004, n. 42 e, a sostegno dell’assunto, si limitano a citare la sentenza Tar Veneto, Sez. I, 15.04.1993, n. 364, che aveva ad oggetto l’impugnazione dell’originario provvedimento autorizzativo della discarica.
Sul punto il Collegio osserva che la predetta sentenza in realtà non ha accertato, neppure incidentalmente, la natura del corso d’acqua, ma ha semplicemente ritenuto in quella sede non sufficientemente provata l’iscrizione nell’elenco ai fini della definizione della necessità o meno dell’autorizzazione paesaggistica, lasciando sostanzialmente impregiudicata la questione.
Al riguardo il Collegio ritiene fondate e meritevoli di accoglimento le censure proposte dai Comuni ricorrenti di difetto di motivazione, difetto di istruttoria e contraddittorietà, perché dalla lettura del parere di compatibilità ambientale emerge una costante sottovalutazione delle problematiche attinenti alla presenza del corso d’acqua.
In primo luogo il parere, al fine di non applicare nelle fasce di rispetto il divieto che discende dal piano provinciale sui rifiuti (cfr. pag. 7), afferma che il corso d’acqua non è iscritto negli appositi elenchi, ma successivamente dà atto invece dell’avvenuta presentazione della relazione paesaggistica e di ritenere quindi espressamente necessaria l’acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica che ha come unico presupposto proprio l’iscrizione del corso d’acqua negli appositi elenchi (cfr. pag. 36, laddove si dice che “il vincolo vigente fa riferimento all’art. 142 -corsi d’acqua e fascia di m 150– del Dlgs. n. 42/2004, è originato dal Canale Cime Menegon che scorre, arginato, al di là della recinzione della discarica dimessa”).
In secondo luogo, come ripetutamente rappresentato dal Consorzio di bonifica (che non è stato coinvolto nella procedura nonostante lo avesse richiesto ed ha successivamente inviato un apposito parere che risulta essere stato ignorato: cfr. doc. 15 allegato alle difese della Regione), è stata omessa la valutazione delle maggiori sollecitazioni indotte dall’intervento sugli argini del corso d’acqua che già versano in una situazione di grave dissesto
(TAR Veneto, Sez. III, sentenza 08.03.2012 n. 333 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa possibilità che i concorrenti regolarizzino, ovvero integrino, la documentazione allegata alla domanda incontra, tra gli altri, il limite della immodificabilità dell’offerta, della perentorietà del termine per la sua presentazione ed in generale non può tradursi in una lesione della fondamentale regola della par condicio, che informa tutte le procedure di confronto competitivo. Se ne desume il divieto di modificare, attraverso la produzione di documenti e chiarimenti, gli elementi costitutivi dell’offerta, su cui si effettua la valutazione e si attribuisce il punteggio.
L'integrazione postuma, nei limiti rigorosi segnati dalla giurisprudenza e dalla legge (oggi art. 46 del d.lgs. n. 163/2006), può avere ad oggetto la sola documentazione necessaria a dimostrare il possesso dei requisiti di partecipazione, e non già il contenuto negoziale dell’offerta tecnica, poiché, altrimenti, si verificherebbe un’impropria rimessione in termini dell’offerente, consentendogli di rimediare tardivamente alle carenze della sua proposta tecnica ed infrangendo in tal modo il principio di imparzialità, che impone di trattare senza discriminazioni i concorrenti, nel rispetto delle scadenze e delle procedure predisposte ex ante con il bando di gara.

Va escluso che nel caso di specie si potesse far uso della richiesta di chiarimenti e/o integrazioni ex art. 46 del d.lgs. n. 163/2006, come preteso dalla ricorrente con il secondo motivo di ricorso.
Secondo la giurisprudenza costante (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. V, 06.03.2006, n. 1068), infatti, la possibilità che i concorrenti regolarizzino, ovvero integrino, la documentazione allegata alla domanda incontra, tra gli altri, il limite della immodificabilità dell’offerta, della perentorietà del termine per la sua presentazione ed in generale non può tradursi in una lesione della fondamentale regola della par condicio, che informa tutte le procedure di confronto competitivo. Se ne desume il divieto di modificare, attraverso la produzione di documenti e chiarimenti, gli elementi costitutivi dell’offerta, su cui si effettua la valutazione e si attribuisce il punteggio (C.G.A.R.S., Sez. giurisd., 28.07.2006, n. 478; C.d.S. Sez. VI, 21.02.2005, n. 624).
L'integrazione postuma, nei limiti rigorosi segnati dalla giurisprudenza e dalla legge (oggi art. 46 del d.lgs. n. 163/2006), può avere ad oggetto la sola documentazione necessaria a dimostrare il possesso dei requisiti di partecipazione, e non già il contenuto negoziale dell’offerta tecnica, poiché, altrimenti, si verificherebbe un’impropria rimessione in termini dell’offerente, consentendogli di rimediare tardivamente alle carenze della sua proposta tecnica ed infrangendo in tal modo il principio di imparzialità, che impone di trattare senza discriminazioni i concorrenti, nel rispetto delle scadenze e delle procedure predisposte ex ante con il bando di gara (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 09.12.2010, n. 35952).
Come già sottolineato in sede cautelare, nella fattispecie in esame l’integrazione ex art. 46 cit. avrebbe avuto ad oggetto un elemento dell’offerta tecnica, non presentato nei termini, cosicché deve ritenersi inammissibile, alla stregua dell’insegnamento giurisprudenziale sopra riportato (TAR Lazio-Latina, sentenza 08.03.2012 n. 199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICIE' legittima la comminatoria dell'esclusione dalla gara d'appalto per l’ipotesi -prevista dalla lex specialis- di omessa presentazione del cronoprogramma della redazione del progetto esecutivo, non è né irragionevole, né illogica, ma anzi è imposta dalla lettura della stessa.
Si deve escludere che tale clausola, nel prescrivere la presentazione del citato cronoprogramma, abbia imposto un adempimento inutilmente gravoso ed ingiustificato, in contrasto con i principi regolanti le gare pubbliche (in particolare i principi di libera concorrenza e di favor participationis, nonché di proporzionalità ed adeguatezza dell’azione amministrativa).
Il cronoprogramma per la progettazione esecutiva –al di là della previsione espressa o meno di esso nel d.lgs. n. 163/2006 e nel d.P.R. n. 207/2010– ha una sua utilità, adempiendo esso alla funzione di consentire il coordinamento di alcune operazioni, che connotano l’attività di progettazione, con i funzionari del Comune.

L’interpretazione della clausola del disciplinare di gara in esame, nel senso della comminatoria, tramite essa, dell’esclusione per l’ipotesi di omessa presentazione del cronoprogramma della redazione del progetto esecutivo, non è né irragionevole, né illogica, ma anzi è imposta dalla lettura della stessa. Del pari, al contrario di quanto sostiene la ricorrente con il terzo motivo –la cui trattazione, per esigenze di connessione logica, va anticipata a questo momento–, si deve escludere che tale clausola, nel prescrivere la presentazione del citato cronoprogramma, abbia imposto un adempimento inutilmente gravoso ed ingiustificato, in contrasto con i principi regolanti le gare pubbliche (in particolare i principi di libera concorrenza e di favor participationis, nonché di proporzionalità ed adeguatezza dell’azione amministrativa). Come evidenziato in sede cautelare sia da questo Tribunale, sia dal Consiglio di Stato, il cronoprogramma per la progettazione esecutiva –al di là della previsione espressa o meno di esso nel d.lgs. n. 163/2006 e nel d.P.R. n. 207/2010– ha una sua utilità, adempiendo esso alla funzione di consentire il coordinamento di alcune operazioni, che connotano l’attività di progettazione, con i funzionari del Comune.
In dettaglio, come osservato dalla controinteressata, l’attività progettuale comporta, tra l’altro, l’espletamento di rilievi sul posto, su un’ampia superficie pari a quella di sviluppo dell’intera conduttura fognaria oggetto dell’appalto, da svolgere, per una parte, in sedi intercluse, protette e vigilate dalla stazione appaltante (si pensi ai depuratori): almeno per questa parte, dunque, l’effettuazione dei rilievi necessita dell’assistenza del personale comunale. Di qui l’interesse della P.A. a conoscere tempestivamente le date in cui il suo personale avrebbe dovuto prestare la suddetta assistenza: informazione che le partecipanti alla gara avrebbero fornito, appunto, con il prescritto cronoprogramma (cfr. il già citato documento recante il cronoprogramma dell’Edilmassimo S.r.l., in cui è specificato che i primi dieci giorni dell’attività di progettazione sarebbero stati dedicati all’esecuzione di rilievi, accertamenti ed indagini) (TAR Lazio-Latina, sentenza 08.03.2012 n. 199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAL’adozione del provvedimento di annullamento d’ufficio (ndr: di una concessione edilizia) presuppone, unitamente al riscontro dell’originaria illegittimità dell’atto, la valutazione della rispondenza della sua rimozione a un interesse pubblico non solo attuale e concreto, ma anche prevalente rispetto ad altri interessi militanti in favore della sua conservazione, e, tra questi, in particolare, rispetto all’interesse del privato che ha riposto affidamento nella legittimità e stabilità dell’atto medesimo, tanto più quando un simile affidamento si sia consolidato per effetto del decorso di un rilevante arco temporale.
Di qui la necessità che l’amministrazione espliciti in sede motivazionale la compiuta valutazione comparativa tra interessi confliggenti; impegno motivazionale tanto più intenso, quanto maggiore sia l’arco temporale trascorso dall’adozione dell’atto da annullare e solido appaia, pertanto, l’affidamento ingenerato nel privato.

... per l'annullamento, quanto al ricorso n. 701 del 2007, del PROVVEDIMENTO DI ANNULLAMENTO CONCESSIONE EDILIZIA, PROT. N. 177/RSAT, DEL 30/10/2006 e, quanto al ricorso n. 6779 del 2007, dell'ORDINANZA DI DEMOLIZIONE OPERE ABUSIVE N. 172 DEL 18/07/2007.
...
L’adozione del provvedimento di annullamento d’ufficio (ndr: di una concessione edilizia) presuppone, unitamente al riscontro dell’originaria illegittimità dell’atto, la valutazione della rispondenza della sua rimozione a un interesse pubblico non solo attuale e concreto, ma anche prevalente rispetto ad altri interessi militanti in favore della sua conservazione, e, tra questi, in particolare, rispetto all’interesse del privato che ha riposto affidamento nella legittimità e stabilità dell’atto medesimo, tanto più quando un simile affidamento si sia consolidato per effetto del decorso di un rilevante arco temporale. Di qui la necessità che l’amministrazione espliciti in sede motivazionale la compiuta valutazione comparativa tra interessi confliggenti; impegno motivazionale tanto più intenso, quanto maggiore sia l’arco temporale trascorso dall’adozione dell’atto da annullare e solido appaia, pertanto, l’affidamento ingenerato nel privato.
Venendo, dunque, alla fattispecie in esame, secondo un costante orientamento giurisprudenziale (Cons. Stato, sez. V, 12.11.2003, n. 7218; sez. IV, 31.10.2006, n. 6465; TAR Campania, Napoli, sez. VII, 22.06.2007, n. 6238; sez. III, 11.09.2007, n. 7483; sez. VIII, 30.07.2008, n. 9586; 01.10.2008, n. 12321; 07.12.2009, n. 8597; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 19.01.2007, n. 170; sez. II, 08.06.2007, n. 1652; TAR Liguria, sez. I, 11.12.2007, n. 2050; TAR Basilicata, sez. I, 19.01.2008, n. 15), “il provvedimento di annullamento di ufficio di una concessione edilizia, quale atto discrezionale, deve essere adeguatamente motivato in ordine all’esistenza dell’interesse pubblico, specifico e concreto, che giustifica il ricorso all’autotutela anche in ordine alla prevalenza del predetto interesse pubblico su quello antagonista del privato”. Anche nell’ipotesi di annullamento di una concessione edilizia va, cioè, riconosciuta piena operatività ai principi generali che condizionano il legittimo esercizio del potere di autotutela. Potere che è espressione della discrezionalità dell’amministrazione e che, nell’adozione di un provvedimento espresso, postula la valutazione di elementi ulteriori rispetto alla mero ripristino della legalità violata. In omaggio all’orientamento tradizionale che trova il suo fondamento nei valori di rango costituzionale di buon andamento e dell’imparzialità dell’azione amministrativa, è, infatti, doveroso rimettere la verifica di legittimità dell’atto di autotutela ad un apprezzamento concreto, condotto sulla base dell’effettiva e specifica situazione creatasi a seguito del rilascio dell’atto autorizzativo.
Siffatto approdo giurisprudenziale rinviene un espresso aggancio normativo nell’art. 21-nonies, comma 1, della l. n. 241/1990, in base al quale “il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge”.
Si conferma, quindi, la natura tipicamente discrezionale dell'atto di ritiro, il quale deve essere espressione di una congrua valutazione comparativa degli interessi in conflitto, da effettuare entro un lasso di tempo ragionevole e da riportare nel corredo motivazionale.
Applicando tali principi al caso in esame, il Collegio rileva che un provvedimento in autotutela adottato a circa 10-6 anni dall’emissione delle concessioni edilizie con esso annullate sarebbe stato giustificabile solo se adeguatamente motivato in ordine all'interesse pubblico specifico, concreto e attuale, al divisato annullamento d’ufficio, agli eventuali contrasti dei titoli abilitativi in parola con gli interessi urbanistici della zona, nonché in rapporto all’affidamento privato nella conservazione dei medesimi titoli abilitativi, consolidatosi nell’arco temporale trascorso tra il loro rilascio e la loro rimozione.
Nella specie, nessuna ponderazione tra interesse pubblico e privato risulta, in sostanza, effettuata ed esplicitata dall'amministrazione resistente, la quale si è limitata a rilevare la violazione della distanza minima tra fabbricati confinanti, sancita dall’art. 25 del regolamento edilizio comunale, e ad evocare genericamente ed ellitticamente “esigenze generali, tra cui bisogni di salute pubblica, sicurezza, vie di comunicazione e buona gestione del territorio”.
Viceversa, a fronte del considerevole lasso di tempo decorso dal rilascio dei titoli abilitativi edilizi annullati d’ufficio (circa 10-6 anni), il canone di ragionevolezza del termine massimo per l’esercizio del potere di autotutela (cfr. art. 21-nonies, comma 1, della l. n. 241/1990) avrebbe dovuto suggerire –come detto– una scelta più attenta e rispettosa verso la consolidata posizione di affidamento ingenerato nel privato ricorrente circa la legittimità degli atti di concessione rilasciatigli (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 02.10.2007, n. 5074) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 07.03.2012 n. 1130 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALISolo l'attribuzione a privati dell'utilizzazione di beni del demanio o del patrimonio indisponibile dello Stato o dei comuni è sempre riconducibile, ove non risulti diversamente, alla figura della concessione-contratto, atteso che il godimento dei beni pubblici, stante la loro destinazione alla diretta realizzazione di interessi pubblici, può essere legittimamente attribuito ad un soggetto diverso dall'ente titolare del bene, entro certi limiti e per alcune utilità, solo mediante concessione amministrativa, con la conseguenza che le controversie attinenti al suddetto godimento sono riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, quando non abbiano ad oggetto indennità, canoni ed altri corrispettivi (art. 113, c. 1, lett. b, c.p.a.). Qualora, invece, si tratti di beni del patrimonio disponibile dello Stato o dei comuni, il cui godimento sia stato concesso a terzi dietro corrispettivo, al di là del nomen iuris che le parti contraenti abbiano dato al rapporto, viene a realizzarsi lo schema privatistico della locazione e le controversie da esso insorgenti sono attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario.
---------------
I beni pubblici sono classificati in tre categorie fondamentali: demanio, patrimonio indisponibile e patrimonio disponibile, e solo le prime due categorie identificano la figura tipica dei beni pubblici in senso stretto, caratterizzati da una serie di regole e principi comuni, tutti qualificati dalla specialità delle norme applicabili.
Per i beni patrimoniali indisponibili in quanto destinati ad un pubblico servizio, ai sensi dell'art. 826 c.c., comma 3, deve pertanto sussistere il doppio requisito (soggettivo ed oggettivo) della manifestazione di volontà dell'ente titolare del diritto reale pubblico, e perciò un atto amministrativo da cui risulti la specifica volontà dell'ente di destinare quel determinato bene ad un pubblico servizio, e l'effettiva ed attuale destinazione del bene al pubblico servizio.

Osserva preliminarmente il Collegio come solo l'attribuzione a privati dell'utilizzazione di beni del demanio o del patrimonio indisponibile dello Stato o dei comuni è sempre riconducibile, ove non risulti diversamente, alla figura della concessione-contratto, atteso che il godimento dei beni pubblici, stante la loro destinazione alla diretta realizzazione di interessi pubblici, può essere legittimamente attribuito ad un soggetto diverso dall'ente titolare del bene, entro certi limiti e per alcune utilità, solo mediante concessione amministrativa, con la conseguenza che le controversie attinenti al suddetto godimento sono riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, quando non abbiano ad oggetto indennità, canoni ed altri corrispettivi (art. 113, c. 1, lett. b, c.p.a.). Qualora, invece, si tratti di beni del patrimonio disponibile dello Stato o dei comuni, il cui godimento sia stato concesso a terzi dietro corrispettivo, al di là del nomen iuris che le parti contraenti abbiano dato al rapporto, viene a realizzarsi lo schema privatistico della locazione e le controversie da esso insorgenti sono attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario (Cassazione civile Sez. un., 27.05.2009 n. 12251, TAR Puglia, Lecce, Sez. II, 03.04.2007 n. 1497).
Rientra dunque in tale giurisdizione l'impugnazione di un provvedimento di autotutela avente ad oggetto un'area appartenente al patrimonio disponibile detenuta da un soggetto privato in ragione di un contratto di affitto e non di una concessione di bene pubblico (Consiglio di Stato, Sez. V, 06.12.2007 n. 6259).
Chiarito quanto precede, ai fini della verifica della sussistenza della giurisdizione nella presente controversia, occorre qualificare la natura del bene oggetto della convenzione revocata con gli atti impugnati, tenuto conto che le questioni relative alla natura demaniale o patrimoniale (disponibile e indisponibile) di determinati beni possono essere decisi dal giudice amministrativo incidentur tantum e senza valore extra procedurale (TAR Toscana Firenze, sez. III, 29.03.2006, n. 1135).
Osserva a tal fine il Collegio che i beni pubblici sono classificati in tre categorie fondamentali: demanio, patrimonio indisponibile e patrimonio disponibile, e che solo le prime due categorie identificano la figura tipica dei beni pubblici in senso stretto, caratterizzati da una serie di regole e principi comuni, tutti qualificati dalla specialità delle norme applicabili (TAR Campania, Salerno, Sez. II, 16.04.2010 n. 3931). Per i beni patrimoniali indisponibili in quanto destinati ad un pubblico servizio, ai sensi dell'art. 826 c.c., comma 3, deve pertanto sussistere il doppio requisito (soggettivo ed oggettivo) della manifestazione di volontà dell'ente titolare del diritto reale pubblico, e perciò un atto amministrativo da cui risulti la specifica volontà dell'ente di destinare quel determinato bene ad un pubblico servizio, e l'effettiva ed attuale destinazione del bene al pubblico servizio (Cass., Sez. Un., 27.11.2002, n. 16831).
Nella fattispecie de qua è di tutta evidenza come il bene affidato alla ricorrente non possa ascriversi alla detta categoria dei beni patrimoniali indisponibili, difettando, anche in virtù della concessione di che trattasi, il requisito della destinazione a pubblico servizio.
La stessa ricorrente riferisce infatti di essere “società avente ad oggetto il commercio all’ingrosso e al minuto di piante, fiori articoli di giardinaggio, nonché la coltivazione di prodotti agricoli”, che l’area di che trattasi è stata adibita all’esercizio delle proprie attività, e pertanto con installazione di una serra, di un magazzino e di un deposito attrezzi, e che la stessa ha sempre corrisposto al Comune un canone annuo, nel corso degli anni.
La “concessione” dell’area di che trattasi ha avuto l’unico fine per il Comune di produrre un reddito, non potendosi ravvisare alcuna destinazione ad un pubblico servizio, atteso il carattere imprenditoriale e commerciale della ricorrente, che ha utilizzato l’area onde esercitare la propria attività produttiva.
A diverse conclusioni non può indurre nemmeno l’obbligo per l’affidatario di consentire, una volta al mese, l’accesso alle coltivazioni da parte delle scolaresche, né il suo impegno a curare talune aiuole site nel territorio comunale (inserito con la convenzione rep. n. 2758 del 15.05.1997), trattandosi di un modus di consistenza tale da non incidere, per la sua modesta entità quantitativa e qualitativa, in termini di servizio pubblico, sulla natura rapporto.
Né infine può assumere rilievo il fatto che l’area di che trattasi fosse ricompresa nell’ambito di una zona “verde attrezzato comunale”, e successivamente destinata ad “attrezzature pubbliche di livello comunale”.
Affinché un bene non appartenente al demanio necessario possa rivestire il carattere pubblico proprio dei beni patrimoniali indisponibili in quanto destinati ad un pubblico servizio, ai sensi dell'art. 826, comma 3, c.c., deve infatti sussistere il già citato doppio requisito soggettivo ed oggettivo, per cui non è a tal fine sufficiente la semplice previsione dello strumento urbanistico circa la destinazione di un' area alla realizzazione di una finalità di interesse pubblico (Cass. Civ., Sez. Un., 28.06.2006 n. 14865).
Ad abundantiam, osserva ancora il Collegio come il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo nella presente controversia sia confermato anche dall’esame dei motivi di ricorso, incentrati sulla violazione dei principi dell’autotutela, come codificati nella L. n. 241/1990. Tuttavia, il chiaro tenore letterale dell’art. 3 della convenzione per cui è causa, lungi dall’attribuire al Comune un potere unilaterale di recesso fondato sulla sopravvenienza di interessi pubblici, si limita a conferire al medesimo, in via convenzionale, la possibilità di recedere anticipatamente dal rapporto negoziale, peraltro con un congruo preavviso, di ben dodici mesi.
La diversa figura della concessione-contratto, le cui controversie sono attribuite alla giurisdizione del giudice amministrativo, è infatti caratterizzata dalla contemporanea presenza di elementi pubblicistici e privatistici, sicché la p.a. viene a trovarsi in una posizione particolare e privilegiata rispetto all'altra parte in quanto dispone, oltre che dei diritti e delle facoltà che nascono comunemente dal contratto, di poteri che derivano direttamente dalla necessità di assicurare il pubblico interesse in quel particolare settore cui inserisce la concessione.
La revoca di una concessione amministrativa è, quindi, ben differente dal recesso anticipato dai contratti di durata, in quanto essa si ricollega alla potestà che la legge eccezionalmente attribuisce alla p.a. concedente di intervenire dall'esterno nel rapporto concessorio, anche senza una clausola convenzionale "ad hoc", invece presente nella fattispecie per cui è causa (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 07.03.2012 n. 763 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTINon è possibile disporre l'esclusione per carenze che non siano così espressamente sanzionate dalla lex specialis, così come, nell'incertezza circa l'interpretazione della portata precettiva di una clausola ambigua, deve accordarsi prevalenza all'interesse pubblico alla più ampia partecipazione dei concorrenti.
... Solo l’art. 7 del capitolato speciale, in materia di “campionatura”, dopo aver previsto l’obbligo di consegna “presso il Servizio di Farmacia”, sanciva infatti che “la mancata presentazione dei campioni nel luogo e nei termini stabiliti comporterà l’esclusione dalla gara”, laddove invece l’art. 13, disciplinante le “modalità di presentazione dell’offerta”, non riportava la detta clausola.
Non è pertanto possibile disporre l'esclusione per carenze che non siano così espressamente sanzionate dalla lex specialis, così come, nell'incertezza circa l'interpretazione della portata precettiva di una clausola ambigua, deve accordarsi prevalenza all'interesse pubblico alla più ampia partecipazione dei concorrenti (TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, 20.04.2011 n. 595).
La fattispecie de qua è peraltro analoga a quella recentemente decisa da TAR Liguria Sez. II 18.01.2012 n. 86, in cui si è impugnato un provvedimento di esclusione, con riferimento a quanto disposto nella lettera d’invito laddove, indicato nell’ufficio protocollo il luogo di consegna, si specificava che l’amministrazione non avrebbe risposto della mancata ricezione in tempo utile di buste recapitate presso la portineria o in luoghi diversi da quello prescritto dalla presente lettera d’invito. Con principio di diritto che il Collegio condivide, il TAR Liguria ha accolto il ricorso, poiché l’indicazione del luogo di consegna, divisato nella lettera d’invito, va coordinato con le norme contenute nel codice dei contratti pubblici, ed in particolare con l’art. 77, comma 7, D.Lgs. n. 163/2006, secondo cui è rimessa all’operatore economico la scelta delle modalità con cui presentare la domanda di partecipazione.
Da quanto precede deriva che, qualora l’operatore economico, intenda consegnare direttamente la domanda di partecipazione ed il plico presso la stazione appaltante deve presentarli presso l’ufficio protocollo, “viceversa qualora invece, come nel caso che ne occupa, opti per un diverso mezzo trovano applicazione i criteri di forma documentale che ordinariamente ne consacrano la tempestiva presentazione” (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 07.03.2012 n. 746 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’ordine di demolizione, in presenza di opere realizzate senza titolo abilitativo, e pertanto abusive, è atto dovuto.
E tale è l’opera di cui si tratta, giacché l’inottemperanza alla prescrizione di demolizione di parte del fabbricato preesistente e la mancata realizzazione dell’opera urbanizzativa di cui si è detto implicano che essa sia caratterizzata da variazioni essenziali rispetto al progetto assentito e pertanto riconducibile nel campo di applicazione dell’art. 31 D.P.R. 380 del 2001.
Ne consegue che, nella specie, trova applicazione il disposto di cui al comma 2 dell'art. 31 del D.P.R. 380 del 2001, ai sensi del quale, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza del permesso di costruire, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione delle opere abusive.
---------------
Gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata; ne consegue che, proprio in ragione di tale natura, la loro adozione non è impedita dalla pendenza di un giudizio di impugnazione avente ad oggetto, come nella specie, il diniego dell’istanza di sanatoria.
Ciò in quanto la validità, ovvero l’efficacia dell’ordine di demolizione, non risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di un’istanza di sanatoria, non rinvenendosi nel sistema una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto. Nondimeno, la presentazione di detta istanza determina inevitabilmente un arresto dell’efficacia dell’ordine di demolizione, all’evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell’istanza stessa, la demolizione di un’opera che, pur realizzata in assenza o difformità dal permesso di costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica vigente. In tale eventualità, si ritiene che l’efficacia dell’atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che l’atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza. Ne consegue che, all’esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell’istanza, l’ordine di demolizione è destinato a rimanere privo di effetti in ragione dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso sia al momento della presentazione della domanda, con conseguente venir meno dell’originario carattere abusivo dell’opera realizzata. Di contro, in caso di rigetto dell’istanza, l’ordine di demolizione riacquista la sua efficacia, con la sola precisazione che il termine concesso per l’esecuzione spontanea della demolizione deve decorrere dal momento in cui il diniego di sanatoria perviene a conoscenza dell’interessato.
---------------
Data la natura vincolata degli atti della procedura di repressione delle violazioni edilizie, gli stessi non devono essere preceduti da alcuna comunicazione di avvio del relativo procedimento.

L’ordine di demolizione, in presenza di opere realizzate senza titolo abilitativo, e pertanto abusive, è atto dovuto (giurisprudenza costante: fra le più recenti TAR Campania Napoli, sez. II, n. 2042 del 20.04.2009; TAR Campania Napoli, sez. VI, 14.07.2008, n. 8761; TAR Campania Napoli, sez. VII, 05.06.2008, n. 5244; Consiglio Stato, sez. IV, 06.06.2008, n. 2705).
E tale è, certamente, l’opera di cui si tratta, giacché l’inottemperanza alla prescrizione di demolizione di parte del fabbricato preesistente e la mancata realizzazione dell’opera urbanizzativa di cui si è detto implicano che essa sia caratterizzata da variazioni essenziali rispetto al progetto assentito e pertanto riconducibile nel campo di applicazione dell’art. 31 D.P.R. 380 del 2001.
Ne consegue che, nella specie, trova applicazione il disposto di cui al comma 2 dell'art. 31 del D.P.R. 380 del 2001, ai sensi del quale, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza del permesso di costruire, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione delle opere abusive.
Ciò che è legittimamente avvenuto nel caso di specie, tenuto conto che per giurisprudenza pacifica gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (TAR Campania-Napoli – Sez. II - Sentenza 13.07.2009 n. 3871); ne consegue che, proprio in ragione di tale natura, la loro adozione non è impedita dalla pendenza di un giudizio di impugnazione avente ad oggetto, come nella specie, il diniego dell’istanza di sanatoria.
Ciò in quanto la validità, ovvero l’efficacia dell’ordine di demolizione, non risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di un’istanza di sanatoria, non rinvenendosi nel sistema una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto. Nondimeno, la presentazione di detta istanza determina inevitabilmente un arresto dell’efficacia dell’ordine di demolizione, all’evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell’istanza stessa, la demolizione di un’opera che, pur realizzata in assenza o difformità dal permesso di costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica vigente. In tale eventualità, si ritiene che l’efficacia dell’atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che l’atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza. Ne consegue che, all’esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell’istanza, l’ordine di demolizione è destinato a rimanere privo di effetti in ragione dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso sia al momento della presentazione della domanda, con conseguente venir meno dell’originario carattere abusivo dell’opera realizzata. Di contro, in caso di rigetto dell’istanza, l’ordine di demolizione riacquista la sua efficacia, con la sola precisazione che il termine concesso per l’esecuzione spontanea della demolizione deve decorrere dal momento in cui il diniego di sanatoria perviene a conoscenza dell’interessato (TAR Campania–Napoli Sez. II - Sentenza 14.09.2009 n. 4961).
Tuttavia, l’ipotesi appena rappresentata diverge da quella per cui è causa per l’assorbente rilievo che, nel caso di specie, l’ordine di demolizione è successivo al rigetto dell’istanza di sanatoria. Non ricorrono, pertanto, le condizioni che avrebbero potuto porre l’ordine de quo in una situazione di quiescenza.
Quanto, poi, alla violazione degli obblighi di comunicazione di avvio del procedimento, in relazione al verbale di sopralluogo, ed al successivo atto di significazione dell’acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale -in disparte la considerazione secondo cui è affermazione consolidata in giurisprudenza quella secondo cui, data la natura vincolata degli atti della procedura di repressione delle violazioni edilizie– gli stessi non devono essere preceduti da alcuna comunicazione di avvio del relativo procedimento (cfr. C.d.S Sez. V - 08.02.2011 n. 840; TAR Campania Napoli, sez. II, n. 2042 del 20.04.2009; id. sez. IV, 01.08.2008, n. 9710), e ciò anche alla luce di quanto disposto dall'art. 21-octies della legge 07.08.1990 n. 241, che esclude possa essere annullato un provvedimento qualora sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (Consiglio Stato, sez. VI, 06.06.2008, n. 2733)– va evidenziato, ad ogni modo, che nella vicenda che si esamina, come risulta dagli atti di causa, l’amministrazione comunale ha comunicato, in data 12.09.2008 con nota prot. n. 12444 del 29.08.2008, alla società ricorrente l’avvio del procedimento previsto dall’art. 31 D.P.R. 380 del 2001 assolvendo, perciò, pienamente agli oneri di comunicazione a suo carico.
Non si ravvisano inoltre i denunciati vizi di violazione dell’art. 31 del D.P.R. 380 del 2001, ovvero di eccesso di potere per difetto di presupposto e contraddittorietà dei provvedimenti impugnati, per il contrasto tra i beni indicati nell’ordinanza di demolizione e quelli indicati nell’atto di significazione, in ragione del fatto che occorre interpretare il provvedimento di acquisizione in proprietà nel suo complesso – coordinando, quindi, il riferimento in esso contenuto ai provvedimenti presupposti (l’ordine di demolizione) e l’oggetto dell’atto di significazione, espressamente riferito “agli immobili sopra individuati” e cioè quelli di cui al suddetto ordine di demolizione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 07.03.2012 n. 741 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL’art. 49 del codice dei contratti pubblici prevede che, in caso di ricorso all’istituto dell’avvalimento, l’impresa concorrente, in aggiunta alle dichiarazioni previste dall’art. 38, debba altresì allegare alla propria domanda di partecipazione una serie di dichiarazioni rese dall’impresa ausiliaria aventi eterogenea natura.
In primo luogo l’impresa ausiliaria, in quanto destinata a sostituirsi alla impresa aggiudicataria nella esecuzione di parte della commessa, deve anche essa rendere le dichiarazioni attestanti la moralità professionale dei propri amministratori ed il possesso degli altri requisiti generali previsti dall’art. 38 del codice dei contratti pubblici. Essa deve, inoltre, attestare il possesso dei requisiti tecnici e delle risorse che intende fornire all’impresa ausiliata e di non trovarsi in rapporti di controllo con altri soggetti che partecipano alla gara.
Le predette dichiarazioni di scienza, essendo del tutto omologhe a quelle che anche l’impresa partecipante deve allegare al fine di attestare il possesso dei requisiti di partecipazione, devono rispettarne le medesime forme e, quindi, essere redatte mediante dichiarazione sostitutiva ex DPR 28.12.2000, n. 445, così come prevede il comma 2° dell’art. 38 del D.Lgs. 163 del 2006.
In secondo luogo l’impresa ausiliaria deve impegnarsi anche verso la stazione appaltante a mettere a disposizione della concorrente ausiliata le risorse di cui questi sia carente, contraendo, in tal modo un'obbligazione accessoria e dipendente rispetto a quella principale del concorrente che si perfeziona con l'aggiudicazione.
Sia le dichiarazioni di scienza relative al possesso dei requisiti che la manifestazione di volontà diretta a contrarre l’impegno di messa a disposizione dei mezzi a favore del partecipante alla gara richiedono la sottoscrizione in originale del rappresentante legale dell’impresa ausiliaria.
Quanto alle prime, l’efficacia probatoria che l’art. 38 del DPR 445 del 2000 annette alle dichiarazioni sostitutive nei rapporti fra cittadino e pubblica amministrazione è sempre subordinata alla sussistenza della sottoscrizione originale del dichiarante, anche nel caso in cui venga prodotta la copia fotostatica della sua carta di identità. La produzione della copia della carta di identità, infatti, costituisce una modalità di autenticazione della firma alternativa alla attestazione del pubblico ufficiale relativa alla identità del suo autore, ma non vale in alcun modo a garantire la conformità all’originale della copia fotostatica della dichiarazione.
A ciò si aggiunga che, in base all’art. 19 del DPR 445/2000, le dichiarazioni di scienza o di volontà provenienti da privati non appartengono alle categorie di documenti rispetto alle quali la attestazione legale di conformità all’originale può essere effettuata mediante dichiarazione sostitutiva. E, in ogni caso, anche la dichiarazione di conformità richiede la sottoscrizione originale che, nel caso di specie, manca del tutto.
Lo stesso discorso deve ripetersi con riguardo agli impegni che la società ausiliaria deve contrarre anche nei confronti della stazione appaltante.
Non può, infatti, attribuirsi alcun valore impegnativo ad una copia fotostatica priva della sottoscrizione originale del dichiarante, in assenza di ogni garanzia della sua conformità all’originale.
---------------
Circa la questione se la mancata sottoscrizione delle dichiarazioni previste dall’art. 49 del d.lgs. 163/2006 possa essere sanzionata con l’esclusione dalla gara, in assenza di una specifica previsione della lex specialis, occorre ricordare che la violazione di prescrizioni imposte ai partecipanti dalla legge o dal bando non comporta l’esclusione solo nei casi in cui ciò sia stato espressamente previsto dalla stazione appaltante. Infatti, la mancata osservanza di previsioni che non abbiano carattere meramente formale, ma rivestano un particolare rilievo ai fini del rispetto del principio della par condicio o della tutela dell’interesse dell’Amministrazione alla serietà ed alla attendibilità dell’offerta, comporta l’esclusione dalla gara anche in assenza di una corrispondente previsione del bando o della lettera di invito.
Con riguardo alle dichiarazioni relative alla moralità professionale previste dall’art. 38 del D.Lgs. 163 del 2006 parte della giurisprudenza ha ritenuto che, in assenza di una specifica previsione della lex specialis, la loro omissione o incompletezza non possa comportare l’esclusione.
Tale principio vale anche per le dichiarazioni dell’impresa ausiliaria nel caso in cui, anche in assenza di una formale attestazione, risulti che, nella sostanza, i suoi amministratori non abbiano riportato condanne penali tali da minarne la moralità professionale.
Lo stesso ragionamento, tuttavia, non sembra potersi automaticamente applicare anche alle dichiarazioni con cui l’impresa ausiliaria attesti di possedere i requisiti tecnici che sono oggetto di avvalimento, essendovi un evidente interesse della stazione appaltante ad accertare ex ante la sussistenza dei requisiti di qualificazione.
Ma ciò che, sicuramente, deve escludersi è che possa mancare la sottoscrizione dell’impegno della società ausiliaria di mettere a disposizione dei propri mezzi a favore della società offerente.
Si tratta, infatti, di un impegno che deve essere contratto anche nei confronti della stazione appaltante, divenendo un elemento integrativo dell’offerta (senza il quale la prestazione promessa non è giuridicamente e praticamente realizzabile).
Deve, perciò applicarsi anche a tale dichiarazione il principio giurisprudenziale secondo cui assolvendo la sottoscrizione la funzione di assicurare provenienza, serietà, affidabilità e insostituibilità dell'offerta, essa costituisce elemento essenziale per la sua ammissibilità, la cui mancanza ne inficia, pertanto, la validità e la ricevibilità senza che sia necessaria, ai fini dell'esclusione, una espressa previsione della legge di gara.
A ciò si aggiunga che la mancata sottoscrizione dell’offerta è considerata dall’art. 46 del D.Lgs. 163 del 2006 (novellato dal D.L. 70 del 2011) come causa tassativa di esclusione in quanto ne rende incerta la provenienza.

Stante l’articolazione del motivo del ricorso incidentale e delle difese svolte sul punto dalla Società ricorrente, al fine di vagliare la sua fondatezza appare necessario prima di tutto verificare a quali requisiti di forma siano soggette le dichiarazioni delle imprese ausiliarie previste dall’art. 49 del D.Lgs. 163 del 2006 e, in secondo luogo, quale sia la rilevanza della mancata osservanza dei predetti oneri formali.
L’art. 49 del codice dei contratti pubblici prevede che, in caso di ricorso all’istituto dell’avvalimento, l’impresa concorrente, in aggiunta alle dichiarazioni previste dall’art. 38, debba altresì allegare alla propria domanda di partecipazione una serie di dichiarazioni rese dall’impresa ausiliaria aventi eterogenea natura.
In primo luogo l’impresa ausiliaria, in quanto destinata a sostituirsi alla impresa aggiudicataria nella esecuzione di parte della commessa, deve anche essa rendere le dichiarazioni attestanti la moralità professionale dei propri amministratori ed il possesso degli altri requisiti generali previsti dall’art. 38 del codice dei contratti pubblici. Essa deve, inoltre, attestare il possesso dei requisiti tecnici e delle risorse che intende fornire all’impresa ausiliata e di non trovarsi in rapporti di controllo con altri soggetti che partecipano alla gara.
Le predette dichiarazioni di scienza, essendo del tutto omologhe a quelle che anche l’impresa partecipante deve allegare al fine di attestare il possesso dei requisiti di partecipazione, devono rispettarne le medesime forme e, quindi, essere redatte mediante dichiarazione sostitutiva ex DPR 28.12.2000, n. 445, così come prevede il comma 2° dell’art. 38 del D.Lgs. 163 del 2006.
In secondo luogo l’impresa ausiliaria deve impegnarsi anche verso la stazione appaltante a mettere a disposizione della concorrente ausiliata le risorse di cui questi sia carente, contraendo, in tal modo un'obbligazione accessoria e dipendente rispetto a quella principale del concorrente che si perfeziona con l'aggiudicazione (Cons. Stato, VI, 13.05.2010, n. 2956).
Sia le dichiarazioni di scienza relative al possesso dei requisiti che la manifestazione di volontà diretta a contrarre l’impegno di messa a disposizione dei mezzi a favore del partecipante alla gara richiedono la sottoscrizione in originale del rappresentante legale dell’impresa ausiliaria.
Quanto alle prime, questo Tribunale ha già avuto modo di chiarire che l’efficacia probatoria che l’art. 38 del DPR 445 del 2000 annette alle dichiarazioni sostitutive nei rapporti fra cittadino e pubblica amministrazione è sempre subordinata alla sussistenza della sottoscrizione originale del dichiarante, anche nel caso in cui venga prodotta la copia fotostatica della sua carta di identità. La produzione della copia della carta di identità, infatti, costituisce una modalità di autenticazione della firma alternativa alla attestazione del pubblico ufficiale relativa alla identità del suo autore, ma non vale in alcun modo a garantire la conformità all’originale della copia fotostatica della dichiarazione (TAR Lombardia, Sez. I, 03.02.2010, n. 501).
A ciò si aggiunga che, in base all’art. 19 del DPR 445/2000, le dichiarazioni di scienza o di volontà provenienti da privati non appartengono alle categorie di documenti rispetto alle quali la attestazione legale di conformità all’originale può essere effettuata mediante dichiarazione sostitutiva. E, in ogni caso, anche la dichiarazione di conformità richiede la sottoscrizione originale che, nel caso di specie, manca del tutto.
Lo stesso discorso deve ripetersi con riguardo agli impegni che la società ausiliaria deve contrarre anche nei confronti della stazione appaltante.
Non può, infatti, attribuirsi alcun valore impegnativo ad una copia fotostatica priva della sottoscrizione originale del dichiarante, in assenza di ogni garanzia della sua conformità all’originale.
Passando all’esame della questione se la mancata sottoscrizione delle dichiarazioni previste dall’art. 49 possa essere sanzionata con l’esclusione dalla gara, in assenza di una specifica previsione della lex specialis, occorre ricordare che la violazione di prescrizioni imposte ai partecipanti dalla legge o dal bando non comporta l’esclusione solo nei casi in cui ciò sia stato espressamente previsto dalla stazione appaltante. Infatti, la mancata osservanza di previsioni che non abbiano carattere meramente formale, ma rivestano un particolare rilievo ai fini del rispetto del principio della par condicio o della tutela dell’interesse dell’Amministrazione alla serietà ed alla attendibilità dell’offerta, comporta l’esclusione dalla gara anche in assenza di una corrispondente previsione del bando o della lettera di invito.
Con riguardo alle dichiarazioni relative alla moralità professionale previste dall’art. 38 del D.Lgs. 163 del 2006 parte della giurisprudenza ha ritenuto che, in assenza di una specifica previsione della lex specialis, la loro omissione o incompletezza non possa comportare l’esclusione.
Tale principio vale anche per le dichiarazioni dell’impresa ausiliaria nel caso in cui, anche in assenza di una formale attestazione, risulti che, nella sostanza, i suoi amministratori non abbiano riportato condanne penali tali da minarne la moralità professionale.
Lo stesso ragionamento, tuttavia, non sembra potersi automaticamente applicare anche alle dichiarazioni con cui l’impresa ausiliaria attesti di possedere i requisiti tecnici che sono oggetto di avvalimento, essendovi un evidente interesse della stazione appaltante ad accertare ex ante la sussistenza dei requisiti di qualificazione.
Ma ciò che, sicuramente, deve escludersi è che possa mancare la sottoscrizione dell’impegno della società ausiliaria di mettere a disposizione dei propri mezzi a favore della società offerente.
Si tratta, infatti, di un impegno che deve essere contratto anche nei confronti della stazione appaltante, divenendo un elemento integrativo dell’offerta (senza il quale la prestazione promessa non è giuridicamente e praticamente realizzabile; per una fattispecie analoga TAR Lazio sez. III, Roma, 04.06.2008, n. 5477).
Deve, perciò applicarsi anche a tale dichiarazione il principio giurisprudenziale secondo cui assolvendo la sottoscrizione la funzione di assicurare provenienza, serietà, affidabilità e insostituibilità dell'offerta, essa costituisce elemento essenziale per la sua ammissibilità, la cui mancanza ne inficia, pertanto, la validità e la ricevibilità senza che sia necessaria, ai fini dell'esclusione, una espressa previsione della legge di gara (Cons. Stato, sez. V 25.01.2011, n. 528).
A ciò si aggiunga che la mancata sottoscrizione dell’offerta è considerata dall’art. 46 del D.Lgs. 163 del 2006 (novellato dal D.L. 70 del 2011) come causa tassativa di esclusione in quanto ne rende incerta la provenienza.
L’accoglimento del predetto motivo di ricorso incidentale ha valore escludente e determina, quindi, il difetto di legittimazione ad agire della ricorrente principale che, non potendo partecipare alla gara, non ha titolo a contestarne l’esito e le modalità di svolgimento (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 07.03.2012 n. 728 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl terzo leso dagli effetti della D.I.A. potrà giovarsi unicamente dell’azione avverso il silenzio, senza che possano residuare ulteriori strumenti di tutela.
Quanto ai rimedi esperibili dal terzo controinteressato rispetto alla D.I.A., il Consiglio di Stato, con l’Adunanza Plenaria n. 15 del 29.07.2011, aveva stabilito che la D.I.A. non costituisce un provvedimento tacito formatosi per il decorso del termine, essendo invece una mera dichiarazione del privato rivolta all’amministrazione competente. Pertanto, secondo detta pronuncia, l’oggetto del giudizio, che vede come ricorrente il terzo leso dagli effetti della D.I.A., non può essere l’assenso tacito all’esercizio dell’attività, piuttosto, il terzo avrà l’onere d’impugnare l’inerzia dell’amministrazione, la quale, omettendo di esercitare i propri poteri inibitori, ha determinato la formazione di un provvedimento tacito di diniego di adozione di tali provvedimenti inibitori.
Nel caso di specie, la ricorrente sembra essersi adeguata a tale pronuncia del Consiglio di Stato nel momento in cui ha chiesto “l’annullamento del provvedimento tacito per silentium formatosi sulla D.I.A. a seguito del mancato esercizio da parte del Comune di Garda del potere inibitorio”.
Tuttavia, con l’art. 6 del D.L. n. 138 del 13.08.2011, convertito nella legge n. 148 del 2011, il legislatore è nuovamente intervenuto sulla materia, aggiungendo all’art. 19 della legge n. 241 del 1990 un comma 6-ter, il quale afferma che “la segnalazione certificata d’inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività si riferiscono ad attività liberalizzate e non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso d’inerzia, esperire l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3 del D.lgs. 02.07.2010, n. 104”.
Pertanto, il legislatore, pur recependo l’orientamento del Consiglio di Stato sulla natura giuridica della D.I.A. (oggi S.C.I.A.), come atto del privato non immediatamente impugnabile, si discosta da tale decisione quanto ai rimedi esperibili dal terzo controinteressato, il quale ha ora a disposizione solo l’azione prevista dall’art. 31 c.p.a. per i casi di silenzio della P.A. .
Dunque, quell’azione di annullamento del provvedimento tacito di diniego dei provvedimenti inibitori, introdotta solo per via giurisprudenziale dal Consiglio di Stato, è stata definitivamente espunta dal nostro ordinamento da parte del legislatore, che ha attribuito al terzo leso dagli effetti della D.I.A. (oggi S.C.I.A.) l’azione di cui all’art. 31 c.p.a. .
Peraltro, tra le correzioni ed integrazioni del Codice del processo amministrativo introdotte da ultimo dal D.lgs. 15.11.2011, entrato in vigore il 09.12.2011, vi è l’introduzione, all’art. 31, comma 1, dopo le parole “decorsi i termini per la conclusione del procedimento amministrativo”, della frase “e negli altri casi previsti dalla legge” cui segue il periodo, rimasto immutato “chi vi ha interesse può chiedere l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere”.
Il riferimento agli “altri casi previsti dalla legge” nei quali è possibile agire, dunque, ex art. 31 c.p.a., a prescindere dal decorso dei termini per la conclusione del procedimento, è chiaramente diretto al nuovo comma 6-ter dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990.
Pertanto, tale ultima integrazione dell’art. 31 c.p.a., consente di agire nei confronti del silenzio della P.A. mantenuto dopo la presentazione della S.C.I.A. o della D.I.A., ben prima della scadenza del termine finale assegnato all’amministrazione per l’esercizio del potere repressivo o modificativo, e sin da quando la S.C.I.A. o la D.I.A. vengano presentate e il terzo venga a conoscenza della loro utilizzazione.
In tal caso l’azione avrà ad oggetto, più che il silenzio, direttamente l’accertamento dei presupposti di legge per l’esercizio dell’attività oggetto della segnalazione, con i conseguenti effetti conformativi in ordine ai provvedimenti spettanti all’autorità amministrativa.
In definitiva, il rinvio operato dal legislatore all’istituto del silenzio, non riduce in maniera significativa l’ambito di tutela del quale il terzo si può giovare, considerato anche che quest’ultimo, pur trascorso il termine assegnato all’amministrazione per l’esercizio del potere inibitorio, potrà sollecitare tramite diffida, oltre l’esercizio del potere di autotutela, anche l’esercizio dei poteri sanzionatori e repressivi sempre spettanti all’amministrazione in materia edilizia e, fintantoché l’inerzia perduri e comunque non oltre un anno dalla scadenza del termine per l’adempimento, potrà esperire l’azione di cui all’art. 31 c.p.a., richiamata dal comma 6-ter dell’art. 19 L. 241/1990.
In conclusione, sulla base del nuovo quadro normativo, applicabile, ratione temporis al ricorso in esame, il terzo leso dagli effetti della D.I.A. potrà giovarsi unicamente dell’azione avverso il silenzio, senza che possano residuare ulteriori strumenti di tutela (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 05.03.2012 n. 298 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPresupposto per l’adozione dell’ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l’accertamento dell’abuso, e non necessita, quindi, di una particolare motivazione in ordine alle disposizioni normative che si assumono violate, né in ordine all’interesse pubblico alla rimozione dell’abuso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato.
L'ordine di demolizione non può ritenersi viziato di illegittimità per il solo fatto di non essere stato notificato anche al comproprietario, atteso che, in mancanza di tale notifica, spetta al comproprietario pretermesso di far valere con autonoma impugnativa le proprie doglianze entro il termine decorrente dalla piena conoscenza del provvedimento di demolizione; in tal caso, il comproprietario stesso non può limitarsi a dedurre la sola mancata previa notifica degli atti, bensì deve aggredire il merito della controversia, ad esempio contestando l'abusività dell'opera oppure dichiarando la propria disponibilità a demolirla oppure ancora adducendo altre circostanze che precludano la legittima acquisizione gratuita.

Per la giurisprudenza maggioritaria, presupposto per l’adozione dell’ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l’accertamento dell’abuso, e non necessita, quindi, di una particolare motivazione in ordine alle disposizioni normative che si assumono violate, né in ordine all’interesse pubblico alla rimozione dell’abuso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV, 28.12.2009, n. 9638; Sez. VI, 09.11.2009, n. 7077; Sez. VII, 04.12.2008, n. 20987) Pres. Veneziano, Est. Polidori -D.S.A. e altro (avv. Noceroni) c. Comune di Sant’Antonio Abate (avv. Perillo) - TAR CAMPANIA, Napoli, Sez. VII - 06.05.2011, n. 2562.
Si deve, inoltre, convenire circa il rilievo della resistente e con riferimento alla constatazione che nell’atto della ricorrente non sia effettivamente presente l’indicazione di un “qualche” vizio in relazione al quale risulterebbe inficiato il provvedimento di demolizione del 1999.
La ricorrente sostiene genericamente il mutamento della situazione di fatto rispetto al 1999, mutamento che peraltro contrasta con la verifica posta in essere dalla polizia municipale del comune di Venezia nel corso del Gennaio 2011.
Non appare nemmeno rilevante l’ulteriore eccezione della ricorrente circa la mancata notifica alla comproprietaria del provvedimento impugnato e, in ciò, considerando gli orientamenti giurisprudenziali prevalenti (Cds 12.04.2011 n. 2266 e TAR LIGURIA, Sez. I - 22.01.2011, n. 150) nella parte in cui si è affermato che ... "L'ordine di demolizione non può ritenersi viziato di illegittimità per il solo fatto di non essere stato notificato anche al comproprietario, atteso che, in mancanza di tale notifica, spetta al comproprietario pretermesso di far valere con autonoma impugnativa le proprie doglianze entro il termine decorrente dalla piena conoscenza del provvedimento di demolizione; in tal caso, il comproprietario stesso non può limitarsi a dedurre la sola mancata previa notifica degli atti, bensì deve aggredire il merito della controversia, ad esempio contestando l'abusività dell'opera oppure dichiarando la propria disponibilità a demolirla oppure ancora adducendo altre circostanze che precludano la legittima acquisizione gratuita" (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 05.03.2012 n. 297 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'avvenuta presentazione dell'istanza di condono edilizio rende priva di rilevanza l'impugnativa di un ordine di demolizione di un'opera abusiva e, dunque, rende il ricorso improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse.
La parte ricorrente successivamente all’impugnativa, posta in essere con ricorso principale e con riferimento all’Ordinanza di ingiunzione del 28.03.2011, ha depositato presso il Comune resistente un’istanza di sanatoria relativa agli stessi manufatti oggetto del provvedimento di riduzione in pristino.
Nei motivi aggiunti le ricorrenti hanno motivato la presentazione di detta istanza di sanatoria affermando che “l’istanza di sanatoria è stata presentata al solo unico fine di stimolare un nuovo intervento del comune sulla questione evitando così il protrarsi di un lungo contenzioso in un’ottica di collaborazione con la P.A.”.
Risulta al contrario evidente che il comportamento diretto a presentare un’istanza di condono a seguito dell’impugnativa del provvedimento di riduzione in pristino delle stesse opere di cui si controverte faccia comunque desumere la volontà di “superare” l’impugnativa in origine proposta e, determini, il sopraggiunto difetto di interesse alla prosecuzione dell’originario giudizio.
Sul punto non si può non condividere quanto sostenuto da una recente Giurisprudenza in base alla quale ...”l'avvenuta presentazione dell'istanza di condono edilizio rende priva di rilevanza l'impugnativa di un ordine di demolizione di un'opera abusiva e, dunque, rende il ricorso improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse (TAR Lazio Roma Sez. II-bis, sent. n. 8306 del 15.09.2008 e TAR Emilia-Romagna Bologna Sez. II, 29.04.2008)” (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 05.03.2012 n. 289 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa disciplina di cui all’art. 13 della L. n. 47/1985, confermata con l’art. 36 del D.P.R. 380/2001, richiede l'accertamento, da parte del responsabile dell’istruttoria, della sussistenza della c.d. “doppia conformità” delle opere realizzate.
L’accertamento del rispetto delle distanze va effettuato sulla base dell’effettivo stato dei fatti e dei luoghi, a prescindere, pertanto, dalla legittimità della costruzione, rispetto alla quale deve essere verificata la permanenza della distanza minima, proprio a tutela di quell’interesse pubblico alla salubrità degli assetti urbanistici, al quale non è possibile derogare.
---------------
Non si possono rilasciare concessioni edilizie in sanatoria “con prescrizione”, in quanto in tal modo gli immobili abusivi vengono resi conformi ex post agli strumenti urbanistici, così violando l’osservanza della “doppia conformità” richiesta dalla legge, che va accertata senza concedere alcun potere discrezionale alla P.A..

... il Tribunale adito, richiamando la disciplina di cui all’art. 13 della L. n. 47/1985, confermata con l’art. 36 del D.P.R. 380/2001, la cui univoca interpretazione si è consolidata in giurisprudenza, anche di questo C.G.A. (cfr. decisione n. 941/2009), ha correttamente ritenuto che nel caso di specie andasse richiesto l’accertamento, da parte del responsabile dell’istruttoria, della sussistenza della c.d. “doppia conformità” delle opere realizzate; conformità, cioè, sia agli strumenti urbanistici vigenti alla data di rilascio della prima concessione edilizia, portante il n. 30/2004, sia a quelli in vigore alla data di rilascio della concessione edilizia in sanatoria n. 37/2005.
Con riferimento a questi ultimi requisiti, il TAR li ha ritenuti insussistenti perché dal progetto allegato all’istanza di concessione edilizia in sanatoria si evinceva la necessità di eseguire ulteriori opere per rendere l’edificio abusivo conforme agli strumenti urbanistici vigenti, per cui, atteso che la C.E. in sanatoria era da considerare alla stregua di una nuova concessione, risultava evidente la carenza del necessario presupposto della “doppia conformità”.
Il TAR adito, infatti, ha condivisibilmente rilevato che, al momento della presentazione dell’istanza di rilascio della concessione edilizia in sanatoria, esisteva il vano porta nella parete dell’edificio frontista, per cui risultava violato il requisito della prescritta distanza dei 10 metri tra un edificio e l’altro, atteso che tale distanza veniva misurata in ml. 9,1, a nulla rilevando il fatto che l’apertura del vano porta era stata eseguita abusivamente; in tal senso il Giudice di prime cure ha richiamato a sostegno della propria decisione la giurisprudenza amministrativa formatasi nella materia de qua, secondo cui l’accertamento del rispetto delle distanze va effettuato sulla base dell’effettivo stato dei fatti e dei luoghi, a prescindere, pertanto, dalla legittimità della costruzione, rispetto alla quale deve essere verificata la permanenza della distanza minima, proprio a tutela di quell’interesse pubblico alla salubrità degli assetti urbanistici, al quale non è possibile derogare (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 30.12.2006, n. 8262).
---------------
Al riguardo, il Giudice di prime cure ha, invece, condivisibilmente argomentato con puntuale riferimento all’orientamento giurisprudenziale imperante in materia, secondo cui non si possono rilasciare concessioni edilizie in sanatoria “con prescrizione”, in quanto in tal modo gli immobili abusivi vengono resi conformi ex post agli strumenti urbanistici, così violando l’osservanza della “doppia conformità” richiesta dalla legge, che va accertata senza concedere alcun potere discrezionale alla P.A. (C.G.A.R.S., sentenza 29.02.2012 n. 242 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La verifica delle offerte anormalmente basse, sulla base delle giustificazioni presentate dai concorrenti, è compito che spetta alla Commissione giudicatrice, chiamata dall’amministrazione a valutare le varie offerte e ad aggiudicare la gara e non ad un ufficio dell'Amministrazione, anche se tale ufficio risulta competente nel settore al quale attiene l'oggetto della gara.
L'ufficio può, infatti, dare pareri di ordine tecnico, ragguagli ed altri elementi utili alla valutazione delle offerte, ma non può essere rimesso allo stesso il giudizio definitivo sulla congruità delle offerte, allorché sia costituita una apposita Commissione.
Pertanto la procedura in esame deve ritenersi viziata nella parte in cui la verifica dell'anomalia è stata rimessa e decisa da un dirigente del Comune e non dalla commissione esaminatrice.

Nell’esame dell’appello proposto dalla Società San Giorgio va accolto il primo motivo, che reitera una censura già formulata con il ricorso originario, con il quale l’appellante ha dedotto l’illegittimità della verifica dell'offerta anomala della controinteressata in quanto non effettuata dalla Commissione di gara ma dal Dirigente del Settore finanziario del Comune che ha valutato la relazione trasmessa dalla G.O.SAF. e ha anche disposto la successiva aggiudicazione della gara a detta società.
Infatti, la verifica delle offerte anormalmente basse, sulla base delle giustificazioni presentate dai concorrenti, è compito che spetta alla Commissione giudicatrice, chiamata dall’amministrazione a valutare le varie offerte e ad aggiudicare la gara e non ad un ufficio dell'Amministrazione, anche se tale ufficio risulta competente nel settore al quale attiene l'oggetto della gara.
L'ufficio può, infatti, dare pareri di ordine tecnico, ragguagli ed altri elementi utili alla valutazione delle offerte, ma non può essere rimesso allo stesso il giudizio definitivo sulla congruità delle offerte, allorché sia costituita una apposita Commissione.
Pertanto la procedura in esame deve ritenersi viziata nella parte in cui la verifica dell'anomalia è stata rimessa e decisa da un dirigente del Comune e non dalla commissione esaminatrice (Cons. St., V Sez., 23.05.2002, n. 2579) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.06.2008 n. 3108 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: La pubblicazione all’albo pretorio del Comune è prescritta dall’art. 124 T.U. n. 267/2000 per tutte le deliberazioni del comune e della provincia ed essa riguarda non solo le deliberazioni degli organi di governo (consiglio e giunta municipali) ma anche le determinazioni dirigenziali, esprimendo la parola “deliberazione” ab antiquo sia risoluzioni adottate da organi collegiali che da organi monocratici ed essendo l’intento quello di rendere pubblici tutti gli atti degli Enti locali di esercizio del potere deliberativo, indipendentemente dalla natura collegiale o meno dell’organo emanante.
L'art. 21, comma primo, L. 06.12.1971 n. 1034 del 1974, nel testo novellato dalla L. 21.07.2000 n. 205 ha chiarito definitivamente che in tutti i casi in cui non sia necessaria la notificazione individuale del provvedimento e sia al contempo prescritta da una norma di legge o di regolamento la pubblicazione dell'atto in un apposito albo, il termine per proporre l'impugnazione decorre dal giorno in cui sia scaduto il periodo della pubblicazione.
Viene perciò confermato quell'indirizzo giurisprudenziale secondo il quale il normale termine decadenziale per ricorrere contro gli atti amministrativi soggetti a pubblicazione necessaria, decorre per i soggetti non espressamente nominati, dalla pubblicazione medesima, non essendo indispensabile la notificazione individuale o la piena conoscenza (cfr. la decisione di questa Sezione n. 2428 del 23.04.2001).
Inoltre, la pubblicazione all’albo pretorio del Comune è prescritta dall’art. 124 T.U. n. 267/2000 per tutte le deliberazioni del comune e della provincia ed essa riguarda non solo le deliberazioni degli organi di governo (consiglio e giunta municipali) ma anche le determinazioni dirigenziali, esprimendo la parola “deliberazioneab antiquo sia risoluzioni adottate da organi collegiali che da organi monocratici ed essendo l’intento quello di rendere pubblici tutti gli atti degli Enti locali di esercizio del potere deliberativo, indipendentemente dalla natura collegiale o meno dell’organo emanante (V. Corte cost. nn. 38 e 39 dell'01.06.1979 e Cons. di Stato, sez. IV, n. 1129 del 06.12.1977).
Detta conclusione ha trovato recentemente conferma nella decisione di questa Sezione n. 3058 del 03.06.2002 e nella sentenza TAR Lazio, sez. II, n. 3958 del 31.10.2003, mentre i precedenti indicati dal TAR a conforto della propria tesi non sono pertinenti in quanto la decisione di questa Sezione n. 762/2004 riguarda provvedimenti delle Aziende sanitarie e la decisione sez. VI n. 1239/2003 concerne provvedimenti dell’Ufficio marittimo del Ministero dei trasporti e della navigazione, mentre nella specie si tratta di provvedimenti comunali (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 15.03.2006 n. 1370 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La funzione delle zone di rispetto cimiteriale non è ricollegabile ai comuni criteri urbanistici di tutela del regolare sviluppo degli insediamenti sul territorio, ma a diverse e varie esigenze di tutela del bene demaniale, quali in particolare:
1) assicurare condizioni di igiene e di salubrità mediante la conservazione di una “cintura sanitaria” intorno al cimitero;
2) garantire la tranquillità ed il decoro ai luoghi di sepoltura, salvaguardando il sentimento di pietas verso i defunti;
3) consentire future espansioni dell’edificio cimiteriale.

... per l'annullamento delle delibere della Giunta Comunale del 14.5.2003 n. 110 e del 20.8.2003 n. 181, recanti rispettivamente l’approvazione del progetto di ampliamento e la riduzione della zona di rispetto del cimitero; 
...
Ritenuto:
- che l’art. 338 del vigente R.D. 24/07/1934 n. 1265 (Testo unico delle leggi sanitarie), fissa in 200 metri la distanza minima inderogabile dei cimiteri dal centro abitato, salve le eccezioni previste dalla legge;
- che il medesimo articolo stabilisce che “il Consiglio comunale può approvare, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la costruzione di nuovi cimiteri o l'ampliamento di quelli già esistenti ad una distanza inferiore a 200 metri dal centro abitato, purché non oltre il limite di 50 metri, quando ricorrano, anche alternativamente, le seguenti condizioni:
   a) risulti accertato dal medesimo consiglio comunale che, per particolari condizioni locali, non sia possibile provvedere altrimenti;
   b) l'impianto cimiteriale sia separato dal centro urbano da strade pubbliche almeno di livello comunale, sulla base della classificazione prevista ai sensi della legislazione vigente, o da fiumi, laghi o dislivelli naturali rilevanti, ovvero da ponti o da impianti ferroviari
.”
- che la funzione delle zone di rispetto non è ricollegabile ai comuni criteri urbanistici di tutela del regolare sviluppo degli insediamenti sul territorio, ma a diverse e varie esigenze di tutela del bene demaniale, quali in particolare:
   1) assicurare condizioni di igiene e di salubrità mediante la conservazione di una “cintura sanitaria” intorno al cimitero;
   2) garantire la tranquillità ed il decoro ai luoghi di sepoltura, salvaguardando il sentimento di pietas verso i defunti;
   3) consentire future espansioni dell’edificio cimiteriale.
Rilevato:
- che nella fattispecie l’organo competente a statuire la riduzione delle zone di rispetto è inequivocabilmente il Consiglio comunale, ai sensi della disposizione sopra citata;
- che la delibera di approvazione del piano delle opere pubbliche non può sostituire lo specifico provvedimento tipico normativamente stabilito;
- che, in violazione della puntuale disposizione legislativa, gli atti contestati non hanno neppure dato conto dell’impossibilità di perseguire soluzioni alternative, le quali tra l’altro erano state prospettate nel progetto preliminare, il quale contemplava l’ampliamento nei lati sud e ovest del cimitero ... (TAR Lombardia-Brescia, sentenza 03.06.2004 n. 613 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - LAVORI PUBBLICINel caso di costruzione di nuovi cimiteri o di ampliamento di quelli esistenti, la competenza all’approvazione dei relativi progetti appartiene in ogni caso al Consiglio Comunale, e ciò sia se l’opera sia esterna alla fascia di rispetto dei 200 metri, e quindi nell’ipotesi di localizzazione ordinaria, sia se venga ubicata ad una distanza a questa inferiore, ben potendo, tra l’altro, lo stesso organo consiliare ridurre addirittura la fascia di rispetto medesima.
La ratio ispiratrice di una competenza speciale dell’organo consiliare in materia di approvazione di progetti di opere cimiteriali deve essere individuata nell’esigenza di sottoporre alla discussione democratica ed al controllo da parte dell’organo rappresentativo di tutta la comunità locale l’opportunità circa la realizzazione di strutture che assumono particolare rilevanza, sia in riferimento ad esigenze di tutela igienico-sanitaria che di valore ambientale, oltre che per quanto concerne non secondari aspetti di natura affettiva e morale appartenenti all’intera collettività.
---------------
Analogamente a quanto avviene per il progetto, anche gli studi di fattibilità (per l'ampliamento del cimitero comunale) devono essere preventivamente sottoposti all’esame del Consiglio Comunale e non anche della Giunta.
---------------
La competenza a procedere sia a modificazioni del Programma Triennale che all’aggiornamento dell’elenco annuale –come nel caso di specie in cui la realizzazione dell’opera pubblica in questione era stata anticipata nell’anno 2003 in luogo della originaria previsione per il 2004– appartiene al Consiglio Comunale e non anche alla Giunta, secondo il chiaro tenore letterale dell’art. 42, secondo comma, lett. b), del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267.

L’art. 55 del D.P.R. 10.09.1990 n. 285 stabilisce che “I progetti di ampliamento dei cimiteri esistenti e di costruzione dei nuovi devono essere preceduti da uno studio tecnico delle località, specialmente per quanto riguarda l'ubicazione, l'orografia, l'estensione dell'area e la natura fisico-chimica del terreno, la profondità e la direzione della falda idrica e devono essere deliberati dal consiglio”.
Inoltre, l’art. 28 della legge 01.08.2002 n. 166, modificativo dell’art. 338 R.D. 24.07.1934, n. 1265, prevede che i cimiteri debbano essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato; detta norma prevede, inoltre, che “il consiglio comunale può approvare, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la costruzione di nuovi cimiteri o l'ampliamento di quelli già esistenti ad una distanza inferiore a 200 metri dal centro abitato, purché non oltre il limite di 50 metri, quando ricorrano, anche alternativamente, due condizioni:
a) risulti accertato dal medesimo consiglio comunale che, per particolari condizioni locali, non sia possibile provvedere altrimenti;
b) l'impianto cimiteriale sia separato dal centro urbano da strade pubbliche almeno di livello comunale, sulla base della classificazione prevista ai sensi della legislazione vigente, o da fiumi, laghi o dislivelli naturali rilevanti, ovvero da ponti o da impianti ferroviari
”.
Infine, ai fini che qui interessano, la medesima norma stabilisce che “per dare esecuzione ad un'opera pubblica o all'attuazione di un intervento urbanistico, purché non vi ostino ragioni igienico-sanitarie, il consiglio comunale può consentire, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto degli elementi ambientali di pregio dell'area, autorizzando l'ampliamento di edifici preesistenti o la costruzione di nuovi edifici”.
Da tale complesso normativo discende che, nel caso di costruzione di nuovi cimiteri o di ampliamento di quelli esistenti, la competenza all’approvazione dei relativi progetti appartiene in ogni caso al Consiglio Comunale, e ciò sia se l’opera sia esterna alla fascia di rispetto dei 200 metri, e quindi nell’ipotesi di localizzazione ordinaria, sia se venga ubicata ad una distanza a questa inferiore, ben potendo, tra l’altro, lo stesso organo consiliare ridurre addirittura la fascia di rispetto medesima.
La ratio ispiratrice di una competenza speciale dell’organo consiliare in materia di approvazione di progetti di opere cimiteriali deve essere individuata nell’esigenza di sottoporre alla discussione democratica ed al controllo da parte dell’organo rappresentativo di tutta la comunità locale l’opportunità circa la realizzazione di strutture che assumono particolare rilevanza, sia in riferimento ad esigenze di tutela igienico-sanitaria che di valore ambientale, oltre che per quanto concerne non secondari aspetti di natura affettiva e morale appartenenti all’intera collettività.
Con riferimento al caso di specie, si tratta della realizzazione di un ampliamento del cimitero comunale rientrante entro la fascia di rispetto dei 200 metri, circostanza non contestata dall’Amministrazione resistente e risultante dalla documentazione tecnica depositata agli atti del giudizio; inoltre, la deliberazione di Giunta Municipale n. 81 dell’11.04.2003 di approvazione del progetto preliminare, la cui adozione era stata giustificata da esigenze di rinnovazione procedimentale, si caratterizza per la sua autonomia rispetto ai precedenti provvedimenti approvativi del progetto preliminare dell’opera (ossia la deliberazione di Giunta n. 328 del 03.11.1999, annullato in sede di autotutela, e quella di Consiglio n. 7 dell’11.02.1998 avente ad oggetto la progettazione originaria), per cui non vi è dubbio alcuno che, ratione temporis, il regime giuridico che deve essere considerato ai fini della corretta individuazione del procedimento da seguire è quello introdotto dall’art. 338 T.U.L.S. come modificato dall’art. 28 della legge 01.08.2002 n. 166.
In conclusione, non solo la competenza in merito all’approvazione dei progetti relativi alle opere cimiteriali de quibus apparteneva al Consiglio Comunale (TAR Campania, V Sezione, 03.07.2003 n. 9298) e non anche alla Giunta, ma l’Amministrazione avrebbe dovuto anche specificamente seguire il procedimento previsto dall’art. 338 T.U.L.S. come modificato dall’art. 28 della legge 01.8.2002 n. 166.
In tal senso parimenti fondata è la doglianza, contenuta nel quinto motivo di ricorso, relativa al dedotto vizio di incompetenza ascrivibile alla violazione dell’art. 55 del D.P.R. 10.09.1990 n. 285, posto che, analogamente a quanto avviene per il progetto, anche gli studi di fattibilità avrebbero dovuto essere preventivamente sottoposti all’esame del Consiglio Comunale e non anche della Giunta.
Deve, pertanto, concludersi per l’accoglimento del primo e quinto motivo di ricorso, con consequenziale annullamento della deliberazione di Giunta Municipale n. 81 dell’11.04.2003 avente ad oggetto l’approvazione del progetto preliminare dell’opera pubblica de qua, nonché per invalidità derivata, di quelle n. 99 del 05.05.2003 e n. 116 del 14.05.2003, rispettivamente di approvazione dei progetti definitivo ed esecutivo della medesima, oltre che dell’impugnato decreto di occupazione di urgenza e comunicazione di presa di possesso e redazione dello stato di consistenza, con assorbimento del secondo, quarto, sesto motivo di censura e restanti profili del primo.
Parimenti fondato è il terzo motivo di censura con cui parte ricorrente ha impugnato la deliberazione n. 94 del 28.04.2003 con cui la Giunta Municipale di Barano d’Ischia aveva modificato l’elenco dei lavori da realizzare nell’anno 2003 in riferimento al Programma Triennale dei Lavori Pubblici per il triennio 2003/2005.
Infatti, la competenza a procedere sia a modificazioni del Programma Triennale che all’aggiornamento dell’elenco annuale –come nel caso di specie in cui la realizzazione dell’opera pubblica in questione era stata anticipata nell’anno 2003 in luogo della originaria previsione per il 2004– appartiene al Consiglio Comunale e non anche alla Giunta, secondo il chiaro tenore letterale dell’art. 42, secondo comma, lett. b), del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267.
Deve pertanto concludersi per la fondatezza del motivo di ricorso con consequenziale annullamento della deliberazione della Giunta Municipale di Barano d’Ischia n. 94 del 28.04.2003 (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 21.01.2004 n. 228 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 16.03.2012

ã

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 11 del 16.03.2012, "Norme per la valorizzazione del patrimonio edilizio esistente e altre disposizioni in materia urbanistico-edilizia" (L.R. 13.03.2012 n. 4).
---------------
Al riguardo, si leggano anche i seguenti commenti:
La legge sulla casa e sull'edilizia approvata a maggioranza;
I punti chiave della legge.

ENTI LOCALI - VARI: G.U. 09.03.2012 n. 58 "Norme sul divieto di utilizzo e di detenzione di esche o di bocconi avvelenati" (Ministero della Salute, ordinanza 10.02.2012).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

URBANISTICA: Istruzioni per la pianificazione locale della RER (Rete Ecologica Regionale) - febbraio 2012 (Regione Lombardia, comunicato 23.02.2012 n. 4026 di prot.).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

PUBBLICO IMPIEGO: Ancora a proposito di TFR e TFS.
Evidentemente il troppo sapere a volte fa perdere la dimensione del reale e porta a sconclusionate teorie che non aiutano i lavoratori a comprendere e nascondono altre finalità.
Per un ultimo tentativo di chiarire, anche a chi non ha intenzione di capire, il senso e la portata della nostra iniziativa in materia di ritenute sul trattamento di fine servizio:
- la UIL PA ha invitato i lavoratori a presentare una formale diffida alle amministrazioni per la cessazione della ritenuta del 2,5%, considerata illegittima, in ciò confortata dal parere dei propri legali e da pronunce giurisdizionali, come quella del TAR di Reggio Calabria;
- la UIL PA si farà carico completamente, senza nulla chiedere ai lavoratori, delle spese relative ad eventuali cause pilota, una volta ottenuta risposta negativa o in mancanza di risposta dalle amministrazioni; (... continua) (13.03.2012 - link a www.uilpa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: M. Ferrari, Emergenza neve e attività lavorativa (tratto dalla newsletter di www.publika.it n. 47 - febbraio 2012).

ENTI LOCALI: L. Bellagamba, I contratti di sponsorizzazione dopo il terzo decreto “Monti”. Il settore dei beni culturali (14.03.2012 - link a www.linobellagamba.it).

LAVORI PUBBLICI: L. Bellagamba, Lavori: l’illogicità della giurisprudenza sull’inammissibilità dell’avvalimento parziale (12.03.2012 - link a www.linobellagamba.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: F. Giampietro, Bonifica e danno ambientale: due discipline a confronto (parte prima) (link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: U. Ricciardi, L’esecuzione dell’ordine di demolizione e le problematiche connesse (link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: F. Magnosi, Principi di tutela penale ed amministrativa del Paesaggio (link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: S. Camonita, Strade vicinali e regime giuridico-normativo (link a www.filodiritto.com).

AMBIENTE-ECOLOGIA: A. Scarcella, Nuovi «ecoreati» ed estensione ai reati ambientali del D.Lgs. n. 231/2001 sulla responsabilità degli enti (link a www.ipsoa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: A. Muratori, Finalmente le «regole» per la gestione dei pneumatici fuori uso (link a www.ipsoa.it).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Liquidazione incentivi progettazione.
Sulle modalità di liquidazione dei compensi in oggetto ed in relazione all' intervenuta abrogazione della norma (art. 61, comma 7-bis, L. 133/2008) che aveva ridotto la percentuale dal 2% allo 0,5%, la Corte dei Conti Sez. Reg.le Toscana, con parere 13.03.2012 n. 35, si allinea all'interpretazione fornita dalla Sezione Autonomie con deliberazione 23.04.2009 n. 7, anche se inerente altra norma (comma 7-bis ora abrogato), ricavandone un principio di diritto utilizzabile nella fattispecie in esame.
Ritiene, quindi, la Sezione toscana:
"In sostanza dal compimento dell'attività nasce il diritto al compenso, intangibile dalle disposizioni riduttive, che non hanno efficacia retroattiva .... Ciò perché, ai fini della nascita del diritto quello che rileva è il compimento effettivo dell'attività; dovendosi, anzi, tenere conto, per questo specifico aspetto, che per le prestazioni di durata, cioè quelle che non si esauriscono in una puntuale attività, ma si svolgono lungo un certo arco di tempo, dovrà considerarsi la frazione temporale di attività compiuta (Sez. Autonomie citata).
Tanto premesso appare condivisibile ed estendibile questo principio anche al caso di specie in considerazione del fatto che il compimento dell'attività costituisce il momento in cui nasce il diritto (diritto soggettivo di natura retributiva) in capo al soggetto e la conseguente liquidazione del compenso spettante
" (tratto da www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Interpretazione dell’art. 1, comma 557, della legge 27.12.2006, n. 296. Effetto prenotativo.
L’art. 1, comma 557, della legge 27.12.2006, n. 296, va interpretato nel senso che, qualora siano programmate nuove assunzioni in un determinato esercizio con avvio delle relative procedure, appare coerente consentire all’ente di portarne a conclusione l’iter anche se le assunzioni dovessero essere concretamente effettuate nell’esercizio successivo.
Ciò, naturalmente, a condizione che lo slittamento sia dovuto a cause non imputabili all’ente stesso. In tal senso, la programmazione di nuove assunzioni con avvio delle relative procedure de termina un “effetto prenotativo” nello stesso anno sulle relative somme ai soli fini del disposto di cui all’art. 1, comma 557, della legge 27.12.2006, n. 296, senza che ciò comporti una prenotazione di impegno in senso contabile.
Ne consegue che quando e se nell’anno successivo le assunzioni verranno concretamente effettuate con impegno delle relative spese, si dovrà tener conto, ai fini del raffronto con le spese dell’anno precedente ai sensi del predetto comma 557, delle spese che seppur non impegnate risultano “prenotate” nel precedente esercizio (Corte dei Conti, Sez. controllo Basilicata, deliberazione 23.02.2012 n. 2).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: In tema di responsabilità derivante dagli oneri sostenuti dal comune per far fronte alla soccombenza in una causa civile per mobbing.
Dagli atti di causa risulta che il procuratore regionale ha esercitato l’azione di rivalsa nei confronti dell’appellante avv. G.P., comandante protempore della polizia municipale di Rosolini, presunto responsabile del fatto dannoso conseguente a mobbing, che il Comune di Rosolini, in sede civile, era stato condannato a risarcire al terzo danneggiato.
Nella sentenza appellata n. 2028/2011 sono stati correttamente ravvisati nella fattispecie all’esame gli estremi dell’ipotesi del danno indiretto che, come noto, deriva dall’esecuzione di sentenza definitiva di condanna dell’ente pubblico al risarcimento a favore di terzo danneggiato che ha convenuto in giudizio l’amministrazione ottenendone la condanna.
Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale i rapporti tra azione civile e azione di responsabilità amministrativa sono improntati all’assoluta autonomia, in considerazione dell’esistenza di un diverso petitum e di una diversa causa petendi fra l'azione di responsabilità amministrativa e l'azione civile di danno contro la P.A. Cosicché, quando si verte in ipotesi di danno cosiddetto indiretto, il pagamento al terzo costituisce il presupposto per l’esercizio dell'azione di rivalsa da parte del procuratore regionale, mentre deve essere operato un accertamento autonomo circa la sussistenza delle condizioni necessarie per pervenire ad una statuizione di condanna.
E’ pacifico, comunque, in giurisprudenza che, anche se le sentenze civili di condanna non esplicano efficacia vincolante nel giudizio di responsabilità amministrativa, il giudice contabile può trarre da quel diverso giudizio elementi utili a formare il proprio libero convincimento ex art. 116 c.p.c. (cfr. Corte conti Sez. III Appello n. 623/2005, di questa Sezione n. 297 del 2011 e n. 18 del 2012).
L’odierno appellante P.G. (convenuto nel giudizio di primo grado unitamente a G.G., sindaco pro tempore di Rosolini, e di A.M., dirigente dello stesso Comune, entrambi assolti con la sentenza n. 2028/2011), all’epoca dei fatti di causa comandante della polizia municipale di Rosolini, ha mosso specifica censura avverso la sentenza impugnata sostenendo che non sarebbero state individuate le violazioni degli obblighi di servizio all’interno della peculiare struttura del fenomeno (prima sociologico e psicologico e poi giuslavoristico) denominato mobbing, cui sarebbe stato sottoposto il dipendente comunale G.M., attore nel giudizio civile, e invece sarebbero state recepite acriticamente, in assenza di elementi di prova, le risultanze del giudicato civile dando atto della imputazione a titolo di colpa grave della responsabilità attribuita allo stesso appellante non tenendo conto del contesto organizzativo in cui i fatti sono avvenuti.
In sostanza ha lamentato l’appellante che la sua condanna al pagamento della somma di € 50.000, 00 a favore del Comune di Rosolini sarebbe stata pronunciata dal giudice di primo grado in mancanza di elementi di prova; sarebbero, infatti, insussistenti gli asseriti comportamenti attribuiti all’appellante assunti, nella qualità di comandante della Polizia municipale di Rosolini, in presunta violazione strutturale e perdurante dei doveri di buona amministrazione e dei connessi obblighi di servizio che, ove fossero stati correttamente assolti, non avrebbero consentito la verificazione del mobbing.
Tanto premesso, il Collegio osserva che l’esposta censura dell’appellante non si ritiene fondata. Infatti, da una parte, non è contestabile che il procuratore regionale abbia versato in giudizio tutti gli atti del processo civile, tra cui i verbali delle prove testimoniali formate nello stesso giudizio nelle forme di rito (v. pag. 23 della sentenza del Tribunale di Siracusa n. 91 del 2008) ed abbia acquisito la consulenza tecnica d’ufficio disposta dal giudice civile medesimo, in cui, sotto il profilo medico-legale, è stata positivamente verificata la compromissione dello stato di salute del M. ed il pregiudizio della integrità psico-fisica dello stesso come effetto degli atti di mobbing, cui era stato sottoposto in un lungo arco di tempo, e, dall’altra, che, in base a tali obiettivi elementi, la prospettazione accusatoria è stata accolta dalla sentenza appellata, la quale, per quanto riguarda la specifica posizione del P., ha individuato una serie di comportamenti integranti violazioni gravemente colpose di obblighi di servizio rientranti tipicamente nella peculiare struttura del fenomeno denominato mobbing, cui sarebbe stato sottoposto il dipendente comunale G.M.. In tale ottica risultano accertati una serie di atti di gestione del rapporto di servizio orientati o, comunque, idonei, alla persecuzione ed all’isolamento del dipendente M. con grave compromissione dell’integrità psico-fisica dello stesso.
Gli atti di gestione in questione sono certamente riconducibili all’appellante avv. G.P., quale comandante pro-tempore della polizia municipale di Rosolini dal luglio 2004 al 29.12.2004 e dal 03.03.2005 fino al 14.05.2008.
Infatti, nonostante che con sentenza 903/2003 del Tribunale di Siracusa, il M., dirigente con funzioni di vice comandante della polizia municipale di Rosolini, avesse ottenuto la condanna del Comune ad essere riassegnato alle mansioni di vice comandante dei Vigili Urbani di Rosolini, già illegittimamente revocate con assegnazione ad altro incarico, il P. si adoperava in ogni maniera a che al M., al suo rientro nel corpo della polizia municipale, non fossero attribuiti compiti di responsabilità compatibili con la figura del vicecomandante della polizia municipale praticamente escludendolo dai servizi e dalle funzioni in cui venivano coinvolti tutti gli altri componenti della polizia municipale.
Il P. si rendeva autore dell’ordine di servizio n. 19724 del 18.06.2004 nel quale, con disposizioni, apparentemente conformi al regolamento di polizia municipale, impartiva al rientrante M. di svolgere le proprie mansioni, non di vice comandante, bensì di istruttore direttivo di vigilanza nell’Unità Operativa di viabilità e, con il chiaro intento di isolarlo, disponeva che fosse distaccato in locali lontani dalla sede del Comando di polizia municipale senza assegnazione di alcuna vettura di servizio e con obbligo di timbrare la presenza in servizio negli stessi locali distaccati senza alcun contatto con la sede ordinaria del Comando di polizia municipale.
Nella sentenza civile si dà atto che le condotte illecite poste in essere, innanzitutto dal P., che hanno determinato il demansionamento, l’isolamento e la discriminazione del M. sono state confermate dai testi escussi nel processo civile; in base a dette prove testimoniali è stato attestato senza ombra di dubbio che il M. è stato sostanzialmente privato delle mansioni attinenti alla sua qualifica, gli è stato impedito di svolgere la funzione di vice comandante in palese violazione delle disposizioni del regolamento sui servizi ed uffici comunali; è stato privato della divisa, dell’arma, del tesserino, degli strumenti di lavoro (bollettario delle contravvenzioni) senza alcuna giustificazione; è stato relegato in postazione di lavoro (presso il Palazzo di Città) diversa da sede ordinaria del comando di polizia municipale, in locali di risulta (i locali erano utilizzati anche come deposito di scatoloni e materiali per le pulizie – v. pag.30 della sentenza n. 91 del 2008 del Tribunale di Siracusa in atti); gli ausiliari formalmente sottoposti al coordinamento del M., come da ordini di servizio del 18.06.2004 e dell’08.07.2004 del comandante P., dovevano nei fatti rivolgersi solo allo stesso comandante P. e, in effetti, erano solo da questi coordinati come confermato dai testi escussi (cfr. deposizioni testimoniali di C., I., G., G. ed I.).
Per i fini che qui interessano, altra prova inequivoca di condotta illecita del P. con intenti vessatori e persecutori del M., fra le tante indicate nell’atto di citazione, è quanto riportato nella sentenza del Tribunale di Siracusa n. 91 del 2008 (v. pag. 30), ove è riferita la circostanza che il comandante P., odierno appellante, nell’imminenza del rientro del M. nel Corpo della polizia municipale, incontrava in luogo estraneo all’ufficio (precisamente nei locali di un bar presso una stazione di servizio Agip sulla strada statale 115) vari appartenenti al corpo di polizia municipale invitandoli sostanzialmente a non avere alcun tipo di rapporto con il M. (cfr. verbali di assunzione di sommarie informazioni e, inoltre, deposizione dei testi S., I., C., I.) e, questo, dopo avere preannunciato, pochi giorni dopo che era stata emessa la sentenza del Tribunale di Siracusa n. 937/2003 di riassegnazione del M. alle funzioni di vicecomandante, che “fino a quando c’era lui il M. non sarebbe mai tornato al comando di polizia municipale”.
Risulta, pertanto, provato che sia da imputare principalmente al P. -cui, ai fini della responsabilità amministrativa azionata nei suoi confronti dal pubblico ministero per rivalere il Comune della condanna subita nel giudizio civile, è chiaramente ascrivibile un comportamento soggettivo di colpa grave- l’elusione, come messo in evidenza nella sentenza appellata, della statuizione della sentenza del Tribunale di Siracusa n. 903 del 2003 che ordinava al Comune di Rosolini di riassegnare al M. le funzioni di vice comandante della polizia municipale, avendo lo stesso, dopo avere distaccato il rientrante M. presso l’Unità Organizzativa Viabilità, reiteratamente posto in essere condotte tutte inequivocabilmente dirette ad emarginare il M. attraverso l’isolamento fisico e lo svuotamento di fatto delle funzioni formalmente assegnategli.
Si rivela, altresì infondata, la censura del P. mossa alla sentenza appellata, che viene a tal fine ritenuta illogica e contraddittoria, nella parte in cui, mentre assolve la dott.ssa A., in relazione alla brevità (all’incirca quattro mesi) della durata della condotta vessatoria ad essa imputata nei confronti del M., non adotta lo stesso criterio per quanto riguarda il P., la cui asserita condotta mobbizzante, iniziata con l’emissione della disposizione di servizio del 18.06.2004 n. 19724, sarebbe cessata il 29.12.2004 allorché ha assunto servizio di comandante della polizia municipale del Comune di Campobello di Licata; da ciò avrebbe dovuto dedursi che anche la condotta del P. era stata di breve periodo tenuto conto dell’addotto insegnamento della Cassazione che richiede un tempo di almeno sei mesi perché una condotta possa considerarsi lesiva in quanto espressiva di mobbing .
L’argomentazione dell’appellante non appare sorretta da valido fondamento dovendosi considerare che, se è pur vero che il P. il 29.12.2004 cessò dalle funzioni di comandante della polizia municipale di Rosolini in quanto ebbe ad assumere servizio con le stesse funzioni presso il Comune di Campobello di Licata, è anche vero che il P., usufruendo dell’istituto della mobilità, fece rientro a Rosolini il 03.03.2005 continuando a svolgere le funzioni di comandante della polizia municipale di Rosolini ininterrottamente fino al 14.05.2008, data sotto la quale, in seguito a superamento di concorso, assunse le funzioni di comandante della polizia municipale del Comune di Modica; fino a quando il P. ha mantenuto le funzioni di comandante della polizia municipale di Rosolini sono rimasti immutati per l’intero periodo gli ordini di servizio già impartiti nei confronti del M..
Nella sentenza del Tribunale di Siracusa n. 91 del 2008 è stato ben precisato che, dopo il primo trasferimento del P. avvenuto in data 29.12.2004, il M. sollecitava il sindaco G.G. all’assegnazione delle mansioni vicarie di vice comandante della polizia municipale in attesa della nomina del nuovo comandante.
Il sindaco, nonostante le chiare previsioni del mansionario dei profili professionali, nominava il segretario generale comandante facente funzioni ed il dirigente dott.ssa A. per gli affari relativi alla polizia municipale.
Il giudice civile conclude affermando, in conformità alle evidenze istruttorie processuali, che l’amministrazione comunale di Rosolini, in persona del comandante P., che era rientrato per mobilità dal Comune di Campobello di Licata, del segretario generale e dello stesso sindaco, non solo ha pervicacemente omesso di ottemperare alla sentenza n. 937/2003 arrivando a sopprimere la figura del vicecomandante della polizia municipale dalla dotazione organica, ma ha continuato ad isolare il M. fisicamente e psicologicamente.
Da ciò è facile dedurre gli atti di gestione del rapporto di servizio orientati o, comunque, idonei, alla persecuzione ed all’isolamento del dipendente M. con grave compromissione dell’integrità psico-fisica dello stesso (come accertato nella consulenza tecnica d’ufficio esperita nel giudizio civile) si sono protratti fino alla suddetta data del 14.05.2008.
Tenuto conto, comunque, che non sia da escludere che a determinare la situazione di mobbing, cui è stato assoggettato il M. nell’arco dell’intero periodo suindicato, abbiano concorso con i loro comportamenti anche il segretario generale ed il sindaco pro-tempore, come messo in evidenza nella predetta sentenza n. 91 del 2008 del Tribunale di Siracusa, il Collegio ritiene che il danno da porre a carico dell’appellante sia definitivamente determinato in € 25.000,00 oltre interessi e rivalutazione monetaria con effetto dalla data in cui, in esecuzione della sentenza civile e della successiva transazione, sono state liquidate dal Comune le somme dovute al terzo danneggiato (Corte dei Conti, Sez. giurisdizionale d'appello per la Regione siciliana - sentenza 22.02.2012 n. 78 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Per il danno indiretto prodotto all’amministrazione come conseguenza della condanna del Comune medesimo in un giudizio civile, attivato da un dipendente che era stato rimosso (ingiustamente) da una funzione istituzionale (comandante del Corpo della polizia municipale), precedentemente assegnata dallo stesso sindaco; la rimozione, fra l’altro, ha prodotto anche la condanna del sindaco in sede penale per il reato di abuso di ufficio.
L’atto di revoca dell’incarico, individuato dalla difesa quale momento iniziale del termine, invero è stato soltanto fonte di una responsabilità penale per il ..., ma non di una responsabilità amministravo-contabile per danno erariale, che si è concretizzata solo a seguito dell’azione civile promossa dalla dirigente, dott.ssa ..., per ottenere il risarcimento dei danni subiti.
Si tratta, pertanto, di danno c.d. indiretto, cagionato dal presunto responsabile ad un terzo nei cui confronti l’Amministrazione è tenuta al risarcimento. In base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale (Corte dei conti, SS.RR. n. 848/A/1993; Sez. I, n. 84/1994; Sez. I, n. 75/1996; Sez. Lazio, n. 2/1995; Sez. Lombardia, n. 355/1996; Sez. Veneto, n. 236/1998; Sez. Toscana, 1005/1999), che questa Sezione ha già ritenuto di dovere condividere (Sent. n. 83/2001 e n. 146/2006), il momento in cui tale danno si concretizza, divenendo certa la diminuzione patrimoniale per l’amministrazione, è quello in cui insorge l’obbligo giuridico di risarcire il terzo.
Tale obbligo emerge nella sua pienezza nel momento in cui il debito si sia evidenziato nell’an e nel quantum con un negozio unilaterale (riconoscimento di debito) o bilaterale (transazione) o con una sentenza definitiva di condanna della pubblica amministrazione a risarcire un terzo da un danno prodotto per inadempimento contrattuale o per fatto illecito del proprio dipendente o per altra causa.
Così, nel momento in cui per l’amministrazione viene ad esistere un titolo esecutivo con obbligazione specifica di pagamento, si completa la fattispecie illecita produttiva del danno, con la conseguenza che, essendo i fatti pienamente conosciuti ed in assenza di ostacoli giuridici all’esercizio del diritto (art. 2935 cc.), ha inizio il decorso dei termini prescrizionali ai fini dell’azione nei confronti del responsabile del danno erariale.
Le somme dovute, nel momento in cui passa in giudicato una sentenza di condanna, sono infatti sottratte alla giuridica disponibilità dell’ente pubblico che su di esse non può più contare, dovendo solo metterle a disposizione del creditore; dal punto di vista contabile il debito deve essere iscritto tra le poste passive del conto del patrimonio e si impone l’assunzione dell’impegno della spesa per fare fronte all’obbligo giuridicamente perfezionatosi.
Ciò posto, nella fattispecie in esame, poiché la sentenza è divenuta definitiva nel 2007 e l’atto di citazione è stato notificato il giorno 08.02.2010, nessuna prescrizione può ritenersi maturata.
Appare, altresì, infondato il motivo con cui l’appellante denuncia la violazione del diritto di difesa per non avere il giudice di primo grado accordato il rinvio ad altra udienza di discussione, richiesto dal convenuto impedito di partecipare al dibattimento.
Invero, il diritto di difesa delle parti nel corso del processo viene assicurato dall’ordinamento attraverso la regolare instaurazione del contraddittorio sulle domande proposte e le eccezioni sollevate da entrambe le parti e dando, altresì, la possibilità ai difensori costituiti di partecipare alle udienze istruttorie e dibattimentali. La difesa, infatti, per i giudizi di responsabilità amministrativa si esercita attraverso il patrocinio di un avvocato, che deve essere posto in grado di espletare compiutamente il suo mandato anche attraverso la sua presenza alla discussione orale. Nessuna violazione del diritto di difesa sussiste, invece, quando l’impedimento a partecipare all’udienza riguardi la parte, che se ritualmente assistita, non è destinataria di alcuna norma che imponga alcun obbligo di comunicazione personale di atti processuali.
Con il terzo motivo di appello il difensore ha contestato le modalità di applicazione dell’art. 651 c.p.p. da parte del giudice di primo grado, sostenendo che dall’esame della fattispecie criminosa, come accertata dal giudice penale, non emerge un deliberato e consapevole proposito da parte dell’appellante di recare pregiudizio al destinatario del provvedimento.
Rileva il Collegio che, ai sensi del primo comma dell’art. 651 c.p.p. che disciplina l’efficacia della sentenza penale di condanna nel giudizio civile o amministrativo, “la sentenza penale irrevocabile di condanna pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale”.
Nella fattispecie, a seguito del rigetto, da parte della Corte di Cassazione, del ricorso proposto avverso la sentenza pronunciata dalla Corte di Appello di Caltanissetta, la statuizione di condanna per abuso di ufficio a carico del sig. ... è divenuta irrevocabile, e, in applicazione dell’art. 651 c.p.p. già richiamato, fa stato nel presente giudizio di responsabilità amministrativa con efficacia vincolante in merito alla sussistenza del fatto, alla sua antigiuridicità ed alla riferibilità soggettiva dello stesso.
Appare, pertanto, del tutto infondata la pretesa difensiva di limitare il vincolo previsto dalla norma al solo elemento oggettivo della responsabilità, dato che l’accertamento della illiceità penale del fatto, che espressamente secondo la norma ha efficacia di giudicato nel giudizio risarcitorio, contiene in sé la verifica di un comportamento doloso, in mancanza del quale la condanna per la commissione del reato non avrebbe potuto essere affermata.
In definitiva, quindi, verificata l’identità del fatto contestato dal procuratore regionale con quello accertato dal giudice penale, questo giudice può limitarsi a procedere alla determinazione del quantum risarcitorio.
Sul punto il giudice di primo grado ha affermato che il danno subito dall’ente locale si è cristallizzato nell’ammontare determinato dal giudice civile con una pronuncia avente autorità di cosa giudicata
L’assunto non è condivisibile. Invero, i rapporti tra azione civile e azione di responsabilità amministrativa, sono improntati all’assoluta autonomia, in considerazione dell’esistenza di un diverso petitum e di una diversa causa petendi fra l'azione di responsabilità amministrativa e l'azione civile di danno contro la P.A.. Cosicché, quando si verte in ipotesi di danno cosiddetto indiretto, il pagamento al terzo costituisce il presupposto per l’esercizio dell'azione di rivalsa da parte del Procuratore, mentre deve essere operato un accertamento autonomo circa la sussistenza delle condizioni necessarie per pervenire ad una statuizione di condanna.
E’ pacifico, comunque, in giurisprudenza (vedi per tutte Corte conti Sez. III Appello n. 623/2005) che, anche se le sentenze civili di condanna non esplicano efficacia vincolante nel giudizio di responsabilità, il giudice contabile può trarre da quel diverso giudizio elementi utili a formare il proprio libero convincimento, ex art. 116 c.p.c..
Ciò posto la prima contestazione sull’ammontare del danno riguarda l’importo addebitato a titolo di lucro cessante. Sostiene la difesa che l’importo di € 50.000 è stato raggiunto dal giudice del lavoro attribuendo a titolo di indennità di posizione il massimo previsto, cioè lire 25.000.000 annui, e come retribuzione di risultato il 25%, mentre gli importi in concreto previsti nelle delibere sindacali dell’anno 2001 erano inferiori a quelli liquidati.
In proposito osserva il Collegio che il giudice del lavoro ha bene operato determinando gli importi dovuti sulla base di quanto previsto nei contratti collettivi di categoria. Non poteva, infatti, farsi riferimento a quanto in concreto liquidato, dato che la dirigente fu rimossa prima della fine dell’anno 2001 e, pertanto, certamente non le furono liquidate tutte le spettanze dovute, né, ai fini del percepimento della retribuzione di risultato, poté raggiungere compiutamente gli obiettivi che si era prefissa.
Con riferimento al danno qualificato da demansionamento l’appellante ne ha contestato la sussistenza, sostenendo che sia sprovvisto di prova.
Ritiene al contrario il Collegio che dal punto di vista probatorio il demansionamento risulta dagli atti ed è l’effetto della delibera di revoca dell’incarico dirigenziale. Da tale illegittimo comportamento sono derivati per la ... una serie di effetti pregiudizievoli, che sono stati esattamente valutati e quantificati dal giudice civile, cosicché anche per questa posta di danno il Collegio concorda con la determinazione effettuata nella pronuncia del giudice del lavoro, dove, esclusa la risarcibilità di un danno biologico, si è ritenuta sussistente, a causa della dequalificazione professionale, una lesione del diritto alla libera esplicazione della personalità all’esterno, ma soprattutto nell’ambiente di lavoro, anche in considerazione delle aspettative di carriera della dirigente.
In definitiva, quindi, ritiene il Collegio che l’appello debba essere respinto e confermata la sentenza di primo grado (Corte dei Conti, Sez. giurisdizionale d'appello per la Regione siciliana, sentenza 13.02.2012 n. 61 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Le sanzioni amministrative pecuniarie irrogate per illeciti riferibili a condotte di dipendenti dell’ente non possono essere addebitate al bilancio dell’Amministrazione.
1. Il presente giudizio d’appello riguarda la pronunzia con la quale l’odierno attore, direttore generale f.f. della ASL n. 5 di Crotone, è stato condannato unitamente ad altri tre dipendenti, alla rifusione della somma di € 8.908,87, corrispondente all’importo della sanzione di cui all’articolo 2 del decreto legislativo n. 758/1994, comminata per violazioni in materia di sicurezza sul lavoro; sanzione che era stata pagata a carico del bilancio dell’Azienda sanitaria, anziché degli autori delle violazioni stesse.
Il dr. T., unico appellante, lamenta: il difetto di contraddittorio nei confronti degli autori dell’illecito causa della sanzione e dei direttori generali che non agirono con l’azione di regresso; la mancata considerazione, da parte del primo Giudice, dell’esistenza di una responsabilità solidale in capo all’Azienda sanitaria; infine, la mancanza di un danno per la ASL, che avrebbe pagato le somme in questione ad un proprio servizio interno, lo S.P.I.S.A.L.
2. Ciò posto, le doglianze di parte attorea sono prive di pregio e devono pertanto essere rigettate.
2.1. Infondata, innanzi tutto, è la pretesa relativa alla (ritenuta) necessità di integrazione del contraddittorio.
Ed invero, parte appellante sembra non aver tenuto presenti petitum e (sopra tutto) causa petendi del presente giudizio contabile: nel quale, come ben noto, si fa valere la personale e diretta responsabilità dei soggetti che, titolari di un rapporto di servizio con un’amministrazione pubblica, abbiano cagionato ad essa (o altra p.a.) un danno patrimoniale ingiusto, in conseguenza dell’inosservanza dolosa o gravemente colposa dei propri doveri (art. 1 L. n. 19/1994).
E dunque, è evidente che alcun rilievo potrebbe rivestire, nella presente vicenda, la posizione degli autori dell’illecito che causò la sanzione in sede amministrativa, i quali semmai sarebbero stati da perseguire innanzi ad altro organo: ciò che qui unicamente rileva è la responsabilità connessa con il depauperamento dell’ente pubblico, il quale –è questo il titolo della condanna in prime cure– ha pagato un sanzione che sarebbe dovuta restare a carico di altri soggetti. E tale specifica (e diversa) responsabilità è stata, giustamente, imputata a chi tale pagamento dispose o, comunque, colpevolmente consentì.
Non può poi accogliersi l’altra pretesa, di integrare il contraddittorio con i vertici aziendali che non agirono in regresso verso gli autori dell’illecito; va qui confermato, infatti, che la responsabilità dell’indebito esborso è da addebitare unicamente a chi contribuì a disporre la relativa liquidazione, senza che possa avere rilievo il successivo comportamento di altri soggetti, nei confronti dei quali difetterebbe il necessario nesso di causalità con la produzione del danno per il quale è causa. Tutto ciò, a tacere della circostanza (da ritenere assorbente) che parte attrice non ha provveduto a dimostrare l’esistenza delle su dette, altrui concorrenti responsabilità.
2.2. Né migliore sorte potrebbe incontrare l’altro punto di doglianza, sull’esistenza di una responsabilità solidale dell’Azienda, che in sostanza escluderebbe, secondo l’appellante, l’illegittimità dell’operato dei dirigenti che addossarono la sanzione alla ASL.
In proposito, opera come noto il principio generale di cui all’art. 6 della legge 24.11.1981, n. 689, c.d. legge sulla depenalizzazione. Recita la norma: “1. Il proprietario della cosa che servi o fu destinata a commettere la violazione o, in sua vece, l'usufruttuario o, se trattasi di bene immobile, il titolare di un diritto personale di godimento, è obbligato in solido con l'autore della violazione al pagamento della somma da questo dovuta se non prova che la cosa è stata utilizzata contro la sua volontà.
2. Se la violazione è commessa da persona capace di intendere e di volere ma soggetta all'altrui autorità, direzione o vigilanza, la persona rivestita dell'autorità o incaricata della direzione o della vigilanza è obbligata in solido con l'autore della violazione al pagamento della somma da questo dovuta, salvo che provi di non aver potuto, impedire il fatto.
3. Se la violazione è commessa dal rappresentante o dal dipendente di una persona giuridica o di un ente privo di personalità giuridica o, comunque, di un imprenditore nell'esercizio delle proprie funzioni o incombenze, la persona giuridica o l'ente o l'imprenditore è obbligato in solido con l'autore della violazione al pagamento della somma da questo dovuta.
4. Nei casi previsti dai commi precedenti chi ha pagato ha diritto di regresso per l'intero nei confronti dell'autore della violazione
”.
Orbene, ha provveduto a chiarire in proposito la giurisprudenza che “la responsabilità dell'illecito amministrativo compiuto da soggetto che abbia la qualità di rappresentante legale della persona giuridica, grava sull'autore medesimo e non sull'ente rappresentato e solo solidalmente obbligato al pagamento delle somme corrispondenti alle sanzioni irrogate” (Cassazione, Sez. II, 13.05.2010, n. 11643) e, ancor più chiaramente, che “Nel sistema sanzionatorio delineato dalla legge 24.11.1981, n. 689, l'art. 6 sancisce il principio della responsabilità solidale della persona giuridica nell'ipotesi in cui l'illecito amministrativo sia stato commesso dal suo rappresentante o da un suo dipendente; tale responsabilità è di carattere sussidiario e deve ritenersi sussistente ogni qual volta sia stato commesso un illecito amministrativo da persona ricollegabile all'ente per aver agito nell'esercizio delle sue funzioni o incombenze, a prescindere dall'identificazione dell'autore materiale dell'illecito” (Cassazione, Sez. II, 20.11.2006, n. 24573).
Insomma, la solidarietà in questione ha carattere sussidiario perché ha il suo (logico e ovvio) fondamento nella necessità di garantire l’effettività del meccanismo sanzionatorio anche nei casi di illeciti commessi nell’ambito di attività riconducibile ad entità organizzate, in particolare laddove non sia stato possibile in concreto individuare la persona fisica autrice materiale dell'illecito (Cassazione, 25.05.2011, n. 11481/ord.). Ma non v’è dubbio che è l’autore-persona fisica dell’illecito che dovrà pagare la sanzione, e solo nel caso in cui sia impossibile tale pagamento verrà in rilievo la responsabilità della persona giuridica nell’ambito della quale il soggetto ha agito.
Nel caso all’esame, ciò che è stato contestato ai convenuti in primo grado (e ha poi giustificato la corrispondente condanna) è stato proprio il fatto che essi liquidarono l’oblazione direttamente ed immediatamente con somme provenienti dal bilancio aziendale, senza in alcun modo (tentare di) escutere gli autori delle violazioni sanzionate.
Questo Collegio non può che pienamente confermare la correttezza dell’operato del primo Collegio anche sotto tale profilo.
2.3. Da ultimo, vanno respinte le deduzioni attoree relative all’inesistenza del danno (perché le somme furono pagate allo S.P.I.S.A.L. e sarebbero affluite poi al bilancio della ASL).
In proposito, appare convincente e va condiviso quanto fatto presente in proposito dal Procuratore generale nelle proprie conclusioni: innanzi tutto, l’asserzione circa l’incameramento di dette somme da parte della ASL -una semplice partita di giro?- non risultano in alcun modo dimostrate, come sarebbe invece stato necessario da parte attrice (anzi, in linea di massima e allo stato degli atti sono decisamente da escludere).
In secondo luogo, anche con un eventuale (e non dimostrato, si ripete) versamento di dette somme nel bilancio aziendale, resterebbe comunque il danno per la medesima ASL, costituito dalla mancata riscossione dell’importo della sanzione da parte degli autori degli illeciti sanzionati: insomma, la ASL avrebbe pagato a se stessa e non avrebbe invece ricevuto quegli 8.900 euro (in più) dai soggetti tenuti al pagamento.
3. In conclusione, l’appello proposto, per tutte le ragioni innanzi esposte, si appalesa infondato e deve essere respinto.
Le spese seguono la soccombenza (
Corte dei Conti, Sez. I giurisdiz. centrale d'appello, sentenza 13.02.2012 n. 57 -
link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: C'è danno se il contratto è troppo generoso.
La
Corte dei conti, I Sez. giurisdizionale centrale, sentenza 03.02.2012 n. 52, ha fissato principi importanti sul rapporto fra contratti decentrati integrativi delle Pa che prevedano illegittime progressioni verticali e danno erariale.
Riformando il precedente verdetto di assoluzione formulato dalla Corte dei conti per la Basilicata, la Sezione centrale ha condannato il rettore, i direttori amministrativi e i componenti del cda dell'Università lucana per aver posto in essere, mediante i contratti integrativi e gli atti applicativi consequenziali, progressioni verticali del personale interno in violazione di alcuni limiti previsti dall'ordinamento.
Nell'ambito della fattispecie concreta si fa riferimento al principio della programmazione preventiva dei fabbisogni del personale e al principio dell'adeguato accesso dall'esterno nel reclutamento del personale pubblico, che prevede un valore minimo del 50% nel rapporto fra assunzioni riservate agli interni e accesso mediante concorso.
Nel caso di specie, i contratti integrativi e i successivi atti amministrativi d'inquadramento avevano consentito l'effettuazione di progressioni verticali e l'attribuzione dei relativi incrementi economici ai dipendenti beneficiari, senza che l'Amministrazione avesse precedentemente adottato un corretto programma triennale dei fabbisogni. Gli inquadramenti dei dipendenti nelle categorie immediatamente superiori, inoltre, erano avvenuti senza garantire il contemporaneo espletamento di procedure selettive di carattere concorsuale che garantissero in misura adeguata l'accesso dal l'esterno, in applicazione del principio del 50 e 50.
Le procedure interne, infatti, hanno avuto compimento indipendentemente dal l'indizione e dall'espletamento dei concorsi esterni. Inoltre, in base alle scelte effettuate dall'Amministrazione al tempo, la misura percentuale del 50% risultava calcolata sull'ammontare delle risorse disponibili e non sul numero dei posti da coprire, attesa la mancanza dei documenti programmatori previsti dall'ordinamento.
Il Giudice di primo grado, tuttavia, aveva mandato assolti i convenuti dalle censure della Procura per carenza del requisito psicologico della colpa grave, a causa, essenzialmente, della complessità e non univocità della normativa in vigore al tempo della commissione dei fatti.
Il Giudice d'appello, invece, seppur diminuendo l'importo del danno attribuito ai convenuti, ha ritenuto che i citati principi, anche se declinati da una normativa confusa e di non facile interpretazione, altro non sono che aspetti dei principi costituzionali di legalità sostanziale, imparzialità e buon andamento che devono connotare l'azione di tutte le pubbliche amministrazioni, università comprese e, in quanto tali, giustiziabili anche in sede contabile.
Appare evidente che il contenuto della sentenza, anche per l'autorevolezza del giudice da cui promana, riveste un'importanza che va oltre il mondo delle università, finendo per investire tutto il mondo delle pubbliche amministrazioni ed, in particolare, regioni ed enti locali.
Per i Giudici contabili, infatti, può essere fonte di responsabilità amministrativa la previsione contrattuale e l'effettiva esecuzione di percorsi verticali di carriera in assenza di una corretta programmazione dei fabbisogni e senza il rispetto del principio che obbliga le pubbliche amministrazioni all'espletamento di procedure selettive che garantiscano in misura adeguata l'accesso dall'esterno, secondo quanto previsto dall'articolo 35 del Dlgs 165 del 2001 (articolo Il Sole 24 Ore del 12.03.2012 - tratto da www.corteconti.it).

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA: Costruzione di elettrodotti aerei.
Domanda.
Un comune lombardo può ancorare alla tutela del paesaggio il suo diniego alla costruzione di elettrodotti aerei?
Risposta.
La legge regionale della Lombardia, numero 11, dell'11.05.2001, sulla protezione ambientale dall'esposizione a campi elettromagnetici indotti da impianti fissi per le telecomunicazioni e per la radiotelevisione, ha stabilito, all'articolo 4, comma 7, che «viste le caratteristiche tecniche delle reti per la telefonia mobile e la natura di pubblico servizio dell'attività svolta, che motivano una diffusione capillare delle stazioni impiegate a tale scopo, gli impianti radiobase per la telefonia mobile di potenza totale ai connettori di antenna non superiore a 300 W non richiedono una specifica regolamentazione urbanistica».
La legge regionale della Lombardia, n. 52, del 1982, al comma 5, dell'articolo 5 ha disposto che: «Qualora gli impianti elettrici o le relative opere accessorie interessino zone o immobili soggetti a vincolo idrogeologico o a vincolo paesaggistico ai sensi della legge 29.06.1939, n. 1497 o a vincoli derivanti dalla destinazione a riserva o a parco naturale, ovvero nel caso in cui la loro esecuzione comporti la necessità di procedere al taglio di boschi d'alto fusto, l'autorizzazione prevista dalla presente legge non può essere rilasciata se non sia stato preliminarmente acquisto il parere degli organi e degli enti preposti alla relativa tutela; tali pareri, se favorevoli, sostituiscono le autorizzazioni particolari prescritte dalla legislazione vigente nelle corrispondenti materie».
Quest'ultima disposizione, subordina, quindi, l'autorizzazione alla costruzione di impianti elettrici, o delle relative opere accessorie, che interessino zone od immobili soggetti a vincolo idrogeologico o a vincolo paesaggistico ai sensi della legge 29.06.1939, n. 1497 o a vincoli derivanti dalla destinazione a riserva o a parco naturale, ovvero nel caso in cui la loro esecuzione comporti la necessità di procedere al taglio di boschi d'alto fusto, al parere degli organi e degli enti preposti alla relativa tutela. Fra questi organi non figura il comune.
Pertanto, come affermato dal consiglio di stato, sezione V, con la sentenza del 14.02.2005, n. 2005, la normativa suddetta non consente ai comuni di introdurre limitazioni e divieti generalizzati riferiti alle zone territoriali omogenee, né consente l'introduzione di distanze fisse, da osservare rispetto alle abitazioni e ai luoghi destinati alla permanenza prolungata delle persone o al centro cittadino, quando tale potere sia rivolto a disciplinare la compatibilità dei detti impianti con la tutela della salute umana al fine di prevenire i rischi derivanti dall'esposizione della popolazione a campi elettromagnetici, anziché a controllare soltanto il rispetto dei limiti delle radiofrequenze fissati dalla normativa statale e a disciplinare profili tipicamente urbanistici (articolo ItaliaOggi sette del 12.03.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Residui.
Domanda.
Gradirei qualche puntualizzazione in materia di residui.
Risposta.
L'articolo 184-bis, comma 1, del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, che ha novellato l'articolo 183, comma 1, lettera p), del Testo unico sull'ambiente, ai fini dell'individuazione dei sottoprodotti, enuncia criteri di individuazione degli stessi in parte differenti rispetto a quelli enunciati dal predetto articolo 183, comma 1, lettera p). La nuova normativa non richiede più, per aversi un sottoprodotto, che la sostanza o l'oggetto debbano essere impiegati direttamente dall'impresa produttrice degli stessi, che la commercializzazione debba avvenire a condizioni economicamente favorevoli e che non sia necessario operare trasformazioni preliminari in un successivo processo produttivo.
Ora, ai fini dell'individuazione dei residui bisogna tenere conto di quelle operazioni che nella pratica sono dirette a rendere compatibili detti scarti, sia sotto il profilo merceologico, sia sotto il profilo ambientale, con i processi produttivi propri dell'impresa che li utilizza.
La Commissione Ce, con la comunicazione del 21.02.2007, in tema di residui e di materiali difettosi, ha affermato: «Di norma, i residui provenienti da un processo di produzione principale, o i materiali che presentano solo difetti superficiali ma la cui composizione è identica a quella del prodotto principale, come le miscele di gomma o i composti per la vulcanizzazione, trucioli e pezzetti di sughero, scarti di plastica e altre materie simili, possono essere considerati sottoprodotti. Affinché sia così devono potere essere riutilizzati direttamente nel processo di produzione principale o in altre produzioni che siano parte integrante di tale processo e per le quali il loro utilizzo sia altrettanto certo. Si può ritenere che anche questo tipo di materiali non rientra nella definizione di rifiuto. Laddove questi materiali richiedano un'operazione completa di riciclaggio o di recupero, o se contengono sostanze inquinanti che occorre eliminare prima di poterli riutilizzare o trasformare, essi devono essere considerati rifiuti fino al completamento dell'operazione di riciclaggio o di recupero».
In tema, si rimanda anche alla direttiva 2008/98/Ce, recepita con il decreto legislativo numero 205, del 2010 (articolo ItaliaOggi sette del 12.03.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Normale pratica industriale.
Domanda.
Cosa deve intendersi per «normale pratica industriale», di cui al punto c), dell'articolo 184-bis, comma 1, del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152?
Risposta.
L'articolo 184-bis, comma 1, del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, dispone:
«È un sottoprodotto e non un rifiuto ai sensi dell'articolo 183, comma 1, lettera a), qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa tutte le seguenti condizioni:
● la sostanza o l'oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto;
● è certo che la sostanza o l'oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;
● la sostanza o l'oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
● l'ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l'oggetto soddisfa, per l'utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell'ambiente e non porterà impatti complessivi negativi sull'ambiente o al salute umana
».
La dizione «normale pratica industriale» usato dal legislatore al punto c) del su riportato articolo 184-bis, comma 1, se da un lato non può essere eccessivamente circoscritta, dall'altro lato essa non deve abbracciare qualsiasi operazione inserita comunemente nel ciclo produttivo.
Pertanto, nella «normale pratica industriale» devono farsi rientrare tutte quelle operazioni industriali che possono interessare sia il sottoprodotto, sia la materia prima, o un intermedio, o un prodotto, senza che ciò comporti aggravi dal punto di vista dell'impatto ambientale. Quindi, ad esempio, la rifusione di uno scarto di prodotto metallico rientra nella «normale pratica industriale». Il trattamento è identico o assimilabile a quello al quale l'impresa sottopone, prodotti, intermedi o materie prime, che non si possono considerare, per la loro origine, rifiuti.
La Corte di giustizia della Comunità europea, con la sentenza Niselli, ha evidenziato come un'operazione che in astratto può rientrare tra quelle indicate ai punti da R1 a R13 dell'Allegato II alla direttiva 2008/98/Ce, non sia incompatibile con il trattamento preliminare di un sottoprodotto, atteso che l'operazione a cui viene sottoposto il materiale non consente di pronunciarsi sulla natura del materiale, in quanto diversi dei metodi di trattamento indicati nei predetti allegati possono applicarsi anche ad un prodotto (articolo ItaliaOggi sette del 12.03.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIAUn autoveicolo privo di targa, giacente in area privata, è rifiuto? (06.03.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAQuando diventerà operativo il SISTRI per le piccole imprese? E per le imprese agricole? (06.03.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAQuando diventerà operativo il SISTRI? (06.03.2012 - link a www.ambientelegale.it).

NEWS

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOVisite fiscali, occhio all'ora. Richiesta entro le 9 per il controllo in giornata. L'Inps fornisce ulteriori chiarimenti sul sistema di prenotazione online.
La visita fiscale all'Inps si può richiedere 24 ore su 24, ma l'effettuazione nello stesso giorno (della richiesta) è garantita soltanto per le istanze inviate entro le ore 12. In particolare, i datori di lavoro, pubblici e privati, possono inviare in ogni momento della giornata la richiesta di controllo malattia dei dipendenti tramite il canale telematico (unico canale adoperabile); tuttavia lo smistamento delle richieste ai medici incaricati avviene: per i controlli nella fascia antimeridiana con riferimento alle richieste pervenute entro le ore 9; per quelli pomeridiani con riferimento alle richieste arrivate entro le ore 12.
Lo precisa, tra l'altro, l'Inps nel messaggio 12.03.2012 n. 4344.
La visita fiscale. I chiarimenti riguardano l'effettuazione delle visite fiscali da parte dell'Inps su richiesta dei datori di lavoro sia pubblici che privati, perché l'Inps ha la titolarità all'effettuazione dei controlli medico-legali ai lavoratori assenti per malattia anche nel caso in cui si tratti di soggetti non tenuti al versamento della relativa contribuzione all'istituto (settore pubblico).
Tuttavia, per i datori di lavoro privati l'Inps è l'unico istituto di riferimento, per quelli pubblici resta ferma la possibilità alternativa di rivolgersi alle Asl territorialmente competenti, in base alle modalità previste dalle stesse strutture.
Fasce di reperibilità. Con riferimento al settore pubblico, la circolare puntualizza che il servizio fornito dall'Inps non copre a oggi l'intero orario di reperibilità previsto per tali lavoratori (si veda tabella), essendo possibile effettuare le visite di controllo unicamente nelle fasce di reperibilità relative ai lavoratori del settore privato.
Pertanto, con il nuovo sistema di richiesta online il datore di lavoro può inoltrare le richieste in qualsiasi momento, nell'arco delle 24 ore; tuttavia, vengono elaborate e smistate giornalmente ai medici di competenza le richieste pervenute entro le ore 9 per la fascia antimeridiana ed entro ore 12 per quella pomeridiana.
Indirizzo reperibilità. Per consentire il controllo domiciliare, spiega ancora la circolare, è di fondamentale importanza che il lavoratore verifichi, con la massima attenzione e precisione, l'inserimento nel certificato telematico dei dati riferiti all'indirizzo per la reperibilità.
Anche per tale aspetto, infatti, nulla è innovato rispetto al passato e, pertanto, la responsabilità sulla correttezza delle informazioni ricade unicamente sul lavoratore che ha il diritto e l'onere di controllare i dati al momento dell'inserimento da parte del medico o successivamente visualizzando la copia stampata del certificato stesso (il lavoratore rischia di perdere l'indennità per malattia).
Canale telematico esclusivo. Con riferimento alle segnalazioni di alcune sedi di imprese che continuano a inviare le richieste di visite mediche mediante fax, l'Inps precisa che le stesse possono essere accolte soltanto in eventuali casi di interruzione del servizio telematico connessi a problematiche di tipo tecnico. In via ordinaria, dunque, l'Inps non dà seguito alle richieste non pervenute in via telematica.
Allo stesso tempo, spiega infine la circolare, sono da ritenersi abolite tutte le pregresse modalità informative circa l'esito delle visite (quale l'invio per lettera della copia al datore di lavoro): di tale esito ne sono informati ugualmente per via telematica, nell'apposita sezione presente sul portale internet (articolo ItaliaOggi del 13.03.2012).

APPALTI SERVIZIUtility. Pronta la bozza dell'articolo 4 della legge 148/2011. Affidamento dei servizi, in arrivo le regole attuative.
La verifica per l'attribuzione dei diritti di esclusiva in relazione alla gestione di un servizio pubblico locale deve fondarsi su un'analisi accurata di tutti i profili operativi ed economici del servizio, al fine di evidenziare gli aspetti peculiari che possano determinare la scelta per la gestione delle attività da parte di un unico soggetto.
Lo schema del quadro attuativo dell'articolo 4 della legge n. 148/2011, da definire in forma regolamentare entro il 31 marzo prossimo e ora disciplinato con una bozza che qui anticipiamo, presenta una struttura che delinea il percorso per l'istruttoria della delibera-quadro in termini molto dettagliati, partendo dal l'analisi della situazione attuale e dalla esplicitazione dell'articolazione, operativa del servizio pubblico locale, eventualmente distinta in fasi di gestione separata, nonché l'eventuale offerta di servizi sostituivi.
Partendo dalle esigenze della comunità locale, le amministrazioni sono chiamate alla rilevazione specifica degli obblighi di servizio pubblico e delle correlate compensazioni, nonché del valore complessivo del servizio in gestione. Sulla base di tali elementi conoscitivi, gli enti locali devono effettuare la verifica confrontandosi con gli operatori di mercato, per mezzo di un'indagine volta ad acquisire manifestazioni di interesse degli operatori del settore di riferimento alla gestione in concorrenza del servizio, nel rispetto degli obblighi di servizio pubblico.
Dal confronto sarà possibile rilevare le situazioni di monopolio naturale o l'incidenza degli stessi obblighi di servizio sulla gestione imprenditoriale, ma anche l'eventuale liberalizzazione di parti o fasi del servizio. Solo qualora dall'esame articolato dei vari presupposti (che può comprendere anche confronti di benchmarking con altre situazioni) non emerga la realizzabilità di una gestione concorrenziale del servizio o di singole fasi dello stesso, l'ente competente può procedere all'affidamento in esclusiva dei servizi (con gara, società mista o in house, alle condizioni restrittive previste dal comma 13).
In base alla riformulazione dei commi 3 e 4 dello stesso articolo 4 ad opera del Dl n. 1/2012, per i Comuni con popolazione superiore ai 10mila abitanti i risultati della verifica dovranno essere sottoposti all'Agcm per la resa di un parere obbligatorio entro sessanta giorni e, una volta acquisito il parere, le amministrazioni avranno trenta giorni per adottare il provvedimento con il quale attribuire i diritti di esclusiva.
Lo schema di regolamento propone una serie di elementi di analisi ulteriori, rispetto a quelli generalmente applicabili, per le principali tipologie di servizi pubblici con riferimento d'ambito, individuando procedure valutative specifiche per il trasporto pubblico locale e per la gestione dei rifiuti. Disposizioni particolari vanno a disciplinare anche il percorso che gli enti locali devono formalizzare con la delibera-quadro qualora intendano affidare simultaneamente più servizi pubblici locali.
---------------
In sintesi
01|L'AFFIDAMENTO
L'articolo 4 della legge 148/2011 (disciplina generale dei servizi pubblici locali) prevede che prima di procedere all'affidamento, le amministrazioni locali debbano verificare se il servizio pubblico può essere attribuito in gestione a un unico soggetto
02|LA VERIFICA
La verifica deve essere sviluppata con un'istruttoria, che deve analizzare esigenze della comunità locale, obblighi di servizio pubblico e mercato. Se l'analisi rileva che il servizio non può essere liberalizzato, si procede all'attribuzione dei diritti di esclusiva (articolo Il Sole 24 Ore del 13.03.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMalattia. Dipendente più responsabile. Deve verificare la correttezza dell'indirizzo scritto dal medico nel certificato.
Per consentire il controllo medico legale domiciliare, è importante che il lavoratore verifichi l'inserimento nel certificato telematico dei dati riferiti all'indirizzo per la reperibilità.
Lo ha precisato l'Inps con il messaggio 12.03.2012 n. 4344, in seguito a richieste da parte dei datori di lavoro pubblici e privati sull'attivazione del canale telematico per la richiesta all'Inps delle visite mediche di controllo domiciliare e/o ambulatoriale da parte dei datori di lavoro di cui alla circolare 118/2011.
Viene sottolineato, che la richiesta è offerta ai datori di lavoro nel rispetto della normativa già esistente che riconosce all'Istituto la titolarità all'effettuazione dei controlli medico legali ai lavoratori assenti per malattia, anche nell'ipotesi in cui si tratti di soggetti non tenuti al versamento della relativa contribuzione all'Inps. In ogni caso, vi è sempre la possibilità per i datori di lavoro pubblici di far riferimento alle Asl territorialmente competenti.
Per i lavoratori del settore pubblico, attualmente il servizio dell'Inps non potrà coprire tutto l'orario di reperibilità (9.00-13.00/15.00-18.00), dato che le visite mediche di controllo possono essere effettuate solo nelle fasce di reperibilità dei lavoratori del settore privato (10.00-12.00/17.00-19.00). Particolare importanza riveste, come fatto cenno, l'indirizzo sul certificato; la responsabilità sulla correttezza delle informazioni riportate, è del lavoratore che ha il diritto e dovere di controllare tali dati al momento dell'inserimento da parte del medico o dopo visualizzando la copia stampata del certificato stesso.
Infatti, ai fini dell'indennizzabilità della malattia, si dovrà garantire la massima diligenza nel fornire anche gli elementi utili di dettaglio per consentire il reperimento, specie in quei casi di particolare complessità: contrade di notevole vastità, frazioni, complessi comprendenti più palazzine ma con un unico numero civico, ecc. Per quanto concerne le visite richieste via fax, l'Inps precisa che le istanze di visite mediche di controllo che pervengono con questo canale potranno essere accolte solo in eventuali possibili casi di interruzione del servizio telematico connessi a problematiche di tipo tecnico.
Inoltre, sono abolite tutte le pregresse modalità informative sull'esito delle visite domiciliari, invio per lettera della copia per il datore di lavoro, dato che di tale esito ne saranno informati sempre per via telematica, utilizzando l'apposita sezione a loro disposizione sul portale internet. Infine, precisa l'Inps, rimane in vita ogni altra comunicazione resa disponibile dalle relative procedure a seguito dell'apposizione di specifici codici di trattazione (ad esempio per sanzioni o giustificazioni) (articolo Il Sole 24 Ore del 13.03.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - VARI: Non è più d'obbligo redigere il documento programmatico previsto dal codice della privacy.
Addio al Dps. Non alla sicurezza. Obiettivo: semplificare gli adempimenti, riducendone i costi

Semplificazione privacy pesante per imprese, professionisti e p.a. È stato, infatti, abolito il Dps privacy. Non occorre, quindi, più redigere un documento programmatico sulla sicurezza e non occorre aggiornarlo di anno in anno. L'articolo 45 del decreto legge 5/2012 (il cosiddetto decreto semplificazioni), infatti, abroga la lettera g) dell'articolo 34, comma 1, del codice della privacy (dlgs 196/2003).
L'abolizione dell'adempimento è l'ultimo atto di una serie di tentativi (andati a buon fine) tesi a eliminare un adempimento che ha avuto alterna fortuna. Mentre da alcuni è stato apprezzato in quanto strumento organizzativo efficace, da molti, invece, è stato criticato per i suoi costi diretti e indiretti. La redazione del Dps comporta il ricorso, di norma, a un consulente con i conseguenti oneri. Viene così smantellato un pezzo importante della disciplina della privacy, della quale sopravvivono le altre misure di sicurezza diverse dal Dps, gli obblighi di informativa e di consenso, di nomina di responsabili e incaricati del trattamento.
Attenzione però a non scambiare l'abolizione del Dps con l'abolizione delle misure di sicurezza: un conto è mettere in sicurezza l'azienda (obbligo rimasto fermo), un altro è stendere un documento che attesta le condizioni di sicurezza (adempimento saltato). Il decreto 5/2012 abroga il documento (in tutte le sue parti), ma non abroga la sicurezza privacy.
Peraltro nel corso degli anni si sono registrati, proprio sul Dps, altri interventi di semplificazione, seppure «leggera», mentre ora l'articolo 45 del decreto 5/2012 passa a una semplificazione «pesante». Per il trattamento dei dati con strumenti elettronici, dunque, non è più necessaria, quale misura minima di sicurezza, la tenuta di un aggiornato documento programmatico sulla sicurezza. Oltre alla stesura iniziale del Dps era anche previsto un aggiornamento annuale, entro la fine di marzo. Anche questo ovviamente scompare.
Così come scompare l'obbligo di riferire, nella relazione accompagnatoria del bilancio d'esercizio, se dovuta, dell'avvenuta redazione o aggiornamento del documento programmatico sulla sicurezza (paragrafo 26 dell'allegato B) al codice della privacy). Il decreto prevede anche la soppressione delle norme tecniche di dettaglio sul Dps inserite dell'allegato B) al codice della privacy e in particolare i paragrafi da 19 a 19.8.
Viene eliminato anche, conseguentemente, l'obbligo alternativo al Dps (in alcuni casi specifici e soprattutto per Pmi) di attestazione autocertificata di rispettare le misure minime di sicurezza. Stessa abolizione va registrata anche per il Dps semplificato.
Va, tuttavia, sottolineato che il Dps costituiva una misura «minima» di sicurezza e che l'osservanza delle misure minime serve a evitare sanzioni penali. Con l'abolizione del Dps, dunque, chi non lo fa non rischia più sanzioni penali (così come chi non lo ha fatto finora, stante la retroattività della legge penale posteriore più favorevole al reo).
L'abolizione riguarda tutti i titolari di trattamento senza distinzione e quindi sia micro che macro imprese, studi professionali, società, enti e associazioni ed enti pubblici.
E l'abrogazione dell'obbligo di stesura del documento programmatico sulla sicurezza comporta anche l'abolizione del reato di cui all'articolo 169 del codice della privacy e anche le sanzioni amministrative previste dall'articolo 162, comma 2-bis, naturalmente nella parte che riguarda il documento stesso.
---------------
Garantite le misure per ridurre al minimo i rischi.
Scompare il Dps, ma non sono cancellate tutte le misure di sicurezza.
Tutti i titolari di trattamento, infatti, devono rispettare l'articolo 31 del codice della privacy e quindi ridurre i rischi al minimo e adottare misure di sicurezza.
Certo redigere il Dps è una mera facoltà, ma chi volesse farlo può farlo, magari per evitare, con questo adempimento, possibilità di essere chiamati a rispondere dei danni in sede civile.
Beninteso chi decide di fare un documento sulla sicurezza potrà farlo senza seguire lo schema dell'allegato b) al codice della privacy, e quindi in completa autonomia.
Peraltro un documento di questo tipo avrà valore anche nel rapporto tra datore di lavoro e dipendenti, anche per una esatta individuazione delle responsabilità interne e, quindi, più per ragioni organizzative che per un obbligo normativo. Si ritiene, quindi, che a prescindere dall'obbligo normativo possa essere opportuno avere in azienda un regolamento interno o una policy sull'uso degli elaboratori da parte dei dipendenti.
In ogni caso, stando agli elaboratori, rimane, invece, l'obbligo normativo (sanzionato penalmente e con sanzioni pecuniarie amministrative) per altre misure minime di sicurezza previste dall'articolo 34 del codice della privacy: obbligo di dotare gli strumenti elettronici di procedure di autenticazione informatica; obbligo di adottare procedure di gestione delle credenziali di autenticazione e di utilizzare utilizzazione di un sistema di autorizzazione; obbligo di aggiornamento periodico dell'individuazione dell'ambito del trattamento consentito ai singoli incaricati e addetti alla gestione o alla manutenzione degli strumenti elettronici; obbligo di protezione degli strumenti elettronici e dei dati rispetto a trattamenti illeciti di dati, ad accessi non consentiti e a determinati programmi informatici. Permane un obbligo normativo anche per l'adozione di procedure per la custodia di copie di sicurezza, il ripristino della disponibilità dei dati e dei sistemi e per l'adozione di tecniche di cifratura o di codici identificativi per determinati trattamenti di dati idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale effettuati da organismi sanitari.
In sostanza le condizioni di sicurezza vanno preservate nella sostanza, anche se si può fare a meno di compilare un documento sulle precauzioni adottate o da adottare.
Se salta tutto il contenuto del Dps, non c'è più necessità di documentare l'elenco dei trattamenti di dati personali e la distribuzione dei compiti e delle responsabilità nell'ambito delle strutture preposte al trattamento dei dati. Salta l'incombenza di mettere nero su bianco l'analisi dei rischi che incombono sui dati, le misure da adottare per garantire l'integrità e la disponibilità dei dati, nonché la protezione delle aree e dei locali, rilevanti ai fini della loro custodia e accessibilità e la descrizione dei criteri e delle modalità per il ripristino della disponibilità dei dati in seguito a distruzione o danneggiamento.
Non c'è più l'obbligo di scrivere in un documento la programmazione di interventi formativi degli incaricati del trattamento, per renderli edotti dei rischi che incombono sui dati, delle misure disponibili per prevenire eventi dannosi, dei profili della disciplina sulla protezione dei dati personali più rilevanti in rapporto alle relative attività, delle responsabilità che ne derivano e delle modalità per aggiornarsi sulle misure minime adottate dal titolare.
Scompare l'obbligo di documentare la descrizione dei criteri da adottare per garantire l'adozione delle misure minime di sicurezza in caso di trattamenti di dati personali affidati all'esterno della struttura del titolare. Infine salta l'obbligo di scrivere in un documento, per i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale, l'individuazione dei criteri da adottare per la cifratura o per la separazione di tali dati dagli altri dati personali dell'interessato (articolo ItaliaOggi sette del 12.03.2012).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Immobili agevolati, via i paletti. I proprietari possono vendere anche a prezzi di mercato. Studio del notariato sulle novità del decreto sviluppo in materia di edilizia residenziale pubblica.
Il vento delle liberalizzazioni soffia anche sull'edilizia residenziale convenzionata. Il c.d. decreto sviluppo del 2011, convertito nella legge n. 106 del mese di luglio dello scorso anno, allo scopo espresso di agevolare il trasferimento dei diritti immobiliari, ha aggiunto dei nuovi commi all'art. 31 della legge n. 448/1998, di fatto aprendo alla possibilità che i proprietari di immobili agevolati possano venderli con meno difficoltà a prezzi di mercato.
Un recente studio del notariato (20.10.2011 n. 521/2011-C) ha quindi messo in evidenza le modalità operative con le quali attuare la novità legislativa, che riguarda entrambi gli strumenti tradizionalmente più utilizzati per la diffusione dell'edilizia residenziale pubblica, le c.d. Peep, convenzioni di attuazione di un Piano di edilizia economico popolare, e le c.d. convenzioni Bucalossi.
Le c.d. convenzioni Peep. Il privato che abbia acquistato un appartamento nell'ambito di un immobile edificato sulla base di una c.d. convenzione Peep è soggetto, a fronte del prezzo di favore in base al quale ha potuto aggiudicarselo, a una serie di limitazioni relative alla futura cessione del bene, sia dal punto di vista temporale che da quello economico. Sotto questo aspetto non si può non evidenziare la novità introdotta dal decreto sviluppo del 2011, che ha reso molto più facile il trasferimento di questa tipologia di immobili.
Oggi è infatti possibile pattuire con il comune una nuova convenzione volta a rimuovere i vincoli relativi alla determinazione del prezzo massimo di cessione delle singole unità abitative e delle loro pertinenze, nonché del canone massimo di locazione delle stesse, che siano contenuti nelle convenzioni Peep, a condizione che siano trascorsi almeno cinque anni dalla data del primo trasferimento delle singole unità abitative (non è, quindi, ammessa la rimozione dei vincoli al concessionario, ossia a colui che, con la stipula della convenzione originaria, ha avuto la disponibilità dell'area sulla quale realizzare l'intervento edificatorio).
La nuova normativa, secondo il predetto studio del notariato, appare però incomprensibile nella parte in cui fa riferimento alle convenzioni per la cessione del diritto di proprietà stipulate prima dell'entrata in vigore della legge n. 179/1992, poiché prima dell'entrata in vigore di detta legge (ovvero prima del 15.03.1992) non vi era alcun obbligo di prevedere nelle convenzioni Peep per la cessione del diritto di proprietà, vincoli relativi alla determinazione del prezzo di cessione o del canone di locazione. Infatti, al contrario, la legge prevedeva rigorosi divieti di alienazione, prescritti a pena di nullità. Il fatto di aver limitato la possibilità di rimozione dei vincoli sulla determinazione del prezzo e del canone di locazione alle sole convenzioni Peep per la cessione del diritto di proprietà stipulate prima del 15.03.1992, secondo il Consiglio nazionale del notariato, rende del tutto inapplicabile la nuova disciplina alle convenzioni Peep per la cessione di aeree in proprietà, limitandola, pertanto, solo a quelle per la concessione di aree in superficie.
Con l'entrata in vigore della nuova disposizione normativa deve ritenersi definitivamente superata la diffusa prassi per cui molti Comuni, unitamente alla trasformazione del diritto di superficie in proprietà, proponevano agli interessati anche la rimozione dei vincoli sulla determinazione dei prezzi di cessione e/o dei canoni di locazione, a fronte del pagamento di un corrispettivo, discrezionalmente fissato dell'ente pubblico. Spetta al singolo proprietario assumere l'iniziativa per la rimozione dei vincoli in oggetto e richiedere al comune la stipula di una nuova convenzione. In presenza di un condominio la rimozione non deve riguardare necessariamente l'intero stabile e non necessita, pertanto, la delibera dell'assemblea dei condomini; ogni condomino è libero, al riguardo, di agire come meglio crede. Per l'atto è prescritta la forma pubblica e la successiva trascrizione. Per la rimozione dei vincoli relativi alla determinazione del prezzo di cessione o del canone di locazione è poi necessario pagare un corrispettivo al comune, che è proporzionale alla corrispondente quota millesimale di proprietà.
La trasformazione del diritto di superficie in piena proprietà e la contestuale eliminazione degli altri vincoli discendenti dall'originaria convenzione Peep. Come ha precisato il notariato, tra i possibili accordi modificativi delle c.d. convenzioni Peep, già stipulate, quello più diffusa nella pratica è la convenzione di trasformazione del diritto di superficie in piena proprietà la cui disciplina, anche alla luce delle modifiche apportate dalla legge n. 106/2011, merita di essere analizzata più a fondo.
A tale proposito si sottolinea che la trasferibilità degli alloggi realizzati su aree Peep concesse in superficie, in mancanza di particolari clausole convenzionali che limitino la facoltà di alienazione o prevedano diritti di prelazione a favore del comune, è libera, salvo osservare le clausole relative al prezzo massimo imposto per la cessione. In particolare, nell'ambito delle convenzioni in questione si possono individuare vincoli attinenti al c.d. contenuto pattizio, modificabili in qualsiasi tempo per effetto di una nuova convenzione intervenuta tra le medesime parti, e vincoli attinenti al c.d. contenuto necessario, modificabili solo nei casi previsti dalla legge (il discorso riguarda, ad esempio, i vincoli relativi alla determinazione del prezzo massimo di cessione e del canone massimo di locazione).
Così il comune può limitarsi a cedere la proprietà dell'area, con conseguente trasformazione, con riguardo all'alloggio, della proprietà superficiaria in piena proprietà, senza null'altro disporre oppure vi può aggiungere l'eliminazione dei vincoli attinenti al contenuto pattizio (ad esempio, un divieto convenzionale di alienazione, ovvero un diritto di prelazione) o l'eliminazione, nello stesso atto, dei soli vincoli di determinazione del prezzo di cessione e del canone di locazione (rimangono però gli altri vincoli contenuti nella convenzione originaria attinenti al c.d. contenuto necessario) e gli eventuali vincoli attinenti al contenuto pattizio o, infine, l'eliminazione, oltre agli eventuali vincoli attinenti al contenuto pattizio, di tutti quelli attinenti al contenuto necessario (compresi i vincoli relativi alla determinazione del prezzo e del canone di locazione).
In ogni caso per dette convenzioni è generalmente necessario, a pena di nullità, o un atto pubblico o una scrittura privata autenticata, in considerazione della necessità di una successiva trascrizione dell'atto.
La vendita di alloggi realizzati su aree Peep. Nell'ambito degli alloggi realizzati su aree Peep bisogna distinguere quelli acquisiti in proprietà superficiaria, per cui non sono mai stati previsti dall'ordinamento divieti di alienazione di alcun genere, da quelli acquisiti in proprietà per i quali la normativa di riferimento (art. 35, legge n. 865/1971), nel suo testo originario, in vigore sino al 15.03.1992 (data di entrata in vigore della legge 17.02.1992, n. 179) prevedeva una serie di divieti di alienazione, la cui inosservanza era sanzionata con la nullità degli atti di alienazione.
Quindi gli atti di vendita eventualmente stipulati prima del 15.03.1992 devono ritenersi nulli, mentre devono ritenersi validi quelli perfezionati dopo tale data e relativi ad alloggi costruiti su aree Peep concesse in proprietà, e ciò a prescindere dalla data in cui è stata stipulata la relativa convenzione (soluzione sostenuta anche dal ministero dei lavori pubblici).
---------------
Doppia quota per il permesso di costruire.
Due sono le convenzioni che tradizionalmente si fanno rientrare nell'ambito dell'edilizia residenziale convenzionata: la convenzione di attuazione di un Piano di edilizia economico popolare (c.d. Peep), che si pone nell'ambito del più ampio procedimento tracciato dalla legge n. 865/1971, e la convenzione per la riduzione del contributo concessorio al cui pagamento è subordinato il rilascio del permesso di costruire (c.d. convenzione Bucalossi).
Il rilascio del permesso di costruire è infatti condizionato al versamento del contributo concessorio, che si compone di due quote, una commisurata agli oneri di urbanizzazione e l'altra proporzionata al costo di costruzione da versarsi in corso d'opera con le modalità e le garanzie stabilite dal comune e, comunque, non oltre 60 giorni dall'ultimazione delle opere.
Se ricorre una c.d. convenzione Bucalossi (atto che è comunque da trascrivere) il contributo concessorio viene limitato alla sola quota commisurata agli oneri di urbanizzazione, con esclusione pertanto di quella commisurata al costo di costruzione, ma l'interessato, a fronte dell'agevolazione ottenuta, deve assumere l'obbligo di praticare prezzi di vendita e canoni di locazione in misura non superiore a quella risultante dalla convenzione medesima (ogni pattuizione contraria è nulla per la parte eccedente).
Anche per tali convenzioni (ovvero per gli eventuali atti unilaterali d'obbligo stipulati al posto di dette convenzioni) il decreto sviluppo 2011 ammette la possibilità di rimuovere i vincoli relativi alla determinazione del prezzo massimo di cessione e del canone massimo di locazione, sempreché siano decorsi almeno cinque anni dalla data del primo trasferimento.
Tuttavia la rimozione dei vincoli non può essere richiesta dal costruttore, ossia da colui che, con la stipula della convenzione, si è avvalso della riduzione del contributo concessorio. Tale possibilità è riconosciuta a un suo avente causa (e decorsi almeno cinque anni dalla data del primo trasferimento), cioè su richiesta del proprietario dell'alloggio con apposita convenzione in forma pubblica soggetta a trascrizione (articolo ItaliaOggi sette del 12.03.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Raee, la gestione allarga il raggio. Possibile anche la raccolta uno a zero per piccoli apparecchi. La direttiva comunitaria in arrivo rinnova le regole sui rifiuti elettrici ed elettronici.
Obbligo di ritiro gratuito delle «Aee» (apparecchiature elettriche ed elettromeccaniche) domestiche usate anche senza corrispondente acquisto di nuovo prodotto, ma con semplificazioni gestionali e innalzamento delle percentuali di raccolta differenziata dei «Raee».

Le novità previste dalla legislazione comunitaria, in arrivo per il tramite della neo direttiva Ue già licenziata lo scorso gennaio dal parlamento Ue, promettono di riscrivere le regole dell'intera filiera dei rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche (cd. «Raee»), rivedendo sia gli oneri dei distributori di nuove apparecchiature (cd. «Aee») sia gli obblighi dei soggetti responsabili della gestione di quella giunte a fine vita.
Le novità Ue. Lo schema di nuova direttiva «Raee» in corso di ufficializzazione da parte del consiglio Ue sostituirà l'attuale direttiva 2002/96/Ce), innovandone i contenuti sia a monte che a valle della catena produttiva. Sotto il primo profilo, le novità riguardano i distributori di nuove apparecchiature elettriche ed elettroniche (ossia i soggetti che rendono disponibili sul mercato tali «Aee») che dovranno assicurare il ritiro gratuito dei rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche di «piccolissime dimensioni» (ossia di dimensioni esterne inferiori a 25 centimetri) e provenienti da nuclei domestici conferiti dagli utenti finali senza obbligo per questi ultimi di acquistare una Aee di tipo equivalente (laddove, a oggi, il ritiro è obbligatorio solo nella formula «one on one», ossia previo acquisto di nuovo ed analogo prodotto).
In particolare, tale ritiro sarà obbligatorio presso i negozi al dettaglio con superficie di vendita di «Aee» uguali o superiore ai 400 metri quadrati o in loro prossimità e i «Raee» in parola dovranno essere sottoposti a successivo trattamento finalizzato al loro recupero o smaltimento. L'obbligo del ritiro «one on zero» potrà essere dai distributori evitato solo ove sia pubblicamente dimostrato che i regimi di raccolta alternativa esistenti siano altrettanto efficaci. Parallelamente, il nuovo provvedimento Ue prevede però, per gli stessi distributori di «Aee», delle semplificazioni, non esigendo in relazione ai punti di raccolta dei «Raee» presenti presso i loro negozi al dettaglio né il rispetto dei criteri tecnici stabiliti dalla direttiva 2008/98/Ce per la realizzazione degli impianti di gestione dei rifiuti né la relativa autorizzazione all'esercizio.
A valle, le novità riguarderanno invece i gestori dei relativi rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche: la direttiva in itinere prevede infatti un innalzamento all'85% (dall'attuale «range» del 70-80%) della percentuale dei «Raee» prodotti sul territorio che dovranno essere annualmente raccolta nei singoli Stati Ue. In alternativa, gli stessi Stati dovranno assicurare un tasso di raccolta pari al 65% delle «Aee» immesse sul mercato negli ultimi tre anni.
Le regole nazionali. L'attuale normativa nazionale in materia di rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche, e sulla quale le nuove norme Ue sono destinate a incidere, è costituita dal dlgs 25 luglio n. 151 (provvedimento di recepimento della direttiva 2002/96/Ce) e dal connesso dm ambiente 08.03.2010 n. 65 (recante, in attuazione del decreto legislativo, le modalità semplificate la gestione dei «Raee» da parte dei distributori e degli installatori di apparecchiature elettriche ed elettroniche).
In particolare, il dm 65/2010 prevede a favore dei soggetti in parola il rispetto di standard tecnici e burocratici semplificati rispetto a quelli ordinari imposti dal dlgs 151/2005 e dal dlgs 152/2006 (c.d. «Codice ambientale») per deposito, trasporto rifiuti e iscrizione all'Albo gestori ambientali. E proprio in vista delle novità comunitarie in arrivo, novità che (come più sopra accennato) ampliano gli oneri a carico dei distributori di «Aee», lo stesso legislatore nazionale ha prontamente avviato un ulteriore allargamento delle procedure semplificate previste dal citato dm 65/2010 per i soggetti in questione.
L'upgrade in arrivo, previsto inizialmente dalla legge di conversione del dl 2/2012 (c.d. «dl ambiente») ma da esso espunto per mera incompatibilità tecnica (ex sentenza Corte costituzionale 22/2012) e quindi in attesa di nuova base giuridica, andrà sostanzialmente nella direzione di un ampliamento delle tempistiche di deposito temporaneo presso i punti vendita dei «Raee» ritirati dai distributori e di una maggior snellezza nelle procedure di trasporto verso i relativi centri di trattamento (articolo ItaliaOggi sette del 12.03.2012).

APPALTI SERVIZIServizi pubblici. La partecipazione è possibile solo se la gestione in vigore è nella fase finale.
Vincoli più stretti per il gas. Sugli attuali affidatari diretti nuovi divieti nell'accesso alle gare
CONSIGLIO DI STATO/ Le deroghe previste dal testo unico degli enti locali non possono essere sfruttate dalle società che gestiscono anche altre attività.

Le Regioni possono definire ambiti territoriali ottimali con dimensione diversa da quella provinciale per la gestione dei servizi pubblici, e nelle gare per i nuovi affidamenti vanno tenute in particolare considerazione le tutele occupazionali.
Le modifiche alla disciplina dei servizi pubblici definite in sede di conversione del Dl 1/2012 (su cui si veda Il Sole 24 Ore del 1° marzo) rafforzano le linee di realizzazione delle privatizzazioni come soluzioni di promozione dello sviluppo economico e territoriale, ricalcando, per alcuni versi, il quadro strutturato per il servizio gas.
Le nuove norme regolano anche gli effetti che le nuove gestioni possono produrre nei contesti locali, precisando nell'articolo 3-bis che in sede di affidamento del servizio con gara, l'adozione di strumenti di tutela dell'occupazione costituisce elemento di valutazione dell'offerta. Questa prospettiva è garantita nelle procedure selettive, in quanto il bando dovrà indicare anche i criteri per il passaggio dei dipendenti ai nuovi aggiudicatari del servizio, prevedendo, tra gli elementi di valutazione, l'adozione di strumenti di tutela dell'occupazione.
La ridefinizione delle norme sui servizi pubblici presenta importanti novità anche con riferimento alla disciplina per il servizio di distribuzione del gas naturale, con varie previsioni che incidono sulla gestione delle gare per i nuovi affidamenti in base agli ambiti territoriali minimi (Atem).
Il dato più rilevante è riscontrabile nell'estensione a questo settore delle previsioni della disciplina generale dei servizi pubblici con rilevanza economica sul divieto di affidamento di servizi ulteriori e sulle condizioni per la partecipazione alle gare delle società in passato affidatarie dirette, stabilita dall'articolo 4, comma 33, della legge 148/2011.
Questa previsione implica che una società partecipata da un ente locale, che oggi gestisca (nel periodo transitorio) il servizio di distribuzione del gas naturale sulla base di un affidamento diretto possa partecipare alle gare che saranno indette progressivamente nei vari Atem individuati e specificati con i decreti ministeriali adottati nel corso del 2011 a condizione che il proprio affidamento sia nella fase finale (ultimo anno), e che siano già state avviate le nuove procedure di affidamento.
La disposizione va analizzata considerando anche quanto sancito dal Consiglio di Stato, sez. V, con la sentenza n. 1173/2012. Secondo i giudici, la deroga prevista dall'articolo 15, comma 10, del Dlgs 164/2000 che consente una società affidataria diretta (in house) del servizio gas di prendere parte alle prime gare successive al periodo transitorio su tutto il territorio nazionale, va interpretata in senso restrittivo, per cui riguarda solo le società che avevano ottenuto l'affidamento senza gara del solo servizio di distribuzione del gas, e non opera se il gestore è controllato o controllante di società affidataria diretta di altri servizi pubblici locali. Pertanto, una società che sia oggi affidataria diretta della distribuzione del gas naturale e di altri servizi pubblici locali con rilevanza economica non potrà partecipare alle nuove gare del servizio gas riferite agli atem (articolo Il Sole 24 Ore del 12.03.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

APPALTIAggiudicazione di appalti pubblici: l'Amministrazione deve comunicare ai soggetti non aggiudicatari i risultati di gara attraverso, a seconda dei casi, la comunicazione dell’atto di affidamento nella sua forma integrale o l'invio dei verbali di gara.
L'articolo 120 cod. proc. amm. prevede, per l'impugnazione dei provvedimenti concernenti le procedure di affidamento di pubblici lavori, termini brevi per la loro definizione, ispirati al principio generale dell'accelerazione di quel contenzioso e delle esigenze di certezze del settore. Il relativo comma 5, in particolare, stabilisce che, per l'impugnazione degli atti in questione, il ricorso ed i motivi aggiunti vanno proposti nel termine di trenta giorni, decorrente dalla ricezione della comunicazione di cui all'articolo 79 d.lgs. 12.04.2006, n. 163, il cui comma 2, lettera c), prevede che siano comunicate "ad ogni offerente che abbia presentato un'offerta selezionabile, le caratteristiche e i vantaggi dell'offerta selezionata e il nome dell'offerente cui è stato aggiudicato il contratto".
Ora, gli elementi di cui all'articolo 79, comma 2, lettera c), rappresentano, ai sensi dell’art. 120 cit., i requisiti minimi (v. Cons. St., 12.07.2011, n. 4210) della motivazione del provvedimento di aggiudicazione così portata a conoscenza dei concorrenti non aggiudicatarii, affinché con la comunicazione di cui si tratta l’impresa non aggiudicataria acquisisca piena conoscenza dell’èsito sfavorevole della gara e, quindi, dell’effetto pregiudizievole connesso a tale provvedimento, con conseguente onere di impugnarlo nel términe sopra indicato di trenta giorni dalla sua ricezione.
Orbene, siffatta piena conoscenza delle motivazioni del provvedimento sfavorevole non può certo dirsi realizzata, nel caso di specie, né con la motivazione riportata nella comunicazione effettuata (ove, come s’è visto, si fa esclusivo riferimento alle “capacità tecniche e affidabilità” dell’aggiudicatario), né nello stesso provvedimento di aggiudicazione definitiva, che risulta privo di qualsiasi concreto supporto motivazionale, limitandosi a richiamare i verbali di gara (senza che gli stessi risultino ad esso allegati quali sua parte integrante e sostanziale) ed omettendo anche solo di riportare la graduatoria di gara, con l’indicazione dei punteggi a ciascuna offerta attribuiti per i due criteri (prezzo e progetto di gestione) ivi rilevanti ai fini della prevista aggiudicazione con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Richiamando poi i provvedimenti affittati dalla Corte di Giustizia il Consiglio di Stato, nella sentenza in esame conclude affermando che l’obbligo posto in capo alla stazione appaltante di rendere edotti i soggetti non aggiudicatari dei risultati della gara può intendersi correttamente adempiuto, al fine di garantire ricorsi efficaci e tempestivi contro le violazioni delle disposizioni applicabili in materia di aggiudicazione di appalti pubblici, attraverso la comunicazione dell’atto di affidamento nella sua forma integrale e, ove dallo stesso (come appunto si rileva nel caso di specie) non risultino comunque gli elementi di cui sopra, attraverso l’invio dei verbali di gara, come pure d’altronde previsto dal citato comma 5 (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 14.03.2012 n. 1428 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILe imprese facenti parte di un'ATI, anche a prescindere da una espressa indicazione della lex specialis di gara, devono previamente indicare in sede di formulazione dell'offerta le quote di partecipazione al raggruppamento.
Secondo consolidato insegnamento giurisprudenziale la dichiarazione delle quote di partecipazione al raggruppamento, che deve essere resa dalle imprese raggruppate già in sede di formulazione dell’offerta, è presupposto necessario di partecipazione e corrisponde ad un interesse di carattere essenziale della P.A., tenuto conto che solo il principio di corrispondenza sostanziale tra quote di qualificazione, quote di partecipazione all’ATI e quota di esecuzione dell’appalto consente alla stazione appaltante di poter concretamente verificare la serietà e l’affidabilità dell’offerta.
Tale principio è da ritenersi implicito nel testo dell’art. 37, comma 13, del D.Lgs n. 163/2006 (e degli artt. 93 e 95 dpr 554/99, applicabili in via transitoria fino all’entrata in vigore delle nuove disposizioni regolamentari per espressa previsione dell’art. 253, comma 3, del D.Lgs n. 163/2006), che dispone: “i concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento".
Né, sotto altro aspetto, potrebbe rilevare il fatto che la lex specialis non esplicita con espressa clausola l’obbligo di anticipata dichiarazione delle quote, essendo pacifico che le quote di partecipazione al raggruppamento non possono essere evidenziate ex post, in sede di esecuzione del contratto, costituendo un requisito di ammissione la cui inosservanza determina l’esclusione dalla gara. Correttamente, pertanto, il primo giudice ha rilevato che “dal tenore letterale degli artt. 37, comma 13, D. Lg.vo n. 2006 e 93, comma 4, DPR n 554/1999 si evince la necessarietà (e perciò anche a prescindere da una specifica e/o espressa indicazione della lex specialis di gara) che le quote di partecipazione ad un’ATI siano previamente indicate in sede di offerta, non essendo sufficiente che vengano evidenziate soltanto nella fase esecutiva dell’appalto, poiché la ratio di tali norme è quella di permettere alla stazione appaltante di verificare il possesso da parte di tutte le imprese facenti parte di un’ATI dei requisiti di ammissione alla gara in relazione alle singole quote di partecipazione all’ATI e di assicurare l’effettiva corrispondenza sostanziale tra quota di qualificazione, tra quota di partecipazione all’ATI e quota di esecuzione dell’appalto, e perciò tali norme rispondono ad un interesse di natura sostanziale e di carattere essenziale della Pubblica Amministrazione …” (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.03.2012 n. 1422 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALICrollo al concerto: risponde il Comune. Per i feriti a una festa di piazza.
LA MOTIVAZIONE/ Il risarcimento del danno è a carico dell'ente locale proprietario dei luoghi e non dell'associazione che ha organizzato l'evento.

Nelle feste popolari di piazza il Comune è sempre responsabile dei danni provocati dal cedimento di una struttura mobile installata per l'occasione, ed è quindi tenuto al risarcimento delle persone rimaste ferite nel crollo.
Con la sentenza 13.03.2012 n. 3951, la III Sez. civile della Corte di Cassazione richiama gli enti locali ai doveri di vigilanza e custodia nei confronti della cittadinanza, anche nei casi in cui la realizzazione delle impalcature incriminate sia stata affidata a un'associazione terza.
Il caso, restituito ieri ai giudici di appello di Messina, riguardava un incidente avvenuto 21 anni fa durante il concerto di Ferragosto a Terme Vigliatore, protagonisti –ma ovviamente del tutto estranei alla vicenda– Albano e Romina Power: il cedimento di un'impalcatura di legno dell'improvvisata tribuna aveva travolto un minorenne in compagnia dei genitori, provocandogli serie lesioni a una gamba. Condannato in primo grado per «omessa adozione di misure idonee a garantire la sicurezza del pubblico spettacolo», l'ente locale era stato però prosciolto in appello sulla base della «imprevedibilità ed eccezionalità dell'evento» causato dalla ressa degli spettatori. Peraltro, secondo la Corte, a rispondere dei danni sarebbe dovuta essere semmai chiamata l'associazione che aveva organizzato il concerto, in quanto divenuta per ciò stesso «custode della piazza».
I giudici di legittimità hanno però smontato punto per punto la ricostruzione giuridica e causale dei colleghi siciliani. La responsabilità dell'ente locale proprietario dei luoghi (in questo caso della piazza) è richiamata da tutte le leggi in materia, a partire dalle più risalenti: sia il Regio decreto 773/1933 (Testo unico di Pubblica sicurezza), sia il Dpr 322/1956 («Norme per la prevenzione degli infortuni e l'igiene del lavoro nell'industria della cinematografia e della televisione») e ancora il Dpr 616/1977 (Trasferimento e deleghe delle funzioni amministrative dello Stato) insistono sugli obblighi specifici del neminem laedere a carico dell'ente organizzatore «adottando tutte le misure preventive e protettive onde prevenire rischi e scongiurare pericoli per l'incolumità e la sicurezza pubblica».
E anche nel caso di autorizzazione a terzi per l'allestimento del palco, non viene meno il controllo «sulla fase di progettazione ed esecuzione dell'opera, le scelte tecniche, dei materiali e della loro predisposizione a regola d'arte». Non solo: anche durante lo spettacolo il Comune avrebbe dovuto sorvegliare che le transenne «non fossero scavalcate» (articolo Il Sole 24 Ore del 14.03.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTIL'amministrazione può aggiudicare la gara e poi verificare la sussistenza dei requisiti di partecipazione.
La verifica dei requisiti per la partecipazione a gara rappresenta fase autonoma del procedimento di affidamento, ex art. 11, comma 8, cod. contr., secondo cui l'aggiudicazione definitiva diventa efficace dopo la suddetta verifica e, pertanto, non è precluso all’Amministrazione pronunciare prima l’aggiudicazione (C.d.S., Sez. III, n. 343 del 26.01.2012) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 13.03.2012 n. 1409
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Rinnovo del procedimento di gara a seguito di annullamento dell'aggiudicazione o di annullamento dell'esclusione di taluno dei concorrenti: legittima la nomina di una nuova Commissione di gara se garantisce maggiore serenità di giudizio nonostante il comma 12 dell'art. 84 del codice dei contratti preveda la riconvocazione della stessa commissione.
Il comma 12 dell’art. 84 prevede che “in caso di rinnovo del procedimento di gara a seguito di annullamento dell'aggiudicazione o di annullamento dell'esclusione di taluno dei concorrenti, è riconvocata la medesima commissione.”
Ad avviso del Collegio la previsione normativa contiene un’enunciazione di principio, posta a presidio della celerità e del buon andamento dell’Amministrazione, e sottintende che nell’ipotesi di rinnovazione dell’intera gara la conoscenza degli atti e delle operazioni già effettuate possa giovare alla celere rinnovazione del procedimento, sempreché ciò non si risolva nella compromissione della garanzia di imparzialità, valore altrettanto preminente negli affidamenti pubblici. La norma, pertanto, va interpretata nel senso che non è esclusa la possibilità di nominare una nuova Commissione se garanzia di maggiore serenità di giudizio (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 13.03.2012 n. 1409 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAPrincipi giurisprudenziali consolidati in materia di lottizzazione abusiva.
Il bene giuridico protetto dall’art. 18 della l. n. 47/1985, descrivente le caratteristiche della lottizzazione abusiva, non è tanto o solo la tutela dell’interesse al rispetto della pianificazione urbanistica, quanto, invece, la tutela dell’interesse all’effettività del controllo del territorio da parte del soggetto pianificatore (cioè gli organi comunali) tenuto a reprimere qualsiasi intervento lottizzatorio che non sia stato previamente assentito. In proposito è stato precisato che è ravvisabile l’ipotesi di lottizzazione abusiva solamente quando sussistono elementi precisi ed univoci da cui possa ricavarsi oggettivamente l’intento di asservire all'edificazione un’area non urbanizzata (Consiglio di Stato, Sezione IV, 11.10.2006 n. 6060 e Sezione V, 13.09.1991 n. 1157).
Pertanto, ai fini dell’accertamento della sussistenza del presupposto di cui all’art. 18 della l. n. 47/1985 non è sufficiente il mero riscontro del frazionamento di un terreno collegato a plurime vendite, ma sussiste anche la necessità di acquisire un sufficiente quadro indiziario dal quale sia possibile desumere in maniera non equivoca la destinazione a scopo edificatorio degli atti posti in essere dalle parti (Consiglio Stato, Sezione V, 20 ottobre 2004, n. 6810), giustificandosi l’adozione del provvedimento repressivo anche a fronte della dimostrazione della sussistenza di almeno uno degli elementi precisi e univoci sopraddetti (Consiglio Stato, Sezione V, 14.05.2004, n. 3136).
In particolare la cosiddetta lottizzazione negoziale, ossia il tipo di lottizzazione che il Comune ha ritenuto sussistente nel caso di specie sulla base non tanto della realizzazione di alcune opere, quanto del frazionamento contrattuale di un vasto terreno con la creazione di lotti sufficienti per la costruzione di un singolo edificio, può concretizzare in astratto già di per sé il fenomeno della lottizzazione abusiva, purché si possa desumere in modo non equivoco dalle dimensioni e dal numero dei lotti, dalla natura del terreno, dall’eventuale revisione di opere di urbanizzazione e dalla loro destinazione a scopo edificatorio (Consiglio Stato, Sezione IV, 11.09.2006, n. 6060) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.03.2012 n. 1374 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAConcessione edilizia in sanatoria: l’amministrazione preposta alla tutela paesaggistica deve pronunciarsi in relazione all’esistenza del vincolo al momento in cui avviene la valutazione della domanda di sanatoria, a prescindere dall’epoca in cui il vincolo sia stato imposto.
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la decisione n. 20 del 22.07.1999, ha chiarito che la disposizione dell’art. 32 della legge 28.02.1985, n. 47 prevede la necessità di parere dell’amministrazione preposta alla tutela del vincolo paesaggistico ai fini del rilascio della concessione in sanatoria sulla base di una valutazione che risponde all’esigenza di vagliare l’attuale compatibilità dell’opera realizzata abusivamente con il vincolo paesaggistico.
La disposizione, invero, non reca alcuna deroga al principio generale tempus regitactum per cui ogni atto deve essere adottato in base alla disciplina vigente al momento della sua adozione e, pertanto, essa deve interpretarsi nel senso di esigere che l’amministrazione preposta alla tutela paesaggistica si pronunci in relazione all’esistenza del vincolo al momento in cui avviene la valutazione della domanda di sanatoria, a prescindere dall’epoca in cui il vincolo sia stato imposto. La giurisprudenza si è ormai assestata nei sensi indicati dall’Adunanza Plenaria (cfr. ex multis Cons. St. Sez. IV, 19.03.2009, n. 1646; Sez. VI, 17.05.2010, n. 3061) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.03.2012 n. 1371 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa valutazioni della commissione di gara in sede di verifica dell’anomalia dell’offerta è caratterizzata da discrezionalità tecnica sindacabile dal giudice entro limiti predeterminati.
Il Collegio osserva, in generale, che –secondo il consolidato indirizzo di questa Sezione (ex multis sent. 18/03/2010, n. 1589)- le valutazioni della commissione di gara in sede di verifica dell’anomalia dell’offerta si sostanziano in un’attività amministrativa di giudizio di carattere tecnico, finalizzata alla ricerca non già di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, bensì ad accertare se questa sia attendibile o inattendibile nel suo complesso e, quindi, se dia o meno serio affidamento circa la corretta esecuzione dell’appalto.
A fronte di tale manifestazione di discrezionalità tecnica il sindacato giurisdizionale è ristretto entro i limiti, propri delle forme del controllo di tipo estrinseco, delle figure sintomatiche dell’eccesso di potere per sviamento, travisamento dei fatti, arbitrarietà, illogicità manifesta della motivazione.
Ne consegue che, specie nel caso in cui la commissione di gara abbia proceduto ad un’analitica disamina degli elementi dell’offerta, nel contraddittorio con l’interessata, pervenendo ad un giudizio finale positivo, non è sufficiente per chi contesti tale esito contrapporre una propria versione alternativa, ma occorre enucleare specifici punti in cui il positivo riscontro sull’attendibilità dell’offerta si riveli, nel suo complesso, logicamente deficitario ed incongruamente motivato (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.03.2012 n. 1369 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa prescrizione decennale del diritto del Comune ad ottenere il pagamento del contributo concessorio inizia a decorrere dalla data di presentazione della domanda di condono.
Secondo consolidata giurisprudenza il silenzio-accoglimento si perfeziona anche se mancano i presupposti per l'accoglimento della domanda e addirittura -come affermato dalla IV sezione del Consiglio di Stato 20.05.1999, n. 858- per le "domande dirette alla concessione di costruzione in sanatoria relative a opere compiute oltre la data dell'01.10.1983, essendo il compimento delle opere abusive entro la predetta data requisito necessario ai fini del rilascio di provvedimento ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 35 della legge 28.02.1985 n. 47, ma non per il mero verificarsi della fattispecie complessa di silenzio-accoglimento" (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 14.04.1993, n. 496, id. 26.10.1994, n. 1385, id. 07.12.1995, n. 1672, id. 24.03.1997, n. 286), e che il silenzio assenso così formatosi può essere rimosso solo mediante l'esercizio del potere di annullamento di ufficio da parte del Comune (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 24.03.1997, n. 286), misura di autotutela che consente di contemperare il ripristino della legalità con l'esigenza, pure avvertita dal legislatore, di rendere effettivamente praticabile l'istituto del silenzio accoglimento (così Cons. St., V, n. 4114/2006).
Il Collegio osserva che, per quanto riguarda l’asserito difetto di motivazione in cui sarebbe incorso il Giudice di primo grado, per non avere indicato le ragioni per le quali è giunto alla determinazione di ritenere che nella specie si fosse formato il silenzio-assenso e fosse intervenuta la prescrizione decennale del diritto del Comune di pretendere il pagamento del contributo concessorio, dalla documentazione acquisita in giudizio si ricava che le circostanze dedotte dal ricorrente a sostegno dell’avvenuta formazione del silenzio–assenso risultavano comprovate (il ricorrente aveva infatti prodotto in giudizio sia la copia della domanda di condono edilizio, sia la copia delle attestazioni dei versamenti della intera oblazione).
Non gravava pertanto sul TAR l’onere di fornire una motivazione particolare in ordine alla sussistenza dei presupposti per la formazione del silenzio–assenso. Non pare tuttavia inutile aggiungere che, come correttamente osserva l’appellato, la censura muove dall’assunto che il termine decennale di prescrizione debba decorrere non già dal compimento dei due anni successivi alla presentazione della domanda di condono, ma dalla data del pagamento dell’ultima rata del condono edilizio (pagamento eseguito il 04.10.1986).
Sennonché tale presupposto è errato dato che l’art. 35, comma 18, della l. n. 47/1985 dispone chiaramente che “decorso il termine perentorio di ventiquattro mesi dalla presentazione della domanda, quest'ultima si intende accolta ove l'interessato provveda al pagamento di tutte le somme eventualmente dovute a conguaglio ed alla presentazione all'ufficio tecnico erariale della documentazione necessaria all'accatastamento…”. Il “dies a quo” dal quale far decorrere il termine decennale di prescrizione va quindi individuato nella data della presentazione della domanda di condono (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.03.2012 n. 1364 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOL'omessa impugnazione della graduatoria definitiva del concorso ai pubblici impieghi vanifica l'impugnazione del provvedimento di esclusione.
Per un principio generale nei procedimenti di tipo concorsuale, l'impugnazione del provvedimento endoprocedimentale lesivo deve successivamente estendersi agli ulteriori atti pregiudizievoli quale l'approvazione definitiva della graduatoria di concorso ai pubblici impieghi, determinandosi altrimenti l'inutilità dell'eventuale decisione di accoglimento del ricorso proposto contro l'esclusione (Consiglio Stato, Sezione V, 08.09.2008, n. 4241).
Fermo restando quindi l'onere di impugnazione immediata dell’atto endoprocedimentale di carattere direttamente ed autonomamente lesivo, rimane l'onere di estendere il gravame anche al provvedimento conclusivo del procedimento concorsuale, ovverosia l'atto di approvazione della graduatoria finale da parte del concorrente escluso (Consiglio Stato, Sezione V, 29.07.2003, n. 4320). Diversamente opinando, dovrebbe riconoscersi effetto caducante e non meramente viziante all'eventuale annullamento del provvedimento endoprocedimentale, tesi che risulta seguita in giurisprudenza da orientamento di segno decisamente minoritario (C.G.A., 29.08.2005, n. 574) e che la Sezione non ritiene condivisibile, non ravvisandosi un rapporto di presupposizione-consequenzialità immediato, diretto e necessario tra l’atto endoprocedimentale impugnato e l’approvazione della graduatoria finale.
La determinazione conclusiva andava pertanto ritualmente impugnata nel termine decadenziale decorrente, ex art. 41 c. 2 c.p.a. (o ex art. 9 del d.P.R. n. 1199/1971 in caso di ricorso straordinario al Capo dello Stato), dalla scadenza del termine di pubblicazione, non essendone richiesta comunicazione personale nei confronti dei concorrenti per cui era già stata disposta l'esclusione, né in base al bando, né in base a quanto stabilito dalla commissione di gara con verbale del 06.12.2001 (con riguardo alle modalità di comunicazione dell’esito della prova orale), né in base alla disciplina generale dell'efficacia del provvedimento amministrativo di cui all'art. 21 bis della l. n. 241/1990, il quale limita la regola della c.d. “recettizietà” ai soli atti limitativi della sfera giuridica dei privati -tra cui rientra l'esclusione- ma non l'approvazione della graduatoria finale per i soggetti già esclusi, atto generale soggetto ad impugnazione dalla scadenza del periodo di pubblicazione legale (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 09.03.2012 n. 1347 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOConcorso pubblico: la presenza al completo della Commissione giudicatrice non e' necessaria per operazioni concorsuali di carattere meramente istruttorio e preparatorio.
Secondo un principio pacifico in giurisprudenza, in sede di operazioni concorsuali non si richiede la presenza della commissione giudicatrice al suo completo in tutte le fasi del procedimento: essa ha natura di collegio perfetto solo nei momenti in cui adotta determinazioni rilevanti ai fini della valutazione dei candidati (come la fissazione dei criteri di massima di valutazione delle prove concorsuali, la selezione degli argomenti e la redazione delle tracce delle prove scritte, la determinazione dei quesiti da sottoporre ai candidati nelle prove orali, la correzione degli elaborati e lo svolgimento delle prove orali), ovvero in ogni altro caso in cui ciò sia espressamente previsto dalla regolamentazione del concorso (Consiglio Stato, sez. IV, 12.03.2007, n. 1218).
Solo le operazioni concorsuali di carattere meramente istruttorio e preparatorio non impongono la presenza di tutti i componenti del collegio e possono avvenire sotto il controllo ed alla presenza soltanto di alcuni di essi o essere delegate ad un componente della commissione (Consiglio Stato, sez. VI, 01.03.2005, n. 815) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 09.03.2012 n. 1347
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Non basta la mancanza della qualifica di amministratore per sottrarsi alla certificazione di moralità.
Pur essendo il Collegio consapevole della esistenza di contrapposti orientamenti nell’ambito della giurisprudenza del Consiglio di Stato, ritiene di dover confermare quanto statuito sul punto in precedenti occasioni (cfr. TAR Sardegna sez. I, 17.03.2010, n. 337), secondo cui la mancanza della formale qualifica di amministratore della società non può essere considerata sufficiente per sottrarsi all’applicazione degli obblighi dichiarativi imposti dalla norma richiamata, in particolar modo in presenza di procuratori speciali cui siano stati conferiti poteri di rappresentanza negoziale molto ampi, che hanno per oggetto anche la sottoscrizione di atti relativi alle procedure di appalto e dei relativi contratti (come nel caso di specie).
La prevalente giurisprudenza del Consiglio di Stato, condivisa dal Collegio, ha, infatti, chiarito che, per l’individuazione dei soggetti tenuti alle dichiarazioni sostitutive finalizzate alla verifica del possesso dei requisiti di moralità, quando si tratti di titolari di organi di persone giuridiche, al fine di ricomprenderli nella nozione di “amministratori muniti di poteri di rappresentanza” occorre esaminare i poteri, le funzioni e il ruolo effettivamente e sostanzialmente attribuiti al soggetto considerato, al di là delle qualifiche formali rivestite (in tal senso cfr. Cons. St., sez. VI, 08.02.2007, n. 523, che nella categoria degli amministratori, ai fini dell’art. 38 cit., fa rientrare sia i “soggetti che abbiano avuto un significativo ruolo decisionale e gestionale societario” sia i procuratori ai quali siano conferiti poteri di “partecipare a pubblici appalti formulando le relative offerte”; sez. VI, 12.10.2006, n. 6089; sez. V, 28.06.2004, n. 4774; sez. V, 28.05.2004, n. 3466; sez. V, 09.06.2003, n. 3169; nonché, recentemente, sez. IV, 01.04.2011, n. 2068; sez VI, 18.01.2012, n. 178; in senso contrario si veda sez. V n. 6136/2011; n. 513/2011; n. 134/2011) (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 09.03.2012 n. 273 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per le opere comportanti un aumento di volumetria l'autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata ex post dall'Autorità preposta alla tutela del vincolo.
La delicata e controversa questione dell'applicabilità della normativa sopravvenuta al procedimento amministrativo in itinere è stata tradizionalmente risolta dalla dottrina e dalla giurisprudenza facendosi riferimento al criterio del tempus regit actum (che costituisce regola generale di tutti gli atti procedimentali).
Con tale brocardo si vuole sintetizzare il principio per cui ogni atto resta soggetto al regime normativo vigente al tempo della sua emanazione (ex multis: "Il procedimento amministrativo è regolato dal principio tempus regit actum, con la conseguenza che la sua legittimità va valutata con riferimento alle norme vigenti al tempo in cui è stato adottato l’atto finale." Consiglio Stato, sez. IV, 28.09.2009, n. 5835; più recentemente anche Consiglio Stato, sez. VI, 29.03.2011 n. 1900 e TAR Sardegna, Sez. I, 21.04.2011, n. 421).
Alla luce del predetto criterio, dal quale non vi è motivo per discostarsi, dev’essere quindi individuato, nel caso in esame, il quadro normativo di riferimento, restando dunque disatteso l’argomento della difesa regionale teso a ritenere operante, ai fini dell’individuazione della disciplina applicabile, il principio del tempus regit factum, ossia del tempo della commissione dell’abuso.
In particolare, con riguardo al provvedimento di compatibilità paesaggistica impugnato, deve farsi riferimento alla disciplina vigente al tempo della sua adozione, ossia al 13.01.2010.
Orbene, all'epoca l'art. 146, comma 12, del d.lgs. n. 42 del 2004 (nel testo introdotto dall'art. 16 del d.lgs. n. 157/2006) disponeva che "l'autorizzazione paesaggistica, fuori dai casi di cui all'articolo 167, commi 4 e 5, non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi"; la medesima norma, peraltro, è ancora vigente, a seguito delle modifiche apportate dall'art. 2 del d.lgs. n. 63 del 2008 e dall’art. 4, comma 16°, lettera e) del D.L. 13.05.2011 n. 70, convertito con legge 12 luglio 2011 n. 106, anche se contenuta ora nel comma 4° ("...Fuori dai casi di cui all'articolo 167, commi 4 e 5, l'autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi ...").
L'art. 167, comma 4°, da parte sua, prevede che "L'autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei seguenti casi: a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; b) ...; c) ...", mentre il successivo comma 5° stabilisce che "il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area interessati dagli interventi di cui al comma 4 presenta apposita domanda all'autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini dell'accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi ...", allo scopo di consentire al privato, sussistendone i presupposti, di sottrarsi alla prescrizione di cui al comma 1 ("In caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti dal Titolo I della Parte terza, il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese, fatto salvo quanto previsto al comma 4").
La giurisprudenza ne ha desunto, per quel che rileva nella presente controversia, che per le opere comportanti un aumento di volumetria l'autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata ex post dall'Autorità preposta alla tutela del vincolo (v., tra le altre, Cons. Stato, Sez. IV, 08.10.2007 n. 5203), non rientrando tale ipotesi tra le fattispecie marginali -i c.d. abusi minori- che eccezionalmente ammettono la sanatoria ambientale in deroga al divieto generale di nulla-osta postumo; anche se, è stato chiarito, la stessa ratio che in materia urbanistica induce ad escludere i volumi tecnici dal calcolo della volumetria edificabile vale ugualmente per escludere tali volumi dal divieto di rilascio dell'autorizzazione paesaggistica in sanatoria, con la conseguenza che gli interventi che abbiano dato luogo alla realizzazione di soli volumi tecnici rientrano nell'eccezione di cui all'art. 167, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 42 del 2004 e sono pertanto suscettibili di accertamento della compatibilità paesaggistica (v. TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 03.11.2009 n. 6827).
Alla base della rigorosa disciplina in esame -si è detto- è la finalità di costituire un più solido deterrente contro gli abusi dei privati, così abbandonando il regime che in precedenza riconosceva un significativo peso al fatto compiuto (v. TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 19.03.2008 n. 317), senza peraltro che l'automaticità dell'ordine di ripristino dello stato dei luoghi, in conseguenza della sola carenza del titolo formale e indipendentemente da ogni indagine circa l'effettiva incidenza ambientale del singolo intervento (anche quando il privato potrebbe poi ottenere l'autorizzazione per un progetto identico) evidenzi profili di illegittimità costituzionale, a fronte di scelte del legislatore fondate su di una rigidità del sistema in tal modo funzionale alla più efficace tutela del bene "paesaggio", assegnatario di un rango primario tra i valori costituzionalmente protetti, con il solo temperamento all'assolutezza della proibizione di valutazioni postume realizzato attraverso la previsione della sanatoria dei c.d. "abusi minori" (v. TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 05.03.2009 n. 1762; Sez. II, 09.12.2008 n. 5737).
Se questo è il quadro normativo di riferimento, resta evidente l’illegittimità del provvedimento impugnato, giacché l’ufficio regionale ha applicato al caso di specie una disposizione non più vigente al tempo dell’adozione della dichiarazione di compatibilità paesaggistica.
Con la conseguenza che il provvedimento adottato è illegittimo, e che lo stesso ufficio regionale dovrà provvedere nuovamente sull’istanza del controinteressato alla luce del nuovo testo degli artt. 146 e 167 citati per verificare se nel caso di specie ricorrono le condizioni per l’applicabilità della fattispecie derogatoria introdotta nel 2006.
In particolare dovrà essere valutato se l’abuso del quale oggi si discute sia o meno sussumibile nella categoria del volume tecnico, come già questo Tribunale ha escluso sia pure nella cognizione sommaria propria del giudizio cautelare.
L’illegittimità del provvedimento di compatibilità paesaggistica comporta, in via derivata, l’illegittimità e la caducazione anche dell’accertamento di conformità n. 11 del 25.03.2010 rilasciato, su tale presupposto, dal Comune di Carloforte.
Salvi naturalmente gli ulteriori provvedimenti che le amministrazioni competenti alla definizione del procedimento riterranno di adottare (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 07.03.2012 n. 249 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa regola della pubblicità delle sedute di gara si applica in via generale e ad ogni tipo di procedura.
L’Adunanza plenaria 28.07.2011, n. 13, superando ogni precedente contrasto di giurisprudenza, ha affermato, in via generale e con riferimento a ogni tipo di procedura, il principio secondo cui la pubblicità delle sedute di gara risponde all'esigenza di tutela non solo della parità di trattamento dei concorrenti, ai quali deve essere permesso di effettuare gli opportuni riscontri sulla regolarità formale degli atti prodotti e di avere così la garanzia che non siano successivamente intervenute indebite alterazioni, ma anche dell'immanente interesse pubblico alla trasparenza ed all'imparzialità dell'azione amministrativa, le cui conseguenze negative sarebbero difficilmente apprezzabili ex post una volta rotti i sigilli ed aperti i plichi e in mancanza di un riscontro immediato; di qui il corollario che la regola dell'apertura dei plichi in seduta pubblica deve essere rispettata, in corretta interpretazione dei principi comunitari e di diritto interno in materia di trasparenza e di pubblicità nelle gare per i pubblici appalti, anche per l’apertura delle buste contenenti le offerte tecniche (mentre in precedenza parte della giurisprudenza riferiva tale dovere soltanto all'apertura delle buste recanti la documentazione amministrativa) (massima tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it - C.G.A.R.S., sentenza 06.03.2012 n. 276 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTISono tenuti a rendere le dichiarazioni di cui all'art. 38 tutti i soggetti ai quali vengono attribuite o delegate funzioni in grado di orientare l'assetto gestionale dell'impresa.
A differenza degli appalti di lavori, per i quali la figura del direttore tecnico è quella che integra i requisiti di cui all’art. 26 del d.P.R. n. 34 del 2000, nelle gare per l’aggiudicazione di appalti di servizi e di forniture, va individuato quale «direttore tecnico» ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. c), qualunque soggetto al quale, pur in assenza di specifica individuazione statutaria, vengano attribuite o delegate funzioni in grado di orientare, ancorché per determinati settori, l’assetto gestionale dell’impresa, e ciò mediante l’esercizio di poteri che per la loro ampiezza sono in grado di aggiungersi e sostanzialmente di sovrapporsi a quelli degli organi societari (massima tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it -  C.G.A.R.S., sentenza 06.03.2012 n. 275 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL’accoglimento del motivo di incompetenza dell’organo che ha provveduto assorbe ogni altro motivo dedotto nel ricorso.
E' principio generale del processo amministrativo che l’accoglimento di un vizio-motivo di incompetenza dell’organo che ha provveduto è, intrinsecamente e necessariamente, assorbente di ogni altro vizio-motivo dedotto nel ricorso; giacché tale vizio accolto, per la sua stessa natura, inficia tutti gli atti successivi, che inevitabilmente dovranno essere reiterati dall’organo competente.
L’unica eccezione, può verificarsi nei casi in cui la parte ricorrente abbia espressamente graduato l’ordine di esame dei motivi di ricorso in modo diverso; la subordinazione dell’esame del motivo di incompetenza agli altri di merito non può che intendersi come una rinuncia del ricorrente a far valere il vizio di incompetenza, per l’ipotesi che il giudice ritenga fondati gli altri motivi di cui si è chiesto l’esame in via principale, e con il corollario che in ogni caso di loro accoglimento il profilo della competenza dell’organo non andrà affatto affrontato, dovendo viceversa essere esaminato solo ove gli altri motivi siano stati tutti respinti.
L'organo dichiarato competente non è vincolato, nel successivo riesame dell’affare che a lui spetta, dalla statuizione -di rigetto o di accoglimento- dei motivi di merito che il giudice abbia reso unitamente all’accoglimento del vizio di incompetenza (massima tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it - C.G.A.R.S., sentenza 06.03.2012 n. 273 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARI: Scatta l'ingiuria anche se l'epiteto è espresso col labiale.
Scatta il reato di ingiuria anche se gli insulti sono espressi esclusivamente attraverso i movimenti delle labbra.
La Corte di Cassazione, Sez. V penale, con la sentenza 05.03.2012 n. 8558, ha respinto il ricorso dell’imputata già condannata a 200 euro di multa ed al risarcimento dei danni e delle spese dal giudice di pace di Gallipoli, sentenza poi confermata dal tribunale di Lecce, per aver proferito alla vicina gli epiteti “faccia di troia, faccia di puttana”.
Tutte le doglianze della difesa sono state respinte. In primis, la Suprema corte ha chiarito che imputato e difensore devono avere l’ultima parola a pena di nullità, se lo domandano, unicamente nell’ambito dello svolgimento della discussione. “Correttamente -invece, spiega la sentenza- il tribunale ha rilevato che le norme che stabiliscono l’ordine di assunzione delle prove hanno natura ordinatoria e per la loro violazione non è prevista alcuna ipotesi di nullità o di inutilizzabilità”.
Inoltre le dichiarazioni della parte offesa costituitasi parte civile “sono ugualmente valutabili e utilizzabili ai fini della tesi di accusa”, perché il processo penale rispondendo “all’interesse pubblicistico di accertare la responsabilità dell’imputato”, non può essere condizionato dall’interesse individuale rispetto ai profili privatistici.
In definitiva, per i giudici risulta accertato che l’imputata “ha compiuto movimenti labiali, espressivi di una delle parole usualmente utilizzate, per esporre in maniera volgare e diretta, nei confronti di destinatario di sesso femminile, un giudizio negativo sulla eticità di un suo comportamento o del suo stile di vita” (commento tratto da e link a www.diritto24.ilsole24ore.com).

APPALTIRimessa all'Adunanza Plenaria la questione della "gravità" della irregolarità contributiva e della discrezionalità della Stazione appaltante in presenza di un DURC irregolare.
Il d.l. n. 70/2011, ha inserito nel comma 2 dell’art. 38 una previsione volta a dare rilevanza al d.u.r.c. e ad escludere ogni discrezionalità della stazione appaltante nella valutazione della gravità delle violazioni previdenziali e assistenziali. Viene stabilito, in particolare, che ai fini del comma 1, lett. i), dell’art. 38, si intendono gravi le violazioni ostative al rilascio del documento unico di regolarità contributiva di cui all'art. 2, comma 2, d.l. 25.09.2002 n. 210, convertito in l. 22.11.2002 n. 266.
La VI Sezione del Consiglio di Stato, visto il contrasto giurisprudenziale precedente all'entrata in vigore del Decreto Sviluppo, rimette all'Adunanza Plenaria la questione della “gravità” della irregolarità contributiva, affinché sia chiarito se anche prima del 14.05.2011, la presenza di un DURC irregolare, valesse ad escludere ogni valutazione discrezionale della stazione appaltante (massima tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, ordinanza 05.03.2012 n. 1245 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'inserimento di documentazione afferente l'offerta economica all'interno della busta relativa all'offerta tecnica legittima l'esclusione da gara.
Nel caso di specie l'offerente aveva inserito la dichiarazione concernente i tempi di esecuzione dei lavori oggetto di appalto nella busta contenente l’offerta tecnica, in violazione puntuale prescrizione del bando di gara che invece ne aveva imposto la presentazione nell’ambito dell’offerta economica.
Ad avviso dei giudici di prima cure ciò ha irrimediabilmente pregiudicato le esigenze di segretezza che presidiano lo svolgimento della procedura e, conseguentemente, la parità di trattamento tra i concorrenti. Tale orientamento risulta confermato dai giudici di Palazzo Spada in virtù del principio consolidato secondo il quale "la separazione tra le fasi di valutazione dell’offerta tecnica e di quella economica, propria delle procedure di affidamento da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, è finalizzato ad evitare che la commissione di gara sia influenzata nella valutazione dell’offerta tecnica dalla conoscenza di elementi dell’offerta economica".
I giudici ritengono che ciò comporti un inevitabile perturbamento del processo valutativo che impone necessariamente, a tutela dei principi di parità di trattamento e trasparenza, l’esclusione del concorrente dalla gara che abbia determinato tale sovrapposizione, anche in assenza di espresse comminatorie espulsive della legge di gara (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it -
Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 01.03.2012 n. 1196 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Indennità di vigilanza e indennità di disagio.
Dopo il Giudice del Lavoro di Verona (sentenza 23.02.2012) anche il Tribunale di Rimini, con la sentenza 01.03.2012 n. 122, si esprime sulla cumulabilità dell'indennità di vigilanza con l'indennità di disagio; questa volta il Giudice esamina la fattispecie in relazione alle previsioni del CCNL, del contratto decentrato integrativo stipulato nell'ente e della nullità della clausola negoziale (che il Tribunale ritiene non sussistere) (tratto da www.publika.it).

APPALTI SERVIZI: Il mancato rispetto dei limiti tabellari afferenti il costo del lavoro non determina l'automatica esclusione dalla gara pubblica.
La doglianza centrale sulla quale lo stesso è basato si ricollega allo scostamento rinvenibile tra i valori retributivi riferiti dall’aggiudicataria nelle proprie giustificazioni e quelli recati, invece, dalle tabelle ministeriali annesse al D.M. 25.02.2009 (“Determinazione del costo medio orario del lavoro dei dipendenti da imprese esercenti servizi di pulizia …”), nonché dal CCNL del 19.12.2007.
A tale riguardo la Sezione, premesso un doveroso richiamo al consolidato principio (già ricordato dal primo Giudice) per cui il mancato rispetto dei limiti tabellari afferenti il costo del lavoro non determina l'automatica esclusione dalla gara pubblica, ma costituisce un –pur importante- indice di anomalia dell'offerta, che dovrà essere verificata mediante un giudizio complessivo di rimuneratività (cfr., tra le tante, C.d.S., III, 07.03.2011, n. 1419; VI, 21.07.2010, n. 4783; V, 07.10.2008, n. 4847), intende mettere in luce soprattutto che, se già in via generale i dati recati dalle predette tabelle non sono inderogabili, e quindi non sono in grado di vincolare la valutazione di anomalia per le offerte delle comuni società lucrative, la valenza delle stesse tabelle diventa a maggior ragione solo indicativa nei confronti di società, come le cooperative, il cui costo del lavoro è per varie ragioni più contenuto.
D’altra parte, mentre le tabelle anzidette esprimono dei costi “medi”, per le cooperative, invece, per quanto si è detto sopra, il vincolo posto dall’art. 3 della legge n. 142/2001 si traduce essenzialmente- almeno nel contesto proprio della presente causa- in un vincolo a corrispondere al socio lavoratore un trattamento economico complessivo non inferiore ai minimi previsti dalla contrattazione collettiva. E proprio la garanzia del rispetto degli anzidetti minimi, e nulla di più, era pretesa dall’art. 11.2 del capitolato speciale (“L’impresa dovrà corrispondere ai propri dipendenti almeno il trattamento minimo spettante in base agli accordi nazionali e locali vigenti”), e doveva pertanto ispirare la verifica di congruità sub judice (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29.02.2012 n. 1183 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'esame delle giustificazioni presentate dal soggetto che è tenuto a dimostrare la non anomalia dell'offerta è vicenda che rientra nella discrezionalità tecnica dell'Amministrazione, per cui soltanto in caso di macroscopiche illogicità, vale a dire di errori di valutazione evidenti e gravi, oppure di valutazioni abnormi o affette da errori di fatto, il giudice della legittimità può intervenire, restando per il resto la capacità di giudizio confinata entro i limiti dell'apprezzamento tecnico proprio di tale tipo di discrezionalità.
Nel caso di ricorso proposto avverso il giudizio di anomalia dell'offerta presentata in una pubblica gara, il Giudice amministrativo possa sindacare le valutazioni compiute dall’Amministrazione sotto il profilo della loro logicità e ragionevolezza e della congruità dell'istruttoria, mentre non possa invece operare autonomamente la verifica della congruità dell'offerta presentata e delle sue singole voci, sovrapponendo così la sua idea tecnica al giudizio -non erroneo né illogico- formulato dall'organo amministrativo cui la legge attribuisce la tutela dell'interesse pubblico nell'apprezzamento del caso concreto, poiché, così facendo, il Giudice invaderebbe una sfera propria della P.A..
Si precisa poi sovente che il giudizio di verifica della congruità di un'offerta potenzialmente anomala ha natura globale e sintetica, vertendo sulla serietà o meno dell'offerta nel suo insieme. L'attendibilità della offerta va cioè valutata nel suo complesso, e non con riferimento alle singole voci di prezzo ritenute incongrue, avulse dalla incidenza che potrebbero avere sull'offerta economica nel suo insieme; questo ferma restando la possibile rilevanza del giudizio di inattendibilità che dovesse investire voci che, per la loro rilevanza ed incidenza complessiva, potrebbero rendere l'intera operazione economica implausibile e, per l'effetto, insuscettibile di accettazione da parte dell’Amministrazione, in quanto insidiata da indici strutturali di carente affidabilità.
Il giudizio di anomalia postula una motivazione rigorosa ed analitica ove si concluda in senso sfavorevole all’offerente, mentre non si richiede, di contro, una motivazione analitica nell’ipotesi di esito positivo della verifica di anomalia, nel qual caso è sufficiente motivare per relationem con riferimento alle giustificazioni presentate dal concorrente (sempre che a loro volta adeguate). Di conseguenza, in questa seconda evenienza incombe su chi contesti l'aggiudicazione l'onere di individuare gli specifici elementi da cui il Giudice amministrativo possa evincere che la valutazione tecnico-discrezionale dell'Amministrazione sia stata manifestamente irragionevole, ovvero basata su fatti erronei o travisati.

Nelle procedure per l'aggiudicazione di appalti pubblici l'esame delle giustificazioni presentate dal soggetto che è tenuto a dimostrare la non anomalia dell'offerta è vicenda che rientra nella discrezionalità tecnica dell'Amministrazione, per cui soltanto in caso di macroscopiche illogicità, vale a dire di errori di valutazione evidenti e gravi, oppure di valutazioni abnormi o affette da errori di fatto, il giudice della legittimità può intervenire, restando per il resto la capacità di giudizio confinata entro i limiti dell'apprezzamento tecnico proprio di tale tipo di discrezionalità (C.d.S., V, 18.08.2010, n. 5848; 23.11.2010, n. 8148; 22.02.2011, n. 1090).
La giurisprudenza è altresì saldamente orientata nel senso che, nel caso di ricorso proposto avverso il giudizio di anomalia dell'offerta presentata in una pubblica gara, il Giudice amministrativo possa sindacare le valutazioni compiute dall’Amministrazione sotto il profilo della loro logicità e ragionevolezza e della congruità dell'istruttoria, mentre non possa invece operare autonomamente la verifica della congruità dell'offerta presentata e delle sue singole voci, sovrapponendo così la sua idea tecnica al giudizio -non erroneo né illogico- formulato dall'organo amministrativo cui la legge attribuisce la tutela dell'interesse pubblico nell'apprezzamento del caso concreto, poiché, così facendo, il Giudice invaderebbe una sfera propria della P.A. (C.d.S., IV, 27.06.2011, n. 3862; V, 28.10.2010, n. 7631).
Si precisa poi sovente che il giudizio di verifica della congruità di un'offerta potenzialmente anomala ha natura globale e sintetica, vertendo sulla serietà o meno dell'offerta nel suo insieme. L'attendibilità della offerta va cioè valutata nel suo complesso, e non con riferimento alle singole voci di prezzo ritenute incongrue, avulse dalla incidenza che potrebbero avere sull'offerta economica nel suo insieme (V, 01.10.2010, n. 7262; 11.03.2010 n. 1414); questo ferma restando la possibile rilevanza del giudizio di inattendibilità che dovesse investire voci che, per la loro rilevanza ed incidenza complessiva, potrebbero rendere l'intera operazione economica implausibile e, per l'effetto, insuscettibile di accettazione da parte dell’Amministrazione, in quanto insidiata da indici strutturali di carente affidabilità (V, 28.10.2010, n. 7631).
E’ ormai acquisito anche l’ulteriore punto per cui il giudizio di anomalia postula una motivazione rigorosa ed analitica ove si concluda in senso sfavorevole all’offerente, mentre non si richiede, di contro, una motivazione analitica nell’ipotesi di esito positivo della verifica di anomalia, nel qual caso è sufficiente motivare per relationem con riferimento alle giustificazioni presentate dal concorrente (sempre che a loro volta adeguate). Di conseguenza, in questa seconda evenienza incombe su chi contesti l'aggiudicazione l'onere di individuare gli specifici elementi da cui il Giudice amministrativo possa evincere che la valutazione tecnico-discrezionale dell'Amministrazione sia stata manifestamente irragionevole, ovvero basata su fatti erronei o travisati (VI, 03.11.2010, n. 7759; V, 22.02.2011, n. 1090; 23.11.2010, n. 8148) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29.02.2012 n. 1183 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Datazione interventi e prescrizione.
In tema di reati edilizi, l'incertezza assoluta sulla data di commissione del reato o, comunque, sull'inizio del termine di prescrizione che consente l'applicazione del principio del favor rei non ammette alcun automatismo e deve risultare da dati obiettivi.
Il giudice è comunque tenuto all'indicazione delle ragioni per le quali non è possibile pervenire, anche sulla base di deduzioni logiche, ad una più puntuale collocazione temporale dell'intervento abusivo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.02.2012 n. 7065 - tratto da www.lexambiente.it).

APPALTI SERVIZI: Per la gestione di un servizio di mensa scolastica è indispensabile il requisito dell’esperienza.
Come condivisibilmente affermato in giurisprudenza «la gestione di un servizio di mensa scolastica non [è] affatto paragonabile alla generica ristorazione collettiva e, tanto meno, alla semplice fornitura di generi alimentari (…) tale “assimilazione è improponibile anche solo a voler considerare la fattura dei pasti, relativamente ai quali, per i bambini nell'età della crescita e dello sviluppo, occorre seguire particolari canoni dietetici e richiedono, quindi, anche nei casi in cui i pasti siano stati già prestabiliti sulla base delle prescrizioni di esperti dell'alimentazione dell'infanzia, una sperimentata e non un'improvvisata perizia di esecuzione.
La gestione di una mensa per l'infanzia, inoltre, non si esaurisce nella sola attività materiale di distribuzione dei pasti, ma comprende, per i risvolti di ordine educativo e psicologico che implica la particolarità dei soggetti ai quali è destinata, anche un'attività di assistenza che, per quanto soggetta alla vigilanza e alla supervisione del personale docente scolastico, può essere espletata solo da personale qualificato e munito di specifiche ed adeguate conoscenze” (così testualmente Cons. St., sez. V, n. 4237/2001, cit.)
» (cfr.: Consiglio di Stato, sez. V, 29.08.2006, n. 5035) (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 20.02.2012 n. 136 -
link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Piscine e disciplina antisismica.
Gli artt. 83 e seguenti del d.P.R. n. 380 del 2001 devono essere interpretati nel senso che non escludono le piscine. Tali disposizioni si applicano, infatti, a tutte le costruzioni la cui sicurezza possa interessare la pubblica incolumità, a nulla rilevando la natura dei materiali usati e delle strutture realizzate, stante l'esigenza di massimo rigore nelle zone dichiarate sismiche, che rende necessari i controlli e le cautele prescritte anche quando si impiegano elementi strutturali meno solidi e duraturi rispetto alla muratura ed al cemento armato.
Né alcun rilievo può assumere il carattere eventualmente precario della costruzione, proprio in considerazione delle prevalenti esigenze di sicurezza alla tutela delle quali la normativa antisismica si correla (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.02.2012 n. 6591 - tratto da www.lexambiente.it).

APPALTI: Art. 38, comma 1, lettera f), del d.lgs. n. 163 del 2006 - Valutazione di inaffidabilità da parte della stazione appaltante - Ampia discrezionalità - Sindacato da parte del giudice amministrativo - Limiti - Adozione del criterio della "non condivisione" - Superamento dei limiti esterni della giurisdizione.
In tema di appalti pubblici le Sezioni Unite della Corte di cassazione, con due sentenze in pari data, hanno affermato che il Consiglio di Stato eccede dai limiti della propria giurisdizione, sconfinando nella sfera della discrezionalità amministrativa, qualora – in relazione all’impugnazione di provvedimenti di esclusione dalla possibilità di partecipare ad un bando di gara per inaffidabilità dell’appaltatore – li annulli sulla base della non condivisione degli elementi posti dalla P.A., senza ravvisare la pretestuosità di tale valutazione (Corte di Cassazione, Sezz. Unite civili, sentenza 17.02.2012 n. 2312 e sentenza 17.02.2012 n. 2313 - link a www.cortedicassazione.it).

EDILIZIA PRIVATA: Rilascio del permesso di costruire e potere-dovere dell'amministrazione.
Nel procedimento di rilascio del permesso di costruire l'amministrazione comunale ha il potere-dovere di verificare l'esistenza, in capo al richiedente, di un titolo idoneo al godimento dell'intero bene interessato dal progetto e ciò pure a fronte della pacifica circostanza che il titolo abilitativo finale è comunque sempre rilasciato "facendo salvi i diritti dei terzi”. Si tratta di un'attività istruttoria che non è diretta a risolvere i conflitti di interesse tra le parti private in ordine all'assetto proprietario degli immobili, ma che risulta invece finalizzata ad accertare il requisito della legittimazione soggettiva del richiedente.
L'esame del titolo di godimento operato dall'amministrazione, infatti, non costituisce una sorta di eccezionale intrusione in un ambito privatistico, ma rappresenta la coerente applicazione del principio secondo cui l'autorità pubblica deve sempre riscontrare la legittimazione del soggetto che propone un'istanza, nel contesto della generale esigenza di verifica sull'ordinato svolgimento delle attività sottoposte al controllo autorizzatorio (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.02.2012 n. 5633 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di costruzione.
La definizione delle opere di nuova costruzione è data dall'art. 3, lett. e), del dpr 380/2001 con indicazione di carattere residuale comprendente tutti quegli interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio non rientranti nelle categorie della manutenzione, del restauro o del risanamento conservativo che hanno, come conseguenza, la trasformazione permanente del suolo inedificato.
Costituisce, pertanto, "costruzione" in senso tecnico-giuridico qualsiasi manufatto tridimensionale, comunque realizzato, che comporti una ben definita occupazione del terreno e dello spazio aereo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.02.2012 n. 5624 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Titolo abilitativo edilizio e suddivisione attività edificatoria.
Il regime dei titoli abilitativi edilizi non può essere eluso attraverso la suddivisione dell'attività edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo più limitate per la loro più modesta incisività sull'assetto territoriale.
L'opera deve essere considerata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i suoi singoli componenti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.02.2012 n. 5618 - tratto da www.lexambiente.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il sindaco non può utilizzare le ordinanze per esigenze prevedibili ed ordinarie.
L’art. 50, comma 5, d.lgs. 267 del 2000 così recita: “In particolare, in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale le ordinanze contingibili e urgenti sono adottate dal sindaco, quale rappresentante della comunità locale. Negli altri casi l'adozione dei provvedimenti d'urgenza, ivi compresa la costituzione di centri e organismi di referenza o assistenza, spetta allo Stato o alle regioni in ragione della dimensione dell'emergenza e dell'eventuale interessamento di più ambiti territoriali regionali”.
Il Sindaco di Cagliari, di fronte ad una segnalazione dell’ASL che richiedeva l’adozione di provvedimenti al fine di eliminare l’inconveniente riscontrato (la presenza di animali da considerarsi non accettabile nel centro cittadino), da un lato ha omesso di intervenire, dall’altro ha utilizzato il potere di ordinanza di cui all’art. 50 d.lgs. 267/2000 per consentire la detenzione di animali.
La manifesta fondatezza del ricorso e la grave illegittimità del provvedimento sotto diversi profili inducono ad esaminare congiuntamente le censure dedotte dalla ricorrente.
E’ agevole ricordare che il potere di ordinanza sindacale di cui agli artt. 50, comma 5, e 54 d.lgs. n. 267 del 2000 ha connotati di intervento extra ordinem giustificato solo da circostanze imprevedibili che sono all'origine di vere e proprie emergenze igienico-sanitarie non fronteggiabili con mezzi ordinari.
Il potere che il Sindaco esercita nell’emanare ordinanze contingibili ed urgenti presuppone, quindi, oltre all'esistenza ed indicazione, nel provvedimento, di una situazione di pericolo, quale ragionevole probabilità che accada un evento dannoso ove la P.A. non intervenga prontamente, anche, o meglio soprattutto, la necessità di provvedere con immediatezza in riferimento a situazioni di carattere eccezionale ed imprevedibile, cui sia impossibile fare fronte con gli strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento.
In definitiva, ai sensi degli artt. 50 e 54 del Testo Unico enti locali, per giustificare il ricorso allo strumento dell'ordinanza, va precisato che il collegamento con esigenze di protezione dell'igiene e della salute pubblica costituisce presupposto necessario ma non certo sufficiente, qualora non sussistano gli ulteriori particolari requisiti di urgenza.
Va poi ricordato che il potere di ordinanza incontra oltre ai limiti sopra citati (la presenza dei presupposti per il suo esercizio) precisi limiti procedimentali.
L’eccezionalità del potere da esercitare e l’atipicità contenutistica dell’atto da adottare impongono all’Amministrazione una dettagliata indicazione dei motivi che hanno indotto ad emanare un atto eccezionale. Né l’urgenza di adottare l’atto può consentire di omettere una adeguata fase istruttoria.
Nel caso sottoposto all’attenzione del Collegio il Sindaco ha:
1) utilizzato il potere di ordinanza previsto dall’art. 50 del testo Unico enti locali (per il caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica) senza che ve ne fossero i presupposti (l'ordinanza contingibile ed urgente non può essere utilizzata per soddisfare esigenze che siano invece prevedibili ed ordinarie);
2) ha realizzato il risultato di consentire la detenzione di animali nei parchi e giardini pubblici e privati la cui superficie risulti uguale o superiore a 7.000 mq con un'azione connotata da un manifesto sviamento di potere, mediante l'esercizio di una potestà pubblica formalmente diversa, in palese carenza dei presupposti che la giustificassero;
3) ha adottato il provvedimento in carenza assoluta di adeguata istruttoria;
4) ha omesso qualunque forma di motivazione dell’atto.
Sono pertanto fondati tutti i motivi di ricorso che deve essere accolto con conseguente annullamento dell’atto impugnato (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 10.02.2012 n. 110 -
link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Fertirrigazione.
La pratica della “fertirrigazione”, la cui disciplina si pone in deroga alla normativa sui rifiuti, rispetto alla quale è autonoma ed indipendente e non richiede che gli effluenti provengano da attività agricola e siano riutilizzati nella stessa attività agricola, presuppone l'effettiva utilizzazione agronomica delle sostanze, la quale implica che essa sia di una qualche utilità per l'attività agronomica e lo stato, le condizioni e le modalità di utilizzazione delle sostanze compatibili con tale pratica, con la conseguenza che, in difetto, essa resta sottoposta alla disciplina generale sui rifiuti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.02.2012 n. 5039 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Modifica destinazione di uso.
Nell'ipotesi in cui si abbia una modificazione della destinazione d'uso dell'immobile rispetto a quella preesistente, senza la realizzazione di opere, e salva l'ipotesi di modificazioni poste in essere tra categorie omogenee è configurabile la fattispecie contravvenzionale di cui all'art. 44, primo comma lett. a), del DPR n. 380/2001, che ripete sostanzialmente la formulazione dell'art. 20, lett. a), della L. n. 47/1985, stante la inosservanza delle prescrizioni dello strumento urbanistico, allorché detta modificazione risulti incompatibile con le previsioni in esso contenute (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.02.2012 n. 4943 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Parcheggi realizzati oltre gli standard normativi sono liberamente cedibili.
Con una sentenza complessa e articolata, la Corte di Cassazione interviene nuovamente in tema di parcheggi offendo precise risposte nella ipotesi di realizzazioni oltre lo standard. In particolare, individua il seguente principio:
i parcheggi realizzati in eccedenza rispetto allo spazio minimo richiesto dall'art. 2, legge n. 122 del 1989 non sono soggetti a vincolo pertinenziale a favore delle unità immobiliari del fabbricato, conseguentemente l'originario proprietario-costruttore dell'edificio può legittimamente riservarsi o cedere a terzi la proprietà di tali parcheggi, purché nel rispetto del vincolo di destinazione nascente da atto d'obbligo.
Nel caso di specie due coniugi, proprietari di un appartamento, avevano acquistato dal proprietario-costruttore due box ed un posto auto, ma dopo la loro immissione nel possesso dei beni, la società venditrice aveva abusivamente occupato il posto auto loro assegnato. Da qui la richiesta al giudice di prime cure di dichiarare il loro diritto di proprietà del posto auto in precedenza loro assegnato o comunque un posto auto non inferiore a mq 30,40, oltre al risarcimento dei danni. In primo grado il tribunale dichiarava gli attori proprietari di un posto auto di superficie non inferiore a mq 24,00, condannandoli al pagamento del corrispettivo del prezzo del posto auto.
Successivamente, in sede di appello –proposto dal successore a titolo particolare della società– la Corte distrettuale sosteneva la sentenza impugnata, evidenziando che la riserva di spazi di parcheggi in misura non inferiore ad un mq per ogni 10 metri cubi di costruzione (cfr. art. 2, l. 122/1989) non era confutata dal fatto di avere i due coniugi acquistato due box per ricovero delle vetture, poiché secondo la giurisprudenza prevalente della Cassazione, giurisprudenziale pur essendo i box oggetto di autonomo diritto di proprietà, non poteva essere escluso il vincolo pertinenziale tra l'appartamento ed il posto auto, essendo attribuita soltanto a quest'ultimo la funzione di soddisfare la previsione normativa. Da qui, l’irrilevanza dell’acquisto da parte dei coniugi dei due box auto. Inoltre, veniva mantenuto il riconoscimento alla società del corrispettivo per il trasferimento del diritto all’uso e al godimento dell’area di parcheggio.
Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione il successore a titolo particolare e controricorso i due coniugi. I giudici di Piazza Cavour ricostruiscono il complesso percorso giurisprudenziale e dottrinario sviluppato negli ultimi anni evidenziando i punti di snodo della disciplina delle aree di parcheggio nei condomini.
La questione essenziale affrontata dagli Ermellini è se i parcheggi realizzati in eccedenza rispetto alla superficie minima inderogabilmente richiesta dalla normativa pubblicistica richiamata (art. 2) siano soggetti al diritto d'uso da parte degli acquirenti delle singole unità immobiliari dell'edificio ovvero ad un diverso regime. Al riguardo, la Suprema Corte non condivide la decisione della Corte distrettuale. Quest’ultima, infatti, nell’estendere ai parcheggi realizzati in eccedenza il vincolo pertinenziale tra l’appartamento ed il posto auto, ha argomentato la decisione con la necessità di soddisfare la funzione pubblicistica prevista dalla normativa. In realtà, ciò non appare corretto perché porterebbe alla conseguenza di non distinguere i parcheggi che rientrano nello standard legale e quelli che non vi rientrano, tradendo la ratio della legge che, giusta anche l’opinione pacifica in dottrina, consente l’utilizzazione e la circolazione libera dei parcheggi che eccedono lo standard vincolistico imposto.
Sotto il profilo civilistico –si legge nella sentenza– i parcheggi realizzati (all’interno degli standard ndr) non possono essere ceduti separatamente dall’unità immobiliare alla quale sono legati da vincolo pertinenziale, sotto pena di nullità. Situazione diversa è per i posti in auto in sovrannumero, i quali possono essere liberamente ceduti in quanto realizzati in eccedenza rispetto agli standard fissati dalla legge.
Da qui la decisione di cassare la sentenza impugnata, rinviando per le spese di giudizio ad altra sezione della Corte territoriale (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 03.02.2012 n. 1664 - link a www.altalex.com).

COMPETENZE PROGETTUALI: Competenze professionali nel settore dell’architettura in caso di interventi su immobili storici e artistici. Dubbi circa la compatibilità con le direttive comunitarie (il Consiglio di Stato rimette alla Corte di giustizia dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 267 del TFUE, varie questioni interpretative pregiudiziali).
In materia di disciplina delle competenze professionali degli architetti per le prestazioni sugli immobili di interesse culturale, vanno sottoposti alla Corte di Giustizia dell’Unione europea i seguenti quesiti:
a) se la direttiva comunitaria n. 85/384/CE, nella parte in cui ammette (artt. 10 e 11), in via transitoria, all’esercizio delle attività nel settore dell’architettura i soggetti migranti muniti dei titoli specificamente indicati, non osta a che in Italia sia ritenuta legittima una prassi amministrativa, avente come base giuridica l’art. 52, 2° comma, parte prima del r.d. n. 2537 del 1925, che riservi specificamente taluni interventi sugli immobili di interesse artistico soltanto ai candidati muniti del titolo di "architetto" ovvero ai candidati che dimostrino di possedere particolari requisiti curriculari, specifici nel settore dei beni culturali e aggiuntivi rispetto a quelli genericamente abilitanti l’accesso alle attività rientranti nell’architettura ai sensi della citata direttiva;
b) se in particolare tale prassi può consistere nel sottoporre anche i professionisti provenienti da Paesi membri diversi dall’Italia, ancorché muniti di titolo astrattamente idoneo all’esercizio delle attività rientranti nel settore dell’architettura, alla specifica verifica di idoneità professionale (ciò che avviene anche per i professionisti italiani in sede di esame di abilitazione alla professione di architetto) ai limitati fini dell’accesso alle attività professionali contemplate nell’art. 52, comma secondo, prima parte del Regio decreto n. 2357 del 1925 (massima tratta da www.regione.piemonte.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, ordinanza 27.01.2012 n. 386 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Aria. Ubicazione industrie insalubri.
La ubicazione di uno stabilimento che effettui lavorazioni insalubri a distanza tale da escludere immissioni nocive ai sensi dell'art. 216 TULS deve intendersi realizzata quando lo stabilimento sia ubicato in zona che la pianificazione riservi alle attività industriali e che pertanto deve ritenersi isolata da una adeguata zona di rispetto dagli insediamenti di tipo residenziale.
Ciò non significa che siano eluse le esigenze di tutela della salute pubblica dei residenti a ridosso dell’area in questione. Ma a tale proposito soccorrono gli obblighi di adottare ogni tipo di accorgimento tecnico in concreto necessario ad evitare rischi nel corso dello svolgimento della attività produttiva (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 26.01.2012 n. 112 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOUn Tfr più ricco per gli statali. Stop al prelievo sull'accantonamento a titolo di rivalsa. Sentenza del Tar Calabria: trattenuta illegittima (crea disparità con i privati) e da restituire.
Sugli stipendi degli statali addio prelievo sull'accantonamento per la buonuscita a titolo di rivalsa. La trattenuta è illegittima perché si configura una disparità di trattamento con i dipendenti del settore privato. Un gruppo di magistrati amministrativi ricorrono al Tar e ottengono la declaratoria di illegittimità del prelievo di una quota della retribuzione effettuato dall'amministrazione a titolo di rivalsa sull'accantonamento per l'indennità di buonuscita: scatta la restituzione delle trattenute sugli accantonamenti, nella misura del 2,50 per cento sull'80 per cento della retribuzione, eseguite a partire dal primo gennaio 2011 a oggi, più interessi e rivalutazione.
Lo stabilisce il
TAR Calabria-Reggio Calabria, nella sentenza 18.01.2012 n. 53, che si riserva di sottoporre la legittimità della norma alla Consulta.
Nel mirino il comma 10 dell'art. 12 del dl 78/2010, convertito dalla legge 122/2010. L'area di riferimento è costituita dalle anzianità contributive maturate a partire dal primo gennaio 2011 dai «lavoratori alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istat ai sensi del comma 3 dell'articolo 1 della legge 196/2009, per i quali il computo dei trattamenti di fine servizio, comunque denominati, in riferimento alle predette anzianità contributive non è già regolato in base a quanto previsto dall'articolo 2120 Cc»: il computo del tfr, secondo la disposizione, deve avvenire secondo la norma codicistica con l'applicazione dell'aliquota del 6,91 per cento.
Secondo i magistrati ricorrenti la novella implicherebbe l'abrogazione nell'indennità di buonuscita dell'accantonamento a titolo di rivalsa. Il perdurare del prelievo discriminerebbe i dipendenti pubblici rispetto a quelli del settore privato che alla trattenuta per rivalsa non sono soggetti. La novella riforma in pieno l'istituto previdenziale e non fa salva la rivalsa del 2,5 per cento: la trattenuta, insomma, è del 6,91 per cento su tutta la retribuzione. E crea squilibri mantenere la rivalsa sul dipendente in assenza della fascia esente del 20 per cento (laddove la base di calcolo della ritenuta era l'80 per cento dello stipendio e non tutto l'importo).
Il risultato concreto è una diminuzione di stipendio e tfr, con l'unico effetto di alleggerire la porzione di accantonamento a carico del datore: l'applicazione congiunta delle nuove regole sul tfr e della vecchia ritenuta a carico del dipendente pubblico, infatti, farebbe in modo che la quota a valere sulle casse dell'amministrazione non sia del 6,91 per cento, ma del 4,91 per cento, e il trattamento economico dei dipendenti sarebbe inciso al 2,50 per cento sull'80 per cento della retribuzione e dunque, se calcolato sull'intera retribuzione, nella misura del 2 per cento (articolo ItaliaOggi del 15.03.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONDOMINIO: E' illegittima la deliberazione su questioni che non siano state inserite all'ordine del giorno e che non siano state oggetto di pregressa informativa ai condomini partecipanti.
Laddove l'art. 1136 c.c., al comma VI, prescrive che i partecipanti al condominio edilizio debbano essere invitati alla riunione assembleare, esso richiede, nel contempo, che gli stessi debbano essere previamente messi al corrente dei temi oggetto della delibazione collegiale sì da consentire una partecipazione effettiva e concreta e permettere, nel contempo, di poter operare le personali valutazioni in merito anche all'opportunità o alla necessità, in ragione del personale interesse, a intervenire alla stessa; ne consegue che l'eventuale deliberazione su questioni che non siano state inserite all'ordine del giorno e che non siano state oggetto di pregressa informativa ai condomini partecipanti, proprio perché pregiudicante detto diritto alla partecipazione effettiva e consapevole normativamente sancito dagli artt. 1105 e 1136 c.c., è illegittima e, pertanto, possibile oggetto di giudiziale gravame ai sensi dell'art. 1137 c.c. (TRIBUNALE di Roma, Sez. V, sentenza 03.11.2011 n. 21319 - link a www.neldiritto.it).

AGGIORNAMENTO AL 12.03.2012

ã

NOVITA' NEL SITO

Inserito nel sito il seguente nuovo DOSSIER: ● certificato di destinazione urbanistica.

QUESITI & PARERI

APPALTI: Esclusione dalla gara, quando sussiste il reato grave?
Domanda
Cosa si intende con reato grave, per giustificare l'esclusione dalla gara di affidamento di appalti pubblici?
Risposta
L'Amministrazione nell'interesse a non contrarre obbligazioni con soggetti che non garantiscano adeguata moralità professionale, ha la facoltà di escludere se condannati per reato grave.
La gravità del reato deve essere valutata secondo il riflesso che consegue alla moralità professionale e il contenuto del contratto oggetto della gara. In altri termini la "gravità" del reato, nell'accezione voluta dal Legislatore del Codice dei Contratti con il citato art. 38, è un concetto giuridico a contenuto indeterminato, da valutarsi necessariamente non soltanto in sé e per sé, ma di volta in volta con riferimento ad una serie di parametri quali la maggiore o minore connessione con l'oggetto dell'appalto, il lasso di tempo intercorso dalla condanna, l'eventuale mancanza di recidiva, le ragioni in base alle quali il Giudice penale ha commisurato in modo più o meno lieve la pena (07.03.2012 - tratto da www.ipsoa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Verifica dell'interesse culturale ai sensi dell'art. 12 del Codice dei beni culturali e del paesaggio (Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Ufficio Legislativo, nota 25.11.2011 n. 21034 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Quesito circa l'applicabilità della depenalizzazione prevista dall'art. 181, comma 1-ter, ai beni paesaggistici individuati con apposito provvedimento (Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Ufficio Legislativo, nota 02.11.2011 n. 19606 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: quesito in merito all'articolo 6, comma 10, del D.P.R. n. 139/2010 (Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Ufficio Legislativo, nota 25.10.2011 n. 19196 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Piano Territoriale Paesistico Regionale del Lazio - beni paesistici individuati ai sensi dell'art. 134, comma 1, lettera c), del Codice dei beni culturali e del paesaggio (Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Ufficio Legislativo, nota 18.10.2011 n. 18886 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Roma, Comprensorio archeologico dell'Appia antica - richiesta di chiarimenti in merito ai procedimenti d rilascio di titoli abilitativi all'edificazione e ai procedimenti di condono edilizio (Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Ufficio Legislativo, nota 05.10.2011 n. 18056 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: ordinanza del TAR Puglia, Bari, n. 790/2011 (Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Ufficio Legislativo, nota 05.07.2011 n. 12974 di prot.).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOTrasformazione da part-time a full-time e limiti alle assunzioni.
Sul tema, ritorna la Corte dei Conti Sez. Reg.le Lombardia, con il parere 05.03.2012 n. 51 e conferma:
"... l'aumento delle ore lavorative del personale in servizio è sicuramente assimilabile ad una nuova assunzione nel caso in cui il dipendente era stato assunto a tempo parziale ..."
"Al contrario, si dovrebbe pervenire alla conclusione che la trasformazione dei rapporti di lavoro da tempo parziale a tempo pieno non è assimilabile a nuova assunzione, nel caso in cui i dipendenti siano stati assunti originariamente a tempo pieno e abbiano successivamente avuto una riduzione dell'orario di lavoro..." (tratto da www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOChi esagera con le progressioni verticali paga i danni. Responsabilità erariale per l'ente che non rispetta il tetto del 50% delle assunzioni dall'esterno. La corte dei conti bacchetta l'università della Basilicata.
Un numero eccessivo di progressioni verticali determina il maturare di responsabilità amministrativa in capo agli amministratori ed ai dirigenti che le hanno disposte.
E' questo il principio stabilito per la prima volta dalla Corte dei conti, I Sez. giurisdizionale centrale, sentenza 03.02.2012 n. 52.
Da sottolineare che la sentenza ha ribaltato la pronuncia di primo grado che aveva mandato assolto rettore, componenti il consiglio di amministrazione e dirigenti amministrativi della Università della Basilicata, giudicando assente il requisito della colpa grave. Nel caso specifico viene rilevata una duplice illegittimità: la mancata preventiva programmazione del fabbisogno del personale ed il mancato rispetto del tetto del 50% rispetto alle assunzioni dall'esterno.
Il primo elemento che la sentenza mette in evidenza è la necessità del rispetto da parte di tutte le amministrazioni pubbliche, ivi comprese le università, del vincolo alla programmazione del fabbisogno delle assunzioni. Per cui la mancata preventiva adozione da parte dell'ente di questo documento deve essere considerato come causa di illegittimità dei provvedimenti di progressione verticale che sono stati adottati in violazione di tale principio. Il contratto collettivo nazionale di lavoro del personale delle università, ma disposizioni analoghe sono contenute in tutti gli altri contratti collettivi nazionali, ivi compreso quello del personale degli enti locali (esattamente l'articolo 4 del Ccnl 31.03.1999, cd nuovo ordinamento professionale), prevede la possibilità di effettuare progressioni verticali.
In via interpretativa è stato generalmente inteso che questo tetto sia del 50% dei posti da coprire. Si arriva a questa conclusione sulla base del principio di cui all'articolo 35 del dlgs n. 165/2011, che prevede espressamente la necessità di garantire «in misura adeguata l'accesso dall'esterno». Questo tetto deve essere calcolato in termini di bilanciamento tra i posti messi a concorso pubblico e quelli riservati alle progressioni e non con riferimento al bilanciamento della spesa (si consideri che il costo di una progressione verticale è enormemente più basso di una assunzione dall'esterno).
A differenza di quanto ritenuto dai giudici contabili di primo grado, non siamo in presenza di una colpa lieve o scusabile; in quanto «gli organi di amministrazione dell'università erano in possesso di tutti gli elementi per poter svolgere una politica del personale esente da forzature del sistema e rispettosa dei principi generali immanenti all'ordinamento amministrativo». Si deve affermare, al contrario, che «le condotte in esame rientrano fra i canoni della colpa intensa».
Nella quantificazione del danno occorre tenere conto del fatto che «la gestione del personale stretta fra i principi generale dell'ordinamento, la legislazione primaria e le norme derivanti dalla contrattazione, integra sicuramente una materia di non facile gestione. Se poi si considera l'incertezza descritta del quadro normativo, regolamentare e di indirizzo amministrativo–operativo nel quale i convenuti odierno si sono trovati ad operare e, conseguentemente, a decidere le più opportune e satisfattive soluzioni di strategia e di gestione», si deve arrivare alla conclusione della riduzione della misura del danno.
Il formarsi della prescrizione, per giurisprudenza consolidata, non matura «con riferimento alla condotta potenziale quanto piuttosto con il momento in cui l'amministrazione subisce l'effettiva diminuzione patrimoniale. Si deve quindi fare riferimento ad un danno verificatosi con i pagamenti successivi ai provvedimenti di approvazione dei bandi con cui si indicevano le procedure selettive per cui è causa»: da qui il mancato decorso del quinquennio.
Nella individuazione dei responsabili, la sentenza evidenza in primo luogo l'importanza del ruolo svolto dai direttori amministrativi, che non possono essere definiti come dei passacarte. Analoga responsabilità matura nei confronti dei componenti il consiglio di amministrazione (articolo ItaliaOggi del 09.03.2012 - tratto da www.corteconti.it).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

PUBBLICO IMPIEGOOggetto: decreto legge n. 201 del 2011, convertito in l. n. 214 del 2011, c.d. "decreto salva Italia" - art. 24 - limiti massimi per la permanenza in servizio nelle pubbliche amministrazioni (circolare 08.03.2012 n. 2).

PUBBLICO IMPIEGOOggetto: modifiche alla disciplina in materia di permessi e congedi per l'assistenza alle persone con disabilità  - decreto legislativo 18.07.2011, n. 119 ("Attuazione dell'articolo 23 della legge 04.11.2010, n. 183, recante delega al Governo per il riordino della normativa in materia di congedi, aspettative e permessi") (circolare 03.02.2012 n. 1).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: L. Savelli, IL CODICE DEI CONTRATTI ED IL REGOLAMENTO DOPO I DECRETI - LEGGE (MAGGIO 2011 - FEBBRAIO 2012) - VADEMECUM DELLE NOVITÀ LEGISLATIVE AGGIORNATO AL DECRETO SEMPLIFICA - ITALIA (D.L. 09.02.2012 N. 5) (link a www.osservatorioappalti.unitn.it).

APPALTI: V. Ciervo, OBBLIGO DI DICHIARAZIONE NELLE GARE DI APPALTO TRA FORMALISMI, REQUISITI SOSTANZIALI E AFFIDAMENTO DEI PARTECIPANTI. NOTA ALLA SENTENZA DEL TRGA DI TRENTO N. 317 DEL 16.12.2011 (link a www.osservatorioappalti.unitn.it).

APPALTI: C. Zucchelli, CONFORMITÀ E DISCORDANZE FRA REGOLE COMUNITARIE E NAZIONALI IN TEMA DI AVVALIMENTO (link a www.osservatorioappalti.unitn.it).

APPALTI: L. Bellagamba, L’assoluta autocertificabilità del DURC - Quinto aggiornamento (02.03.2012): il Consiglio di Stato sull’autocertificabilità del DURC e il D.L. 02.03.2012, n. 16, art. 6, comma 5 (link a www.linobellagamba.it).

APPALTI: L. Bellagamba, L’assoluta autocertificabilità del DURC - Quarto aggiornamento (27.02.2012): la “genialata” del terzo decreto “Monti” (link a www.linobellagamba.it).

NOTE, CIRCOLARI E  COMUNICATI

COMPETENZE PROGETTUALI: Sulla diatriba circa le competenze progettuali tra geometri ed architetti (Ordine degli Architetti di Bergamo, nota 08.03.2012 n. 20121416 di prot.).

APPALTI: Intervento sostitutivo. Stazione appaltante: a chi pagare?
L’INPS chiarisce se la stazione appaltante, che interviene in caso di inadempienza contributiva dell'esecutore e del subappaltatore, deve pagare direttamente all’Esattoria oppure con F24 a seguito delle indicazioni dettate dall’INPS.
L’INPS interviene in merito all’applicazione dell’art. 4 del D.P.R. 05.10.2010 n. 207: in tale sede si prevede che in caso di ottenimento da parte del responsabile del procedimento del DURC che segnali un’inadempienza contributiva relativa a uno o più soggetti impiegati nell’esecuzione del contratto, il medesimo trattiene dal certificato di pagamento l’importo corrispondente all’inadempienza. Il pagamento di quanto dovuto per le inadempienze accertate mediante il DURC è disposto direttamente agli enti previdenziali e assicurativi, compresa, nei lavori, la cassa edile.
In merito sono sorti numerosi dubbi applicativi a seguito dei quali l’Inps interviene per fare una risposta:
- nei casi in cui il debito sia ancora "in fase amministrativa": a stazione appaltante paga le somme di cui l'esecutore/subappaltatore è debitore nei confronti dell'Istituto con F24, previa comunicazione da parte della Sede INPS competente delle coordinate bancarie necessarie al versamento;
- nei casi in cui il debito sia già stato trasmesso all'Agente per la Riscossione o sia comunque stato oggetto di avviso di addebito: la stazione appaltante procede direttamente con il pagamento all'Esattoria (commento tratto da www.ipsoa.it - INPS, decreto dirigenziale 23.02.2012 n. 641).

NEWS

PUBBLICO IMPIEGOPensioni p.a., un anno sabbatico per la permanenza in servizio. I chiarimenti di Patroni Griffi. La chance torna nel 2013.
Arrivederci al 2013 per il trattenimento in servizio, ma scompare quello che fino a oggi è stato un diritto potestativo del lavoratore. Infatti, la possibilità di restare a lavorare oltre l'età per la pensione di vecchiaia opera esclusivamente per i lavoratori soggetti al nuovo regime delle pensioni, i quali da 66 possono arrivare a 68 anni (chi invece ha maturato i 65 anni utili nel 2011 va messo subito in pensione, si veda ItaliaOggi di ieri).
È quant'altro precisa la circolare 08.03.2012 n. 2 del ministro per la p.a. sulla riforma delle pensioni. Trattenimento in servizio.
Anche dopo l'entrata in vigore della riforma Fornero (01.01.2012), spiega la circolare, restano in vita gli istituti del «trattenimento in servizio» oltre i limiti di età e della «risoluzione unilaterale», mentre è stato abrogato quello dell'esonero. Sopravvivono, in particolare, nei confronti dei soggetti che maturano i requisiti per la pensione dall'anno 2012, ossia sulla base dei nuovi limiti (di età e di contribuzione) fissati dalla riforma.
Pertanto, anche dopo la riforma i dipendenti possono richiedere (e le p.a. «possono» accordare) il trattenimento in servizio, ma questo si riferirà necessariamente al periodo successivo alla maturazione del nuovo requisito d'età per la pensione di vecchiaia che è fissato a 66 anni. Ciò vuol dire, allora, che il trattenimento in servizio diventa possibile dai 66 ai 68 anni d'età ma non prima dell'01.01.2013 (e salvo i futuri adeguamenti alla «speranza di vita»). Perché i dipendenti che quest'anno (2012) compiono 66 anni di età, avendo maturato i 65 anni nel 2011, rimangono soggetti alla previgente disciplina e la p.a. avrebbe potuto loro accordare di restare in servizio fino a 67 anni.
Peraltro, aggiunge la circolare, per effetto del dl n. 138/2011, adesso la discrezionalità della p.a nella concessione del trattenimento in servizio è molto più marcata. Infatti, il trattenimento in servizio non è più un «diritto potestativo» del lavoratore, ma un diritto subordinato alla valutazione della p.a. in ordine all'organizzazione, al fabbisogno e alla disponibilità finanziaria (insomma soltanto se conviene alla p.a. il trattenimento è concesso, altrimenti il lavoratore va in pensione).
Stop ai 40 anni. Nella previgente disciplina la p.a. aveva facoltà di licenziare il dipendente che avesse maturato «l'anzianità massima contributiva», vale a dire i 40 anni di contributi oltre i quali non si maturava più la pensione (nel sistema retributivo il massimo importo di pensione poteva arrivare all'80 per cento della retribuzione considerando proprio i 40 anni con i quali andava moltiplicato il coefficiente 2% di trasformazione).
 Adesso le cose sono cambiate. Infatti, spiega la circolare, la riforma delle pensioni ha abrogato il concetto di «anzianità massima contributiva» (ossia i 40 anni); con esso, di conseguenza, deve considerarsi abrogato pure il «presupposto» (cioè l'anzianità massima contributiva) per il licenziamento da parte della p.a. In verità, la circolare ritiene che il predetto presupposto sia soltanto «mutato», ossia si sia ora collegato agli anni di anzianità necessari per il diritto alla pensione anticipata. Pertanto, dall'01.01.2013 le p.a. possono licenziare i dipendenti con 42 anni e 5 mesi di contributi, ossia 41 anni e 5 mesi se donne (sono i nuovi requisiti per la pensione anticipata).
Unico salvagente per i lavoratori può essere l'età, perché la circolare raccomanda alle p.a. di non procedere a licenziare i soggetti con età inferiore a 62 anni essendo per loro prevista la penalizzazione dell'importo della pensione (ma l'operatività è stata rinviata al 2017 dal milleproroghe).
Esonero. Infine, la circolare ricorda che è stato abrogato l'esonero, un istituto che consentiva di andare prima in pensione a certe condizioni. La riforma ha previsto che a chi fosse già titolare dell'esonero alla data del 04.12.2011 continuano ad applicarsi i vecchi requisiti per la pensione.
A tal fine, precisa la circolare, l'esonero si intende concesso se la p.a. (il dirigente) ha adottato una determinazione formale dalla quale si desuma la volontà di accoglimento della richiesta (articolo ItaliaOggi del 10.03.2012).

PUBBLICO IMPIEGOPrevidenza. Il ministero obbliga alla pensione i dipendenti che hanno maturato i requisiti nel 2011. Pubblici, niente opzione per restare in ufficio.
Le novità previdenziali introdotte dal decreto «salva Italia» hanno trovato chiarimenti nella circolare 08.03.2012 n. 2 della Funzione pubblica, resa nota giovedì.
Il documento conferma quanto già preannunciato (si veda «Il Sole 24 Ore» del 17 febbraio scorso). Palazzo Vidoni chiarisce che i dipendenti che hanno maturato i requisiti per il pensionamento entro il 31.12.2011 rimangono soggetti al regime previgente per l'accesso e per la decorrenza del trattamento pensionistico di vecchiaia e di anzianità e, pertanto, anche se ancora in servizio, tali dipendenti non sono soggetti neanche su opzione, al nuovo regime sui requisiti di età e di anzianità contributiva. Infatti la norma prevede che i nuovi requisiti si applicano esclusivamente nei confronti dei dipendenti che maturano il diritto a pensione a decorrere dall'01.01.2012.
La circolare prosegue affermando che le amministrazioni, negli anni 2012 e seguenti, dovranno collocare a riposo al compimento del 65esimo anno di età i dipendenti che al 31.12.2011 erano già in possesso di un diritto a pensione. Tale diritto, eccetto quello per il conseguimento della pensione di vecchiaia, fa sì che sia applicabile l'età ordinamentale che costituisce un limite non superabile in presenza del quale l'ente deve far cessare il rapporto di lavoro; salve le prosecuzioni per effetto di trattenimento e per la finestra.
Un altro aspetto importante riguarda la prosecuzione del rapporto di lavoro fino a 70 anni il quale non può essere applicato nel settore pubblico eccetto i casi in cui il prosieguo sia finalizzato alla maturazione del diritto a pensione poiché l'introduzione del limite minimo (1,5 volte l'assegno sociale) potrebbe non far fruire il trattamento pensionistico neppure alla prescritta età anagrafica. Il concetto di anzianità massima contributiva deve ritenersi superato per i dirigenti civili dello Stato nonché per il personale del comparto scuola. Per quanto riguarda la risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro i requisiti previsti devono essere modulati sulla base dei nuovi limiti richiesti per l'accesso al pensionamento; pertanto dal 2013 saranno richiesti 42 anni e 5 mesi per gli uomini e 41 anni e 5 mesi per le donne.
Tuttavia, tali nuovi parametri potrebbero concorrere con la penalizzazione prevista per le cessazioni con età inferiori a 62 anni. La Funzione pubblica raccomanda alle amministrazioni di non esercitare la risoluzione unilaterale nei confronti dei soggetti per i quali potrebbe operare la penalizzazione legale. Ne deriva che la risoluzione potrà essere esercitata al raggiungimento degli anni contributivi richiesti per l'accesso a pensione con un'età anagrafica non inferiore a 62 anni.
I nuovi limiti previsti per il conseguimento della pensione di vecchiaia fanno sì che, a decorrere dal 2012, i dipendenti che manifesteranno la volontà di permanere in servizio per un ulteriore biennio accederanno al trattamento pensionistico al compimento del 68esimo anno di età. Tuttavia tale problematica è rinviata al 2013 poiché nell'anno in corso potranno cessare solo coloro i quali hanno maturato i 65 anni di età nel 2011 e sono in regime di finestra oppure coloro che sono nel biennio.
L'istituto dell'esonero è stato soppresso dal 28 dicembre scorso e la norma di salvaguardia continua ad applicarsi agli esonerati fino al 03.12.2011. Tali soggetti potranno accedere al trattamento pensionistico secondo il previgente regime ma a condizione che risulti la capienza nel contingente di spesa (articolo 24, comma 15, Dl 201); l'eventuale incapienza comporterà l'applicazione del nuovo regime previdenziale e la prosecuzione del rapporto di esonero con il dipendente fino alla maturazione dei nuovi requisiti di accesso.
La finalità del periodo transitorio (comma 20), istituita con lo scopo di agevolare il processo di riduzione degli assetti organizzativi e di contenimento della spesa pubblica, è quella di far salvi solo i collocamenti a riposo per raggiunti limiti di età disposti con provvedimenti prima del 06.12.2011 anche se aventi decorrenza successiva al 2011. Tutte le altre casistiche (dipendenti che hanno maturato la quota oppure che hanno raggiunto l'anzianità massima contributiva) ma sprovvisti dei nuovi requisiti di accesso alla data di decorrenza dell'atto dovranno maturare i nuovi requisiti. Per il comparto Scuola si rinvia alle indicazioni di prossima emanazione da parte del ministero dell'Istruzione.
---------------
La nota
01|IL CHIARIMENTO
I dipendenti che hanno maturato i requisiti per il pensionamento entro il 31.12.2011 rimangono soggetti al regime previgente per l'accesso e per la decorrenza del trattamento pensionistico di vecchiaia e di anzianità. Tali dipendenti non sono soggetti, neppure su opzione, al nuovo regime
02|I PROBLEMI APERTI
Non è ancora stata sciolta la riserva sulle donne optanti che vanno in pensione con il requisito anagrafico di 57 anni (e 35 anni di contributi): tale età non è mai stata richiamata dalle norme in vigore, ma potrebbe paradossalmente essere aggiornata alla speranza di vita registrata all'età di 65 anni (articolo Il Sole 24 Ore del 10.03.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGOLavoro. Permessi straordinari. Diritto al congedo se c'è convivenza.
A partire dalla conclusione del periodo di normale congedo parentale, teoricamente fruibile dal genitore, decorre il prolungamento stabilito dall'articolo 3 del decreto legislativo 119/2011 a favore dei genitori di figli con grave handicap, per un periodo massimo complessivo di tre anni da godere entro il compimento dell'ottavo anno d'età del bimbo, con diritto all'indennità pari al 30% della retribuzione.

Dopo un lavoro istruttorio comune con il ministero del Lavoro, l'Inps e l'Inpdap, il dipartimento della Funzione Pubblica fornisce con la circolare 03.02.2012 n. 1 ai lavoratori del settore pubblico alcuni chiarimenti relativi al nuovo regime dei permessi e congedi che possono essere utilizzati per l'assistenza e figli o familiari con grave handicap.
Nulla cambia, invece, per i permessi utilizzabili dal lavoratore in situazione di grave disabilità. Come già l'Inps con la circolare 32/2012 (si veda «Il Sole 24 Ore» del 7 marzo) anche la Funzione pubblica sottolinea che, in alternativa, i genitori del minore in situazione di handicap grave continuano a poter fruire dei riposi orari retribuiti ma solo fino al compimento del terzo anno di vita del bambino. Rimane anche ferma la possibilità per i genitori, anche adottivi, di fruire dei tre giorni di permesso mensile (legge 104/1992) anche oltre gli otto anni di età del figlio.
Quanto, invece, al congedo straordinario che i lavoratori subordinati possono chiedere per l'assistenza del coniuge o di una familiare con disabilità grave, nel sottolineare la tassatività dei criteri di priorità per fruirne, la circolare 1/2012 evidenzia che il diritto al congedo è subordinato al requisito della convivenza, fatta eccezione per i genitori. Si considera tale la concomitanza della residenza anagrafica e della coabitazione che può sussistere anche qualora gli alloggi siano separati ma situati nello stesso stabile.
La durata massima di due anni del congedo deve essere intesa nel senso che ciascuna persona in situazione di grave disabilità ha diritto a due anni di assistenza a titolo di congedo straordinario da parte dei familiari. A sua volta, il lavoratore può fruire di un periodo massimo di due anni di congedo indennizzato per assistere i familiari disabili. Il periodo di congedo è indennizzato in base all'ultima retribuzione ma con esclusivo riferimento alle voci fisse e continuative, entro il limite annualmente rivalutato (si veda la tabella) ed è valido ai fini del calcolo dell'anzianità.
A differenza del settore privato, l'accredito contributivo non è figurativo poiché per i dipendenti della Pa la contribuzione va calcolata, trattenuta e versata secondo le regole ordinarie sulla base dei trattamenti corrisposti. Il trattamento non è assoggettato a contribuzione Tfs/Tfr (articolo Il Sole 24 Ore del 10.03.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIPa. Parere della Funzione pubblica. Addio ai certificati con lungaggini ma senza imposta.
IL CASO/ Il Collegio degli agrotecnici aveva denunciato che alcuni uffici applicavano il bollo sulla decertificazione.
La "decertificazione" potrà anche essere un boomerang, ma almeno non avrà l'ulteriore effetto di far costare le pratiche 14,62 euro in più, come stava iniziando ad accadere.

Lo ha reso noto il Collegio nazionale degli agrotecnici e degli agrotecnici laureati, che aveva sollevato il caso con il dipartimento della Funzione pubblica. La questione, però, riguarda tutti i cittadini e le categorie produttive.
Tra queste ultime, le preoccupazioni erano iniziate già lo scorso novembre, quando la legge di stabilità (la n. 183/2011), con l'articolo 15, aveva introdotto la decertificazione. Essa consiste nel vietare alle pubbliche amministrazioni di accettare certificati da parte di chi richiede loro una pratica: dovranno essere le amministrazioni stesse a richiedere agli altri uffici pubblici gli elementi necessari a mandare avanti la pratica. A suggellare il principio, l'obbligo di riportare su ogni certificato (che altrimenti è nullo) il fatto che il documento stesso «non può essere prodotto agli organi della pubblica amministrazione o ai privati gestori di pubblici servizi».
Nel mondo professionale e produttivo, si era subito notato che questa semplificazione avrebbe potuto essere controproducente: il fatto che un ufficio pubblico debba attendere la risposta di un altro per acquisire gli elementi utili a espletare la pratica, rischia di prolungarne i tempi (se non addirittura di bloccarla). Tanto più che, se un ufficio fornisce gli elementi in tempi lunghi, non c'è una sanzione specifica e deterrente: la norma prevede solo che il ritardo «costituisce violazione dei doveri d'ufficio e viene in ogni caso presa in considerazione ai fini della misurazione e della valutazione della performance individuale dei responsabili dell'omissione». Così, imprese e professionisti preferiscono spesso dover portare un certificato in più (com'era consentito fare prima).
Il Collegio degli agrotecnici aveva denunciato un ulteriore problema. Secondo alcune amministrazioni, l'invio di documenti ad altri uffici pubblici è da sottoporre a imposta di bollo, con una tariffa di 14,62 euro. Dunque, la decertificazione sarebbe "a pagamento": un esito paradossale, date le intenzioni che sembrava avere il legislatore nell'introdurla.
Per questo, il 16.01.2012 il Collegio ha inviato una nota al dipartimento della Funzione pubblica della presidenza del Consiglio, per chiedere chiarimenti. La risposta (05.03.2012 n. Dfp 0009347 P-4.17.1.23.4.3 di prot.) è arrivata l'altro ieri. È molto breve e si limita a riportare il comma 5 dell'articolo 43 del Dpr 445/2000 (il Testo unico sulla documentazione amministrativa), secondo il quale le informazioni relative a stati, qualità personali e fatti vanno acquisite dagli uffici pubblici «senza oneri». Dal che si deduce che l'imposta di bollo non è dovuta (articolo Il Sole 24 Ore del 10.03.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTISEMPLIFICAZIONI/ Nasce la banca dati nazionale dei contratti pubblici. Grande fratello sugli appalti. Dal 2013 requisiti dei concorrenti vagliati online.
Dal 2013 negli appalti le verifiche sui requisiti dei concorrenti saranno effettuate esclusivamente online; sarà la Banca dati nazionale dei contratti pubblici, presso l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici a mettere a punto il delicato e, allo stesso tempo, rivoluzionario sistema telematico; le stazioni appaltanti, con l'avvio del sistema, non potranno verificare i requisiti dei concorrenti con modalità diverse dalla consultazione della Bdncp; gli appaltatori, non dovranno più produrre certificati.
Sono queste alcune delle novità derivanti dall'approvazione alla camera del decreto legge semplificazioni (n. 5/2012) che, per quel che riguarda l'attivazione della Banca dati nazionale sui contratti pubblici, secondo stime del Governo, dovrebbe portare risparmi per 1,3 miliardi.
L'avvio della Bdncp si inquadra nel filone della cosiddetta «decertificazione» e sburocratizzazione delle procedure che, sempre secondo alcune stime governative, dovrebbe determinare per le piccole e medie imprese un risparmio sui costi vivi della gestione amministrativa delle gare pari a circa 140 milioni all'anno, stando a quanto stimato dal governo. La norma del decreto-legge approvato dalla camera rivitalizza la banca dati che fu introdotta nel 2010 con il comma 1 dell'art. 44, del dlgs 30.12.2010, n. 235 stabilendo che dal primo gennaio 2013 tutta la documentazione relativa alla prova dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico organizzativa che i concorrenti devono possedere per partecipare agli appalti sia acquisita dalla Banca dati nazionale dei contratti pubblici presso l'autorità per la vigilanza sui contratti pubblici.
Spetterà all'Autorità definire innanzitutto quali dati, utili alla partecipazione alle gare, nonché alla verifica delle offerte, debbano essere inclusi nella banca dati, nonché i termini e le regole tecniche per l'acquisizione, l'aggiornamento e la consultazione dei dati contenuti nella predetta Banca dati. La norma prevede che per l'attivazione della banca dati tutti i soggetti pubblici e privati che detengono dati e documenti relativi ai requisiti di partecipazione, abbiano l'obbligo di messa a disposizione dell'Autorità di tali dati e documenti.
Parallelamente, gli operatori economici saranno tenuti ad integrare i dati contenuti nella banca dati nazionale dei contratti pubblici, creando un sistema dinamico e non statico come invece è oggi quello basato sulle Soa, ove i certificati hanno validità quinquennale. Il meccanismo avrà una portata fondamentale nel settore dei servizi e delle forniture in cui, diversamente dai lavori, non esiste un sistema di qualificazione dei concorrenti.
All'obbligo di acquisizione della documentazione da parte della Bdncp è correlato l'obbligo per i committenti di effettuare le verifiche dei requisiti di capacità dei concorrenti esclusivamente attraverso la banca dati, senza quindi più chiedere documenti ai partecipanti alle gare. Ciò significa che i partecipanti alle gare potranno qualificarsi alle procedure semplicemente con una autodichiarazione del possesso dei requisiti di carattere generale e speciale, mentre sarà cura del committente che ha bandito la gara, verificare che quanto dichiarato sia conforme alle risultanze documentali rese disponibili a questo fine dalla Banca dati nazionale dei contratti pubblici.
Adesso sarà compito dell'organismo di vigilanza sui contratti pubblici presieduto da Sergio Santoro, mettere d'accordo tutti i soggetti che gestiscono le banche dati (o che hanno i dati sui quali effettuare le verifiche) rispetto alla necessità di giungere in tempi rapidi alla messa a regime del sistema, ma anche di fare in modo che l'ingente afflusso di dati non paralizzi tutta l'operazione telematica (articolo ItaliaOggi del 09.03.2012 - tratto da www.corteconti.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - VARIDl ambiente. Sacchetti bio, nuovi criteri a fine anno.
Passa dal 31 luglio al 31.12.2012 il limite entro cui un decreto del ministero dell'ambiente dovrà dettare i criteri per i sacchetti biodegradabili. E arriva un'altra proroga, al 31.12.2013, per l'applicazione del regime sanzionatorio sulla rispondenza dei sacchetti bio ai futuri criteri.
Queste le novità approvate due giorni fa dalla Commissione ambiente della camera dei deputati al dl 2/2012, il cui art. 2 prevede «disposizioni applicative in materia di commercializzazione di sacchi per asporto merci nel rispetto dell'ambiente».
Si è conclusa, infatti, la discussione in sede referente con l'approvazione degli emendamenti di proroga dei termini di entrata in vigore per standard e sanzioni. Andrà in Aula la settimana prossima (potrebbe essere posta la fiducia) per ritornare al Senato nei giorni successivi (scade il 25 marzo). Esso contiene, come noto, anche le nuove norme per l'emergenza in Campania. Sui sacchetti, val la pena fare il punto sul testo che proveniva dal Senato già con significative modifiche.
L'art. 2 dello schema del citato decreto legge va nella direzione di definire più correttamente il campo di applicazione ed eliminare così i dubbi interpretativi della precedente normativa sul «divieto di commercializzazione di sacchi non biodegradabili per l'asporto delle merci», facendo chiaramente riferimento alla conformità alla Norma Uni En 13432 (requisiti per imballaggi recuperabili mediante compostaggio e biodegradazione). Il dl proviene dal senato dove sono state già approvate una serie di modifiche, che vanno a introdurre diverse casistiche e tipologie di sacchetti in plastica «polimeri».
Infatti, per i soli sacchetti di plastica senza orecchie (quelli delle farmacie e delle mercerie per intendersi) gli spessori per quelli definibili riutilizzabili (dai 200 e i 100 micron già previsti) si riducono, rispettivamente a 100 e 60 per l'uso alimentare e gli altri usi. Introdotto anche l'obbligo di contenuto minimo in riciclato del 10% per gli stessi sacchetti, limite che potrà essere cambiato con decreto ministeriale.
L'introduzione di casistiche e soglie diverse per i sacchetti riutilizzabili renderà, certamente, più difficile il controllo. Nessun chiarimento, invece, sul significato sull'uso alimentare e sugli altri usi, che al momento restano di difficile interpretazione. Resta, poi, la spada di Damocle delle decisioni Ue in materia (che negli anni passati bloccò una norma simile in Francia) (articolo ItaliaOggi del 09.03.2012).

PUBBLICO IMPIEGO: Pubblico impiego, pensione magra. Non opera l'incentivo della permanenza al lavoro fino a 70 anni.  Circolare del ministro Patroni Griffi sull'applicazione alla p.a. del decreto salva-Italia.
Obbligati alla pensione i dipendenti pubblici. Nei loro confronti non opera l'incentivo della permanenza al lavoro fino a 70 anni d'età e non opera più neppure la facoltà di rimanere in servizio oltre i limiti d'età per conseguire il massimo della pensione.
E non è tutto. Per chi abbia maturato i requisiti nel 2011 (età, quota o anzianità massima), la pubblica amministrazione dovrà procedere con l'immediato collocamento a riposo.

È quanto stabilisce, tra l'altro, la circolare 08.03.2012 n. 2 firmata dal ministro per la p.a. Filippo Patroni Griffi per illustrare la riforma delle pensioni entrata in vigore il 1° gennaio introdotta dall'art. 24 del dl n. 201/2011
Nuovi limiti d'età. Innanzitutto, la circolare illustra i nuovi requisiti di età e contribuzione per maturare il diritto alla pensione, nelle due nuove alternative di pensione di vecchiaia e pensione anticipata; ricorda, tra l'altro, l'abrogazione delle finestre che fissavano la decorrenza della pensione e l'estensione del sistema contributivo, con il pro-rata, alle anzianità successive al 2011. Le nuove norme non si applicano, tuttavia, nei confronti dei lavoratori che hanno maturato i requisiti per la pensione entro il 31.12.2011, i quali potranno conseguire la pensione in qualsiasi momento secondo il vecchio regime (ante riforma).
Da questa deroga, la circolare fa scaturire un preciso obbligo per le p.a., ossia quello di dover collocare a riposo nel 2012 o negli anni successivi al compimento dei 65 anni quei dipendenti che nel 2011 erano già in possesso della massima anzianità contributiva (40 anni) o della «quota» (era 96) o comunque dei requisiti per la pensione.
Limite d'età ordinamentale. Per i pubblici dipendenti l'aspetto cruciale (forse paradossale) della riforma è che, mentre da una parte allontana l'età di pensionamento dall'altro nega di rimanere più a lungo in servizio quando ciò possa voler dire un miglioramento dell'assegno di pensione. Infatti, la riforma non ha modificato il regime dei limiti di età per la permanenza in servizio che, anzi, è stata espressamente confermato (comma 4 dell'art. 24).
Ciò vuol dire, spiega la circolare, che i predetti limiti continuano a costituire il tetto massimo di permanenza in servizio; pertanto, il lavoratore che li dovesse raggiungere potrà proseguire il rapporto d'impiego solo fino a garantirsi la decorrenza della pensione; viceversa, il dipendente già in possesso del diritto alla pensione, una volta raggiunto il limite d'età vedrà la p.a. intimargli la cessazione dell'impiego (è un obbligo per la p.a.).
Stop agli incentivi. Dalla sopravvivenza dei limiti di età ordinamentale, spiega la circolare, discende che nel settore pubblico non opera il principio di incentivazione alla permanenza in servizio fino a 70 anni di età. Si tratta, in particolare, della possibilità di rimanere più a lungo a lavoro al fine di maturare il diritto alla pensione, perché all'età di 70 anni non opera più il requisito dell'«importo minimo» di pensione (pari a 1,5 volte l'assegno sociale). Dunque, tale opportunità non vale per i pubblici dipendenti e non vale neppure l'altra facoltà, specifica per il settore pubblico, del concetto di «massima anzianità contributiva».
In particolare spiega la circolare, l'estensione a tutti i lavoratori, dall'01.01.2012, del criterio contributivo rende inapplicabili le disposizioni che consentivano al personale pubblico di proseguire il servizio sino al raggiungimento della massima anzianità contributiva al fine di conseguire il massimo della pensione (maggiormente interessati, nello specifico, erano i dirigenti civili dello stato e il personale del comparto scuola).
Il periodo transitorio. La riforma, tra l'altro, ha fatto salvi i provvedimenti di collocamento a riposo per raggiunti limiti di età adottati prima del 06.12.2011 (entrata in vigore del dl n. 201/2011). La salvaguardia, spiega la circolare, concerne solo le ipotesi di raggiunti limiti d'età; mentre travolge gli eventuali provvedimenti di pensionamento adottati per altri motivi. In tal caso, pertanto, i dipendenti devono tornare al lavoro salvo che non possano comunque far valere il diritto alla pensione per altre ragioni.
La circolare fa riferimento a quegli atti con decorrenza dal 2013 per pensionamento di lavoratori con 40 anni di servizio (e finestra mobile) e che, invece, non raggiungono in quell'anno i 42 anni e 5 mesi se uomini ovvero 41 anni e 5 mesi se donne; oppure ai casi di accettazione, già nel 2011, di dimissioni per il raggiungimento della quota nell'anno 2012 o in anni successivi (articolo ItaliaOggi del 09.03.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALIImpianti di videosorveglianza al vaglio del Viminale.
Gli impianti di videosorveglianza comunale devono essere installati o potenziati in conformità alle nuova direttive ministeriali e vagliati preventivamente dal comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza.
Lo ha chiarito il Ministero dell'interno con la nota 02.03.2012 n. 224632.
Il ricorso ai sistemi elettronici di controllo del territorio è un fenomeno consolidato che è stato favorito anche dal mutato quadro normativo che ha ammesso i comuni alla gestione diretta della sicurezza urbana. La complessità delle regole, la tutela della privacy e delle opzioni tecnologiche a disposizione dei sindaci non ha però portato sempre a scelte razionali.
Per questo motivo anche sulla base dell'indicazione espressa dall'Anci è stato avviato un tavolo tecnico di confronto con polizia e carabinieri finalizzato alla redazione di una direttiva ad hoc, adeguata a supportare le scelte concrete dei comuni. Ha così visto la luce la piattaforma della videosorveglianza integrata, specifica il ministero, ovvero un articolato documento che fornirà ai comuni interessati le linee guida per attivare o potenziare un sistema di videosorveglianza efficiente. Spetterà però ai comitati provinciali per l'ordine e la sicurezza pubblica, specifica il ministero, validare preventivamente le scelte comunali utilizzando il documento appena realizzato.
Nell'ottica di un sempre maggior coinvolgimento della polizia locale sulle questioni di sicurezza in senso lato il documento promuove innanzitutto a pieno titolo il sistema della sicurezza integrata ovvero il rapporto di stretta collaborazione tra vigili, polizia e carabinieri. Gli impianti di videosorveglianza urbana hanno certamente importanza strategica anche per le forze di polizia dello stato, prosegue il decalogo. Per questo motivo il ministero dell'interno già con una circolare del 06.08.2010 ha evidenziato la necessità di un esame preliminare di queste installazioni da parte del locale comitato per l'ordine e la sicurezza pubblica.
Questa indicazione è stata ribadita dalle recenti linee guida Anci sugli impianti di videosorveglianza. In buona sostanza il luogo più idoneo per valutare l'idoneità strategica dei progetti di controllo elettronico del territorio sono gli uffici del prefetto in occasione dei comitati periodici sull'ordine e la sicurezza. Il mutato quadro normativo che ha declinato a livello locale competenze prima riservate solo agli organi dello stato in materia di sicurezza urbana, deve essere adeguatamente preso in considerazione nella fase di progettazione o implementazione degli impianti.
Per elevare e uniformare per quanto possibile lo standard tecnologico dei sistemi il documento stabilisce di istituire un tavolo permanente presso il Viminale deputato a presidiare l'evoluzione tecnologica. Pieno appoggio all'interconnessione dei sistemi tra polizia locale e nazionale, infine, ma anche un decalogo operativo per i comuni che intendono ampliare o installare nuovi apparati (articolo ItaliaOggi del 09.03.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/  Sbobinature senza segreti. Accesso alle trascrizioni delle sedute consiliari. Le registrazioni sono da equiparare a un documento amministrativo.
L'ente locale è tenuto a dare positivo riscontro alla richiesta di accesso al c.d. «sbobinamento» della registrazione sonora di una seduta di consiglio comunale?
Ai sensi dell'art. 22, comma 1, lett. d), della legge n. 241/1990, deve intendersi per «documento amministrativo» di cui può essere chiesto l'accesso «ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale».
A tale proposito, la giurisprudenza amministrativa si è più volte pronunciata nel senso di ritenere che semplici appunti, come devono essere considerate le registrazioni effettuate dal segretario comunale a proprio uso, non ancora tradotti in atti, «non assurgono alla qualificazione di documento amministrativo» (Tar Veneto n. 60 del 2002, Tar Lombardia, Milano, n. 1914 del 2009).
In senso contrario si è espresso recentemente il Tar Piemonte ritenendo che «la registrazione sonora delle sedute consiliari è suscettibile di essere inclusa nella nozione di documento amministrativo rilevante, ai sensi dell'art. 22, comma 1, lettera d), della legge n. 241/1990, ai fini dell'esercizio del diritto di accesso» (Tar Piemonte sentenza 27/05/2011, n. 563).
Con parere reso in data 22.10.2002 in riferimento alla medesima problematica, la commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, istituita nell'ambito della presidenza del consiglio dei ministri, ha precisato che occorre «distinguere il caso in cui il segretario comunale raccolga per proprio uso personale dei meri appunti informali dell'adunanza consiliare, anche eventualmente su supporto magnetico per la redazione del successivo verbale, dall'ipotesi in cui la registrazione dello svolgimento della seduta consiliare costituisca adempimento di una mansione d'ufficio. Nel primo caso, gli appunti raccolti dal segretario sono da considerarsi alla stregua di una bozza strettamente personale, che potendo essere liberamente modificata non ha alcun carattere di documento amministrativo. Nel secondo caso, invece, la registrazione non è modificabile, ed il segretario o il personale espressamente incaricato di essa rispondono della sua genuinità; sicché la registrazione, dovendosi ritenere fedele riproduzione del dibattito consiliare, costituisce documento amministrativo, come tale accessibile da parte degli interessati».
Nel parere del 25.11.2008, la medesima Commissione ha ritenuto ostensibile la registrazione della seduta di un consiglio comunale confermandone la natura di documento amministrativo al quale è garantito il diritto di accesso degli interessati, «senza che sia necessario fare richiamo alla normativa di speciale favore prevista per i consiglieri comunali». Pertanto, nel caso in cui il comune si avvalga, in via istituzionale, di un apposito servizio di trascrizione da nastro di interventi delle sedute consiliari, sussistono i presupposti oggettivi circa la natura di documento amministrativo delle registrazioni in discorso, richiesti dall'art. 22, comma 1, lett. d) della legge n. 241/1990 ai fini dell'esercizio del diritto di accesso.
Per quanto concerne il requisito soggettivo previsto dalla normativa in commento, si rammenta che ai sensi dell'art. 22, comma 1, lett. b), della legge n. 241/1990 si definiscono «interessati» tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso. Tale nozione è stata interpretata in giurisprudenza in senso più ampio rispetto all'interesse all'impugnativa qualificabile in termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo.
«La legittimazione all'accesso, conseguentemente, viene riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti procedimentali oggetto dell'accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica, stante l'autonomia del diritto d'accesso, inteso come interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla situazione legittimante alla impugnativa dell'atto» (Cds sez. VI, sent. n. 6440 del 27/10/2006, Tar Lazio, n. 3115 del 2008).
La sussistenza dell'interesse, quale requisito soggettivo ex art. 22, comma 1, lett. b), citato, del soggetto richiedente l'accesso dovrà essere valutata alla luce dei principi giurisprudenziali sopra evidenziati e in base alle disposizioni regolamentari recanti la disciplina del diritto di accesso adottate dall'ente locale (articolo ItaliaOggi del 09.03.2012).

ATTI AMMINISTRATIVIIl decreto semplificazioni/ «Pa» più veloce, ok alla fiducia. Martedì il sì alla Camera: certificati addio, atti via web ma resta il nodo tlc
GLI ULTIMI RITOCCHI/ Via la tassa a carico delle Regioni per sovvenzionare la protezione civile. Partita ancora aperta sul «fondo imprevisti» del Tesoro.

Addio ai certificati cartacei. Pratiche burocratiche in tempo reale. Iscrizioni online alle università. Possibilità di produrre il pane la domenica. Un anno in più per il bonus Sud. Piano triennale taglia oneri burocratici in tempi brevi. Cartella clinica elettronica e nuova sperimentazione della social card, estesa a tutti i cittadini comunitari.
Con questa fisionomia, rivista in diversi punti dalle commissioni della Camera, il decreto semplificazioni si accinge ad approdare al Senato. Il via libera di Montecitorio al testo arriverà martedì dopo che ieri il Governo ha incassato la fiducia della Camera (la decima) con 479 sì, 75 no e 7 astenuti. Almeno due i nodi che restano irrisolti: la limitazione del «fondo imprevisti» del ministero dell'Economia (calamità naturali) e il pacchetto telecomunicazioni.
Un pacchetto, quest'ultimo, che prevede che gli operatori non debbano pagare per servizi non richiesti: per le "attività" accessorie le società potranno rivolgersi anche a imprese terze. Ma queste misure, secondo l'associazione europea degli operatori di telecomunicazioni (Etno), e anche a parere dell'Agcom, sarebbero in contrasto con la normativa comunitaria (si veda l'altro articolo in pagina). Appare probabile, quindi, che la questione venga affrontata al Senato. È lo stesso ministro della Pubblica amministrazione, Filippo Patroni Griffi, a non chiudere la porta a nuovi ritocchi: «Al Senato c'è abbastanza tempo» per un esame approfondito del testo (va convertito entro il 9 aprile, ndr), «valuteremo le proposte emendative». Il ministro si dichiara comunque soddisfatto per il lavoro della Camera.
Tra i correttivi quasi certi c'è quello per eliminare, o attenuare, la limitazione, decisa in commissione a Montecitorio, del fondo spese impreviste del Tesoro, utilizzato per le prime emergenze in caso di calamità. Il testo che esce dalla Camera prevede anche lo stop all'obbligo per le Regioni di sovvenzionare gli interventi della protezione civile dopo le calamità naturali aumentando le accise sulla benzina.
Al Senato potrebbe riaprirsi anche la partita sull'assunzione di 10mila insegnanti, saltata alla fine di un duro braccio di ferro tra Pd e Pdl e non senza tensioni con il Governo, così come peraltro sul «fondo imprevisti». Anche se il compromesso trovato in extremis a Montecitorio, che prevede lo sblocco degli organici dei docenti rispettando però i tagli introdotti tre anni fa dal Governo Berlusconi, sembra destinato a tenere. Sul fronte scuola arrivano anche misure contro il bullismo.
Anche dopo le modifiche della Camera l'obiettivo di fondo del provvedimento resta la velocizzazione della Pa. Dal 2014 le comunicazioni con gli uffici pubblici dovranno avvenire «esclusivamente» attraverso i «canali telematici e la posta elettronica certificata». I certificati potranno essere chiesti via web e le iscrizioni agli atenei saranno possibili solo online. Dal prossimo anno accademico (2013-2014) pure il libretto degli esami universitari sarà "virtuale". Anche le multe viaggeranno via web e i pagamenti all'Inps non potranno più essere cash.
I cambi di residenza e altri documenti saranno concessi in tempo reale. Viene prolungata la validità del bollino blu per le auto e sono eliminate le duplicazioni per i certificati dei disabili. Diventano più semplici le procedure per l'assunzione di immigrati extracomunitari mentre la semplificazione dei controlli sulle imprese non si applicherà a salute e sicurezza sul lavoro.
---------------
Le misure principali
ITER PIÙ SNELLI
Diverse le semplificazioni per i cittadini: i cambi di residenza avverranno in tempo reale, la richiesta di certificati potrà essere fatta per via telematica, procedure veloci per le patenti degli ultraottantenni
PAGAMENTI ONLINE
Dal 1° maggio i versamenti dell'Inps saranno effettuati solo online. Sarà possibile pagare via web anche multe, tasse, ticket (le amministrazioni dovranno comunicare l'Iban) e marche da bollo
CARTELLE CLINICHE
Nei piani di sanità nazionali e regionali si privilegia la gestione elettronica delle pratiche, attraverso l'utilizzo della cartella clinica elettronica e i sistemi di prenotazione elettronica
UNIVERSITÀ IN RETE
In vigore da subito la norma che prevede le iscrizioni agli atenei esclusivamente online. Dal prossimo anno accademico anche il libretto con gli esami sostenuti e i voti sarà telematico
SOCIAL CARD
La social card non sarà più riservata ai soli cittadini italiani ma potrà essere attribuita anche a quelli comunitari. Si amplia così la platea dei fruitori della carta acquisti (articolo Il Sole 24 Ore del 09.03.2012 - tratto da www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Doppia indennità alla polizia locale.  Decisione del Tribunale di Verona.
LA MOTIVAZIONE/ Si devono compensare in modo specifico particolari situazioni di lavoro molto gravose.

Con due sentenze pronunciate il 23.02.2012 e l'01.03.2012, i Tribunali di Verona e di Rimini hanno stabilito che è possibile corrispondere al personale dell'area della vigilanza l'indennità di disagio.
Negli enti locali italiani accade spesso che alla Polizia locale venga riconosciuta, in aggiunta all'indennità di vigilanza, anche quella di disagio. Sennonché in occasione delle ispezioni inviate dalla Ragioneria dello Stato, frequentemente vengono sollevati specifici rilievi su questo aspetto.
Secondo la Ragioneria –che si rifà all'orientamento dell'Aran– il personale dell'area della vigilanza è adeguatamente tutelato per la specificità delle prestazioni richieste e per l'impegno, la gravosità dei compiti e le responsabilità connesse, attraverso l'indennità di vigilanza. Di conseguenza, il cumulo della predetta indennità con quella di disagio è possibile solo in casi molto limitati.
Le due controversie decise dal Tribunale di Verona e da quello di Rimini originano proprio da ispezioni ministeriali che avevano sollevato questa censura. Nelle sentenze in commento, che sono le prime a occuparsi della questione, i giudici, accogliendo la tesi dei vigili, hanno giudicato legittima la corresponsione dell'indennità di disagio al personale della Polizia locale e hanno ritenuto validi i relativi accordi decentrati integrativi. Nella sentenza veronese si legge, infatti, che le due indennità «sono dirette a compensare particolari modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, le quali non sono necessariamente coincidenti».
Secondo il Tribunale scaligero, «l'indennità di disagio ha la funzione di compensare particolari situazioni di lavoro più gravose (turni, rischi, reperibilità, esposizione a intemperie e agenti atmosferici), mentre l'indennità di vigilanza ha la funzione di attribuire un riconoscimento economico per lo svolgimento di particolari funzioni (polizia giudiziaria), che comportano particolari responsabilità». Ne consegue che i contratti collettivi che riconoscono l'indennità di disagio al personale della vigilanza «non risultano affetti da nullità ai sensi dell'articolo 40 del Dlgs 165/2001, per contrasto con norme imperative o con i vincoli dettati dalla contrattazione nazionale».
Valutazione analoga è stata fatta dal Tribunale di Rimini. Le conclusioni raggiunte dalle due sentenze sono condivisibili, anche se desta qualche perplessità l'affermazione secondo cui l'indennità di disagio dovrebbe compensare condizioni di lavoro più gravose quali turni, rischi, reperibilità. Infatti, per tali caratteristiche della prestazione sono previste dai contratti nazionali voci ad hoc dello stipendio.
Peraltro, anche il Parlamento sembra intenzionato a recepire il punto di vista dei giudici. Si ricorda, infatti, che sono giacenti alle Camere diversi disegni di legge orientati in tal senso e che il Senato, con l'ordine del giorno 9/2479/12 del 15.12.2010, ha impegnato il Governo ad adoperarsi al fine di garantire al personale della Polizia locale, in aggiunta a quelle già previste, una indennità «diretta a remunerare gli specifici rischi e i disagi correlati all'esercizio delle funzioni di cui all'articolo 5 della legge 07.03.1986, n. 65» (articolo Il Sole 24 Ore del 09.03.2012).

PUBBLICO IMPIEGOFUNZIONE PUBBLICA/ Cumulabili congedi e permessi.
Il dipartimento della Funzione pubblica illustra con la circolare 03.02.2012 n. 1 le novità introdotte dal Dlgs 119/2011 in materia di congedo parentale prolungato e di congedo straordinario per l'assistenza a familiari con grave handicap, per gli aspetti che più interessano i dipendenti pubblici.
Le maggiori novità riguardano la possibilità di cumulare le diverse tipologie di permessi e congedi nell'arco dello stesso mese, ma non nello stesso giorno. Deve pertanto intendersi superata la circolare n. 13 del 2010 che precludeva il cumulo fra congedo straordinario e permessi ex lege 104/1992 (articolo Il Sole 24 Ore del 09.03.2012).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATASEMPLIFICAZIONI/ Durc d'ufficio in edilizia e appalti. L'impresa non avrà più l'obbligo di produrre la certificazione. Toccherà alla p.a. acquisire i documenti. Addio al vincolo per i lavori privati.
Nelle gare di appalto di lavori e nell'edilizia privata scatta l'obbligo per le amministrazioni pubbliche di acquisire d'ufficio il Durc; nei lavori pubblici quindi si conferma che il concorrente non avrà più l'onere di produrre la certificazione ma sarà onere della stazione appaltante provvedere ad acquisirlo direttamente dall'ente competente al rilascio; nell'edilizia privata la norma avrà un impatto maggiore dal momento che fino ad oggi è l'impresa a dover produrre il durc.
È questa una delle modifiche più significative contenute nel testo del disegno di legge di conversione del decreto legge n. 2 del 2012, approvato dalle commissioni affari costituzionali e attività produttive della camera.
La norma, prevista come comma 6-bis dell'articolo 14 del testo, incide quindi sul certificato che attesta contestualmente la regolarità di un operatore economico per quanto concerne i versamenti dovuti a Inps, Inail, nonché Cassa edile per i lavori dell'edilizia, verificati sulla base della rispettiva normativa di riferimento. Va ricordato che la regolarità contributiva oggetto del documento unico di regolarità contributiva riguarda tutti i contratti pubblici, siano essi di lavori, di servizi o di forniture, siano appalti o concessioni.
La disposizione approvata dalle commissioni riunite che prevede l'obbligo di acquisire d'ufficio il Durc dagli enti abilitati al suo rilascio in tutti i casi in cui ciò sia richiesto dalla legge, non si applica però a tutti i tipi di contratto per i quali vige l'obbligo del Durc, riferendosi soltanto ai «lavori pubblici» e a quelli «privati dell'edilizia». Infatti, stando al tenore letterale della norma, nonostante il Durc sia obbligatorio non solo nel settore dei lavori, ma anche in quello delle forniture e dei servizi, l'obbligo di acquisizione d'ufficio da parte delle stazioni appaltanti scatta soltanto nel caso dei lavori e non nel caso di appalti di servizi e forniture.
Va altresì chiarito che l'acquisizione d'ufficio del Durc da parte delle stazioni appaltanti era già prevista dall'articolo 16-bis, comma 10, del decreto legge n. 185/2008, convertito nella legge n. 2/2009 ove si specifica che l'acquisizione d'ufficio del documento può avvenire, anche attraverso gli strumenti informatici, dagli istituti o dagli enti abilitati al rilascio in tutti i casi in cui è richiesto dalla legge (anche per il pagamento degli stati di avanzamento dei lavori). Il riferimento, nella norma approvata dalle commissioni, alle modalità di acquisizione di ufficio previste dall'articolo 43 del dpr 445/2000, conferma che si può procedere in via telematica e che le amministrazioni certificanti sono tenute a consentire alle amministrazioni procedenti, senza oneri, la consultazione per via telematica dei loro archivi informatici, nel rispetto della riservatezza dei dati personali.
Nell'ambito della nozione di «lavori pubblici», rientrano, stante il riferimento all'oggetto della prestazione, sia i lavori affidati in appalto, sia i lavori affidati in appalti misti o in concessione di costruzione e gestione. In particolare le p.a. si dovranno rivolgere all'Inps, all'Inail e alle Casse edili (nel settore edile) (articolo ItaliaOggi dell'08.03.2012).

APPALTIAppalti, nulla cambia sulle soglie. Nella trattativa privata nessuna riduzione degli importi. Alla camera sparisce la norma del maxiemendamento al dl 1/2012 che modificava il Codice.
Retromarcia sulle modifiche alle soglie nella trattativa privata per gli appalti: sparisce, nel testo all'esame della camera, la norma inserita nel maxiemendamento approvato in aula al senato al decreto liberalizzazioni (dl n. 1/2012) che comprendeva le modifiche al Codice dei contratti pubblici; la disposizione non era stata mai approvata in Commissione; rimangono quindi in vigore le attuali disposizioni sulle soglie per la trattativa privata.
È questo l'effetto della scomparsa del comma 2 dell'articolo 40-bis nel testo del decreto-legge sulle liberalizzazioni pubblicato alla camera con il numero 5025. Un rebus che ItaliaOggi ha potuto risolvere. Vediamo come.
Partendo dalla fine proviamo a ricostruire cosa è successo. La settimana scorsa, a conclusione dell'esame del provvedimento al senato, veniva data per approvata una norma del maxiemendamento votato in aula che, incidendo sul decreto sviluppo (dl n. 70 convertito nella legge 106/2011), aveva modificato le norme del Codice dei contratti pubblici sulla procedura negoziata (trattativa privata) con e senza pubblicazione del bando (toccando gli articoli 122, comma 7 e di conseguenza gli articoli 56 e 57).
L'effetto sarebbe stato quello per cui la soglia per la procedura negoziata con invito a cinque si sarebbe ridotta da un milione a 500 mila euro. Si prevedeva anche l'applicabilità della trattativa privata senza pubblicazione di bando a seguito di gara andata deserta, ma con il precedente limite di un milione di euro. Analoga modifica veniva introdotta per la trattativa privata con pubblicazione del bando di gara. Inoltre veniva ridotta a un milione di euro (dai precedenti 1,5 milioni di euro previsti dalla modifica del dl n. 70) la soglia per potere utilizzare la procedura ristretta semplificata. Infine il comma 2 del maxiemendamento avrebbe portato a 500 mila (da un milione) anche la soglia per la trattativa privata nei beni culturali.
Tutto questo era stato previsto sia nell'emendamento presentato in aula a firma della Commissione, che aveva lo scopo di riportare in aula tutte le norme approvate in commissione industria, sia nel maxiemendamento successivamente predisposto dal governo e sul quale è poi stata chiesta e ottenuta la fiducia. Nel passaggio del testo alla camera della norma (l'ormai famigerato comma 2 dell'articolo 40-bis) si perdono le tracce.
Rileggendo gli atti parlamentari si scopre che la Commissione industria aveva sì approvato l'articolo 40-bis ma in una versione che comprendeva soltanto un comma (frutto dell'emendamento 40.0.14, primo firmatario il senatore Luigi Zanda) relativo ai cosiddetti «grandi eventi». Con tutta probabilità l'errore è dipeso dal fatto che di questo emendamento erano stati presentati due diversi testi: il primo che comprendeva anche il comma 2 con le modifiche al Codice, riportato erroneamente nel maxiemendamento, e un secondo (quello effettivamente approvato in commissione previa riformulazione da parte dei firmatari) con il solo comma 1.
In sede di coordinamento formale del testo, prima della trasmissione alla camera, ci si è accorti dell'errore ed è stata corretta la norma espungendo le modifiche al Codice dei contratti che, però, il legislatore ha comunque votato, con la fiducia sul maxiemendamento, e che tutti davano per approvate (articolo ItaliaOggi dell'08.03.2012 - tratto da www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

PUBBLICO IMPIEGO - VARIStretta sui medici. Stop ai certificati senza la visita. Sospeso chi si limita ad attestare cosa dice il lavoratore.
Stretta della Cassazione sui medici che chiudono un occhio con i lavoratori malati immaginari ma veri professionisti dell'assenteismo. Rischia un mese di sospensione dall'esercizio della professione il medico di famiglia che giustifica la mancata presenza in servizio del paziente senza neppure visitarlo: è infatti escluso che possa ammettersi l'esistenza di certificati di tipo «anamnestico» in cui il sanitario si limiterebbe ad attestare quanto sostenuto dal paziente rispetto al proprio stato di salute nei giorni precedenti la redazione del documento.
È quanto emerge dalla sentenza 09.03.2012 n. 3705 della III Sez. civile della Corte di Cassazione.
Attestazione e parvenza
«Assente per indisposizione», se non addirittura «per malattia»: così recitano, spesso, i laconici certificati rilasciati dal medico di famiglia, grazie alla convenzione col servizio sanitario nazionale, che sono poi inviati al datore di lavoro e all'ente previdenziale.
Non bisogna dimenticare, a questo proposito, che la prestazione del sanitario nel giustificare l'assenza del lavoratore dal servizio si completa con la redazione di un modulario ad hoc, e ciò proprio per “responsabilizzare” il professionista: il medico, insomma, deve svolgere la funzione di certificatore delle patologie riscontrate per evitare comportamenti illeciti da parte dei clienti.
È escluso, insomma, che per evitare la sanzione disciplinare il professionista possa invocare la natura «anamnestica» di questo tipo di certificati, che sarebbero soltanto parvenze di attestazioni dal momento che proprio nulla certificano, limitandosi ad asseverare le dichiarazioni del (presunto) malato; in tal modo, infatti, il medico si presta a ingenerare il dubbio che l'assenza sia giustificata da una malattia accertata.
Macchia professionale
È legittimo inquadrare la condotta dell'incolpato nell'articolo 24 del codice deontologico che impone «scrupolo» e «diligenza» nella redazione di certificati medici. Non solo il medico non evita la sanzione, ma «sporca inesorabilmente il suo camice» quando rilascia con troppa disinvoltura certificati che rilevano l'incapacità al lavoro sui moduli previsti: il sanitario, infatti, non ottiene la cancellazione dal controricorso della frase che così descrive la sua condotta, sanzionata dall'Ordine. Al professionista non resta che pagare le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi del 10.03.2012).

APPALTI: Nelle procedure ad evidenza pubblica le commissioni di gara debbono essere composte con un numero dispari di componenti.
L’art. 84 del nuovo codice dei contratti pubblici approvato con il D. L.vo n. 163 del 2006, in recepimento delle direttive comunitarie, ha disciplinato in modo uniforme la composizione della Commissione di gara per ogni procedura ad evidenza pubblica.
Il Collegio, sulla scorta di una giurisprudenza amministrativa da cui non ha motivo di discostarsi rileva, nel caso in esame, l’illegittima composizione della Commissione di gara i cui membri risultano in numero pari (quattro), mentre le Commissioni stesse debbono necessariamente essere composte di un numero dispari onde assicurare la funzionalità del principio maggioritario per la formazione del quorum strutturale ai fini del calcolo della maggioranza assoluta dei componenti (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 06.04.2009 n. 2143; Sez. VI, 22.11.2007 n. 5502) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-bis, sentenza 09.03.2012 n. 1321 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL'esercizio del potere di convalida (o ratifica) del vizio di incompetenza da parte dell'organo competente sana il vizio medesimo con effetto retroattivo.
La ratifica è un istituto predisposto esclusivamente nell'interesse dell'organo ordinariamente competente e ha lo scopo di consentirgli di valutare l'operato dell'organo che ha agito in via di urgenza, appropriandosi o meno degli effetti prodotti dall'atto d'urgenza; peraltro, il provvedimento di ratifica si sostituisce all'atto viziato da incompetenza con effetto “ex tunc”, e, come per altrettanto acquisito in giurisprudenza, l'esercizio del potere di convalida (o ratifica) del vizio di incompetenza da parte dell'organo competente sana il vizio medesimo con effetto retroattivo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 17.05.2010, n. 3121; Cons. Stato, sez. IV, 29.05.2009, nr. 3371; Cons. Stato, sez. VI, 07.05.2009, nr. 2840; Cons. Stato, sez. IV, 31.05.2007, nr. 2894) (TAR Lazio-Roma, Sez. III-ter, sentenza 09.03.2012 n. 1298 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARI: Riservatezza. Il nulla osta del proprietario non è sufficiente. La privacy va tutelata anche in casa d'altri.
IL PRINCIPIO/ È illegale riprendere gli ambienti interni anche se chi abita l'immobile ha prestato consenso alla telecamera.

Il reato di interferenza illecita nella vita privata di una persona sussiste anche se le immagini e le conversazioni vengono captate in luogo diverso dal domicilio della vittima, e anche se il furto di privacy è agevolato dal consenso di chi condivide la situazione contestata con il malcapitato.
La Corte di Cassazione –V Sez. penale, sentenza 08.03.2012 n. 9235– traccia i confini allargati dei luoghi dentro cui una persona ha diritto di sentirsi al sicuro da sguardi e orecchie indiscreti: non solo il proprio domicilio, ma anche quello altrui e indipendentemente dalla volontà del padrone di casa di escludere (o di non escludere) gli spioni.
Il caso affrontato dai giudici di ultima istanza, del resto, era molto peculiare. Un investigatore privato era stato condannato in primo e secondo grado per aver ripreso e registrato gli incontri amorosi di una signora nella casa dell'amante; la particolarità dell'intreccio stava nella circostanza che il proprietario di casa, nonché amante, aveva consentito all'investigatore di piazzare le telecamere nell'appartamento, consapevole tra l'altro del possibile utilizzo dei file amorosi (consegna al marito per finalità processuali).
Secondo i difensori del poliziotto privato, le due condanne erano viziate dal fatto di non aver considerato che il teatro degli incontri amorosi –nonché set dei filmini– non coincideva con il luogo di privata dimora della vittima (la moglie infedele), e che inoltre il padrone di casa aveva aperto le porte allo spione, facendo così venir meno il presupposto penale della «volontà tacita o espressa di escludere gli estranei», come prescritto dall'articolo 614 del Codice penale.
I giudici di piazza Cavour però hanno rigettato senza indugi il ricorso, condannando l'investigatore ficcanaso anche al pagamento delle spese processuali sostenute dalla signora spiata. Il riferimento dell'articolo 615-bis del Codice penale (interferenze illecite nella vita privata) all'articolo 614 (violazione di domicilio) nella parte in cui prevede «l'intrusione nella privata dimora contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero (...) clandestinamente o con inganno», scrive la Corte, «ha semplicemente la funzione di indicare i luoghi nei quali "l'interferenza" nella altrui vita deve considerarsi penalmente illecita, ma non anche quella di recepirne il regime giuridico». Perché in definitiva «chi frequenta un luogo di privata dimora, anche se si tratta della dimora altrui, fa affidamento, appunto, sul carattere di "privatezza" dello stesso e, dunque, agisce sul presupposto che la condotta che egli tiene in quel luogo sarà percepita solo da coloro che in esso siano stati lecitamente ammessi».
Nel caso specifico, dunque, l'unico a legittimato a «percepire la condotta» era appunto solo l'amante doppiamente fedifrago (articolo Il Sole 24 Ore del 09.03.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTINelle gare d’appalto improntate al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, la valutazione dell’offerta tecnica, in presenza di criteri puntuali e stringenti fissati dalla lex specialis ex art. 83 d.lgs n. 163/2006 può avvenire con attribuzione di punteggi senza la necessità di una ulteriore motivazione.
Ad avviso del Collegio nelle gare d’appalto improntate al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, la valutazione dell’offerta tecnica, in presenza di criteri puntuali e stringenti (fissati dalla lex specialis ai sensi dell’art. 83 d.lgs. 12.04.2006, n.163), può estrinsecarsi mediante l’attribuzione di punteggi senza la necessità di una ulteriore motivazione, esternandosi in tal caso il giudizio della commissione ex se nella graduazione e ponderazione dei punteggi assegnati in conformità ai criteri, ma che, nelle ipotesi connotate dall’assenza di sub-criteri o anche di criteri di valutazione sufficientemente dettagliati, e dunque in presenza di criteri improntati a significativi margini di discrezionalità tecnica non compiutamente definiti, la mera attribuzione dei punteggi non sia sufficiente a dar conto dell’iter logico seguito nella scelta e a far comprendere con chiarezza le ragioni per cui sia stato attribuito un punteggio maggiore a talune offerte e minore ad altre, sicché in ipotesi siffatte, per assolvere correttamente al dovere di motivazione, è necessario che, oltre al punteggio numerico, sia espresso un giudizio motivato, col quale la commissione espliciti le ragioni del punteggio attribuito (v. in tal senso, ex plurimis, C.d.S., Sez. V, 29.11.2005 n. 6759) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 08.03.2012 n. 1332 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAnnullamento dell'autorizzazione paesaggistica: il vizio di omesso avvio del procedimento di controllo sul nulla osta paesaggistico da parte della Soprintendenza non e' sanabile ai sensi dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990.
Il Consiglio di Stato nella sentenza in esame ha richiamato l'orientamento giurisprudenziale a tenore del quale è in linea di principio necessario dare specifico avviso agli interessati dell’avvio del procedimento di controllo del nulla osta paesaggistico, da parte della competente Soprintendenza (Cons. St., sez. VI, 20.01.2003 n. 203; Cons. St., sez. VI, 29.03.2002 n. 1790). Sebbene sia possibile, in astratto, che l’avviso sia surrogato da atti equipollenti, tuttavia secondo l’orientamento espresso dalla sezione, non può costituire di regola equipollente la dizione, nel nulla osta paesaggistico, che l’atto sarà trasmesso alla Soprintendenza per il controllo (Cons. St., sez. VI, n. 1790/2002, cit.).
Invero, con numerose pronunce, dalle cui conclusioni il Collegio non ritiene di doversi discostare, questa Sezione ha più volte affrontato la problematica sollevata con la censura in esame, risolvendola in senso negativo a quello prospettato dall’amministrazione appellante, ossia nel senso della sussistenza dell’obbligo dell’autorità statale di dare notizia all’interessato, anche nell’ipotesi in cui il nulla osta rechi l’avviso che l’atto sarà trasmesso alla Soprintendenza, dell’avvio del procedimento preordinato all’eventuale annullamento del nulla-osta paesaggistico (cfr., tra le tante, Cons. St., sez. VI, n. 5728/2004; Cons. St., sez. VI, 25.03.2004 n. 1626; Cons. St., sez. VI, 20.01.2003 n. 203; Cons. St., sez. VI, 17.09.2002 n. 4709; Cons. St., sez. VI, 29.03.2002 n. 1790).
Invero, il parere paesaggistico rilasciato nella specie dal Comune non avrebbe mai potuto essere considerato quale atto equipollente all’avviso di procedimento da iniziarsi da parte della Soprintendenza ai sensi dell’art. 7 l. n. 241/1990. E ciò perché l’atto comunale costituisce l’oggetto della nuova fase procedimentale destinata ad aprirsi di fronte all’autorità statale, sicché la stessa non può, strutturalmente, essere considerata equivalente all’avviso dell’inizio di tale nuova fase, dal momento che esso non contiene alcuna generica informazione circa l’oggetto, il responsabile del procedimento, le modalità di partecipazione, ed in genere lo svolgimento della predetta nuova fase. Viene ribadito, pertanto, l’indirizzo giurisprudenziale della Sezione, che richiede che il provvedimento ministeriale di annullamento del nulla-osta paesaggistico sia preceduto necessariamente dall’avviso del procedimento, salvo che la conoscenza dell’inizio del medesimo procedimento sia avvenuta aliunde (Cons. St., sez. VI, 17.10.2003 n. 6342; Cons. St., sez. VI, 29.04.2003 n. 2176; Cons. St., sez. VI, 10.04.2003 n. 1909).
In definitiva, deve ribadirsi che l’onere di cui all’art. 7, comma 1, della l. n. 241/1990, viene soddisfatto soltanto dalla formale comunicazione ad opera dell’autorità statale competente a pronunciare l’eventuale annullamento dell’autorizzazione paesaggistica, così come, del resto, esplicitamente previsto dalla normativa regolamentare attuativa della l. n. 241/1990 appositamente dettata dal Ministero dei beni culturali ed ambientali, con d.m. n. 495 del 13.06.1994 (art. 4 e tabella A punto 4).
Né il vizio può ritenersi irrilevante ai sensi dell’art. 21-octies l. n. 241/1990, perché, presentando la valutazione di compatibilità paesaggistica un margine di opinabilità, la partecipazione dell’interessata al procedimento avrebbe potuto fornire un apporto per una soluzione favorevole, anche mediante l’indicazione di misure di compatibilizzazione o di ridimensionamento dell’opera abusiva (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 08.03.2012 n. 1318 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI - URBANISTICALa variante urbanistica che localizza un’opera pubblica su un’area demaniale non produce un vincolo espropriativo a carico del demanio, ma si può interpretare come una proposta di utilizzazione del bene demaniale subordinata all’assenso dell’ente gestore e al rispetto della consistenza e della destinazione del bene stesso. La verifica di tali condizioni è normalmente assicurata attraverso lo strumento della concessione demaniale, che si colloca tra la scelta urbanistica e l’esecuzione dei lavori.
Lo strumento della variante semplificata nell’ipotesi prevista dall’art. 2, comma 2, lett. a), della LR 23/1997 consente anche di introdurre modifiche alla zonizzazione, in quanto la procedura è propriamente finalizzata a ottenere l’effetto di variante urbanistica per la localizzazione di opere pubbliche comunali. La codificazione di questo istituto nella legislazione regionale rende inapplicabili le procedure di variante previste a livello nazionale dall’art. 1, comma 5, della legge 1/1978 e dall’art. 19, commi 2 e 4, del DPR 327/2001 (quest’ultimo del resto dichiarato espressamente non applicabile in ambito regionale dall’art. 103 della LR 11.03.2005 n. 12). Il radicamento presso i comuni del potere di variante urbanistica per le opere pubbliche di loro pertinenza non si armonizzerebbe con il contemporaneo mantenimento in capo alla Regione di un potere di approvazione del progetto a fini urbanistici come stabilito dalle citate norme statali. Nell’ordinamento regionale, quindi, l’autonomia riconosciuta ai comuni comporta che la procedura di approvazione del progetto sia separata da quella di variante urbanistica e che ciascuna rimanga radicata presso gli organi comunali competenti.
Per quanto riguarda la necessaria conformità dei progetti delle opere pubbliche alla destinazione urbanistica dei luoghi (v. art. 14, comma 8, della legge 109/1994 in vigore all’epoca), si osserva che la possibilità di ottenere l’effetto di variante urbanistica attraverso la procedura di cui all’art. 2, comma 2, lett. a), della LR 23/1997 consente ai comuni di anticipare l’approvazione del progetto, anzi normalmente esige che almeno il progetto preliminare sia approvato prima della variante semplificata. In una fase successiva alla variante si colloca, quindi, soltanto il progetto definitivo–esecutivo, come è avvenuto nel caso in esame. Poiché il progetto non determina vincoli espropriativi (ma soltanto una prelazione nell’assegnazione delle aree demaniali) non è direttamente applicabile l’art. 16, comma 10, del DPR 327/2001.

(a) la variante urbanistica che localizza un’opera pubblica su un’area demaniale non produce un vincolo espropriativo a carico del demanio, ma si può interpretare come una proposta di utilizzazione del bene demaniale subordinata all’assenso dell’ente gestore e al rispetto della consistenza e della destinazione del bene stesso. La verifica di tali condizioni è normalmente assicurata attraverso lo strumento della concessione demaniale, che si colloca tra la scelta urbanistica e l’esecuzione dei lavori.
Nello specifico la passeggiata posizionata lungo la sponda del lago non solo può coesistere con la natura demaniale della spiaggia ma rappresenta una delle forme di utilizzo che meglio garantiscono la fruizione collettiva del bene pubblico, nel rispetto della sua intrinseca destinazione;
(b) correttamente, quindi, il Comune ha chiesto al Consorzio gestore del demanio lacuale la concessione della superficie demaniale necessaria per la realizzazione della passeggiata. La posizione del Comune nei confronti del bene pubblico è un’aspettativa di utilizzazione assimilabile a quella dei privati ma dotata di maggiore protezione.
Al riguardo, esplicitando un principio della materia, sia la DGR 6/47317 del 22.12.1999 (punto 6-h dei criteri generali) sia la DGR 7/10487 del 30.09.2002 (punto 35) prevedono che in presenza di più domande di concessione riguardanti la stessa area devono essere preferite quelle che garantiscono maggiormente la fruizione pubblica e la valorizzazione del bene nell’interesse generale;
(c) lo strumento della variante semplificata nell’ipotesi prevista dall’art. 2, comma 2, lett. a), della LR 23/1997 (norma che ratione temporis regola la fattispecie in esame) consente anche di introdurre modifiche alla zonizzazione, in quanto la procedura è propriamente finalizzata a ottenere l’effetto di variante urbanistica per la localizzazione di opere pubbliche comunali. La codificazione di questo istituto nella legislazione regionale rende inapplicabili le procedure di variante previste a livello nazionale dall’art. 1, comma 5, della legge 1/1978 e dall’art. 19, commi 2 e 4, del DPR 327/2001 (quest’ultimo del resto dichiarato espressamente non applicabile in ambito regionale dall’art. 103 della LR 11.03.2005 n. 12).
Il radicamento presso i comuni del potere di variante urbanistica per le opere pubbliche di loro pertinenza non si armonizzerebbe con il contemporaneo mantenimento in capo alla Regione di un potere di approvazione del progetto a fini urbanistici come stabilito dalle citate norme statali. Nell’ordinamento regionale, quindi, l’autonomia riconosciuta ai comuni comporta che la procedura di approvazione del progetto sia separata da quella di variante urbanistica e che ciascuna rimanga radicata presso gli organi comunali competenti;
(d) la variante semplificata di cui all’art. 2, comma 2, lett. a), della LR 23/1997 può avere ad oggetto qualsiasi opera pubblica di competenza comunale, e dunque anche quelle che costituiscono standard urbanistico. Conseguentemente la modifica della destinazione urbanistica può consistere nell’individuazione di nuove aree per opere di urbanizzazione o per attrezzature pubbliche o di interesse pubblico.
Le finalità programmatorie del piano dei servizi non sono compromesse qualora la variante semplificata riguardi opere specifiche. Si potrebbe invece sospettare un abuso dello strumento della variante semplificata se attraverso una pluralità di interventi apparentemente scollegati l’amministrazione perseguisse lo scopo di modificare l’impostazione complessiva del piano dei servizi, ma nel caso in esame non vi sono elementi che facciano supporre una tale intenzione da parte del Comune;
(i) per quanto riguarda la necessaria conformità dei progetti delle opere pubbliche alla destinazione urbanistica dei luoghi (v. art. 14, comma 8, della legge 109/1994 in vigore all’epoca), si osserva che la possibilità di ottenere l’effetto di variante urbanistica attraverso la procedura di cui all’art. 2, comma 2, lett. a), della LR 23/1997 consente ai comuni di anticipare l’approvazione del progetto, anzi normalmente esige che almeno il progetto preliminare sia approvato prima della variante semplificata. In una fase successiva alla variante si colloca, quindi, soltanto il progetto definitivo–esecutivo, come è avvenuto nel caso in esame. Poiché il progetto non determina vincoli espropriativi (ma soltanto una prelazione nell’assegnazione delle aree demaniali) non è direttamente applicabile l’art. 16, comma 10, del DPR 327/2001 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 08.03.2012 n. 383 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sulla violazione di una regola, sia pure formale, della lex specialis e sull'istituto della c.d. "associazione per cooptazione".
La violazione di una regola, sia pure formale, ma richiesta dal bando di gara a pena di esclusione, pone un obbligo anche a carico della stazione appaltante che può essere disatteso solo se detta prescrizione sia oggettivamente equivoca, il che, nel caso di specie, non è: il bando imponeva, con chiarezza, una determinata forma della dichiarazione, e tale forma andava rispettata da ogni concorrente, pena l'esclusione.
La possibilità di un'impresa facente parte di un'ATI di cooptare altre imprese, ancorché prevista solo in materia di procedure di aggiudicazione degli appalti di lavori pubblici, è espressione di un principio di derivazione comunitaria, e come tale è applicabile in tutti i pubblici appalti, ivi compresi quelli di servizi. A garanzia degli interessi della stazione appaltante, negli appalti di servizi, la cooptata deve comunque dimostrare il possesso dei requisiti (o, quanto meno di possedere adeguata esperienza) in misura almeno pari a quella della quota di servizio che dovrà svolgere (che dovrebbe essere debitamente precisata dalla lex specialis, sia sotto l'aspetto quantitativo che qualitativo) (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 08.03.2012 n. 92 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATANon incombe a carico del Comune l'onere della previa individuazione dell'effettivo proprietario dell'area, atteso che l'ordinanza di demolizione può essere legittimamente notificata anche esclusivamente all'autore materiale dell'abuso, nel caso in cui non corrisponda con il proprietario dell'area interessata dai lavori edilizi abusivi.
Ed infatti la estraneità del proprietario (o del titolare del diritto reale) agli abusi edilizi commessi sulla cosa locata e affittata dal conduttore, locatario o affittuario non implica l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, emessa ai sensi dell'art. 7, l. n. 28 del 1985 nei confronti del responsabile dell'abuso, ma la sola insuscettività del provvedimento repressivo e sanzionatorio a costituire titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene.
Ai sensi dell'art. 31 del T.U. 06.06.2001 n. 380, l'ingiunzione di demolizione deve essere notificata al responsabile dell'abuso, oltre che al suo proprietario, con la conseguenza che è illegittima l'ingiunzione di demolizione che non venga notificata al responsabile dell'abuso né al proprietario dell'opera abusiva ma solo al proprietario dell'area sulla quale è stata realizzata la stessa opera, soprattutto se questi non ha la materiale disponibilità e non può procedere alla demolizione o rimozione dell'opera abusiva.
---------------
In tema di omissione della comunicazione dell'avvio del procedimento (strumento principale di partecipazione), i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono essere preceduti dal suddetto avviso, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati emessi all'esito di un mero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime.
Più recentemente, è stato precisato che la violazione dell'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento non costituisce un motivo idoneo a determinare l'annullabilità dei provvedimenti sanzionatori in materia di abusi edilizi, in quanto è palese, attesa l'assenza di qualsivoglia titolo abilitativo all'edificazione, che il contenuto dispositivo del provvedimento "non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato", sicché sussiste la condizione prevista dall'art. 21-octies, comma 2, della L. n. 241 del 1990 per determinare la non annullabilità del provvedimento impugnato.

Rileva il Collegio che non incombe a carico del Comune l'onere della previa individuazione dell'effettivo proprietario dell'area, atteso che l'ordinanza di demolizione, per giurisprudenza consolidata nella materia, può essere legittimamente notificata anche esclusivamente all'autore materiale dell'abuso, nel caso in cui non corrisponda con il proprietario dell'area interessata dai lavori edilizi abusivi.
Ed infatti la estraneità del proprietario (o del titolare del diritto reale) agli abusi edilizi commessi sulla cosa locata e affittata dal conduttore, locatario o affittuario non implica l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, emessa ai sensi dell'art. 7, l. n. 28 del 1985 nei confronti del responsabile dell'abuso, ma la sola insuscettività del provvedimento repressivo e sanzionatorio a costituire titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene (cfr., TAR Campania Napoli, sez. II, 19.10.2006, n. 8673).
Ai sensi dell'art. 31 del T.U. 06.06.2001 n. 380, l'ingiunzione di demolizione deve essere notificata al responsabile dell'abuso, oltre che al suo proprietario, con la conseguenza che è illegittima l'ingiunzione di demolizione che non venga notificata al responsabile dell'abuso né al proprietario dell'opera abusiva ma solo al proprietario dell'area sulla quale è stata realizzata la stessa opera, soprattutto se questi non ha la materiale disponibilità e non può procedere alla demolizione o rimozione dell'opera abusiva.
---------------
Per consolidata regola giurisprudenziale, ampiamente condivisa da questo TAR, in tema di omissione della comunicazione dell'avvio del procedimento (strumento principale di partecipazione), i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono essere preceduti dal suddetto avviso, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati emessi all'esito di un mero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime (Cons. Stato, sez. IV, 30.03.2000, n. 1814; TAR Campania, sez. IV, 28.03.2001, n. 1404, 14.06.2002, n. 3499, 12.02.2003, n. 797).
Più recentemente, è stato precisato che la violazione dell'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento non costituisce un motivo idoneo a determinare l'annullabilità dei provvedimenti sanzionatori in materia di abusi edilizi, in quanto è palese, attesa l'assenza di qualsivoglia titolo abilitativo all'edificazione, che il contenuto dispositivo del provvedimento "non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato", sicché sussiste la condizione prevista dall'art. 21-octies, comma 2, della L. n. 241 del 1990 per determinare la non annullabilità del provvedimento impugnato (Consiglio di Stato, sez. IV, 15.05.2009, n. 3029)
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 07.03.2012 n. 2031 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli immobili abusivi può essere adottato senza la specifica indicazione dell'ulteriore area oggetto di acquisizione.
L'acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli immobili abusivi e della relativa area di sedime costituisce effetto automatico della mancata ottemperanza all'ordine di demolizione. Secondo la giurisprudenza (TAR Toscana Firenze, Sez. III, 20.01.2009, n. 24) il provvedimento con il quale viene disposta l'acquisizione gratuita -costituendo titolo per l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari- può essere adottato senza la specifica indicazione dell'ulteriore area "necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive" (area che "non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita") oggetto di acquisizione, potendosi procedere a tale individuazione anche con un successivo e separato atto (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 07.03.2012 n. 2031 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGODecide il giudice ordinario sulle controversie relative a concorsi interni riguardanti la progressione verso una qualifica superiore nell'ambito della stessa area.
La controversia all'esame del giudice amministrativo concerne l'impugnazione di un bando di corso-concorso per un passaggio interno di carriera (dall’area C1-C2 all’area C3). Trattandosi, quindi, di un concorso interno riguardante la progressione verso una qualifica superiore nell’ambito della medesima area funzionale, il Giudice amministrativo ha fatto proprio l'orientamento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 12764 del 25.05.2010 e n. 5458 del 06.03.2009 che hanno stabilito che “sussiste la giurisdizione del Giudice Ordinario nelle controversie relative a concorsi interni riguardanti la progressione verso una qualifica superiore appartenente all’ambito della stessa area”.
Ritenuto che nella fattispecie per cui è causa, concernente proprio un concorso interno per progressione di carriera nell’ambito di una medesima area, la giurisdizione appartenga al Autorità Giudiziaria Ordinaria, e che pertanto -in considerazione del difetto di giurisdizione del Giudice Amministrativo- il ricorso debba essere dichiarato inammissibile (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 06.03.2012 n. 2256 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAErrori nel certificato di destinazione urbanistica: il privato può presentare all'Amministrazione un'istanza di correzione o impugnare davanti al giudice amministrativo i successivi provvedimenti concretamente lesivi non potendo impugnare autonomamente il solo certificato.
Il certificato di destinazione urbanistica (di cui all’art. 30 del D.Lgs. 380 del 2001 - Testo Unico dell'Edilizia) è un atto di certificazione redatto da un pubblico ufficiale avente natura ed effetti meramente dichiarativi e non costitutivi di posizioni giuridiche, infatti tali posizioni discendono da altri provvedimenti, che hanno a loro volta determinato la situazione giuridica acclarata dal certificato stesso (cfr. Tar Lombardia, Milano, sez. IV, 06.10.2010, 6863).
Conseguentemente deve ritenersi che tale atto, essendo sfornito di ogni efficacia provvedimentale, è altresì privo di concreta lesività, il che non rende ammissibile la sua autonoma impugnazione. Gli eventuali asseriti errori contenuti nel certificato possono semmai essere corretti dalla stessa Amministrazione, su istanza del privato, oppure quest'ultimo potrà impugnare davanti al giudice amministrativo gli eventuali successivi provvedimenti concretamente lesivi, adottati dall’Amministrazione in base all'erroneo certificato di destinazione urbanistica, in riscontro a specifica richiesta edificatoria o ai fini della riqualificazione dell’area (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 14.03.2011, n. 279; idem, 12.01.2010, n. 21; TAR Campania, Napoli, sez. II, 20.09.2010, n. 17479; TAR Toscana, sez. I, 28.01.2008, n. 55) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 06.03.2012 n. 2241 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl Comune dopo aver accertato l'esecuzione di opere abusive non e' onerato alla verifica della loro sanabilità in sede di vigilanza sull'attività edilizia.
Nello schema giuridico delineato dall'art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l'esercizio del potere repressivo di un abuso edilizio consistente nell'esecuzione di un'opera in assenza del titolo abilitativo costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione; e, pertanto, accertata l'esecuzione di opere in assenza di concessione ovvero in difformità totale dal titolo abilitativo, non costituisce onere del Comune verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza sull'attività edilizia (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 27.04.2004, n. 2529) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.03.2012 n. 1260 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI: Vendita di quotidiani libera? La presa d'atto della Giunta non basta. Serve la delibera del Consiglio Comunale.
E' illegittima, per incompetenza, una deliberazione adottata dalla Giunta comunale, con cui, per effetto dell'entrata in vigore dei cc.dd. decreti Bersani l'esecutivo comunale ha preso atto dell'avvenuta liberalizzazione del settore della vendita di quotidiani e periodici; e, quindi, sul presupposto che tale attività non fosse più soggetta a limitazioni, ha stabilito che essa può essere svolta in base a D.I.A. a efficacia immediata.
I ricorrenti, titolari di rivendite di quotidiani e periodici, hanno impugnato la delibera con cui la Giunta comunale aveva "preso atto" dell’avvenuta liberalizzazione del settore della vendita di quotidiani e periodici, contestualmente stabilendo che la stessa poteva essere svolta in base a dichiarazione di inizio di attività a efficacia immediata.
Hanno eccepito l’illegittimità del menzionato provvedimento sia sotto il profilo dell’incompetenza dell’organo giuntale, sia in relazione alla circostanza per cui l’attività di vendita di quotidiani e periodici non sarebbe rientrata tra quelle oggetto di liberalizzazione.
Costituitasi in giudizio, la P.A. comunale ha eccepito, in via preliminare, il difetto di legittimazione e interesse dei ricorrenti.
Il TAR di Latina, con riferimento alle menzionate eccezioni di inammissibilità, ne ha rilevato l’infondatezza sulla scorta della considerazione per cui non vi era alcun dubbio che i ricorrenti, incontestatamente operatori del mercato della vendita dei quotidiani e periodici, fossero stati indiretti destinatari di una delibera –qual è quella gravata- che aveva comunque inciso direttamente e non solo potenzialmente i propri interessi.
Sicché, rintracciando la legittimazione al ricorso dei deducenti, ha ancora precisato come gli stessi avrebbero tratto vantaggio dal suo eventuale accoglimento, atteso che la mancata apertura del mercato ad altri operatori li avrebbe sottratti alla pressione concorrenziale.
Nel merito, il ricorso è stato accolto.
Con riferimento alla dedotta incompetenza della Giunta comunale, i deducenti hanno eccepito che la delibera impugnata avrebbe dovuto essere adottata dal Consiglio comunale, in quanto integrante un atto avente contenuto pianificatorio dell’attività di vendita dei giornali.
Il Collegio ha premesso che la delibera in questione possedeva un contenuto composito: la stessa, infatti, per una parte, sembrava limitarsi a "prendere atto" di una liberalizzazione dell’attività di vendita dei giornali; per l’altra, e nel presupposto di questa liberalizzazione, disponeva la formale abrogazione di ogni regolamentazione comunale che si fosse posta in contrasto con la normativa introduttiva delle liberalizzazioni, contestualmente assoggettando l’attività al regime della dichiarazione di inizio di attività.
Il provvedimento, quindi, anche se apparentemente circoscritto alla presa d’atto di un effetto (liberalizzazione dell’attività), a opinione dell’adito G.A. possedeva anche un contenuto dispositivo di tipo programmatorio che, in linea di principio, esula dai poteri della Giunta comunale.
Da qui la condivisione della dedotta illegittimità, per incompetenza, dell’impugnata deliberazione.
A tanto si soggiunga come il giudicante ha accolto l’ulteriore censura mossa dai ricorrenti che, con riferimento alla medesima delibera, hanno eccepito l’erroneo accostamento da parte dell’amministrazione dell’attività di vendita di quotidiani e periodici con le attività economiche oggetto di liberalizzazione.
Sul proposito, l’adito TAR, in relazione ai decreti “Bersani”, dopo aver rilevato che il D.L. n. 7/2007 non recava alcuna disposizione concernente l’attività in parola, ha affrontato il problema se la vendita di giornali avesse potuto essere ricondotta fra le attività di cui all’art. 3, D.L. n. 223/2006 che, per individuare l’ambito delle liberalizzazioni da esso introdotte, rinviava alle attività commerciali di cui al D.Lgs. n. 114/1998.
Orbene, il Collegio ha precisato che la tesi della riconducibilità dell’attività di vendita di giornali alle previsioni del D.Lgs. n. 114/1998 poteva esser basata sul rilievo per cui, in termini generali, l’art. 4 non contempla la stessa tra le attività commerciali cui le sue disposizioni non sono applicabili.
Tanto, del resto, poteva trovare conferma nella successiva previsione dell’art. 13 che, stabilendo alle rivendite di giornali l’inapplicabilità del titolo relativo agli orari di vendita, implicitamente avrebbe confermato l’applicabilità delle altre disposizioni e quindi la riconducibilità dell’attività di vendita dei giornali nell’ambito del D.L. n. 223/2006.
Tuttavia, il TAR di Latina non ha mancato di sottolineare come siffatti argomenti avessero comunque trovato smentita nel D.Lgs. n. 170/2001 (Riordino del sistema di diffusione della stampa quotidiana e periodica) che, dopo aver istituito e disciplinato un sistema distributivo imperniato su una programmazione comunale basata su piani di localizzazione di punti di vendita esclusivi e punti vendita non esclusivi, aveva stabilito nell’art. 9 che "per quanto non previsto dal presente decreto si applica il decreto legislativo 31.03.1998, n. 114".
Cosicché, considerato che la disposizione in questione stabiliva che il D.Lgs. n. 114/1998 si applicasse solo residualmente alla vendita dei giornali, il G.A. ha desunto come la medesima attività non rientrasse in via diretta nell’ambito applicativo dell’art. 3, D.L. n. 223/2006.
Detto argomento, del resto, a opinione del Collegio, ha trovato una spiegazione nella circostanza per cui il sistema di vendita previsto dal D.Lgs. n. 170/2001 ha, in linea di principio, tra i suoi obiettivi quello di garantire, a tutela del pluralismo dell’informazione, la distribuzione di tutte le pubblicazioni edite in Italia attraverso l’imposizione ai titolari dei punti di vendita esclusivi dell’obbligo di garantire la cd. "parità di trattamento" delle diverse testate.
Per siffatte ragioni, il ricorso è stato accolto, con conseguente declaratoria dell’illegittimità dell’impugnata deliberazione (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Lazio-Latina, sentenza 02.03.2012 n. 181 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La generica dichiarazione di regolarità della documentazione amministrativa non è idonea a dimostrare la presenza all'interno del plico dei documenti successivamente non rinvenuti.
La dichiarazione della commissione giudicatrice in ordine alla regolarità della documentazione prodotta dall’ATI aggiudicataria dell’appalto non dimostra, stante la sua genericità, che siano stati effettivamente presentati i documenti di riconoscimento in questione (massima tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it - C.G.A.R.S., sentenza 29.02.2012 n. 229 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Costituisce un vincolo preordinato all'espropriazione la destinazione a verde pubblico attrezzato.
Diversamente da altre solo in apparenza simili destinazioni urbanistiche (tra cui quelle a “verde privato” o “verde agricolo”), che invece effettivamente conformano il diritto dominicale dei proprietari dei fondi interessati, senza però sopprimerlo in toto – la destinazione a “verde pubblico attrezzato” (al pari di quella a “verde pubblico”) è radicalmente incompatibile con la permanenza del fondo in proprietà privata.
Sussiste un vincolo preordinato alla espropriazione le volte in cui la destinazione della area permetta la realizzazione di opere destinate esclusivamente alla fruizione soggettivamente pubblica, nel senso di riferita esclusivamente all’ente esponenziale della collettività territoriale. E pertanto nel caso di parcheggi pubblici, strade e spazi pubblici, spazi pubblici attrezzati, parco urbano, attrezzature pubbliche per l’istruzione. In tali casi, evidentemente, l’utilizzatore finale dell’opera non può che essere l’ente pubblico di riferimento ed essa, in nessun caso, può essere posta sul mercato per soddisfare una domanda differenziata che, semplicemente, non esiste  (massima tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it - C.G.A.R.S., sentenza 27.02.2012 n. 212 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003, nel riflettere il favor del legislatore sovranazionale per lo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili e dei relativi impianti di produzione, fa registrare la confluenza di profili di tutela ambientale, ricadenti nella competenza legislativa esclusiva dello Stato, e profili afferenti alla competenza concorrente di Stato e Regioni nelle materie della produzione, trasporto e distribuzione di energia, ovvero del governo del territorio, sicché deve escludersi che alle Regioni sia consentito provvedere in via autonoma alla individuazione dei criteri per il corretto inserimento ambientale degli impianti alimentati da fonti di energia alternativa, al di fuori delle linee-guida nazionali ed in violazione del principio di leale collaborazione.
Se, alla luce della oramai consolidata giurisprudenza costituzionale, in presenza di una normativa statale che non contempla alcuna limitazione specifica alla localizzazione degli impianti per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili né pone divieti inderogabili ma rinvia all’adozione di criteri comuni per tutto il territorio nazionale, è negata al legislatore regionale la possibilità di provvedere autonomamente all’individuazione dei siti inidonei all’installazione di specifiche tipologie di impianti, a maggior ragione deve escludersi che risultati analoghi possano venire perseguiti dagli enti locali in sede di pianificazione urbanistica, con conseguente illegittimità, per contrasto non solo con l’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003 ma anche con gli stessi principi costituzionali che governano l’allocazione delle funzioni normative e amministrative, degli atti di normazione secondaria che ponessero in ambito comunale limitazioni sconosciute alla legge statale.

Occupandosi della questione, la giurisprudenza (Tar Toscana 07.04.2011 n. 629, Tar Parma 08.11.2011 n. 383) ha avuto occasione di rilevare che:
- nell’ottica europea improntata al principio dello sviluppo sostenibile, il legislatore statale ha dato attuazione alla direttiva 2001/77/CE, relativa alla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili, mediante il d.lgs. n. 387 del 2003, che all’art. 12, nel dettare la disciplina del procedimento autorizzatorio per la realizzazione degli impianti alimentati da tali fonti, da un lato riconosce a detti impianti carattere di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza (comma 1) e conferisce all’Autorità procedente –la Regione, ovvero la Provincia da questa delegata– il potere di rilascio dell’autorizzazione in variante agli strumenti urbanistici vigenti (comma 3), ma dall’altro lato non trascura di garantire il corretto inserimento degli impianti nell’ambiente, rimettendo a linee-guida da approvarsi in Conferenza unificata l’individuazione dei criteri in applicazione dei quali è consentita alle Regioni l’indicazione di aree e siti non idonei alla installazione di specifiche tipologie di impianti;
- l’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003, nel riflettere il favor del legislatore sovranazionale per lo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili e dei relativi impianti di produzione, fa registrare la confluenza di profili di tutela ambientale, ricadenti nella competenza legislativa esclusiva dello Stato, e profili afferenti alla competenza concorrente di Stato e Regioni nelle materie della produzione, trasporto e distribuzione di energia, ovvero del governo del territorio, sicché deve escludersi che alle Regioni sia consentito provvedere in via autonoma alla individuazione dei criteri per il corretto inserimento ambientale degli impianti alimentati da fonti di energia alternativa, al di fuori delle linee-guida nazionali ed in violazione del principio di leale collaborazione (v., tra le altre, C. Cost. 26.03.2010 n. 119);
- se, alla luce della oramai consolidata giurisprudenza costituzionale, in presenza di una normativa statale che non contempla alcuna limitazione specifica alla localizzazione degli impianti per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili né pone divieti inderogabili ma rinvia all’adozione di criteri comuni per tutto il territorio nazionale, è negata al legislatore regionale la possibilità di provvedere autonomamente all’individuazione dei siti inidonei all’installazione di specifiche tipologie di impianti, a maggior ragione deve escludersi che risultati analoghi possano venire perseguiti dagli enti locali in sede di pianificazione urbanistica, con conseguente illegittimità, per contrasto non solo con l’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003 ma anche con gli stessi principi costituzionali che governano l’allocazione delle funzioni normative e amministrative, degli atti di normazione secondaria che ponessero in ambito comunale limitazioni sconosciute alla legge statale.
Si tratta di conclusioni che il Collegio condivide pienamente. Di qui l’illegittimità della variante normativa al P.T.C. Provinciale impugnata, avendo la stessa circoscritto le zone dove possono essere posizionati gli impianti industriali fotovoltaici, biomasse, eolici e simili e le loro dimensioni (TAR Marche, sentenza 24.02.2012 n. 142 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non è necessario il permesso di costruire per la realizzazione di modeste opere di pavimentazione, laddove non siano state realizzate opere murarie o eliminato verde preesistente, ovvero urbanizzato il terreno. Occorre invece il permesso di costruire, ai sensi dall’articolo 3, comma 1, lettera e), del DPR. n. 380/2001, quando le opere di pavimentazione, in ragione delle dimensioni delle stesse e dei materiali utilizzati determinino una significativa trasformazione dello stato dei luoghi.
In tutta evidenza, la costruzione di una piattaforma in cemento costituisce una trasformazione dello stato dei luoghi e rientra nelle nuove costruzioni, per il quali è previsto il rilascio del permesso di costruire, pacificamente assente nel caso in esame.

Come ha rilevato la giurisprudenza, non è necessario il permesso di costruire per la realizzazione di modeste opere di pavimentazione, laddove non siano state realizzate opere murarie o eliminato verde preesistente, ovvero urbanizzato il terreno (TAR Trentino Alto Adige-Bolzano, 26.08.2009 n. 299). Occorre invece il permesso di costruire, ai sensi dall’articolo 3, comma 1, lettera e), del DPR. n. 380/2001, quando le opere di pavimentazione, in ragione delle dimensioni delle stesse e dei materiali utilizzati determinino una significativa trasformazione dello stato dei luoghi (TAR Campania Napoli 21.04.2009, n. 2084, TAR Piemonte Torino, 02.02.2005 n. 20, TAR Lombardia Milano 20.11.2002 n. 4514, TAR Campania-Napoli 10.12.2009 n. 8606).
In tutta evidenza, la costruzione di una piattaforma in cemento costituisce una trasformazione dello stato dei luoghi e rientra nelle nuove costruzioni, per il quali è previsto il rilascio del permesso di costruire, pacificamente assente nel caso in esame (TAR Marche, sentenza 24.02.2012 n. 134 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Vincoli di piano regolatore e presunzione legale di conoscenza.
Con sentenza 23.02.2012 n. 2737 la Sez. II civile della Corte di Cassazione ha respinto il ricorso di un promissario acquirente di un terreno che ha chiesto la risoluzione del contratto di compravendita per avergli il venditore taciuto la circostanza che tale terreno fosse gravato da vincolo. Gli Ermellini hanno fondato la motivazione del rigetto sulla circostanza che, essendo la previsione di vincolo contenuta nel piano regolatore vigente, l'acquirente avrebbe potuto conoscerla.
Secondo la Corte è infatti necessario distinguere a seconda che la prescrizione di vincolo sia prevista in atti di ordine generale aventi contenuto normativo ovvero di carattere speciale.
Nel primo caso, le prescrizioni inserite in leggi, atti aventi forza di legge e - come nel caso di specie - piani regolatori, una volta approvate e pubblicate nelle forme previste, sono assistite da una presunzione legale di conoscenza da parte dei destinatari, tale per cui i vincoli ivi previsti non possono qualificarsi come oneri non apparenti gravanti sull'immobile ai sensi dell'art. 1489 c.c., né sono invocabili dal compratore come fonte di responsabilità del venditore che non li abbia eventualmente dichiarati nel contratto.
Solo qualora il vincolo risulti imposto in forza di uno specifico provvedimento amministrativo a carattere particolare, la conoscenza può essere presunta in capo al proprietario del bene, che, quale soggetto interessato, può venirne a conoscenza con l'ordinaria diligenza, ma non anche da parte del compratore, il quale ben potrebbe far valere nei confronti del venditore l'obbligo di garanzia derivante dall'art. 1489 c.c. (tratto da e link a http://studiospallino.blogspot.com).

APPALTI: Sui limiti del sindacato del giudice amministrativo in merito alla decisione della stazione appaltante di escludere un'impresa da un appalto per ragioni di inaffidabilità.
In tema di appalti pubblici, in presenza di una ragionevole scelta legislativa (art. 38, c. 1, lett. f, del d.lgs. 163 del 2006) di consentire il rifiuto di aggiudicazione per ragioni di inaffidabilità dell'impresa -esemplificativamente indicate in ipotesi di mala fede o colpa grave emerse nella esecuzione del pregresso rapporto o di serie carenze di professionalità emergenti dal passato aziendale- il sindacato di legittimità del giudice amministrativo nello scrutinio di un uso distorto di tale rifiuto deve prendere atto della chiara scelta di rimettere alla stessa stazione appaltante la individuazione del punto di rottura dell'affidamento nel pregresso e/o futuro contraente.
Il sindacato sulla motivazione del rifiuto deve, pertanto e specularmente, essere rigorosamente mantenuto sul piano della verifica della non pretestuosità della valutazione degli elementi di fatto esibiti dall'appaltante come ragioni del rifiuto e non può avvalersi, onde ritenere avverato il vizio di eccesso di potere, di criteri che portano ad evidenziare la mera non condivisibilità della valutazione stessa (ove si recepiscano, come ha fatto il giudice amministrativo, le considerazioni esposte dal consulente).
L'adozione di siffatti criteri di non condivisione, infatti, nella parte in cui comporta una sostituzione nel momento valutativo riservato all'appaltante, determina non già un mero errore di giudizio (insindacabile in questa sede) ma uno sconfinamento nell'area ex lege riservata all'appaltante stesso e quindi vizia, per ciò, solo, la decisione, tale sconfinamento essendo ravvisabile anche quando il giudice formuli direttamente e con efficacia immediata e vincolante gli apprezzamenti e gli accertamenti demandati all'amministrazione (Corte di Cassazione, SS.UU., sentenza 17.02.2012 n. 2312 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 133, lettera a), del r.d. 08.05.1904, n. 368 (“Regolamento per la esecuzione del t.u. della l. 22.03.1900, n. 195, e della l. 07.07.1902, n. 333, sulle bonificazioni delle paludi e dei terreni paludosi”) pone chiaro ed espresso divieto “in modo assoluto” di procedere ad una serie di lavori, tra cui la realizzazione di “…fabbriche… dal piede interno ed esterno degli argini e loro accessori o dal ciglio delle sponde dei canali non muniti di argini o dalle scarpate delle strade a distanza minore di… metri 4 a 10 per i fabbricati, secondo l'importanza del corso d’acqua”; e alla successiva lettera b), secondo capoverso, precisa, sempre per quanto qui interessa, che “…le fabbriche…esistenti… sono tollerate qualora non rechino un riconosciuto pregiudizio; ma, giunte a maturità o deperimento, non possono essere surrogate fuorché alle distanze sopra stabilite”.
La disposizione si differenzia da quella dell’art. 96, lettera f), del r.d. 27.07.1904, n. 523 (“Testo unico delle disposizioni di legge intorno alle opere idrauliche delle diverse categorie”) che, disponendo che sono vietate in modo assoluto, tra l’altro, “…le fabbriche… a distanza dal piede degli argini e loro accessori come sopra, minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in mancanza di tali discipline, a distanza minore…di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi”, consente alle “discipline locali” di derogare alla distanza minima assoluta ivi indicata, senza porre distinzione tra “fabbriche esistenti”e “nuove fabbriche”.
Nell’ambito di distanza stabilito dalle discipline locali il divieto di edificazione della fascia di rispetto è assoluto e inderogabile (tra l'altro, vale anche per i corsi d’acqua confinati in sotterraneo mediante tombinatura), laddove il maggior limite di 10 metri ha natura sussidiaria perché subordinato all’assenza di normative locali, ivi comprese quelle urbanistiche ed edilizie.
Al contrario, il vincolo d’inedificabilità posto dall’art. 133, lettera a), sia pure nell’intervallo da stabilirsi a cura dell’Autorità di bonifica (da 4 a 10 metri), è assoluto, perché inderogabile da discipline locali, ed è orientato alla salvaguardia delle “… normali operazioni di ripulitura e di manutenzione e ad impedire le esondazioni delle acque…”.
---------------
L’art. 133, lettera a), del r.d. 08.05.1904, n. 368 nel consentire la conservazione delle “fabbriche”, ossia degli edifici esistenti, e peraltro “qualora non rechino un riconosciuto pregiudizio” (così ammettendo che, nel caso di riconosciuto pregiudizio possa al contrario imporsi l’arretramento alla distanza prescritta, o al limite anche la demolizione), prevede che, al contrario, il limite minimo variabile -da stabilirsi a cura dell’Autorità di bonifica- debba essere rispettato quando si intenda procedere alla “surrogazione”, ossia alla sostituzione dell’opera con altra opera.
Nell’ampia nozione di “surroga”, e in funzione dell’assoluta eccezionalità della conservazione dell’opera già esistente, non può non ricomprendersi la sostituzione anche nella forma della demolizione e della fedele ricostruzione.
In altri termini, l’interesse del privato proprietario al mantenimento dell’edificio entro la fascia di rispetto e a distanza inferiore a quella minima è tutelato solo se ed in quanto l’immobile non subisca alcuna trasformazione fisica, rimanga tal quale, come esistente, ed anche in tale ipotesi nemmeno in senso assoluto, potendo disporsi il suo arretramento o al limite il suo abbattimento se “rechi pregiudizio” all’interesse pubblico relativo alla più funzionale ed efficace manutenzione di argini, sponde, corsi d’acqua e canali e/o se presenti rischi in ordine all’esondazione e al naturale deflusso delle acque.
Al contrario, quando si intenda procedere alla “surrogazione”, ossia alla sostituzione dell’edificio esistente con un nuovo edificio, ancorché di superficie, sagoma, volumetria identiche -mediante demolizione e ricostruzione- l’interesse del proprietario non può che soccombere rispetto al predetto interesse pubblico, nel senso che trova piena applicazione il limite di distanza, da fissare a cura dell’Autorità di bonifica in relazione all’importanza del corso d’acqua e alle esigenze della sua cura e manutenzione, naturalmente con il minor sacrificio possibile ed entro limiti di adeguata proporzionalità e dimostrata funzionalizzazione al suddetto interesse pubblico, qualora esso sia fissato oltre il limite minimo inderogabile di 4 metri.
La norma delle N.T.A. del P.R.G. intitolata alla “Tutela dei corsi d’acqua” che consente “Per gli edifici esistenti ricadenti in tutto o in parte nelle fasce di rispetto… la manutenzione ordinaria, straordinaria, il restauro, la ristrutturazione nonché l’ampliamento purché non comporti avanzamento dell’edificio esistente sul fronte fluviale” può assumere valore di deroga soltanto al vincolo di cui all’art. 96, lettera f), del r.d. n. 523/1904 e non anche al vincolo di cui all’art. 133, lettera a), del r.d. n. 368/1904.

L’art. 133, lettera a), del r.d. 08.05.1904, n. 368 (“Regolamento per la esecuzione del t.u. della l. 22.03.1900, n. 195, e della l. 07.07.1902, n. 333, sulle bonificazioni delle paludi e dei terreni paludosi”) pone chiaro ed espresso divieto “in modo assoluto” di procedere ad una serie di lavori, tra cui, per quanto qui rileva, la realizzazione di “…fabbriche… dal piede interno ed esterno degli argini e loro accessori o dal ciglio delle sponde dei canali non muniti di argini o dalle scarpate delle strade a distanza minore di… metri 4 a 10 per i fabbricati, secondo l'importanza del corso d’acqua”; e alla successiva lettera b), secondo capoverso, precisa, sempre per quanto qui interessa, che “…le fabbriche…esistenti… sono tollerate qualora non rechino un riconosciuto pregiudizio; ma, giunte a maturità o deperimento, non possono essere surrogate fuorché alle distanze sopra stabilite”.
La disposizione si differenzia da quella dell’art. 96, lettera f), del r.d. 27.07.1904, n. 523 (“Testo unico delle disposizioni di legge intorno alle opere idrauliche delle diverse categorie”) che, disponendo che sono vietate in modo assoluto, tra l’altro, “…le fabbriche… a distanza dal piede degli argini e loro accessori come sopra, minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in mancanza di tali discipline, a distanza minore…di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi”, consente alle “discipline locali” di derogare alla distanza minima assoluta ivi indicata, senza porre distinzione tra “fabbriche esistenti”e “nuove fabbriche”.
E’ evidente, peraltro, che nell’ambito di distanza stabilito dalle discipline locali il divieto di edificazione della fascia di rispetto è assoluto e inderogabile (Cons. Stato, Sez. IV, 23.07.2009, n. 4663, che precisa come esso valga anche per i corsi d’acqua confinati in sotterraneo mediante tombinatura; vedi anche Sez. V, 26.03.2009, n. 1814), laddove il maggior limite di 10 metri ha natura sussidiaria perché subordinato all’assenza di normative locali, ivi comprese quelle urbanistiche ed edilizie (Cass., SS.UU. civili, 18.07.2008, n. 19813).
Al contrario, il vincolo d’inedificabilità posto dall’art. 133, lettera a), sia pure nell’intervallo da stabilirsi a cura dell’Autorità di bonifica (da 4 a 10 metri), è assoluto, perché inderogabile da discipline locali, ed è orientato alla salvaguardia delle “… normali operazioni di ripulitura e di manutenzione e ad impedire le esondazioni delle acque…” (Cass. Civ., Sez. I, 22.04.2005 n. 8536).
---------------
La sentenza impugnata, e il provvedimento assessorile di diniego dell’annullamento in autotutela della concessione edilizia, hanno ritenuto che il limite di distanza non operi con riferimento a lavori di ristrutturazione edilizia, consistenti, come nel caso di specie, nella demolizione e ricostruzione con identica sagoma e volume sull’identica area di sedime.
Tale conclusione è erronea e priva di fondamento normativo.
L’art. 133, lettera a),
del r.d. 08.05.1904, n. 368 nel consentire la conservazione delle “fabbriche”, ossia degli edifici esistenti, e peraltro “qualora non rechino un riconosciuto pregiudizio” (così ammettendo che, nel caso di riconosciuto pregiudizio possa al contrario imporsi l’arretramento alla distanza prescritta, o al limite anche la demolizione), prevede che, al contrario, il limite minimo variabile -da stabilirsi a cura dell’Autorità di bonifica- debba essere rispettato quando si intenda procedere alla “surrogazione”, ossia alla sostituzione dell’opera con altra opera.
Nell’ampia nozione di “surroga”, e in funzione dell’assoluta eccezionalità della conservazione dell’opera già esistente, non può non ricomprendersi la sostituzione anche nella forma della demolizione e della fedele ricostruzione.
In altri termini, l’interesse del privato proprietario al mantenimento dell’edificio entro la fascia di rispetto e a distanza inferiore a quella minima è tutelato solo se ed in quanto l’immobile non subisca alcuna trasformazione fisica, rimanga tal quale, come esistente, ed anche in tale ipotesi nemmeno in senso assoluto, potendo disporsi il suo arretramento o al limite il suo abbattimento se “rechi pregiudizio” all’interesse pubblico relativo alla più funzionale ed efficace manutenzione di argini, sponde, corsi d’acqua e canali e/o se presenti rischi in ordine all’esondazione e al naturale deflusso delle acque.
Al contrario, quando si intenda procedere alla “surrogazione”, ossia alla sostituzione dell’edificio esistente con un nuovo edificio, ancorché di superficie, sagoma, volumetria identiche -mediante demolizione e ricostruzione- l’interesse del proprietario non può che soccombere rispetto al predetto interesse pubblico, nel senso che trova piena applicazione il limite di distanza, da fissare a cura dell’Autorità di bonifica in relazione all’importanza del corso d’acqua e alle esigenze della sua cura e manutenzione, naturalmente con il minor sacrificio possibile ed entro limiti di adeguata proporzionalità e dimostrata funzionalizzazione al suddetto interesse pubblico, qualora esso sia fissato oltre il limite minimo inderogabile di 4 metri.
Né può soccorrere l’argomento difensivo dell’applicabilità dell’art. 42 delle N.T.A. del P.R.G. del Comune di Noale (come richiamato nella memoria difensiva della Provincia di Venezia).
Tale disposizione regolamentare, intitolata alla “Tutela dei corsi d’acqua” consente bensì “Per gli edifici esistenti ricadenti in tutto o in parte nelle fasce di rispetto… la manutenzione ordinaria, straordinaria, il restauro, la ristrutturazione nonché l’ampliamento purché non comporti avanzamento dell’edificio esistente sul fronte fluviale”; sennonché essa può assumere valore di deroga, come già evidenziato, soltanto al vincolo di cui all’art. 96, lettera f), del r.d. n. 523/1904, e non anche al vincolo di cui all’art. 133, lettera a), del r.d. n. 368/1904
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.02.2012 n. 816 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il potere ministeriale di annullamento d'ufficio del nulla-osta paesaggistico previsto dall'art. 159, comma 3, D.Lgs. 22.01.2004 n. 42, secondo il quale la Soprintendenza, se ritiene l'autorizzazione non conforme alle prescrizioni di tutela del paesaggio, può annullarla, con provvedimento motivato, non attribuisce all'Amministrazione centrale un potere di annullamento del nulla-osta paesaggistico per motivi di merito, così da consentire alla stessa Amministrazione di sovrapporre una propria valutazione a quella di chi ha rilasciato il titolo autorizzativo, ma riconosce ad essa un controllo di mera legittimità, che peraltro, può riguardare tutti i possibili vizi, tra cui anche l'eccesso di potere.
Ne deriva, pertanto, l'illegittimità di provvedimenti di annullamento fondati su un riesame del merito della valutazione effettuata dall'ente delegato, piuttosto che sulla rilevazione di uno specifico vizio di legittimità dell'atto sottoposto a controllo.
Sotto tale profilo deve infatti evidenziarsi che, se è vero che la Soprintendenza in sede di controllo sul nulla-osta paesaggistico può operare un sindacato relativamente ad ogni profilo di illegittimità, compreso l’eccesso di potere, è anche vero che essa non può però sostituire in tale sede le proprie valutazioni a quelle motivatamente espresse dal Comune.
Un sindacato sostitutivo invero potrebbe risultare ammissibile laddove il nulla osta paesaggistico risulti adottato in carenza di istruttoria e motivazione, mentre laddove lo stesso appaia sorretto da ampia istruttoria e motivazione la Soprintendenza non può sostituire le proprie valutazione di merito a quelle espresse con il rilascio del nulla osta paesaggistico.
L'Amministrazione statale deve, quindi, verificare dall'esterno la coerenza, la logicità e la completezza istruttoria dell'iter procedimentale seguito dall'Amministrazione emanante per la valutazione compatibilità, nonché che tale valutazione non sia manifestamente illogica o irrazionale, non sia basata su errata ricostruzione dei fatti, sia sorretta da motivazione sufficiente, congrua, razionale e non contraddittoria ed, in genere, che siano osservate le regole che sovrintendono all'esercizio della funzione tecnico-discrezionale e le norme che disciplinano la funzione stessa, ma non può sostituire i suoi apprezzamenti sulla compatibilità ambientale a quelli espressi dall'Ente locale.
-------------
Ai sensi dell’art. 4, comma 4, e 5, della legge n. 13/1989 l’autorizzazione per eseguire interventi su immobili vincolati può essere negata solo in presenza di un grave pregiudizio del bene tutelato di cui deve essere data adeguata motivazione, con la specificazione della natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l’opera si colloca.
Ora, secondo quanto espresso in giurisprudenza, il legislatore, nel bilanciamento degli interessi in gioco, inerenti da una parte alla tutela del patrimonio storico, artistico e paesistico-ambientale e, dall'altra, alla salvaguardia dei diritti alla salute ed al normale svolgimento della vita di relazione e socializzazione dei soggetti in minorate condizioni fisiche -espressamente tutelati dagli artt. 3, II comma, e 32 della Costituzione- ha inteso dare prevalenza ai menzionati diritti della persona relegando il diniego ai soli casi di accertato e motivato "serio pregiudizio" del bene vincolato.
Ciò non vuol dire che dalla normativa in esame possa desumersi la vigenza di un principio di superabilità e derogabilità assoluta e automatica dei vincoli posti per finalità di tutela storico-culturale o paesistico-ambientale, bensì che il diniego alla realizzazione di opere preordinate al superamento delle barriere architettoniche deve necessariamente essere legato ad un serio pregiudizio all'interesse paesistico-ambientale debitamente motivato, nell’ottica di una necessaria comparazione di interessi, “con la specificazione della natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l’opera si colloca”.
Il legislatore, difatti, ha tutelato il portatore di handicap rafforzando le garanzie procedimentali e sostanziali rispetto al suo interesse ad ottenere l’autorizzazione, sia attraverso una specificazione in senso restrittivo dei presupposti del provvedimento di diniego, sia dettando il contenuto obbligatorio della relativa motivazione.
Nel caso di specie la Soprintendenza non ha tenuto conto delle finalità dell’intervento legate alle esigenze del portatore di handicap, non evidenziando alcuna ragione nemmeno potenziale di grave pregiudizio al valore tutelato ed attestandosi, invece, per tale aspetto, su una motivazione generica riguardo alle esigenze di rispetto del vincolo e di protezione del bene paesistico.

Il Collegio rileva come, in linea generale, il potere ministeriale di annullamento d'ufficio del nulla-osta paesaggistico previsto dall'art. 159, comma 3, D.Lgs. 22.01.2004 n. 42, secondo il quale la Soprintendenza, se ritiene l'autorizzazione non conforme alle prescrizioni di tutela del paesaggio, può annullarla, con provvedimento motivato, non attribuisce all'Amministrazione centrale un potere di annullamento del nulla-osta paesaggistico per motivi di merito, così da consentire alla stessa Amministrazione di sovrapporre una propria valutazione a quella di chi ha rilasciato il titolo autorizzativo, ma riconosce ad essa un controllo di mera legittimità, che peraltro, può riguardare tutti i possibili vizi, tra cui anche l'eccesso di potere.
Ne deriva, pertanto, l'illegittimità di provvedimenti di annullamento fondati su un riesame del merito della valutazione effettuata dall'ente delegato, piuttosto che sulla rilevazione di uno specifico vizio di legittimità dell'atto sottoposto a controllo (ex multis Cons. Stato, VI, 13.02.2009, n. 772; TAR Campania Napoli, sez. VIII, 10.11.2010, n. 23751; TAR Puglia Lecce, sez. I, 17.07.2008, n. 2213; TAR Campania; TAR Campania Napoli, sez. VII, 04.04.2008, n. 1879; Napoli, sez. III, 19.03.2008, n. 1411).
Sotto tale profilo deve infatti evidenziarsi che, se è vero che la Soprintendenza in sede di controllo sul nulla-osta paesaggistico può operare un sindacato relativamente ad ogni profilo di illegittimità, compreso l’eccesso di potere, è anche vero che essa non può però sostituire in tale sede le proprie valutazioni a quelle motivatamente espresse dal Comune.
Un sindacato sostitutivo invero potrebbe risultare ammissibile laddove il nulla osta paesaggistico risulti adottato in carenza di istruttoria e motivazione, mentre laddove lo stesso appaia sorretto da ampia istruttoria e motivazione la Soprintendenza non può sostituire le proprie valutazione di merito a quelle espresse con il rilascio del nulla osta paesaggistico (ex multis Consiglio di Stato, Sez. VI - sentenza 09.03.2011 n. 1483, secondo cui “nell’emettere un nulla osta paesaggistico, l’Autorità regionale o l’ente sub-delegato deve motivare adeguatamente in ordine alla compatibilità dell’opera assentita con il vincolo paesaggistico, sussistendo, in caso contrario, illegittimità per carenza di motivazione o di istruttoria; per cui l’autorità statale, se ravvisa un tale vizio nell’atto oggetto del suo scrutinio, nel proprio provvedimento, perché sia a sua volta immune da vizi di legittimità, dovrà motivare sulla non compatibilità dell’intervento edilizio programmato rispetto ai valori paesaggistici compendiati nel vincolo"; Consiglio di Stato, Sez. VI - sentenza 26.07.2010 n. 4861, secondo cui “nel caso in cui, in sede di controllo sul nulla-osta paesaggistico, l’autorità statale ravvisi una carenza motivazionale o istruttoria, costituente vizio di legittimità, nell’atto oggetto del suo scrutinio, la stessa è chiamata ad evidenziare tali vizi con motivazione che deve necessariamente impingere –per risultare a sua volta immune da vizi di legittimità– nella valutazione della non compatibilità dell’intervento edilizio programmato rispetto ai valori paesaggistici compendiati nel vincolo”, che ritiene per contro “illegittimo l’annullamento in sede statale del nulla-osta paesaggistico rilasciato in sede comunale, ove da un lato il nulla-osta stesso sia supportato da idonea motivazione che tiene conto degli elementi gli elementi di pregio paesistico fissati dal d.m. con il quale il territorio comunale è stato dichiarato di notevole interesse pubblico ai sensi della l. n. 1497/1939 e risulti conforme anche sotto il profilo urbanistico e, dall’altro, l’annullamento stesso si basi su di una inammissibile valutazione compiuta dalla Soprintendenza in ordine alla compatibilità dell’opera con l’assetto paesistico-ambientale dei luoghi tutelati dal vincolo").
L'Amministrazione statale deve, quindi, verificare dall'esterno la coerenza, la logicità e la completezza istruttoria dell'iter procedimentale seguito dall'Amministrazione emanante per la valutazione compatibilità, nonché che tale valutazione non sia manifestamente illogica o irrazionale, non sia basata su errata ricostruzione dei fatti, sia sorretta da motivazione sufficiente, congrua, razionale e non contraddittoria ed, in genere, che siano osservate le regole che sovrintendono all'esercizio della funzione tecnico-discrezionale e le norme che disciplinano la funzione stessa, ma non può sostituire i suoi apprezzamenti sulla compatibilità ambientale a quelli espressi dall'Ente locale (TAR Calabria Catanzaro, sez. I, 26.11.2009, n. 1315).
---------------
Inoltre, il gravato provvedimento della Soprintendenza non ha tenuto conto della circostanza attinente alla funzionalità dell’opera alla tutela delle esigenze del portatore di handicap ed, in particolare dell’art. 4, comma 4, e 5, della legge n. 13/1989, ai sensi del quale l’autorizzazione per eseguire interventi su immobili vincolati può essere negata solo in presenza di un grave pregiudizio del bene tutelato di cui deve essere data adeguata motivazione, con la specificazione della natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l’opera si colloca.
Ora, secondo quanto espresso in giurisprudenza, il legislatore, nel bilanciamento degli interessi in gioco, inerenti da una parte alla tutela del patrimonio storico, artistico e paesistico-ambientale e, dall'altra, alla salvaguardia dei diritti alla salute ed al normale svolgimento della vita di relazione e socializzazione dei soggetti in minorate condizioni fisiche -espressamente tutelati dagli artt. 3, II comma, e 32 della Costituzione- ha inteso dare prevalenza ai menzionati diritti della persona relegando il diniego ai soli casi di accertato e motivato "serio pregiudizio" del bene vincolato (TAR Sicilia Palermo, sez. I, 04.02.2011, n. 218; TAR Lazio Roma, Sez. II-quater, 19.01.2010, n. 495; TAR Lazio, sez. II, 15.02.2002, n. 1061; TAR Lazio, Sez. II, 13.05.2000, n. 3974).
Ciò non vuol dire che dalla normativa in esame possa desumersi la vigenza di un principio di superabilità e derogabilità assoluta e automatica dei vincoli posti per finalità di tutela storico-culturale o paesistico-ambientale (TAR Sicilia Palermo, sez. I, 04.02.2011, n. 218; TAR Lazio Roma, Sez. II-quater, 19.01.2010, n. 495; TAR Umbria, 17.01.2000, n. 17), bensì che il diniego alla realizzazione di opere preordinate al superamento delle barriere architettoniche deve necessariamente essere legato ad un serio pregiudizio all'interesse paesistico-ambientale debitamente motivato, nell’ottica di una necessaria comparazione di interessi, “con la specificazione della natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l’opera si colloca”.
Il legislatore, difatti, ha tutelato il portatore di handicap rafforzando le garanzie procedimentali e sostanziali rispetto al suo interesse ad ottenere l’autorizzazione, sia attraverso una specificazione in senso restrittivo dei presupposti del provvedimento di diniego, sia dettando il contenuto obbligatorio della relativa motivazione.
Nel caso di specie la Soprintendenza non ha tenuto conto delle finalità dell’intervento legate alle esigenze del portatore di handicap, non evidenziando alcuna ragione nemmeno potenziale di grave pregiudizio al valore tutelato ed attestandosi, invece, per tale aspetto, su una motivazione generica riguardo alle esigenze di rispetto del vincolo e di protezione del bene paesistico
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 14.02.2012 n. 792 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPRIVACY/ La salute non si mette in comune. L'ente non può pubblicare i dati sanitari del lavoratore. La Cassazione: per il risarcimento è sufficiente aver creato imbarazzo e disagio.
Il comune non può pubblicare, senza un valido motivo di interesse pubblico, lo stato di salute del dipendente. Se lo fa deve risarcire il danno, che potrà essere accertato in base alla sola esistenza del patema d'animo del lavoratore, provocato dalla arbitraria divulgazione dei suoi dati supersensibili.
Lo ha stabilito la sentenza 13.02.2012 n. 2034 emessa dalla Corte di Cassazione, con la quale è stata confermata la pronuncia del giudice di primo grado che ha condannato un comune sardo al risarcimento di ben 16.000 euro nei confronti di un suo dipendente, per violazione del codice della privacy.
Nel caso di specie, il lavoratore ha chiesto all'ente di appartenenza che venisse riconosciuto il legame tra la malattia cui andava affetto e il lavoro prestato per lo stesso ente. Quest'ultimo ha rigettato la domanda e, successivamente, ha pubblicato un provvedimento nel quale sono stati inseriti tutti i particolari relativi alla malattia del lavoratore, comprese diagnosi, cause, natura ed effetti della stessa.
Il lavoratore ha, quindi, deciso di rivolgersi al giudice per ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale patito a seguito della divulgazione delle informazioni attinenti alla sua intimità.
La Corte di primo grado, oltre a stabilire l'illegittimità del provvedimento, ha condannato l'amministrazione a risarcire il danno patito dal dipendente. Secondo il giudice cagliaritano, infatti, con la pubblicazione di quei dati il comune avrebbe violato, oltre che l'articolo 2 della Costituzione, i limiti di pertinenza e non eccedenza del trattamento dei dati personali previsti all'articolo 11 del decreto legislativo 193/2006.
L'ente non ha condiviso il verdetto del giudice cagliaritano e ha deciso portare la lite in Cassazione. Secondo lo stesso, infatti, il danno patito dal dipendente non sarebbe stato concretamente provato.
La Corte romana, con la sentenza in rassegna, chiarisce che se è vero che la semplice pubblicazione illegittima non comporta sempre un danno, è altrettanto vero che per ottenere un risarcimento basta che il giudice accerti un patema d'animo nel lavoratore, provocato della divulgazione dei suoi dati riservati.
Ciò perché il provvedimento che rivela, senza un valido motivo, i richiamati dati provoca nel dipendente non solo un stato di disagio, imbarazzo o preoccupazione, ma anche un'incertezza sul numero di persone che verranno a conoscenza dei fatti.
In tal senso, il dipendente si troverebbe nell'incapacità di relazionarsi con le persone che incontra, perché non sarebbe in grado di capire se i suoi interlocutori sono o meno a conoscenza del suo stato di salute.
Per tali motivi la Corte romana ha scelto di confermare quanto già stabilito dal giudice di primo grado, confermando la condanna dell'ente
L'effetto della sentenza è quello di rendere più facile la prova del danno per il lavoratore nel caso in cui il datore si renda colpevole di violazioni del codice della privacy. La decisione, peraltro, può essere estesa anche ai datori di lavoro privati, essendo anche questi ultimi tenuti, al pari dei primi, a osservare le norme che tutelano la riservatezza dei lavoratori (articolo ItaliaOggi del 09.03.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTI: Contratti pubblici - Gara - Regolarità contributiva - Requisito sostanziale di partecipazione alla gara - Dichiarazione di non aver commesso violazioni gravi né definitive - Acquisizione di un DURC negativo - Esclusione dalla gara - Legittimità - Richiesta di chiarimenti - Mancanza - È irrilevante.
In tema di gara per l'affidamento di un appalto pubblico, la regolarità contributiva costituisce requisito sostanziale di partecipazione alla gara, avendo il legislatore ritenuto tale regolarità indice dell'affidabilità, diligenza e serietà dell'impresa, e della sua correttezza nei rapporti con le maestranze.
Nel caso in cui, nell'ambito di una gara per l'affidamento di un appalto pubblico, un'impresa abbia dichiarato di non aver commesso violazioni gravi né definitive e la Stazione appaltante non solo abbia acquisito un DURC negativo, ma abbia puntualmente verificato l'eventuale sussistenza di circostanze giustificanti la violazione, è legittima l'esclusione di detta impresa anche in assenza di richiesta di chiarimenti sul punto da parte della P.A. (massima tratta da www.inps.it - TAR Abruzzo-L’Aquila, sentenza 30.10.2008 n. 1181 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO ALL'08.03.2012

ã

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI  (Agenzia delle Entrate, febbraio 2012).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: A. Massari, Alla ricerca del sacro… Durc (link a www.leggioggi.it).

APPALTI: D. S. Alastra, L'obbligo di motivazione del diniego di accesso agli atti sui quali si fonda l'informativa prefettizia antimafia. Nota a TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 24.08.2011 n. 1146 (link a www.filodiritto.com).

ENTI LOCALI: T. Grandelli e M. Zamberlan, Il consolidamento delle spese di personale ai fini del rispetto del limite del 50% dell’incidenza sulle spese correnti (link a www.ipsoa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: S. Tarullo, Il meccanismo di sostituzione interna per la conclusione dei procedimenti amministrativi introdotto dal D.L. semplificazione n. 5/2012. - Notazioni a prima lettura (link a www.giustizia-amministrativa.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

LAVORI PUBBLICI: G.U. 06.03.2012 n. 55, "Procedura e schemi-tipo per la redazione e la pubblicazione del programma triennale, dei suoi aggiornamenti annuali e dell’elenco annuale dei lavori pubblici e per la redazione e la pubblicazione del programma annuale per l’acquisizione di beni e servizi ai sensi dell’articolo 128 del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 e successive modificazioni e degli articoli 13 e 271 del decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207" (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, decreto 11.11.2011).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: Decreto legislativo n. 119 del 18.07.2011. “Attuazione dell’articolo 23 della legge 04.11.2010, n. 183, recante delega al Governo per il riordino della normativa in materia di congedi, aspettative e permessi”. Modifica alla disciplina in materia di congedi e permessi per l’assistenza a disabili in situazione di gravità (circolare 06.03.2012 n. 32 - link a www.inps.it).

NEWS

VARIAlla patente di guida non si applica la scadenza al compleanno.  Circolare del ministero dei trasporti.
La patente di guida resta disciplinata dal codice stradale e pertanto a questo documento non si applica l'allineamento della scadenza al compleanno dell'interessato introdotto dal dl 5/2012.
Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con la circolare 05.03.2012 n. 6193 di prot..
Il decreto legge n. 5/2012 ha disposto che i documenti di identità e di riconoscimento di cui all'art. 1, comma 1, lett. c), d) ed e), del decreto del dpr n. 445/2000 sono rilasciati o rinnovati con validità prolungata fino alla data del compleanno del titolare immediatamente successiva alla loro scadenza naturale. In pratica si tratta dei documenti rilasciati o rinnovati dopo il 10.02.2012, data di entrata in vigore del decreto.
Circa l'applicabilità della riforma anche alle patenti di guida il tenore letterale dell'art. 7 del dl n. 5/2012 in realtà lasciava spazio a forti dubbi e perplessità. È pur vero che, secondo la definizione che viene data dal dpr 445/2000 è documento di riconoscimento «ogni documento munito di fotografia del titolare e rilasciato, su supporto cartaceo, magnetico o informatico, da una pubblica amministrazione italiana o di altri stati, che consenta l'identificazione personale del titolare», compresa la patente, come peraltro evidenziato dal Ministero dell'interno con il parere del 13.12.2004. Però, l'eventuale allungamento fino alla data del compleanno della scadenza di validità farebbe sorgere importanti criticità, in considerazione delle norme speciali nazionali e delle disposizioni comunitarie attualmente vigenti in materia di rilascio e conferma di validità delle licenze di guida.
Questi dubbi (si veda ItaliaOggi del 21/02/2012) sono stati confermati dal Ministero dei trasporti con la circolare di lunedì scorso che ha escluso l'applicazione dell'art. 7 del dl 5/2012 alle patenti di guida. L'art. 126 del codice della strada fissa in modo preciso la durata di validità delle varie categorie di patente, prevedendo sanzioni pecuniarie e accessorie per chi circola con il documento di guida scaduto (articolo ItaliaOggi del 07.03.2012).

CONDOMINIO: Parcheggio a trasferimento libero. Box cedibile anche a prescindere dalla vendita dell'immobile. Il dl semplificazioni liberalizza la circolazione delle aree adibite a posto auto pertinenziale.
Liberalizzazione ad ampio raggio anche per la circolazione delle aree adibite a parcheggio pertinenziale.
Il dl n. 5/2012 (decreto semplificazioni), modificando sul punto la cosiddetta legge Tognoli, ha infatti previsto che il proprietario di un immobile dotato di parcheggio di pertinenza realizzato nel sottosuolo o al piano terra dell'edificio condominiale con le maggioranze agevolate di cui alla predetta legge del 1989, possa vendere quest'ultimo anche a prescindere dal trasferimento della proprietà dell'appartamento, purché il nuovo acquirente abiti nel medesimo comune in cui è ubicato l'immobile.
Nel tentativo di risolvere il problema dei parcheggi degli autoveicoli che, da svariati anni, soffocano i centri urbani e gradualmente hanno cominciato a occupare anche le zone semicentrali e periferiche, il legislatore è intervenuto a più riprese con svariate disposizioni inserite in numerosi testi normativi emanati nell'arco degli anni. In particolare, bisogna ricordare che alla fine degli anni 80, per cercare di porre rimedio alla situazione sopra descritta, è stata introdotta una nuova normativa (legge 24.03.1989 n. 122, cosiddetta legge Tognoli) finalizzata all'incentivazione della costruzione di parcheggi nelle aree sottostanti o pertinenziali agli edifici condominiali o nel piano terra degli stessi.
Ebbene, il recente decreto legge sulle semplificazioni e lo sviluppo, nel tentativo di allentare i rimanenti lacci e lacciuoli previsti dalla legge in materia di compravendita delle aree destinate a parcheggio degli autoveicoli, ha innovato profondamente la peculiare disciplina prevista dalla vecchia legge Tognoli, che tanto aveva affaticato la giurisprudenza e la dottrina.
Legge 122/1989 e condominio: le norme fondamentali. La legge Tognoli ha previsto che i condomini possano realizzare nel sottosuolo o nei locali posti al piano terreno del condominio, oppure nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al caseggiato, parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari (cioè a uso esclusivo dei residenti), anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti.
È importante sottolineare, però, che restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla legislazione in materia paesaggistica e ambientale (e i poteri attribuiti dalla medesima legislazione alle regioni e ai ministeri dell'ambiente e per i beni culturali). Naturalmente, poi, la realizzazione di questi spazi è subordinata alla richiesta dei necessari permessi edilizi. In ogni caso la realizzazione del parcheggio è possibile solo con una deliberazione approvata dall'assemblea condominiale, in prima o in seconda convocazione, con il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio.
Le condizioni per la realizzazione dei parcheggi. La realizzazione del parcheggio non può avvenire se è in contrasto con la stabilità o il decoro del fabbricato o se comporta la sottrazione di parti comuni all'uso e al godimento di un solo condomino.
In secondo luogo, le opere in oggetto costituiscono innovazioni gravose, comportando oneri economici particolarmente rilevanti: di conseguenza i dissenzienti, così come prevede la legge, potranno essere esonerati da qualsiasi contribuzione alle spese ma potranno decidere in qualsiasi momento di aderire al progetto di parcheggio, pagando le spese di esecuzione e manutenzione dell'opera. In altre parole è possibile realizzare box sotterranei, previa delibera condominiale, pur se in numero inferiore a quello della totalità dei condomini, non potendo i condomini dissenzienti impedire tale realizzazione voluta invece dalla maggioranza dei partecipanti al condomini
Quindi è possibile che il numero delle autorimesse sotterranee realizzate sia inferiore al numero degli appartamenti. Tuttavia la sottrazione di una parte del bene comune è consentita solo se è assicurata in futuro anche ai condomini dissenzienti il pari uso del sottosuolo avvalendosi della possibilità di realizzare nell'area di detto bene comune rimasta libera un parcheggio pertinenziale dell'unità immobiliare di proprietà esclusiva: tutti i condomini, nessuno escluso, devono infatti avere la possibilità di godimento del sottosuolo secondo la sua destinazione (prevista normativamente) ad alloggiare autorimesse. Solo se tale possibilità è garantita la delibera adottata a maggioranza può essere ritenuta valida, in quanto non in contrasto con la legge.
Il vincolo a pertinenza degli appartamenti: le novità del decreto legge 09.02.2012 n. 5. La legge Tognoli precisava che i parcheggi con le caratteristiche di cui sopra non potevano essere ceduti separatamente dall'unità immobiliare alla quale erano legati da vincolo pertinenziale e che i relativi atti di cessione erano nulli.
L'intento del legislatore era stato evidentemente quello di evitare speculazioni da parte di chi aveva usufruito di speciali deroghe e agevolazioni per la realizzazione degli spazi in oggetto, prevedendo espressamente che i parcheggi in tal modo realizzati fossero sottoposti sia a circolazione che a utilizzazione vincolata. In buona sostanza, unicamente per tali spazi, era stato previsto un vincolo di destinazione di ordine pubblicistico, cioè il divieto di cessione del bene immobile separatamente dall'appartamento del quale lo stesso era da considerarsi pertinenziale.
Tuttavia il recente decreto legge cosiddetto semplificazione e sviluppo (dl n. 5 del 09.02.2012) all'art. 10, modificando sul punto la legge Tognoli, ha stabilito che la proprietà dei parcheggi di pertinenza delle abitazioni possa essere trasferita separatamente dall'unità immobiliare di riferimento, a condizione che ciò avvenga solo con contestuale destinazione del parcheggio trasferito a pertinenza di altra unità immobiliare sita nello stesso comune.
Il nuovo testo normativo prevede però ancora un'eccezione: esso stabilisce infatti che la cessione dell'area adibita a ricovero delle auto non possa avvenire, pena la nullità dell'atto di trasferimento, ove abbia a oggetto parcheggi realizzati su previsione dei comuni nell'ambito del programma urbano dei parcheggi da destinare a pertinenza di immobili privati, insistenti su aree comunali o nel sottosuolo delle medesime.
---------------
Tutti i condomini hanno diritto d'uso.
I parcheggi creati sulla base della cosiddetta legge ponte, in quanto di obbligatoria edificazione in quantità proporzionale alla cubatura totale del condominio, hanno un vincolo di carattere pubblicistico, poiché tutti i condomini godono di un diritto reale d'uso sui predetti spazi, che non può essere frustrato dalla volontà contraria del costruttore.
Questa la posizione espressa ormai da tempo dalla Suprema corte in relazione ai parcheggi edificati in base alla legge n. 765/1967 (che ha modificato l'art. 41-sexies della legge urbanistica n. 1150/1942), ribadita da ultimo nella recente sentenza n. 1214, depositata in cancelleria lo scorso 27.01.2012.
Si tratta di una tipologia di parcheggi che l'elaborazione giurisprudenziale ha ritenuto diversa da quella ricadente nella cosiddetta legge Tognoli (e della quale si occupa il recente intervento di liberalizzazione di cui al dl n. 5/2012). Infatti, come chiarito in maniera esemplare dalla stessa Cassazione (sentenza n. 21003 dell'01.08.2008), mentre per quelli che ricadono nella disciplina di cui alla legge n. 122/1989 (e ora liberalizzati a partire dal 10 febbraio scorso) non era ammissibile una commercializzazione disgiunta dall'appartamento al quale gli stessi si riferivano, per quelli previsti dalla cosiddetta legge ponte la libera circolazione era già prevista dalla legge, fermo restando il diritto reale d'uso dell'area in capo al proprietario dell'appartamento.
Nel caso deciso dalla seconda sezione civile della Suprema corte con la predetta sentenza n. 1214/2012 gli acquirenti di un immobile di nuova costruzione avevano citato in giudizio l'impresa costruttrice che, nell'edificare il palazzo, aveva trattenuto per sé la proprietà delle aree a parcheggio costruite, impedendo agli acquirenti di farne uso. Questi ultimi avevano quindi al tribunale di accertare il loro diritto di proprietà in relazione alle predette aree o, quantomeno, il loro diritto reale d'uso sulle stesse.
In primo grado i giudici avevano quindi convalidato il sequestro giudiziario concesso in corso di causa, riconoscendo agli acquirenti, previo pagamento del prezzo, la proprietà di un posto auto individuato grazie a una consulenza tecnica d'ufficio (che aveva anche provveduto a valutare il relativo valore di mercato).
Nel giudizio di appello, promosso dall'impresa costruttrice, la Corte territoriale aveva invece ritenuto che non dovesse essere accolta la domanda degli acquirenti volta al riconoscimento di un proprio diritto di proprietà sugli spazi adibiti a parcheggio, trattandosi in realtà di un diritto reale d'uso (relativo comunque alla stessa area ceduta in proprietà a seguito della sentenza di primo grado).
La Suprema corte, nel confermare sul punto la decisione di appello, ha ricordato i numerosi precedenti di legittimità (da ultimo la sentenza n. 730 del 16.01.2008) che hanno chiarito come ai proprietari degli appartamenti degli edifici condominiali nei quali siano stati previste aree di parcheggio spetti il diritto reale di uso delle stesse, a prescindere dalla proprietà di esse, che può anche rimanere in capo all'impresa costruttrice (articolo ItaliaOggi Sette del 05.03.2012).

PUBBLICO IMPIEGOPersonale. «Pasticcio» sul maltempo. Assenze per neve, Governo in panne sui tagli in busta paga.
LE PROSPETTIVE/ Difficile retribuire il dipendente in assenza della prestazione Probabile l'utilizzo di ferie, permessi o recuperi.

Il maltempo delle scorse settimane ha creato difficoltà anche agli uffici personale della Pa. Il problema consiste nel trovare una motivazione giuridica che possa consentire il pagamento dei giorni di assenza causa neve, e la soluzione non sembra agevole. In questi giorni, molte amministrazioni si stanno rivolgendo alla Funzione pubblica per avere chiarimenti in merito.
La questione è stata oggetto di analisi da parte degli interpreti istituzionali e della giurisprudenza. In diverse occasioni, l'Aran ha affermato che l'assenza del dipendente, o la chiusura degli uffici da parte datoriale in conseguenza di eventi atmosferici e calamità naturali, rientra nelle ipotesi di forza maggiore sopravvenuta, non imputabile al datore di lavoro né al lavoratore. Ergo, se il dipendente non ha potuto lavorare, la parte datoriale, non avendo beneficiato di alcuna prestazione, non può corrispondere la retribuzione. In tal senso si era espressa anche la Cassazione lavoro, con la sentenza 481/1984. In caso contrario, secondo l'Aran, si verrebbero a determinare oneri impropri e ingiustificati a carico del bilancio degli enti che, letti dalla Corte dei conti, si trasformerebbero in danno all'erario.
Volendo in ogni caso evitare la decurtazione della retribuzione, è necessario individuare un istituto legale o contrattuale che possa giustificare l'assenza e, al contempo, ne preveda la retribuzione. Se nel panorama legislativo non si rinvengono norme di legge speciali per la fattispecie, in ambito contrattuale occorre analizzare comparto per comparto quali soluzioni possono essere trovate. A esempio, per i ministeriali, si prevede la possibilità di utilizzare i permessi retribuiti per motivi familiari o personali in caso di impossibilità oggettiva al raggiungimento della sede di servizio anche nell'ipotesi di gravi calamità naturali. Al contrario, per quanto riguarda gli enti locali, nulla è previsto nel contratto e quindi si dovrà comunque ricorrere ai permessi, alle ferie o al recupero.
La buona volontà della Funzione pubblica si scontra, oltre che con un consolidato orientamento interpretativo, anche con il costo che questa operazione potrebbe determinare per le casse dello Stato. Per questo, sarà difficile che l'Economia supporti una interpretazione estensiva a favore dei dipendenti pubblici. Sarebbe inoltre complicato spiegare perché i dipendenti pubblici che non hanno lavorato potranno beneficiare della retribuzione quando i colleghi del settore privato, a casa per neve ed ai quali si applica lo stesso quadro normativo, non verrebbero pagati. Allo stesso tempo, ai dipendenti pubblici che, proprio a causa delle condizioni atmosferiche avverse, hanno dovuto subire turni di lavoro massacranti, non potrà che essere riconosciuto il trattamento economico previsto dal contratto, che si concretizza in pochi euro in più (articolo Il Sole 24 Ore del 05.03.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTI: Contratti pubblici. Sostituzione del soggetto inadempiente in base al Durc.
L'ente salda i contributi pregressi dell'appaltatore. La Pa gira a Inps e Inail i compensi dell'impresa.
Le amministrazioni appaltanti devono operare come sostituti contributivi anche quando il corrispettivo dovuto all'appaltatore copre solo parzialmente i debiti che lo stesso ha nei confronti degli enti previdenziali.

Il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali ha definito con la circolare 16.02.2012 n. 3 gli aspetti applicativi della procedura prevista dall'articolo 4 del regolamento attuativo del codice dei contratti pubblici. La disposizione del Dpr 207/2010 prevede infatti che le amministrazioni aggiudicatrici, quando ottengono un Durc che segnali un'inadempienza contributiva relativa a uno o più soggetti impiegati nell'esecuzione del contratto, devono trattenere dal certificato di pagamento l'importo corrispondente all'inadempienza e, successivamente, pagare quanto dovuto per le inadempienze accertate direttamente agli enti previdenziali e assicurativi, compresa la Cassa edile. La norma, in sostanza, prevede un particolare meccanismo attraverso il quale, quando il Durc evidenzia irregolarità nei versamenti dovuti agli enti previdenziali, le stazioni appaltanti si sostituiscono al debitore principale, versando –in tutto o in parte– le somme dovute in forza del contratto di appalto direttamente agli stessi enti creditori.
Il ministero del Lavoro chiarisce anzitutto che sotto il profilo operativo la trattenuta, da parte dell'amministrazione aggiudicatrice, delle somme dovute all'appaltatore va effettuata successivamente alle ritenute indicate dal comma 3 dello stesso articolo 4, in base al quale sull'importo netto progressivo delle prestazioni si opera una ritenuta dello 0,50% e il complesso di tali ritenute può essere svincolato soltanto in sede di liquidazione finale. Quindi la stazione appaltante prima procede alla ritenuta dello 0,50% e poi, con la somma restante, paga gli eventuali debiti previdenziali dell'appaltatore. L'intervento sostitutivo può operare anche quando lo stesso debito può colmare solo in parte le inadempienze dell'appaltatore evidenziate nel Durc.
Le somme finalizzate a soddisfare i crediti devono essere ripartite tra gli istituti e le Casse edili creditori in proporzione dei crediti di ciascun ente previdenziale evidenziato nel documento di regolarità contributiva. Per consentire il coordinamento di più possibili interventi sostitutivi da parte di amministrazioni che abbiano contratti di appalto con lo stesso operatore economico irregolare sotto il profilo contributivo, il ministero del Lavoro sollecita le stazioni appaltanti a preavvisare gli enti previdenziali prima di procedere ai versamenti. Sempre a garanzia dell'effettività delle somme dovute, è importante che le amministrazioni comunichino tempestivamente agli enti previdenziali i pagamenti effettuati.
In relazione ai debiti contributivi dei subappaltatori, a fronte del principio solidaristico che coinvolge sia gli appaltatori sia le amministrazioni appaltanti, queste ultime devono operare con l'intervento sostitutivo solo per le somme residue rimaste dopo l'analogo intervento dell'appaltatore. In tal caso, inoltre, quanto corrisposto dall'amministrazione non può eccedere il valore del debito che l'appaltatore ha nei confronti del subappaltatore alla data di emissione del Durc irregolare.
La circolare 3/2012 ha inoltre chiarito il rapporto tra i versamenti connessi all'intervento dell'amministrazione come sostituto previdenziale e quelli da realizzare per coprire debiti verso l'erario rilevabili presso Equitalia in caso di pagamenti superiori a 10.000 euro.
Il ministero del Lavoro ha precisato che l'attivazione dell'intervento sostitutivo anche in tali situazioni impedisce il pagamento dell'appaltatore, poiché le somme spettanti originariamente a quest'ultimo sono versate agli enti previdenziali, così salvaguardando il principio contenuto nell'articolo 48-bis del Dpr 602/1973.
Peraltro, solo l'applicazione prioritaria del meccanismo previsto dall'articolo 4 del regolamento attuativo del codice dei contratti consente alle imprese, in prospettiva, di ottenere un Durc regolare e, pertanto, di continuare a operare sul mercato, salvaguardando anche i crediti dell'amministrazione fiscale (che potrebbero, viceversa, essere compromessi se si volesse soddisfarli primariamente, lasciando inalterata l'irregolarità del Durc e impedendo all'operatore economico di partecipare agli appalti) (articolo Il Sole 24 Ore del 05.03.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATANell'attività istruttoria diretta al rilascio del titolo edilizio il Comune non deve appurare l'eventuale esistenza di servitù o di altri vincoli reali che limitano l'ampiezza del titolo di proprietà.
Nella sentenza in esame ribadisce il Collegio che la giurisprudenza amministrativa (Cons. di Stato, n. 3525/2000) ha riconosciuto che "l'esecuzione di opere di trasformazione edilizia...è sottoposta a una disciplina complessa, che riguarda, rispettivamente, la definizione degli assetti della proprietà immobiliare e il controllo pubblicistico sulla conformità alle regole e ai piani di derivazione pubblicistica. Gli ambiti delle due discipline, finalizzate alla tutela di interessi di consistenza disomogenea, non sono pienamente sovrapponibili. È quindi possibile che un intervento edilizio, astrattamente conforme alla prescrizioni urbanistiche, si ponga in contrasto con la normativa di derivazione civilistica, costituendo la violazione di diritti reali di godimento o di altre facoltà dei soggetti interessati. Tuttavia, la necessaria distinzione tra gli aspetti civilistici e quelli pubblicistici dell'attività edificatoria non impedisce di rilevare la presenza di significativi punti di contatto tra i due diversi profili. Da una parte, la normativa edilizia di carattere regolamentare è idonea a fondare pretese sostanziali nei rapporti interprivati, che assumono la consistenza e il grado di protezione del diritto soggettivo. Dall'altra parte, alcuni elementi di origine civilistica assumono una rilevanza qualificata nel procedimento di rilascio della concessione edilizia".
In questo senso il Comune, nel verificare l'esistenza in capo al richiedente il permesso edilizio di un idoneo titolo di godimento sull'immobile, non si assume il compito di risolvere eventuali conflitti di interesse tra le parti private in ordine all'assetto proprietario, ma accerta soltanto il requisito della legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso. È stato precisato che "in termini generali la funzione autorizzatoria dell'amministrazione richiede un livello minimo di istruttoria che comprende ...l'acquisizione di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi propone l'istanza e il bene giuridico oggetto dell'autorizzazione", senza che l'esame del titolo di godimento operato dalla p.a. costituisca un'illegittima intrusione in ambito privatistico, ma soltanto per assicurare un ordinato svolgimento delle attività sottoposte al controllo autorizzatorio al fine di non alimentare il contenzioso tra le parti, e ciò anche nell'ambito del procedimento di rilascio del permesso di costruire.
Circa l'ampiezza dei poteri istruttori è stato precisato che non si tratta di obbligare la p.a. a complessi e laboriosi accertamenti anche per non aggravare il procedimento, e non può porsi a carico della p.a. l'onere probatorio di appurare l'eventuale esistenza di servitù o di altri vincoli reali che limitano l'ampiezza del titolo di proprietà (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.03.2012 n. 1270
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl sequestro penale del manufatto abusivo non impedisce l'esecuzione dell'ingiunzione comunale di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi.
Il sequestro penale del manufatto abusivo non impedisce l'esecuzione dell'ingiunzione comunale di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi. In tema di tutela penale del territorio, l'esistenza di un sequestro penale sul manufatto abusivo oggetto di ingiunzione comunale di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi non determina la sospensione del termine di novanta giorni, il cui decorso comporta, in caso di inottemperanza, l'acquisizione gratuita di diritto al patrimonio del comune (art. 31 d.P.R. 06.06.2001 n. 380). (In motivazione la Corte, nell'enunciare il predetto principio, ha precisato che il sequestro non rientra tra gli "impedimenti assoluti" che non consentono di dare esecuzione all'ingiunzione, stante il disposto dell'art. 85 disp. att. c.p.p.) (Cassazione penale, sez. III, 14.01.2009 n. 9186) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.03.2012 n. 1260 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIVerbalizzazione delle operazioni di gara: è sufficiente la redazione di un unico verbale anche se relativo a più sedute svolte in diverse giornate dalla Commissione.
Il Consiglio di Stato nella sentenza in esame aderisce all'indirizzo giurisprudenziale a tenore del quale anche se, in mancanza di specifiche indicazioni della normativa di settore e della disciplina di gara, deve escludersi la necessità di redigere contestuali e distinti verbali per ciascuna seduta della commissione di gara, è necessario comunque che nell'unico verbale di tutte o di parte delle operazioni compiute, ancorché relativo a più giornate, avvenga una corretta rappresentazione documentale dello svolgimento della procedura (Cons. St., sez. V, 29.04.2009 n. 2748) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 05.03.2012 n. 1251
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAbusi edilizi: differenze tra la domanda di accertamento di conformità ex art. 36 d.P.R. n. 380/2001 e la domanda di condono edilizio ai fini della sospensione dei procedimenti sanzionatori.
Il Collegio nella sentenza in esame precisa che alla presentazione della domanda di accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 non possono trarsi le medesime conseguenze della domanda di condono poiché “…i presupposti dei due procedimenti di sanatoria –quello di condono edilizio e quello di accertamento di conformità urbanistica- sono non solo diversi ma anche antitetici, atteso che l’uno (condono edilizio) concerne il perdono ex lege per la realizzazione sine titulo abilitativo di un manufatto in contrasto con le prescrizioni urbanistiche (violazione sostanziale) l’altro (sanatoria ex art. 13 legge 47/1985 oggi art. 36 DPR n. 380/2001) l’accertamento ex post della conformità dell’intervento edilizio realizzato senza preventivo titolo abilitativo agli strumenti urbanistici (violazione formale).” (TAR Lazio, sezione I-quater, 11.01.2011, n. 124 e 22.12.2010, n. 38207 e la sentenza del TAR Campania Napoli, sezione VI, 03.09.2010, n. 17282 in quest’ultima citata).
Per tali osservazioni alla fattispecie dell’accertamento di conformità non può applicarsi la sospensione dei procedimenti sanzionatori prevista per i condoni a partire dall’art. 44 della legge n. 47 del 1985, come richiamato dalle successive disposizioni di cui all’art. 39 della legge n. 724 del 1994 e dell’art. 32 della legge n. 326 del 2003 (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 02.03.2012 n. 2165 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell'abuso commesso, mentre il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato dall'art. 33 comma 2, e 34 comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001) può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine (questa volta non indirizzato all'autore dell'abuso, ma agli uffici e relativi dipendenti dell'Amministrazione competenti e/o preposti in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o delle opere edili costruite in parziale difformità dallo stesso; pertanto, soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi legittima l'ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, così come previsto dagli artt. 33, comma 2, e 34, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001. Valutazione che deve essere effettuata mediante apposito accertamento da parte dell'Ufficio Tecnico Comunale, d'ufficio o su richiesta dell'interessato.
Secondo le argomentazioni della ricorrente il Comune prima di ingiungere la demolizione, avrebbe dovuto accertare che le opere realizzate a sostegno e manutenzione del tetto e dell’immobile stesso non potevano essere proprio rimosse e che, pertanto, erano suscettibili di sanzione pecuniaria ai sensi dell’art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Come osservato dal TAR, in altre analoghe circostanze, e condividendo peraltro la giurisprudenza degli altri Tribunali Amministrativi regionali: “L'ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell'abuso commesso, mentre il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato dall'art. 33 comma 2, e 34 comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001) può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine (questa volta non indirizzato all'autore dell'abuso, ma agli uffici e relativi dipendenti dell'Amministrazione competenti e/o preposti in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o delle opere edili costruite in parziale difformità dallo stesso; pertanto, soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi legittima l'ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, così come previsto dagli artt. 33, comma 2, e 34, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001. Valutazione che deve essere effettuata mediante apposito accertamento da parte dell'Ufficio Tecnico Comunale, d'ufficio o su richiesta dell'interessato.” (TAR Lazio, sezione I-quater, 28.12.2011, n. 10258 e TAR Campania, Napoli, 14.06.2010, n. 14156 ivi citata), con la conseguenza che trattandosi, nel caso in esame, della prima demolizione il procedimento è in una fase ancora prodromica rispetto alle successive valutazioni che il Comune potrà operare in ordine alla salvaguardia dell’immobile sotto il profilo statico ed alla eventuale e conseguente applicazione della sanzione pecuniaria (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 02.03.2012 n. 2165 
- link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZIProcedura negoziata senza bando di gara: il privato che ha precedentemente svolto presso l'amministrazione lo stesso servizio cui si riferisce la trattativa privata deve essere invitato a partecipare alla procedura.
Nel caso in esame un'impresa ha impugnato innanzi al Giudice amministrativo gli atti della procedura negoziata, senza bando di gara, per l’affidamento del servizio di gestione di micro-nidi aziendali indetta dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.
Il Collegio ha ritenuto la procedura viziata per mancato invito della ricorrente a partecipare alla gara nella sua qualità di gestore uscente del servizio, svolto in affidamento da ben due anni, in base al principio giurisprudenziale per cui “il privato che ha precedentemente svolto presso l'amministrazione lo stesso servizio cui si riferisce la trattativa privata, in relazione alla quale censura il mancato invito, si trova… in una posizione peculiare, che si differenzia dall'interesse semplice di cui sono normalmente titolari i privati di fronte alle analoghe scelte dell'amministrazione ed assume la natura e consistenza dell'interesse legittimo tutelabile dinanzi al giudice amministrativo” (vedi C. S., IV, 17.02.1997, n. 125; TAR Friuli Venezia Giulia, n. 535/1999; Tar Lazio, LT, n. 1580/2006).
La ricorrente quindi doveva essere invitata alla procedura e, comunque, l’eventuale scelta dell’Amministrazione di non interpellarla ai fini della presentazione di un’offerta in una gara senza bando avrebbe dovuto essere specificamente motivata (vedi CdS, VI, n. 4295/2006). Nella specie nessuna motivazione è stata resa dall’Amministrazione in ambito procedimentale (TAR Lazio-Roma, Sez. III, sentenza 01.03.2012 n. 2108 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIFalse dichiarazione rese nelle gare pubbliche: la sanzione dell'interdizione annuale decorre dalla data di annotazione nel casellario informatico.
Il “dies a quo” di interdizione annuale dalle pubbliche gare per chi abbia reso false dichiarazioni decorre dalla data di annotazione nel casellario informatico presso l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici e non dalla data di commissione dell’illecito di riferimento (rilascio falsa dichiarazione), come invece sostenuto dalla ricorrente (Cons. Stato, Sez. V, 05.08.2011, n. 4700 e 25.01.2011, n. 517) (TAR Lazio-Roma, Sez. III, sentenza 01.03.2012 n. 2106 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAnnullata l'aggiudicazione all'impresa che per errore ha inserito nella busta dell'offerta tecnica una dichiarazione che andava presentata nella busta dell'offerta economica.
Nel giudizio in esame viene censurata la sentenza di primo grado che ha statuito come l’inserimento della dichiarazione concernente i tempi di esecuzione dei lavori oggetto di appalto nella busta contenente l’offerta tecnica, in violazione puntuale prescrizione del bando di gara che, invece, ne aveva imposto la presentazione nell’ambito dell’offerta economica, ha irrimediabilmente pregiudicato le esigenze di segretezza che presidiano lo svolgimento della procedura e, conseguentemente, la parità di trattamento tra i concorrenti.
Il Consiglio di Stato ha rigettato l'appello affermando che costituisce principio consolidato, espresso anche da questa sezione (sent. 09/06/2009, n. 3575), quello per cui la separazione tra le fasi di valutazione dell’offerta tecnica e di quella economica, propria delle procedure di affidamento da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, è finalizzato ad evitare che la commissione di gara sia influenzata nella valutazione dell’offerta tecnica dalla conoscenza di elementi dell’offerta economica.
L’inevitabile perturbamento del processo valutativo che con ciò si determina impone necessariamente, a tutela dei principi di parità di trattamento e trasparenza, l’esclusione del concorrente dalla gara che abbia determinato tale sovrapposizione, anche in assenza di espresse comminatorie espulsive della legge di gara (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 01.03.2012 n. 1196 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIl sindacato del giudice sui criteri di valutazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa e' consentito unicamente in casi di sviamento e manifesta illogicità.
In base all'art. 83, comma 1, d.lgs. n. 163/2006, il criterio selettivo dell’offerta economicamente più vantaggiosa impone alla stazione appaltante di determinare nella legge di gara i criteri di valutazione dell’offerta “pertinenti alla natura, all’oggetto e alle caratteristiche del contratto”.
Ora, è noto che il sindacato giurisdizionale nei confronti di tale scelta, tipica espressione di discrezionalità tecnico-amministrativa, è consentito unicamente in casi di sviamento e manifesta illogicità (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 01.03.2012 n. 1195 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL'azione del Commissario ad acta è svincolata dagli ordinari canoni dell'azione amministrativa.
Il Commissario è un ausiliare del giudice (artt. 21 e 114, comma 4, lett. d), del codice del processo amministrativo), titolare di un potere che trova diretto fondamento nella pronuncia giurisdizionale da portare ad esecuzione. Ne deriva che detto organo è legittimato, anche al di fuori delle norme che governano l’azione ordinaria degli organi amministrativi sostituiti, ad adottare ogni misura conforme al giudicato che si appalesi in concreto idonea a garantire alla parte ricorrente il conseguimento effettivo del bene della vita di cui sia stato riconosciuto titolare nella sentenza da portare ad attuazione.
L’esigenza di svincolare l’azione del Commissario dal rispetto dei vincoli procedurali ordinari dell’azione amministrativa, anche con riguardo alla disciplina procedimentale che regola l’emissione dei mandati di pagamento, trova conferma decisiva nel principio costituzionale di pienezza ed effettività della tutela di cui al’art. 24 della Carta Fondamentale oltre che nei principi, in tema di equità del processo ed effettività della tutela, di cui agli artt. 6 e 13 della Convenzione CEDU.
La corretta attuazione di detti principi suggerisce, infatti, l’approdo ad una soluzione esegetica che consenta la piena attuazione del precetto giudiziario con il ricorso ad ogni determinazione idonea al concreto conseguimento dello scopo, anche in deroga ai canoni ordinari dell’azione amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 01.03.2012 n. 1194 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZIAffidamento dei servizi di igiene ambientale: va esclusa dalla gara l'impresa che nella domanda non ha indicato il responsabile tecnico.
Il Consiglio di Stato nella sentenza in esame ha richiamato il consolidato indirizzo giurisprudenziale che considera legittima l'esclusione dalla gara pubblica, indetta per l'affidamento dei servizi di igiene ambientale, dell'impresa che nella sua domanda non abbia indicato il nominativo del proprio responsabile tecnico né reso le prescritte dichiarazioni, trattandosi di figura che per le imprese che effettuano la gestione dei rifiuti è espressamente prevista dal d.m. 28.04.1998, il cui art. 10, comma 4, ne impone la nomina (che deve ricadere su soggetti aventi i prescritti requisiti di qualificazione professione, di ordine speciale e di ordine generale); in sostanza, il responsabile tecnico è elemento indispensabile per la qualificazione dell'impresa, deputato allo svolgimento dei compiti tecnico-organizzativi relativi anche all'esecuzione del servizio commesso da parte dell'impresa, di cui assume quindi, per definizione, la responsabilità sotto tali aspetti (C.d.S., V, 26.05.2010, n. 3364).
In altre parole, dunque: “1) nelle imprese che effettuano la gestione dei rifiuti è obbligatoria (ex art. 10, comma 4, del D.M. 28.04.1998) la figura del responsabile tecnico, il quale è elemento indispensabile per la qualifica dell’impresa, evidentemente deputato allo svolgimento dei compiti tecnico–organizzativi relativi anche all’esecuzione del servizio commesso da parte dell’impresa, di cui assume, per stessa definizione, la responsabilità sotto altri aspetti, non diversamente dal direttore tecnico previsto dall’art. 26 del D.P.R. 25.01.2000, n. 34, in materia di imprese di lavori pubblici (cui competono, notoriamente, gli adempimenti di carattere tecnico organizzativo necessari per l’esecuzione dei lavori);
2) non sono pertanto ravvisabili significative differenze tra il responsabile tecnico dell’impresa di gestione dei rifiuti ed il direttore tecnico, anche quest’ultimo potendo (ex art. 26 del D.P.R. 25.01.2000, n. 34) essere un soggetto esterno;
3) quando la norma (all’art. 38 del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 e quindi anche della lex specialis della gara) richiede che lo specifico requisito sia posseduto dal direttore tecnico ha riguardo, quanto alle imprese di servizi, alle figure tipiche di tale categoria, pur nominalmente diverse ma a quella sostanzialmente analoghe perché investite di compiti parimenti analoghi, rilevanti ai fini dell’esecuzione dell’appalto
“ (Sez. V, n. 1790 del 24.03.2011) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.02.012 n. 1154 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa mera partecipazione alla gara non e' sufficiente ad abilitare il partecipante all'impugnare della procedura selettiva.
Secondo il recente insegnamento della pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 4/2011, invero, la mera partecipazione di fatto ad una gara non è sufficiente per attribuire la legittimazione al ricorso, poiché la situazione legittimante deriva da una qualificazione di carattere normativo, che postula il positivo esito del sindacato sulla ritualità dell’ammissione del soggetto ricorrente alla procedura selettiva.
Pertanto la definitiva esclusione, oppure l’accertamento della illegittimità della partecipazione alla gara, impediscono di assegnare al concorrente la titolarità di una situazione sostanziale che lo abiliti ad impugnare la procedura selettiva. Ed il positivo riscontro della legittimazione al ricorso, sempre secondo le puntualizzazioni dell’Adunanza Plenaria, è necessario tanto per far valere un interesse, cd. finale, al conseguimento dell’appalto, quanto per perseguire un interesse meramente strumentale diretto alla caducazione dell’intera gara e alla sua riedizione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.02.2012 n. 1153 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIOfferta economicamente più vantaggiosa: attribuzione del punteggio mediante il metodo del confronto a coppie.
Come precisato dalla giurisprudenza, il confronto a coppie (altrimenti noto come decreto Karrer) prevede che ogni elemento qualitativo dell’offerto sia oggetto di valutazione attraverso la determinazione di coefficienti all’interno di una tabella triangolare, nella quale le offerte di ogni concorrente sono confrontate a due a due: per ogni coppia di offerte ogni commissario indica l’elemento preferito, attribuendo un punteggio di 1, che esprime parità; 2, che esprime la preferenza minima; 3, per l’ipotesi di preferenza piccola; 4, che contraddistingue una preferenza media; 5, che individua una presenza grande; 6, che indica la preferenza massima (C.d.S., sez. V, 05.02.2007, n. 458).
Il metodo in questione esprime, pertanto, non già una valutazione assoluta, ma piuttosto una valutazione relativa delle offerte, finalizzata ad individuare quella che, in raffronto con le altre appare migliore, non potendosi peraltro applicare un giudizio transitivo (tra le offerte) (C.d.S., sez. IV, 16.02.1998, n. 300); in particolare il confronto a coppie è imperniato su una serie di distinte e autonome valutazioni di ogni offerta con ciascuna delle altre che esprime una valutazione complessiva dell’offerta, rappresentata dalla sommatoria delle preferenze da essa riportate rispetto a quelle conseguite dalle altre offerte, con la conseguenza che la valutazione di ciascun progetto e di ogni offerta è indicata dal totale dei punteggi attribuiti per ogni elemento posto in comparazione (C.d.S., sez. V, 05.07.2007, n. 3814; 28.06.2002, n. 3586).
E’ stato anche sottolineato che, una volta accertata la correttezza dell’applicazione del metodo del confronto a coppie ovvero quando non ne sia stato accertato l’uso distorto o irrazionale, non c’è spazio alcuno per un sindacato del giudice amministrativo nel merito dei singoli apprezzamenti effettuati ed in particolare sui punteggi attribuiti nel confronto a coppie, che indicano il grado di preferenza riconosciuto ad ogni singola offerta in gara, con l’ulteriore conseguenza che la motivazione delle valutazioni sugli elementi qualitativi risiede nelle stesse preferenze attribuiti ai singoli elementi di valutazione considerati nei raffronti con gli stessi elementi delle altre offerte (C.d.S., sez. V, 05.02.2007, n. 458).
L’attribuzione del punteggio secondo il delineato metodo fondato su un’indicazione preferenziale ancorata a indici predeterminati non richiede di per sé alcuna estrinsecazione logico – argomentativa della preferenza, giacché il giudizio valutativo deve ritenersi insito nell’assegnazione delle preferenze, dei coefficienti e di conseguenza del punteggio: quest’ultimo, tuttavia, deve essere considerato sufficiente a motivare gli elementi dell’offerta economicamente più vantaggiosa solo quando la lex specialis della gara abbia espressamente predefinito specifici, obiettivi e puntuali criteri di valutazione (C.d.S., sez, V, 30.08.2005, n. 4423; 04.06.2007, n. 2943; 31.08.2007, n. 4543; 17.09.2008, n. 4439) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.02.2012 n. 1150 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL'amministrazione gode di ampia discrezionalità nella scelta dei criteri di valutazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa.
La scelta da parte dell’amministrazione dei criteri di valutazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa è connotata da ampia discrezionalità, ma deve avvenire nel rispetto dei principi di proporzionalità, ragionevolezza e non discriminazione, dovendo in ogni caso i singoli criteri essere riferiti direttamente ed esclusivamente alle prestazioni che formano oggetto specifico dell’appalto ed essere pertinenti alla natura, all’oggetto ed al contenuto del contratto (C.d.S., sez. V, 11.01.2006, n. 28; 21.11.2007, n. 5911; 19.11.2009, n. 7259) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.02.2012 n. 1150 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL'Amministrazione appaltante è vincolata alla legge di gara.
In virtù di consolidata giurisprudenza il momento valutativo-discrezionale dell’Amministrazione appaltante si esaurisce nel momento della predisposizione della legge di gara, alla quale l’Amministrazione medesima si è autovincolata, senza che nella fase applicativa possano avvenire ulteriori valutazioni anche collegate ad interpretazioni finalistiche, funzionali ad un preteso interesse pubblico.
Il criterio teleologico non può infatti superare il criterio formale nel caso in cui, come quello in esame, la clausola del disciplinare di gara sia accompagnata dalla previsione di esclusione del concorrente in conseguenza del suo mancato rispetto e ciò anche allorché tale mancato rispetto possa apparire in una sommaria analisi un mero passaggio formale in apparenza privo di rilievo sostanziale (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.02.2012 n. 1149 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'utilizzazione di un immobile ad ufficio pubblico non ne determina la modificazione della destinazione d'uso.
Il Consiglio di Stato nella sentenza in esame ha affermato che l’utilizzazione di fatto di un immobile ad ufficio pubblico in forza di un contratto di diritto privato non può essere fonte di modificazione della destinazione d’uso derivante questa, infatti, da provvedimenti classificatori di natura autoritativa non modificabili o estinguibili da determinazioni negoziali: queste, per loro natura -contratto di locazione– hanno incorporata in sé una logica transitoria (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.02.2012 n. 1148
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL'Amministrazione, sulla base di una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario, può revocare il provvedimento che autorizza un determinato uso del suolo pubblico.
Ad avviso del Consiglio di Stato non sarebbe comprensibile –e apparirebbe anzi contrario alla esigenza di cura dell’interesse pubblico– ritenere che l’Amministrazione, una volta concesso o autorizzato un determinato uso del suolo pubblico, rimanga rigidamente vincolata al proprio provvedimento senza poter poi procedere ad una nuova valutazione degli interessi in gioco, tale da convincerla a modificare o revocare il provvedimento già adottato (salva la possibilità di una eventuale compensazione per il destinatario degli atti).
Sotto tale profilo l’art. 21-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241 –di per sé non applicabile alla vicenda in esame in quanto introdotto nel 2005– nella misura in cui consente la revoca anche a seguito di una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario, non innova la disciplina precedente, ma si limita a esplicitare una regola che doveva supporsi già esistente sulla scorta di una interpretazione razionale della normativa in vigore.
E’ ovvio, peraltro, che la legittimità della revoca in ragione di un diverso apprezzamento dell’interesse pubblico preesistente è condizionata alla congruenza della motivazione addotta dall’Amministrazione a base del nuovo provvedimento (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.02.2012 n. 1137 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONELa dichiarazione di pubblica utilità priva di termini iniziali e finali per l’avvio e compimento dei lavori e delle occupazioni è da ritenere radicalmente nulla.
E' noto che, secondo la giurisprudenza anche più recente della Corte regolatrice, la dichiarazione di pubblica utilità priva di termini iniziali e finali per l’avvio e compimento dei lavori e delle occupazioni è da ritenere radicalmente nulla, onde l’occupazione costituisce mero comportamento materiale “...in nessun modo ricollegabile ad un esercizio abusivo dei poteri della p.a., sicché spetta al g.o. la giurisdizione sulla domanda risarcitoria proposta dal privato” perché in tal caso essa è “da ritenere emessa in carenza ovvero in difetto assoluto di attribuzione del potere stesso, che comporta nullità del provvedimento dichiarativo della pubblica utilità e degli atti conseguenti della procedura ablatoria” (Cass. Civ., SS.UU., 14.02.2011, n. 3569) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.02.2012 n. 1133 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - INCARICHI PROFESSIONALIGli incarichi di assistenza legale sono competenza solo dei dirigenti. Consiglio di Stato. Stop al sindaco nelle amministrazioni che hanno l'avvocatura.
Gli incarichi di assistenza legale negli enti locali che hanno l'avvocatura devono essere conferiti esclusivamente dal dirigente della stessa e non dal sindaco.
È l'importante e, per molti aspetti innovativa, indicazione contenuta nella
sentenza 14.02.2012 n. 730 del Consiglio di Stato (Sez. V).
Sulla base di questo principio viene messa in discussione la legittimità di molti degli incarichi di nomina dei legali delle Pa. Nella pronuncia è inoltre chiarito che i regolamenti di organizzazione di Comuni e Province non possono limitare l'autonomia dell'avvocatura.
Si chiarisce espressamente che «il rappresentante legale dell'ente manifesta la volontà di costituirsi in un eventuale giudizio, ma non può anche provvedere (né lui né la Giunta) alla nomina del difensore, né interno, cosa che compete sicuramente al capo dell'ufficio legale, né esterno, vicenda che si articola, innanzitutto, in una dichiarazione che sussistono elementi per poter affidare la difesa tecnica all'esterno ad opera dell'ufficio legale e successiva nomina del difensore del libero foro, che compete necessariamente al capo dell'ufficio legale, trattandosi di un vero e proprio contratto di prestazione intellettuale, ricadente come tale nelle attività gestionali di competenza dei dirigenti dell'amministrazione».
Come si vede, la sentenza innova la giurisprudenza precedente, secondo cui il rappresentante legale dell'ente, cioè il sindaco o il presidente della provincia, può scegliere il legale o quanto meno concorrere alla sua scelta. Il che obbliga la stragrande maggioranza delle amministrazioni a modificare regolamenti e abitudini.
La sentenza stabilisce i termini della «sottoposizione dell'ufficio legale alle direttive e agli ordini del direttore generale, il quale, se certamente può intervenire a coordinare gli uffici (tutti gli uffici, anche quello legale), non può indubbiamente interferire sull'organizzazione interna e sulle modalità di organizzazione del lavoro, innanzitutto perché si tratta di un'attività tecnica (in senso giuridico) e, poi, perché gli uffici legali degli enti pubblici devono godere di quella particolare autonomia di pensiero e di organizzazione che sola può consentire l'esplicazione corretta e proficua della loro attività». Viene così riaffermata con nettezza l'autonomia di cui devono godere gli uffici legali delle Pa locali.
Ciò significa che gli enti hanno un'ampia discrezionalità che non può essere messa in discussione, ma va esercitata «nel rispetto delle statuizioni esistenti e, in particolare, delle guarentigie attribuite a determinate categorie di soggetti operanti nell'ambito della pubblica amministrazione». Tra esse occorre fare riferimento, alla necessità che l'avvocatura delle Pa non sia «sottoposta né a condizionamenti, né a valutazioni che possano in qualche modo svilirne il modo di essere» (articolo Il Sole 24 Ore del 06.03.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Privacy: lecito rendere pubblico lo stato di salute di un dipendente?
Il datore di lavoro che scelga di rendere pubblico lo stato di salute di un suo dipendente, senza che una tale divulgazione sia stata retta da fini di interesse pubblico, viola l'art. 11 del D.lgs. 193/2006. Con tale condotta viene lesa la riservatezza del dipendente a seguito del superamento dei limiti di pertinenza e non eccedenza del trattamento dei dati personali. Per chiedere il risarcimento del danno non patrimoniale è sufficiente lamentare un patema d'animo, essendo sovente le modalità della divulgazione idonee, già per se stesse, a dimostrare l'esistenza di un pregiudizio.
E' quanto è emerso dalla sentenza 13.02.2012 n. 2034 emessa dalla Corte di Cassazione civile che ha condannato un comune italiano ad un risarcimento di 16.000 euro nei confronti di un suo dipendente, per violazione del Codice della Privacy.
Nel caso di specie il dipendente pubblico ha chiesto all'amministrazione che venisse riconosciuta la connessione tra una patologia cui andava affetto e il tipo di lavoro prestato per l'ente. La domanda viene rigettata con un parere negativo, al quale fa seguito un provvedimento che viene reso pubblico mediante affissione nell'albo pretorio del comune per quindici giorni.
nell'atto amministrativo sono state riportate tutte le informazioni attinenti alla paventata patologia del lavoratore, unitamente alle sue diagnosi e alle cause, alla natura e agli effetti della stessa.
Conseguentemente, il lavoratore ha ritenuto di adire il giudice per chiedere la condanna dell'amministrazione al risarcimento dei danni non patrimoniali da lui patiti a seguito della divulgazione dei dati sensibili.
Il Tribunale di Cagliari ha accolto la sua istanza, accertando sia l'illegittimità del provvedimento amministrativo per violazione dell'articolo 2 della Costituzione e dell'articolo 11 del Codice della Privacy, sia il pregiudizio morale patito dal lavoratore.
Per la corte cagliaritana, infatti, l'amministrazione ha del tutto superato i limiti di pertinenza e non eccedenza del trattamento dei dati personali di cui all'articolo 11 del decreto legislativo 193/2006, senza che vi fosse una valida giustificazione.
Il provvedimento, infatti, ben avrebbe potuto essere divulgato con modi alternativi, allineati con la sfera privata del dipendente pubblico, come tali idonei ad evitare l'insorgere di qualsivoglia tipologia di danno.
Il Comune, tuttavia, non ha condiviso il dictum del giudice di merito e si è rivolto alla Corte di legittimità per chiedere la riforma della sentenza.
La violazione della disciplina in materia di tutela della riservatezza dei dati personali è stata ritenuta pacifica. Si continua a discutere, però, sulla prova del danno.
Contrariamente a quanto affermato dal Comune, secondo il quale non vi sarebbe stato nessun pregiudizio per il lavoratore né un tale pregiudizio sarebbe stato provato, la corte capitolina afferma che, seppure il danno non può considerarsi in re ipsa a seguito della la mera violazione, lo stesso può ben desumersi, come ha fatto la corte di primo grado, da quel disagio, imbarazzo o preoccupazione discendente dalla divulgazione di dati sensibili, quali sono quelli attinenti allo stato di salute.
A tali riflessi deve sommarsi un patema d'animo ancor più incisivo, consistente nell'incertezza, per il lavoratore, sul numero di persone degli effettivi conoscitori della predetta situazione personale.
In tal senso, il pregiudizio patito dal soggetto leso si sostanzierebbe nella sua incapacità di relazionarsi serenamente con i consociati a causa della preoccupazione derivante dal non sapere se questi conoscano o meno i suoi problemi di salute e le sue vertenze con il datore per il quale presta il suo servizio.
Così argomentando la Corte riesce a svincolarsi dalla censura avanzata dal Comune circa il difettoso accertamento di un concreto pregiudizio patito dal lavoratore.
La sentenza si immerge nel tema della responsabilità dell'amministrazione per le violazioni commesse nell'ambito della sua attività provvedimentale, attraverso l'agire dei suoi dipendenti.
Seppur in apparente controtendenza rispetto alla tesi, per lungo tempo sostenuta, della responsabilità oggettiva, la corte dimostra di accordare la pretesa risarcitoria anche in presenza di un accertamento del danno dai difficili contorni.
L'impressione, pertanto, sembra quella per la quale la caratura della violazione e l'oggetto della stessa (dati sensibili attinenti lo stato di salute del soggetto) debbano sempre prevalere sulle esigenze di accertamento di un danno, essendo questo desumibile dall'id quod plerunque accidit.
La divulgazione dei dati che si è attuata nel caso di specie, infatti, sarebbe da considerarsi, per natura, idonea a determinare un patimento nell'interessato, obbligato a rivedere il suo modo di rapportarsi con le persone a seguito dell'imbarazzo generato dal datore.
Le argomentazioni della sentenza possono essere estese anche ai datori di lavoro privati che si rendano (analogamente) colpevoli di divulgazioni illecite. Anche in questo caso, infatti, le modalità della divulgazione possono semplificare la prova del danno per il dipendente, rendendo, così, più ardua la difesa del datore di lavoro (commento tratto da www.ipsoa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione di soppalco di modeste dimensioni che non costituisca un vano abitabile – intervento di ristrutturazione edilizia – necessità di permesso di costruire – esclusione.
La realizzazione di un soppalco di modeste dimensioni che non ha determinato un aumento di superficie utilizzabile, non ha modificato il volume o sagome dell’immobile, né la destinazione di uso, e non costituisca un vano abitabile, è assentibile con la denuncia di inizio lavori “semplice”, la cui mancanza è sanzionata solo amministrativamente (TRIBUNALE di Napoli, Sez. penale, sentenza 06.02.2012 - link a www.iussit.eu).
---------------
Con riferimento ad opere interne quali i soppalchi, vanno svolte alcune brevi premesse per un corretto inquadramento della materia.
Si considerano opere interne quegli interventi minori che, in quanto eseguiti all'interno di un edificio, non incidono sulla sua sagoma o sui prospetti.
Nel vigore dell'art. 26 della legge n. 47/1985 e dell’art. 4 legge n. 493/1993, come modificato dall'art. 2, comma 60, legge n. 662/1996, tali opere potevano essere eseguite in base a semplice denuncia qualora non avessero comportato modifiche della sagoma o dei prospetti e non avessero recato pregiudizio alla statica dell'immobile, sebbene esse determinassero un aumento della superficie utilizzabile o il numero delle unità immobiliari a condizione però dell’assenza di vincoli paesaggistici, storici, ambientali, urbanistici e di contrasto con strumenti di pianificazione o programmazione urbanistica immediatamente operativi.
L'esecuzione di tali opere senza la denuncia d'inizio d'attività era punita con una sanzione pecuniaria.
Nel novero delle opere interne rientrava la realizzazione di soppalchi in quanto tale intervento, pur aumentando la superficie utilizzabile, non modificava i volumi o la sagoma dell'edificio. La giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione si era, dunque, orientata nel senso di ritenere che per la realizzazione di soppalchi aventi destinazione abitativa, interni a costruzioni preesistenti, non occorresse la concessione né l'autorizzazione edilizia ma era sufficiente il procedimento di D.I.A. in. via esclusiva, la cui mancanza era sanzionata solo in via amministrativa (cfr. Cass. Sez. III, 22.04.1998, n. 4746, Matera; 03.06.1994, n. 6573, Vicini; 28.03.1990 n. 4323, De Pan, Cass. sez. III 20.05.2000 n. 6189).
Di contro, il nuovo testo unico dell'edilizia non prevede tale tipo d'intervento come categoria autonoma da cui il problema interpretativo del suo inquadramento normativo.
Nella giurisprudenza di legittimità si registra un contrasto sul punto.
Ed invero, dopo l'entrata in vigore del TU. n. 380/2001, l’orientamento che riteneva le opere interne assentite con la mera denunzia di inizio attività è stato confermato dalla III Sezione penale con la sentenza 10.11.2005 n. 40829 (ric. P.M. in proc. D'Amato ed altro), ove si è precisato che: “la realizzazione di opere interne anche in base al testo unico deve ritenersi consentita, come avveniva nella legislazione previgente, previa mera denunzia di inizio dell'attività a condizione che non integri veri e propri interventi comportanti modifiche della sagoma o della destinazione d'uso e ciò perché in base all'attuale disciplina sono assentibili con la denuncia d'inizio lavori cosiddetta semplice, ossia quella prevista dall’art. 22 dei T.U. commi 1 e 2 (da distinguere dalla cosiddetta superdia introdotta con il decreto legislativo n. 301 del 2002 che è prevista dal terzo comma dell'articolo 22, e che, essendo alternativa al permesso di costruire, è sottoposta alla stessa disciplina sanzionatoria penale prevista per la mancanza del permesso di costruire o per la difformità da esso), tutti quegli interventi per i quali non è richiesto il permesso di costruire e per quello in questione tale permesso, alle condizioni sopra indicate, non è richiesto giacché, anche se è aumentata la superficie in concreto utilizzabile, non sono stati modificati volume e sagoma».
Tale indirizzo giurisprudenziale non è stato però condiviso in altre più recenti pronunce della stessa III Sezione penale nelle quali è stato precisato che le opere interne non sono più previste, nella nuova formulazione del T.U. nr. 380/2001, come categoria autonoma di intervento sugli edifici esistenti e devono quindi ritenersi riconducibili alla «ristrutturazione edilizia» allorquando comportino aumento di unità immobiliari, ovvero modifiche dei volumi, dei prospetti o delle superfici, o mutamenti di destinazione d'uso.
Statuisce la Suprema Corte: “l'esecuzione di un soppalco all’interno di una unità immobiliare, realizzato attraverso la divisione in altezza di un vano allo scopo di ottenerne una duplice utilizzazione abitativa, pure se non realizzi un mutamento di destinazione d'uso, costituisce intervento di ristrutturazione edilizia che richiede il permesso di costruire o, in alternativa, la denunzia di inizio attività, ai sensi dell'art. 22, 3° comma, del T.u. 380/2001.
Detto intervento, infatti, comporta un incremento della superficie utile calpestabile che, a norma dell’art. 10, 1° comma, lett. c), dello stesso T.u., impone l'applicazione del regime di alternatività indipendentemente da una contemporanea modifica della sagoma o del volume, senza la necessità cioè che concorrano tutte le condizioni previste nello stesso articolo (modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti, delle superfici) in quanto queste sono alternative come ricavasi dal’uso della disgiuntiva nel citato testo normativo
" (cfr. Cass. pen. sez. III 26.10.2006, n. 35863, Montilli; Cass. pen. sez. III 16.11.2006, n. 37705 Richiello; 26.01.2007, n. 2881, P.M. in proc. Picone ed altro; Cass. pen. 01.03.2007, n. 8669, De Martino).
Va da sé che restano fuori dal regime del permesso di costruire (e quindi dalla sanzionabilità penale) i meri spazi inidonei (in particolare in ragione dell’altezza) ad essere occupati dall'uomo od utilizzati come vani abitabili (quali gli spazi-ripostiglio).
La realizzazione del soppalco interno, secondo tale indirizzo giurisprudenziale, va inquadrata, quindi, nell’ambito degli interventi di cui all’art. 22, comma 3, T.U. che comportano un aumento di superficie e sono suscettivi di essere eseguiti con permesso di costruire ovvero, in alternativa, con denuncia di inizio attività.
In base al disposto dell’art. 44, comma 2-bis, T.U. 380/2001, l’assenza della D.I.A. ove sia previsto il regime di alternatività, o la totale difformità dalla stessa, comportano l’applicazione delle sanzioni penali e non già di quelle meramente amministrative.
Orbene, ritiene il Giudicante che, nel caso in esame, la tipologia di intervento realizzata dall’imputata, non si profila come penalmente rilevante ricadendo negli interventi sanzionati in via amministrativa.
In punto di diritto si premette che la fattispecie contestata di cui all'art. 44, lett. B), del D.P.R. 380/2001 sanziona penalmente l'esecuzione di opere in assenza o difformità dalla concessione edilizia e sono da reputarsi tali tutti gli interventi che comportano significativi aumenti di superficie o volume, modifiche della sagoma, alterazione dei prospetti. In altri termini, la sanzione penale è riservata agli interventi edilizi che incidono in modo significativo sul territorio comportando aumenti planovolumetrici e, dunque, una significativa trasformazione dell'assetto edilizio ed urbanistico che richiede necessariamente l'autorizzazione della Pubblica Amministrazione deputata alla sua tutela attraverso il rilascio della concessione edilizia.
L'art. 10 del T.U. sull'edilizia prescrive il preventivo rilascio del permesso di costruire per le nuove costruzioni e per gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento delle superfici e dei volumi; di contro, gli altri interventi per i quali non è richiesto il permesso di costruire possono essere assentiti con semplice denuncia d'inizio attività a norma dell'articolo 22, primo e secondo comma, purché siano conformi agli strumenti urbanistici vigenti, la cui inosservanza integra una mera violazione amministrativa ex art. 37, comma 1, T.U.
Viceversa e salvo diverse disposizioni previste dalla disciplina regionale o dagli strumenti urbanistici, possono essere eseguite senza alcun titolo abilitativo, in base all’art. 6 T.U., solo gli interventi di manutenzione ordinaria, quelli rivolti all'eliminazione delle barriere architettoniche (qualora non comportino la realizzazione di rampe o di ascensori esterni ovvero di manufatti che alterino la sagoma degli edifici) nonché le opere temporanee per l'attività di ricerca nel sottosuolo in aree esterne al centro edificato (interventi liberi).
Opere diverse da quelle innanzi indicate devono essere assentite dall'autorità comunale o con il permesso a costruire o con la denuncia di inizio attività.
L'art. 22, comma 4, del T.U. ha peraltro facultato le regioni a statuto ordinario, con legge regionale, ad "ampliare o ridurre l'ambito applicativo delle disposizioni di cui ai commi precedenti”.
Nella fattispecie, la Regione Campania ha emanato la Legge Regionale n. 19 del 28.11.2001 ove, all’art. 2, è stato stabilito che possono essere realizzati in base a semplice denuncia d'inizio attività:
a) gli interventi edilizi, di cui all'art. 4 del decreto legge 05.10.1993, n. 398, convertito, con modificazioni, nella legge 04.12.1993 n. 493, come sostituito dall'art. 2, co. 60, della legge 23.12.1996 n. 662, lettere a), b), c), d), e), f);
b) le ristrutturazioni edilizie, comprensive della demolizione e della ricostruzione con lo stesso ingombro volumetrico.
Dunque, con riferimento alla Regione Campania, nella categoria di cui alla lettera a) vi rientrano certamente le opere interne di singole unità immobiliari -tra cui i soppalchi- a condizione che non comportino modifiche della sagoma e dei prospetti e non rechino pregiudizio alla statica dell'immobile e, limitatamente agli interventi compresi nelle zone omogenee A) di cui all'art. 2 del decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16.04.1968, non modifichino la destinazione d'uso.
Tali interventi, in base alla legge regionale della Campania, sono soggetti alla denuncia d'inizio attività, ma alle condizioni suindicate del tutto conformi alla legge statale, la cui omissione non integra ipotesi di reato, ma semplice sanzione amministrativa.
(1)
Orbene, nel caso in esame, traendo le dovute conclusioni, non può che rimarcarsi in primo luogo il dato fattuale della scarsità di informazioni sulla natura, conformazione ed entità dell’intervento realizzato, dovendosi far riferimento esclusivamente alla testimonianza del verbalizzante di P.G. in mancanza di rilievi fotografici, di sequestro e di atti descrittivi dell’intervento edilizio in contestazione, in assenza, inoltre, di relazione dell’ufficio tecnico del Comune che alcun sopralluogo ha operato presso l’immobile da cui l’impossibilità di attivare i poteri di integrazione ex art.507 c.p.p. (in atti risulta allegata una perizia di parte in cui sono contenuti alcune foto raffiguranti –si presume- l’interno dell’abitazione in esame che confortano quanto si dirà a breve).
Dalle dichiarazioni del teste della polizia locale può evincersi che l’intervento edilizio realizzato dalla imputata (proprietaria dell’immobile come risulta in atti dalla nota di trascrizione) è consistito in un soppalco interno all’abitazione di dimensioni modeste e di altezza non idonea a consentire il calpestio agevole di un adulto (l’altezza è di mt. 1,65 dal piano di calpestio del soppalco al soffitto; la copertura ha interessato una parte limitata dell’area dell’appartamento sì da somigliare per lo più ad un comodo spazio ripostiglio, sia pur in elevazione, o, comunque, ad un’area destinata ad un bambino idonea a collocarvi, al massimo, un letto di piccole dimensioni). All’atto del sopralluogo, pur essendo i lavori ultimati, nessun arredo era stato collocato (per cui non è da escludersi la destinazione a vano ripostiglio e, comunque, non può dirsi acclarata, attesa l’altezza e le dimensioni, la certa destinazione a vano abitabile).
Non risulta, inoltre, realizzato alcun locale igienico né risultano predisposti gli impianti idrici (il dato è stato confermato dal teste di P.G.), di talché anche sotto il profilo del carico urbanistico, l’intervento appare poco significativo.
Nulla è poi emerso quanto alla incidenza dell’opera sulla staticità dell’immobile, che appare, tuttavia, da escludersi, in ragione delle ridotte dimensioni ed altezza del manufatto.
Si tratta, infine, di un intervento edilizio che non ha comportato alcun mutamento
di destinazione d’uso del locale (trattandosi di immobile destinato a civile abitazione ricadente zona avente tale destinazione e tale è la funzione dell’intervento edilizio realizzato).
Inoltre, l’intervento edilizio ricade in territorio non sottoposto a vincoli ambientali o di altra natura né risulta in contrasto con strumenti di pianificazione o programmazione urbanistica.
Quanto alla dedotta modifica del vano-finestra, trattasi di intervento che dalla descrizione fornita dal teste di P.G. (l’unica alla quale ci si può attenere stante la mancata redazione di fascicoli fotografici) appare di modestissima entità e poco significativo (in immobile, si badi bene, non ricadente in area sottoposta ai vincoli paesaggistici o storici).
L’assenza di dati probatori che non è stato possibile acquisire, non consente di stabilire realmente l’entità dell’intervento, la sua risalenza nel tempo e l’incidenza sulla sagoma o prospetto del fabbricato (si rammenta infatti che il vano-finestra cui sarebbe stato rimosso il parapetto è preesistente ed affaccia su un terrazzo interno condominiale; il teste di P.G. non è stato in grado di riferire le dimensioni precise del parapetto per quanto desumibili dal fatto stesso che si tratti di una finestra, né di descrivere lo stato dei luoghi anteriore a tale sopralluogo, non avendo operato in precedenza alcun accesso).
Sulla scorta dei dati fattuali raccolti ed in assenza di ulteriori elementi di prova, ritiene il Giudicante che si sia in presenza di un intervento di modeste dimensioni che non può inquadrarsi negli interventi di ristrutturazione edilizia comportanti un organismo planovolumetrico integralmente o parzialmente diverso, bensì negli interventi minori poiché, seppure ha determinato un aumento della superficie in concreto utilizzabile, non ha modificato il volume o la sagoma dell’immobile, né ha indotto il mutamento della destinazione d'uso, né infine, pare possa costituire un vero e proprio vano abitabile (in ragione dell’altezza ridotta) sicché esso è assentibile con la denuncia d'inizio lavori “semplice” in forza degli artt.10-22 T.U. 380/2001 e della Legge Regione Campania n. 19/2001.
L’assenza della D.I.A. è sanzionata quale illecito amministrativo sicché s’impone la pronuncia assolutoria con la formula di cui al dispositivo.
Con rifermento al capo B) della rubrica, va, per converso, affermata la responsabilità penale dell’imputata per la contravvenzione di cui agli artt. 83-95 T.U.E. 380/2001.
Si premette che l'art. 95 T.U., che riproduce integralmente il contenuto del previgente art. 20 della legge n. 64 del 1974 (la quale non è stata espressamente abrogata dall'articolo 136 T.U.; di contro, l'art. 137 ha precisato che la legge n. 64 del 1974 resta in vigore per tutti i campi di applicazione originariamente previsti dal testo normativo e non applicabili alla parte prima del testo unico), punisce chiunque violi le disposizioni contenute nel presente capo ( 4°) e nei decreti interministeriali di cui agli artt. 52 ed 83 del T.U. sanzionando con l'ammenda da 206 euro a 10329 euro, la condotta (descritta negli artt. 93 e 94) di chi intenda procedere a costruzioni, sopraelevazioni e riparazioni in zone sismiche ed ometta di dare preavviso scritto allo sportello unico (che provvede a trasmettere copia al competente ufficio tecnico della regione art. 93) ovvero di chi inizi ad eseguire i lavori in assenza di autorizzazione (art. 94).
In altri termini, tale normativa è finalizzata a salvaguardare la staticità dei fabbricati in relazione ai fenomeni sismici e, quindi, l'incolumità pubblica sia nella fase di progettazione che in quella di esecuzione.
Tale normativa, a ben vedere, non distingue tra opere interne ed opere esterne, imponendo il controllo di qualsiasi costruzione, riparazione o sopraelevazione.
La giurisprudenza di legittimità fa rientrare nel concetto di costruzione rilevante ai fini della normativa antisismica qualsiasi opera a prescindere dal titolo abilitativo richiesto e dalle sue caratteristiche o dimensioni, attesa la finalità della legge che è quella di consentire il controllo preventivo e documentale dell'attività edile eseguita in zone sismiche (cfr. Cass n. 10640 del 1985; 21.07.1992 n. 8140; Cass. Sez. 3^ n. 7353 del 1995; 02.06.1999 n. 6923).
Dunque, la vigilanza sull'attività edilizia nei territori sismici demandata all’ufficio tecnico della regione, si affianca a quella ordinaria demandata all’autorità comunale basata sul rilascio di un titolo abilitativo conforme alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie.
Ne discende che tutte le opere per le quali è richiesto un titolo abilitativo, sia esso il permesso di costruire o la denuncia d'inizio dell'attività, devono essere preventivamente denunciate anche all'ufficio tecnico della Regione se realizzate in zone sismiche come nel caso in esame, con obbligo di deposito del progetto onde consentire la verifica della staticità.
Del pari, anche per gli “interventi liberi” s’impone l’obbligo della preventiva denuncia ed il rispetto della normativa tecnica antisismica (mentre, quali interventi di manutenzione ordinaria, non sono soggetti all'autorizzazione di cui all'articolo 94 del T.U.).
Nel caso in esame, s’imponeva quindi da parte della Imputat, proprietaria dell’immobile e committente dei lavori (alcuna contestazione è stata sollevata al riguardo dalla difesa), l'obbligo della preventiva denuncia all'ufficio tecnico regionale con il deposito degli atti progettuali e l’autorizzazione ad iniziare ed eseguire i lavori, trattandosi di intervento che, seppure eseguito all'interno di un immobile, non rientra tra quelli di manutenzione ordinaria e rileva comunque, a prescindere dalle dimensioni, ai fini dei fenomeni sismici.
Invero, per le sue caratteristiche strutturali e tipologiche e per la classificazione della zona su cui insiste il manufatto come sismica, s'imponeva l'adempimento degli obblighi di cui alla normativa edilizia specifica, normativa che trova applicazione in relazione ad ogni tipologia di opera realizzata sul territorio, anche di natura precaria ovvero anche se realizzata con materiale diverso dal cemento armato in senso stretto, posto che –ripetesi- la sua funzione è quella di consentire, attraverso l'osservanza formale degli obblighi di deposito degli atti progettuali all’organismo tecnico il controllo preventivo della pubblica amministrazione di ogni struttura realizzata in zona sismica e di verificarne la pericolosità (cfr. Cass. pen. sez. III 04/10/2002 nr. 33158; Cass. pen. sez. 3° sentenza n. 40829/11.10.2005).
Del resto,il committente dei lavori non può addurre a sua discolpa la non conoscenza della normativa di settore, essendo tenuto ad un obbligo specifico di informazione prima di realizzare un intervento edilizio.
Alla stregua delle considerazioni svolte, va affermata la penale responsabilità dell’imputata in relazione al capo B) della rubrica.
Quanto al profilo sanzionatorio, mentre gli interventi edilizi, come ritenuto quello in esame, eseguiti in assenza o in difformità dalla denuncia d'inizio attività, sono puniti con la sola sanzione amministrativa per cui s’impone l’inoltro all’autorità amministrativa per l’avvio del relativo procedimento, di contro, qualsiasi intervento eseguito in zona sismica (salvo quelli di manutenzione ordinaria e non è questo il caso), senza la preventiva denuncia e senza l'osservanza delle prescrizioni contenute nel capo quarto del T.U. continua ad essere penalmente sanzionato con l'ammenda.
Valutati i criteri direttivi offerti dall'art. 133 c.p., stimasi equo irrogare la pena, concesse le attenuanti generiche in ragione della incensuratezza e della natura occasionale del reato, contenendola nei minimi edittali, di EURO 200,00 di ammenda cui si perviene:
- pena base EURO 300,00 di ammenda
- ridotta per la concessione delle attenuanti generiche alla pena di Euro 200,00 di ammenda.
Segue per legge il pagamento delle spese processuali.
Attesa la irrogazione della sola sanzione pecuniaria in relazione al capo B), non si applica il beneficio della sospensione condizionale presumendosi un interesse dell’imputata in tal senso (laddove la richiesta difensiva di applicazione dei benefici di cui al verbale di udienza attiene all’ipotesi di condanna complessiva anche in relazione al capo A) sanzionato con l’arresto oltre l’ammenda, non avendo esso difensore null’altro specificato in proposito).
Alcuna sanzione amministrativa demolitoria va adottata nel caso di specie attesa la pronuncia assolutoria in relazione al capo A) (la demolizione non può essere impartita per gli interventi di cui all’art. 22 assentibili con D.I.A. semplice, mentre tale ordine va impartito nella diversa ipotesi della D.I.A. in alternativa al permesso a costruire).
Con riferimento alla violazione della normativa antisismica, l’ordine di demolizione che il Giudice penale ha il potere-dovere di adottare giusta il disposto del comma 3 dell’art. 98 T.U. non consegue alle violazioni della normativa antisismica solo formali come quelle contestate nel caso in esame (ovvero l’omessa denuncia e deposito degli atti progettuali o l’assenza dell’autorizzazione preventiva), ma consegue solo alle violazioni sostanziali di specifiche disposizioni tecniche dalle quali possa derivare il pericolo concreto per la pubblica incolumità (cfr. tra le altre Cass. pen. sez. 3° 10.10.2007 nr. 37372) ed in tal caso l’esecuzione compete all'Ufficio Tecnico della Regione.
P.Q.M.
Letto l’art. 530 c.p.p. assolve l’imputata dal reato ascritto al capo A) della rubrica perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Dispone trasmettersi gli atti alla competente autorità amministrativa.
Letti gli artt. 533-535 c.p.p. dichiara l’imputata colpevole del reato ascritto al capo B) e, concesse le attenuanti generiche, la condanna alla pena di EURO 200,00 di ammenda, oltre spese processuali.
NAPOLI 6/02/2012
IL GIUDICE
---------------
1) cfr. la già citata sentenza Cass. pen. sez. 3 n. 40829 dell'11.10.2005

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 16, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 (che ha riprodotto l'art. 11, comma 1, della legge n. 10/77) consente al privato di eseguire direttamente le opere di urbanizzazione in alternativa al pagamento dei connessi oneri (con possibilità quindi di ottenerne poi lo scomputo da quanto deve pagare a titolo di oneri di urbanizzazione primaria e secondaria), ma tale facoltà ha effetto soltanto se la proposta del privato sia accettata dal Comune secondo le modalità e le garanzie dettate dal medesimo e previste in una convenzione o in un atto unilaterale d’obbligo.
Pur essendo previsto che il soggetto che richiede il permesso di costruire, a scomputo totale o parziale della quota dovuta a titolo di contributo di costruzione, può obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione, sia primarie che secondarie, con le modalità e le garanzie stabilite dal Comune, tale iniziativa è, sempre subordinata ad una valutazione del Comune. In tal senso, la giurisprudenza ha precisato che l'ammissione allo scomputo costituisce oggetto di una valutazione ampiamente discrezionale da parte dell'amministrazione (che ben può optare per soluzioni diverse senza obbligo di specifica motivazione) ed un vero e proprio diritto sorge in capo al privato proponente allorché, a fronte della realizzazione da parte sua di opere di urbanizzazione ovvero dell'impegno a realizzarle, vi sia stato un espresso atto di "accettazione" consensuale da parte della stessa amministrazione.

Secondo giurisprudenza consolidata, l'art. 16, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 (che ha riprodotto l'art. 11, comma 1, della legge n. 10/77) consente al privato di eseguire direttamente le opere di urbanizzazione in alternativa al pagamento dei connessi oneri (con possibilità quindi di ottenerne poi lo scomputo da quanto deve pagare a titolo di oneri di urbanizzazione primaria e secondaria), ma tale facoltà ha effetto soltanto se la proposta del privato sia accettata dal Comune secondo le modalità e le garanzie dettate dal medesimo e previste in una convenzione o in un atto unilaterale d’obbligo.
Inoltre, pur essendo previsto che il soggetto che richiede il permesso di costruire, a scomputo totale o parziale della quota dovuta a titolo di contributo di costruzione, può obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione, sia primarie che secondarie, con le modalità e le garanzie stabilite dal Comune, tale iniziativa è, sempre subordinata ad una valutazione del Comune. In tal senso, la giurisprudenza ha precisato che l'ammissione allo scomputo costituisce oggetto di una valutazione ampiamente discrezionale da parte dell'amministrazione (che ben può optare per soluzioni diverse senza obbligo di specifica motivazione) ed un vero e proprio diritto sorge in capo al privato proponente allorché, a fronte della realizzazione da parte sua di opere di urbanizzazione ovvero dell'impegno a realizzarle, vi sia stato un espresso atto di "accettazione" consensuale da parte della stessa amministrazione (Sez. IV, 21.04.2008 n. 1811) (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 02.02.2012 n. 279 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La concessione edilizia è normalmente onerosa, tranne le tassative ipotesi di gratuità. Gli oneri di urbanizzazione sono previsti, infatti, a carico del costruttore, quale prestazione patrimoniale, a titolo di partecipazione di al costo delle opere di urbanizzazione connesse alle esigenze della collettività che scaturiscono dagli interventi di edificazione e dal maggior carico urbanistico che si realizza per effetto della costruzione. Detti oneri prescindono dall'esistenza o meno delle opere di urbanizzazione e vengono determinati indipendentemente sia dall'utilità che il concessionario ritrae dal titolo edificatorio, sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare siffatte opere. La partecipazione del privato a tali spese, quando ottiene la concessione a costruire, si atteggia quindi come assunzione di una quota dei costi della vocazione edificatoria impressa al territorio, e trova giustificazione nel beneficio, economicamente rilevante in termini di valore del suolo, che il privato medesimo riceve per effetto della concreta attuabilità del suo progetto di costruzione.
---------------
La determinazione del contributo di costruzione deve avvenire esclusivamente sulla base delle norme di legge che dettano i criteri di calcolo, “norme che vanno rigorosamente rispettate anche in osservanza del principio di cui all’art. 23 della Costituzione, secondo il quale nessuna prestazione patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”. La determinazione degli oneri, dunque, è il risultato di un calcolo materiale operato sulla base di parametri rigorosamente stabiliti dalla legge e dalle disposizioni applicative degli enti territoriali competenti, che deve essere quantificato delle tariffe in vigore al momento del rilascio del titolo abilitativo.

La concessione edilizia è normalmente onerosa, tranne le tassative ipotesi di gratuità che, nella specie, non sussistono e non vengono, comunque, invocate. Gli oneri di urbanizzazione sono previsti, infatti, a carico del costruttore, quale prestazione patrimoniale, a titolo di partecipazione di al costo delle opere di urbanizzazione connesse alle esigenze della collettività che scaturiscono dagli interventi di edificazione e dal maggior carico urbanistico che si realizza per effetto della costruzione. Detti oneri prescindono dall'esistenza o meno delle opere di urbanizzazione e vengono determinati indipendentemente sia dall'utilità che il concessionario ritrae dal titolo edificatorio, sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare siffatte opere. La partecipazione del privato a tali spese, quando ottiene la concessione a costruire, si atteggia quindi come assunzione di una quota dei costi della vocazione edificatoria impressa al territorio, e trova giustificazione nel beneficio, economicamente rilevante in termini di valore del suolo, che il privato medesimo riceve per effetto della concreta attuabilità del suo progetto di costruzione (giurisprudenza uniforme cfr., tra le tante, Cons. St., sez. IV, 21.04.2009, n. 2581 e sez. V, 23.01.2006, n. 159).
---------------
La determinazione del contributo di costruzione deve avvenire esclusivamente sulla base delle norme di legge che dettano i criteri di calcolo, “norme che vanno rigorosamente rispettate anche in osservanza del principio di cui all’art. 23 della Costituzione, secondo il quale nessuna prestazione patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge” (Cons. St., sez. V, 21.04.2006 n. 2258). La determinazione degli oneri, dunque, è il risultato di un calcolo materiale operato sulla base di parametri rigorosamente stabiliti dalla legge e dalle disposizioni applicative degli enti territoriali competenti, che deve essere quantificato delle tariffe in vigore al momento del rilascio del titolo abilitativo (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 02.02.2012 n. 279 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Presentazione della domanda di condono - Effetti contro l'ordinanza di demolizione dell'abuso - Giurisprudenza.
La presentazione della domanda di condono fa venire meno l'interesse alla decisione del ricorso contro l'ordinanza di demolizione dell'abuso, considerato che, da un lato, il rilascio della concessione in sanatoria produce evidentemente l'improcedibilità del ricorso e, dall'altro, uguale effetto si produce in caso di diniego di condono, concentrandosi l'interesse nel contestare con apposito ricorso l'eventuale provvedimento di diniego della sanatoria ed il conseguente doveroso nuovo provvedimento sanzionatorio, nei termini e nei limiti in cui essa è stata richiesta (TAR Lazio Roma, sez. II, 07/09/2010, n. 32129; TAR Campania Napoli, sez. VI, 15/07/2010, n. 16806; TAR Toscana Firenze, sez. III, 26/02/2010, n. 516; TAR Puglia Lecce, sez. I, 03/04/2007, n. 1499).
Aree vincolate - Sanatoria di opere abusive - Limiti - Art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 - Art. 32, c. 27, lett. d), d.l. n. 269/2003 convertito dalla L. n. 326/2003.
L'art. 32, comma 27, lett. d), d.l. n. 269 del 2003 è previsione normativa che esclude dalla sanatoria le opere abusive realizzate su aree caratterizzate da determinate tipologie di vincoli (in particolare, quelli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e della falde acquifere, dei beni ambientali e paesaggistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali), subordinando peraltro l'esclusione a due condizioni costituite:
a) dal fatto che il vincolo sia stato istituto prima dell'esecuzione delle opere abusive;
b) dal fatto che le opere realizzate in assenza o in difformità del titolo abilitativo risultino non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici (TAR Campania Napoli, sez. VII, 10/12/2009, n. 8608).
Da tale ricostruzione emerge, quindi, un sistema che consente la sanatoria delle opere realizzate su aree vincolate solo in due ipotesi, previste disgiuntamente, costituite dalla realizzazione delle opere abusive prima dell'imposizione dei vincoli (e, in questo caso, trattasi della mera riproposizione di una caratteristica propria della disciplina posta dalle due precedenti leggi sul condono con riferimento ai vincoli di inedificabilità assoluta di cui all'art. 33, comma 1, l. n. 47 del 1985); dal fatto che le opere oggetto di sanatoria, benché non assentite o difformi dal titolo abilitativo, risultino comunque conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici.
Pertanto, la novità sostanziale della suddetta previsione normativa è costituita proprio dall'inserimento del requisito della conformità urbanistica all'interno della fattispecie del condono edilizio, così dando vita ad un meccanismo di sanatoria che si avvicina fortemente all'istituto dell'accertamento di conformità previsto dall'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, piuttosto che ai meccanismi previsti dalle due precedenti leggi sul condono edilizio.
Poste tali premesse, in base alla disciplina posta dal d.l. n. 269 del 2003, la sanabilità delle opere realizzate in zona vincolata è radicalmente esclusa solo qualora si tratti di un vincolo di inedificabilità assoluta e non anche nella diversa ipotesi di un vincolo di inedificabilità relativa, ossia di un vincolo superabile mediante un giudizio a posteriori di compatibilità paesaggistica.
Infatti, è ben possibile ottenere la sanatoria delle opere abusive realizzate in zona sottoposta ad un vincolo di inedificabilità relativa, purché ricorrano le condizioni previste dall'art. 32, comma 27, lett. d), d.l. n. 269 del 2003, convertito dalla l. n. 326 del 2003 (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 14.10.2011 n. 4841 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTIGare, più facile correre in gruppo. Appalti: semplificate le richieste per i raggruppamenti. Sentenza del consiglio di stato sui requisiti per le imprese in ati nei concorsi in due fasi.
Nelle procedure di appalto in due fasi non è necessaria per i raggruppamenti la corrispondenza fra requisiti, quote di partecipazione e quote di esecuzione del contratto.
Lo afferma il Consiglio di stato, Sez. V, con la sentenza 09.09.2011 n. 5073.
Nel caso di specie l'appellante chiedeva l'esclusione dalla gara dell'AtI aggiudicataria perché i requisiti richiesti dal bando erano posseduti interamente dalla capogruppo impedendo in tal modo che vi fosse una corrispondenza tra quote di qualificazione e quote di partecipazione delle singole imprese, nonché tra quote di partecipazione e quote di esecuzione del servizio. Il Consiglio di stato, partendo dall'assunto che la procedura era articolata in due fasi ha affermato che l'adempimento dei requisiti di capacità economica e finanziaria e di capacità tecnica riguarda solo la fase di qualificazione e non quella di offerta.
Inoltre, il Consiglio di stato afferma che per i servizi non vi sarebbe necessità di corrispondenza tra requisiti e quote anche nella fase di offerta. A sostegno di tale tesi, i giudici hanno affermato che tale corrispondenza «non è richiesta espressamente dal bando e non è neppure coerente, per quanto riguarda gli appalti di servizi, con le puntuali previsioni dell'art. 37 del codice dei contratti che al quarto comma stabilisce che nell'offerta devono essere specificate le parti (e non le quote) che saranno eseguite dai singoli operatori economici riuniti, aggiungendo al tredicesimo comma che i concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni corrispondenti alla quota di partecipazione al raggruppamento».
Pertanto secondo i giudici, il principio di corrispondenza tra requisiti, quote di partecipazione al raggruppamento e quote di esecuzione non può trovare applicazione per l'appalto di servizi in oggetto perché l'adempimento dei requisiti è già avvenuto in una fase distinta rispetto all'offerta (qualificazione). Inoltre viene precisato che per quanto riguarda la fase di offerta il principio di corrispondenza, già affermato in materia di lavori e sancito nell'art. 37, comma 6, del codice, non è estensibile agli appalti di servizi (articolo ItaliaOggi del 07.03.2012 - tratto da www.corteconti.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: La delimitazione della competenza del geometra in materia di progettazione di strade va effettuata secondo il criterio tecnico-qualitativo della natura e della dimensione della strada da costruire.
Nel caso de quo, si tratta di strade di urbanizzazione che, pur sviluppandosi all’interno del tessuto urbano, non possono qualificarsi di tenue importanza, potendo anche comportare opere di una certa complessità, quali ponti o muri di contenimento, ed essendo, comunque destinate ad accogliere il traffico ordinario.
Anche alla luce della interpretazione coordinata dell’art. 16 R.D. n. 274/1929, che tenga conto delle novità introdotte dalla L. n. 144/1949, (sicché si deve ritenere che la quantificazione degli onorari relativi alle strade spettanti ai geometri ai sensi dell’art. 57, lett. E, riguardi le strade che rientrano nelle competenze di questi in base alle norme generali), si deve escludere che possa essere ricondotta nella competenza professionale del geometra la progettazione di una nuova strada che, per le dimensioni e la destinazione, non può qualificarsi come strada di tenue importanza.

... per l'annullamento, previa sospensione dell'esecuzione, dell’avviso pubblico, di numero e data sconosciuti, con cui il Responsabile dell’Area Tecnica del Comune di Surbo ha reso noto il procedimento per il "conferimento di incarico professionale per la progettazione definitiva ed esecutiva, direzione dei lavori, contabilità e coordinamento della sicurezza in fase di progettazione ed esecuzione dei lavori di urbanizzazione primaria zona Fontanelle" del Comune di Surbo;
...
... considerato che l’operato del Comune di Surbo è immune dai denunciati vizi di legittimità, per le seguenti ragioni.
Va precisato che oggetto dell’incarico è la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria, per cui l’esame del Collegio deve appuntarsi sulla competenza dei geometri -in relazione alle opere di urbanizzazione primaria- e di conseguenza sulla lamentata violazione dell’art. 16 R.D. 274/1929.
Con specifico riferimento alle strade (che rientrano tra le opere di urbanizzazione primaria ai sensi dell’art. 4, primo comma, della L. 847/1964), la sopra citata disposizione, disciplinando l’oggetto e i limiti dell’esercizio della professione dei geometri, include tra le diverse competenze, "le operazioni di tracciamento di strade poderali e consorziali ed inoltre, quando abbiano tenue importanza, di strade ordinarie e di canali di irrigazione e di scolo" .
La delimitazione della competenza del geometra in materia di progettazione di strade va quindi effettuata secondo il criterio tecnico-qualitativo della natura e della dimensione della strada da costruire.
Nel caso de quo, si tratta di strade di urbanizzazione che, pur sviluppandosi all’interno del tessuto urbano, non possono qualificarsi di tenue importanza, potendo anche comportare opere di una certa complessità, quali ponti o muri di contenimento, ed essendo, comunque destinate ad accogliere il traffico ordinario.
Anche alla luce della interpretazione coordinata dell’art. 16 R.D. n. 274/1929, che tenga conto delle novità introdotte dalla L. n. 144/1949, (sicché si deve ritenere che la quantificazione degli onorari relativi alle strade spettanti ai geometri ai sensi dell’art. 57, lett. E, riguardi le strade che rientrano nelle competenze di questi in base alle norme generali), si deve escludere che possa essere ricondotta nella competenza professionale del geometra la progettazione di una nuova strada che, per le dimensioni e la destinazione, non può qualificarsi come strada di tenue importanza.
L’incarico, unitariamente previsto per tutte le opere di urbanizzazione, costituisce un unicum ed è quindi estraneo alla competenza dei geometri (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 10.02.2006 n. 902 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: E' stato precisato che per gli edifici destinati a civile abitazione la competenza dei geometri è limitata alle sole costruzioni di modeste dimensioni, con divieto di progettare opere per cui vi sia impiego di cemento armato, tale da implicare in relazione alla destinazione dell’opera un pericolo per l’incolumità delle persone in caso di difetto strutturale, stante l’evidente favore che le varie norme pongono per la competenza esclusiva dei tecnici laureati.
Inoltre, anche quando è stata ammessa la competenza del geometra per la progettazione di strutture in cemento armato, tale competenza è stata comunque limitata alle opere di dimensioni minori.
Pertanto, per valutare l’idoneità del geometra a firmare il progetto di un’opera edilizia che comporta l’uso del cemento armato occorre considerare le specifiche caratteristiche dell’intervento al fine di ammetterla solo se si tratti di un’opera di modeste dimensioni.

Il TAR con la sentenza in epigrafe ha accolto il ricorso dell’Ordine, ritenendo che l’opera progettata era destinata ad attività industriale e non poteva ritenersi di modeste dimensioni, per cui non rientrava nelle competenze del geometra.
Detta conclusione del TAR deve essere condivisa in quanto conforme all’orientamento di questa Sezione, da cui il Collegio non ha motivi per discostarsi.
Invero, è stato precisato che per gli edifici destinati a civile abitazione la competenza dei geometri è limitata alle sole costruzioni di modeste dimensioni, con divieto di progettare opere per cui vi sia impiego di cemento armato, tale da implicare in relazione alla destinazione dell’opera un pericolo per l’incolumità delle persone in caso di difetto strutturale, stante l’evidente favore che le varie norme pongono per la competenza esclusiva dei tecnici laureati (V. la decisione di questa Sezione n. 25 del 13.01.1999, nonché Cass. sez. II n. 15327 del 29.11.2000).
Inoltre, anche quando è stata ammessa la competenza del geometra per la progettazione di strutture in cemento armato, tale competenza è stata comunque limitata alle opere di dimensioni minori (V. la decisione di questo Consiglio, sez. IV n. 784 del del 09.08.1997 nonché Cass. pen., sez. III, n. 10125 del 26.11.1996).
Pertanto, per valutare l’idoneità del geometra a firmare il progetto di un’opera edilizia che comporta l’uso del cemento armato occorre considerare le specifiche caratteristiche dell’intervento al fine di ammetterla solo se si tratti di un’opera di modeste dimensioni (V. la decisione di questa Sezione n. 348 del 31.01.2001).
Nella specie si trattava di laboratorio industriale (con abitazione, uffici ed esposizione), con altezza del capannone di m. 5,40 e quella degli uffici m. 8,25, una luce di m. 23,20 ed una lunghezza di m. 46, con tutta la parte statica e portante dell’edificio in cemento armato precompresso, con collegamento con un cordolo continuo dello stesso materiale, per cui, tenuto conto non solo delle dimensioni ma anche delle tecniche costruttive, correttamente il TAR ha ritenuto che non poteva considerarsi una costruzione di modeste dimensioni.
Né vale invocare a proprio favore da parte dell’appellante la decisione di questa Sezione n. 5208 del 03.10.2002, la quale ha ammesso la competenza del geometra in relazione ad un magazzino piuttosto ampio per il semplice fatto che la responsabilità delle strutture portanti in quel caso era stata assunta da professionista idoneo, mentre solo la mera esecuzione era stata curata da un geometra.
Nel caso in esame, invece, secondo quanto risulta dal provvedimento di concessione impugnato, l’interessato in qualità di geometra aveva direttamente firmato il relativo progetto, con funzione di direttore dei lavori.
La circostanze che successivamente ai sigg. Faggiolati ed altri sia stata rilasciata l’autorizzazione ad eseguire i lavori sulla base di calcoli di stabilità da parte di professionista laureato, non fa venir meno l’illegittimità originaria, salva l’efficacia sanante in relazione all’intervenuta esecuzione dell’opera (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 16.09.2004 n. 6004 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: Per gli edifici destinati a civile abitazione la competenza dei geometri è limitata alle sole costruzioni di modeste dimensioni, con divieto di progettare opere per cui vi sia impiego di cemento armato, tale da implicare in relazione alla destinazione dell’opera un pericolo per l’incolumità delle persone in caso di difetto strutturale, stante l’evidente favore che le varie norme pongono per la competenza esclusiva dei tecnici laureati.
Inoltre, anche quando è stata ammessa la competenza del geometra per la progettazione di strutture civili in cemento armato, tale competenza è stata comunque limitata alle opere di dimensioni minori.
Pertanto, per valutare l’idoneità del geometra a firmare il progetto di un’opera edilizia che comporta l’uso del cemento armato occorre considerare le specifiche caratteristiche dell’intervento al fine di ammetterla solo se si tratti di un’opera di modeste dimensioni.
Né vale sostenere che nella specie il geometra si sarebbe limitato alla redazione del progetto architettonico mentre la progettazione ed i calcoli, nonché la successiva direzione dei lavori, sarebbero stati effettuati da tecnici laureati, in quanto quello che rileva è che al momento del rilascio della concessione edilizia si è tenuto conto di un progetto redatto da geometra.

Con l’appello in epigrafe, il geometra Ratti ha fatto presente che l’Ordine degli ingegneri della Provincia di La Spezia aveva impugnato davanti al TAR Liguria la concessione edilizia n. 455 del 04.10.1995, rilasciata dal Sindaco del Comune di La Spezia alla società Termomeccanica, denunciando che il progetto assentito risultava sottoscritto da un geometra anziché da un ingegnere, nonostante la complessità dell’opera da realizzare, concernente la ristrutturazione con parziale demolizione di un capannone industriale in cemento armato di m. 37 x 636.
Il TAR con la sentenza in epigrafe ha accolto il ricorso dell’Ordine, ritenendo che l’opera progettata non potesse rientrare nella competenza del geometra sia per dimensioni (non trattandosi di modesta costruzione per avere una superficie di mq. 2.330 ed un volume di c.a. di mc. 21.000) sia in quanto l’opera da realizzare consisteva in un capannone industriale, implicante una destinazione alla produzione e quindi alla continua o saltuaria presenza di persone che dovevano lavorare nell’impianto.
Detta conclusione del TAR deve essere condivisa in quanto conforme all’orientamento di questa Sezione, da cui il Collegio non ha motivi per discostarsi.
Invero, è stato precisato che per gli edifici destinati a civile abitazione la competenza dei geometri è limitata alle sole costruzioni di modeste dimensioni, con divieto di progettare opere per cui vi sia impiego di cemento armato, tale da implicare in relazione alla destinazione dell’opera un pericolo per l’incolumità delle persone in caso di difetto strutturale, stante l’evidente favore che le varie norme pongono per la competenza esclusiva dei tecnici laureati (V. la decisione di questa Sezione n. 25 del 13.01.1999, nonché Cass. sez. II n. 15327 del 29.11.2000).
Inoltre, anche quando è stata ammessa la competenza del geometra per la progettazione di strutture civili in cemento armato, tale competenza è stata comunque limitata alle opere di dimensioni minori (V. la decisione di questo Consiglio, sez. IV n. n. 784 del del 09.08.1997).
Pertanto, per valutare l’idoneità del geometra a firmare il progetto di un’opera edilizia che comporta l’uso del cemento armato occorre considerare le specifiche caratteristiche dell’intervento al fine di ammetterla solo se si tratti di un’opera di modeste dimensioni (V. la decisione di questa Sezione n. 348 del 31.1.2001), aspetto che è già stato valutato negativamente dal TAR e che non è stato oggetto di specifica contestazione da parte dell’appellante.
Né vale sostenere che nella specie il geometra si sarebbe limitato alla redazione del progetto architettonico mentre la progettazione ed i calcoli, nonché la successiva direzione dei lavori, sarebbero stati effettuati da tecnici laureati, in quanto quello che rileva è che al momento del rilascio della concessione edilizia si è tenuto conto di un progetto redatto da geometra (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 01.12.2003 n. 7821 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: L'art. 3 della legge 05.11.1971 n. 1086, nello stabilire che, con riferimento alle opere di conglomerato cementizio armato, "il progettista ha la responsabilità diretta della progettazione di tutte le strutture dell'opera comunque realizzate", chiarisce il contenuto della responsabilità di chi redige il progetto, riferendola alla parte strutturale dell'opera intesa nella sua globalità, ma di certo non vieta né impedisce forme di cooperazione nell'ambito del lavoro progettuale.
Nel caso di specie, un ingegnere iscritto nel relativo albo ha sottoscritto il progetto qualificandosi come "progettista e direttore lavori delle opere strutturali", mentre un geometra ha aggiunto la sua firma in qualità di "tecnico", con ciò sottolineando la limitazione della responsabilità alla sola parte architettonica dell'opera stessa. È evidente, infatti, che l'esigenza, imposta dalla norma in discorso, di individuare un responsabile per quel che attiene agli aspetti strutturali del progetto, è ampiamente soddisfatta dalla formula qui impiegata.
Pertanto, avendo la presenza dell'ingegnere progettista delle opere strutturali assorbito per intero quella parte che poteva esorbitare dalla competenza professionale delle geometra, la contestazione circa l'inidoneità del geometra a sottoscrivere il progetto esaminato dal comune viene a cadere e, quindi, tale aspetto della vicenda non è suscettibile di incidere negativamente sulla legittimità dell'impugnata concessione edilizia.

Il Comune di Rocca San Giovanni, su richiesta della S.n.c. Panoramica, ha rilasciato in data 10.09.1992 la concessione edilizia n. 50 per la realizzazione di un fabbricato per civile abitazione, articolato su due piani e composto da cinque appartamenti, garage e cantine, su un'area confinante con un terreno di proprietà del signor Giovanni De Palma. Il progetto esaminato dalla commissione edilizia comunale venne sottoscritto dal geometra Donato De Simone e, nella qualità di progettista e direttore dei lavori delle opere strutturali, dall'ingegner Italo Bona.
Con sentenza n. 463 del 1995, il TAR Abruzzo, sezione staccata di Pescara, ha accolto il ricorso proposto dal signor De Palma per l'annullamento della concessione edilizia in questione, ritenendo fondato l'unico motivo di gravame con il quale veniva contestata la violazione delle norme sulla competenza professionale, prospettato secondo l’assunto che l'opera, per la sua consistenza e la previsione di strutture in cemento armato, esorbitava dai compiti affidati ai geometri e che nessun rilievo poteva essere attribuito "alla circostanza che i calcoli del cemento armato siano stati affidati a parte a un ingegnere..., giacché è il professionista incaricato della progettazione della direzione dei lavori che assume la responsabilità dell'intera costruzione e non gli eventuali suoi collaboratori (articolo 3 della legge 05.11.1971 n. 1086)."
La società Panoramica, con l'appello, contesta sotto i profili giuridico e fattuale la fondatezza dell'assunto e conclude chiedendo, in riforma della sentenza appellata, il rigetto del ricorso di primo grado.
...
La questione di fondo intorno alla quale ruota la controversia è quella di stabilire, alla luce delle norme che disciplinano la competenza professionale dei geometri e degli ingegneri, se siano configurabili situazioni di cooperazione professionale, in base alle quali questi professionisti possono assumere autonome responsabilità nell'ambito delle rispettive competenze professionali.
Secondo il primo giudice, ciò non sarebbe possibile "giacché è il professionista incaricato della progettazione e della direzione dei lavori che assume la responsabilità dell'intera costruzione e non gli eventuali suoi collaboratori (articolo 3 della legge 05.11.1971 n. 1086)."
La tesi non può essere condivisa.
La norma richiamata della sentenza appellata, nello stabilire che, con riferimento alle opere di conglomerato cementizio armato, "il progettista ha la responsabilità diretta della progettazione di tutte le strutture dell'opera comunque realizzate", chiarisce il contenuto della responsabilità di chi redige il progetto, riferendola alla parte strutturale dell'opera intesa nella sua globalità, ma di certo non vieta né impedisce forme di cooperazione nell'ambito del lavoro progettuale, quale quella che si è verificata nel caso di specie. Nel quale un ingegnere iscritto nel relativo albo ha sottoscritto il progetto qualificandosi come "progettista e direttore lavori delle opere strutturali", mentre un geometra ha aggiunto la sua firma in qualità di "tecnico", con ciò sottolineando la limitazione della responsabilità alla sola parte architettonica dell'opera stessa. È evidente, infatti, che l'esigenza, imposta dalla norma in discorso, di individuare un responsabile per quel che attiene agli aspetti strutturali del progetto, è ampiamente soddisfatta dalla formula qui impiegata.
Pertanto, avendo la presenza dell'ingegnere progettista delle opere strutturali assorbito per intero quella parte che poteva esorbitare dalla competenza professionale delle geometra, la contestazione circa l'inidoneità del geometra a sottoscrivere il progetto esaminato dal comune viene a cadere e, quindi, tale aspetto della vicenda non è suscettibile di incidere negativamente sulla legittimità dell'impugnata concessione edilizia (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 04.06.2003 n. 3068 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: La competenza dei geometri è limitata, per gli edifici destinati a civile abitazione, alle costruzioni di modeste dimensioni, e comunque sono precluse alla progettazione dei geometri le opere per cui vi sia impiego di cemento armato che possa comportare, in relazione alla destinazione dell'opera, pericolo per l'incolumità delle persone.
---------------
Risulta la preclusione, per i geometri, della progettazione di costruzioni di civile abitazione che accedano le "modeste dimensioni", o che abbiano comunque un'ossatura in cemento armato o in ferro potenzialmente pericolosa, in caso di difetto strutturale, per l'incolumità delle persone.
Queste previsioni normative generiche sono state specificate, dalla giurisprudenza, in relazione ad elementi quanti-qualitativi (e con rilievo prevalente degli indici del primo tipo ai fini dell'individuazione limite della "modesta entità" della costruzione).
Tra gli elementi quantitativi vengono in primo luogo in rilievo la volumetria dell'opera, quindi la sua altezza ed il numero di piani (si veda, in proposito, anche il limite di due indicato nel citato art. 57); tra quelli qualitativi, rileva in primo luogo "la circostanza che nel progetto venga o meno previsto l'impiego del cemento armato".
Dall'esegesi sistematica del R.D. 2229/1939 cit. e della legge 1086/1971 cit., la citata giurisprudenza ha tratto la conclusione che "non tutte le opere con impiego di cemento armato sono precluse alla progettazione dei geometri, ma solo quelle in cui, in relazione alla loro destinazione, il predetto impiego può comportare pericolo per la incolumità delle persone": il che tendenzialmente avviene per le costruzioni destinate a civile abitazione, progettate su più piani.
Per quanto invece attiene alla specificazione del limite quantitativo della "modesta entità" dell'opera -che comunque deve essere rispettato anche a prescindere da quanto si è sopra osservato a proposito della pericolosità della struttura portante in cemento armato- la citata giurisprudenza si è attestata sulla soglia discriminatoria dei 5.000 mc.
Trattasi, evidentemente, di un limite pratico che non ha carattere assoluto, ma che si combina con la valutazione dei menzionati elementi qualitativi dell'opera.
Mentre dunque anche un'opera di poco eccedente tale volumetria, la cui costruzione non preveda però l'uso del cemento armato o che non sia destinata a civile abitazione, può essere progettata da un geometra, al contrario invece la progettazione di una costruzione prossima a tale soglia, ma articolata su più piani, e dunque con struttura portante in cemento armato, comunque destinata all'abitazione delle persone, deve ritenersi riservata ai tecnici laureati (ingegneri ed architetti).
Nel caso di specie, si tratta di un progetto per la realizzazione di una costruzione di 5.138,80 mc., su tre piani, destinata anche a civile abitazione. Appare dunque evidente che si è ben al di là dei limiti della competenza progettuale dei geometri, per quali enucleati dalla giurisprudenza e sopra riassunti: e ciò sia sotto il profilo "quantitativo" sia sotto quello "qualitativo dell'entità e consistenza dell'opera.
Si aggiunga infine ad abundantiam, che nei casi dubbi vige un favor per la competenza esclusiva dei tecnici laureati (giustificato da evidenti ragioni di tutela della pubblica incolumità), dovendo in tali casi l'Amministrazione concedente "specificare nella concessione edilizia i motivi per cui (ritiene) sufficiente la redazione dei .... progetti da parte di un geometra", ed altresì "congruamente esplicitare le predette ragioni, almeno nei casi in cui le caratteristiche del progetto siano oggettivamente tali da far sorgere dubbi sui limiti delle competenze professionali del progettista".
Venendo quindi all'esame del primo motivo di appello, la Sezione rileva che nel caso di specie è stato presentato un progetto redatto da un geometra, anziché da un ingegnere o da un architetto, a corredo di una domanda di concessione edilizia per la realizzazione di un edificio avente volumetria pari a 5138,80 mc., sviluppato su tre piani.
In ordine ad esso, non può condividersi l'avviso espresso dal primo giudice, secondo cui la progettazione di tale opera rientra nella competenza professionale del geometra.
Secondo la giurisprudenza di questo Consiglio (C.d.S., V, 12.11.1985, n. 390), la competenza dei geometri è limitata, per gli edifici destinati a civile abitazione, alle costruzioni di modeste dimensioni, e comunque sono precluse alla progettazione dei geometri le opere per cui vi sia impiego di cemento armato che possa comportare, in relazione alla destinazione dell'opera, pericolo per l'incolumità delle persone.
Tale conclusione si fonda sulla base:
● dell'art. 16 del R.D. 11.02.1929, n. 274 (che determina "l'oggetto ed i limiti dell'esercizio professionale di geometra (tra l'altro) come segue: ....L) progetto, direzione, sorveglianza e liquidazione di costruzioni rurali e di edifici per uso d'industrie agricole, di limitata importanza, di struttura ordinaria, comprese piccole costruzioni accessorie in cemento armato, che non richiedono particolari operazioni di calcolo e per la loro destinazione non possono comunque implicare pericolo per la incolumità delle persone, .... M) progetto, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili");
● dell'art. 1 del R.D. 16.11.1939, n. 2229 (a norma del quale "ogni opera di conglomerato cementizio semplice od armato, la cui stabilità possa comunque interessare l'incolumità delle persone, deve essere costruita in base ad un progetto esecutivo firmato da un ingegnere, ovvero da un architetto iscritto nell'albo, nei limiti delle rispettive attribuzioni");
● degli artt. 1 e 2 della legge 05.11.1971, n. 1086 (per cui la costruzione delle "opere in conglomerato cementizio armato normale, ....(delle) opere in conglomerato cementizio armato precompresso, .... (delle) opere a struttura metallica", "deve avvenire in base ad un progetto esecutivo redatto da un ingegnere o architetto o geometra o perito industriale edile iscritti nel relativo albo, nei limiti delle rispettive competenze");
● dell'art. 57 della legge 02.03.1949, n. 144 (che, nel dettare le tariffe per le prestazioni dei geometri, ricomprende nelle loro competenze le "modeste costruzioni civili" e le "case d'abitazione comuni ed economiche, costruzioni asismiche a due piani senza ossatura in cemento armato o ferro").
Alla stregua di tali canoni normativi, e sulla base dell'orientamento giurisprudenziale di questo Consiglio sopra ricordato, risulta dunque la preclusione, per i geometri, della progettazione di costruzioni di civile abitazione che accedano le "modeste dimensioni", o che abbiano comunque un'ossatura in cemento armato o in ferro potenzialmente pericolosa, in caso di difetto strutturale, per l'incolumità delle persone.
Queste previsioni normative generiche sono state specificate, dalla giurisprudenza, in relazione ad elementi quanti-qualitativi (e con rilievo prevalente degli indici del primo tipo ai fini dell'individuazione limite della "modesta entità" della costruzione).
Tra gli elementi quantitativi vengono in primo luogo in rilievo la volumetria dell'opera, quindi la sua altezza ed il numero di piani (si veda, in proposito, anche il limite di due indicato nel citato art. 57); tra quelli qualitativi, rileva in primo luogo "la circostanza che nel progetto venga o meno previsto l'impiego del cemento armato" (C.d.S., V, 390/1985, cit.).
Dall'esegesi sistematica del R.D. 2229/1939 cit. e della legge 1086/1971 cit., la citata giurisprudenza ha tratto la conclusione che "non tutte le opere con impiego di cemento armato sono precluse alla progettazione dei geometri, ma solo quelle in cui, in relazione alla loro destinazione, il predetto impiego può comportare pericolo per la incolumità delle persone": il che tendenzialmente avviene per le costruzioni destinate a civile abitazione, progettate su più piani.
Per quanto invece attiene alla specificazione del limite quantitativo della "modesta entità" dell'opera -che comunque deve essere rispettato anche a prescindere da quanto si è sopra osservato a proposito della pericolosità della struttura portante in cemento armato- la citata giurisprudenza si è attestata sulla soglia discriminatoria dei 5.000 mc.
Trattasi, evidentemente, di un limite pratico che non ha carattere assoluto, ma che si combina con la valutazione dei menzionati elementi qualitativi dell'opera.
Mentre dunque anche un'opera di poco eccedente tale volumetria, la cui costruzione non preveda però l'uso del cemento armato o che non sia destinata a civile abitazione, può essere progettata da un geometra, al contrario invece la progettazione di una costruzione prossima a tale soglia, ma articolata su più piani, e dunque con struttura portante in cemento armato, comunque destinata all'abitazione delle persone, deve ritenersi riservata ai tecnici laureati (ingegneri ed architetti).
Nel caso di specie, si tratta di un progetto per la realizzazione di una costruzione di 5.138,80 mc., su tre piani, destinata anche a civile abitazione. Appare dunque evidente che, contrariamente a quanto opinato dal primo giudice, si è ben al di là dei limiti della competenza progettuale dei geometri, per quali enucleati dalla giurisprudenza e sopra riassunti: e ciò sia sotto il profilo "quantitativo" sia sotto quello "qualitativo dell'entità e consistenza dell'opera.
Si aggiunga infine ad abundantiam, che -sempre alla stregua del citato orientamento giurisprudenziale di questo Consiglio, dal quale il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi- nei casi dubbi (tra cui quello in esame, alla stregua dei rilievi svolti, neppure potrebbe rientrare) vige un favor per la competenza esclusiva dei tecnici laureati (giustificato da evidenti ragioni di tutela della pubblica incolumità), dovendo in tali casi l'Amministrazione concedente "specificare nella concessione edilizia i motivi per cui (ritiene) sufficiente la redazione dei .... progetti da parte di un geometra", ed altresì "congruamente esplicitare le predette ragioni, almeno nei casi in cui le caratteristiche del progetto siano oggettivamente tali da far sorgere dubbi sui limiti delle competenze professionali del progettista" (così C.d.S., V, 390/1985, cit.).
Nessun dubbio dunque può residuare circa il fatto che la progettazione dell'opera del cui assentimento si tratta trascenda la competenza professionale di un geometra, con l'effetto che il diniego di concessione edilizia fondato su tale motivo -ed impugnato in primo grado con il ricorso n. 1811/1989- era legittimo (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.01.1999 n. 25).

AGGIORNAMENTO AL 05.03.2012

ã

Ma non bastava la delibera di Giunta ??

     Non c'è comune, o quasi, che non abbia sul proprio territorio un chiosco di giornali ovvero di vendita fiori (all'esterno del cimitero) posato su suolo pubblico comunale. Ultimamente, poi, nascono come funghi quelle belle casette di legno, e non, per la vendita automatizzata del latte fresco appena munto ovvero dell'acqua frizzante di acquedotto ovvero dei detersivi alla spina.
     Non c'è che dire: una bella iniziativa a favore della cittadinanza, condivisa e messa in atto il più delle volte solo dalla Giunta Comunale la quale, con propria deliberazione, autorizza l'installazione del manufatto prefabbricato in questione su suolo pubblico comunale facendo pagare (non sempre !!) la relativa TOSAP annuale da iscriversi a ruolo. E ciò, spesso e volentieri, si verifica senza che l'U.T.C. ne sia preventivamente al corrente.
     Orbene, provate a leggere la sentenza sotto riportata.


EDILIZIA PRIVATA
Per l'apertura di un chiosco su suolo pubblico, adibito a rivendita di giornali, non è sufficiente il provvedimento di concessione per l’occupazione di detto suolo ma occorre l’ulteriore ed autonomo titolo edilizio.
La nozione di costruzione, per cui si richiede il rilascio del titolo abilitativo in questione (permesso di costruire), si identifica con qualsiasi trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, intesa come modifica dello stato dei luoghi caratterizzata da stabilità, a prescindere dai materiali usati, quando si tratti di soddisfare esigenze non precarie del soggetto che tale trasformazione ponga in essere.

La questione sottoposta all’esame del Collegio concerne l’ordine di immediata rimozione di un chiosco, adibito a rivendita di giornali, emesso dal Comune di Mazzano Romano in data 19.07.2011, nonché del parere del Ministero per i Beni Culturali ed Ambientali-Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le Province di Roma, Frosinone, Latina, Rieti e Viterbo, emesso il 29.11.2010.
...
Contrariamente a quanto sostenuto nell’appello, infatti, per l’esecuzione di opere su suolo di proprietà pubblica non è sufficiente il provvedimento di concessione per l’occupazione di detto suolo, ma occorre l’ulteriore ed autonomo titolo edilizio, che opera su un piano diverso –e risponde a diversi presupposti– rispetto sia all’atto che accorda l’utilizzo a fini privati di una determinata porzione di terreno di proprietà pubblica, sia ad altri atti autorizzativi eventualmente necessari (come, per quanto qui interessa, l’autorizzazione commerciale per la vendita di determinati prodotti).
La nozione di costruzione, per cui si richiede il rilascio del titolo abilitativo in questione (permesso di costruire), si identifica d’altra parte con qualsiasi trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, intesa come modifica dello stato dei luoghi caratterizzata da stabilità, a prescindere dai materiali usati, quando si tratti di soddisfare esigenze non precarie del soggetto che tale trasformazione ponga in essere (cfr. in tal senso, fra le tante, Cons. St., sez. VI, 27.01.2003, n. 419)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.02.2012 n. 1106 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

 

     Invero, possiamo affermare tranquillamente "niente di nuovo sotto il sole": la questione era abbastanza chiara anni addietro ma ci sono ancora oggi amministratori locali che sono sordi (o, peggio ancora, che non vogliono sentire ...) a fronte di puntuale informativa dell'UTC, anche se ex post ... perché la 1^ Repubblica mica è morta: anzi, è più che mai prospera e imperante, alla faccia della separazione delle competenze tra apparato politico e apparato gestionale.
     E se qualcuno si ostinasse a dire che tali manufatti sono, di fatto, precari e come tali non abbisognano del permesso di costruire lo invitiamo a leggere la sentenza (una delle tante in materia) qui sotto riportata:


EDILIZIA PRIVATA
: Opere precarie, requisiti.
La natura precaria di un intervento edilizio non coincide "con la temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dal costruttore, ma deve ricollegarsi alla intrinseca destinazione materiale dell'opera ad un uso realmente precario e temporaneo, per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con conseguente possibilità di successiva e sollecita eliminazione".
Non sussiste coincidenza fra precarietà e stagionalità dell'opera, posto che le opere stagionali sono destinate a soddisfare bisogni che si perpetuano nel tempo, anche se in determinati periodi dell'anno, e come tali costituiscono interventi che incidono sui beni tutelati dalla legislazione edilizia e necessitano di permesso di costruire.
La natura precaria di una costruzione non dipende dalla natura dei materiali adottati e quindi dalla facilità della rimozione, ma dalle esigenze che il manufatto è destinato a soddisfare e cioè alla stabilità dell'insediamento, indicativa dell'impegno effettivo e durevole del territorio.
La Corte deve ricordare che la giurisprudenza di questa Sezione afferma costantemente che:
● la natura precaria di un intervento edilizio non coincide "con la temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dal costruttore, ma deve ricollegarsi alla intrinseca destinazione materiale dell'opera ad un uso realmente precario e temporaneo, per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con conseguente possibilità di successiva e sollecita eliminazione" (Sezione Terza Penale, sentenza 27.05.2004, Polito).
● Sotto diverso profilo, non sussiste coincidenza fra precarietà e stagionalità dell'opera, posto che le opere stagionali sono destinate a soddisfare bisogni che si perpetuano nel tempo, anche se in determinati periodi dell'anno, e come tali costituiscono interventi che incidono sui beni tutelati dalla legislazione edilizia e necessitano di permesso di costruire (Terza Sezione Penale, sentenza n. 35498 del 06.07.2007, Filigrana; sentenza n. 12428 del 07.02.2008, Fioretti).
● Inoltre, è stato affermato che "la natura precaria di una costruzione non dipende dalla natura dei materiali adottati e quindi dalla facilità della rimozione, ma dalle esigenze che il manufatto è destinato a soddisfare e cioè alla stabilità dell'insediamento, indicativa dell'impegno effettivo e durevole del territorio" (Terza Sezione Penale, sentenza n. 12428 del 07.02.2008, Fioretti; sentenza del 27.05.2004, Polito; Cons. Stato, Sez. 5, sentenza n. 3321 del 15.06.2000) (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 16.01.2012 n. 1191
).
 

     E adesso, tutte quelle belle casette prefabbricate citate in premessa costruite in forza della sola delibera di Giunta Comunale, e non anche del necessario e legittimante permesso di costruire, che fine fanno ?? Chi versa, nelle casse comunali, il mancato pagamento degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione ?? Chi ordina la demolizione di quei manufatti abusivi ?? Chi risponde dell'eventuale risarcimento del danno che subirà la ditta installatrice ??

05.03.2012 - LA SEGRETERIA PTPL

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: Benefici per il personale dipendente dell’Istituto impegnato nell’assistenza di un soggetto affetto da grave disabilità. Art. 42, comma 5, del decreto legislativo 26.03.2001, n. 151 - congedo straordinario retribuito. Art. 4, comma 2, della legge 08.03.2000, n. 53 – congedo (INPS, circolare 28.02.2012 n. 28 - link a www.inps.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI - VARI: G.U. 02.03.2012 n. 52 "Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento" (D.L. 02.03.2012 n. 16).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia n. 9 del 02.03.2012 "Istruzioni per la pianificazione locale della RER – febbraio 2012" (comunicato regionale 27.02.2012 n. 25).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

AMBIENTE-ECOLOGIA: C. Bovino, Mud 2012, dichiarazione Sistri e D.M. n. 219/2011: tutte le novità (link a www.ipsoa.it).

APPALTI: N. Bettoli e F. Scabbia, Breve excursus sull’istituto dell’avvalimento (link a www.diritto.it).

CORTE DEI CONTI

INCARICHI PROFESSIONALI: Sul danno erariale cagionato dal sindaco per aver affidato ad un professionista esterno l'incarico di responsabile dell'U.T.C..
Nell’ordinamento vigente non sussiste un generale divieto per la P.A. di ricorrere a collaborazioni esterne o a contratti di durata o, ancora, a consulenze per far fronte ad esigenze particolari, ma che l’utilizzo di personale esterno alla Pubblica amministrazione non può concretizzarsi se non nel rispetto di determinate condizioni e limiti previsti espressamente dal legislatore e, specificatamente, dall’art. 7 del D.lgs. 03.02.1993 n. 29 (“6. Ove non siano disponibili figure professionali equivalenti, le amministrazioni pubbliche possono conferire incarichi individuali ad esperti di provata competenza, determinando preventivamente durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione”), dall’art. 110 del TUEL (“1. Lo statuto può prevedere che la copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, possa avvenire mediante contratto a tempo determinato di diritto pubblico o, eccezionalmente e con deliberazione motivata, di diritto privato, fermi restando i requisiti richiesti dalla qualifica da ricoprire. 2. Il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, negli enti in cui è prevista la dirigenza, stabilisce i limiti, i criteri e le modalità con cui possono essere stipulati, al di fuori della dotazione organica, contratti a tempo determinato per i dirigenti e le alte specializzazioni, fermi restando i requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire….Per obiettivi determinati e con convenzioni a termine, il regolamento può prevedere collaborazioni esterne ad alto contenuto di professionalità”) e dall’art. 7 del Decreto legislativo 30/03/2001 n. 165 (“6. Per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, le amministrazioni pubbliche possono conferire incarichi individuali ad esperti di provata competenza, determinando preventivamente durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione”).
I limiti contenuti nelle disposizioni sopra indicate trovano la propria ratio nella necessità di evitare il conferimento generalizzato di consulenze esterne, l'assunzione di personale in assenza di condizioni legittimanti, l’aggravio di costi inutili ed eccessivi per i pubblici bilanci e la violazione di norme cogenti le quali richiedono, per l'accesso alla pubblica amministrazione, una selezione di più candidati preceduta da adeguata pubblicità del bando e svolgimento di una procedura concorsuale.
La giurisprudenza ha, inoltre, da tempo, affermato il principio secondo cui ogni ente pubblico deve provvedere ai propri compiti con la propria organizzazione e il proprio personale e la possibilità di far ricorso a personale esterno può essere ammessa soltanto nei limiti e alle condizioni in cui la legge lo preveda o anche quando sia impossibile provvedere altrimenti ad esigenze eccezionali e impreviste, di natura transitoria.
---------------
L’incarico conferito ad un professionista esterno alla p.a. a far data dal 1998 (per carenza di personale qualificato), prorogato di anno in anno ... e, quindi, attribuito nuovamente quale incarico di alto contenuto professionale al di fuori della dotazione organica, a tempo determinato e tempo parziale in qualità di funzionario tecnico responsabile dell'ufficio tecnico servizio lavori pubblici e urbanistica (...) a decorrere dalla data dell'01.10.2002 per la durata del mandato elettorale pari ad anni 5 e poi ancora prorogato, non solo non può ritenersi temporaneo e predeterminato quanto alla sua durata, ma non può certamente definirsi come un incarico di alta specializzazione in quanto concernente compiti ordinari di un dipendente comunale inquadrato nella pianta organica (precedentemente svolti dal geometra ...).
L’attribuzione di tale incarico -configurabile come una sorta di contraddittoria e inammissibile commistione tra le distinte ipotesi disciplinate dall'art. 110 TUEL ai commi 1 (incarichi temporanei per la copertura di posti di responsabili dei servizi), 2 (incarichi al di fuori della dotazione organica conferiti con contratti a tempo determinato per i dirigenti e le alte specializzazioni) e 3 (collaborazioni esterne ad alto contenuto di professionalità per obiettivi determinati e conferiti con convenzioni a termine)– presupponeva una coerente qualificazione e soprattutto una congrua e ragionevole motivazione che giustificasse il ricorso al personale esterno.
Non può non convenirsi con la Procura regionale laddove ha evidenziato come il contratto del 2002 stipulato con l’ing. ... “non si configurava come un fatto eccezionale adottato per raggiungere uno specifico obiettivo, bensì come un'assunzione di fatto del tecnico all'interno della dotazione organica del personale dell'amministrazione comunale (senza alcun concorso) …”.
Andavano, infatti, specificati, come richiesto dall’art. 51 del regolamento comunale, l'oggetto dell'incarico (individuato genericamente, in contratto, quale “responsabile dell’UTC” ), il contenuto delle prestazioni (indicate approssimativamente nelle “mansioni inerenti alle attività ricomprese nella declaratoria della categoria”), le modalità di svolgimento delle stesse (“da svolgere, come da contratto, nei luoghi e nei tempi in cui il dipendente, di concerto con l’Amministrazione, riterrà opportuni…"), gli obiettivi da perseguire (nella specie, non precisati), l'ammontare del compenso, l'inizio e la durata dell'incarico.
Tali rilevanti carenze contenutistiche risultano vieppiù evidenti laddove l’incarico in parola veniva contraddittoriamente definito come “al di fuori della dotazione organica”, “ad alto contenuto professionale” (quando, invece, si trattava di svolgere attività amministrative ordinarie) e veniva, su tale inconsistente presupposto, indebitamente compensato con l'indennità ad personam stabilita dal citato art. 110 del D.lgvo n. 267 del 2000, oltre alla normale retribuzione prevista dal CCNL.
---------------
Le modalità con cui si è svolta la vicenda evidenziano una condotta gravemente colposa del sindaco in quanto posta in essere in violazione della normativa di riferimento.
Infatti, il sindaco conferiva e rinnovava -immotivatamente (nonostante le doglianze sollevate dal dipendente geom. ...)- l’incarico al professionista esterno a cui veniva affidato, nell’ambito della nuova pianta organica (la quale prevedeva –in un Comune di modeste dimensioni quale quello di Balsorano- lo sdoppiamento dell’Ufficio Tecnico in Servizio LL.PP. e Servizio Urbanistica), la responsabilità di entrambi i servizi tecnici nonostante l’espressa attribuzione del livello D1 del Servizio Lavori Pubblici al geom. ... il quale aveva svolto in passato entrambe le funzioni poi affidate all’ing. ....
---------------
FATTO
1.
Con la sentenza impugnata, la Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per l’Abruzzo, condannava il sig. ..., in qualità di sindaco del Comune di Balsorano, al risarcimento del danno -in favore del predetto ente- di euro 40.000, comprensivi di interessi legali, per aver stipulato un illegittimo contratto di lavoro subordinato con l’ing. ....
Al riguardo, veniva evidenziato che il predetto ingegnere era stato assunto dal Comune (a seguito di accordo sottoscritto il 10.09.2002) con mansioni, a tempo determinato e parziale, di funzionario tecnico responsabile dell'Ufficio tecnico comunale a decorrere dall'01.10.2002 e che, per tale incarico, della durata di cinque anni, il sig. ..., oltre al normale trattamento economico, aveva percepito (come da delibera di G.C. n. 95 del 10.09.2002) un'indennità ad personam di euro 2.000,00 per 12 mensilità a fronte di un’attività lavorativa "con percentuale oraria di lavoro dei 5/6 dell'orario a tempo pieno".
Il Collegio, nel rilevare che il predetto professionista era già stato reclutato negli anni precedenti (delibera di Giunta n. 169 del 22.09.1998) e che l'incarico era stato tacitamente prorogato anno per anno con incremento dell'orario lavorativo (nonché protratto negli anni successivi allo scadere del mandato del sindaco ...), rilevava che l'assunzione -pur facendo espresso riferimento all'art. 110 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali reso con decreto legislativo n. 267 del 2000- in realtà non poteva dirsi legittima.
Riteneva, infatti, che l’affidamento dell’incarico non potesse configurarsi né come consulenza esterna (mancandone i presupposti della temporaneità e della eccezionalità e predefinizione dei contenuti), né come incarico di lavoro dipendente a tempo determinato non essendo prescritta l'osservanza di un orario di lavoro predefinito dal datore né effettuata la preliminare selezione di più candidati con adeguata pubblicità del bando e svolgimento di una procedura concorsuale.
La Sezione, rilevato un evidente contrasto con la normativa di settore (art. 7 del d.lgvo n. 29 del 1993; art. 110 del TUEL; art. 7 del d. lgvo n. 165 del 2001), riteneva che il sindaco ... fosse stato il regista di tutta la vicenda protrattasi per lunghi anni e che la sua condotta dovesse essere censurata sotto il profilo della colpa grave tenuto conto, anche, che lo stesso “non ebbe mai a riconsiderare i presupposti dell'incarico, nonostante i continui esposti e le doglianze del geometra dell'ufficio tecnico comunale”.
...
DIRITTO
1. Va, preliminarmente, disposta la riunione in rito degli appelli indicati in epigrafe ai sensi dell’art. 335 c.p.c., in quanti proposti avverso la stessa sentenza.
2. Per ragione di ordine logico, il Collegio ritiene, quindi, di esaminare, innanzitutto, i motivi d'appello formulati dal sig. ... ed, in primis, quelli di rito.
2.1. Con riferimento, quindi, all'eccepita nullità della sentenza per violazione dell'art. 163, n. 7 c.p.c. e art. 38 c.p.c. (mancato avvertimento delle decadenze relative alla tardiva costituzione del convenuto), si rileva che, come da consolidata giurisprudenza di questa Corte, le citate disposizioni non possono trovare applicazione nel giudizio di responsabilità in quanto lo stesso risulta strutturato in maniera diversa da quello civile essendo di competenza del Presidente della Sezione fissare il giorno dell’udienza di trattazione della causa ed il termine per la costituzione del convenuto (art. 5 del d.l. n. 453/1993, convertito dalla l. n. 19/1994).
Ciò rende inapplicabile al processo contabile il disposto di cui all'art. 163, n. 7 c.p.c, che impone all'attore di indicare nell'atto di citazione il giorno dell'udienza con l'invito al convenuto di costituirsi nel termine di venti giorni prima della data della stessa udienza, ovvero dieci giorni prima, in caso di abbreviazione del termine, con l'avvertimento che la costituzione tardiva comporta le decadenze di cui all'art. 167 cit..
2.2. Quanto alla nullità della sentenza per nullità dell’attività istruttoria della Procura posta in essere in assenza di una specifica notizia di danno, va considerato che la doglianza, pur ammissibile (in quanto “può essere fatta valere in ogni momento, da chiunque vi abbia interesse”) ai sensi dell’art. 17, comma 30-ter, del decreto legge 01/07/2009, n. 78, conv. in legge 03/08/2009, n. 102, nel testo modificato dal decreto–legge 03/08/2009, n. 103, contenente “Disposizioni correttive del decreto–legge anticrisi n. 78 del 2009, convertito nella legge 141/2009”, è infondata (“Le Procure della Corte dei Conti possono iniziare l’attività istruttoria ai fini dell'esercizio dell'azione di danno erariale a fronte di specifica e concreta notizia di danno, fatte salve le fattispecie direttamente sanzionate dalla legge. Qualunque atto istruttorio o processuale posto in essere in violazione delle disposizioni di cui al presente comma, salvo che sia stata già pronunciata sentenza anche non definitiva alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, è nullo e la relativa nullità può essere fatta valere in ogni momento, da chiunque vi abbia interesse, innanzi alla competente Sezione Giurisdizionale della Corte dei Conti, che decide nel termine perentorio di 30 giorni dal deposito della richiesta”).
Dall’esame del fascicolo processuale emerge, chiaramente, che l’attività istruttoria e processuale, posta in essere dalla Procura e censurata con l’appello incidentale, ha avuto origine da una specifica segnalazione, da parte del geometra del Comune di Balsorano, sig. ..., in ordine alla fattispecie ora al vaglio del Giudicante.
Dal tenore della denuncia (allegata agli atti di causa), si ritiene che la stessa integri una notizia concreta e specifica di danno.
Al riguardo, è stato più volte chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte che ogni valutazione circa la sussistenza degli elementi necessari (condizioni dell’azione) per l’esercizio dell’azione di responsabilità (danno certo ed attuale, individuazione dei presunti responsabili, valutazione della condotta e dell’elemento soggettivo della colpa grave, nesso di causalità), spetta esclusivamente all’organo inquirente nell’ambito delle funzioni istituzionali assegnategli, all’uopo comprensive di specifiche e dettagliate competenze istruttorie riconosciutegli dalla normativa vigente (e consistenti nella possibilità di chiedere in comunicazione atti e documenti, di disporre audizioni personali, perizie e consulenze, sequestro di documenti, delega di adempimenti istruttori a funzionari delle pubbliche amministrazioni, ispezioni e accertamenti diretti presso pubbliche amministrazioni ex artt. 74 TU 1214/1934, 2, comma 4, e 5, comma 6 della legge n. 19 del 1994, 16, comma 3, del d.l. n. 152/1991 conv. in legge n. 203/1991).
Ne consegue che la denuncia in parola –circostanziata quanto alla vicenda descritta- ben rappresenta una concreta e specifica notizia di danno in ragione della quale la Procura era legittimata ad attivare l’attività istruttoria di competenza con la conseguenza che, né questa, né i successivi atti pre-processuali (invito a dedurre) e processuali (atto di citazione in giudizio), possono ritenersi affetti da alcun vizio ai sensi dell’art. 17, comma 30–ter, citato.
2.3. Dev’essere, quindi, affrontata, l'eccezione di prescrizione sollevata dalla difesa del sig. ....
Orbene, non solo la prescrizione (diversamente da quanto sostenuto dall’appellato–appellante incidentale) non è rilevabile d’ufficio ai sensi dell’art. 2938 cc., ma il motivo di censura deve ritenersi inammissibile ai sensi dell'art. 345, comma 2, c.p.c. , perché proposto per la prima volta in appello.
La circostanza che il sig. ... sia stato contumace in primo grado non assume, infatti, alcun rilievo in ordine all’ammissibilità della stessa tenuto conto che “la parte rimasta contumace in primo grado non può godere, nel giudizio di appello, di diritti processuali più ampi di quelli spettanti alla parte ritualmente costituita in quel primo giudizio, e deve, conseguentemente, accettare il processo nello stato in cui si trova, con tutte le preclusioni e decadenze già verificatesi” (Cass. civ., sez. I, 04.05.1998, n. 4404).
2.4. In ordine, poi, alla doglianza relativa all’errata interpretazione dell’art. 110 D.lgs. n. 267/2000 e degli artt. 36, 49, 51, 53 del Regolamento di organizzazione degli Uffici e dei Servizi del Comune di Balsorano, il Collegio ritiene necessario sottolineare, innanzitutto, come la ricostruzione della vicenda operata dalla Sezione Territoriale non solo trovi pieno riscontro negli atti di causa, ma assuma rilevanza al fine di valutare in concreto se la condotta in contestazione possa ritenersi conforme al dettato legislativo.
Va, senz'altro, considerato che nell’ordinamento vigente non sussiste un generale divieto per la P.A. di ricorrere a collaborazioni esterne o a contratti di durata o, ancora, a consulenze per far fronte ad esigenze particolari, ma che l’utilizzo di personale esterno alla Pubblica amministrazione non può concretizzarsi se non nel rispetto di determinate condizioni e limiti previsti espressamente dal legislatore e, specificatamente, dall’art. 7 del Decreto legislativo 03.02.1993 n. 29 (“6. Ove non siano disponibili figure professionali equivalenti, le amministrazioni pubbliche possono conferire incarichi individuali ad esperti di provata competenza, determinando preventivamente durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione”), dall’art. 110 del TUEL (“1. Lo statuto può prevedere che la copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, possa avvenire mediante contratto a tempo determinato di diritto pubblico o, eccezionalmente e con deliberazione motivata, di diritto privato, fermi restando i requisiti richiesti dalla qualifica da ricoprire. 2. Il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, negli enti in cui è prevista la dirigenza, stabilisce i limiti, i criteri e le modalità con cui possono essere stipulati, al di fuori della dotazione organica, contratti a tempo determinato per i dirigenti e le alte specializzazioni, fermi restando i requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire….Per obiettivi determinati e con convenzioni a termine, il regolamento può prevedere collaborazioni esterne ad alto contenuto di professionalità”) e dall’art. 7 del Decreto legislativo 30/03/2001 n. 165 (“6. Per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, le amministrazioni pubbliche possono conferire incarichi individuali ad esperti di provata competenza, determinando preventivamente durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione”).
I limiti contenuti nelle disposizioni sopra indicate trovano la propria ratio nella necessità di evitare il conferimento generalizzato di consulenze esterne, l'assunzione di personale in assenza di condizioni legittimanti, l’aggravio di costi inutili ed eccessivi per i pubblici bilanci e la violazione di norme cogenti le quali richiedono, per l'accesso alla pubblica amministrazione, una selezione di più candidati preceduta da adeguata pubblicità del bando e svolgimento di una procedura concorsuale.
La giurisprudenza ha, inoltre, da tempo, affermato il principio secondo cui ogni ente pubblico deve provvedere ai propri compiti con la propria organizzazione e il proprio personale e la possibilità di far ricorso a personale esterno può essere ammessa soltanto nei limiti e alle condizioni in cui la legge lo preveda o anche quando sia impossibile provvedere altrimenti ad esigenze eccezionali e impreviste, di natura transitoria.
Nel caso di specie, l’incarico conferito all’ing. ... a far data dal 1998 (per carenza di personale qualificato), prorogato di anno in anno (delibere di Giunta comunale n. 169 del 22.09.1998, n. 271 del 27.12.2000, n. 230 del 29.11.2001) e, quindi, attribuito nuovamente quale incarico di alto contenuto professionale al di fuori della dotazione organica, a tempo determinato e tempo parziale in qualità di funzionario tecnico responsabile dell'ufficio tecnico servizio lavori pubblici e urbanistica (...) a decorrere dalla data dell'01.10.2002 per la durata del mandato elettorale pari ad anni 5 (contratto individuale di lavoro sottoscritto il 10.09.2002) e poi ancora prorogato (delibera G.C. n. 105 del 2007), non solo non può ritenersi temporaneo e predeterminato quanto alla sua durata, ma non può certamente definirsi come un incarico di alta specializzazione in quanto concernente compiti ordinari di un dipendente comunale inquadrato nella pianta organica (precedentemente svolti dal geometra ...).
L’attribuzione di tale incarico -configurabile come una sorta di contraddittoria e inammissibile commistione tra le distinte ipotesi disciplinate dall'art. 110 TUEL ai commi 1 (incarichi temporanei per la copertura di posti di responsabili dei servizi), 2 (incarichi al di fuori della dotazione organica conferiti con contratti a tempo determinato per i dirigenti e le alte specializzazioni) e 3 (collaborazioni esterne ad alto contenuto di professionalità per obiettivi determinati e conferiti con convenzioni a termine)– presupponeva una coerente qualificazione e soprattutto una congrua e ragionevole motivazione che giustificasse il ricorso al personale esterno.
Non può non convenirsi con la Procura regionale laddove ha evidenziato come il contratto del 2002 stipulato con l’ing. ... “non si configurava come un fatto eccezionale adottato per raggiungere uno specifico obiettivo, bensì come un'assunzione di fatto del tecnico all'interno della dotazione organica del personale dell'amministrazione comunale (senza alcun concorso) …”.
Andavano, infatti, specificati, come richiesto dall’art. 51 del regolamento comunale, l'oggetto dell'incarico (individuato genericamente, in contratto, quale “responsabile dell’UTC” ), il contenuto delle prestazioni (indicate approssimativamente nelle “mansioni inerenti alle attività ricomprese nella declaratoria della categoria”), le modalità di svolgimento delle stesse (“da svolgere, come da contratto, nei luoghi e nei tempi in cui il dipendente, di concerto con l’Amministrazione, riterrà opportuni…"), gli obiettivi da perseguire (nella specie, non precisati), l'ammontare del compenso, l'inizio e la durata dell'incarico.
Tali rilevanti carenze contenutistiche risultano vieppiù evidenti laddove l’incarico in parola veniva contraddittoriamente definito come “al di fuori della dotazione organica”, “ad alto contenuto professionale” (quando, invece, si trattava di svolgere attività amministrative ordinarie) e veniva, su tale inconsistente presupposto, indebitamente compensato con l'indennità ad personam stabilita dal citato art. 110 del D.lgvo n. 267 del 2000, oltre alla normale retribuzione prevista dal CCNL.
---------------
2.5. Quanto alla rilevata “erroneità dell'impugnata sentenza per violazione dell'art. 1, comma 1, legge 19/01/1994 n. 20 (…) mancando, nel caso di specie, il dolo e la colpa grave per l’addebitabilità del presunto danno erariale al ...”, il Collegio ritiene, viceversa, che le modalità con cui si è svolta la vicenda evidenzino una condotta gravemente colposa del sindaco in quanto posta in essere in violazione della normativa di riferimento.
Il sig. ..., come evidenziato in sentenza, conferiva e rinnovava -immotivatamente (nonostante le doglianze sollevate dal dipendente ...)- l’incarico al professionista esterno a cui veniva affidato, nell’ambito della nuova pianta organica (la quale prevedeva –in un Comune di modeste dimensioni quale quello di Balsorano- lo sdoppiamento dell’Ufficio Tecnico in Servizio LL.PP. e Servizio Urbanistica), la responsabilità di entrambi i servizi tecnici (vedasi contratto e delibera n. 230 del 29.11.2001) nonostante l’espressa attribuzione del livello D1 del Servizio Lavori Pubblici al geom. ... (vedasi all. 4 delibera n. 184 del 24.08.2000) il quale aveva svolto in passato entrambe le funzioni poi affidate all’ing. ... (delibera n. 169 del 22.08.1998) (Corte dei Conti, Sez. III giurisdiz. centrale d'appello, sentenza 08.02.2012 n. 66 - link a www.corteconti.it).

NEWS

SEGRETARI COMUNALIUna casta nascosta: i segretari comunali.
Non si parla mai della Casta dei segretari comunali, notai dei comuni i quali raggiungono stipendi mensili da capogiro e fanno le delibere un tempo con la carta carbone, oggi con il copia e incolla.
Non sarebbe il caso di chiamarli quando non si possono risolvere i problemi e pagarli a ore? Visto che, peraltro, riescono ad esercitare anche in 15 comuni contestualmente ... (articolo Libero del 03.03.2012 - tratto da  www.ecostampa.it).

ENTI LOCALIVigili e prof, assunzioni senza tetti. I contratti a termine non sono soggetti al limite del 50%. Nel milleproroghe molte novità sul personale. Ma le sezioni della Corte conti sollevano dubbi.
Le assunzioni a tempo determinato dei vigili urbani e del personale educativo e docente degli enti locali non sono soggette nell'anno 2012 al tetto del 50% della spesa del personale flessibile assunto dallo stesso ente nell'anno 2009 o, in mancanza, nel triennio 2007/2009.
È questa, unitamente alla proroga per tutto il 2012 della validità delle graduatorie per le assunzioni a tempo indeterminato approvate dopo il 30.09.2003, la più importante novità dettata in materia di personale dalla legge n. 14/2012 di conversione del decreto cosiddetto milleproroghe.
Con questo chiarimento viene consentita un'importante eccezione al nuovo e assai rigido limite alle assunzioni flessibili negli enti locali. Ma non vengono risolti i numerosi dubbi che la norma solleva e su cui i pareri delle sezioni regionali della Corte dei conti fin qui adottati sono assai diversificati, dubbi per risolvere i quali la sezione di controllo della Corte dei conti della Lombardia (parere n. 36/2012) ha investito le sezioni riunite.
È opportuno precisare subito che gli enti locali, in virtù del carattere di principio della disposizione, possono derogare al tetto di spesa fissato dall'articolo 9 comma 28, da una parte per le assunzioni a tempo determinato, con convenzioni e gli incarichi di collaborazione coordinata e continuativa e dall'altra per i contratti di somministrazione, il lavoro accessorio, i contratti di formazione e lavoro e gli altri rapporti formativi. Tale deroga non può sicuramente operare né per aumentare la soglia massima della spesa consentita, né per introdurre eccezioni (tanto più dopo che queste sono state dettate espressamente dal legislatore), ma per prevedere che il tetto del 50% di quanto speso nel 2009 sia calcolato in modo unitario sul totale di queste voci e non in modo segmentato per singole voci e/o per i due blocchi previsti dalla disposizione legislativa.
La deroga concessa per il 2012 alle assunzioni a tempo determinato dei vigili urbani risolve il dubbio se quelle finanziate con una quota dei proventi derivanti dalla inosservanza del codice della strada sfuggano o meno al vincolo di spesa. Per la sezione regionale di controllo della Corte dei conti della Toscana, parere n. 10/2012, questi oneri non devono essere inclusi nel tetto alla spesa per le assunzioni flessibili.
La tesi diametralmente opposta è stata fatta propria della sezione regionale di controllo della Lombardia, parere n. 21/2012. Il chiarimento si impone comunque per una questione più ampia: se si possono escludere dal tetto di spesa tutte le assunzioni flessibili i cui oneri sono sostenuti da altre amministrazioni, dall'Unione europea o dai privati, anche alla luce della pronuncia resa dalle sezioni riunite di controllo della Corte dei conti, deliberazione n. 7/2011, per la quale ai fini della determinazione del tetto alla spesa per gli incarichi di consulenza vanno esclusi «dal computo gli oneri coperti mediante finanziamenti aggiuntivi e specifici trasferiti da altri soggetti pubblici o privati».
Un altro punto di grande rilievo da chiarire è che cosa devono fare le amministrazioni locali, il che capita in particolare in piccoli comuni, che non hanno avuto né nel 2009, né nel triennio 2007-2009, spese per le assunzioni flessibili, tanto più se le stesse sono strettamente necessarie.
La sezione regionale di controllo della Corte dei conti della Lombardia, parere n. 29/2012 consente agli enti di «individuare un diverso parametro che rappresenti il limite di spesa anche per gli anni successivi al 2011. L'ente locale dovrà motivare puntualmente in ordine alle ragioni che rendono necessario il ricorso a questa tipologia di spesa, motivazione rilevante anche ai fini della responsabilità espressamente prevista dal penultimo periodo dell'art. 9, comma 28, dl n. 78/2010» (articolo ItaliaOggi del 02.03.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALILIBERALIZZAZIONI/ Servizi, gestioni più ampie. Sì ad ambiti superiori al livello provinciale. Nelle gare valutati i profili di tutela dell'occupazione.
Gli ambiti dei servizi pubblici locali potranno anche essere di livello superiore al territorio provinciale; nelle gare valutabile anche i profili attinenti alla tutela dell'occupazione.
Sono questi alcuni dei punti sui quali incide il nuovo testo dell'articolo 25 del decreto-legge liberalizzazioni approvato ieri dal senato, dopo le modifiche in commissione industria.
Una prima modifica di interesse è quella che pone un precetto alle regioni, consistente nell'organizzare lo svolgimento dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica (peraltro si tratta di una dizione che non appare nelle altre norme, riferite meramente ai servizi pubblici locali) in ambiti di bacini territoriali ottimali e di dimensione non inferiore al livello provinciale e non più «normalmente» provinciale).
Le regioni potranno quindi definire ambiti diversi da quelli provinciali, attraverso un procedimento teso a coinvolgere gli enti locali, fatta salva l'organizzazione di ambiti già prevista o già avviata, con riferimento alle dimensioni già indicate o a specifiche direttive europee. Permane il potere sostitutivo del governo decorso il termine del 30.06.2012.
L'emendamento approvato in commissione, confermato ieri dall'aula, prevede inoltre, come elemento di valutazione dell'offerta da parte degli aspiranti concessionari di servizi pubblici, la circostanza che, in sede di gara, siano stati adottati strumenti di tutela dell'occupazione. La norma assoggetta poi le società affidatarie in house agli oneri cui sono tenuti gli enti locali in tema di patto di stabilità, appalti, contratti e personale, ivi comprese le aziende speciali e le istituzioni degli enti locali, ma con esclusione, nel testo della Commissione, di quelle che gestiscono servizi socio-assistenziali ed educativi, culturali e farmacie.
L'articolo 25 rafforza inoltre il parere dell'Autorità garante del mercato nel procedimento che gli enti locali devono effettuare per verificare le condizioni di affidamento in esclusiva piuttosto che di liberalizzazione dei servizi; si impone inoltre all'impresa concorrente a realizzare economie di gestione tali da riflettersi sulle tariffe o sulle politiche del personale. Ridotto da 900 mila a 200 mila euro il valore massimo dei servizi che è possibile affidare «in house»; vengono poi prorogati i termini di scadenza degli affidamenti in house, prevedendo alcune circostanziate deroghe. In particolare si prevede in alternativa alla posticipata scadenza del 31.12.2012, che si può procedere all'affidamento a un'unica società in house risultante dalla integrazione operativa, di preesistenti gestioni in affidamento diretto e in economia tale da configurare un unico gestore del servizio a livello di ambito o di bacino.
Relativamente al trasporto pubblico regionale ferroviario si fanno salvi, fino alla scadenza naturale dei primi sei anni di validità, gli affidamenti e i contratti di servizio già deliberati o sottoscritti in conformità alla normativa europea. Per il settore del trasporto pubblico locale su gomma si conferma, per gli affidamenti già in essere a norma di legge, la scadenza naturale contrattualmente prevista. Cesseranno invece alla conclusione dei lavori e all'effettuazione dei collaudi gli attuali affidamenti su infrastrutture ferroviarie, interessate da investimenti co-finanziati con risorse comunitarie (articolo ItaliaOggi del 02.03.2012).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Terzo mandato senza scuse. Il commissariamento non blocca la sequenza. Se la carica dura più di due anni, sei mesi e un giorno si calcola per intero.
Un amministratore comunale è stato eletto alla carica di sindaco per la prima volta e tale mandato è stato interrotto dallo scioglimento del consiglio comunale, con la conseguente gestione commissariale protrattasi fino al rinnovo degli organi amministrativi; considerato che l'amministratore è stato eletto nuovamente in occasione della tornata elettorale successiva al commissariamento dell'ente locale, che il primo mandato ha avuto una durata ridotta (anche se superiore a due anni, sei mesi e un giorno) e che il primo e il secondo mandato sono stati intervallati dalla citata gestione commissariale, è ancora possibile una sua rielezione per un ulteriore mandato consecutivo alla carica sindacale attualmente ricoperta?
La continuità dei due mandati consecutivi, al verificarsi dei quali l'art. 51, comma 2, del dlgs n. 267/2000 dispone la non rieleggibilità alla carica di sindaco, non viene meno per effetto dell'interposizione di una gestione commissariale.
La Corte di cassazione, sebbene chiamata a pronunciarsi su un diverso caso, ha avuto modo di precisare che affinché non si configuri la condizione ostativa prevista dal citato art. 51, è necessario che il secondo mandato amministrativo sia stato seguito da una tornata elettorale alla quale il sindaco uscente non si è candidato. In particolare è stato precisato che «l'ambito di operatività del divieto (ex art. 51 cit.) è puntualmente e univocamente chiarito, nel senso della sua correlazione a una sequenza temporale caratterizzata dalla compresenza, oltreché dell'avverbio immediatamente (già di per sé sufficiente a escludere il permanere dell'ineleggibilità oltre la tornata elettorale successiva alla conclusione del secondo mandato) anche nella incidentale (rafforzativa) allo scadere del secondo mandato, che non lascia alcun margine di dubbio interpretativo in ordine alla circostanza che per le elezioni diverse da quelle immediatamente successive alla scadenza del mandato non operi più la causa di ineleggibilità» (cfr. Corte Cass., sent. 13181 del 05.07.2007).
Nel caso in esame, considerato che tra il primo mandato elettorale (di durata ridotta ma in ogni caso superiore a due anni, sei mesi e un giorno, poi seguito da una gestione commissariale) e il secondo non si è verificata alcuna tornata elettorale intermedia, interruttiva della sequenza temporale prevista dalla norma citata, sussiste la causa ostativa alla terza candidatura di cui all'art. 51 del dlgs n. 267/ 2000, atteso che, nel caso di specie, le prossime elezioni sarebbero quelle immediatamente successive alla scadenza del secondo mandato (articolo ItaliaOggi del 02.03.2012).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Incompatibilità.
Se il sindaco di un comune con popolazione superiore a 15 mila abitanti è decaduto a seguito della sua elezione alla carica di consigliere regionale, il vicesindaco può votare in consiglio comunale fino al rinnovo del consiglio stesso?

Ai sensi dell'art. 64, comma 2, del dlgs n. 267/2000, per i comuni con popolazione superiore a 15 mila abitanti viene previsto che «qualora un consigliere comunale o provinciale assuma la carica di assessore nella rispettiva giunta, cessa dalla carica di consigliere all'atto dell'accettazione della nomina, e al suo posto subentra il primo dei non eletti».
Dalla disposizione in questione, si evince che il sindaco ha perduto lo status di consigliere comunale a seguito dell'accettazione della nomina alla carica di assessore.
Ai sensi dell'art. 53, comma 1, del dlgs n. 267/2000, il vicesindaco sostituisce il sindaco in caso di impedimento permanente, rimozione, decadenza o decesso dello stesso sindaco.
Il Consiglio di stato, l sez., con parere n. 94/1996, con riferimento alla specifica problematica prospettata in ordine alla possibilità che il vicesindaco sostituisca il sindaco quale componente, con diritto di voto, del consiglio comunale, ha precisato che «appare difficilmente concepibile che esse vengano esercitate dal vicesindaco», non essendo ammessa nel nostro ordinamento la sostituzione nelle funzioni di componente delle assemblee elettive.
Il successivo parere n. 501 del 14.06.2001, emanato dallo stesso Consiglio di stato in materia di poteri del vicesindaco, non ha contraddetto la precedente pronuncia; pertanto, il vicesindaco non può esercitare le funzioni di componente, con diritto di voto, del consiglio comunale (articolo ItaliaOggi del 02.03.2012).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAGli interventi edilizi che alterino, anche sotto il profilo della distribuzione interna, l’originaria consistenza fisica di un immobile e comportino l’inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi, non si configurano né come manutenzione straordinaria, né come restauro o risanamento conservativo, ma rientrano nell’ambito della ristrutturazione edilizia.
In altre parole, affinché sia ravvisabile un intervento di ristrutturazione edilizia è sufficiente che risultino modificati la distribuzione della superficie interna e dei volumi, ovvero l’ordine in cui risultavano disposte le diverse porzioni dell'edificio, per il solo fine di rendere più agevole la destinazione d’uso esistente: anche in questi casi si configurano il rinnovo degli elementi costitutivi dell’edificio ed un’alterazione dell’originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile, incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e di risanamento conservativo che presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la distribuzione interna della sua superficie.
La stessa attività di ristrutturazione, del resto, può attuarsi attraverso una serie di interventi che, singolarmente considerati, ben potrebbero ricondursi agli altri tipi dianzi enunciati. L’elemento caratterizzante, però, è la connessione finalistica delle opere eseguite, che non devono essere riguardate analiticamente, ma valutate nel loro complesso al fine di individuare se esse siano o meno rivolte al recupero edilizio dello spazio attraverso la realizzazione di un edificio in tutto o in parte nuovo.

L’art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. 380/2001 (entrato in vigore il 30/06/2003 ma ricognitivo della statuizione racchiusa all’art. 31, comma 1, lett. d), della L. 457/1978) definisce interventi di ristrutturazione edilizia quelli “rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti …”.
Come ha già sottolineato questo Tribunale (cfr. sentenza sez. I – 19/04/2011 n. 582) la giurisprudenza è dell’avviso che gli interventi edilizi che alterino, anche sotto il profilo della distribuzione interna, l’originaria consistenza fisica di un immobile e comportino l’inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi, non si configurano né come manutenzione straordinaria, né come restauro o risanamento conservativo, ma rientrano nell’ambito della ristrutturazione edilizia (cfr. TAR Molise – 27/03/2009 n. 99; Consiglio di Stato, sez. V – 17/12/1996 n. 1551). In altre parole, affinché sia ravvisabile un intervento di ristrutturazione edilizia è sufficiente che risultino modificati la distribuzione della superficie interna e dei volumi, ovvero l’ordine in cui risultavano disposte le diverse porzioni dell'edificio, per il solo fine di rendere più agevole la destinazione d’uso esistente: anche in questi casi si configurano il rinnovo degli elementi costitutivi dell’edificio ed un’alterazione dell’originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile, incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e di risanamento conservativo che presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la distribuzione interna della sua superficie (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V – 18/10/2002 n. 5775; Consiglio di Stato, sez. V – 23/05/2000 n. 2988).
La stessa attività di ristrutturazione, del resto, può attuarsi attraverso una serie di interventi che, singolarmente considerati, ben potrebbero ricondursi agli altri tipi dianzi enunciati. L’elemento caratterizzante, però, è la connessione finalistica delle opere eseguite, che non devono essere riguardate analiticamente, ma valutate nel loro complesso al fine di individuare se esse siano o meno rivolte al recupero edilizio dello spazio attraverso la realizzazione di un edificio in tutto o in parte nuovo.
Nella fattispecie le modifiche rilevate nel corso del sopralluogo inducono ad ascrivere l’intervento edilizio nel genus della ristrutturazione. Nel premettere che si è innanzi alla trasformazione da albergo a casa di cura (che ha anche richiesto un ingente sforzo economico) al piano terra si è registrata la realizzazione di una camera mortuaria in luogo della lavanderia, al piano interrato era in corso il completamento della piscina, al piano ammezzato sono stati creati tre ambulatori, al piano primo sono state attrezzate stanze con lettini e spazi soggiorno comuni (cfr. verbale – doc. 8 amministrazione). Sono quindi ravvisabili i tratti distintivi della ristrutturazione, per il duplice elemento del recupero dello spazio e della diversità e della “non alterità” dell’organismo che si viene a realizzare rispetto a quello originario, dato che l’edificio ristrutturato mantiene una sostanziale omogeneità rispetto al precedente quanto ai suoi principali caratteri identificativi (collocazione, sagoma, altezza, volumetria): in buona sostanza si compie una modifica totale o parziale dell’edificio, che in positivo è rappresentata dalla creazione di un organismo “diverso” dal precedente, ed in negativo dal fatto che per effetto delle opere non vengono sensibilmente alterati i volumi, le superfici, le dimensioni o la tipologia del fabbricato (sentenza TAR Brescia – 11/06/2004 n. 646).
L’invocato art. 10, comma 1, lett. c), del citato D.P.R. 380/2001 –il quale assoggetta a permesso di costruire soltanto quegli interventi di ristrutturazione edilizia che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero si connettano a mutamenti di destinazione d’uso (limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A)– non era in vigore all’epoca dell’adozione dell’atto impugnato.
In proposito l’art. 1 della L. 10/1977 stabiliva che “Ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale partecipa agli oneri ad essa relativi e la esecuzione delle opere è subordinata a concessione da parte del sindaco, ai sensi della presente legge”. Il rinvio alla legislazione regionale compiuto dall’art. 25, comma 4, della L. 47/1985 –per stabilire “quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, subordinare a concessione, e quali mutamenti, connessi e non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti siano subordinati ad autorizzazione”– era stato recepito con la L.r. 1/2001, il cui art. 2, comma 1, statuiva che “I mutamenti di destinazione d'uso connessi alla realizzazione di opere edilizie sottoposte a concessione edilizia o ad autorizzazione edilizia o a denuncia di inizio attività, sono soggetti, rispettivamente, alla medesima concessione o autorizzazione o denuncia di inizio attività”. Dunque nel caso di ristrutturazione era valida la regola generale della sottoposizione al titolo concessorio.
In ogni caso, anche prendendo il Testo unico dell’edilizia come termine di raffronto, il Collegio ravvisa nel caso sottoposto evidenti variazioni nella distribuzione dei volumi e degli spazi, con la realizzazione/sostituzione di locali (ad es. camera mortuaria, piscina, ambulatori, stanze per i degenti) del tutto avulsi dal contesto preesistente. La radicale trasformazione e la ricollocazione degli ambienti integrano quelle “modifiche” che l’art. 10 valorizza accanto alla previsione del permesso di costruire (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 02.03.2012 n. 355 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae. Il presupposto imponibile per il pagamento dei contributi di urbanizzazione va ravvisato nella domanda di una maggiore dotazione di servizi (rete viaria, fognature, ecc.) nell’area di riferimento, che sia indotta dalla destinazione d’uso concretamente impressa all’alloggio, in quanto una diversa utilizzazione rispetto a quella stabilita nell’originario titolo abilitativo può determinare una variazione quantitativa e qualitativa del carico urbanistico.
In termini generali, il fondamento del contributo di urbanizzazione –da versare al momento del rilascio di una concessione edilizia– non consiste nell'atto amministrativo in sé bensì nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare sugli interessati che beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime, secondo modalità eque per la comunità. L'entità degli oneri di urbanizzazione è in buona sostanza correlata alla variazione del carico urbanistico, sicché è ben possibile che un intervento di ristrutturazione e mutamento di destinazione d'uso possa non comportare aggravi di carico urbanistico e quindi l'obbligo della relativa corresponsione degli oneri; al contrario è altrettanto possibile che in caso di mutamento di destinazione di uso nell'ambito della stessa categoria urbanistica, faccia seguito un maggior carico urbanistico indotto dalla realizzazione di quanto assentito e correlativamente siano dovuti gli oneri concessori.
---------------
Pacifica è la diversa natura degli oneri di urbanizzazione rispetto ai costi di costruzione, i quali rappresentano una compartecipazione comunale all’incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore a seguito della nuova edificazione.
Mentre quindi il contributo per gli oneri di urbanizzazione ha funzione recuperatoria delle spese sostenute dalla collettività comunale in relazione alla trasformazione del territorio assentita al singolo, il contributo per costo di costruzione, che è rapportato alle caratteristiche ed alla tipologia delle costruzioni e non è alternativo ad altro valore di genere diverso, afferisce alla mera attività costruttiva in sé valutata: l’obbligazione contributiva per costo di costruzione, dunque, è a-causale ed appare soffermarsi sulla produzione di ricchezza connessa all’utilizzazione edificatoria del territorio ed alle potenzialità economiche che ne derivano e, pertanto, ha natura essenzialmente paratributaria. Il contributo afferente al costo di costruzione, a norma dell’art. 6 della L. 10/1977, è determinato in rapporto alle caratteristiche, alle tipologie delle costruzioni e delle loro destinazioni ed ubicazioni (oggi occorre fare riferimento all’art. 16 del D.P.R. 380/2001).

Sia nella precedente che nell’attuale normativa in effetti (articoli 3, 5, 6 della L. 10/1977 e 16 del D.P.R. 380/2001) alle nuove edificazioni e agli altri interventi –comunque soggetti a titolo abilitativo– corrisponde il pagamento di un contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione, nonché al costo di costruzione. La natura giuridica del predetto contributo è quella di prestazione patrimoniale imposta, anche indipendentemente dall'utilità specifica del singolo concessionario, comunque tenuto a concorrere alla spesa pubblica per le infrastrutture che debbono accompagnare ogni nuovo insediamento edificatorio (Consiglio di Stato, sez. VI – 25/08/2009 n. 5059).
In particolare il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae (cfr. per tutti TAR Puglia Bari, sez. III – 10/02/2011 n. 243). Il presupposto imponibile per il pagamento dei contributi di urbanizzazione va ravvisato nella domanda di una maggiore dotazione di servizi (rete viaria, fognature, ecc.) nell’area di riferimento, che sia indotta dalla destinazione d’uso concretamente impressa all’alloggio, in quanto una diversa utilizzazione rispetto a quella stabilita nell’originario titolo abilitativo può determinare una variazione quantitativa e qualitativa del carico urbanistico (Sentenza Sezione 11/06/2004 n. 646; TAR Lombardia Milano, sez. II – 02/10/2003 n. 4502; Consiglio Stato, sez. V – 25/05/1995 n. 822).
In termini generali, il fondamento del contributo di urbanizzazione –da versare al momento del rilascio di una concessione edilizia– non consiste nell'atto amministrativo in sé bensì nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare sugli interessati che beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime, secondo modalità eque per la comunità. L'entità degli oneri di urbanizzazione è in buona sostanza correlata alla variazione del carico urbanistico, sicché è ben possibile che un intervento di ristrutturazione e mutamento di destinazione d'uso possa non comportare aggravi di carico urbanistico e quindi l'obbligo della relativa corresponsione degli oneri; al contrario è altrettanto possibile che in caso di mutamento di destinazione di uso nell'ambito della stessa categoria urbanistica, faccia seguito un maggior carico urbanistico indotto dalla realizzazione di quanto assentito e correlativamente siano dovuti gli oneri concessori (TAR Lazio Roma, sez. II – 14/11/2007 n. 11213).
---------------
Nella fattispecie, come ha correttamente rilevato parte ricorrente, non affiorano elementi utili a comprovare che il mutamento di destinazione d'uso sia stato accompagnato da un’alterazione del carico urbanistico. Al contrario la Società Astoria ha dato conto delle riflessioni racchiuse nell’allegato B alla deliberazione consiliare n. 52/2001, ove in sede di controdeduzioni all’osservazione presentata (nell’ambito della procedura di variante urbanistica semplificata che ha reso possibile l’intervento) si dichiara che “si tratta di trasformazione di destinazione d’uso di un albergo esistente il cui carico urbanistico non può essere certo aggravato, né tanto meno la viabilità” e che “l’intervento non è che la trasformazione della destinazione d’uso di un edificio esistente senza modificare l’aspetto esteriore, né tanto meno la sagoma, la superficie, … è opera di urbanizzazione”. In secondo luogo la ricorrente ha evidenziato come la categoria non sia mutata (con la trasformazione da albergo a casa di cura) permanendo una struttura ricettiva dotata di circa 100 posti letto quando in precedenza l’albergo ospitava 49 camere (cfr. relazione tecnica alla D.I.A. del 18/12/1998). Lo stesso punto 7 della convenzione urbanistica così si esprime “pur ricadendo la struttura sanitaria … in zona totalmente urbanizzata, inoltre dotata dei parcheggi previsti dalla normativa specifica in materia … si ritiene necessario migliorare l’arredo urbano”.
In presenza di un insediamento capace di rispondere a bisogni collettivi (come la struttura preesistente) l’amministrazione –per poter legittimamente esigere il contributo per gli oneri di urbanizzazione– avrebbe dovuto dare contezza degli indici o, comunque, dei presupposti da cui si evinceva il maggior carico urbanistico addebitabile al richiesto mutamento di destinazione (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. IV – 04/05/2009 n. 3604).
Non avendo evidenziato la ricorrenza, nel caso concreto (mediante raffronto tra la destinazione originaria e quella attuale) del presupposto del pagamento richiesto –ossia della variazione in aumento del carico urbanistico– deve ritenersi indebitamente preteso l’importo di € 31.492,43 per sanzione ex art. 13 della L. 47/1985, da restituire alla parte ricorrente.
Pacifica è la diversa natura degli oneri di urbanizzazione rispetto ai costi di costruzione, i quali rappresentano una compartecipazione comunale all’incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore a seguito della nuova edificazione (cfr. TAR Abruzzo Pescara – 18/10/2010 n. 1142).
Mentre quindi il contributo per gli oneri di urbanizzazione ha funzione recuperatoria delle spese sostenute dalla collettività comunale in relazione alla trasformazione del territorio assentita al singolo, il contributo per costo di costruzione, che è rapportato alle caratteristiche ed alla tipologia delle costruzioni e non è alternativo ad altro valore di genere diverso, afferisce alla mera attività costruttiva in sé valutata: l’obbligazione contributiva per costo di costruzione, dunque, è a-causale ed appare soffermarsi sulla produzione di ricchezza connessa all’utilizzazione edificatoria del territorio ed alle potenzialità economiche che ne derivano e, pertanto, ha natura essenzialmente paratributaria (TAR Campania Salerno, sez. II – 11/06/2002 n. 459). Il contributo afferente al costo di costruzione, a norma dell’art. 6 della L. 10/1977, è determinato in rapporto alle caratteristiche, alle tipologie delle costruzioni e delle loro destinazioni ed ubicazioni (oggi occorre fare riferimento all’art. 16 del D.P.R. 380/2001).
Ne deriva, quindi, che nell’ipotesi di variazione di destinazione d’uso di un immobile accompagnata dalla realizzazione di opere, sussiste il presupposto per il pagamento della parte di contributo afferente al costo di costruzione, da riferire al dato oggettivo della ristrutturazione dell’edificio (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 02.03.2012 n. 355 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADeve ritenersi illegittimo un regolamento comunale che stabilisce in quali zone del territorio possono essere installati gli impianti radio base di telefonia cellulare e quali distanze devono avere dalle abitazioni o dalle aree sensibili. I comuni possono solo regolamentare le installazioni delle stazioni radio base sotto il profilo urbanistico e territoriale, non potendo neppure regolamentare l'individuazione dei siti idonei all'installazione. I comuni possono esercitare in materia una potestà regolamentare del tutto sussidiaria, che concerne esclusivamente i profili urbanistici e territoriali (con esclusione dell'individuazione dei siti) e l'eventuale indicazione di ulteriori, particolari accorgimenti edilizi che possano utilmente concorrere alla minimizzazione dell'esposizione.
A norma dell'art. 86, comma 3, d.lgs. n. 259 del 2003, relativo alla localizzazione di infrastrutture di telecomunicazioni, è possibile prescindere dalla destinazione urbanistica del sito individuato per la loro installazione in quanto le infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione, di cui agli art. 87 e 88, sono assimilate ad ogni effetto alle opere di urbanizzazione primaria di cui all'art. 16, comma 7, d.P.R. 06.06.2001 n. 380. Ne deriva che, anche alla luce dell'art. 4, comma 7, l. reg. n. 11 del 2001 gli impianti radiobase di telefonia mobile di potenza totale non superore a 300 watt non richiedono specifica regolamentazione urbanistica, per cui sono illegittime le disposizioni pianificatorie comunali che introducono in termini assoluti divieti di installazione per simili impianti, anche solo su porzioni del territorio comunale.

La giurisprudenza è ormai da tempo costante nell’affermare l’inammissibilità della possibilità di introdurre divieti generalizzati di collocazioni delle SRB sul territorio comunale. Deve ritenersi, infatti, “illegittimo un regolamento comunale che stabilisce in quali zone del territorio possono essere installati gli impianti radio base di telefonia cellulare e quali distanze devono avere dalle abitazioni o dalle aree sensibili. I comuni possono solo regolamentare le installazioni delle stazioni radio base sotto il profilo urbanistico e territoriale, non potendo neppure regolamentare l'individuazione dei siti idonei all'installazione. I comuni possono esercitare in materia una potestà regolamentare del tutto sussidiaria, che concerne esclusivamente i profili urbanistici e territoriali (con esclusione dell'individuazione dei siti) e l'eventuale indicazione di ulteriori, particolari accorgimenti edilizi che possano utilmente concorrere alla minimizzazione dell'esposizione” (così TAR Sicilia Catania, sez. III, 29.01.2002, n. 140, successivamente ripresa da TAR Calabria Catanzaro, sez. II, 05.12.2006, n. 1573, di analogo contenuto).
Ne discende l’illegittimità del provvedimento di diffida impugnato che trova il fondamento, almeno in parte, nell’esistenza di un provvedimento di localizzazione degli impianti in questione. Si deve ritenere, infatti, che sia preclusa la possibilità per il Comune di introdurre, di fatto, tutele ulteriori rispetto a quelle già garantite attraverso la corretta applicazione della norma, non solo prevedendo la collocazione degli impianti all’esterno del centro abitato, ma anche escludendo ogni collocazione di impianti in intere aree come la “Zona A” (in tal senso TAR Brescia, sentenza n. 898/2011) ed in particolare applicando anche in relazione ad impianti di potenza inferiore a 300 Watt il limite, previsto solo per quelli di potenza superiore, della possibilità della loro realizzazione solo in siti specificamente individuati.
Il ricorso appare altresì fondato nella parte in cui tende a far discendere l’illegittimità dei provvedimenti impugnati dalla pretesa incompatibilità urbanistica, secondo il principio sinteticamente e puntualmente ricordato nella sentenza del TAR Milano, I, 13.01.2010, n. 23, nella quale si legge che: “A norma dell'art. 86, comma 3, d.lgs. n. 259 del 2003, relativo alla localizzazione di infrastrutture di telecomunicazioni, è possibile prescindere dalla destinazione urbanistica del sito individuato per la loro installazione in quanto le infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione, di cui agli art. 87 e 88, sono assimilate ad ogni effetto alle opere di urbanizzazione primaria di cui all'art. 16, comma 7, d.P.R. 06.06.2001 n. 380. Ne deriva che, anche alla luce dell'art. 4, comma 7, l. reg. n. 11 del 2001 gli impianti radiobase di telefonia mobile di potenza totale non superore a 300 watt non richiedono specifica regolamentazione urbanistica, per cui sono illegittime le disposizioni pianificatorie comunali che introducono in termini assoluti divieti di installazione per simili impianti, anche solo su porzioni del territorio comunale” (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 02.03.2012 n. 351 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAA norma dell'art. 86, comma 3, d.lgs. n. 259 del 2003, relativo alla localizzazione di infrastrutture di telecomunicazioni, è possibile prescindere dalla destinazione urbanistica del sito individuato per la loro installazione in quanto le infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione, di cui agli art. 87 e 88, sono assimilate ad ogni effetto alle opere di urbanizzazione primaria di cui all'art. 16, comma 7, d.P.R. 06.06.2001 n. 380. Ne deriva che, anche alla luce dell'art. 4, comma 7, l. reg. n. 11 del 2001 gli impianti radiobase di telefonia mobile di potenza totale non superore a 300 watt non richiedono specifica regolamentazione urbanistica, per cui sono illegittime le disposizioni pianificatorie comunali che introducono in termini assoluti divieti di installazione per simili impianti, anche solo su porzioni del territorio comunale.
Con riferimento alla dedotta questione della compatibilità urbanistica degli impianti di telefonia di potenza inferiore a 300 W, l’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza è ben rappresentato nella sentenza del TAR Milano, I, 13.01.2010, n. 23, nella quale si legge che: “A norma dell'art. 86, comma 3, d.lgs. n. 259 del 2003, relativo alla localizzazione di infrastrutture di telecomunicazioni, è possibile prescindere dalla destinazione urbanistica del sito individuato per la loro installazione in quanto le infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione, di cui agli art. 87 e 88, sono assimilate ad ogni effetto alle opere di urbanizzazione primaria di cui all'art. 16, comma 7, d.P.R. 06.06.2001 n. 380. Ne deriva che, anche alla luce dell'art. 4, comma 7, l. reg. n. 11 del 2001 gli impianti radiobase di telefonia mobile di potenza totale non superore a 300 watt non richiedono specifica regolamentazione urbanistica, per cui sono illegittime le disposizioni pianificatorie comunali che introducono in termini assoluti divieti di installazione per simili impianti, anche solo su porzioni del territorio comunale”.
Lo stesso è stato da tempo fatto proprio anche da questo Tribunale (da ultimo con la sentenza TAR Brescia, 13.06.2011, n. 898), che, quindi, ravvisa le condizioni per l’accoglimento del ricorso e il conseguente annullamento dell’impugnato diniego e dell’art. 22 delle N.T.A. nella misura in cui allo stesso è stato attribuito un significato preclusivo della collocazione di impianti di telefonia mobile nella zona urbanistica in questione.
Le previsioni contenute nel PRG del Comune di Ceto non possono, quindi, considerarsi ostative all’installazione di detti impianti in zona D (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 02.03.2012 n. 350 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è un atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare: dunque in linea generale l’abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente per l'adozione della misura repressiva in argomento.
Non è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento né gli ulteriori momenti di coinvolgimento procedimentale degli interessati per l’ordine di demolizione di opere abusive, in quanto si tratta di provvedimento alla cui adozione l’amministrazione comunale è vincolata per legge.

Si premette che l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è un atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare (cfr. Consiglio di Stato, sez. V – 11/01/2011 n. 79): dunque in linea generale l’abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente per l'adozione della misura repressiva in argomento (cfr. TAR Umbria – 07/12/2010 n. 522).
Con riguardo alle garanzie partecipative questa Sezione (cfr. sentenza 25/03/2011 n. 473) ha già ritenuto infondata la censura relativa alla loro violazione: non è infatti necessaria la comunicazione di avvio del procedimento né gli ulteriori momenti di coinvolgimento procedimentale degli interessati per l’ordine di demolizione di opere abusive, in quanto si tratta di provvedimento alla cui adozione l’amministrazione comunale è vincolata per legge. In secondo luogo è stato sottolineato che l’art. 7 della L. 241/1990, per i procedimenti non a istanza di parte, e ora l’art. 10-bis della stessa legge per i procedimenti a istanza di parte, sono due punti particolari di codificazione dei principi di correttezza e buon andamento che impongono all’amministrazione di creare il contraddittorio con i destinatari degli effetti dei provvedimenti sia al fine di consentire il diritto di difesa sia per acquisire ogni utile elemento in modo da ridurre il rischio di motivazioni inadeguate.
Pertanto è sempre necessario (tranne nei casi di urgenza) che l’amministrazione esponga in anticipo le proprie ragioni e dia agli interessati la possibilità di interloquire. La violazione di tali garanzie procedimentali tuttavia condiziona la legittimità del provvedimento finale solo quando si dimostri che vi è stato un effettivo travisamento dei fatti (principio ora esplicitato nell’art. 21-octies, comma 2, secondo periodo della legge 241/1990): diversamente non sarebbe utile, né economico, annullare un provvedimento che può essere adottato di nuovo con lo stesso contenuto (cfr. sentenza Sezione 09/06/2009 n. 1190) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 02.03.2012 n. 344 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa L.r. 11/2001 stabilisce (art. 4, comma 7) che gli impianti radiobase per la telefonia mobile di potenza totale ai connettori di antenna non superiore a 300 W non richiedono una specifica regolamentazione urbanistica, in ragione delle caratteristiche tecniche e della natura di pubblico servizio dell'attività svolta i quali consentono una diffusione capillare delle stazioni impiegate a tale scopo: sulla base di tale premessa … il Collegio ha più volte evidenziato in sede cautelare che l'installazione di impianti radiobase per la telefonia mobile di potenza totale ai connettori di antenna non superiore a 300 W deve ritenersi consentita, in difetto di espressi divieti, su tutto il territorio comunale, senza che sia necessaria l'individuazione preventiva da parte dell'amministrazione locale di aree da destinarsi all'ubicazione di detti impianti.
Tali impianti sono compatibili anche con le aree di particolare tutela così come previsto dalla deliberazione della Giunta Regionale 11/12/2001 n. 7/7351, recante i criteri per l'individuazione delle aree nelle quali è consentita l'installazione degli impianti per le telecomunicazioni e la radiotelevisione e per l'installazione dei medesimi, ai sensi dell'art. 4, comma 2, della L.r. 11/2001.
Il servizio di telefonia mobile deve essere considerato un servizio pubblico già ai sensi dell’allora vigente art. 2, comma 1, del D.P.R. 19/09/1997 n. 318, a tenore del quale “L'installazione, l'esercizio e la fornitura di reti di telecomunicazioni nonché la prestazione dei servizi ad esse relativi accessibili al pubblico sono attività di preminente interesse generale”, mentre analoga natura rivestono i relativi impianti trattandosi di infrastrutture gestite da soggetti privati con criteri imprenditoriali, per cui la loro corretta qualificazione è di opere private di pubblica utilità.
Già in passato la giurisprudenza aveva ritenuto che, in assenza di una specifica previsione urbanistica, la collocazione degli impianti di telefonia mobile deve ritenersi consentita sull'intero territorio comunale, non assumendo carattere ostativo le specifiche destinazioni di zona (residenziale, verde, agricola, etc.) rispetto ad infrastrutture di interesse generale che presuppongono la realizzazione di una rete che dia uniforme copertura al territorio, in quanto la loro localizzazione nelle sole zone in cui ciò è espressamente consentito si porrebbe in contrasto proprio con l'esigenza di permettere la copertura del servizio sull'intero territorio.
A tale orientamento ha aderito anche questa Sezione, la quale ha richiamato l'art. 231 del D.P.R. 29.3.1973 n. 156 per qualificare un impianto come quello in questione come opera di urbanizzazione primaria, in quanto tale ubicabile in qualsiasi parte del territorio comunale: seguendo tale ragionamento il Collegio aveva infatti concluso che “… la localizzazione di impianti come quello considerato è possibile in qualsiasi zona omogenea, atteso che senz'altro quello in questione deve qualificarsi come attrezzatura tecnologica per le telecomunicazioni, funzionale all'esercizio di un servizio pubblico”.
Esaminando infine il contenuto del vigente D.Lgs. 259/2003 –non in vigore all'epoca dell’adozione degli atti impugnati ma che ha una portata parzialmente ricognitiva delle precedenti elaborazioni giurisprudenziali– non si può fare a meno di sottolineare che l’art. 86, comma 3, assimila ad ogni effetto le infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione alle opere di urbanizzazione primaria di cui all'art. 16, comma 7, del D.P.R. 06/06/2001 n. 380, rendendole senza ombra di dubbio compatibili con ogni tipo di zonizzazione anche in deroga a contrastanti statuizioni della normativa urbanistica locale.

Sotto un diverso profilo si può richiamare il contenuto della sentenza del TAR Brescia 03/12/2004 n. 1757, per cui “… la L.r. 11/2001 –in virtù della quale l’amministrazione ha emesso il provvedimento autorizzatorio confermativo– stabilisce anzitutto (art. 4, comma 7) che gli impianti radiobase per la telefonia mobile di potenza totale ai connettori di antenna non superiore a 300 W non richiedono una specifica regolamentazione urbanistica, in ragione delle caratteristiche tecniche e della natura di pubblico servizio dell'attività svolta i quali consentono una diffusione capillare delle stazioni impiegate a tale scopo: sulla base di tale premessa … il Collegio ha più volte evidenziato in sede cautelare che l'installazione di impianti radiobase per la telefonia mobile di potenza totale ai connettori di antenna non superiore a 300 W deve ritenersi consentita, in difetto di espressi divieti, su tutto il territorio comunale, senza che sia necessaria l'individuazione preventiva da parte dell'amministrazione locale di aree da destinarsi all'ubicazione di detti impianti (cfr. ordinanze conformi della Sezione n. 169 in data 30/01/2004, n. 561 in data 08/04/2004 e n. 1271 in data 23/07/2004).
Peraltro, tali impianti sono compatibili anche con le aree di particolare tutela così come previsto dalla deliberazione della Giunta Regionale 11/12/2001 n. 7/7351, recante i criteri per l'individuazione delle aree nelle quali è consentita l'installazione degli impianti per le telecomunicazioni e la radiotelevisione e per l'installazione dei medesimi, ai sensi dell'art. 4, comma 2, della L.r. 11/2001. Osserva inoltre il Collegio che il servizio di telefonia mobile deve essere considerato un servizio pubblico già ai sensi dell’allora vigente art. 2, comma 1, del D.P.R. 19/09/1997 n. 318, a tenore del quale “L'installazione, l'esercizio e la fornitura di reti di telecomunicazioni nonché la prestazione dei servizi ad esse relativi accessibili al pubblico sono attività di preminente interesse generale”, mentre analoga natura rivestono i relativi impianti trattandosi di infrastrutture gestite da soggetti privati con criteri imprenditoriali, per cui la loro corretta qualificazione è di opere private di pubblica utilità (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI – 26/08/2003 n. 4847).
Già in passato la giurisprudenza aveva ritenuto che, in assenza di una specifica previsione urbanistica, la collocazione degli impianti di telefonia mobile deve ritenersi consentita sull'intero territorio comunale, non assumendo carattere ostativo le specifiche destinazioni di zona (residenziale, verde, agricola, etc.) rispetto ad infrastrutture di interesse generale che presuppongono la realizzazione di una rete che dia uniforme copertura al territorio, in quanto la loro localizzazione nelle sole zone in cui ciò è espressamente consentito si porrebbe in contrasto proprio con l'esigenza di permettere la copertura del servizio sull'intero territorio (Consiglio di Stato, sez. VI – 10/02/2003 n. 673).
A tale orientamento ha aderito anche questa Sezione, la quale ha richiamato l'art. 231 del D.P.R. 29.3.1973 n. 156 per qualificare un impianto come quello in questione come opera di urbanizzazione primaria, in quanto tale ubicabile in qualsiasi parte del territorio comunale (sentenza 18/09/2002 n. 1177): seguendo tale ragionamento il Collegio aveva infatti concluso che “… la localizzazione di impianti come quello considerato è possibile in qualsiasi zona omogenea, atteso che senz'altro quello in questione deve qualificarsi come attrezzatura tecnologica per le telecomunicazioni, funzionale all'esercizio di un servizio pubblico”.
Esaminando infine il contenuto del vigente D.Lgs. 259/2003 –non in vigore all'epoca dell’adozione degli atti impugnati ma che ha una portata parzialmente ricognitiva delle precedenti elaborazioni giurisprudenziali– non si può fare a meno di sottolineare che l’art. 86, comma 3, assimila ad ogni effetto le infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione alle opere di urbanizzazione primaria di cui all'art. 16, comma 7, del D.P.R. 06/06/2001 n. 380, rendendole senza ombra di dubbio compatibili con ogni tipo di zonizzazione anche in deroga a contrastanti statuizioni della normativa urbanistica locale (Tar Veneto, sez. II – 14/06/2004 n. 2041)
” (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 02.03.2012 n. 343 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa verifica di anomalia dell’offerta costituisce un sub-procedimento formalmente distinto (ancorché collegato) rispetto al procedimento di evidenza pubblica di individuazione della proposta migliore, e si esprime in un’indagine di contenuto tecnico-economico secondo una precisa ratio di fondo che è quella di evitare l’aggiudicazione a prezzi tali da non garantire la qualità del lavoro, fornitura o servizio oggetto di affidamento.
Il giudizio di verifica della congruità di un’offerta anomala ha natura globale e sintetica sulla serietà o meno dell’offerta nel suo insieme e costituisce espressione di un potere tecnico-discrezionale dell’amministrazione di per sé insindacabile in sede di legittimità, salva l’ipotesi in cui le valutazioni siano manifestamente illogiche o fondate su insufficiente motivazione o affette da errori di fatto. Al contempo occorre rilevare che la verifica di anomalia non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, mirando, invece, ad accertare se l’offerta, nel suo complesso, sia attendibile o inattendibile, e dunque se dia o meno serio affidamento circa la corretta esecuzione dell’appalto.

Osserva preliminarmente il Collegio che la verifica di anomalia dell’offerta costituisce un sub-procedimento formalmente distinto (ancorché collegato) rispetto al procedimento di evidenza pubblica di individuazione della proposta migliore, e si esprime in un’indagine di contenuto tecnico-economico secondo una precisa ratio di fondo che è quella di evitare l’aggiudicazione a prezzi tali da non garantire la qualità del lavoro, fornitura o servizio oggetto di affidamento.
La giurisprudenza prevalente ha ripetutamente osservato che il giudizio di verifica della congruità di un’offerta anomala ha natura globale e sintetica sulla serietà o meno dell’offerta nel suo insieme (Consiglio di Stato, sez. V – 08/09/2010 n. 6495) e costituisce espressione di un potere tecnico-discrezionale dell’amministrazione di per sé insindacabile in sede di legittimità, salva l’ipotesi in cui le valutazioni siano manifestamente illogiche o fondate su insufficiente motivazione o affette da errori di fatto (TAR Lazio Roma, sez. I-ter – 14/10/2011 n. 7957; Consiglio di Stato, sez. V – 11/03/2010 n. 1414; sez. IV – 20/05/2008 n. 2348). Al contempo occorre rilevare che la verifica di anomalia non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, mirando, invece, ad accertare se l’offerta, nel suo complesso, sia attendibile o inattendibile, e dunque se dia o meno serio affidamento circa la corretta esecuzione dell’appalto (Consiglio di Stato, sez. VI – 21/05/2009 n. 3146; sentenza Sezione 10/08/2011 n. 1242, che risulta appellata)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 02.03.2012 n. 340 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZIAnche le offerte che si discostano dalle tabelle sul costo del lavoro non sono “ex se” anomale: il parametro certo cui riferire la valutazione di attendibilità non autorizza l’esclusione automatica delle offerte che racchiudono valori inferiori a quelli minimi, ove siano salvaguardate le retribuzioni dei lavoratori, per cui un costo del servizio che si discosti dalle tabelle non è di per sé incongruo.
Premette il Collegio che la giurisprudenza ha ritenuto che anche le offerte che si discostano dalle tabelle sul costo del lavoro non sono “ex se” anomale: il parametro certo cui riferire la valutazione di attendibilità non autorizza l’esclusione automatica delle offerte che racchiudono valori inferiori a quelli minimi, ove siano salvaguardate le retribuzioni dei lavoratori, per cui un costo del servizio che si discosti dalle tabelle non è di per sé incongruo (TAR Sicilia Catania, sez. III – 01/03/2011 n. 524) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 02.03.2012 n. 340 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa verifica dell’integrità dei plichi non esaurisce la sua funzione nella constatazione che gli stessi non hanno subito manomissioni o alterazioni, ma è destinata a garantire che il materiale documentario trovi correttamente ingresso della procedura di gara, giacché la pubblicità delle sedute risponde all’esigenza di tutela non solo della parità di trattamento di concorrenti, ai quali deve essere permesso di effettuare gli opportuni riscontri sulla regolarità formale degli atti e di avere così la garanzia che non siano successivamente intervenute indebite alterazioni, ma anche nell’interesse pubblico alla trasparenza ed all’imparzialità dell’azione amministrativa, le cui conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili ex post una volta rotti i sigilli ed aperti i plichi, in mancanza di un riscontro immediato.
E’ noto che con l’invocata pronuncia (28/07/2011 n. 13) l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha affermato che “la verifica dell’integrità dei plichi non esaurisce la sua funzione nella constatazione che gli stessi non hanno subito manomissioni o alterazioni, ma è destinata a garantire che il materiale documentario trovi correttamente ingresso della procedura di gara, giacché la pubblicità delle sedute risponde all’esigenza di tutela non solo della parità di trattamento di concorrenti, ai quali deve essere permesso di effettuare gli opportuni riscontri sulla regolarità formale degli atti e di avere così la garanzia che non siano successivamente intervenute indebite alterazioni, ma anche nell’interesse pubblico alla trasparenza ed all’imparzialità dell’azione amministrativa, le cui conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili ex post una volta rotti i sigilli ed aperti i plichi, in mancanza di un riscontro immediato”.
L’Adunanza plenaria ha altresì precisato che tale regola costituisce corretta interpretazione dei principi comunitari e di diritto interno desumibili dall’art. 97 della Costituzione e dalle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE, le quali impongono –rispettivamente all’art. 10 ed all’art. 2– che le Commissioni aggiudicatrici agiscano con trasparenza: la norma ha indubbia portata di principio e deve quindi investire passaggi essenziali e determinanti degli esiti delle procedure di gara quale è l’apertura della busta dell’offerta tecnica, momento che ha identica rilevanza rispetto all’apertura della documentazione amministrativa e dell’offerta economica e che quindi merita le medesime garanzie, a tutela di tutti gli interessi coinvolti (Consiglio di Stato, sez. V – 21/11/2011 n. 6127; sez. III – 04/11/2011 n. 5866; si veda anche TAR Toscana, sez. I – 10/11/2011 n. 1668; TAR Veneto, sez. I – 05/12/2011 n. 1805; TAR Marche – 14/10/2011 n. 770)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 02.03.2012 n. 340 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIPer gli esposti vale una regola di trasparenza bilaterale: i denunciati possono accedere all’esposto per potersi meglio difendere ma allo stesso modo i denuncianti possono accedere agli atti della procedura che ha preso origine dall’esposto.
Per gli esposti vale una regola di trasparenza bilaterale: i denunciati possono accedere all’esposto per potersi meglio difendere (v. CS Sez. VI 25.06.2007 n. 3601) ma allo stesso modo i denuncianti possono accedere agli atti della procedura che ha preso origine dall’esposto (v. CS Ap 20.04.2006 n. 7) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 02.03.2012 n. 336 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'attività edificatoria deve essere considerata in aderenza al territorio ed attualizzata in ragione degli usi.
Nel caso di specie il ricorrente impugna il provvedimento con il quale il Comune aveva negato il rilascio della concessione edilizia per la costruzione di tredici appartamenti in quanto le urbanizzazioni primarie e secondarie presenti nella zona erano state giudicate insufficienti a sopportare il carico urbanistico della nuova edificazione e, deduce che i lavori in questione costituiscono il completamento di un progetto in gran parte già realizzato.
Il Collegio condivide l’orientamento giurisprudenziale (C. di S., IV, 13.10.2010, n. 7486) con il quale è stato sottolineato come il concetto di completa urbanizzazione di una determinata area edificabile debba essere inteso in termini dinamici, e quindi adattato al differente contenuto di ogni progetto di edificazione che lo interessi. In quella occasione è stato affermato che “l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, s'impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della «maglia», e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata (C. di S., IV, 01.10.2007, n. 5043 e 15.05.2002, n. 2592; V, 01.12.2003, n. 7799 e 06.10.2000, n. 5326)”.
Osserva il Collegio come l’individuazione dei servizi necessari per rendere abitabile una determinata area presupponga necessariamente la conoscenza del progetto di utilizzazione edificatoria, e quindi del suo impatto in termini di abitanti insediabili e di usi previsti. Tale necessità si presenta quando l’area viene utilizzata per la prima volta, ma può presentarsi anche successivamente, quando ulteriori interventi modifichino radicalmente le caratteristiche dell’insediamento esistente, rendendo palese la necessità di nuove strutture di servizio.
Osserva il Collegio che il caso ora in esame ricade nell’ambito di applicazione dei principi appena riassunti in quanto il progetto della parte appellata riguarda un edificio già realizzato, che peraltro viene radicalmente modificato eliminando un porticato, originariamente previsto, per realizzare ben tredici appartamenti. Un intervento di così rilevante impatto richiede di per sé lo studio dell’urbanizzazione dell’area in vista dell’integrazione delle opere esistenti, e l’evidenza di tale necessità renda superflua la sua giustificazione nel corpo del provvedimento che la affermi. Di conseguenza, il giudicato formatosi in relazione ad un diverso e più limitato progetto di utilizzazione della stessa area di cui ora si discute non rileva al fine di determinare gli interventi necessari per consentire la realizzazione del nuovo progetto.
Legittimamente, in conclusione, il Comune ha affermato la necessità di applicare, per l’ulteriore edificazione, indici e disciplina propri delle aree da urbanizzare (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29.02.2012 n. 1177
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Gli atti di inquadramento sono autoritativi e impugnabili entro termini perentori.
Lo ha ribadito il Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29.02.2012 n. 1174.
In tale sede i giudici di legittimità hanno avuto modo di precisare che gli atti di inquadramento dei pubblici dipendenti hanno carattere provvedimentale sia quando implicano un apprezzamento delle mansioni svolte dall’interessato, sia quando si risolvono nel semplice confronto formale tra la precedente posizione e quella di nuova attribuzione, “trattandosi di atti autoritativi di inserimento del personale nell’organizzazione dei pubblici uffici, espressione del potere di supremazia speciale del datore di lavoro pubblico”.
Una volta riconfermata la natura di tali atti, ne consegue per il Collegio che essi devono essere tempestivamente impugnati, per gli effetti lesivi che da essi derivano sia sul piano giuridico che su quello economico, secondo lo schema tipico del giudizio impugnatorio. La posizione del dipendente, pertanto, non è quella di titolare di diritto soggettivo, ma di interesse legittimo che egli è legittimato a far valere sollevando tempestivamente, nel rispetto dei termini decadenziali, contro l'atto autoritativo che gli attribuisce una posizione di status e retributiva inferiore a quella che ritiene spettargli. E’ esclusa, pertanto, la possibilità di un autonomo giudizio di accertamento in funzione di disapplicazione dei provvedimenti dell'Amministrazione,
atteso che l'azione di accertamento è esperibile a tutela di un diritto soggettivo.
In particolare, il termine decadenziale va individuato nel momento della piena percezione dei suoi contenuti essenziali (autorità emanante, contenuto del dispositivo ed effetto lesivo), senza che sia necessaria la compiuta conoscenza della motivazione, la quale può eventualmente rilevare ai fini della proposizione di motivi aggiunti (tratto da www.diritto.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEIn caso di nullità del provvedimento dichiarativo della pubblica utilità e degli atti conseguenti della procedura ablatoria la domanda risarcitoria del privato va proposta al giudice ordinario.
Secondo la giurisprudenza anche più recente della Suprema Corte di Cassazione, la dichiarazione di pubblica utilità priva di termini iniziali e finali per l’avvio e compimento dei lavori e delle occupazioni è da ritenere radicalmente nulla, onde l’occupazione costituisce mero comportamento materiale “...in nessun modo ricollegabile ad un esercizio abusivo dei poteri della p.a., sicché spetta al g.o. la giurisdizione sulla domanda risarcitoria proposta dal privato” perché in tal caso essa è “da ritenere emessa in carenza ovvero in difetto assoluto di attribuzione del potere stesso, che comporta nullità del provvedimento dichiarativo della pubblica utilità e degli atti conseguenti della procedura ablatoria” (Cass. Civ., SS.UU., 14.02.2011, n. 3569) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.02.2012 n. 1133
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEQuantificazione del danno da illegittima occupazione dei suoli nel periodo compreso tra l'immissione in possesso e l'emanazione del decreto di esproprio.
In caso di accoglimento della domanda risarcitoria per l’illegittima occupazione dei suoli, il danno riferibile all’arco temporale compreso tra l’immissione nel possesso dei medesimi e l’emanazione del decreto di esproprio, secondo l’orientamento giurisprudenziale consolidato, deve essere liquidato in misura pari agli interessi moratori sul valore di mercato del bene in ciascun anno del periodo di occupazione, con rivalutazione e interessi dalla data di proposizione del ricorso di primo grado fino alla data di deposito della presente sentenza (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 01.06.2011, n. 3331) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.02.2012 n. 1130 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOConcorsi e corsi-concorsi per passaggio di aree, massima discrezionalità della P.A. sul numero di posti messi a bando.
Per principio generale ripetutamente affermato dalla giurisprudenza amministrativa in tema di concorsi, la determinazione numerica della disponibilità dei posti da ricoprire costituisce profilo organizzativo ampiamente discrezionale (v. fra le altre, TAR Calabria, RC n. 273/1989 e TAR Lazio,RM II, 1409/1984 ) e ciò vale anche per quelle procedure che, dopo una iniziale fase di accertamento di idoneità, vedono una successiva fase di formazione che precede la selezione finale (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.02.2012 n. 1129 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVISe gli atti comunali sono stati adottati e approvati dalla Regione, il Comune non può unilateralmente procedere alla loro revoca in via di autotutela.
In linea generale e di principio l’esercizio del potere di autotutela rientra sicuramente nella potestà ampiamente discrezionale dell’amministrazione (Cons. Stato Sez. IV 20/06/2006 n. 390; idem 10/11/2003 n. 7136), ma tale aurea regola secondo il Consiglio di Stato non appare applicabile nel caso di specie, in cui il Comune ha revoca in via di autotutela di atti che sono stati sì adottati a suo tempo dal Comune, ma che fanno parte di una procedura per la quale è intervenuta l’approvazione da parte della Regione e quindi devono considerasi non più suscettibili di autotutela in via unilaterale.
Il Piano Regolatore Generale comunale e, al pari di esso, una variante generale del medesimo (come nel caso di specie) costituisce, com’è noto, un atto a contenuto normativo recante previsioni e prescrizioni che disciplinano l’assetto urbanistico del territorio. Relativamente al procedimento deputato a dare vita allo strumento de quo, esso si atteggia come una fattispecie a formazione successiva e precisamente come un atto complesso ineguale in cui confluiscono le determinazioni programmatorie imputabili sia al Comune in sede di elaborazione, sia alla Regione, quale Ente sovraordinato, in sede di approvazione (Cons. Stato Ad. Pl. n.1 del 09/03/1983).
Se così è, appare evidente che i margini per adottare misure di autotutela da parte del Comune sono individuabili solo in riferimento alla fase dell’avvenuta adozione dei propri precedenti atti, non potendosi procedere allo jus poenitendi in relazione a determinazioni che, come nel caso di specie, hanno conseguito il visto di approvazione regionale in virtù di un silenzio-assenso tipizzato da una norma legislativa ad hoc.
Il Comune, quindi, ha assunto provvedimenti in autotutela sull’erroneo presupposto che gli atti sottoposti a riesame fossero solo adottati, mentre nella specie questi erano stati anche approvati dalla Regione e perciò stesso non più nella disponibilità del solo Ente locale (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.02.2012 n. 1128 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIndividuazione dei limiti alla legittimazione ad agire degli enti territoriali per la tutela degli interessi dei propri amministrati.
Il Consiglio di Stato nella sentenza in esame ha evidenziato come in merito alla legittimazione degli enti territoriali al fine della tutela delle posizioni giuridiche soggettive ricadenti indistintamente sulla popolazione residente nel territorio di competenza, questa Sezione ha già avuto modo di esprimersi funditus con la sentenza n. 8686 del 09.12.2010.
In quella occasione, la Sezione ha evidenziato come “al fine di individuare esattamente limiti e possibilità riconosciute agli enti territoriali ai fini della tutela degli interessi dei propri amministrati, debba farsi riferimento non solo all’elaborazione consolidata della giurisprudenza ma anche, come si dirà appresso, alle innovazioni normative sopraggiunte medio tempore e, soprattutto, ai nuovi profili di intervento riconosciuti ad ogni tipologia di figura soggettiva esponenziale di interessi omogenei ai sensi del decreto legislativo 20.12.2009 n. 198”.
In tale ottica, la Sezione ha ricordato dapprima come la giurisprudenza amministrativa in tema di riconoscimento della legittimazione in capo ad associazioni private per agire a tutela di interessi diffusi abbia espresso un principio per cui questa tipologia di situazioni giuridiche soggettive possa trovare modi di garanzia paralleli ed ulteriori rispetto al meccanismo tradizionale dall’attribuzione della loro cura ad un soggetto pubblico predeterminato, sia esso già esistente o costituito ad hoc.
Ha poi evidenziato come non sia condivisibile l’ipotesi di “riconoscere, sic et simpliciter ed in assenza di un’espressa disposizione normativa, la legittimazione ad agire a qualsiasi ente esponenziale di interessi omogenei o, nel caso in esame, agli enti territoriali in virtù del loro collegamento con la collettività ivi stanziata e facendo perno sull’unico cardine della rappresentatività”, facendo quindi salva la necessità che, anche per gli enti territoriali, attributari di poteri generali di tutela degli interessi rilevanti per la collettività stanziata, la legittimazione, per le materie non direttamente conferitegli dalla legge, vada individuata secondo i criteri usuali, ossia quelli che discendono dall’analisi del tessuto ordinamentale (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.02.2012 n. 1127 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa motivazione dell'atto amministrativo deve consentire in modo agevole di ripercorrere il percorso logico seguito nell’emanare il provvedimento di che trattasi. La regola è intesa in modo ampio, nel senso che la motivazione si considera presente in tutti i casi in cui anche “a prescindere dal tenore letterale dell'atto finale, i documenti dell'istruttoria offrano elementi sufficienti ed univoci dai quali possano ricostruirsi le concrete ragioni… della determinazione assunta”; rimane fermo però che tale ricostruzione deve essere possibile, e non meramente ipotetica o congetturale.
L’onere di motivazione può essere assolto anche con il rinvio esplicito ad altro atto, cd. motivazione per relationem: infatti, "se le ragioni della decisione risultano da altro atto dell'amministrazione richiamato dalla decisione stessa, insieme alla comunicazione di quest'ultima deve essere indicato e reso disponibile, a norma della presente legge, anche l'atto cui essa si richiama”. In proposito l’atto richiamato deve essere offerto in copia o per lo meno in visione.

Vanno premessi, per chiarezza di esposizione, alcuni pacifici principi in tema di motivazione dell’atto amministrativo. In termini generali, è infatti del tutto noto che la stessa deve consentire in modo agevole di ripercorrere il percorso logico seguito nell’emanare il provvedimento di che trattasi, come affermato per tutte da C.d.S. sez. V 11.11.2005 n. 6347 e, nella giurisprudenza della Sezione, dalla sentenza 16.02.2011 n. 271. La regola è intesa in modo ampio, nel senso che la motivazione si considera presente in tutti i casi in cui anche “a prescindere dal tenore letterale dell'atto finale, i documenti dell'istruttoria offrano elementi sufficienti ed univoci dai quali possano ricostruirsi le concrete ragioni… della determinazione assunta”, come affermato ad esempio da C.d.S. sez. IV 10.05.2005 n. 2231; rimane fermo però che tale ricostruzione deve essere possibile, e non meramente ipotetica o congetturale.
L’onere di motivazione poi, come previsto in modo espresso dall’art. 3 della l. 07.08.1990 n. 241, può essere assolto anche con il rinvio esplicito ad altro atto, cd. motivazione per relationem: così come dispone il comma 3 dell’articolo in questione, infatti, “se le ragioni della decisione risultano da altro atto dell'amministrazione richiamato dalla decisione stessa, insieme alla comunicazione di quest'ultima deve essere indicato e reso disponibile, a norma della presente legge, anche l'atto cui essa si richiama”. In proposito, come ha chiarito sempre la giurisprudenza, l’atto richiamato deve essere offerto in copia o per lo meno in visione: così sul punto C.d.S. sez. IV 24.12.2007 n. 6653 e 20.10.2000 n. 5619 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 27.02.2012 n. 307 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe scelte effettuate dalla pubblica amministrazione allorquando essa predispone ed approva uno strumento urbanistico generale sono espressione di una discrezionalità molto ampia, sindacabile in sede giurisdizionale solo per errori di fatto, ovvero per abnormità o irrazionalità delle stesse.
E' ben noto il costante orientamento –sul quale da ultimo da C.d.S. sez. IV 16.02.2011 n. 1015– secondo il quale le scelte effettuate dalla pubblica amministrazione allorquando essa predispone ed approva uno strumento urbanistico generale sono espressione di una discrezionalità molto ampia, sindacabile in sede giurisdizionale solo per errori di fatto, ovvero per abnormità o irrazionalità delle stesse (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 27.02.2012 n. 289 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATALa legittimazione ad agire delle associazioni e/o comitati ambientalisti spetta non solo con riferimento alla tutela degli interessi ambientali in senso stretto, ma anche con riferimento alla tutela ambientale in senso lato, che implica in quanto tale la possibilità di impugnare atti aventi finalità urbanistica-edilizia.
Invero, la materia ambientale per le peculiari caratteristiche del bene protetto si atteggia in modo particolare: la tutela dell’ambiente, infatti, lungi dal costituire un autonomo settore d’intervento dei pubblici poteri, assume il ruolo unificante e finalizzante di distinte tutele giuridiche predisposte a favore dei diversi beni della vita che nell’ambiente si collocano (assumendo un carattere per così dire trasversale rispetto alle ordinarie materie e competenze amministrative, che connotano anche le distinzioni fra ministeri.
---------------
La tutela paesaggistica ormai si è evoluta rispetto al momento in cui venne introdotta con il d.l. 312/1985, e non si realizza più soltanto attraverso le forme del binomio vincolo paesaggistico/autorizzazione paesaggistica previsto dagli artt. 146 e ss. d.lgs. 42/2004, ma anche attraverso ulteriori strumenti giuridici che prevedono strumenti di tutela diversi dalla necessità di uno specifico titolo abilitativo ulteriore rispetto a quello edilizio.
Si pensi, ad esempio, alle previsioni dell’art. 25, co. 1, n.t.a. del Piano territoriale paesistico regionale lombardo che stabilisce che: "in tutto il territorio regionale i progetti che incidono sull’esteriore aspetto dei luoghi e degli edifici sono soggetti a esame sotto il profilo del loro inserimento nel contesto", e dell’art. 25, co. 3, che assegna al progettista privato il compito di effettuare quest'esame perché stabilisce che: "ai fini dell’esame di cui al comma 1, il progettista, in fase di elaborazione del progetto, considera preliminarmente la sensibilità paesistica del sito e il grado di incidenza del progetto", seguito dal successivo art. 29, co. 1, che precisa che è lo stesso progettista privato che, effettuato l'esame paesistico, classifica l'intervento in quanto prevede che: "ferma restando la facoltà di verifica da parte dell’amministrazione competente, il progettista, sulla base dei criteri di cui agli articoli 26 e 27, determina l’entità dell’impatto paesistico di cui all’articolo 28. L’impatto potrà risultare inferiore o superiore ad una soglia di rilevanza".
Questo sistema -in cui la classificazione effettuata dal progettista privato è decisiva per alleggerire o aggravare il prosieguo della procedura amministrativa (in quanto l’art. 29, co. 2, stabilisce che: "i progetti il cui impatto non superi la soglia di rilevanza si intendono automaticamente accettabili sotto il profilo paesistico e, quindi, possono essere presentati all’amministrazione competente per i necessari atti di assenso o per la denuncia di inizio attività senza obbligo di presentazione della relazione paesistica"; mentre correlativamente per i progetti che superino la soglia di rilevanza, l’art. 29, co. 3, invece, prevede che: "i progetti il cui impatto superi la soglia di rilevanza sono soggetti a giudizio di impatto paesistico e pertanto le istanze di autorizzazione o concessione edilizia ovvero della dichiarazione di inizio attività devono essere corredate dalla relazione paesistica di cui all’articolo 25, comma 6; la presentazione di tale relazione costituisce condizione necessaria per il rilascio dei successivi atti di assenso o per l’inizio dei lavori in caso di dichiarazione di inizio attività")– null’altro prevede se non una tutela paesistica che si svolge in forme diverse dalla necessità di apposita autorizzazione paesaggistica (prevista per le sole aree sottoposte a vincolo).
Deve, pertanto, affermarsi che nell’attuale sviluppo dell’ordinamento giuridico l’ambito di applicazione della tutela paesaggistica non riguarda ormai soltanto le aree oggetto di vincolo di tutela, in quanto il vincolo di tutela ex artt. 146 e ss. d.lgs. 42/2004 è soltanto uno degli strumenti attraverso cui l’ordinamento persegue l’obiettivo della tutela del paesaggio. Tra tali altri istituti finalizzati alla tutela del paesaggio vi sono anche la relazione sull’impatto paesistico di cui all’art. 29 delle n.t.a. del P.T.P.R. o, come nel caso in esame, la perimetrazione come ambito di elevata naturalità sottoposto a regime di conservazione.

In via generale, va rilevato che la più recente ed avanzata posizione giurisprudenziale (cfr. TAR Sardegna, sez. II, 06.10.2008 n. 1816; TAR Calabria, Sez. I 30.04.2009 n. 378; Cons. St. Sez. IV 11.11.2011 n. 5986) ha posto in luce che la legittimazione ad agire delle associazioni e/o comitati ambientalisti spetta non solo con riferimento alla tutela degli interessi ambientali in senso stretto, ma anche con riferimento alla tutela ambientale in senso lato, che implica in quanto tale la possibilità di impugnare atti aventi finalità urbanistica-edilizia, specificando che “la materia ambientale per le peculiari caratteristiche del bene protetto si atteggia in modo particolare: la tutela dell’ambiente, infatti, lungi dal costituire un autonomo settore d’intervento dei pubblici poteri, assume il ruolo unificante e finalizzante di distinte tutele giuridiche predisposte a favore dei diversi beni della vita che nell’ambiente si collocano (assumendo un carattere per così dire trasversale rispetto alle ordinarie materie e competenze amministrative, che connotano anche le distinzioni fra ministeri” (cfr. Cons. St. Sez. IV 11.11.2011 n. 5986)
La stretta relazione che sempre più spesso corre tra l’urbanistica e l’ambiente è ben rappresentata dalla stretta interconnessione sviluppatasi in questi anni fra i contenuti della pianificazione urbanistica e quelli della tutela ambientale, derivante dalla circostanza che il territorio, inteso in tutte le sue accezioni, è un bene fondamentale avente carattere costitutivo dello stesso bene “ambiente” (su questo profilo si veda ora Corte cost. 21.11.2011 n. 309: “Sul territorio, infatti, «vengono a trovarsi di fronte» –tra gli altri– «due tipi di interessi pubblici diversi: quello alla conservazione del paesaggio, affidato allo Stato, e quello alla fruizione del territorio, affidato anche alle Regioni» (sentenza n. 367 del 2007, punto 7.1. del Considerato in diritto).
Con riguardo alla fattispecie all’esame, va rilevato che –già nel ricorso introduttivo– la ricorrente aveva evidenziato che l’intervento edilizio assentito dal Comune di Aviatico era localizzato “in zona agricola di indiscusso pregio paesistico ed ambientale, già classificata dal Piano territoriale Paesistico Regionale (P.T.P.R.) come ambito di elevata naturalità e dal Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (P.T.C.P.) come contesto di elevato pregio naturalistico e paesistico
”.
Va ricordato, al riguardo, quanto affermato dalla Sezione con la recente sentenza 01.07.2010 n. 2411.
<<La tutela paesaggistica, infatti, ormai si è evoluta rispetto al momento in cui venne introdotta con il d.l. 312/1985, e non si realizza più soltanto attraverso le forme del binomio vincolo paesaggistico/autorizzazione paesaggistica previsto dagli artt. 146 e ss. d.lgs. 42/2004, ma anche attraverso ulteriori strumenti giuridici che prevedono strumenti di tutela diversi dalla necessità di uno specifico titolo abilitativo ulteriore rispetto a quello edilizio.
Si pensi, ad esempio, alle previsioni dell’art. 25, co. 1, n.t.a. del Piano territoriale paesistico regionale lombardo che stabilisce che: "in tutto il territorio regionale i progetti che incidono sull’esteriore aspetto dei luoghi e degli edifici sono soggetti a esame sotto il profilo del loro inserimento nel contesto", e dell’art. 25, co. 3, che assegna al progettista privato il compito di effettuare quest'esame perché stabilisce che: "ai fini dell’esame di cui al comma 1, il progettista, in fase di elaborazione del progetto, considera preliminarmente la sensibilità paesistica del sito e il grado di incidenza del progetto", seguito dal successivo art. 29, co. 1, che precisa che è lo stesso progettista privato che, effettuato l'esame paesistico, classifica l'intervento in quanto prevede che: "ferma restando la facoltà di verifica da parte dell’amministrazione competente, il progettista, sulla base dei criteri di cui agli articoli 26 e 27, determina l’entità dell’impatto paesistico di cui all’articolo 28. L’impatto potrà risultare inferiore o superiore ad una soglia di rilevanza".
Questo sistema -in cui la classificazione effettuata dal progettista privato è decisiva per alleggerire o aggravare il prosieguo della procedura amministrativa (in quanto l’art. 29, co. 2, stabilisce che: "i progetti il cui impatto non superi la soglia di rilevanza si intendono automaticamente accettabili sotto il profilo paesistico e, quindi, possono essere presentati all’amministrazione competente per i necessari atti di assenso o per la denuncia di inizio attività senza obbligo di presentazione della relazione paesistica"; mentre correlativamente per i progetti che superino la soglia di rilevanza, l’art. 29, co. 3, invece, prevede che: "i progetti il cui impatto superi la soglia di rilevanza sono soggetti a giudizio di impatto paesistico e pertanto le istanze di autorizzazione o concessione edilizia ovvero della dichiarazione di inizio attività devono essere corredate dalla relazione paesistica di cui all’articolo 25, comma 6; la presentazione di tale relazione costituisce condizione necessaria per il rilascio dei successivi atti di assenso o per l’inizio dei lavori in caso di dichiarazione di inizio attività")– null’altro prevede se non una tutela paesistica che si svolge in forme diverse dalla necessità di apposita autorizzazione paesaggistica (prevista per le sole aree sottoposte a vincolo).
Deve, pertanto, affermarsi che nell’attuale sviluppo dell’ordinamento giuridico l’ambito di applicazione della tutela paesaggistica non riguarda ormai soltanto le aree oggetto di vincolo di tutela, in quanto il vincolo di tutela ex artt. 146 e ss. d.lgs. 42/2004 è soltanto uno degli strumenti attraverso cui l’ordinamento persegue l’obiettivo della tutela del paesaggio. Tra tali altri istituti finalizzati alla tutela del paesaggio vi sono anche la relazione sull’impatto paesistico di cui all’art. 29 delle n.t.a. del P.T.P.R. o, come nel caso in esame, la perimetrazione come ambito di elevata naturalità sottoposto a regime di conservazione
.>>.
Tale indirizzo ermeneutico è stato espressamente recepito e confermato, in sede di appello, dal Consiglio di Stato (cfr. Sez. IV 11.11.2011 n. 5986).
Nella specie è poi evidente la stretta consequenzialità sussistente fra tutela dell’ambito naturalistico e la restrittiva disciplina edilizia in zona agricola di cui agli artt. 59/60 della L.R. n. 12 del 2005, della quale viene lamentata la violazione da parte della ricorrente associazione ambientalistica (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 27.02.2012 n. 274 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAL’interesse al ricorso ex art. 100 c.p.c. deve sussistere sia nel momento di proposizione sia in quello di decisione del gravame.
Pertanto, il sopravvenire di un nuovo provvedimento sostitutivo di un precedente ed idoneo a provocarne la caducazione, fa venir meno in chi abbia impugnato il primo provvedimento l'interesse a coltivare la suddetta impugnazione, poiché la situazione pregiudizievole lamentata si verificherebbe ugualmente, nonostante l'annullamento (eventuale) del provvedimento già impugnato, in forza di quello sopravvenuto.
Per converso, tale effetto non si verifica allorché siano emanati provvedimenti dipendenti da quello impugnato e che ne presuppongono l'esistenza, perché in tal caso questi ultimi cessano di aver effetti con l'annullamento del primo.
In tema di titoli edilizi l'esposto principio comporta l'improcedibilità delle impugnazioni dei permessi allorché quello impugnato sia stato sostituito con altro che ne autorizzi anche se sotto la denominazione di "variante", un progetto nuovo e diverso, sul quale si siano esplicate nuove ed autonome valutazioni dell'Amministrazione, idonee a legittimare l'edificazione indipendentemente dalla prima concessione. Al contrario, il rilascio di autorizzazioni di variante vere e proprie, tese a modificazioni dell'originario progetto che ne presuppongono tuttavia l'esistenza, non comporta l'improcedibilità del ricorso proposto contro il primo e fondamentale provvedimento autorizzatorio, poiché tali varianti ed i provvedimenti che li autorizzano non hanno autonoma esistenza, perdono di oggetto e vengono a cadere all'atto dell'annullamento del precedente provvedimento.

Invero, costituisce generale principio del processo amministrativo (v. ora l’art. 35 del c.p.a.) l’affermazione che l’interesse al ricorso ex art. 100 c.p.c. deve sussistere sia nel momento di proposizione sia in quello di decisione del gravame (cfr. ex multis TAR Lecce, Sez. I, 07.09.2010 n. 1942).
Pertanto, il sopravvenire di un nuovo provvedimento sostitutivo di un precedente ed idoneo a provocarne la caducazione, fa venir meno in chi abbia impugnato il primo provvedimento l'interesse a coltivare la suddetta impugnazione, poiché la situazione pregiudizievole lamentata si verificherebbe ugualmente, nonostante l'annullamento (eventuale) del provvedimento già impugnato, in forza di quello sopravvenuto.
Per converso, tale effetto non si verifica allorché siano emanati provvedimenti dipendenti da quello impugnato e che ne presuppongono l'esistenza, perché in tal caso questi ultimi cessano di aver effetti con l'annullamento del primo.
In tema di titoli edilizi l'esposto principio comporta l'improcedibilità delle impugnazioni dei permessi allorché quello impugnato sia stato sostituito con altro che ne autorizzi anche se sotto la denominazione di "variante", un progetto nuovo e diverso, sul quale si siano esplicate nuove ed autonome valutazioni dell'Amministrazione, idonee a legittimare l'edificazione indipendentemente dalla prima concessione. Al contrario, il rilascio di autorizzazioni di variante vere e proprie, tese a modificazioni dell'originario progetto che ne presuppongono tuttavia l'esistenza, non comporta l'improcedibilità del ricorso proposto contro il primo e fondamentale provvedimento autorizzatorio, poiché tali varianti ed i provvedimenti che li autorizzano non hanno autonoma esistenza, perdono di oggetto e vengono a cadere all'atto dell'annullamento del precedente provvedimento (cfr. Cons. St., Sez. V, 14.01.1991 n. 44)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 27.02.2012 n. 274 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' illegittimo il permesso di costruire rilasciato in zona agricola per la costruzione di residenze dei figli dell'imprenditore agricolo.
Con il secondo motivo aggiunto, il WWF rileva che il permesso di costruire è stato rilasciato in assenza dei presupposti richiesti dall’art. 59 della L.R. n. 12/2005 per gli interventi in area agricola, che consente di costruire solo abitazioni da destinare alla residenza dell’imprenditore agricolo e dei dipendenti, mentre le tre abitazioni assentite sono destinate alla residenza dei tre figli, i quali non costituiscono la forza lavoro dell’azienda, ma partecipano solo saltuariamente all’attività agricola.
La doglianza risulta fondata.
La legislazione regionale lombarda in tema di governo del territorio (L.R. 11.3.2005 n. 12), agli artt. 59, 60, 61 e 62, disciplina le modalità di edificazione in ambito agricolo. Con tali norme, riprendendo sostanzialmente i contenuti dell’ antecedente L. R. 07.06.1980 n. 93, in materia di edificazione nelle zone agricole, si persegue lo scopo di valorizzare e recuperare il patrimonio agricolo, limitare l'utilizzazione edilizia dei territori agricoli, assicurando il soddisfacimento delle esigenze degli imprenditori e dei lavoratori agricoli.
La giurisprudenza formatasi sulla L.R. n. 93 del 1980 aveva rilevato che tale disciplina non autorizzava il rilascio di concessioni ad altri che all'imprenditore agricolo, previo accertamento di effettiva esistenza e funzionamento dell'azienda agricola (art. 3); il che significa che sono ammessi soltanto opere o interventi attinenti all'agricoltura, mentre restano interdette le trasformazioni del territorio che non siano funzionali all'attività agricola (cfr. TAR Milano, Sez. 2, 25.01.1995 n. 90, T.A.R. Brescia 04.10.1993 n. 798).
Ora l’art. 59 della L.R. 11.3.2005 n. 12, al c.1, dispone che in zona classificata agricola “sono ammesse esclusivamente le opere realizzate in funzione della conduzione del fondo e destinate alle residenze dell'imprenditore agricolo e dei dipendenti dell'azienda, nonché alle attrezzature e infrastrutture produttive necessarie per lo svolgimento delle attività di cui all'articolo 2135 del codice civile quali stalle, silos, serre, magazzini, locali per la lavorazione e la conservazione e vendita dei prodotti agricoli secondo i criteri e le modalità previsti dall'articolo 60”.
Il secondo comma soggiunge che “La costruzione di nuovi edifici residenziali di cui al comma 1 è ammessa qualora le esigenze abitative non possano essere soddisfatte attraverso interventi sul patrimonio edilizio esistente”.
Può dunque affermarsi che la disciplina legislativa consente l’edificazione in zona agricola solo al ricorrere dei restrittivi e tassativi (“esclusivamente”) requisiti indicati
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 27.02.2012 n. 274 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASebbene sia stato superato il criterio della "fedele ricostruzione" (di cui all'art. 31 l. 05.08.1978 n. 457), espunto dalle disposizioni contenute nell'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. 06.06.2001 n. 380, la ristrutturazione edilizia, per essere tale e non finire per coincidere con la nuova costruzione, deve conservare le caratteristiche fondamentali dell'edificio preesistente, dovendo la successiva ricostruzione dell'edificio riprodurre le precedenti linee fondamentali quanto a sagoma e volumi.
Ciò che contraddistingue la ristrutturazione dalla nuova edificazione è la già avvenuta trasformazione del territorio, attraverso una edificazione di cui si conservi la struttura fisica (sia pure con la sovrapposizione di un "insieme sistematico di opere, che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente"), ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con ricostruzione, se non "fedele" -termine espunto dall'attuale disciplina-, comunque, rispettosa della volumetria e della sagoma della costruzione preesistente.
Va precisato il differente regime cui sono soggetti gli interventi di ristrutturazione edilizia rispetto alle nuove costruzioni: ove la ristrutturazione mantenga inalterati i parametri urbanistici ed edilizi preesistenti, l'intervento non è subordinato al rispetto dei vincoli posti dagli strumenti urbanistici sopravvenuti, giacché la legittimazione urbanistica del manufatto da demolire si trasferisce su quello ricostruito.

In aggiunta a tali precisazioni (sentenza 21.11.2011 n. 309 della Corte Costituzionale) va ricordato che la giurisprudenza ha affermato (cfr. Cons. St., Sez. IV, 28.07.2005 n. 4011) che, sebbene sia stato superato il criterio della "fedele ricostruzione" (di cui all'art. 31 l. 05.08.1978 n. 457), espunto dalle disposizioni contenute nell'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. 06.06.2001 n. 380, la ristrutturazione edilizia, per essere tale e non finire per coincidere con la nuova costruzione, deve conservare le caratteristiche fondamentali dell'edificio preesistente, dovendo la successiva ricostruzione dell'edificio riprodurre le precedenti linee fondamentali quanto a sagoma e volumi.
Inoltre, la giurisprudenza ha sottolineato (cfr. Cons. St., Sez. VI, 16.12.2008 n. 6214; Sez. IV, 16.06.2008 n. 2981; Sez. V, 04.03.2008 n. 918; Sez. IV, 26.02.2008 n. 681) che ciò che contraddistingue la ristrutturazione dalla nuova edificazione è la già avvenuta trasformazione del territorio, attraverso una edificazione di cui si conservi la struttura fisica (sia pure con la sovrapposizione di un "insieme sistematico di opere, che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente"), ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con ricostruzione, se non "fedele" -termine espunto dall'attuale disciplina-, comunque, rispettosa della volumetria e della sagoma della costruzione preesistente.
Infine, va precisato il differente regime cui sono soggetti gli interventi di ristrutturazione edilizia rispetto alle nuove costruzioni: ove la ristrutturazione mantenga inalterati i parametri urbanistici ed edilizi preesistenti, l'intervento non è subordinato al rispetto dei vincoli posti dagli strumenti urbanistici sopravvenuti, giacché la legittimazione urbanistica del manufatto da demolire si trasferisce su quello ricostruito (cfr. TAR Milano, Sez. II, 07.09.2010 n. 5122, Cons. St, Sez. V, 14.11.1996 n. 1359; Cons. St., Sez. V, 28.03.1998 n. 369; Cass. civ., sez. II, 12.06.2001 n. 7909; Tar Calabria, Reggio Calabria, 24.01.2001 n. 36; Puglia, Bari, sez. III, 22.07.2004 n. 3210) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 27.02.2012 n. 273 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'art. 9 della l. 24.03.1989 n. 122, che consente di realizzare gratuitamente "nel sottosuolo" parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, è una norma che ponendosi in deroga "…agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti…" è di stretta interpretazione, per cui deve trovare rigorosa applicazione solo nelle fattispecie in essa espressamente previste.
Nel primo motivo si sostiene che il provvedimento sarebbe illegittimo per violazione dell’art. 9 l. 122/1989 che consente parcheggi pertinenziali anche in deroga agli strumenti di piano.
In realtà, l’art. 9 l. 122/1989 prevede che “i proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti. Restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla legislazione in materia paesaggistica ed ambientale ed i poteri attribuiti dalla medesima legislazione alle regioni e ai Ministeri dell'ambiente e per i beni culturali ed ambientali da esercitare motivatamente nel termine di 90 giorni”.
Nel caso in esame, il garage sarebbe stato realizzato non nell’interrato, né nei locali al piano terra, ma in un corpo aggiuntivo posto al piano terra.
La difesa del ricorrente ritiene che giurisprudenzialmente sia possibile estendere la previsione dell’art. 9 anche ai locali realizzati fuori terra, ma di recente il Supremo consesso della giustizia amministrativa è andato in altra direzione, rilevando la natura di norma di stretta interpretazione dell’art. 9 in questione (CdS, sez. IV, sentenza 13.07.2011 n. 4234: l'art. 9 della l. 24.03.1989 n. 122, che consente di realizzare gratuitamente "nel sottosuolo" parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, è una norma che ponendosi in deroga "…agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti…" è di stretta interpretazione, per cui deve trovare rigorosa applicazione solo nelle fattispecie in essa espressamente previste; sul punto v. anche Tar L’Aquila, sez. I, 19.04.2011, n. 208) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 27.02.2012 n. 265 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di impugnazione del permesso di costruire, il terzo ha titolo ad adire il giudice amministrativo quando esista una situazione soggettiva ed oggettiva di stabile collegamento con la zona coinvolta da una costruzione, che, se illegittimamente assentita, sia idonea ad arrecare pregiudizio ai valori urbanistici della zona medesima, onde la qualifica giuridica di proprietario di un bene immobile confinante deve di per sé ritenersi idonea a radicare la legittimazione e l'interesse al ricorso, non occorrendo altresì la verifica della concreta lesione di un qualsiasi altro interesse giuridicamente rilevante.
L’orientamento giurisprudenziale dominante, che il Collegio condivide, è dell’avviso che, in materia di impugnazione del permesso di costruire, il terzo ha titolo ad adire il giudice amministrativo quando esista una situazione soggettiva ed oggettiva di stabile collegamento con la zona coinvolta da una costruzione, che, se illegittimamente assentita, sia idonea ad arrecare pregiudizio ai valori urbanistici della zona medesima, onde la qualifica giuridica di proprietario di un bene immobile confinante deve di per sé ritenersi idonea a radicare la legittimazione e l'interesse al ricorso, non occorrendo altresì la verifica della concreta lesione di un qualsiasi altro interesse giuridicamente rilevante (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 29.07.2009, n. 4756; Consiglio di Stato, sez. IV, 05.01.2011, n. 18; 20.10.2010, n. 7591; sez. IV, 31.05.2007 n. 2849; sez. V, 07.05.2008, n. 2086; sez. VI, 15.06.2010, n. 3744; sez. IV, 12.05.2009, n. 2908; Tar Lombardia, Milano, sez. II, 08.09.2011, 2194).
La giurisprudenza invocata dalla controinteressata, secondo cui il criterio della vicinitas non sarebbe sufficiente a radicare la legittimazione e l’interesse al ricorso, si riferisce invece a fattispecie –quale è quella oggetto del presente giudizio– nelle quali non sono gravati titoli edilizi, ma, piuttosto, atti di pianificazione generale.
Nel caso di specie, la realizzazione della costruzione oggetto del permesso di costruire impugnato è indubbiamente idonea ad arrecare un pregiudizio ai valori urbanistici della zona in cui risiedono i ricorrenti ed è inoltre lesiva dell’interesse di questi ultimi al rispetto del vincolo di asservimento apposto sull’area di proprietà della controinteressata dal loro avente causa.
Sussiste, quindi, piena legittimazione ed interesse al ricorso in capo ai signori .... (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.02.2012 n. 623 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAUn'area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa”.
Ai fini del calcolo della volumetria disponibile su un lotto già parzialmente edificato occorre, dunque, considerare tutte le costruzioni che comunque già insistono sull'area, con irrilevanza di eventuali successivi frazionamenti catastali.
L'asservimento dei suoli in caso di edificazione costituisce una qualità oggettiva del fondo -il cui contenuto consiste in un vincolo automatico imposto all'area in relazione alla volumetria dalla stessa espressa- che non necessita di alcuno specifico atto di asservimento o di trascrizione. Tale predicato segue "ambulatoriamente" i destini del fondo stesso e si impone a chiunque.
Il c.d. vincolo d'asservimento si costituisce, invero, nei riguardi delle parti e dei terzi, con il rilascio del titolo edilizio: ed è opponibile a qualunque terzo acquirente, anche in assenza dell’obbligo di una sua trascrizione nei registri immobiliari.
---------------
Se il vincolo di asservimento è sensibile alle sopravvenienze della pianificazione -non ponendo limiti alla facoltà del pianificatore generale di dettare una diversa disciplina urbanistica dell’area- non può, però, affermarsi l’irrilevanza della già utilizzata vocazione edificatoria solo per effetto delle modifiche alla destinazione urbanistica dell’area asservita intervenute nel corso del tempo.
Non può, cioè, ritenersi che l’attribuzione all’area asservita, per un certo periodo, di una destinazione differente da quella originaria, comporti -nel momento in cui l’area torni alla precedente destinazione- il decadere e l’azzeramento dei vincoli di asservimento precedentemente costituiti.
Allorquando la destinazione urbanistica dell’area asservita venga modificata, il vincolo di asservimento non può operare; ma ove intervenga una ulteriore modifica alle previsioni dello strumento urbanistico che riporti l’area all’originaria destinazione -in mancanza di una diversa ed espressa volontà del pianificatore- riprendono efficacia i vincoli di inedificabilità gravanti su di essa.
Una diversa conclusione si porrebbe, invero, in contrasto con il principio secondo cui lo strumento urbanistico, quando prevede i limiti entro i quali l'area può essere edificata, si riferisce non alla edificazione ulteriore rispetto a quella esistente al momento della sua approvazione, ma alla edificazione complessivamente realizzabile sull'area.
Occorre, inoltre, considerare, che il vincolo creato dall’asservimento per sua natura permane sul fondo a tempo indeterminato. L'asservimento di un fondo ad un altro crea, infatti, una relazione pertinenziale nella quale viene posta "durevolmente" a servizio di un fondo la qualità edificatoria di un altro.
Gli effetti derivanti dal vincolo, integrando una qualità oggettiva del terreno, hanno carattere definitivo ed irrevocabile e provocano la perdita definitiva delle potenzialità edificatorie dell'area asservita, con permanente minorazione della sua utilizzazione da parte di chiunque ne sia il proprietario.

Per costante giurisprudenza, “un'area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa” (fra le tante Cons. Stato, sez. IV, 26.09.2008, n. 4647).
Ai fini del calcolo della volumetria disponibile su un lotto già parzialmente edificato occorre, dunque, considerare tutte le costruzioni che comunque già insistono sull'area, con irrilevanza di eventuali successivi frazionamenti catastali (Cons. Stato, sez. III, 28.04.2009, n. 965).
Nel caso di specie, il frazionamento intervenuto nel 1965, come pure i successivi passaggi di proprietà dell’area, non hanno, quindi, determinato la sopravvenuta inefficacia del vincolo assunto.
Non rileva, poi, che l’atto di asservimento sia stato o meno trascritto. La giurisprudenza è, invero, costante nel ritenere che l'asservimento dei suoli in caso di edificazione costituisca una qualità oggettiva del fondo -il cui contenuto consiste in un vincolo automatico imposto all'area in relazione alla volumetria dalla stessa espressa- che non necessita di alcuno specifico atto di asservimento o di trascrizione. Tale predicato segue "ambulatoriamente" i destini del fondo stesso e si impone a chiunque (C.S., sez. V n. 1525 del 21.03.2004, n. 5039 del 12.07.2004 e n. 7029 del 18.12.2002; (sez. V, 30.03.1998, n. 387; 21.01.1997, n. 63; C.G.A., 19.10.1989, n. 415).
Il c.d. vincolo d'asservimento si costituisce, invero, nei riguardi delle parti e dei terzi, con il rilascio del titolo edilizio: ed è opponibile a qualunque terzo acquirente, anche in assenza dell’obbligo di una sua trascrizione nei registri immobiliari (Cassazione penale sez. III, 30.04.2009, Cons. Stato, Sez. 5, 28.06.2000, n. 3637; Cass. civ.: 22.02.1996, n. 1352; 12.09.1998, n. 9081; TAR Catania Sicilia sez. I, 07.07.2011, n. 1677).
Non assume, poi, rilievo la circostanza che nel certificato di destinazione urbanistica dell’area non venga menzionata l’esistenza di un vincolo di asservimento gravante sull’area in questione, stante la natura meramente dichiarativa di tale atto di certificazione (TAR Milano Lombardia sez. II, 14.03.2011, n. 729). Né può invocarsi in senso contrario la pronuncia del Consiglio di Stato, sez. V, 28.06.2000, n. 3637 la quale si limita ad affermare che la mancata menzione del trasferimento di volumetria da un'area ad altra area, ove sia idonea a ledere l’affidamento dei terzi, possa essere fonte di diretta responsabilità dell’amministrazione comunale.
Se il vincolo di asservimento è sensibile alle sopravvenienze della pianificazione -non ponendo limiti alla facoltà del pianificatore generale di dettare una diversa disciplina urbanistica dell’area (Cons. Stato, sez. IV, 29.07.2008, n. 3766; Tar Veneto, 10.09.2004, n. 3263)- non può, però, affermarsi l’irrilevanza della già utilizzata vocazione edificatoria solo per effetto delle modifiche alla destinazione urbanistica dell’area asservita intervenute nel corso del tempo.
Non può, cioè, ritenersi che l’attribuzione all’area asservita, per un certo periodo, di una destinazione differente da quella originaria, comporti -nel momento in cui l’area torni alla precedente destinazione- il decadere e l’azzeramento dei vincoli di asservimento precedentemente costituiti.
Allorquando la destinazione urbanistica dell’area asservita venga modificata, il vincolo di asservimento non può operare; ma ove intervenga una ulteriore modifica alle previsioni dello strumento urbanistico che riporti l’area all’originaria destinazione -in mancanza di una diversa ed espressa volontà del pianificatore- riprendono efficacia i vincoli di inedificabilità gravanti su di essa.
Una diversa conclusione si porrebbe, invero, in contrasto con il principio secondo cui lo strumento urbanistico, quando prevede i limiti entro i quali l'area può essere edificata, si riferisce non alla edificazione ulteriore rispetto a quella esistente al momento della sua approvazione, ma alla edificazione complessivamente realizzabile sull'area (cfr. Cons. Stato, sez. V, 07.11.2002, n. 6128).
Occorre, inoltre, considerare, che il vincolo creato dall’asservimento per sua natura permane sul fondo a tempo indeterminato. L'asservimento di un fondo ad un altro crea, infatti, una relazione pertinenziale nella quale viene posta "durevolmente" a servizio di un fondo la qualità edificatoria di un altro (cfr. Cons. Stato, Ad Plen., n. 3/2009; Cons. Stato, sez. IV, n. 3766/2008).
Gli effetti derivanti dal vincolo, integrando una qualità oggettiva del terreno, hanno carattere definitivo ed irrevocabile e provocano la perdita definitiva delle potenzialità edificatorie dell'area asservita, con permanente minorazione della sua utilizzazione da parte di chiunque ne sia il proprietario (Cass. pen., sez. III, 21177/2009)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.02.2012 n. 623 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordinanza di demolizione costituisce esplicazione di un potere vincolato, sicché essa è congruamente motivata con la descrizione delle opere abusive e il richiamo all'accertata abusività delle stesse, senza necessità di indicare alcun interesse pubblico ulteriore.
Per giurisprudenza costante, l'ordinanza di demolizione costituisce esplicazione di un potere vincolato, sicché essa è congruamente motivata con la descrizione delle opere abusive e il richiamo all'accertata abusività delle stesse, senza necessità di indicare alcun interesse pubblico ulteriore (cfr. TAR Lazio Roma, sez. I, 08.06.2011, n. 5082; TAR Puglia Lecce, sez. III, 07.04.2011, n. 611; TAR Trentino Alto Adige Trento, sez. I, 06.04.2011, n. 105; TAR Campania Napoli, sez. III, 02.03.2011, n. 1273; TAR Puglia Bari, sez. II, 11.11.2010, n. 3902) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.02.2012 n. 618 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La disciplina dettata dal D.P.R. 20-10-1998 n. 447 è finalizzata a semplificare i procedimenti di autorizzazione per la realizzazione, l'ampliamento, la ristrutturazione e la riconversione degli impianti produttivi.
Detta semplificazione amministrativa si risolve in un procedimento che, attraverso la conferenza di servizi indetta dal responsabile del procedimento, porta alla formazione di una proposta di variante sulla quale il Consiglio comunale si pronuncia "definitivamente".
Trattasi, comunque, di uno strumento di natura eccezionale, che non costituisce in alcun modo un mezzo ordinario di modifica dell'assetto urbanistico, azionabile in base alle soggettive preferenze e convenienze dell'imprenditore.
A fortiori, deve escludersi che la suindicata procedura di semplificazione possa risolversi in uno strumento di sanatoria di abusi edilizi preesistenti, al di fuori e, anzi, in violazione, delle norme eccezionali di disciplina della sanatoria medesima.
---------------
Ai sensi dell’art. 5 dpr 447/1998, la conferenza non deve essere sempre e comunque convocata qualora il progetto proposto non contrasti con divieti specifici ambientali e sanitari, poiché ragionando in tal modo si giunge ad esautorare il comune dei suoi poteri discrezionali di programmazione e di governo dell'ordinato sviluppo del territorio.
Invero, si deve affermare da un lato che la determinazione comunale di non avviare il procedimento è di per sé pienamente consentita dall'ordinamento di settore, il quale configura l'utilizzo di una procedura pur sempre derogatoria come meramente facoltativo da parte dell'ente locale; dall'altro che, nel merito, tale determinazione costituisce il frutto dell'esercizio di un potere discrezionale e quindi può legittimamente fondare -anche indipendentemente da precisi divieti ambientali- su valutazioni di ordine generale, purché razionalmente ed equilibratamente rapportate, in relazione alla natura ed entità dell'intervento, all'esigenza di evitare la compromissione di valori paesaggistici, urbanistici o comunque inerenti la tutela dell'assetto del territorio.
Deve, pertanto, escludersi –in generale- la configurabilità di un obbligo di attivazione della procedura de qua in capo al responsabile dello S.U.A.P.

La disciplina dettata dal D.P.R. 20-10-1998 n. 447 è finalizzata a semplificare i procedimenti di autorizzazione per la realizzazione, l'ampliamento, la ristrutturazione e la riconversione degli impianti produttivi (cfr. Con. Stato, Sez. IV, sent. n. 2170 del 14-04-2006). Detta semplificazione amministrativa si risolve in un procedimento che, attraverso la conferenza di servizi indetta dal responsabile del procedimento, porta alla formazione di una proposta di variante sulla quale il Consiglio comunale si pronuncia "definitivamente" (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, sent. n. 1644 del 11-04-2007). Trattasi, comunque, di uno strumento di natura eccezionale, che non costituisce in alcun modo un mezzo ordinario di modifica dell'assetto urbanistico, azionabile in base alle soggettive preferenze e convenienze dell'imprenditore (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, sent. n. 1038 del 03-03-2006).
A fortiori, deve escludersi che la suindicata procedura di semplificazione possa risolversi in uno strumento di sanatoria di abusi edilizi preesistenti, al di fuori e, anzi, in violazione, delle norme eccezionali di disciplina della sanatoria medesima.
---------------
Ai sensi dell’art. 5 dpr 447/1998, l’attivazione del procedimento ivi disciplinato non consegue obbligatoriamente all’istanza di parte, disponendosi al riguardo che:
<<1. Qualora il progetto presentato sia in contrasto con lo strumento urbanistico, o comunque richieda una sua variazione, il responsabile del procedimento rigetta l'istanza. Tuttavia, allorché il progetto sia conforme alle norme vigenti in materia ambientale, sanitaria e di sicurezza del lavoro ma lo strumento urbanistico non individui aree destinate all'insediamento di impianti produttivi ovvero queste siano insufficienti in relazione al progetto presentato, il responsabile del procedimento può, motivatamente, convocare una conferenza di servizi, disciplinata dall'articolo 14 della legge 07.08.1990, n. 241, come modificato dall'articolo 17 della legge 15.05.1997, n. 127, per le conseguenti decisioni, dandone contestualmente pubblico avviso. Alla conferenza può intervenire qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, individuali o collettivi nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dalla realizzazione del progetto dell'impianto industriale>>.
Consegue da ciò che, pur ispirandosi la disciplina in rassegna a evidenti criteri di favore per l'insediamento di attività produttive, tale ratio economico-sociale non può essere spinta sino al punto da sovvertire il ruolo fondamentale che spetta al comune nell'ambito dell’ordinario procedimento in materia urbanistica.
Ne consegue che la conferenza non deve essere sempre e comunque convocata qualora il progetto proposto non contrasti con divieti specifici ambientali e sanitari, poiché ragionando in tal modo si giunge ad esautorare il comune dei suoi poteri discrezionali di programmazione e di governo dell'ordinato sviluppo del territorio (così, Consiglio di Stato, sez. IV, 03.03.2006, n. 1038, per cui: <<si deve affermare da un lato che la determinazione comunale di non avviare il procedimento è di per sé pienamente consentita dall'ordinamento di settore, il quale configura l'utilizzo di una procedura pur sempre derogatoria come meramente facoltativo da parte dell'ente locale; dall'altro che, nel merito, tale determinazione costituisce il frutto dell'esercizio di un potere discrezionale e quindi può legittimamente fondare -anche indipendentemente da precisi divieti ambientali- su valutazioni di ordine generale, purché razionalmente ed equilibratamente rapportate, in relazione alla natura ed entità dell'intervento, all'esigenza di evitare la compromissione di valori paesaggistici, urbanistici o comunque inerenti la tutela dell'assetto del territorio>>).
Deve, pertanto, escludersi –in generale- la configurabilità di un obbligo di attivazione della procedura de qua in capo al responsabile dello S.U.A.P.
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.02.2012 n. 618 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe opere funzionali all’eliminazione delle barriere architettoniche sono solo quelle tecnicamente necessarie a garantire l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e non già le opere dirette alla migliore fruibilità dell’edificio e alla maggior comodità dei residenti.
Sicché, nel bilanciamento tra l’interesse alla tutela del patrimonio storico-artistico nazionale e quello alla salvaguardia del diritto alla salute ed al normale svolgimento della vita di relazione e socializzazione dei soggetti in minorate condizioni fisiche, la normativa ha dato prevalenza in via generale al secondo, consentendo, purtuttavia, il diniego dell’autorizzazione alla realizzazione di interventi su beni vincolati nei soli casi di accertato e motivato «serio pregiudizio» del bene vincolato; mentre, nel bilanciamento degli interessi in gioco si è ritenuto, al contrario, prevalente quello relativo al rispetto della normativa antincendio.
Per quando attiene, in particolare, l’eliminazione di tali barriere negli edifici in condominio, la normativa vigente sopra richiamata nel contrasto tra l’interesse dei condomini a non vedere modificati i beni comuni e quello dei soggetti portatori di minorazioni fisiche ha tutelato questi ultimi in termini assoluti ed inderogabili, per cui non è richiesto il consenso di tutti i proprietari del fabbricato ove l’opera debba essere realizzata in cortili o chiostrine “interni ai fabbricati o comuni o di uso comune a più fabbricati”.
---------------
Relativamente al conflitto tra gli interessi dei soggetti portatori di minorazioni fisiche e quello dei soggetti terzi, il legislatore con la previsione contenuta nell'art. 79 dpr 380/2001 e nell'art. 873 del codice civile, ha ritenuto di dare prevalenza al diritto di questi ultimi al rispetto delle distanze tra le costruzioni, che quindi non può mai essere “minore di 3 metri”, in base alla previsione codicistica, all’evidente fine di garantire la salubrità delle costruzioni. In definitiva, il legislatore nel bilanciamento degli interessi in gioco nel mentre ha ritenuto prevalente l’interesse dei portatori di handicap rispetto a quello degli altri “condomini”, ha ritenuto al contrario recessivo tale interesse rispetto a quello dei soggetti “terzi”, cioè dei proprietari di immobili finitimi, che non possono veder leso il loro diritto alla salute, ugualmente meritevole di tutela, a non vedere create delle intercapedini che possono incidere sulla salubrità delle costruzioni.
---------------
La costruzione di un ascensore esterno in facciata di condominio per un verso ha quei connotati e quelle caratteristiche di stabilità che impongono di ricomprenderlo nella nozione di “costruzione” di cui al predetto art. 873 del codice civile e per altro verso, per le sue caratteristiche costruttive, viene a creare una permanente intercapedine dannosa per la sicurezza e la salubrità delle costruzioni vicine; per cui tale opera deve necessariamente rispettare le distanze legali.

... per l'annullamento del provvedimento 24.05.2011, prat. n. 4/2001, con il quale il Responsabile del III Settore (Assetto ed uso del territorio) del Comune di Loreto Aprutino ha rigettato la domanda di permesso di costruire presentata dal ricorrenti per l’esecuzione dei lavori di installazione di un ascensore esterno ...
...
L’impugnato provvedimento di rigetto della domanda di permesso di costruire presentata dai ricorrenti per l’esecuzione dei lavori di installazione di un ascensore esterno è motivato con riferimento alla testuale considerazione che, in violazione dell’art. 79 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, non era rispettata la “distanza di tre metri di cui all’art. 873 del codici civile, ricorrendo il caso in cui tra le opere da realizzare (ascensore finalizzato all’eliminazione delle barriere architettoniche) ed il fabbricato alieno … non è interposto alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune”.
Tale ragione giustificativa del diniego del titolo edilizio richiesto si sottrae, ad avviso del Collegio, alle censure di legittimità dedotte con il ricorso.
Va al riguardo premesso che il Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, approvato con D.P.R. 06.06.2001, n. 380, nel disciplinare all’art. 79 le opere finalizzate all’eliminazione delle barriere architettoniche dispone testualmente al suo primo comma che tali opere “possono essere realizzate in deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi, anche per i cortili e le chiostrine interni ai fabbricati o comuni o di uso comune a più fabbricati”; al suo secondo comma precisa, inoltre, che “è fatto salvo l’obbligo di rispetto delle distanze di cui agli articoli 873 e 907 del codice civile nell’ipotesi in cui tra le opere da realizzare e i fabbricati alieni non sia interposto alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune”.
Tale richiamato art. 873 del codice civile, nel disciplinare le distanze nelle costruzioni, dispone a sua volta che “le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri”.
Va, infine, ricordato che con Decreto ministeriale 14.06.1989, n. 236, sono state dettate le prescrizioni tecniche necessarie a garantire l’accessibilità degli edifici privati ai fini del superamento e dell’eliminazione delle barriere architettoniche.
Così puntualizzato il quadro normativo di riferimento, va evidenziato che tali previsioni per il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati -dettate in via generale dalla legge n. 13 del 1989, poi trasfusa nel predetto t.u., ed articolate in dettaglio nella normativa tecnica di attuazione di cui al D.M. 14.06.1989, n. 236- hanno elevato il livello di tutela dei soggetti portatori di minorazioni fisiche, che oggi non è più relegato ad un ristretto ambito soggettivo ed individuale, ma è ormai considerato come interesse primario dell’intera collettività, da soddisfare con interventi mirati a rimuovere situazioni preclusive dello sviluppo della persona e dello svolgimento di una normale vita di relazione (Corte Costituzionale 10.03.1999, n. 167, e 04.07.2008, n. 251, e da ultimo TAR Campania, sede Napoli, sez. IV, 14.11.2011, n. 5343).
Purtuttavia, va anche precisato che la giurisprudenza ha al riguardo meglio precisato che tale sistema di tutela delle persone disabili è, in concreto, applicabile compatibilmente con altri interessi pubblici che non possono essere pretermessi e che devono essere, invece, bilanciati con quello, superiore, alla tutela ottimale delle medesime persone; con la conseguenza che le misure necessarie a rendere effettiva la tutela delle persone disabili, alla stregua degli art. 2, 3 e 32 della Costituzione possono essere legittimamente graduate in vista dell’attuazione del principio di parità di trattamento, tenuto conto di tutti i valori costituzionali in gioco e fermo comunque il rispetto di un nucleo indefettibile di garanzie per gli interessati. In definitiva, tale normativa consente il diniego della richiesta autorizzazione qualora non sia possibile realizzare le opere senza pregiudizio di altri beni ugualmente tutelati.
Premesso che le opere funzionali all’eliminazione delle barriere architettoniche sono solo quelle tecnicamente necessarie a garantire l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e non già le opere dirette alla migliore fruibilità dell’edificio e alla maggior comodità dei residenti (TAR Abruzzo, sede L'Aquila, 08.11.2011, n. 526), va ricordato che il legislatore ha effettuato delle scelte puntuali in ordine alla graduazione degli interessi coinvolti.
Così, in particolare, nel bilanciamento tra l’interesse alla tutela del patrimonio storico-artistico nazionale e quello alla salvaguardia del diritto alla salute ed al normale svolgimento della vita di relazione e socializzazione dei soggetti in minorate condizioni fisiche, tale normativa ha dato prevalenza in via generale al secondo, consentendo, purtuttavia, il diniego dell’autorizzazione alla realizzazione di interventi su beni vincolati nei soli casi di accertato e motivato «serio pregiudizio» del bene vincolato (TAR Sicilia, sede Palermo, sez. I, 04.02.2011, n. 218, TAR Campania, sede Napoli, sez. IV, 15.09.2011, n. 4402, e TAR Toscana sez. III, 25.10.2011, n. 1546); mentre, nel bilanciamento degli interessi in gioco si è ritenuto, al contrario, prevalente quello relativo al rispetto della normativa antincendio (Cons. St. sez. V, 08.03.2011, n. 1437).
Per quando attiene, in particolare, l’eliminazione di tali barriere negli edifici in condominio, la normativa vigente sopra richiamata nel contrasto tra l’interesse dei condomini a non vedere modificati i beni comuni e quello dei soggetti portatori di minorazioni fisiche ha tutelato questi ultimi in termini assoluti ed inderogabili, per cui non è richiesto il consenso di tutti i proprietari del fabbricato ove l’opera debba essere realizzata in cortili o chiostrine “interni ai fabbricati o comuni o di uso comune a più fabbricati” (TAR Lazio, sez. Latina, 04.03.2011, n. 221, e Cons. St. sez. IV, 04.05.2010, n. 2546).
Relativamente, invece, al conflitto tra gli interessi dei soggetti portatori di minorazioni fisiche e quello dei soggetti terzi, il legislatore con la sopra ricordata previsione contenuta nel predetto art. 79 e nel richiamato art. 873 del codice civile, ha ritenuto di dare prevalenza al diritto di questi ultimi al rispetto delle distanze tra le costruzioni, che quindi non può mai essere “minore di tre metri”, in base alla previsione codicistica, all’evidente fine di garantire la salubrità delle costruzioni. In definitiva, il legislatore nel bilanciamento degli interessi in gioco nel mentre ha ritenuto prevalente l’interesse dei portatori di handicap rispetto a quello degli altri “condomini”, ha ritenuto al contrario recessivo tale interesse rispetto a quello dei soggetti “terzi”, cioè dei proprietari di immobili finitimi, che non possono veder leso il loro diritto alla salute, ugualmente meritevole di tutela, a non vedere create delle intercapedini che possono incidere sulla salubrità delle costruzioni.
Tale scelta legislativa, ad avviso del Collegio, non sembra inficiata da profili di costituzionalità, in quanto rientra nella discrezionalità del legislatore dare la prevalenza all’uno o all’altro degli interessi in conflitto; inoltre, la scelta effettuata con la normativa di cui al più volte ricordato art. 79 non sembra illogica o particolarmente penalizzante degli interessi dei soggetti portatori di handicap, ove si consideri che nella specie tale diritto è stata ritenuto recessivo nei confronti del diritto alla salute, di pari rilevanza, dei soggetti confinanti.
---------------
I ricorrenti con i tre motivi di gravame si sono nella sostanza lamentati delle seguenti circostanze:
1) che l’opera da realizzare non doveva rispettare le distanze legali, in quanto non creava una intercapedine dannosa per la sicurezza e la salubrità della collettività e che, peraltro, non era rispettata la distanza in questione solo per una parte marginale;
2) che l’opera era conforme alle prescrizioni vigenti in quanto realizzata su uno “spazio o area comune”;
3) che la legislazione di favore nei confronti dei portatori di handicap, volta all’eliminazione delle barriere architettoniche, deve essere interpretata nel senso che è consentita la deroga della predetta distanza di tre metri ove sia impossibile una diversa collocazione dell’opera da realizzare.
Se, con riferimento a quanto sopra esposto, sembra evidente la mancanza di pregio di quanto dedotto con il terzo motivo, in quanto il vigente sistema non tutela le persone disabili in termini assoluti ed inderogabili (Cons. St. sez. V, 08.03.2011, n. 1437), ma effettua un bilanciamento degli interessi in gioco, ponendo dei precisi limiti alla realizzazione delle opere in questione quando venga leso il diritto alla salute dei confinanti, va evidenziato in punto di fatto che l’opera da realizzare -contrariamente a quanto dedotto con il ricorso- non si sviluppa solo fino al primo piano dell’edificio, ma è destinata a raggiungere anche gli ulteriori piani dell’edificio, che non sono abitati dal soggetto portatore di handicap.
Conseguentemente, ritiene il Collegio che l’opera -così come si rileva dagli atti progettuali versati in giudizio anche dalla parte ricorrente- per un verso ha quei connotati e quelle caratteristiche di stabilità che impongono di ricomprenderla nella nozione di “costruzione” di cui al predetto art. 873 del codice civile e per altro verso, per le sue caratteristiche costruttive, viene a creare una permanente intercapedine dannosa per la sicurezza e la salubrità delle costruzioni vicine; per cui tale opera deve necessariamente rispettare le distanze legali. Mentre appare in merito irrilevante il fatto che tale distanza non era rispettata solo per una parte dell’opera, in quanto la norma sui distacchi tra le costruzione prevede delle precise distanze che, salva la c.d. tolleranza di cantiere, debbono essere necessariamente rispettate.
Quanto, infine, alla circostanza che l’ascensore sarebbe stato realizzato su uno “spazio o area comune”, va evidenziato che la normativa in questione, quando utilizza tale espressione, intende riferirsi all’esistenza di un diritto di comunione sull’area sulla quale deve essere realizzata l’opera. Ora dagli atti di causa non risulta che il cortile in questione sia in comunione, né risulta dimostrata che sull’area esista una servitù di passaggio; al contrario, dalle mappe catastali e dagli atti progettuali si evince che i due edifici che si fronteggiano sono separati da una precisa linea di confine posta a distanza di un metro e mezzo dai due edifici.
Non trattandosi di un’area “comune” la costruzione dell’ascensore, in assenza del consenso dei proprietari dell’edificio adiacente, avrebbe dovuto, pertanto, rispettare le distanze di legge; né appare utile al riguardo il riferimento alle definizioni contenute nel predetto decreto ministeriale 14.06.1989, n. 236, con il quale sono state dettate le prescrizioni tecniche necessarie a garantire l’accessibilità degli edifici privati ai fini del superamento e dell’eliminazione delle barriere architettoniche, e ciò non solo per il rango nella gerarchia delle fonti di tale decreto e per la sua inidoneità a modificare norme di legge, ma anche e soprattutto per il fatto che le definizioni contenute in tale decreto si riferiscono alle prescrizioni tecniche disciplinate con la normativa in questione (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 24.02.2012 n. 87 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Il terreno in vendita è gravato da vincolo paesaggistico? Il venditore non è tenuto a comunicarlo all’acquirente.
Con sentenza 23.02.2012 n. 2737, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso di un promissario acquirente che chiedeva la risoluzione del contratto e la restituzione del doppio della caparra a carico del venditore per aver quest’ultimo taciuto sul vincolo paesaggistico gravante sull’area oggetto di compravendita.
Il promissario acquirente chiedeva la risoluzione del contratto, in quanto il suddetto vincolo, del quale non ne era a conoscenza, rendeva inutile il suo acquisto per inidoneità del terreno allo scopo prefissato (nella fattispecie il promittente acquirente voleva impiantarci un opificio industriale).
Secondo gli ermellini, l’acquirente non ha diritto alla risoluzione del contratto di compravendita e alla restituzione del doppio della caparra nelle ipotesi in cui il venditore abbia taciuto sul vincolo paesaggistico o in generale su altri vincoli approvati con il piano regolatore generale. In questi casi, infatti, vige a carico dei cittadini una presunzione di conoscenza. Né, come sostenuto dal ricorrente, l’acquirente è esentato da qualsiasi onere di diligenza e di indagine qualora l’inesistenza di diritti o pesi altrui sia stata positivamente dichiarata dal venditore. Si tratta di vincoli con tenuti nel piano regolatore generale e come tali informazioni sulle quali vige una presunzione di conoscenza di
tutti i cittadini.
Le prescrizioni del piano regolatore generale, una volta approvate e pubblicate nelle forme previste, hanno valore di prescrizione di ordine generale di contenuto normativo e come tali sono assistite da una presunzione legale di conoscenza da parte dei destinatari; sicché i vincoli da essi imposti non possono qualificarsi come oneri apparenti gravanti sull’immobile ai sensi dell’art. 1489 del codice civile e non sono conseguentemente invocabili dal compratore come fonte di responsabilità che non li abbia eventualmente dichiarati nel contratto (tratto da www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATA... Né la qualificazione di un’area come “Zona agricola” ha natura residuale per cui consentirebbe comunque utilizzi non coincidenti con la coltivazione dei relativi fondi. Al contrario, in un territorio che, negli ultimi trent’anni, ha visto un’inarrestabile consumazione del suolo e la definitiva compromissione in moltissime regioni della campagna italiana, tale zonizzazione è specificamente diretta alla conservazione a verde e ad evitare ulteriori espansioni degli insediamenti.
Per tale ragione, sono sempre e comunque esclusi tutti gli interventi diversi da quelli strettamente funzionali all'attività agricola ed alla eventuale esigenza dell'imprenditore agricolo di risiedere sul fondo (se ed in quanto comunque non pregiudizievoli per l'assetto territoriale agricolo). Le restrizioni edificatorie nella suddetta zona hanno dunque lo scopo non solo di valorizzare l'attività agricola vera a propria, ma altresì quella di garantire ai cittadini l'equilibrio delle condizioni di vivibilità, nonché di assicurare loro quella quota di valori naturalistici necessaria a compensare gli effetti dell'espansione dell'aggregato urbano.

Né, contrariamente a quanto mostra di ritenere la ricorrente, la qualificazione di un’area come “Zona agricola” ha natura residuale per cui consentirebbe comunque utilizzi non coincidenti con la coltivazione dei relativi fondi. Al contrario, in un territorio che, negli ultimi trent’anni, ha visto un’inarrestabile consumazione del suolo e la definitiva compromissione in moltissime regioni della campagna italiana (così come era stata immortalata dai pittori paesaggistici per lo meno fino a dopo la metà dell’ottocento), tale zonizzazione è specificamente diretta alla conservazione a verde e ad evitare ulteriori espansioni degli insediamenti.
Per tale ragione, sono sempre e comunque esclusi tutti gli interventi diversi da quelli strettamente funzionali all'attività agricola ed alla eventuale esigenza dell'imprenditore agricolo di risiedere sul fondo (se ed in quanto comunque non pregiudizievoli per l'assetto territoriale agricolo). Le restrizioni edificatorie nella suddetta zona hanno dunque lo scopo non solo di valorizzare l'attività agricola vera a propria, ma altresì quella di garantire ai cittadini l'equilibrio delle condizioni di vivibilità, nonché di assicurare loro quella quota di valori naturalistici necessaria a compensare gli effetti dell'espansione dell'aggregato urbano (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 13.10.2010, n. 7478).
In tale prospettiva interpretativa va dunque inquadrato l’art. 32 delle Norme Tecniche di Attuazione del P.R.G. del Comune, che consente solo interventi a servizio dell’uso produttivo del suolo ed alle attività connesse; sicché del tutto priva di fondamento è l’asserita compatibilità di trasformazioni del suolo e di usi non funzionali all’agricoltura.
Tale disposizione del resto, si pone in coerenza con l’art. 44 della l. reg. Veneto n. 11/2004 (Norme per il governo del territorio), che in zona agricola consente esclusivamente interventi edilizi funzionali all’attività agricola, rimessi, sulla base di un piano aziendale, ai soli imprenditori agricoli titolari di azienda agricola (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 12.02.2010, n. 798).
Ne discende, come esattamente ricordato dal TAR, che va applicato l’art. 4, comma 3, della L.R. 05.11.2004 n. 21, secondo il quale l’oblazione per i “mutamenti di destinazione con opere” va corrisposta nella misura prevista dalla Tipologia 3 della Tabella C di cui sopra.
Deve quindi escludersi, in relazione alla precisa individuazione normativa della fattispecie, che, come pretende l’appellante, l’intervento potesse essere oggetto di oblazione in misura forfettaria quale “tipologia residuale” di cui al punto 6 della Tabella C allegata al D.L. n. 269/2003, il quale concerne le opere o le modalità di esecuzione non valutabili in termini di superficie o di volume.
Inoltre, a fronte del radicale mutamento della disciplina in ordine agli interventi qui esaminati, del tutto inconferente risulta il risalente precedente citato dall'appellante (Cons. Stato, sez. IV, 08/03/1983, n. 103)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.02.2012 n. 976 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOPolizia municipale, indennità cumulabili. L'assegno di vigilanza non esclude la retribuzione per il disagio. Una sentenza del tribunale di Verona sconfessa le tesi dell'aran.
Indennità di vigilanza e di disagio possono essere cumulate.
Lo ha stabilito il Tribunale di Verona in sede di giudice del lavoro, con sentenza 23.02.2012 di condanna della provincia di Verona, che a seguito delle risultanze dei servizi ispettivi della ragioneria generale dello stato, aveva sospeso ai dipendenti destinatari dell'indennità di vigilanza il pagamento dell'ulteriore indennità di disagio.
La decisione del giudice del lavoro veronese è particolarmente rilevante, perché priva di fondamento i pareri che da sempre, sul tema, esprime l'Aran. L'Agenzia nazionale per la contrattazione ha infatti ritenuto, con il parere espresso in sede di orientamenti applicativi Ral145, che «il personale dell'area di vigilanza è correttamente tutelato per la specificità delle prestazioni richieste e per l'impegno, la gravosità e le responsabilità ad esse correlate, con la particolare indennità di cui all'art. 37, comma 1, lett. b), del Ccnl del 06/07/1995. Ci sembra evidente che la stessa indennità e il relativo importo è stato individuato tenendo conto anche degli specifici rischi o disagi che caratterizzano le prestazioni di tutti gli addetti. Consideriamo, quindi, irragionevole l'attribuzione di una ulteriore indennità per la medesima prestazione di lavoro».
Gli effetti di questo parere dell'Aran sono stati dirompenti. Esso, infatti, è stato preso come base dai servizi ispettivi per stigmatizzare l'illegittimità dei contratti collettivi decentrati che avessero previsto il cumulo tra indennità di vigilanza e disagio e delle spese derivanti. Ed è noto che i referti dei servizi ispettivi sono inviati alle procure regionali della Corte dei conti, allo scopo di attivare eventuali azioni per responsabilità amministrativa.
C'è da osservare che di recente i servizi ispettivi sembrano aver mutato atteggiamento rispetto al tema. Nel volume «le risultanze delle indagini svolte dai Sifip in materia di spese di personale del comparto regioni ed enti locali» relative al 2011 si legge: «Non si può, invero, escludere a priori che taluni degli appartenenti al corpo della polizia municipale possano percepire, accanto alle indennità di vigilanza, anche quella di rischio o di disagio. Deve, a ogni buon conto, trattarsi di prestazioni che non rientrano tra quelle che possono e devono essere richieste ad appartenenti a un corpo di polizia, essendo esse, altrimenti, già retribuite attraverso l'indennità di vigilanza. Più in generale, l'indennità di rischio e di disagio non dovrebbero essere corrisposte a titolo di remunerazione aggiuntiva di quelle situazioni o condizioni che caratterizzano in modo tipico le mansioni di un determinato profilo professionale, dato che queste sono già state valutate e remunerate con il trattamento economico stipendiale previsto per lo stesso profilo».
Il giudice del lavoro di Verona è ancora più netto. La sentenza rileva che il diritto al pagamento dell'indennità di vigilanza e dell'indennità di disagio trova «a propria fonte in autonome previsioni dei contratti collettivi nazionali e integrativi». Tali indennità, osserva il giudice del lavoro, «sono dirette a compensare particolari modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, le quali non sono necessariamente coincidenti».
La sentenza, dunque, smonta totalmente l'impalcatura interpretativa costruita negli anni dall'Aran rilevando che mentre l'indennità di disagio compensa particolari situazioni di lavoro concretamente connesse al modo con cui si svolge la prestazione, l'indennità di vigilanza è un riconoscimento economico discendente dal conseguimento di una particolare funzione.
Quanto deciso dal giudice del lavoro veronese acuisce per l'ennesima volta un grave cortocircuito, che caratterizza da troppo tempo il lavoro pubblico e la contrattazione. Infatti, vengono assunti come regole tassative di condotta o come interpretazioni autentiche i pareri dell'Aran, mentre l'interpretazione della legge è funzione rimessa esclusivamente al legislatore o al giudice. Che, spesso, contraddice radicalmente gli orientamenti «di prassi» dell'Aran, come di recente avvenuto in merito all'illegittimità del finanziamento delle retribuzioni dei dirigenti a contratto a valere sul fondo contrattuale della dirigenza.
Sarebbe necessario chiarire una volta per tutte quali legittimi spazi interpretativi siano riservabili all'Aran. Ma, più importante, una volta limitate le relazioni sindacali alla sola destinazione delle risorse contrattuale e alla gestione del rapporto di lavoro, risulterebbe escludere di considerare come dannosa una gestione del fondo contrattuale che decida come destinarne le risorse, senza però violare il limite di spesa e, dunque, utilizzare illegittimamente risorse aggiuntive dei bilanci (articolo ItaliaOggi del 02.03.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Fatti di reato e ufficio ricoperto, sospensione cautelare sconnessa.
E' legittimo il decreto del Rettore dell''università con cui e' stata disposta la sospensione cautelare dal servizio di un professore in riferimento al fatto che l'interessato era stato condannato, con sentenza penale, per il reato di concorso in peculato, a nulla rilevando che tale reato era stato commesso nell'esercizio del diverso munus publicum afferente la carica di Sindaco.
Il ricorrente, professore di diritto costituzionale, ha impugnato il provvedimento con cui l’Università di appartenenza aveva disposto la propria sospensione dal servizio a cagione di una sentenza penale di condanna del docente per concorso in peculato, relativamente a fatti commessi durante l’esercizio delle precedenti funzioni di Sindaco.
Ha dedotto la violazione degli artt. 3 e 4, L. n. 97/2001, nonché l’eccesso di potere per erronea motivazione dell’impugnato provvedimento nella parte in cui era stata disposta la sospensione del docente con riferimento a un illecito consumato nell’esercizio di diverso munus publicum.
Con produzione documentale il ricorrente, inoltre, ha depositato il dispositivo della sentenza emessa dalla competente Corte di Appello che, in riforma della sentenza di primo grado, aveva dichiarato “il non luogo a procedere” in ordine al reato ascrittogli in quanto estinto per prescrizione, nonché l’istanza di revoca del provvedimento di sospensione.
Il ricorso è stato respinto.
Il Collegio di Napoli, con riferimento alle censure sulla violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 4 della L. n. 97/2001, nonché sull’eccesso di potere sotto i profili dell’erroneità della motivazione e del travisamento dei fatti, ha rilevato come, né il valore semantico delle espressioni contenute nell’art. 4 cit., né una lettura sistematica della norma, avrebbero consentito di avallare l’opzione interpretativa avanzata dal ricorrente.
Invero, ha precisato come, in linea di principio, il contenuto precettivo della menzionata disposizione appare ancorato unicamente alla condanna per ben individuate tipologie di delitti -tra i quali, il peculato ex art. 314 c.p.- e alla qualità del soggetto attivo (dipendente di amministrazioni o di enti pubblici, ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica).
Epperò, considerato che la misura cautelare della sospensione è posta a presidio dell’interesse generale al buon andamento della pubblica amministrazione e al rapporto di fiducia dei cittadini verso quest’ultima (cfr. Corte costituzionale, 03.05.2002, n. 145), il giudicante ha ritenuto che un vulnus ai suddetti beni giuridici avrebbe potuto configurarsi anche in assenza di una connessione qualificata tra i fatti di reato e l’ufficio presso il quale il dipendente presta servizio.
Siffatta opzione ermeneutica è apparsa, d’altronde, ben compatibile con la rilevanza che l’ordinamento ha sempre assegnato, ai fini disciplinari, finanche a condotte tenute al di fuori dell’ufficio e, tanto, ha trovato conferma nella stessa giurisprudenza della Consulta, la quale ha riconosciuto l’ammissibilità di misure obbligatorie di sospensione dal servizio in presenza di fatti non connessi con le pubbliche funzioni esercitate dall’interessato, ovvero anche solo con la qualità di pubblico dipendente (ex multis, Corte Cost., 03.06.1999, n. 206).
Di conseguenza, il TAR partenopeo ha ritenuto che, nella vicenda, non occorreva una più specifica motivazione del provvedimento di sospensione, atteso che il menzionato art. 4 sancisce la sospensione obbligatoria dal servizio alla ricorrenza dei presupposti sopra delineati, senza che residui alcun spazio di discrezionalità in capo all’amministrazione.
Tanto assodato, per quel che concerne l’obbligo di motivazione, l’adito Tribunale ha esaminato gli ulteriori motivi di censura formulati sulla scorta della considerazione per cui al momento del deposito della motivazione della sentenza penale e dell’adozione del provvedimento di sospensione dal servizio, il termine di prescrizione del reato era presuntivamente decorso.
Tale prospettazione è stata disattesa dal Collegio alla luce delle considerazioni svolte dal Giudice delle leggi nella sentenza n. 145/2002, con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2, L. n. 97/2001, nella parte in cui disponeva che la sospensione dal servizio del dipendente pubblico, condannato anche non in via definitiva, perde efficacia decorso un periodo di tempo pari a quello di prescrizione del reato.
Nella richiamata pronuncia, infatti, la Corte ha sottolineato come l’individuazione del termine di prescrizione del reato comporta una serie di "valutazioni precluse alla pubblica amministrazione, che solo l'autorità giudiziaria può compiere: si pensi all'incidenza sul decorso della prescrizione delle circostanze aggravanti e attenuanti del reato", con la conseguenza che "la suddetta causa di cessazione di efficacia della misura cautelare viene necessariamente a coincidere con quella rappresentata dalla sentenza di proscioglimento”.
Alla stregua di tali dicta, la Consulta ha tratto i seguenti corollari: "Anzitutto, la prescrizione del reato non può che coincidere con la sentenza che la dichiari, giacché non può annettersi alcun rilievo giuridico alla sussistenza ipotetica di una causa di estinzione del reato, il cui ricorrere, per di più, presuppone un accertamento su una complessa ed articolata gamma di elementi di commisurazione -alcuni dei quali presupponenti, addirittura, indagini di fatto (quale lo stesso tempus commissi delicti)- che non possono che essere svolti dalla autorità giudiziaria, all'interno del processo.
In secondo luogo, proprio perché ontologicamente privo di rilievo giuridico esterno al processo, deve necessariamente restare al di fuori del perimetro normativo qui in discorso qualsiasi accertamento incidenter tantum, che, nell'individuare la “non maturazione” della prescrizione, ne abbia indicato la data -futura e ipotetica- in cui la prescrizione maturanda potrebbe essere dichiarata.
In terzo ed ultimo luogo, quand'anche si volesse assegnare a quell'accertamento incidentale un qualche effetto, esso non potrebbe mai essere "esterno" al processo e tale da coinvolgere una valutazione da parte della pubblica amministrazione
".
Inoltre, la Corte costituzionale aveva ritenuto dirimente il rilievo secondo cui "soltanto il giudice della impugnazione è in grado di delibare l’eventuale prescrizione del reato, in quanto soltanto in presenza di una impugnazione ammissibile può farsi luogo alla declaratoria di estinzione del reato, posto che, ove l'impugnazione risultasse per qualsiasi causa inammissibile, l’inammissibilità precluderebbe la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, alla luce di un consolidato quadro di interpretazione giurisprudenziale ormai assurto al rango di diritto vivente” (nello stesso senso, Cass. civ., Sez. Un., 22.03.2005, n. 23428; idem, 22.11.2000, n. 32).
Per tali ragioni, il G.A. di Napoli ha respinto il ricorso, per l’effetto confermando l’impugnato provvedimento di sospensione cautelare dal servizio del docente (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 15.02.2012 n. 807 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso agli atti anche se il documento è inesistente?
La sentenza si sofferma sulla possibilità di eccepire l'inesistenza di un documento per escludere l'accesso. Il Consiglio di Stato chiarisce come sia irrilevante ai fini delle valutazioni sia sulla ammissibilità che sulla fondatezza della richiesta di accesso l'eccezione avanzata dalla parte controinteressata circa l'inesistenza del documento richiesto.
La legittimazione ad accedere ad un documento si fonda, secondo quanto disposto dall'art. 22 della l.n. 241/1990, sull'esistenza di una situazione giuridicamente rilevante ad ottenere l’ostensione di detti documenti.
La giurisprudenza, richiamata anche dalla sentenza in esame, ritiene pertanto che la situazione sottesa alla domanda di accesso si configuri come un vero e proprio diritto soggettivo meritevole di tutela, quante volte la conoscenza degli atti oggetto della formulata richiesta risulti strumentale all’esercizio di difesa dei propri interessi in sede giurisdizionale e/o in altra sede e comunque si rivela rilevante ai fini del conseguimento da parte dell’interessato di un bene della vita.
Nel caso in cui sussista tale posizione giuridica, l'eccezione della pretesa inesistenza del documento oggetto della domanda di accesso non consente di per se di escludere l'ammissibilità della richiesta.
Il Consiglio di Stato precisa che la richiesta può essere formulata anche in una situazione di ignoranza da parte del richiedente che potrebbe non sapere se il documento esista o meno.
Il principio affermato dal Consiglio di Stato è quello secondo cui una richiesta di accesso non può essere qualificata come impossibile ogni qualvolta si fondi su dati normativi certi ed inequivocabili che espressamente prevedano tale documento.
La legittimità dell’esercizio del diritto di accesso va collegata ad un momento precedente alle vicende amministrative con cui soggetto pubblico ha definito espressamente con un provvedimento un determinato rapporto giuridico (commento tratto da www.ipsoa.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.02.2012 n. 690 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOConcorsi, prove aderenti al bando. Tar Campania dà ragione a un candidato.
Conoscenze informatiche? Sì, ma senza esagerare.
Con la sentenza 31.01.2012 n. 491, la III Sez. del TAR Campania-Napoli ha accolto il ricorso presentato da un candidato, deducendo l'illegittimità del provvedimento di non ammissione alle prove orali del concorso pubblico per «coadiutore amministrativo-cat. B3» del ruolo del Consiglio Regionale della Campania, cui aveva preso parte. I magistrati amministrativi hanno, infatti, ritenuto censurabile, «in quanto viziata per eccesso di potere per illogicità manifesta», la valutazione che aveva effettuato la commissione giudicatrice, la quale, in sede di revisione della prova pratica (Word ed Excel), non si era attenuta né ai parametri previsti nel bando, né tanto meno ai criteri di giudizio cui si era autovincolata.
A causa della valutazione «totalmente erronea», quindi, il candidato non era riuscito a ottenere il punteggio minimo previsto per superare la prova scritta. Ma contrariamente a quanto sostenuto dall'amministrazione resistente, secondo la quale il corretto superamento della prova contestata implicava anche la risoluzione di un problema di tipo logico, i giudici hanno chiarito che «il Bando si limitava a richiedere la conoscenza di ''elementari nozioni in campo informatico'' e, per quanto riguardava la prova Excel, l'espletamento di una semplice ''prova di calcolo''».
Invece, l'amministrazione pretendeva un «percorso logico» che avrebbe richiesto «ben più che la cognizione di informazioni «elementari» del funzionamento del sistema Excel, specie se posto in relazione alle mansioni tipiche della qualifica messa a concorso». Il collegio ha ritenuto altresì erronea la valutazione della prova Word: gli errori commessi dal ricorrente nel ricopiare il testo fornito, infatti, non potevano qualificarsi come «di ortografia» o di «grammatica», ma semplicemente di battitura, tenuto conto che tra i requisiti del bando vi era quello secondo il quale il testo doveva essere ricopiato nella sua interezza e non «con caratteri e formattazione identici».
Ciò a maggior ragione sul presupposto che il corretto uso delle lettere maiuscole e minuscole o la corretta impaginazione, «lungi dall'essere ritenuti come condicio sine qua non della fedele copiatura del testo di riferimento», erano stati addirittura ritenuti elementi di favore per l'eventuale attribuzione, in via del tutto discrezionale, di un ulteriore punto aggiuntivo (articolo ItaliaOggi del 02.03.2012 - link a www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGOIllegittimo il contributo del 2% sulla busta paga. Sentenza del Tar Calabria disdice la prassi Inpdap. Sì ai rimborsi dal 2011Tfr, trattenuta non dovuta.
Illegittima la trattenuta stipendiale operata ai dipendenti pubblici (2%) e versata all'Inpdap per il tfr, il trattamento di fine rapporto. È illegittima perché non prevista dall'articolo 2120 del codice civile, il quale non dispone alcuna compartecipazione contributiva dei lavoratori con i datori di lavoro per il diritto al tfr.

Lo stabilisce il TAR Calabria-Reggio Calabria nella sentenza 18.01.2012 n. 53, che condanna le pubbliche amministrazioni allo stop immediato del prelievo in busta paga nonché alla restituzione di quanto trattenuto a partire dall'01.01.2011. Soddisfazione è stata espressa da Giovanni Torluccio, segretario della Uil-Fpl che da tempo denunciava questa sorta di «finanziamento forzoso dello Stato a carico del lavoratore pubblico».
La vicenda trae origine dalla legge n. 122/2010 (conversione del dl n. 78/2010) la quale, all'articolo 12, comma 10, dispone che, a partire dalle anzianità maturate dall'01.01.2011, tutti i trattamenti di fine servizio comunque denominati vengano determinati secondo le regole del codice civile e in particolare dell'articolo 2120, cioè con le stesse regole già operanti per i lavoratori dipendenti del settore privato.
A seguito della novità l'Inpdap è intervenuto con circolare n. 17/2010 (si veda ItaliaOggi del 12.10.2010), dettando i criteri operativi con il placet del ministero del lavoro. In base a tali criteri, dall'01.01.2011 tutte le buonuscite (di tutti i dipendenti da amministrazioni individuate dall'Istat ai sensi della legge n. 196/2009) vengono calcolate in base alle regole del tfr, con la ripartizione in due quote: la prima relativa alle anzianità fino al 31.12.2010, secondo le vecchie regole (un dodicesimo dell'80% della retribuzioni utile); la seconda relativa alle anzianità dall'01.01.2011, con applicazione dell'aliquota del 6,91% alla retribuzione utile.
In quella sede, l'Inpdap ha precisato che la normativa ha mutato unicamente le regole di calcolo del tfr, non anche la «natura» dello stesso con la conseguenza di rimanere confermate le voci retributive utili, nonché «le modalità di finanziamento e il contributo alle gestioni ex Enpas ed ex Inadel secondo l'attuale ripartizione in quote a carico del lavoratore e del datore di lavoro» (ciò che viene censurato dal Tar Calabria).
In pratica, anche dopo il cambio di disciplina del tfr (da pubblica a privata), le pa hanno continuato a praticare ai lavoratori la ritenuta del 2,50% sull'80% della retribuzione (ossia il 2% sul 100% della busta paga) (articolo ItaliaOggi dell'01.03.2012).

EDILIZIA PRIVATA: Reati e abusi edilizi. Antisismica necessaria anche se non c'e' cemento armato.
Il reato di mancata comunicazione del progetto agli uffici competenti ai fini dei calcoli antisismici e' configurabile anche nel caso in cui, per la realizzazione dell'intervento edilizio, non sia utilizzato il cemento armato.
La Corte di Cassazione si pronuncia con la sentenza in esame su un caso particolare relativo alla disciplina cosiddetta antisismica. La questione, in particolare, riguardava l’esecuzione di un intervento edilizio posto in essere in difetto della comunicazione degli elaborati progettuali al Genio civile. La difesa aveva sostenuto che la relativa violazione, punita dall’art. 95 del d.P.R. n. 380/2001, non fosse configurabile non essendo stato impiegato il cemento armato nell’esecuzione dei lavori.
La Corte ha, invece, ritenuta destituita di fondamento la prospettazione difensiva, precisando che il reato antisismico in questione è configurabile a prescindere dall’impiego o meno del cemento armato nella realizzazione dell’intervento, non potendo confondersi i due piani normativi.
Il fatto
La vicenda processuale in questione tra origine da una condanna inflitta a due imputati per la violazione dell’art. 95 del d.P.R. n. 380 del 2001, per aver eseguito in zona sismica lavori senza preventiva comunicazione all’ufficio del Genio Civile.
Il ricorso
Avverso tale decisione, gli imputati hanno proposto ricorso, tramite il difensore, deducendo, da un lato, la mancata applicazione dell’art. 22, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto gli interventi edilizi erano stati assentiti a mezzo DIA e che i lavori eseguiti in difformità non avevano avuto alcuna incidenza strutturale ne' urbanistica.
Detto in estrema sintesi, non sussistendo violazioni penalmente rilevanti, non si sarebbe neppure in presenza di violazioni per mancata comunicazione del progetto agli uffici competenti ai fini dei calcoli sul cemento armato ed antisismici. In secondo luogo, poi, per quanto qui di interesse, si sosteneva che, ai fini della sussistenza del reato contestato, e' necessario, non solo che i lavori siano avvenuti in zona sismica, ma anche che le opere siano state in cemento armato.
La decisione della Cassazione
La decisione è stata, però, confermata dalla Cassazione.
Al solito è utile procedere ad un inquadramento normativo. La disciplina della costruzioni in zona sismica è contenuta agli artt. 83 e seguenti del d.P.R. n. 380 del 2001.
In particolare, la norma iniziale stabilisce che “tutte le costruzioni la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità, da realizzarsi in zone dichiarate sismiche …., sono disciplinate, oltre che dalle disposizioni di cui all'articolo 52, da specifiche norme tecniche emanate, anche per i loro aggiornamenti, con decreti del Ministro per le infrastrutture ed i trasporti, di concerto con il Ministro per l'interno, sentiti il Consiglio superiore dei lavori pubblici, il Consiglio nazionale delle ricerche e la Conferenza unificata”.
L’art. 93 del citato d.P.R., poi specifica che “nelle zone sismiche di cui all'articolo 83, chiunque intenda procedere a costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni, è tenuto a darne preavviso scritto allo sportello unico, che provvede a trasmetterne copia al competente ufficio tecnico della regione, indicando il proprio domicilio, il nome e la residenza del progettista, del direttore dei lavori e dell'appaltatore.
Alla domanda deve essere allegato il progetto, in doppio esemplare e debitamente firmato da un ingegnere, architetto, geometra o perito edile iscritto nell'albo, nei limiti delle rispettive competenze, nonché dal direttore dei lavori.
Il contenuto minimo del progetto è determinato dal competente ufficio tecnico della regione. In ogni caso il progetto deve essere esauriente per planimetria, piante, prospetti e sezioni ed accompagnato da una relazione tecnica, dal fascicolo dei calcoli delle strutture portanti, sia in fondazione sia in elevazione, e dai disegni dei particolari esecutivi delle strutture.
Al progetto deve inoltre essere allegata una relazione sulla fondazione, nella quale devono essere illustrati i criteri seguiti nella scelta del tipo di fondazione, le ipotesi assunte, i calcoli svolti nei riguardi del complesso terreno-opera di fondazione. (omissis)
”.
La risposta sanzionatoria, in caso di violazione di tale ultima disposizione, è contenuta all’art. 95 che, nella specie, prevede che “chiunque violi le prescrizioni contenute nel presente capo e nei decreti interministeriali di cui agli articoli 52 e 83 è punito con l'ammenda da L. 400.000 a L. 20.000.000”.
La disciplina riprende sostanzialmente le previsioni contemplata nell’abrogato art. 20 della L. 02.02.1974, n. 64, recante “Provvedimenti per le costruzioni con particolari prescrizioni per le zone sismiche”.
Premesso quanto sopra, è sicuramente più intelligibile la decisione della Corte.
Gli Ermellini ricordano, sul punto, che la questione della non incidenza sostanziale dei lavori è irrilevante. A tal fine rileva quanto affermato dalla stessa giurisprudenza di legittimità (Cass. pen., Sez. III, n. 46081 del 08/10/2008, dep. 15/12/2008, imp. S., in Ced Cass., n. 241783) secondo cui, ai fini della configurabilità delle contravvenzioni previste dagli artt. articoli 71 e 95 del d.P.R. n. 380 del 2001 è irrilevante la natura dei lavori (ovvero che si tratti di interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ovvero di interventi di nuova costruzione), in quanto la violazione delle norme antisismiche e sul cemento armato presuppone soltanto l'esecuzione di lavori edilizi in zona sismica ovvero che comportino l'utilizzo del cemento armato.
E’ dunque corretto quanto affermano i giudici di merito che, "per il solo fatto di avere eseguito una (diverso) intervento edilizio in zona sismica, indipendentemente dalla natura e pericolosità degli stessi lavori, entrambi gli imputati erano tenuti agli obblighi di cui all’art. 95 del d.P.R. citato".
Aggiunge, infine, la Corte che la tesi sostenuta dalla difesa secondo cui, per la configurabilità della contravvenzione in discussione, sarebbero necessari, in contemporanea, sia che la costruzione avvenga in zona sismica, sia che venga utilizzato il cemento armato “specula su una errata lettura della sentenza di questa S.C. e, soprattutto ignora il dato normativo (Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 93) di tenore assolutamente inequivoco nell'affermare che chiunque intenda procedere a costruzioni, riparazioni o sopraelevazioni in zona sismica «e' tenuto a darne preavviso scritto allo sportello unico»: nessuna distinzione e' fatta in ordine alla entità dei lavori e neppure e' richiesto che essi avvengano anche in cemento armato”.
La sentenza merita ampia e convinta condivisione.
La stessa del resto si inserisce in un solco già tracciato dagli Ermellini che, di recente, avevano affermato che qualsiasi intervento edilizio in zona sismica –fatta eccezione che per gli interventi di semplice manutenzione ordinaria che sfuggono alla relativa disciplina- comportante o meno l'esecuzione di opere in conglomerato cementizio amato, deve essere previamente denunciato al competente ufficio al fine di consentire i preventivi controlli e necessita del rilascio del preventivo titolo abilitativo, conseguendone, in difetto, la violazione dell'art. 95 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Cass. pen., Sez. III, n. 34604 del 17/06/2010, dep. 24/09/2010, imp. T., in Ced Cass., n. 248330) (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione penale, sentenza 13.01.2012 n. 884).

EDILIZIA PRIVATA: Natura e funzione del certificato di abitabilità. Procedimento di rilascio e condizioni per la formazione del silenzio-assenso. Potere dell’Autorità amministrativa di verificare la persistenza delle condizioni igienico-sanitarie nel caso di modifiche strutturali che implicano anche un cambiamento dell'uso.
In base a quanto previsto dagli artt. 24 e 25 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (T.U. edilizia), il certificato di abitabilità delle costruzioni costituisce un'attestazione da parte dei competenti uffici tecnici comunali in ordine alla sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità e risparmio energetico degli edifici e degli impianti tecnologici in essi installati, alla stregua della normativa vigente. Ne deriva la legittimità, in via generale, dello svolgimento da parte degli organi comunali competenti di ogni indagine utile al fine di effettuare una consapevole valutazione sulla sussistenza delle surriferite condizioni, soprattutto quando in un edificio siano state realizzate modifiche strutturali, che implicano anche un cambiamento dell'uso degli spazi (1).
In base all'art. 25, commi 3-5, del D.P.R. n. 380 del 2001, il procedimento di rilascio del certificato di abitabilità, è articolato sui seguenti principi fondamentali:
   1) il procedimento deve essere concluso nel termine di 30 giorni dalla ricezione della domanda di rilascio del certificato di agibilità o di 60 giorni, nel caso in cui il richiedente si sia avvalso della possibilità di sostituire con autocertificazione il parere dell'A.S.L. previsto dall'art. 5, 3° comma, lett. a), del D.P.R. n. 380 del 2001;
   2) il decorso del termine per la definizione del procedimento, importa la formazione del silenzio-assenso sull'istanza di rilascio del certificato di agibilità;
   3) il termine del procedimento può essere interrotto una sola volta dal responsabile del procedimento, entro quindici giorni dalla domanda, esclusivamente per la richiesta di documentazione integrativa, che non sia già nella disponibilità dell'Amministrazione o che non possa essere acquisita autonomamente; in tal caso, il termine per la conclusione del procedimento ricomincia a decorrere dalla data di ricezione della documentazione integrativa;
   4) il rilascio del certificato di agibilità non impedisce l'esercizio del potere di dichiarazione di inagibilità di un edificio o di parte di esso ai sensi dell'articolo 222 del regio decreto 27.07.1934, n. 1265 (art. 26 D.P.R. n. 380 del 2001).
In caso di istanza di condono edilizio, il rilascio del c.d. certificato di abitabilità può avvenire in deroga soltanto alle norme di tipo secondario e/o regolamentare, ma non anche in deroga alle disposizioni normative di fonte primaria e/o di legge, soprattutto se attinenti alla materia dell'igiene pubblica e dell'inquinamento del suolo, in quanto diversamente, in caso di adesione ad una possibile interpretazione di tipo estensivo delle norme in materia di condono edilizio, l'art. 35, comma 14, della legge 28.02.1985 n. 47 (come le altre norme analoghe ad essa succedute nel tempo in materia di condoni edilizi) sarebbe palesemente incostituzionale per contrasto con il fondamentale principio della tutela della salute ex art. 32 Cost., inteso non solo come diritto alla salute del singolo individuo, ma anche come diritto dell'intera collettività alla salubrità dell'ambiente (2).
Se è vero che, in base a quanto previsto dagli art. 24 e 25, del T.U. n. 380 del 2001, il certificato di agibilità delle costruzioni costituisce un'attestazione da parte dei competenti uffici tecnici comunali in ordine alla sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità e risparmio energetico degli edifici e degli impianti tecnologici in essi installati, alla stregua della normativa vigente, appare legittimo che una valutazione sulla sussistenza di dette condizioni, sia richiesta a fronte di modifiche strutturali che implicano anche un cambiamento dell'uso degli spazi e che dunque il Comune non perda, neppure per l’ipotesi di rilascio implicito del certificato, ovvero per effetto di condono, il potere-dovere di verificare la sussistenza effettiva di dette condizioni di salubrità e di intervenire laddove siano riscontrate carenze (3).
E’ legittimo l’ordine di sgombero di taluni appartamenti di un fabbricato collocati ai piani scantinati del palazzo, perché, all’esito di numerosi sopralluoghi, se ne è manifestata la inabitabilità sia per carenza del requisito relativo alle superfici minime che di quelli igienico-sanitari, concretandosi quindi un pericolo per la salute pubblica il permanente loro utilizzo a fini abitativi. Tale ordinanza di sgombero, per l’evidente urgenza nel provvedere, non deve essere preceduta da alcuna comunicazione di avvio del procedimento.
---------------
(1) Cfr., in argomento, TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 16.03.2011 n. 740.
(2) V. sul punto Cons. Stato, Sez. V, 15.04.2004 n. 2140 e 13.04.1999 n. 414 nonché TAR Sardegna 29.10.2002, n. 1422.
Ha precisato la sentenza in rassegna (facendo riferimento alla sentenza della Corte costituzionale n. 256 del 1996), che la circostanza che le norme sul condono edilizio prevedano, a seguito della concessione in sanatoria, il rilascio del certificato di abitabilità o agibilità anche in deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari, purché non sussista contrasto con le disposizioni vigenti in materia di sicurezza statica e di prevenzione degli incendi e degli infortuni, "non riguarda i requisiti richiesti da disposizioni legislative e deve, pertanto, escludersi una automaticità assoluta nel rilascio del certificato di abitabilità (...) a seguito di concessione in sanatoria, dovendo invece il Comune verificare che al momento del rilascio del certificato di abitabilità siano osservate non solo le disposizioni di cui all'art. 221 T.U. delle leggi sanitarie (rectius, di cui all'art. 4 del D.P.R. n. 425 del 1994), ma, altresì quelle previste da altre disposizioni di legge in materia di abitabilità e servizi essenziali relativi e rispettiva normativa tecnica (...) Permangono, infatti, in capo ai Comuni tutti gli obblighi inerenti alla verifica delle condizioni igienico-sanitarie per l'abitabilità degli edifici, con l'unica possibile deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari" (così, testualmente, la sentenza della Corte costituzionale n. 256 del 1996 citata).
(3) Cfr. sul punto TAR Veneto, Sez. III, 02.01.2009 n. 6 nonché TAR Basilicata, Sez. I, 29.11.2008 n. 916
(massima tratta da www.regione.piemonte.it - TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 10.01.2012 n. 178 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La necessità della dichiarazione circa il rispetto della normativa sui disabili, ex art. 17 L. n. 68 del 1999, sussiste indipendentemente dalle prescrizioni contenute nei singoli bandi e disciplinari di gara.
Eventuali lacune nelle dichiarazioni rese in conformità al modello predisposto dalla stazione appaltante non possono dare luogo all’esclusione da una gara.

L’art. 17 della legge n. 68 del 1999, il quale impone la presentazione sia di una dichiarazione del legale rappresentante attestante di essere in regola con le norme disciplinanti il diritto al lavoro dei disabili, sia di un’apposita certificazione rilasciata dagli uffici competenti, certificazione sostituibile, ordinariamente, da un’autocertificazione, contiene una norma di eccezionale rigore, la cui natura imperativa ne determina l’automatico inserimento nella disciplina della gara indipendentemente dalle prescrizioni contenute nei singoli bandi e disciplinari di gara (1).
L'esigenza di apprestare tutela all'affidamento nelle gare di appalto induce a ritenere che la stazione appaltante non possa escludere dalla gara un'impresa che abbia compilato l'offerta in conformità al facsimile all'uopo da essa stessa approntato, potendo eventuali parziali difformità rispetto al disciplinare costituire oggetto di richiesta di integrazione, ai sensi di quanto disposto dall’art. 46 del codice dei contratti pubblici, volto a dare rilevanza, anche nel testo anteriore al cd. decreto sviluppo (d.l. n. 70 del 2011), alle mancanze sostanziali, piuttosto che alle mancanze formali; deve infatti ritenersi che nessun addebito possa essere contestato all’impresa interessata per essere stata indotta in errore, all'atto della presentazione della domanda di partecipazione alla gara, dal negligente comportamento della stazione appaltante, che ha mal predisposto la relativa modulistica (2).
---------------
(1) Cfr. Cons. Stato, sez. V, 16.02.2009, n. 840.
(2) Cfr. Cons. Stato, sez. V, 05.07.2011, n. 4029 (sulla illegittimità dell’esclusione dalla gara per omessa dichiarazione di un requisito previsto dalla lex specialis, ove l’omissione sia dovuta all’impiego di uno schema di dichiarazione predisposto dalla stazione appaltante).
In applicazione del principio nella specie è stato ritenuto che, in presenza di un facsimile di dichiarazione, che integralmente e oggettivamente faceva ritenere ad un concorrente di esaurire lo spettro degli obblighi afferenti al rispetto della legge sui disabili, la Stazione appaltante non poteva disporre l’esclusione dalla gara potendo la stessa, in presenza di dubbi sulla reale portata di quanto dichiarato, considerare necessaria una regolarizzazione, sul piano formale, della dichiarazione stessa, ai sensi di quanto disposto dall’art. 46 del codice dei contratti pubblici, volto a dare rilevanza, anche nel testo anteriore al cd. decreto sviluppo (D.L. n. 70 del 2011), alle mancanze sostanziali, piuttosto che alle mancanze formali
(massima tratta da www.regione.piemonte.it -
Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 10.01.2012 n. 31 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO ALL'01.03.2012

ã

GIU' LE MANI DALLO STIPENDIO !!

     Lo scorso 15.02.2012, il sindacato UIL-PA pubblicava sul proprio sito un articolo dal titolo "Basta con le ingiustizie - Riprendiamoci i nostri soldi" che, di seguito, viene riproposto per intero:


LIQUIDAZIONI, TRATTAMENTI DI FINE SERVIZIO, TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO - PARTONO LE DIFFIDE PER LA RESTITUZIONE DELLE INDEBITE RITENUTE DEL 2,5% SULL'80% SULLE NOSTRE RETRIBUZIONI, CHE LE AMMINISTRAZIONI CONTINUANO AD OPERARE, NONOSTANTE LE SOSTANZIALI MODIFICHE APPORTATE ALL'ISTITUTO DELLA BUONUSCITA.
Come noto l’art. 12, comma 10, del D.L. n. 78/2010 –convertito in L. n. 122/2010– prescrive che il computo dei trattamenti di fine servizio per i lavoratori alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, con riferimento alle anzianità contributive maturate a decorrere dall’01.01.2011, avvenga secondo la disciplina di cui all’art. 2120 Cod. Civ., con l’applicazione di un’aliquota del 6,91% sull’intera retribuzione.
Ciò implica la disapplicazione, a partire dall'01.01.2011, dell'attuale sistema di calcolo, previsto dal DPR 1032/1973 che stabilisce una contribuzione complessiva del 9,60% sull'80% della retribuzione, con rivalsa sul dipendente nella misura del 2,5%.
Ora questa rivalsa non ha più ragione d'essere per due motivi sostanziali:
1- la nuova disposizione non ne fa più menzione, indicando nel 6,91% l'entità della contribuzione;
2- l'art. 2120 del Cod. Civ., che ora si deve applicare, pone a carico del datore di lavoro l'onere contributivo e non prevede alcun meccanismo di rivalsa sui dipendenti, lasciando all'autonomia contrattuale l'individuazione delle voci retributive da considerare quale base di calcolo.
Ciò nonostante le amministrazioni hanno continuato ad operare le trattenute del 2,5%, senza tener conto delle novità introdotte, determinando una ulteriore, evidente disparità di trattamento con il settore privato ed una indebita trattenuta.
Alla fine, per far valere i nostri diritti ed una corretta interpretazione delle norme, saremo costretti individualmente a diffidare le amministrazioni ed in seguito adire le vie legali.
La UIL PA, dopo attenta valutazione della materia, ha deciso di intraprendere questa strada, intanto invitando tutti i lavoratori interessati a compilare e notificare alla propria amministrazione l'atto di diffida e interruzione della prescrizione, come da fac-simile allegato. La diffida dovrà essere presentata al proprio ufficio ed alla competente Ragioneria territoriale dello stato con raccomandata a mano o postale, avendo cura di ottenere una ricevuta con data e timbro.
Nelle successive fasi, in caso di mancata ottemperanza, la UIL PA attraverso i legali convenzionati è pronta a sostenere in giudizio la vertenza, raccogliendo le adesioni dei singoli lavoratori.

 

     Invero, non appena avuta notizia ci siamo prodigati a chiedere lumi all'ufficio personale di un comune la cui responsabile ha prontamente risposto che non era d'accordo con la tesi del sindacato citando, a motivazione, alcune note dell'Inpdap. Non solo, anche un paio di sindacati nazionali, a livello di sede provinciale, hanno "fatto spallucce" ... senza darci alcuna risposta.
     Orbene, la UIL-PA ci ha visto lungo ... leggete i due articoli similari sotto riportati.
 

PUBBLICO IMPIEGOStatali, illegittima la trattenuta del 2% dopo il passaggio da buonuscita a Tfr.
Il Tar dà torto allo stato: vanno restituite ai dipendenti pubblici le somme accantonate dallo scorso anno.
Dal primo gennaio dello scorso anno lo Stato sta trattenendo illegittimamente il 2 per cento dello stipendio a circa due milioni di dipendenti pubblici.

Lo afferma il TAR Calabria-Reggio Calabria nella sentenza 18.01.2012 n. 53 con la quale ha condannato l’amministrazione a restituire le relative somme, con gli interessi, ai dipendenti che avevano presentato ricorso, aprendo così la strada ad azioni dello stesso tipo in tutta Italia. Ora è prevedibile che la presidenza del Consiglio faccia le sue contromosse, non solo in sede giudiziaria ma anche legislativa; il pronunciamento della magistratura segna però un importante punto a favore dei lavoratori in una vicenda iniziata con la manovra economica approvata dal governo nell’estate del 2010.
Quella legge (la 122) oltre a bloccare il rinnovo dei contratti e a congelare per tre anni le retribuzioni dei dipendenti pubblici, cambiava il meccanismo della liquidazione, trasformando la vecchia indennità di buonuscita in un trattamento di fine rapporto (Tfr) del tutto analogo a quello in vigore per i privati, secondo quanto previsto dal Codice civile. La differenza tra i due meccanismi è consistente. Per la buonuscita venivano accantonati contributi pari al 9,60 per cento sull’80 per cento della retribuzione; il 2,5 per cento (di fatto quindi il 2 sull’intero stipendio) era a carico del lavoratore. Con il Tfr invece l’accantonamento è del 6,91 sull’intera retribuzione, interamente a carico del datore di lavoro.
L’abolizione della vecchia disciplina, in generale più vantaggiosa rispetto al Tfr, avrebbe dovuto comportare la cancellazione della trattenuta del 2,5 per cento, che i dipendenti vedono sul cedolino dello stipendio alla voce «Opera di previdenza». Invece le cose sono andate diversamente. Le varie amministrazioni, confortate anche da una circolare dell’Inpdap, hanno continuato a regolarsi come prima, trattenendo ogni mese quella somma (in media 35-40 euro) dallo stipendio di circa due milioni di dipendenti pubblici, che avranno però al momento di lasciare il servizio una liquidazione meno favorevole. Per di più -come precisato dalla stessa Inpdap- nonostante il passaggio al Tfr, che per i privati si calcola su tutto lo stipendio, la base retributiva per la liquidazione dei dipendenti pubblici resterà l’80 per cento del totale: è un ulteriore elemento di disparità.
La novità non riguarda tutti gli statali: sono esclusi i lavoratori assunti dal 2001 in poi, che in base ad una riforma approvata all’epoca hanno già il Tfr e non la buonuscita. A loro la trattenuta non viene fatta, perché la retribuzione è stata ridotta in proporzione dal momento in cui sono stati assunti. Una situazione non ottimale ma comunque diversa da quella di chi -tutti gli altri dipendenti- si è visto cambiare le regole in corsa.
Contro questo stato di cose qualcuno ha deciso di scegliere la via giudiziaria: in particolare si sono rivolti al TAR Calabria-Reggio Calabria, alcuni magistrati amministrativi. Nel loro ricorso hanno messo in discussione la costituzionalità del nuovo assetto (anche per la disparità di trattamento tra lavoratori pubblici e privati) chiedendo in particolare che fosse riconosciuta l’illegittimità -dal primo gennaio 2011- della trattenuta e di conseguenza l’obbligo per le amministrazioni di restituire gli importi con gli interessi. Il tribunale ha emesso una sentenza non definitiva, riservandosi di rimettere alla Corte le questioni di costituzionalità, ma riconoscendo la fondatezza delle specifiche richieste. Ora però le cause si stanno moltiplicando e il governo dovrà porsi il problema di cosa fare, al di là della resistenza giudiziaria.
È chiaro che la semplice rinuncia alla trattenuta avrebbe un costo difficilmente sostenibile per le finanze pubbliche, nell’ordine del miliardo di euro l’anno o anche di più. La soluzione potrebbe essere l’apertura di una trattativa. «La sentenza ci dà ragione -commenta Giovanni Torluccio, segretario generale della Uil-Fpl- è ora che lo Stato la smetta di operare un vero e proprio finanziamento forzoso a carico del lavoratore pubblico» (articolo Il Messaggero del 29.02.2012 - tratto da www.ecostampa.it).
---------------
N.B.: lo stesso TAR Calabria-Reggio Calabria, con ordinanza 01.02.2012 n. 89, "...
ritenuta la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 2, comma 21, primo periodo, e comma 22, primo, secondo e terzo periodo, nonché art. 12, comma 7, del DL 31.05.2010 n. 78 convertito, con modificazioni, in L. 30.07.2010 n. 122 in relazione agli artt. 2, 3, 24, 36, 41, 42, 53, 97, 100, 101, 103, 104, 108, 111 e 113 della Costituzione, dispone la sospensione del giudizio e trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.".

PUBBLICO IMPIEGO«Statali, illegittime le trattenute sulle buste paga». Sentenza del Tar Calabria contro i tagli del 2%. Nel mirino la manovra Tremonti dell'estate 2010.
La strategia Il governo ora teme ricorsi in tutta Italia Allo studio un'ipotesi di trattativa.
Dal primo gennaio dello scorso anno lo Stato sta trattenendo illegittimamente il 2 per cento dello stipendio a circa due milioni di dipendenti pubblici.
Lo afferma il TAR Calabria-Reggio Calabria nella sentenza 18.01.2012 n. 53 con la quale ha condannato l'amministrazione a restituire le somme in questione ai dipendenti che avevano fatto ricorso, aprendo così la strada ad azioni dello stesso tipo in tutta Italia. Ora è prevedibile che la presidenza del Consiglio faccia le sue contromosse, non solo in sede giudiziaria ma anche legislativa; ma il pronunciamento della magistratura segna un importante punto a favore dei lavoratori in una vicenda iniziata con la manovra economica approvata dal governo nell'estate del 2010.
Quella legge (la 122) oltre a bloccare il rinnovo dei contratti e a congelare per tre anni le retribuzioni dei dipendenti pubblici, cambiava il meccanismo della liquidazione, trasformando la vecchia indennità di buonuscita in un trattamento di fine rapporto (Tfr) del tutto analogo a quello in vigore per i privati, secondo quanto previsto dal Codice civile. La differenza tra i due meccanismi è consistente. Perla buonuscita venivano accantonati contributi pari al 9,60 per cento sull'80 per cento della retribuzione; il 2,5 per cento (di fatto quindi i12 sull'intero stipendio) era a carico del lavoratore. Con il Tfr invece l'accantonamento è del 6,91 sull'intera retribuzione, interamente a carico del datore di lavoro.
L'abolizione della vecchia disciplina, in generale più vantaggiosa rispetto al Tfr, avrebbe dovuto comportare la cancellazione della trattenuta del 2,5 per cento, che i dipendenti vedono sul cedolino dello stipendio alla voce «Opera di previdenza». Invece le cose sono andate diversamente. Le varie amministrazioni, confortate anche da una circolare dell' Inpdap, hanno continuato a regolarsi come prima, trattenendo ogni mese quella somma (in media 35-40 euro) dallo stipendio di circa due milioni di dipendenti pubblici, che avranno però al momento di lasciare il servizio una liquidazione meno favorevole.
La novità non riguarda tutti: sono esclusi i lavoratori assunti dal 2001 in poi, che in base ad una riforma approvata all'epoca hanno già il Tfr e non la buonuscita. A loro la trattenuta non viene fatta, perché la retribuzione è stata ridotta in proporzione dal momento in cui sono stati assunti. Una situazione non ottimale, ma comunque diversa da quella di chi -tutti gli altri dipendenti- si è visto cambiare le regole in corsa.
Contro questo stato di cose qualcuno ha deciso di scegliere la via giudiziaria: in particolare si sono rivolti al TAR Calabria-Reggio Calabria, alcuni magistrati amministrativi. Nel loro ricorso hanno messo in discussione la costituzionalità del nuovo assetto (anche perla disparità di trattamento tra lavoratori pubblici e privati) chiedendo in particolare che fosse riconosciuta l'illegittimità -dal primo gennaio 2011- della trattenuta e di conseguenza l'obbligo per le amministrazioni di restituire gli importi con gli interessi. Il tribunale ha emesso una sentenza non definitiva, riservandosi di rimettere alla Corte le questioni di costituzionalità, ma riconoscendo la fondatezza delle specifiche richieste. Ora però le cause si stanno moltiplicando e il governo dovrà porsi il problema di cosa fare, al di là della resistenza giudiziaria.
È chiaro che la semplice rinuncia alla trattenuta avrebbe un costo difficilmente sostenibile per le finanze pubbliche, nell'ordine del miliardo di euro l'anno o anche di più. la soluzione potrebbe essere l'apertura di una trattativa. «La sentenza ci dà ragione -commenta Giovanni Torluccio, segretario generale della Uil-Fpl- è ora che lo Stato la smetta di operare un vero e proprio finanziamento forzoso a carico del lavoratore pubblico» (articolo Il Mattino del 29.02.2012 - tratto da www.corteconti.it).
---------------
N.B.: lo stesso TAR Calabria-Reggio Calabria, con ordinanza 01.02.2012 n. 89, "...
ritenuta la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 2, comma 21, primo periodo, e comma 22, primo, secondo e terzo periodo, nonché art. 12, comma 7, del DL 31.05.2010 n. 78 convertito, con modificazioni, in L. 30.07.2010 n. 122 in relazione agli artt. 2, 3, 24, 36, 41, 42, 53, 97, 100, 101, 103, 104, 108, 111 e 113 della Costituzione, dispone la sospensione del giudizio e trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.".
 

     E la replica della UIL-PA, dopo la suddetta sentenza del TAR, non si è fatta attendere con l'ulteriore comunicato 27.02.2012 "TFR- TFS - Ccà nisciuno è fesso!" che, di seguito, riproponiamo integralmente:


A PROPOSITO DI TFS-TFR
Quando alcune settimane fa abbiamo dato avvio alla nostra campagna proponendo ai lavoratori di inoltrare diffida contro l'ingiustificata trattenuta del 2,5% sull'80% della retribuzione, per le decorrenze successive all'01.01.2011, siamo stati bersagliati da critiche provenienti da diversi ambienti, non solo dell'amministrazione pubblica, abbastanza comprensibile ma, purtroppo, anche da altre sigle sindacali.
Ora che è passato qualche giorno, dopo la sentenza di un TAR che sposa in sostanza la nostra tesi, possiamo registrare che anche chi diceva di diffidare di noi comincia ad avere dubbi su come questa materia è stata interpretata dalle amministrazioni e, soprattutto sulla legittimità della trattenuta alla luce dei principi costituzionali. Cominciano quindi ad essere proposti ai lavoratori modelli di diffida scopiazzati dal nostro.
Adesso ci attendiamo che anche sull'altra nostra importante iniziativa "Riformiamo la Riforma" accada la stessa cosa: dopo le elezioni RSU chi oggi la boicotta o la sbeffeggia ne scoprirà l'opportunità e la validità.
Non abbiamo brevettato la diffida, né abbiamo brevettato la nostra ferma convinzione che, di fronte al muro di gomma alzato sui problemi del pubblico impiego dagli ultimi due Governi, da questo Parlamento e dai partiti politici, sono necessarie idee nuove, nuove forme di comunicazione, di fare sindacato.
Ognuno è libero di proporre ai propri iscritti ed ai lavoratori le iniziative che crede.
Ma, poiché "Ccà nisciuno è fesso!" loro sapranno giudicare e scegliere.

 

     Senza parteggiare per l'uno o per l'altro sindacato, dobbiamo riconoscere l'onore al merito della UIL-PA. E, allora, avanti tutta con l'inoltro della diffida alla propria amministrazione di appartenenza per farci restituire quanto indebitamente trattenuto ancora oggi nello stipendio.

01.03.2012 - LA SEGRETERIA PTPL

NOVITA' NEL SITO

Inserito nel sito il seguente nuovo DOSSIER: ● impugnazione atti: legittimazione.

DOTTRINA E CONTRIBUTI

PUBBLICO IMPIEGO: L. Oliveri, Dirigenti locali: il cumulo degli stipendi è un illecito (link a www.leggioggi.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 9 del 29.02.2012, "Disposizioni in materia di artigianato e commercio e attuazioni della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12.12.2006 relativa ai servizi nel mercato interno. Modifiche alle leggi regionali 30.04.2009, n. 8 (Disciplina della vendita da parte delle imprese artigiane di prodotti alimentari di propria produzione per il consumo immediato nei locali dell’azienda) e 02.02.2010, n. 6 (Testo unico delle leggi regionali in materia di commercio e fiere)" (L.R. 27.02.2012 n. 3).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ENTI LOCALI - VARI: G.U. 27.02.2012 n. 48, suppl. ord. n. 36/L, "Testo del decreto-legge 29.12.2011, n. 216 coordinato con la legge di conversione 24.02.2012, n. 14 recante: «Proroga di termini previsti da disposizioni legislative.».
---------------
Al riguardo si legga anche la NOTA DI LETTURA SULLE NORME DI INTERESSE DEI COMUNI (ANCI, 24.02.2012).

QUESITI & PARERI

AMBIENTE-ECOLOGIAQuali cer possono utilizzarsi ai fini dell'iscrizione all'Albo Gestori Ambientali? (28.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAIl rinvio del SISTRI al 30 giugno è legge? (28.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAL'operazione di rigenerazione degli oli usati può essere disposta in deroga al D.M. n. 392/1996? (28.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAChi esegue i controlli previsti dall'A.I.A. per gli impianti localizzati in mare? (28.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAChi è competente al rilascio dell'autorizzazione all'immersione di materiali in mare? (28.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAChe è l'Autorizzazione Unica Ambientale? (28.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIASi semplificano i limiti del deposito temporaneo per gli imprenditori agricoli? (28.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIACome si semplifica la movimentazione dei rifiuti agricoli? (28.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAIl soggetto che firma un FIR presso l'impianto di destino deve avere specifiche qualifiche professionali? (28.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAPerché un soggetto diverso dal legale rappresentante dell'azienda possa firmare il FIR occorre una delega formale? (28.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAChi può firmare il FIR? (28.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIALa persona che firma il FIR, accettando i rifiuti presso l'impianto di destino, quali responsabilità assume? (28.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

EDILIZIA PRIVATA: Impianti elettrici aerei.
Domanda.
Si chiede se rientra nella potestà comunale imporre, nel proprio territorio, l'obbligo generalizzato di interramento degli impianti elettrici aerei.
Risposta.
In ordine alla esistenza o meno di una competenza del comune a far valere esigenze di tutela della salute pubblica o di tutela del paesaggio o dell'ambiente in tema di installazione di impianti elettrici aerei sul proprio territorio, vincolando gli stessi all'obbligo generalizzato di interramento, il Tribunale regionale amministrativo (Tar) Lombardia, Brescia, sezione I, con la sentenza del 29.12.2010, n. 4983, ha affermato che l'illegittimità della deliberazione con la quale la giunta municipale vieta in via preventiva e generalizzata la realizzazione sull'intero territorio comunale di linee e/o reti tecnologiche, telefoniche ed elettriche aeree, imponendo l'obbligo di realizzazione delle stesse mediante interramento per esigenze di tutela paesaggistica e ambientale.
In materia è da dire che la Corte costituzionale, con la sentenza dell'11.11.2010, n. 313, ha precisato che non spetta alla regione il potere di autorizzazione per gli impianti costituenti parte della rete nazionale. Di conseguenza, per i giudici costituzionali, la legge regionale che disciplina la materia degli elettrodotti attiene soltanto agli impianti non facenti parte della rete nazionale.
Le stessa Corte costituzionale, con la sentenza numero 248, del 28.06.2006, aveva dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 38 della legge della regione Toscana 24.02.2005, n. 39, sottoposto all'esame della consulta, in riferimento all'articolo 117, comma 3, della Costituzione, nella parte in cui aveva attribuito alla giunta regionale il potere di rilasciare autorizzazione in sanatoria sulle linee e sugli impianti elettrici aventi tensione compresa tra 30.000 e 150.000 volts, già realizzati prima dell'entrata in vigore della legge regionale medesima.
Per la Corte costituzionale, nella fattispecie, non sussiste alcuna violazione del principio fondamentale di cui all'articolo 1-sexies, comma 1, del decreto legge 29.08.2003, n. 239, convertito con modificazioni nella legge 27.10.2003, n. 290, che attribuisce al Ministero delle attività produttive la competenza al rilascio dell'autorizzazione alla costruzione e all'esercizio di elettrodotti facenti parte della rete nazionale di trasporto, in quanto può interpretarsi come riferita esclusivamente agli elettrodotti non appartenenti alla rete nazionale (articolo ItaliaOggi sette del 27.02.2012).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Cessione di cubatura.
Domanda.
La cosiddetta cessione di cubatura in che relazione si pone con Imposta comunale sugli immobili (Ici)?
Risposta.
In tema di cessione di cubatura, la Corte di cassazione, con la sentenza del 14.12.1988, n. 6807, ha affermato che la rinuncia preventiva alla cubatura, o l'assenso che quella sia utilizzata dal concessionario, hanno la funzione di presupposto affinché l'autorità preposta al rilascio della licenza edilizia possa autorizzare il cessionario a costruire con la più ampia volumetria che egli ha acquisito per effetto del provvedimento che incrementa in concreto l'edificabilità del suo suolo di quanto corrispondentemente priva l'altro suolo limitrofo.
Ha aggiunto la Suprema corte che la rinuncia allo sfruttamento edilizio del proprio fondo fatta a favore del fondo limitrofo ha efficacia soltanto se l'autorità amministrativa autorizzi il corrispondente incremento delle possibilità di sfruttamento edilizio di tale fondo. Pertanto, prima del rilascio di tale provvedimento vi è soltanto un vincolo obbligatorio tra i proprietari che hanno pattuito la cessione di cubatura e non un asservimento attuale di un fondo a favore di un altro.
Con la sentenza n. 20623, del 2009, la Corte di cassazione sottolinea che nella cessione di cubatura si è in presenza di una fattispecie a formazione progressiva in cui su dichiarazione delle parti la pubblica amministrazione competente emette o meno un provvedimento concessorio discrezionale e non vincolato che, a seguito dalla rinuncia del cedente, può essere emanato a favore del concessionario, non essendo configurabile tra le parti l'esistenza di un rapporto traslativo. Ne consegue che il mancato rilascio della concessione edilizia è ragione di inefficacia del negozio concluso dai proprietari dei fondi limitrofi e non risoluzione del medesimo per inadempimento del cedente. Ai fini Ici, la valutazione dei lotti deve essere rapportata all'effettiva loro capacità edificatoria a seguito del rilascio del provvedimento concessorio.
È da dire, infine, che con il decreto legge 13.05.2011, n. 70, convertito con modificazioni dalla legge n. 106 del 2011, è stato introdotto la cessione di cubatura. Il legislatore, difatti, ha integrato l'articolo 2643 del codice civile ed ha inserito, dopo il n. 2, il nuovo comma 2-bis, il cui contenuto è: «i contratti che trasferiscono, costituiscono o modificano i diritti edificatori comunque denominati, previsti da normative statali o regionali, ovvero da strumenti di pianificazione territoriale» (articolo ItaliaOggi sette del 27.02.2012).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Nuovo strumento urbanistico.
Domanda.
L'emissione di un nuovo strumento urbanistico, dopo la cessione di cubatura, rileva in ordine al valore del terreno ai fini dell'Imposta comunale sugli immobili (Ici)?
Risposta.
La Corte di cassazione, con la sentenza del 30.04.2009, n. 21177, esaminando il caso in cui dopo la cessione di cubatura subentri un nuovo strumento urbanistico, ha affermato che: «Questo collegio ritiene di dovere ribadire che soltanto per effetto del rilascio del provvedimento amministrativo (licenza edilizia, concessione edilizia o permesso di costruire) si costituisce il “vincolo di asservimento” che, senza oneri di forma pubblica, incide definitivamente sulla disciplina urbanistica ed edilizia delle aree interessate, in quanto nel territorio comunale il titolo abitativo edilizio crea un nuovo lotto di pertinenza urbanistica dell'edificio, che non coincide con i confini di proprietà e ha una consistenza indipendente rispetto ai successivi interventi nelle aree medesime, derivandone l'impossibilità di assentire e di richiedere ulteriori ed eccedenti realizzazioni di volumi costruttivi sul fondo asservito per la parte in cui esso è rimasto privo della potenzialità edificatoria già utilizzata dal titolare del fondo in favore del quale ha avuto luogo l'asservimento».
Ha aggiunto, poi, la Suprema corte: «Le possibilità di edificazione previste dall'introduzione di un nuovo piano regolatore non valgono a rendere edificabili aree che sono già state prese in considerazione, ai fini della verifica del rispetto dell'indice di edificabilità fondiaria, in sede di rilascio di precedenti titoli abilitativi edilizi, dovendo ritenersi definitivamente perdute le potenzialità edificatorie dell'area asservita per il semplice fatto che di esse si è già irreversibilmente disposto».
Ai fini dell' Imposta comunale sugli immobili (Ici), la stessa Corte di cassazione, con la sentenza n. 25676, del 2008, aveva affermato che le aree che posseggono caratteristiche tali da non consentire l'edificazione non sono inedificabili, ma tali caratteristiche incidono sulla determinazione del valore imponibile. Pertanto, come affermato dalla predetta Corte di cassazione, anche con le sentenze del 2010, n. 12135 e n. 9781, per citare le più recenti, la presenza di vincoli non incide sulla natura dell' area, ma sulla sua valutazione. L'area rimane, ai fini dell'Imposta comunale sugli immobili (Ici), edificabile (articolo ItaliaOggi sette del 27.02.2012).

EDILIZIA PRIVATA: Limiti alla localizzazione.
Domanda.
In materia di competenza regolamentare dei comuni per il corretto insediamento degli impianti radioelettrici, vorrei che mi venisse puntualizzata la differenza tra «criteri localizzativi» e «limiti alla localizzazione».
Risposta.
L'articolo 8, comma 6, della legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici ed elettromagnetici del 22.02.2001, n. 36, dispone che i comuni possono adottare regolamenti per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l'esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici.
Il comune, però, alla luce di detta normativa, che, per la giurisprudenza (Consiglio di stato, sezione VI, sentenza del 27.04.2010, n. 2371), attribuisce una particolare competenza che è distinta dalla competenza urbanistica ed edilizia di esclusiva competenza dei comuni, non può adottare misure che in concreto vengano a derogare i limiti di esposizione fissati dal decreto del presidente del consiglio dei ministri dell'08.07.2003. Limiti che vengono individuati:
- nel generalizzato divieto di installazione delle stazioni radio base per la telefonia cellulare in tutte le zone territoriali omogenee a destinazione residenziale;
- nell'introduzione di misure che, pur essendo di tipo urbanistico, quali le distanze, le altezze ecc., non sono funzionali al governo del territorio, in quanto, come affermato dal Consiglio di stato, sezione VI, con la sentenza del 02.11.2007, n. 5673, attengono alla tutela dai rischi dell'elettromagnetismo.
Peraltro, in tema di competenza regolamentare dei comuni per il corretto insediamento degli impianti radioelettrici, attribuita dal citato articolo 8, comma 6, della legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici ed elettromagnetici del 22.02.2001, n. 36, il Consiglio di stato, sezione VI, con le sentenze del 05.06.2006, n. 3452, 19.05.2008, numero 2287, 17.07.2008, numero 3596, ha puntualizzato la differenza tra «criteri localizzativi» e «limiti alla localizzazione».
I primi, per i supremi giudici amministrativi, competono ai comuni, perché recano criteri specifici rispetto a localizzazioni puntuali, mentre i secondi non competono in quanto portatori di divieti generalizzati per intere aree. La giurisprudenza, quindi, ha ridimensionato la portata applicativa del suddetto articolo, 8, comma 6, della legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici ed elettromagnetici del 22.02.2001, n. 36.
Infatti sono illegittimi i regolamenti comunali, relativi alla fissazione di criteri per la localizzazione di elettrodotti o stazioni base, se l'Ente territoriale, con essi, si sia posto l'obiettivo, anche indiretto, di tutelare la salute umana dalle emissioni elettromagnetiche, provenienti da impianti di radiocomunicazione, stabilendo, ad esempio, distanze minime delle stazioni radio base da di insediamenti abitativi, atteso che l'articolo 117 della costituzione attribuisce la competenza in materia alla legislazione concorrente stato-regioni (articolo ItaliaOggi sette del 27.02.2012).

EDILIZIA PRIVATA: Vincolo diretto e indiretto.
Domanda.
Che differenza esiste fra un «vincolo diretto» e un «vincolo indiretto»?
Risposta.
«A differenza del vincolo diretto, che riguarda il bene culturale, il vincolo indiretto si caratterizza per coinvolgere l'ambito costituente la “fascia di rispetto”, che non coincide con l'ambito materiale dei confini perimetrali dei singoli immobili, ma va stabilita in rapporto alla consistenza della c.d. “cornice ambientale”; ciò comporta che il vincolo indiretto può essere imposto sull'area che si trova in vista o in prossimità del bene culturale»: si è espresso così, ribadendo un concetto assodato e condiviso, il Tar dell'Umbria, Perugia, Sezione 1, con la sentenza del 20.01.2011, n. 16 (articolo ItaliaOggi sette del 27.02.2012).

EDILIZIA PRIVATA: Cornice ambientale.
Domanda.
Cosa si intende per «cornice ambientale»? E con quali dati il vincolo indiretto può agire su di essa?
Risposta.
Per fornire una risposta completa facciamo riferimento alla sentenza n. 28 del Tar Sicilia, Palermo, sezione 2, dell'11.01.2011.
In tale contesto si chiarisce che: «La legittimità delle misure apprestate dalla Soprintendenza ai fini dell'apposizione di un vincolo indiretto va stabilita con riguardo alla globale consistenza della cosiddetta cornice ambientale, la quale si estende fino a ricomprendere ogni immobile, anche non contiguo, ma pur sempre in prossimità del bene monumentale, che sia con questo in tale relazione che la sua manomissione sia idonea, secondo una valutazione ampiamente discrezionale dell'autorità, ad alterare il complesso delle caratteristiche fisiche e culturali che connotano lo spazio e quello circostante (cfr. Consiglio di stato sez. VI n. 420 del 09/06/1993).
Ciò in quanto occorre preservare una continuità storico ed artistica con gli insediamenti che circondano l'oggetto del vincolo diretto, indipendentemente, quindi, dalla circostanza che i terreni sottoposti a vincolo non presentino alcun pregio e siano in stato di abbandono
» (articolo ItaliaOggi sette del 27.02.2012).

PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing.
Domanda.
Perché si possa configurare il mobbing è sufficiente che vi siano dei comportamenti ostili del superiore nei confronti del lavoratore?
Risposta.
Per «mobbing» si intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.
Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti:
a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;
b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore;
d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.
La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata, sulla base di una valutazione complessiva degli episodi indicati in giudizio, considerando l'idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell'azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, anche in assenza della violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato (articolo ItaliaOggi sette del 27.02.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIAI parrucchieri e gli estetisti sono agevolati nell’attività di smaltimento dei rifiuti speciali? Sono tenuti al MUD? (09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIQuali novità nella disciplina in materia di V.I.A.? (09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIASi attenueranno i limiti del deposito temporaneo? (09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIASi semplificherà la movimentazione aziendale dei rifiuti? (09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIASono in previsione semplificazioni dell’Autorizzazione Unica Ambientale? (09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIALe imprese agricole sono esonerate dal Sistri? (09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - TRIBUTISi applica l’IVA alla tassa rifiuti? (09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIALe semplificazioni degli adempimenti amministrativi delle imprese disposte dal D.L. n. 214/2011 modificano il Testo unico Ambientale? (09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIACosa è accaduto alle imprese iscritte entro il 14.04.2008 che non hanno provveduto all’aggiornamento dell’iscrizione? (09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAEsistono deroghe al divieto di smaltimento dei rifiuti di provenienza extraregionale? (09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAIn cosa consiste la liberalizzazione del servizio di gestione dei rifiuti urbani? (09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAIn materia ambientale vale sempre il principio di offensività? (09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAChi è legittimato all’azione di risarcimento conseguente alla lesione dell’interesse collettivo all’ambiente? (09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAQuando entrerà in vigore il SISTRI? (09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAA cosa sono tenuti commercianti e intermediari dei rifiuti senza detenzione per iscriversi all’Albo Nazionale Gestori Ambientali? (09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - TRIBUTILa Tarsu e la Tia esisteranno ancora nel 2013? (09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAIl divieto di smaltimento dei rifiuti di provenienza extraregionale si estende anche alle operazioni di recupero? (09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIASi prevedono controlli più rigidi contro la gestione illecita dei rifiuti? (09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIANel sito dell’Albo nazionale gestori ambientali esiste un’area riservata alle imprese iscritte? (09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIASono in previsione novità nella normativa RAEE? (09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIASi è liberalizzata la gestione dei rifiuti di imballaggio? (09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAIl proprietario di un'area inquinata ha sempre il dovere di mettere in sicurezza il sito? (09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAIl reato di traffico illecito di rifiuti può concretarsi in un impianto dotato di regolare autorizzazione? (09.02.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATACosa si dispone in tema di terre e rocce da scavo nel decreto legge n. 1/2012? (31.01.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIACome deve avvenire lo smaltimento dei rifiuti sanitari pericolosi? Si può adoperare anche un imballaggio esterno riutilizzabile? (31.01.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIADove sono stabiliti modalità e importi delle garanzie finanziarie che devono essere prestate a favore dello Stato dai commercianti e intermediari dei rifiuti senza detenzione dei rifiuti stessi? (21.12.2011 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAQuali sono le modalità di rinnovo per le imprese iscritte alle cat. 2 e 3 dell'Albo, abrogate in seguito all'entrata in vigore del D.Lgs. n. 205/2010? (21.12.2011 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAQuali sono i tempi e modalità per l’aggiornamento delle iscrizioni al trasporto in conto proprio dei rifiuti? (21.12.2011 - link a www.ambientelegale.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALISotto i 50mila abitanti. Vincoli estesi. Aziende speciali solo nei grandi enti.
I limiti per la partecipazione a società da parte dei Comuni di minori dimensioni vanno interpretati in modo rigoroso e si estendono anche a società patrimoniali e aziende speciali.
La Corte dei conti, sezione regionale di controllo della Emilia-Romagna,
con il parere 13.02.2012 n. 9 ha definito in modo puntuale l'applicazione dell'articolo 14, comma 32, della legge 122/2010, in base al quale costituzione o la partecipazione in società che gestiscono servizi pubblici locali a rilevanza economica da parte dei Comuni con popolazione sino a 30mila abitanti non è consentita, fatta eccezione per le due sole deroghe permesse dalla stessa disposizione, in quanto lo strumento societario non è una modalità obbligatoria per lo svolgimento dei servizi. Per i Comuni fra i 30mila e i 50mila abitanti la costituzione di nuove società o il mantenimento di partecipazioni è consentito in relazione a una sola società.
La deliberazione della Corte dei conti emiliana evidenzia anche che le società patrimoniali costituite in base all'articolo 113, commi 2 e 13 del Tuel, va considerata una modalità superata e non più consentita, dovendo rimanere pubblica la proprietà di reti, impianti e altre dotazioni patrimoniali relative a servizi pubblici locali di rilevanza economica.
Pertanto questi enti locali non solo non possono costituire nuove società patrimoniali, ma dovranno anche dismettere le società patrimoniali ancora oggi operanti, non essendo più consentito che la proprietà delle reti, impianti ed altre dotazioni destinate all'esercizio di servizi pubblici locali a rilevanza economica sia detenuta da società. Nei limiti previsti dalla disposizione, gli enti potranno al più costituire società o detenere partecipazioni in società cui sia affidata la gestione delle reti.
La Corte dei conti rileva inoltre che, nonostante l'ambito di applicazione soggettivo dell'articolo 14, comma 32, sia espressamente limitato ai soli organismi societari, l'articolo 25, comma 2, del Dl 1/2012, introducendo il comma 5-bis all'articolo 114, estende alle aziende speciali e istituzioni l'applicazione delle disposizioni che stabiliscono a carico degli enti locali obblighi e limiti alla partecipazione societaria degli enti locali (articolo Il Sole 24 Ore del 27.02.2012 - tratto da www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGOPart-time. L'estensione non può eludere i tetti alle assunzioni. La spesa frena l'orario ampliato.
I dubbi sulle possibilità di assunzione degli enti locali si spostano sul part-time. Diverse pronunce contrastanti della Corte dei conti stanno portando alla ribalta la questione su quando la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno vada considerata come nuova assunzione, con effetti sul turn-over.
Gli enti soggetti a Patto possono assumere nel limite del 20% della spesa delle cessazioni dell'anno precedente, gli altri nel limite delle cessazioni dell'ultimo esercizio. Il rapporto a tempo parziale si può attivare direttamente o trasformando un contratto a tempo pieno, quando possibile.
Se l'assunzione in origine è a tempo parziale la questione si fa più complicata. In questo contesto si applica infatti interamente l'articolo 3, comma 101, della Finanziaria 2008, dove si prevede che per il personale assunto con contratto a tempo parziale la trasformazione del rapporto a tempo pieno può avvenire nel rispetto delle modalità e dei limiti previsti in materia di assunzioni.
La situazione si infittisce però di fronte ad un'altra domanda: anche l'aumento delle ore del rapporto di lavoro instaurato a part-time, senza giungere alle 36 contrattuali, costituisce nuova assunzione? I magistrati contabili sono divisi.
Nel parere 13.02.2012 n. 8 della Corte dei conti Emilia Romagna si ritiene che esuli dall'applicazione dell'articolo 3, comma 101, e quindi non possa essere considerato nuova assunzione, l'incremento orario di un contratto a tempo parziale purché non si determini una trasformazione a tempo pieno. Tesi confermata anche dai magistrati contabili del Piemonte (delibera 57/2011), della Toscana (delibera n. 198/2011) e Campania (delibera 496/2011).
Di avviso contrario la Corte dei conti della Lombardia. Nella deliberazione 226/2011 viene affermato che l'aumento delle ore è assimilabile a una nuova assunzione poiché il dipendente era stato assunto a tempo parziale.
Questa impostazione è in linea con la nota 46078/2010 redatta dalla Funzione Pubblica d'intesa con la Ragioneria Generale, dove si afferma che sono subordinati ad autorizzazione ad assumere anche gli incrementi di part-time concernenti il personale che è stato assunto con questa tipologia di contratto.
Quest'ultima analisi sembra quella più coerente e vicina al contesto normativo attuale. Operando diversamente, si rischierebbe di eludere i vincoli del turn over. Al momento dell'espletamento di un concorso va infatti verificato il rispetto dei vincoli assunzionali. Se un'amministrazione ha una spesa di cessazioni che può permettere di assumere solo con un rapporto a tempo parziale, una successiva estensione di orario andrebbe oltre il limite.
Non vi sono invece dubbi sul fatto che qualsiasi estensione di orario costituisce incremento di spesa e va quindi disposta nel rispetto dei tetti alle uscite (articolo Il Sole 24 Ore del 27.02.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

NEWS

APPALTI:  Modificato il Codice dei contratti pubblici. Appalti, esclusi gli evasori fiscali.
Esclusione dagli appalti per violazioni fiscali oltre i 10.000 euro accertate in via definitiva in quanto riferite al pagamento di debiti certi, scaduti ed esigibili.

È questo il chiarimento fornito dall'articolo 1 del decreto legge sulle semplificazioni fiscali che interviene sul comma 2 dell'articolo 38 del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture (dlgs 163/2006) per quanto attiene al concetto di definitività dell'accertamento fiscale.
Diversamente dalla precedente bozza, che generava qualche confusione interpretativa (vedi ItaliaOggi del 22 febbraio), la nuova formulazione, più correttamente, interviene direttamente nel corpus del comma 2 dell'articolo 38 del codice dei contratti (non più inserendo una lettera g-bis) andando a precisare uno dei due elementi disciplinati dalla lettera g) del comma 1 della disposizione che dispone l'esclusione dagli appalti per i soggetti che abbiano «commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse, secondo la legislazione italiana o quella dello stato in cui sono stabiliti».
Infatti per il primo elemento che qualifica la violazione fiscale, cioè quello attinente alla gravità della violazione, è la stessa norma attualmente vigente a riferirsi all'articolo 48-bis, comma 1 e 2-bis del dpr 29.09.1973, n. 602, che prevede il valore di 10.000 euro, peraltro soggetto a variazione in aumento, con decreto di natura non regolamentare fino al doppio, o in diminuzione. La novella inserita dal decreto legge sulla semplificazione fiscale riguarda quindi il secondo elemento, cioè l'accertamento definitivo della violazione.
La norma in particolare chiarisce che «costituiscono violazioni definitivamente accertate quelle relative all'obbligo di pagamento di debiti per imposte e tasse certi, scaduti ed esigibili». Solo a tali condizioni, che devono, almeno stando al tenore della proposta normativa, essere presenti contemporaneamente, le stazioni appaltanti potranno disporre l'esclusione dalla gara per il concorrente.
La nuova norma stabilisce che siano fatti salvi i comportamenti già adottati dalle stazioni appaltanti (non più dagli «Uffici», come recitava la precedente bozza) in coerenza con la previsione contenuta nel comma 1, cioè in base alla formulazione della lettera g) precedente all'introduzione del chiarimento disposto dal decreto legge (articolo ItaliaOggi del 29.02.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATADurc, controlli doppi. Testati i soci dipendenti e autonomi. Nota Cnce sulla regolarità contributiva delle cooperative.
Serve una doppia verifica di regolarità contributiva per il rilascio del Durc alle società cooperative di artigiani e di lavoratori autonomi. Infatti, quando le cooperative operano solo con soci lavoratori autonomi, non c'è obbligo d'iscrizione alla cassa edili e, di conseguenza, ogni richiesta di regolarità contributiva (Durc) va indirizzata solamente all'Inps e Inail. Invece, quando le cooperative operano sia con soci lavoratori dipendenti che con soci lavoratori autonomi, ai fini del rilascio del Durc, le casse edili procederanno alla doppia verifica: regolarità contributiva ordinaria (per i soci dipendenti) e regolarità contributiva singola (Inps e Inail) per i soci lavoratori autonomi.
Lo precisa la Cnce (la Commissione nazionale paritetica per le casse edili) col comunicato 23.02.2012 a proposito del rilascio del Durc a cooperative di artigiani e di lavoratori autonomi.
Il Durc è l'attestazione che certifica l'assolvimento, da parte dell'impresa, degli obblighi normativi e contrattuali nei confronti di Inps, Inail e cassa edile. Contiene il risultato delle verifiche effettuate parallelamente da Inail, Inps e cassa edile sulla posizione contributiva dell'impresa; sarà negativo quando anche uno soltanto dei tre enti dichiara l'irregolarità dell'impresa.
I chiarimenti della Cnce arrivano con riferimento alle segnalazioni pervenute da alcune casse edili in merito a richieste di certificati Durc relative a imprese costituite come società «cooperative di artigiani» o società «cooperative di lavoratori autonomi». La Cnce spiega che qualora le cooperative in esame dichiarino di non avere soci lavoratori dipendenti ma di operare esclusivamente con soci lavoratori autonomi, le stesse (cooperative) non hanno l'obbligo dell'iscrizione alla cassa edile e, pertanto, non possono nemmeno richiedere il Durc secondo la disciplina ordinaria.
In questi casi, infatti, aggiunge la Cnce, ogni richiesta di Durc deve essere indirizzata soltanto agli istituti pubblici previdenziali, cioè all'Inps e all'Inail che rilasceranno autonome attestazioni concernenti o meno la regolarità contributiva. Qualora invece le predette società cooperative abbiano anche soci lavoratori dipendenti e sia effettuata una richiesta di Durc attraverso la procedura ordinaria prevista per le imprese edili, la cassa edile provvederà a rilasciare un Durc di regolarità previa verifica anche del possesso di un Durc Inps e Inail da parte dei lavoratori autonomi che, soci delle cooperative, risultino operanti nel cantiere.
Infine, la Cnce evidenzia che le associazioni nazionali delle imprese cooperative hanno istituito, con la collaborazione di Inps e Inail, mediante apposita convenzione, degli specifici «osservatori» presso le direzioni territoriali del lavoro (le ex dpl, direzioni provinciali del lavoro), finalizzati alla verifica della coerenza di tali forme di cooperative, di artigiani e di lavoratori autonomi, con quanto previsto dalla disciplina normativa (legge n. 142/2001) (articolo ItaliaOggi del 29.02.2012).

APPALTICentrale unica, rinvio al 2013. In G.U. il dl milleproroghe convertito.
Prorogato di un anno (al 31.03.2013) l'obbligo per i comuni al di sotto dei 5000 abitanti di affidare appalti con una unica centrale di committenza.
E' quanto si prevede al comma 11-ter dell'articolo 29 della legge 24.02.2012 n. 14 (in G.U. n. 48 di ieri) che ha convertito in legge il decreto milleproroghe (n. 216/2011).
Il provvedimento fa slittare di dodici mesi il termine previsto dall'art. 23, comma 5, del decreto legge n. 201/2011. Si tratta della norma nella quale si stabilisce che i comuni con popolazione non superiore a 5.000 abitanti dovranno obbligatoriamente affidare ad un'unica centrale di committenza l'acquisizione di lavori, servizi e forniture. Tutto ciò doveva avvenire entro fine marzo di quest'anno, ma l'emendamento votato prevede che la disposizione si applichi alle gare bandite successivamente al 31.03.2013.
L'articolo 23 del decreto legge n. 201/2011, ai commi 4 e 5, aveva introdotto un comma aggiuntivo (il comma 3-bis) all'art. 33 del dlgs n. 163/2006, il Codice dei contatti pubblici, prevedendo l'obbligo per i comuni con popolazione non superiore a 5.000 abitanti ricadenti nel territorio di ciascuna provincia di affidare ad un'unica centrale di committenza l'acquisizione di lavori, servizi e forniture. Tale obbligo può essere soddisfatto secondo due modalità: nell'ambito delle unioni dei comuni, ove esistenti; ovvero costituendo un apposito accordo consortile tra i comuni medesimi e avvalendosi dei competenti uffici.
Il comma 5 dell'articolo 23 ha, quindi, specificato che tali disposizioni si applichino alle gare bandite successivamente al 31.03.2012. La finalità della norma di cui adesso viene rinviata di un anno l'applicazione, è quella di permettere una riduzione dei costi di gestione delle procedure grazie alle economie di scala.
Quanto alle centrali di committenza la relativa disciplina è recata dall'art. 33 del Codice contratti che prevede che le stazioni appaltanti e gli enti aggiudicatori possono acquisire lavori, servizi e forniture facendo ricorso a centrali di committenza, anche associandosi o consorziandosi e che tali centrali sono tenute all'osservanza del Codice (articolo ItaliaOggi del 28.02.2012).

LAVORI PUBBLICI: Nuovi chiarimenti ministeriali al regime di responsabilità tra committenti e ditte esecutrici. Il nolo a caldo è senza solidarietà. L'affitto di macchinari non è equiparabile a un appalto.
La responsabilità solidale non si applica al noleggio di macchinari con disponibilità di lavoratori per la loro messa in funzione (cosiddetto nolo a caldo).
Lo precisa il Ministero del lavoro nell'interpello 27.01.2012 n. 2/2012 spiegando che la responsabilità solidale è un istituto strettamente legato all'appalto.
La responsabilità solidale. È una sorta di vincolo che lega, negli appalti, la ditta che affida un lavoro a quella che tale lavoro esegue. Il vincolo vale relativamente ai diritti retributivi, fiscali e contributivi spettanti ai lavoratori che sono impiegati nell'esecuzione dei lavori. Oggi vige una doppia disciplina: quella che lega il committente con le ditte appaltatrici e subappaltatrici (disciplinata dal dlgs n. 276/2003, la riforma Biagi del lavoro) e quella che lega l'appaltatore con le ditte subappaltatrici (disciplinata dalla legge n. 248/2006).
Questa la differenza tra le due tipologie di solidarietà: la prima (dlgs n. 276/2003) contempla una responsabilità per tutti i soggetti della catena degli appalti e, quindi, «committente-appaltatore-subappaltatore», nei limiti temporali di due anni dal termine dell'appalto; la seconda (legge n. 248/2006) prevede la solidarietà tra appaltatore e subappaltatore, senza risalire, quindi, al committente e senza alcun vincolo temporale.
Il contratto di «nolo». La fattispecie del «nolo», affrontata dal ministero del lavoro nell'interpello n. 2/2012, è una figura contrattuale atipica diffusa nella prassi commerciale che ha ad oggetto il noleggio ovvero la concessione in uso di macchinari e l'eventuale prestazione lavorativa di un operatore. In mancanza d'esplicita definizione legislativa, l'istituto è solitamente inquadrato dalla giurisprudenza della Corte di cassazione nell'ambito della disciplina civilistica del contratto di locazione (articolo 1571 e seguenti del codice civile), e viene distinto nelle due tipologie del «nolo a freddo» e del «nolo a caldo».
La prima fattispecie (nolo a freddo) ha quale oggetto del contratto esclusivamente la locazione del macchinario; la seconda figura (nolo a calco) risulta, invece, caratterizzata dallo svolgimento dell'attività lavorativa da parte di un dipendente del locatore (di chi concede in uso il macchinario), addetto all'utilizzo del macchinario, attività che si presenta del tutto accessoria, in ogni caso, rispetto alla prestazione principale costituita dalla messa a disposizione del bene (così, tra l'altro, sentenza n. 23604/2009, n. 34327/2009 e n. 41791/2009 della Cassazione, sezione penale).
La giurisprudenza, inoltre, ha evidenziato pure quali siano gli elementi utili ai fini della qualificazione della fattispecie concreta in termini di nolo a caldo, nonché la differenza esistente, a prescindere dal nomen iuris attribuito dalle parti al rapporto negoziale, tra quest'ultima e gli schemi contrattuali dell'appalto e del subappalto (disciplinati agli articoli 1655 e seguenti del codice civile).
Nello specifico, l'appaltatore e l'eventuale subappaltatore si obbligano nei confronti del committente al compimento di un'opera ovvero alla prestazione di un servizio, organizzando i mezzi di produzione e l'attività lavorativa per il raggiungimento del risultato produttivo autonomo. Diversamente, nel «nolo» il locatore mette a disposizione soltanto il macchinario ed, eventualmente, l'addetto al suo utilizzo, senza alcuna ingerenza nell'attività produttiva e/o nell'organizzazione aziendale di chi prende a noleggio.
«Nolo» senza responsabilità solidale. Il ministero risponde ai consulenti del lavoro che hanno chiesto chiarimenti in merito alla corretta interpretazione dell'articolo 35, comma 28, del dl n. 223/2006 (convertito dalla legge n. 248/2006), concernente la responsabilità solidale di appaltatore ed eventuali subappaltatori per il versamento delle ritenute fiscali e dei contributi previdenziali e assicurativi dei lavoratori dipendenti impiegati nell'esecuzione dei lavori.
In particolare, i consulenti hanno chiesto di sapere se il predetto regime di solidarietà possa trovare applicazione anche con riferimento alle tipologie contrattuali cosiddette del «nolo a caldo» eccedenti il 2% dell'importo complessivo delle prestazioni affidate, con la conseguente responsabilità per l'assolvimento degli obblighi fiscali e contributivi a carico del committente-noleggiatore. La risposta del ministero è negativa. La disciplina sulla responsabilità solidale, spiega, è evidentemente legata alla figura dell'appalto e non a quella del nolo a caldo (ferme restando forme patologiche di utilizzo di tale ultimo strumento contrattuale), sebbene non possa sottacersi un importante indirizzo giurisprudenziale volto a interpretare il complessivo quadro normativo nel senso di una estensione quanto più ampia possibile del regime solidaristico in ragione di una maggior tutela per i lavoratori interessati.
Più in particolare, spiega il ministero, si ricordano le argomentazioni sostenute dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 6208/2008 che non ha escluso la possibilità di applicare la solidarietà nei rapporti tra un consorzio e imprese consorziate assegnatarie dei lavori sia pur in assenza di un vero e proprio contratto di subappalto.
Nello specifico la Suprema corte, nel richiamare l'articolo 141, comma 4, del dpr n. 554/1999, in virtù del quale l'affidamento dei lavori da parte del consorzio alle proprie consorziate non costituisce subappalto, ha affermato che l'intenzione del legislatore, secondo un'interpretazione in chiave sistematica, non è stata quella di escludere le speciali e necessarie tutele previste a favore dei lavoratori contemplate dalla disciplina civilistica dell'appalto ovvero del subappalto.
Da ciò dunque sembrerebbe evincersi che, in tali ipotesi, sia comunque possibile applicare garanzie di carattere sostanziale a tutela della persona che lavora, prevalendo queste ultime sui profili afferenti alla qualificazione giuridica di tipo formale in merito alla natura del negozio di affidamento dei lavori.
---------------
Il decreto semplificazioni interviene in materia.
Le ultime novità in materia di responsabilità solidale negli appalti sono in vigore dal 10 febbraio, in virtù della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del dl n. 5/2012 (cosiddetto decreto semplificazioni). Due, nello specifico, le novità. La prima riguarda il trattamento di fine rapporto di lavoratori (il tfr): la solidarietà, stabilisce il decreto semplificazioni, comprende «le quote» del trattamento di fine rapporto in relazione al periodo d'esecuzione del contratto di appalto.
La novità, ha spiega il ministero del lavoro (circolare n. 2/2012), elimina ogni ipotesi interpretativa volta ad addebitare al responsabile in solido l'intero importo del tfr dovuto al lavoratore dell'appaltatore/subappaltatore che, durante il periodo di svolgimento dell'appalto, abbia maturato il diritto al trattamento.
La seconda novità esclude dall'ambito della responsabilità solidale «qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile dell'inadempimento». In pratica, viene eliminata l'interpretazione fornita dallo stesso ministero nell'interpello n. 3/2010 (si veda ItaliaOggi del 10.04.2010) che invece riteneva sussistere la solidarietà anche per tali sanzioni in quanto aventi natura risarcitoria (articolo ItaliaOggi sette del 27.02.2012).

CONSIGLIERI COMUNALIGiallo sulle Giunte dei mini-sindaci. Verso le elezioni. Sancita l'abolizione ma competenze al buio.
Giallo sulle Giunte negli oltre 1.900 Comuni con meno di mille abitanti. Una delle problematiche rimaste aperte con l'entrata in vigore dell'articolo 16, comma 17, del Dl 138/2011 148 2011 concernente la riduzione del numero dei consiglieri e degli assessori comunali per i Comuni fino a 10mila abitanti, è quella della sopravvivenza o meno delle Giunte nei comuni sotto i mille; in caso di mancata sopravvivenza, va poi chiarito quale sia l'organo cui vanno devolute le competenze della Giunta.
Il problema non è marginale soprattutto dal momento che sono molti i Comuni con meno di mille abitanti chiamati al turno elettorale amministrativo di primavera.
Al riguardo, la circolare del ministero dell'Interno, Dipartimento affari interni del 16.02.2012 prende una posizione netta, nel senso di ritenere alla luce della lettera a) dell'articolo 16, comma 17, che ha previsto la sola presenza nei Comuni sotto i mille abitanti dei soli consiglieri comunali, non essendo previste le figure di assessori per questi Comuni, risulterebbe abrogata di fatto la figura della Giunta e verrebbero attribuite esclusivamente al sindaco le ex competenze degli assessori.
In realtà, il quadro è caratterizzato da una lacuna normativa che il Parlamento deve colmare anche in sede di Codice delle autonomie.
Dalla normativa non sembra emergere nessuna disposizione che attribuisca espressamente al sindaco le competenze che prima erano in capo alla giunta ,competenze che tra l'altro non sono indifferenti e che spaziano dall'approvazione dei progetti di opere pubbliche ai progetti di bilancio e della relazione al rendiconto di gestione (articolo Il Sole 24 Ore del 27.02.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

AMBIENTE-ECOLOGIALa fuliggine diventa «molesta» anche se non si superano i limiti. Prevale la «comune tollerabilità» dei condòmini.
La fuliggine che esce dalla canna fumaria di un forno è molesta anche se le emissioni non superano il limite di legge. Se è vero che è buono il profumo del pane appena sfornato, certamente non è altrettanto gradevole avere la casa annerita dai vapori che escono dall'impianto di aereazione di una panetteria. Almeno così la pensavano gli abitanti del condominio che ha dichiarato guerra al proprietario di un forno, il cui impianto di smaltimento spargeva la nera fuliggine sulla facciata del palazzo.
La Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 27.02.2012 n. 7605, dà partita vinta ai condomini e conferma la condanna, inflitta al panettiere dal Tribunale di Sassari, per il reato di "getto pericoloso" di cose previsto dall'articolo 674 del Codice penale.
Inutile il tentativo del fornaio di denunciare la contraddizione in cui, a suo avviso, erano caduti i giudici di merito che lo avevano invece assolto dall'accusa di aver violato l'articolo 24 del decreto del presidente della Repubblica n. 203 del 1988 con il quale sono state recepite le direttive comunitarie sull'inquinamento prodotto dalle realtà industriali. Una decisione che sarebbe, a parere del panificatore, un implicito via libera a svolgere la sua attività.
Ma non è così. Gli ermellini spiegano, infatti, che la molestia non c'è soltanto nel caso in cui le emissioni superino il tetto imposto da speciali norme giuridiche ma anche quando si oltrepassa la misura della comune tollerabilità per come fissata dall'articolo 844 del Codice civile, il quale stabilisce che nel giudizio devono avere un peso lo stato dei luoghi e anche il giusto bilanciamento tra le esigenze di produzione e quelle della proprietà.
In questo caso si affermano senz'altro le seconde, al punto che la Corte di cassazione avalla, considerando sufficienti le prove raccolte, anche il rifiuto di assumere come teste a discarico, oltre al tecnico addetto alla manutenzione del forno anche un condomino. Troppo poco per essere assolto.
In maniera diversa è andata invece a un collega del ricorrente che non ha pagato pegno pur avendo un impianto rumoroso. La Cassazione, con la sentenza 05.09.2011 n. 33072 lo ha infatti "graziato" perché del rumore si era lamentata soltanto una famiglia. Per il reato di molestia serve, infatti, che il fastidio sia avvertito da un «numero indeterminato di persone» (articolo Il Sole 24 Ore del 28.02.2012).

PUBBLICO IMPIEGOAvvocato e dipendente Pa part-time. Sull'incompatibilità decide la Consulta.
Non è detto che l'attività professionale di un avvocato sia incompatibile con quella di dipendente pubblico part-time.
A porre il dubbio è stata la Corte di Cassazione che, con l'ordinanza n. 2929/2012, ha ritenuto opportuno attendere «la decisione della Corte costituzionale sul prospettato dubbio di legittimità costituzionale» relativo alla legge 339/2003.
In attesa che la Corte costituzionale si pronunci, la Cassazione ha deciso di sospendere l'efficacia della decisione del Consiglio nazionale forense che aveva cancellato dall'albo degli avvocati un professionista che aveva iniziato a lavorare come dipendente pubblico part-time. Secondo il Cnf, la legge 339/2003 ha sancito l'incompatibilità anche reatroattiva.
La Cassazione, invece, ha dichiarato «non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della legge 339 del 2003, articoli 1 e 2, nella parte in cui non prevedono che il regime di incompatibilità stabilito dall'articolo 1 non si applichi ai dipendenti pubblici a tempo parziale ridotto non superiore al 50% del tempo pieno, già iscritti negli albi degli avvocati».
Sempre in materia di avvocati, la Cassazione (sentenza 2924/2012) ha respinto il ricorso di un legale che aveva proposto reclamo contro i risultati delle elezioni del Consiglio dell'Ordine svoltesi senza che ne fosse data notizia sul sito dell'Ordine nazionale.
Secondo il Cnf, la mancata pubblicazione «costituiva una mera irregolarità inidonea a inficiare il risultato elettorale». L'avviso delle elezioni, infatti, era stato pubblicato sui giornali locali e affisso nelle aule degli uffici giudiziari del circondario. In più, l'avviso di convocazione era stato inviato anche per posta elettronica agli iscritti. Alle elezioni, in effetti, era stato raggiunto il quorum. La Cassazione, quindi, ha respinto la richiesta di annullamento delle elezioni.
---------------
I principi
01 | ORDINANZA 2929/2012
Secondo la Corte di cassazione è opportuno attendere la decisione della Corte costituzionale sul dubbio di legittimità costituzionale relativo alle legge 339/2003, che ha stabilito l'incompatibilità, anche retroattiva, tra la professione di avvocato e il lavoro di dipendente pubblico.
In attesa che la Corte costituzionale si pronunci, la Cassazione ha deciso per l'accoglimento dell'istanza del ricorrente di sospendere l'efficacia della decisione del Consiglio nazionale forense, che lo aveva cancellato dall'albo.
02 | SENTENZA 2924/2012
Non sono nulle le elezioni del Consiglio dell'Ordine degli avvocati che non sono state pubblicizzate sul sito internet dell'Ordine nazionale. La Cassazione ha respinto il ricorso di un iscritto, che lamentava la mancanza di un annuncio sul web.
Secondo il Cnf, tale irregolarità è «inidonea» a inficiare il risultato delle elezioni, posto che queste erano state pubblicizzate sui quotidiani locali e attraverso l'affissione di avvisi in Tribunale. Per di più, alle elezioni contestate era stato raggiunto il quorum (articolo Il Sole 24 Ore del 28.02.2012).

LAVORI PUBBLICICircolazione. Strade dissestate. La caduta fortuita libera il Comune.
Il Comune non risponde, a titolo di responsabilità per danni da cose in custodia, delle lesioni personali occorse a un ciclista, se la caduta dal mezzo non è stata cagionata da un preteso avvallamento insidioso del manto stradale ma solo dalla distrazione del conducente della bicicletta, che non si è accorto della presenza sulla strada di una griglia per lo scolo delle acque piovane. Il custode, infatti, è responsabile dei danni patiti da terzi, a meno che l'evento, come in questo caso, sia riconducibile al caso fortuito.
Lo ha deciso la Corte di Cassazione (sentenza n. 1310/2012), che ha così rigettato, ritenendolo «manifestamente privo di pregio», il ricorso avanzato da un uomo, rimasto vittima di un incidente stradale mentre viaggiava in sella alla propria bicicletta.
L'uomo ha sostenuto infatti di avere perso il controllo del mezzo a causa di un «insidioso avvallamento» del manto stradale, privo di idonea segnalazione e dunque, a suo dire, «alquanto pericoloso per gli utenti della strada». Ma i giudici di merito hanno respinto la domanda di risarcimento dei danni perché, si legge nella sentenza, è stata ritenuta «sufficiente una fugace occhiata alle foto per rendersi conto che "l'insidioso avvallamento" (...) non era altro che un'ordinaria griglia per lo scarico delle acque piovane».
Quindi «non era ipotizzabile la lesione dell'aspettativa alla regolarità del manto stradale, non potendosi prescindere dagli elementi che ne costituiscono una componente ricorrente» e la caduta era «interamente addebitabile alla distrazione» del ciclista «e non era configurabile un nesso eziologico con la griglia e con il lievissimo avvallamento in cui essa è contenuta, rispondente alla necessità tecnica di raccogliere le acque confluenti nella fogna bianca». Di conseguenza, i giudici hanno respinto la domanda, riconoscendo «la tipica ipotesi di esclusione della responsabilità oggettiva del custode» in base all'articolo 1227, comma 2, del Codice civile, «potendo il sinistro essere evitato» se il danneggiato «avesse impiegato l'ordinaria diligenza nel percorrere la strada».
Stesso risultato al termine del giudizio in Cassazione, con il definitivo rigetto di tutte le censure avanzate dal ricorrente. I giudici infatti, in linea con la giurisprudenza, hanno chiarito che, in relazione ai danni provocati dall'uso di un bene demaniale, il comportamento colposo dell'utente danneggiato «esclude la responsabilità della Pa, qualora si tratti di un comportamento idoneo a interrompere il nesso eziologico tra la causa del danno e il danno stesso». Mentre «in caso contrario esso integra un concorso di colpa ai sensi dell'articolo 1227 del Codice civile, comma 1, con conseguente diminuzione della responsabilità del danneggiante (e, quindi, della Pa) in proporzione all'incidenza causale del comportamento stesso» (articolo Il Sole 24 Ore del 27.02.2012).

ATTI AMMINISTRATIVI: Procedimento amministrativo, il mancato esercizio del potere entro il termine non determina l’illegittimità dell’atto tardivamente adottato.
In assenza di una specifica disposizione che espressamente preveda il termine come perentorio, comminando la perdita della possibilità di azione da parte dell'Amministrazione al suo spirare o la specifica sanzione della decadenza, il termine stesso deve intendersi come meramente sollecitatorio o ordinatorio ed il suo superamento non determina l'illegittimità dell'atto, ma una semplice irregolarità non viziante.

Il principio è stato asserito dalla VI Sez. del Consiglio di Stato nella sentenza 27.02.2012 n. 1084.
I giudici di appello convengono che, allo stato, non sussistono referenti normativi dai quali trarre prescrizioni in ordine alla natura perentoria del termine previsto per l’esercizio del potere, né tantomeno in ordine alla decadenza della potestà amministrativa o all’illegittimità del provvedimento tardivamente adottato, "conseguenze, queste, che si potrebbero verificare, pure senza una norma ad hoc, solo ove un effetto legale tipico fosse collegato all'inutile decorso del termine”.
Orientamento questo, peraltro, anche autorevolmente avallato dalla Corte costituzionale, la quale in più occasioni ha precisato che il mancato esercizio delle attribuzioni da parte dell'amministrazione entro il termine previsto per la fine del procedimento non comporta ex se, in difetto di espressa previsione, la decadenza del potere (cfr. Corte cost., 18.07.1997, n. 262 e 17.07.2002, n. 355).
L’utilità della norma che prevede un termine per l’azione amministrativa (leggasi anche l’art. 2 L. 241/1990) è, quindi, rilevante sotto altri aspetti, ed in particolare abilita l'interessato ad attivare la tutela giurisdizionale contro l'inerzia o il silenzio dell'amministrazione, ma non esaurisce il potere dell'amministrazione di provvedere (commento tratto da www.diritto.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAi sensi dell'art. 21-septies l. n. 241/1990, introdotto dalla l.n. 15/2005 "... è nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali" e la giurisprudenza è costante nell’affermare l'essenzialità della sottoscrizione del provvedimento amministrativo.
... RITENUTO che è fondato il primo motivo di ricorso con il quale si deduce la nullità dell’avviso per difetto di sottoscrizione; infatti, ai sensi dell'art. 21-septies l. n. 241/1990, introdotto dalla l.n. 15/2005 "... è nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali" e la giurisprudenza è costante nell’affermare l'essenzialità della sottoscrizione del provvedimento amministrativo (cfr. Cons. Stato, IV, 13.07.2011 n. 4269; VI, 18.09.2009, n. 5622; TAR Catania, 02.12.2011 n. 2883; TAR Lecce, I, 12.05.2011 n. 825; TAR. Veneto, II, 13.11.2009, n. 2883) (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 25.02.2012 n. 178 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAL'art. 31, nono comma, della legge 17.08.1942, n. 1150, come modificato dall'art. 10 della legge 06.08.1967, n. 765, nel legittimare "chiunque" a ricorrere contro le concessioni edilizie, pur non avendo introdotto un'azione popolare, va comunque correttamente inteso nel senso che deve riconoscersi una posizione qualificata e differenziata ai singoli proprietari siti nella zona in cui la costruzione è assentita, e a tutti coloro che si trovino in una situazione di stabile collegamento con la zona stessa, ove gli stessi ritengano che per effetto della nuova costruzione, in contrasto con le prescrizioni urbanistiche, si determini una rilevante e pregiudizievole alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio, che i ricorrenti intenderebbero, invece, conservare.
Sicché non appare possibile sindacare nel merito le valutazioni di convenienza spettanti ai singoli proprietari degli immobili circostanti, senza considerare che il semplice fatto della loro situazione di stabile collegamento con la nuova costruzione ne legittimi la facoltà di impugnativa, ai fini della caducazione della concessione edilizia ritenuta illegittima e pregiudizievole.
In altri termini, l'interesse qualificato a ricorrere avverso il titolo edilizio rilasciato a terzi è quello volto a pretendere il rispetto dell'assetto urbanistico-ambientale costituito con la disciplina urbanistica, perché il contrasto con siffatto assetto arreca pregiudizio a coloro che siano titolari di immobili ubicati nella zona ovvero che con la stessa abbiano comunque, anche a titolo diverso, uno stabile collegamento.
Di conseguenza, la posizione qualificata e differenziata, sufficiente per riconoscere la legittimazione attiva, sussiste in capo al proprietario di un immobile sito nella zona in cui la costruzione è permessa e a coloro che si trovano in una posizione di stabile collegamento con la zona stessa e che abbiano un interesse, concreto ed attuale, a ricorrere in relazione al tipo di violazione che si eccepisce, la quale deve essere tale da costituire la violazione di un interesse urbanistico relativo alla zona che deve risultare danneggiata dall'intervento edificatorio dovendosi precisare che la detta legittimazione va per lo meno specificata nell'impugnazione, con riferimento alla situazione concreta e fattuale, indicando le ragioni, il come e la misura in cui il provvedimento impugnato si riflette sulla propria posizione sostanziale, determinandone una lesione concreta, immediata e attuale.
---------------
La lesione all'interesse a godere della veduta, essendo posizione giuridica suscettibile di pregiudizio, legittima la proposizione del ricorso giurisdizionale contro la concessione edilizia.
Il criterio della vicinitas, seppur idoneo a supportare la legittimazione al ricorso, non esaurisce certo gli ulteriori profili dell’interesse concreto all’impugnazione, costituito dalla lesione effettiva e documentata delle facoltà dominicali del ricorrente.

Osserva in proposito il Collegio che effettivamente la ricorrente a sostegno delle proprie ragioni, oltre a radicare la legittimazione ad agire sulla vicinitas del terreno interessato dalla realizzazione della piscina, ritiene di essere lesa nel godimento del diritto al panorama e di avere diritto alla demolizione dei manufatti realizzati dal controinteressato per violazione della normativa sulle distanze.
A tale riguardo va premesso che secondo un consolidato indirizzo della giurisprudenza amministrativa “l'art. 31, nono comma, della legge 17.08.1942, n. 1150, come modificato dall'art. 10 della legge 06.08.1967, n. 765, nel legittimare "chiunque" a ricorrere contro le concessioni edilizie, pur non avendo introdotto un'azione popolare, va comunque correttamente inteso nel senso che deve riconoscersi una posizione qualificata e differenziata ai singoli proprietari siti nella zona in cui la costruzione è assentita, e a tutti coloro che si trovino in una situazione di stabile collegamento con la zona stessa, ove gli stessi ritengano che per effetto della nuova costruzione, in contrasto con le prescrizioni urbanistiche, si determini una rilevante e pregiudizievole alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio, che i ricorrenti intenderebbero, invece, conservare” (cfr. in particolare: Cons. Stato, Sez. V, 28.06.2004, n. 4790).
Sicché non appare possibile sindacare nel merito le valutazioni di convenienza spettanti ai singoli proprietari degli immobili circostanti, senza considerare che il semplice fatto della loro situazione di stabile collegamento con la nuova costruzione ne legittimi la facoltà di impugnativa, ai fini della caducazione della concessione edilizia ritenuta illegittima e pregiudizievole.
In altri termini, l'interesse qualificato a ricorrere avverso il titolo edilizio rilasciato a terzi è quello volto a pretendere il rispetto dell'assetto urbanistico-ambientale costituito con la disciplina urbanistica, perché il contrasto con siffatto assetto arreca pregiudizio a coloro che siano titolari di immobili ubicati nella zona ovvero che con la stessa abbiano comunque, anche a titolo diverso, uno stabile collegamento (cfr. Cons. Stato, IV, 08.03.2011, n. 1423).
Di conseguenza, la posizione qualificata e differenziata, sufficiente per riconoscere la legittimazione attiva, sussiste in capo al proprietario di un immobile sito nella zona in cui la costruzione è permessa e a coloro che si trovano in una posizione di stabile collegamento con la zona stessa e che abbiano un interesse, concreto ed attuale, a ricorrere in relazione al tipo di violazione che si eccepisce, la quale deve essere tale da costituire la violazione di un interesse urbanistico relativo alla zona che deve risultare danneggiata dall'intervento edificatorio dovendosi precisare che la detta legittimazione va per lo meno specificata nell'impugnazione, con riferimento alla situazione concreta e fattuale, indicando le ragioni, il come e la misura in cui il provvedimento impugnato si riflette sulla propria posizione sostanziale, determinandone una lesione concreta, immediata e attuale (cfr. Cons. Stato, V, 07.07.2005 n. 3757).
Inoltre, è stato precisato che la lesione all'interesse a godere della veduta, essendo posizione giuridica suscettibile di pregiudizio, legittima la proposizione del ricorso giurisdizionale contro la concessione edilizia (cfr. Cons. Stato, 15.06.2010, n. 3744 e Cass. civ., Sez. III, 10.02.2005 n. 2705). Infine, è stato affermato che “Il criterio della vicinitas, seppur idoneo a supportare la legittimazione al ricorso, non esaurisce certo gli ulteriori profili dell’interesse concreto all’impugnazione, costituito dalla lesione effettiva e documentata delle facoltà dominicali del ricorrente” (Cons. Stato, IV, 24.01.2011, n. 485).
Ora nel caso in esame, nel quale è certo che parte ricorrente vanti un diritto al panorama (in un contesto, peraltro, di indiscutibile pregio paesaggistico e ambientale), è tuttavia altrettanto incontestata la circostanza che la piscina in questione –in ragione delle caratteristiche costruttive (manufatto totalmente interrato) e delle specifiche condizioni dettate nel nulla osta della soprintendenza (tra i quali, rivestimenti in pietra vulcanica e piantumazione di essenze vegetali di tipo autoctono)- è inidonea a recare alcun pregiudizio al panorama non essendo in alcun modo di ostacolo alla libera visuale.
Ciò è peraltro confermato dalla documentazione prodotta dalla parte controinteressata (e non contestata, né smentita dalla ricorrente) dalla quale si evince come il terreno di proprietà dal controinteressato, sul quale è stata realizzata la piscina in contestazione, sia ubicato ad una quota inferiore rispetto alle quote della proprietà limitrofe, con conseguente impossibilità di configurare alcuna possibile lesione al godimento del panorama.
Per le suesposte considerazioni il ricorso va, dunque, dichiarato inammissibile per carenza di interesse, atteso che nessun pregiudizio concreto attuale e immediato è configurabile in capo alla ricorrente (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 24.02.2012 n. 482 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Se ha dei sospetti il datore può controllare le vecchie e-mail.
Il controllo della posta elettronica e degli accessi ad internet da parte del datore di lavoro per verificare la corretta esecuzione della prestazione è vietato. Non lo è più, però, quando avviene ex post. In seconda battuta, dunque, l’azienda a seguito dell’emersione di elementi di fatto “tali da raccomandare l’avvio di una indagine retrospettiva” può accedere alla corrispondenza telematica del dipendente. E se ravvede delle violazioni gravi licenziarlo.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 23.02.2012 n. 2722, respingendo il ricorso di un alto funzionario di banca e confermando le sentenze di primo e secondo grado.
Il dipendente aveva divulgato informazioni protette
Nel 2004 un quadro direttivo della Banca Bipop-Carire s.p.a, addetto all’ufficio Advisory center, era stato licenziato “per giusta causa” per aver divulgato attraverso l’invio di e-mail a soggetti esterni all’azienda notizie riservate riguardanti un cliente dell’Istituto e per aver posto in essere, grazie a queste notizie, “operazioni finanziarie da cui aveva tratto un vantaggio personale”.
La Corte di appello aveva confermato la sentenza ravvisando una serie di violazioni: l’obbligo di segretezza e correttezza (previsti dall’articolo 2104 del codice civile), il regolamento interno e il codice deontologico. Nel complesso, il dipendente aveva tenuto un comportamento “particolarmente lesivo dell’elemento fiduciario” sfruttando la propria posizione in azienda.
Il controllo non riguardava lo svolgimento della prestazione
Contro questa sentenza il bancario è ricorso in Cassazione, sostenendo, tra l’altro, che il datore di lavoro avrebbe violato le garanzie dello Statuto dei lavoratori sui limiti nei controlli a distanza dei dipendenti. Per la Suprema corte, però, il caso è diverso
da quello tutelato dall’articolo 4 dello Statuto. Infatti, l’attività di controllo sulle strutture informatiche aziendali da parte della banca “prescindeva dalla pura e semplice sorveglianza sull’esecuzione della prestazione”, essendo, invece, “diretta ad accertare la perpetrazione di eventuali comportamenti illeciti (poi effettivamente riscontrati)”.
Un controllo al passato dunque che non verteva sull’ “esatto adempimento delle obbligazioni” discendenti dal rapporto di lavoro, bensì “destinato ad accertare un comportamento che poneva in pericolo la stessa immagine dell’istituto presso terzi” (tratto da e link a www.diritto24.ilsole24ore.com).

EDILIZIA PRIVATARilascio del permesso di costruire: attività istruttoria dell'amministrazione per la verifica delle condizioni di ammissibilità e di legittimazione anche in ipotesi di comproprietà.
Il Consiglio di Stato nella sentenza in esame rileva come seppur è vero che, come la Sezione ha avuto modo di puntualizzare (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 08.06.2011, n. 3508 ) che si deve escludere un obbligo del Comune di effettuare complessi accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti la titolarità, o le limitazioni negoziali al diritto di costruire su un terreno (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 10.12.2007, n. 6332); il permesso di costruire, infatti, non attribuisce alcun diritto soggettivo in conseguenza all'attività stessa, dato che il vicino ove reputi leso un proprio diritto soggettivo (ad es., in materia di distanze tra edifici) può sempre agire innanzi all'A.G. per la riduzione in pristino o il risarcimento del danno (cfr. Consiglio Stato, V, 19.03.1999, n. 277).
Tuttavia, il primo comma dell’art. 11, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 espressamente prevede che il permesso di costruire è “rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo”. La legge impone, cioè, tra gli specifici requisiti di legittimazione, che il richiedente dia lui in primis, la dimostrazione del possesso da parte sua dei titoli reali necessari per poter intervenire sull'immobile per cui si chiede la concessione edilizia, mentre il Comune è onerato solo della relativa verifica (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 07.09.2009, n. 5223; Consiglio Stato, sez. IV, 07.09.2007 n. 4703; idem, 07.07.2005 n. 3730).
Secondo le regole generali, l'Amministrazione comunale, in sede di verifica dei presupposti procedimentali per l’istruttoria del permesso di costruire, deve, ai sensi dell’art. 6, 1° co., lett. a), della L. n. 241/1990 e s.m.i., verificare “…le condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione ed i presupposti rilevanti …” per l’adozione del provvedimento finale. I titoli per l'esercizio dello "ius aedificandi" costituiscono dunque un requisito documentale dell’istanza ed un presupposto legale per la futura edificazione, ma il difetto di tale dimostrazione da parte del richiedente impedisce all'amministrazione di procedere oltre nell'esame del progetto (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 12.05.2003, n. 2506).
Anche in caso di comproprietà o di altri diritti reali è necessario:
1) che l’istante dichiari puntualmente il titolo di proprietà ed i titoli civilisticamente idonei che legittimano la sua istanza relativamente a tutte le aree direttamente interessate dall’intervento; ovvero alleghi manifestazioni scritte del consenso degli aventi diritto;
2) che il responsabile del procedimento verifichi l’ammissibilità complessiva della domanda (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.02.2012 n. 983 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONENon comporta inefficacia del decreto di occupazione la prassi diffusa tra le amministrazioni esproprianti di non apprendere subito il suolo espropriato purché nel verbale di immissione in possesso si dia atto che il suolo occupato e' soggetto alla giuridica disponibilità dell'espropriante.
Ad avviso del Consiglio di Stato si deve escludere che la prassi –largamente diffusa tra le amministrazioni esproprianti– di tollerare una prolungata detenzione dei suoli occupati da parte dei proprietari ablati, anche dopo la redazione del verbale di immissione in possesso e di redazione dello stato di consistenza e fino all’effettivo avvio dei lavori, comporti la sopravvenuta inefficacia del decreto di occupazione, atteso che per l’esecuzione di quest’ultima è sufficiente la redazione di un verbale nel quale si dia atto che il suolo occupato, specificamente e puntualmente individuato, è soggetto alla giuridica disponibilità dell’espropriante, il quale potrà iniziare i lavori in qualsiasi momento successivo (fermo restando, come è ovvio, il rispetto dei termini fissati nella dichiarazione di pubblica utilità) e non è necessariamente tenuto ad apprendere materialmente fin da subito il suolo occupato (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.02.2012 n. 981 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOConcorso pubblico: bastano annotazioni scritte nel palmo della mano per l'esclusione dal concorso.
La circostanza di non aver concretamente copiato non è sufficiente ad evitare l'esclusione dal concorso pubblico. Invero, come rilevato dal Consiglio di Stato, il d.P.R. n. 487 del 1994 -“Regolamento recante norme sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre assunzioni nei pubblici impieghi”- all'art. 13 riconnette l’esclusione dalla prova concorsuale non già ad un’effettiva e conclamata copiatura, ma al semplice fatto della violazione al divieto di portare con sé “appunti manoscritti” di qualsiasi genere, indipendentemente dall’uso che poi in concreto se ne faccia.
Nel caso di specie, il Consiglio di Stato rileva come la motivazione dell’esclusione è agevolmente evincibile dal combinato disposto del verbale della prova d’esame, nel quale si dà atto puramente e semplicemente della disposta estromissione dell’odierno appellato dalla prova, e della specifica “dichiarazione di comunicazione di esclusione” sottoscritta dallo stesso candidato, nella quale si precisa che egli è stato scoperto da tre Ufficiali (uno dei quali componente della Commissione giudicatrice e gli altri due addetti alle funzioni di sorveglianza) mentre era intento a consultare “annotazioni” scritte sul palmo della sua mano (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.02.2012 n. 980 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOAccertamento della sussistenza di un rapporto di pubblico impiego di fatto ai fini del riconoscimento delle differenze retributive, dell'indennità di fine rapporto e delle altre prestazioni contributive e previdenziali.
Il Consiglio di Stato nella sentenza in esame ha evidenziato che:
1) in linea di principio, ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato sia di rapporto di lavoro autonomo, e le modalità della prestazione, la continuità, l'orario lavorativo predeterminato sono elementi astrattamente compatibili con diverse forme contrattuali e, perciò, non decisivi. Pertanto in sede di legittimità l’inclusione del rapporto controverso nell'uno o nell'altro schema contrattuale dipende dalla qualificazione degli elementi rilevanti nei singoli casi (cfr. Cassazione civile, sez. lav., 08.02.2010, n. 2728);
2) il contratto d'opera ex art. 2222 c.c. si caratterizza per il fatto che l'esecuzione dell'attività commissionata avviene mediante il prevalente lavoro del prestatore (arg. ex Cassazione civile, sez. II, 21.05.2010, n. 12519);
3) quando la prestazione in contestazione sia estremamente elementare, ripetitiva e predeterminata nelle sue modalità di esecuzione, il criterio rappresentato dall'assoggettamento del prestatore all'esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare può non risultare particolarmente significativo per la qualificazione del rapporto di lavoro (cfr. Cassazione civile, sez. lav., 19.04.2010, n. 9252).
Se le norme in materia di assunzione del personale pubblico escludono che il rapporto di pubblico impiego possa essersi costituito di fatto, la sussistenza dei ricordati indici sintomatici non solo devono essere comprovati per il riconoscimento delle differenze retributive, dell'indennità di fine rapporto e delle altre prestazioni contributive e previdenziali ex art. 2126 c.c. (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 10.11.2008, n. 5582; A.P. 05.03.1992, n. 5), ma devono comporre un quadro coerente dello svolgimento di fatto di un rapporto impiegatizio (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.02.2012 n. 975 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAi sensi dell'art. 72, comma 2, del regolamento di contabilità generale dello Stato, quando in un'offerta per una gara d'appalto pubblico vi è discordanza fra il prezzo indicato in lettere e quello espresso in cifre, è valida l'indicazione più vantaggiosa per la p.a. appaltante e tale soluzione può essere adottata legittimamente quando si verifichi un'oggettiva divergenza tra le due indicazioni del prezzo, non importa se determinata da un errore ostativo o da altra ragione, ma non anche quando la discordanza scaturisca da un mero ed evidente errore materiale, nel qual caso si deve dare esclusivo rilievo al prezzo espresso in maniera esatta.
In relazione all’offerta dell’impresa ..., trova applicazione l'art. 72, comma secondo, del r.d. 23.05.1924 n. 827 ("Quando in una offerta all'asta vi sia discordanza fra il prezzo indicato in lettere e quello indicato in cifre, è valida l'indicazione più vantaggiosa per l'amministrazione"), secondo cui doveva essere attribuita rilevanza all'offerta espressa in lettere, poiché più vantaggiosa per l’amministrazione (cfr: TAR Catania, IV, n. 473/2006 e 11.01.2007, n. 48; Consiglio di Stato, V, 09.10.2003, n. 6070 ; TAR Sardegna, 18.05.2001, n. 563, 19.11.2001, n. 1254 e 10.01.2002, n. 7; TAR Catanzaro, II, 13.01.2004, n. 62). La norma richiamata deve ritenersi espressiva di un principio generale, dettato, peraltro, dall'esigenza di conservare validità all'offerta, altrimenti nulla (cfr: Consiglio di Stato, V, n. 1228 del 28.02.2002).
Il principio è costantemente affermato dalla giurisprudenza in materia, secondo la quale ai sensi dell'art. 72, comma 2, del regolamento di contabilità generale dello Stato, quando in un'offerta per una gara d'appalto pubblico vi è discordanza fra il prezzo indicato in lettere e quello espresso in cifre, è valida l'indicazione più vantaggiosa per la p.a. appaltante e tale soluzione può essere adottata legittimamente quando si verifichi un'oggettiva divergenza tra le due indicazioni del prezzo, non importa se determinata da un errore ostativo o da altra ragione, ma non anche quando la discordanza scaturisca da un mero ed evidente errore materiale, nel qual caso si deve dare esclusivo rilievo al prezzo espresso in maniera esatta (cfr: Consiglio di Stato, V, 28.02.2 n. 1228, cit., e 06.05.1997, n. 466; C.g.a., sez. consult. 05.05.1999, n. 170; TAR Catania, I, n. 227 dell'01.02.2001; Tar Sardegna, I, n. 1911/2005) (TAR Sicilia-Catania, Sez. IV, sentenza 23.02.2012 n. 459 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOIl provvedimento di rettifica della graduatoria finale di un concorso pubblico deve essere preceduto da comunicazione di avvio del procedimento di secondo grado, ai sensi dell'art. 7 l. n. 241 del 1990, nei confronti dei concorrenti che si sono utilmente collocati nella graduatoria stessa e che, in caso di positiva conclusione del procedimento di autotutela attivato dall'Amministrazione, verrebbero a subire un pregiudizio nel proprio interesse differenziato e qualificato coincidente con il mantenimento del risultato della selezione.
Più in generale l’omessa comunicazione di avvio del procedimento preordinato all’esercizio del potere di autotutela da parte dell’Amministrazione comporta l’illegittimità del provvedimento da essa adottato a conclusione dello stesso.

In proposito la giurisprudenza ha avuto modo di affermare che il provvedimento di rettifica della graduatoria finale di un concorso pubblico deve essere preceduto da comunicazione di avvio del procedimento di secondo grado, ai sensi dell'art. 7 l. n. 241 del 1990, nei confronti dei concorrenti che si sono utilmente collocati nella graduatoria stessa e che, in caso di positiva conclusione del procedimento di autotutela attivato dall'Amministrazione, verrebbero a subire un pregiudizio nel proprio interesse differenziato e qualificato coincidente con il mantenimento del risultato della selezione (cfr. TAR Lazio Roma, sez. II, 13.12.2010, n. 36323).
Più in generale l’omessa comunicazione di avvio del procedimento preordinato all’esercizio del potere di autotutela da parte dell’Amministrazione comporta l’illegittimità del provvedimento da essa adottato a conclusione dello stesso (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 22.03.2011 n. 1755) (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 23.02.2012 n. 168 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOIn presenza di una dichiarazione dell'interessato in cui il documento è descritto e dichiarato come allegato, i principi di correttezza e buona fede impongono all'Ente di richiedere all'interessato l'integrazione della documentazione o comunque di far constare l'inesistenza (o lo smarrimento) del documento, consentendo una nuova produzione documentale.
In tema di procedure concorsuali, la giurisprudenza ha avuto modo di rilevare che, in presenza di una dichiarazione dell'interessato in cui il documento è descritto e dichiarato come allegato, i principi di correttezza e buona fede impongono all'Ente di richiedere all'interessato l'integrazione della documentazione o comunque di far constare l'inesistenza (o lo smarrimento) del documento, consentendo una nuova produzione documentale (cfr. TAR Sicilia Catania, sez. III, 21.07.2003, n. 1178).
In altri termini la comunicazione di avvio del procedimento e la conseguente partecipazione da parte della ricorrente avrebbe potuto dare un utile contributo all’attività dell’Amministrazione, consentendo una concreta ponderazione degli interessi in gioco (cfr. Consiglio di Stato sez. V 21.04.2006, n. 2254) (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 23.02.2012 n. 167 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa scadenza del termine apposto all'autorizzazione edilizia per l'avvio e la conclusione dei lavori, riferendosi soltanto alle modalità cronologiche di esercizio di una facoltà del destinatario, non determina, automaticamente, la cessazione di effetti del provvedimento, ma costituisce soltanto il presupposto per l'accertamento eventuale della decadenza dall'autorizzazione edilizia.
Invero, la decadenza della concessione edilizia per mancata ultimazione dei lavori nel termine previsto dalla legge, ancorché assuma carattere esclusivamente oggettivo -giacché essa presuppone il mero decorso del tempo, eccettuati i casi di sospensione o proroga connessi a factum principis, forza maggiore o cause espressamente contemplate dalla legge- e sebbene i suoi effetti retroagiscano al momento dell'evento estintivo, deve essere necessariamente dichiarata dall’amministrazione.

... per l'annullamento dell’ordinanza del Sindaco di Reggio Calabria n. 414-93 del 27.11.1995, pratica n. 380/93, con la quale è ordinata a carico degli “eredi ...” la demolizione delle opere di soprelevazione (secondo, terzo, quarto e quinto piano f.t.) su preesistente fabbricato ad un piano f.t., costruito con licenza edilizia n. 3685/173 del 05.07.1965, in località Pellaro, via S. Cosimo;
...
La scadenza del termine apposto all'autorizzazione edilizia per l'avvio e la conclusione dei lavori, riferendosi soltanto alle modalità cronologiche di esercizio di una facoltà del destinatario, non determina, automaticamente, la cessazione di effetti del provvedimento, ma costituisce soltanto il presupposto per l'accertamento eventuale della decadenza dall'autorizzazione edilizia (cfr. C.S., V, 18.09.2008, n. 4498).
Ed invero, secondo l’orientamento giurisprudenziale che il collegio ritiene di condividere, la decadenza della concessione edilizia per mancata ultimazione dei lavori nel termine previsto dalla legge, ancorché assuma carattere esclusivamente oggettivo -giacché essa presuppone il mero decorso del tempo, eccettuati i casi di sospensione o proroga connessi a factum principis, forza maggiore o cause espressamente contemplate dalla legge- e sebbene i suoi effetti retroagiscano al momento dell'evento estintivo, deve essere necessariamente dichiarata dall’amministrazione (TAR Calabria, Reggio Calabria, 20.04.2010, n. 420; v. pure C.S., V, 15.06.1998, n. 834; TAR Abruzzo, Pescara, 28.06.2002, n. 595; TAR Sardegna, II, 15.11.2005, n. 2126; TAR Lazio, II, 24.11.2004, n. 13996).
Nella fattispecie in esame, il Comune di Reggio Calabria non ha proceduto, prima di adottare l’impugnato ordine di demolizione delle opere realizzate –peraltro da lungo tempo- ad accertare l’intervenuta decadenza dell’autorizzazione edilizia che originariamente li assentiva, con conseguenti:
a) perdurante efficacia di essa; e
b) illegittimità del provvedimento sanzionatorio (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 23.02.2012 n. 159 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOSulla concessione o meno del congedo previsto dall’art. 42, comma 5, del D.Lg.vo n. 151/2001, per l’assistenza di familiare convivente con handicap in situazione di gravità di cui all’art. 3, comma 3, della legge n. 104/1992.
Il ricorrente afferma di aver diritto alla concessione del congedo previsto dall’art. 42, comma 5, del D.Lg.vo n. 151/2001, per l’assistenza di familiare convivente con handicap in situazione di gravità di cui all’art. 3, comma 3, della legge n. 104/1992.
L’amministrazione nega la concessione del richiesto congedo e afferma nell’impugnato provvedimento di diniego che “la L. 04/11/2010 n. 183, innovando la disciplina dei permessi per l’assistenza ai portatori di handicap in situazione di gravità, non ha inciso sul requisito della convivenza, intesa come dimora abituale e non come mera convivenza anagrafica, quale presupposto necessario alla concessione del congedo richiesto”.
Infatti il familiare (padre) con riguardo all’assistenza del quale il ricorrente richiede il beneficio è residente a Taranto, mentre Egli presta servizio presso il Commissariato di Siderno (RC), sicché la loro effettiva coabitazione è, all’evidenza, impossibile e comunque non è affermata neppure da parte attrice.
Il ricorrente contesta la decisione assunta dall’amministrazione, sostenendo che il requisito della convivenza non sarebbe più richiesto a seguito della legge n. 183/2010 e che, comunque, esso dovrebbe intendersi in senso anagrafico, cioè quale dimora abituale, ai sensi dell’art. 43 cod. civ., non quale coabitazione.
Tali censure non possono condividersi.
Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, il requisito della convivenza è ancora richiesto dal testo dell’art. 42, comma 5, del D.Lg.vo n. 151/2001 vigente (a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 3 del D.Lg.vo n. 115/2003, dall’art. 3, comma 106, del D.Lg.vo n. 350/2003 e dall’art. 1, comma 1266, della legge n. 296/2006) al momento dell’adozione del provvedimento impugnato (e per verità anche da quello successivamente introdotto dall’art. 4, comma 1, lett. b), del D.Lg.vo n. 119/2011).
Ciò si evince immediatamente dalla lettura del primo periodo di detta disposizione, secondo il quale: “La lavoratrice madre o, in alternativa, il lavoratore padre o, dopo la loro scomparsa, uno dei fratelli o sorelle conviventi di soggetto con handicap in situazione di gravità di cui all’articolo 3, comma 1, del presente testo unico e all’articolo 33, commi 2 e 3, della legge 05.02.1992, n. 104, accertata ai sensi dell’articolo 4, comma 1, della legge medesima e che abbiano titolo a fruire dei benefici di cui all’articolo 33, commi 1, 2 e 3, della medesima legge per l’assistenza del figlio, hanno diritto a fruire del congedo di cui al comma 2 dell’articolo 4 della legge 08.03.2000, n. 53, entro sessanta giorni dalla richiesta.”.
Né, ad avviso del collegio, il requisito della convivenza può essere inteso, ai fini della concessione del beneficio in questione, in senso meramente “anagrafico”, implicando invece di necessità la effettiva coabitazione con il familiare da assistere (v. TAR Sicilia, I, 27.06.2011, n. 1213).
D’altronde, la “residenza” è un concetto di fatto ed indica il luogo di abituale dimora (art. 43, comma 2, cod. civ.). La circostanza che esistano registri della popolazione residente, tenuti dai comuni, nonché sussista l’obbligo di comunicare i mutamenti della residenza, non modifica il dato focale del concetto di residenza, quale descrizione di uno stato di fatto. Da ciò deriva la conseguenza che l’esistenza di un certificato anagrafico che riporta una comune residenza del ricorrente e del padre handicappato non può essere risolutiva per affermare la loro “convivenza” effettiva, quando, come si verifica nella specie, essa non sussiste (circostanza non in contestazione) (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 23.02.2012 n. 158 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' illegittima l'ingiunzione di demolizione, emessa dopo almeno un trentennio dall’abuso, senza l’indicazione -avuto riguardo anche all'entità ed alla tipologia di questo- del pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato, posto che anche nell'esercizio dei poteri repressivi di cui all'art. 14 della legge n. 47/1985 l'amministrazione comunale, perseguendo la finalità della norma di assicurare l'ordinato svolgersi dell'attività urbanistico-edilizia, deve adeguatamente motivare sul pubblico interesse attuale al sacrificio delle posizioni soggettive facenti capo al privato, quando queste si siano consolidate a cagione dell'affidamento riposto per decorso del tempo e per la prolungata inerzia dell'amministrazione vigilante.
Il collegio non ha ragione, infatti, di discostarsi dall’orientamento che il Tribunale ha assunto con riferimento a casi del tutto analoghi (v. ad esempio, TAR Calabria, Reggio Calabria, 11.02.2011, n. 108).
Dagli atti del giudizio emerge che la trasformazione in finestra della porta di detto vano–negozio è stata realizzata, per tutti gli alloggi dell’insediamento in questione, moltissimi anni fa, all’inizio degli anni ’60.
Ne consegue l’illegittimità della disposta ingiunzione di demolizione, emessa dopo almeno un trentennio dall’abuso senza l’indicazione -avuto riguardo anche all'entità ed alla tipologia di questo- del pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato, posto che anche nell'esercizio dei poteri repressivi di cui all'art. 14 della legge n. 47/1985 l'amministrazione comunale, perseguendo la finalità della norma di assicurare l'ordinato svolgersi dell'attività urbanistico-edilizia, deve adeguatamente motivare sul pubblico interesse attuale al sacrificio delle posizioni soggettive facenti capo al privato, quando queste si siano consolidate a cagione dell'affidamento riposto per decorso del tempo e per la prolungata inerzia dell'amministrazione vigilante (v. TAR Calabria, Catanzaro, II, 07.11.2008, n. 1490) (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 23.02.2012 n. 156 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa discrezionalità dell'ente è insindacabile in sede di legittimità.
L'esercizio della discrezionalità amministrava incontra i propri limiti nel principio di ragionevolezza e nel limite "naturale" del dovere di rispettare le statuizioni esistenti.
Il Consiglio di Stato è stato chiamato a dirimere una questione dai tratti nuovi e particolari riguardante la legittimità di un provvedimento con cui un Ente ha provveduto alla riorganizzazione del proprio ufficio legale e sulla base del quale un professionista ivi stabilmente impegnato avrebbe patito una modifica del proprio ruolo e delle proprie mansioni.
Nella specie, la Provincia provvedeva ad emettere un provvedimento mediante il quale veniva disposta la riorganizzazione del proprio ufficio legale. Il professionista ivi preposto lamentava che, a seguito del provvedimento a suo dire illegittimo, dal quale conseguiva il nuovo assetto organizzativo dell’ufficio legale, era stato posto in una posizione organizzativa, pur se non inferiore, oggettivamente differente rispetto a quella originaria.
Il professionista faceva dunque ricorso al TAR chiedendo l’annullamento del provvedimento ritenuto illegittimo. Il tribunale amministrativo accoglieva il ricorso ritenendo il provvedimento della Provincia lesivo sia delle funzioni dell’Avvocatura che di quelle del suo dirigente. Il giudizio giungeva dunque dinanzi al Consiglio di Stato su istanza dell’ente Provincia soccombente in primo grado.
La Provincia eccepiva come primo motivo sia, il difetto di giurisdizione in capo al giudice amministrativo in quanto la controversia avrebbe avuto ad oggetto non interessi legittimi bensì diritti soggettivi sia, la mancanza di interesse in capo al ricorrente stante che lo stesso, nell’ambito del nuovo assetto organizzativo, aveva ottenuto comunque un incarico parimenti dirigenziale.
L’Ente eccepiva altresì, la violazione dell’art. 3 del r.d. n. 1578 del 1933 e degli art. 24 e 97 Cost., poiché il coordinamento e la sovrintendenza del direttore generale non inciderebbe sulle prerogative e sull’autonomia dei componenti dell’Ufficio Legale della Provincia non invadendo l’aerea dello “ius postulandi”, l’impossibilità di sottoporre il giudizio al sindacato di legittimità in quanto attinente una scelta di “merito” ed infine la violazione dell’art. 50 d.lgs. n. 267 del 2000 stante che la designazione del professionista a cui affidare la difesa dell’Ente non può che spettare al legale rappresentante dello stesso.
Il Consiglio di Stato ha rigettato il ricorso confermando la sentenza di primo grado.
Nella specie, i Giudici di Palazzo Spada, con riguardo alla preliminare eccezione di giurisdizione, hanno affermato che nel caso in esame non è in discussione la posizione personale del professionista ricorrente bensì la legittimità o meno di un provvedimento di macro-organizzazione posto in essere dall’Ente provincia. Dunque, anche in presenza di un risultato favorevole in capo ad un unico soggetto che derivi tuttavia da un provvedimento di natura di macro organizzativa promanante da un Ente Pubblico è da riconoscersi la giurisdizione in capo al Giudice Amministrativo.
Quanto al merito il Consiglio di Stato ha spiegato che il potere di coordinamento e di sovrintendenza del direttore generale dell’Ufficio legale dell’Ente Provincia non può andare in alcun modo ad intaccare lo “ius postulandi” in quanto espressione di una qualità giuridica, ma ciò che rileva nel caso in esame è la sottoposizione dell’Ufficio legale alle direttive e agli ordini del direttore generale il quale non sarebbe legittimato ad interferire sull’organizzazione interna degli stessi e sulle modalità di organizzazione del lavoro. Tanto appare evidente in quanto in primo luogo trattasi di un’attività di tipo tecnico ed in secondo luogo poiché gli uffici degli enti pubblici devono necessariamente godere di una speciale libertà di organizzazione che consenta l’esplicazione corretta e proficua dell’attività.
Il principio fondamentale che il Consiglio di Stato ha voluto dunque consolidare, confermando l’estensione dei contorni del potere di autorganizzazione dell’Amministrazione, è nel senso di confermare la piena discrezionalità amministrativa che non può pertanto trovare censura in sede di legittimità. Tale bisogno di autonomia risulta ancor più pregnante nell’ottica di consentire alla Pubblica amministrazione di dotarsi dell’organizzazione più proficua e coerente per il raggiungimento degli interessi pubblici.
I Giudici di Palazzo Spada hanno tuttavia ritenuto di dover specificare ulteriormente il punto chiarendo che, pur mantenendo pacifico il principio sopra esposto, l’esercizio in concreto di tale discrezionalità non deve essere considerata illimitata in quanto in tal senso si travalicherebbero i confini della discrezionalità giungendo a configurarsi una situazione di incondizionata licenza senza possibilità di alcun controllo.
Viceversa viene in considerazione un duplice ordine di limiti con cui sempre si viene a confrontare e spesso a “scontrare” la discrezionalità amministrativa. Un primo ordine di limiti è di matrice giuridica e trova astrazione e conferma nel principio di ragionevolezza mentre un secondo ordine di limiti di tipo “naturale” è riassunto nella necessità concreta di rispettare le statuizioni esistenti, che, nel caso in esame, risultano rappresentate dalle guarentigie attribuite a determinate categorie di soggetti operanti nell’ambito della Pubblica Amministrazione.
In definitiva il Consiglio di Stato in tale pronuncia richiama e conferma integralmente la littera legis degli artt. 3, del r.d. n. 1578 del 1933 e 15, co. 2, della legge 70 del 1975, nei quali è espressamente previsto che gli uffici legali degli enti pubblici devono godere di autonomia e di indipendenza, per cui al di là delle scelte politiche, la parte squisitamente tecnica non può essere sottoposta né a condizionamenti né a valutazioni che possano in qualche modo svilirne il modo di essere (commento tratto da www.ipsoa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.02.2012 n. 730 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il permesso di costruire non si può negare se esistano opere di urbanizzazione primaria.
Il permesso di costruire è subordinato alla esistenza delle opere di urbanizzazione primaria, o alla previsione da parte del Comune dell'attuazione delle stesse nel successivo triennio, ovvero all'impegno degli interessati di procedere all'attuazione delle medesime contemporaneamente alla realizzazione dell’intervento oggetto del permesso.
La giurisprudenza, invero, si è occupata soprattutto delle ipotesi in cui le norme di attuazione richiedevano la previa predisposizione di un piano di lottizzazione per il rilascio del titolo edilizio, ritenendo che il permesso di costruire rilasciato in assenza di tale adempimento non fosse da qualificare solo per questo illegittimo. E secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, riecheggiato in questa pronuncia dai giudici del Tribunale amministrativo di Venezia, ciò che occorre verificare, anche in ipotesi di previa presentazione di un piano attuativo, è, oltre allo stato di edificazione della zona, il suo grado di urbanizzazione primaria e secondaria, in relazione all'adeguatezza e fruibilità delle opere di urbanizzazione medesime, a fronte della consistenza dell’intervento stesso e dell'incremento del carico urbanistico da questo discendente.
In virtù del combinato disposto degli artt. 31 e 41-quinquies, ultimo comma, della legge n. 1150/1942, l'espressione "esistenza" delle opere di urbanizzazione, rilevante ai fini della necessità o meno della previa redazione di un piano di lottizzazione o di altro strumento urbanistico attuativo prima del rilascio della concessione edilizia, deve essere intesa nel significato di adeguatezza delle opere ai bisogni collettivi; pertanto, tale valutazione sulla congruità del grado di urbanizzazione di un'area non può che essere effettuata alla stregua della normativa sugli "standards" urbanistici di cui al combinato disposto del D.M. n. 1444/1968 e dell’art. 17 della legge n. 765/1967.
Ne discende che l'equivalenza tra pianificazione esecutiva e stato di adeguata urbanizzazione è configurabile quando si riscontri l'esistenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria almeno nelle quantità minime prescritte (cfr. Consiglio Stato sez. V, 29.04.2000, n. 2562). I giudici veneti, in quest’ottica, hanno avallato la tesi dei ricorrenti che sostenevano l’illegittimità del diniego, basato sull’art. 12 del T.U. Edilizi a, ai sensi del quale è prescritta la previa adozione di un piano attuativo per dotare il terreno oggetto dell’intervento della necessaria urbanizzazione servente; secondo questi ultimi tale norma non poteva trovare applicazione nella circostanza in commento, perché la stessa Amministrazione aveva incluso la loro area tra quelle di completamento, già dotate di urbanizzazione e suscettibili quindi di intervento diretto (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it -  TAR Veneto, Sez. II, sentenza 14.02.2012 n. 234 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTISottoscrizione dell'offerta tecnica, bando di gara sovrano.
Ove il bando di gara per l'affidamento di un appalto pubblico di servizi preveda espressamente che l'offerta tecnica debba essere, a pena di esclusione, debitamente sottoscritta dal concorrente, va esclusa una ditta che ha presentato detta offerta priva di sottoscrizione.
La deducente, società operante nel settore sanitario, ha impugnato il provvedimento con cui la competente Unità locale socio sanitaria aveva comunicato che il servizio di somministrazione a tempo determinato era stato affidato ad altra ditta.
Quest’ultima, costituendosi in giudizio, ha promosso ricorso incidentale, all’uopo eccependo l’illegittimità dell’operato della stazione appaltante nella parte in cui non aveva provveduto all’esclusione dalla gara della ricorrente principale, seconda graduata, per omessa sottoscrizione dell'offerta tecnica.
Tanto, ha proseguito, sarebbe avvenuto non solo in violazione della legge di gara, ma anche del combinato disposto degli artt. 74 e 46, comma 1-bis, D.Lgs. n. 163/2006.
Il TAR di Venezia, dovendo procedere all’esame prioritario del gravame incidentale, ha dapprima precisato come, in linea di principio, la sottoscrizione di un documento costituisce lo strumento mediante il quale l'autore rende propria la dichiarazione contenuta nello stesso, consentendo così non solo di risalire alla paternità dell'atto, ma anche di rendere l'atto vincolante verso i terzi destinatari dell’espressione di volontà (tra le tante, Cons. Stato, Sez. V, 25.01.2011, n. 528).
E pertanto, ha rilevato la necessità dell'apposizione della firma in calce, ovvero a chiusura del documento, a significazione della volontà di condividere pienamente le asserzioni che precedono la sottoscrizione.
E infatti, richiamando un fermo indirizzo pretorio, non ha mancato di precisare come nelle procedure concorsuali l'offerta rappresenta una dichiarazione di volontà del privato preordinata alla costituzione di un rapporto giuridico; dunque, se da una parte la sua sottoscrizione assolve alla funzione di assicurarne la provenienza, la serietà, l'affidabilità e l'insostituibilità, dall’altra assume il connotato di condizione essenziale per la sua ammissibilità, sia sotto il profilo formale che sostanziale, cosicché la sua mancanza inficia la validità e la ricevibilità della manifestazione di volontà contenuta nell'offerta (ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 07.11.2008, n. 5547).
Conseguentemente, la mancata sottoscrizione dell’offerta, quale atto integrante la domanda di partecipazione alla gara, non può essere considerata un’irregolarità formale sanabile nel corso del procedimento, perché fa venire meno la certezza della provenienza e della piena assunzione di responsabilità in ordine ai contenuti della dichiarazione nel suo complesso (Cons. Stato, Sez. IV, 31.03.2010, n. 1832).
Tanto, del resto, sulla scorta della considerazione per cui l'offerta presentata dal concorrente in una gara pubblica costituisce una vera e propria proposta contrattuale, ovvero un impegno a stipulare un contratto in caso di aggiudicazione e, così, la sua mancanza rappresenta una causa di inesistenza della proposta negoziale.
Orbene, ripercorsa per grandi linee la ratio sottesa alla disciplina dei contratti pubblici, e in particolar modo alle modalità di presentazione delle domande di partecipazione, il giudicante, avuto riguardo al caso sottoposto al suo vaglio, ha evidenziato come era la stessa lex specialis a prescrivere, a pena di esclusione, la formalità della sottoscrizione dell'offerta tecnica; non a caso, la lettera d’invito precisava che: "… saranno escluse dalla gara….le ditte concorrenti per le quali manchi, o risulti incompleta o irregolare, la documentazione richiesta…".
Siffatta clausola escludendi, del resto, è stata ritenuta pienamente conforme non solo al dettato normativo di cui all’art. 74, comma 1, D.Lgs. n. 163/2006, secondo cui le offerte devono contenere gli elementi prescritti dal bando, ma anche a quello contenuto nell’art. 46, comma 1-bis, del Codice dei contratti pubblici.
Quest’ultima disposizione, invero, prevede espressamente che: "La stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali”.
Alla stregua di tanto, il Collegio di Venezia, stante la mancata sottoscrizione da parte della ricorrente dell’offerta tecnica, ha accolto il ricorso incidentale promosso dalla controinteressata, aggiudicataria dell’appalto de quo, per l’effetto confermando, previa declaratoria di improcedibilità del ricorso principale, la legittimità dell’impugnato provvedimento (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Veneto, Sez. I, sentenza 13.02.2012 n. 226 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'onere della prova dell'ultimazione dei lavori entro la data utile per ottenere il condono grava sul richiedente la sanatoria.
Per conseguire il condono edilizio di un'opera abusiva deve sussistere il requisito principale di cui all'art. 39 della l. 724/1994, ossia l’ultimazione dei lavori (che, secondo la giurisprudenza, sulla base della formulazione dell'art. 3, l. 28.02.1985 n. 47, applicabile anche nella disciplina del condono del 1994 che la richiama, deve comprendere il completamento del rustico, la copertura, e le tamponature dei muri, con esclusione dei soli serramenti esterni, delle finiture o di quegli elementi che non impediscono la fruibilità dell’edificio).

Giova osservare che:
1) l'onere della prova dell'ultimazione dei lavori entro la data utile per ottenere il condono grava sul richiedente la sanatoria (Consiglio Stato, sez. IV, 02.02.2011 , n. 752), il quale, dagli atti versati in giudizio, non l’ha fornita e non l’ha neppure dimostrata nell’odierno giudizio, ove la questione è stata espressamente revocata in dubbio dalla parte ricorrente che ha offerto, a sua volta, conducenti elementi di fatto a riscontro della censura;
2) nell’atto di donazione del 06.11.1995 (in forza del quale il controinteressato, già proprietario del suolo, diviene proprietario del fabbricato ivi descritto) è contenuta, presumibilmente, la descrizione dell’edificio oggetto della domanda di sanatoria presentata anteriormente (in data 27.02.1995), risultando “a rustico composto da un piano seminterrato ed un piano terra di cui esistono solamente pilastri e solai di copertura di complessivi metri quadrati centoquaranta circa”; ne deriva una ulteriore conferma della mancanza del requisito principale di cui al menzionato art. 39 della l. 724/1994, ossia l’ultimazione dei lavori (che, secondo la giurisprudenza, sulla base della formulazione dell'art. 3, l. 28.02.1985 n. 47, applicabile anche nella disciplina del condono del 1994 che la richiama, deve comprendere il completamento del rustico, la copertura, e le tamponature dei muri, con esclusione dei soli serramenti esterni, delle finiture o di quegli elementi che non impediscono la fruibilità dell’edificio: cfr. Cassazione penale, sez. III, 12.08.1997, n. 9011; Cassazione penale, sez. III, 10.05.1999, n. 7545; TAR Trentino Alto Adige Trento, 05.11.2003, n. 390, ed altre) (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 13.02.2012 n. 149 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANelle condizioni di un lungo decorso di tempo, durante il quale il titolare di una edificazione abusiva rimane inerte (al pari dell’Amministrazione che non esercita i propri doverosi poteri di controllo dell’illecito), il privato sconta il rischio della sopravvenienza normativa e del conseguente mutamento del contesto urbanistico di riferimento in senso peggiorativo.
Invero, tale principio, oltre che sorretto da ovvie considerazioni logiche, scaturisce in maniera immediata e diretta proprio dal principio della “doppia conformità” che è predicato dall’art. 36 del DPR 380/2001 ai fini della regolarizzazione formale del fabbricato edificato sine titulo e che rende non sanabile quell’edificio che, in origine conforme allo strumento urbanistico, sia transitato, al modificare di quest’ultimo, in una condizione di illegittimità anche sostanziale per violazione delle norme di riferimento sopravvenute.

Si deve osservare che, nelle condizioni di un lungo decorso di tempo, durante il quale il titolare di una edificazione abusiva rimane inerte (al pari dell’Amministrazione che non esercita i propri doverosi poteri di controllo dell’illecito), il privato sconta il rischio della sopravvenienza normativa e del conseguente mutamento del contesto urbanistico di riferimento in senso peggiorativo.
Invero, tale principio, oltre che sorretto da ovvie considerazioni logiche, scaturisce in maniera immediata e diretta proprio dal principio della “doppia conformità” che è predicato dall’art. 36 del DPR 380/2001 ai fini della regolarizzazione formale del fabbricato edificato sine titulo e che rende non sanabile quell’edificio che, in origine conforme allo strumento urbanistico, sia transitato, al modificare di quest’ultimo, in una condizione di illegittimità anche sostanziale per violazione delle norme di riferimento sopravvenute (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 13.02.2012 n. 148 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per la Corte di Cassazione anche il cambio d'uso senza opere abusivo è reato, salvo tra categorie omogenee.
La sentenza 08.02.2012 n. 4943 della III Sez. penale della Corte di Cassazione, si occupa del cambio d'uso senza opere.
Scrive la Cassazione che la modificazione della destinazione d'uso di un immobile, anche senza opere, in contrasto con quanto previsto dagli strumenti urbanistici integra la fattispecie contravvenzionale di cui alla lettera a) dell'art. 44 del Dpr 380/2001.
Fa eccezione il caso in cui le modificazioni siano poste in essere tra categorie omogenee.
Nel caso in esame, un'area agricola era stata abusivamente destinata a campo di volo da parte di una associazione di appassionati (tratto da e link a http://venetoius.myblog.it).

CONDOMINIO: Vizi dell'immobile, colpe a metà. Se il difetto è evidente si presume la tolleranza dell'inquilino. La Cassazione sugli affitti: il proprietario è responsabile quando l'anomalia è occulta.
Locazioni: per i vizi dell'immobile responsabilità suddivisa tra proprietario e inquilino. Il locatore è infatti tenuto a garantire che l'immobile concesso in locazione sia idoneo all'uso pattuito ma il conduttore, di converso, deve prestare attenzione alla presenza di vizi evidenti che, se non immediatamente contestati, si presumono accettati e tollerati da quest'ultimo sulla base di una complessiva valutazione di convenienza dell'affare. Quanto sopra, tuttavia, non vale a sollevare da responsabilità il proprietario nel caso in questi cui abbia sottaciuto alla controparte la presenza di vizi occulti o non facilmente individuabili che rendano di fatto l'immobile inservibile all'utilizzo pattuito.
Lo ha chiarito la III Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 07.02.2012 n. 1694.
Nel caso concreto i titolari di una società che aveva preso in locazione alcuni locali da adibire a discoteca aveva portato in giudizio il proprietario dei medesimi per ottenere la risoluzione per inadempimento del relativo contratto e il risarcimento dei danni conseguenti, lamentando il mancato allacciamento dei servizi igienici alla rete fognaria condominiale servita da un depuratore.
In primo grado il tribunale aveva però respinto la domanda di parte attrice, perché nel contratto di locazione era stato espressamente previsto dalle parti che la società conduttrice avrebbe provveduto alla manutenzione, anche straordinaria, dei locali, con totale esonero da responsabilità del locatore. I giudici di primo grado, quindi, avevano implicitamente ritenuto che il mancato allacciamento degli impianti di scarico alla rete fognaria, vista anche la specifica pattuizione contenuta nel contratto di locazione, non poteva essere ritenuto un vizio occulto e non conoscibile con l'ordinaria diligenza da parte del conduttore.
Di diverso avviso, invece, si erano mostrati i giudici di appello successivamente aditi dalla società conduttrice, i quali avevano proprio puntato sulla non conoscenza e non conoscibilità del vizio in questione, ribaltando sul punto la decisione di primo grado. La Corte di appello aveva quindi accolto la domanda di risoluzione per inadempimento del contratto di locazione impugnato, respingendo però quella diretta a ottenere il risarcimento dei danni, non essendo stato provato alcunché in ordine al pregiudizio economico lamentato dalla società conduttrice.
I giudici di legittimità, nel riesaminare in punto di diritto la questione controversa, con la sentenza n. 1694 dello scorso 07.02.2012 hanno quindi confermato la sentenza della corte di appello in ordine alla responsabilità del locatore per il mancato allacciamento degli impianti sanitari dei locali alla rete fognaria condominiale. La terza sezione della Cassazione ha infatti ritenuto corretto il riferimento operato dalla società conduttrice all'art. 1578 del codice civile, che disciplina appunto le conseguenze dei vizi dai quali risulti affetto il bene concesso in locazione.
Secondo i supremi giudici un vizio quale quello denunciato dalla conduttrice deve ritenersi per sua stessa natura occulto, in quanto, essendo nozione di fatto di comune esperienza che i collegamenti fognari sono sotterranei, non si può certo rimproverare al conduttore la mancata conoscenza di una circostanza del genere.
---------------
La garanzia sulla manutenzione deve restare invariata.
Il locatore-proprietario di un immobile commerciale è tenuto non solo a consegnare al conduttore un locale in buono stato di manutenzione e a non occultare eventuali vizi dell'immobile, ma anche a vigilare e garantire che tale situazione rimanga invariata nel tempo, trattandosi di un obbligo strettamente connesso con quelli, già a suo carico, di riparazione e manutenzione dell'immobile locato. Vediamo allora di considerare i principali diritti e doveri del locatore e del conduttore in relazione alle condizioni di fatto dell'immobile concesso in locazione.
Obbligo di verifica e custodia anche delle parti condominiali. Il proprietario non può considerarsi dispensato dall'obbligo di vigilanza e di custodia anche delle parti comuni dell'edificio in cui si trova il locale affittato.
Sussiste, dunque, la responsabilità del locatore per i danni che il conduttore subisce a causa di un bene condominiale. Il locatore quindi è responsabile per i danni che il conduttore subisce a causa di danni al tetto, alla facciata ecc.. Così, ad esempio, è decisamente illecito il comportamento del locatore che, proprietario dell'intero stabile, si disinteressi di provvedere alla manutenzione del tetto, sino al punto di rendere inagibili i locali detenuti da un conduttore a causa di rilevanti infiltrazioni di acqua.
L'immobile concesso in locazione deve pertanto restare sempre perfettamente agibile, così da rendere legittima la pretesa del locatore di continuare a percepire regolarmente il corrispettivo pattuito per la locazione. Va peraltro precisato che al conduttore, nel caso in cui si verifichi una riduzione o una diminuzione nel godimento del bene imputabile a negligenza del locatore, non è consentito di sospendere il pagamento del canone di locazione o di ridurlo unilateralmente.
Denuncia dei vizi conoscibili. Il proprietario deve consegnare un immobile in buono stato, ma il conduttore, all'atto della stipula del contratto, deve controllare e denunciare i difetti dell'immobile conosciuti o facilmente riconoscibili (purché non occulti): in caso contrario deve ritenersi che il medesimo abbia implicitamente rinunciato a farli valere, accettando la cosa nello stato in cui risultava al momento della consegna, e non potrà pertanto chiedere la risoluzione del contratto o la riduzione del canone, né il risarcimento del danno.
Quanto sopra vale a maggior ragione se il conduttore, con apposita clausola, da un lato riconosca il locale commerciale idoneo all'uso pattuito, dall'altro esoneri il locatore da ogni eventuale inadempienza. In tal caso si deve ritenere che il conduttore fosse consapevole della necessità di interventi di manutenzione, ma abbia valutato il canone vantaggioso e per questo abbia concluso il contratto.
Lavori per adeguare il locale a una specifica attività commerciale. Spetta poi al conduttore verificare che il locale abbia quelle particolari caratteristiche necessarie per svolgervi l'attività che si ripromette di esercitarvi e per ottenere le necessarie autorizzazioni amministrative.
Quindi è sempre quest'ultimo a doversi preventivamente accertare che la sua attività sia compatibile con la struttura e con gli impianti dei locali visionati, pretendendo eventualmente dal locatore specifiche garanzie in proposito. In caso contrario, il conduttore che accetta il locale senza obiezioni si dovrà accollare l'onere delle spese di adeguamento dell'immobile locato.
Del resto, in via di principio, non è onere del locatore ottenere le necessarie autorizzazioni e, ove il conduttore non riesca a ottenerle, non è configurabile alcuna responsabilità per inadempimento in capo al proprietario, e ciò anche se la mancata concessione sia dipesa da caratteristiche proprie dell'immobile. Tuttavia, se il provvedimento amministrativo necessario per la destinazione d'uso convenuta sia stato definitivamente negato, al conduttore è generalmente riconosciuta la facoltà di chiedere la risoluzione del contratto (salvo particolari accordi).
Si deve inoltre sottolineare che le parti possono far gravare sul locatore sia la possibilità di apportare all'immobile modificazioni necessarie per potervi svolgere l'attività prevista (e così di installarvi dispositivi necessari da un punto di vista tecnico o giuridico) sia il fatto che esso presenti o sia in condizione di acquisire tutti i permessi richiesti dalla legge. Quanto sopra è possibile solo se nel contratto il proprietario si obblighi espressamente ad apportare al locale le modificazioni necessarie per potervi svolgere l'attività prevista e ottenere con certezza il rilascio delle autorizzazioni amministrative.
Vizi e difetti di gravi nature nel corso della locazione. Durante la locazione nell'immobile possono comparire vizi e difetti di grave natura, tali da diminuire in modo apprezzabile o, addirittura, far venire meno l'idoneità del locale a servire all'uso pattuito. In tal caso il conduttore non ha la possibilità di richiedere l'intervento del locatore per le necessarie riparazioni, né tanto meno può provvedervi direttamente: questi può però ottenere, a sua scelta, la risoluzione del contratto o la riduzione del canone, oltre al risarcimento del danno.
Infatti l'obbligo del locatore di effettuare le riparazioni necessarie a mantenere l'immobile in buono stato riguarda gli inconvenienti eliminabili nell'ambito delle opere di manutenzione, e, pertanto, non può essere invocato per rimuovere guasti o deterioramenti rilevanti (articolo ItaliaOggi sette del 27.02.2012).

ATTI AMMINISTRATIVIL’Ordine professionale può difendere in sede processuale gli interessi dei propri iscritti, avendo rappresentanza della categoria professionale in funzione della quale è costituito, sia relativamente a questioni inerenti la violazione delle norme poste a tutela della professione, sia per il perseguimento di vantaggi di natura strumentale riferibili alla medesima categoria.
Sussiste l’interesse della parte ricorrente all’impugnazione dell’avviso, ancorché in mancanza di una domanda di partecipazione alla selezione, sia per la natura della legittimazione a ricorrere dell’Ordine professionale, che lo abilita direttamente a proporre ricorso a tutela degli interessi rappresentati senza il collegamento con una domanda di partecipazione logicamente non ipotizzabile da parte dell’Ordine stesso, sia perché, a seguito della pronuncia dell’Adunanza Plenaria nr. 4/2011, si deve ritenere che la legittimazione ad impugnare un bando per contestare una clausola pacificamente escludente sussiste “a priori”, senza necessità di radicare l’interesse processuale in una domanda di partecipazione, la cui sicura reiezione in forza della clausola escludente risolverebbe la sua presentazione in una mera formalità.

Va ritenuta la sussistenza della legittimazione attiva in capo alla odierna ricorrente: per giurisprudenza pacifica, l’Ordine professionale può difendere in sede processuale gli interessi dei propri iscritti, avendo rappresentanza della categoria professionale in funzione della quale è costituito, sia relativamente a questioni inerenti la violazione delle norme poste a tutela della professione, sia per il perseguimento di vantaggi di natura strumentale riferibili alla medesima categoria (TAR Lazio, Roma, II, 22.09.2005, n. 7307, Consiglio di Stato, V, 07.03.2001, nr. 1339, cui condivisibilmente si richiama la difesa di parte ricorrente; cfr. anche Consiglio Stato a. plen. 03.06.2011, n. 10 che riconosce la sussistenza della legittimazione dell’Ordine professionale ad agire contro procedure di evidenza pubblica ritenute lesive dell'interesse istituzionalizzato della categoria da esso rappresentata, anche nell'ipotesi in cui possa configurarsi un conflitto di interessi con partecipanti alla selezione appartenenti al medesimo Ordine).
Sussiste l’interesse della parte ricorrente all’impugnazione dell’avviso, ancorché in mancanza di una domanda di partecipazione alla selezione, sia per la natura della legittimazione a ricorrere dell’Ordine professionale, che lo abilita direttamente a proporre ricorso a tutela degli interessi rappresentati senza il collegamento con una domanda di partecipazione logicamente non ipotizzabile da parte dell’Ordine stesso, sia perché, a seguito della pronuncia dell’Adunanza Plenaria nr. 4/2011, si deve ritenere che la legittimazione ad impugnare un bando per contestare una clausola pacificamente escludente sussiste “a priori”, senza necessità di radicare l’interesse processuale in una domanda di partecipazione, la cui sicura reiezione in forza della clausola escludente risolverebbe la sua presentazione in una mera formalità (TAR Milano Lombardia sez. I, 09.06.2011, n. 1493; Consiglio di Stato ad. Plen. 07.04.2011, n. 4) (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 01.02.2012 n. 87 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTINel caso in cui un’impresa autonomamente in possesso di idonea qualificazione presenti una dichiarazione di subappalto non conforme a quanto richiesto dal disciplinare di gara, riservandosi la facoltà di subappaltare lavorazioni riconducibili a categorie per le quali la lex specialis di gara esclude la possibilità di un affidamento in subappalto, l’impresa stessa non può essere legittimamente esclusa dalla gara.
Invero, l'incompleta o erronea dichiarazione del concorrente relativa all'esercizio della facoltà di subappalto è suscettibile di comportare l'esclusione dello stesso dalla gara nel solo caso in cui questi risulti sfornito in proprio della qualificazione per le lavorazioni che ha dichiarato di voler subappaltare, determinando negli altri casi effetti unicamente in fase esecutiva, sotto il profilo dell'impossibilità di ricorrere al subappalto come dichiarato.
Tale soluzione appare in linea con il principio di tassatività delle ipotesi di esclusione, di recente ribadito dal legislatore (v. comma 1-bis dell’art. 46 del D.Lg.vo n. 163/2006).

... Considerato che la ricorrente risulta dotata di autonoma, piena, qualificazione per l’esecuzione dei lavori in questione e che il bando di gara non contiene specifica previsione di esclusione per il caso di dichiarazione di volontà di ricorrere a sub appalto, possibilità quest’ultima esclusa dal bando medesimo “in deroga a quanto stabilito dall’art. 37, comma 2, del D.Lg.vo n. 163/2006”;
Ritenuto di condividere l’orientamento giurisprudenziale in base al quale, nel caso in cui un’impresa autonomamente in possesso di idonea qualificazione presenti una dichiarazione di subappalto non conforme a quanto richiesto dal disciplinare di gara, riservandosi la facoltà di subappaltare lavorazioni riconducibili a categorie per le quali la lex specialis di gara esclude la possibilità di un affidamento in subappalto, l’impresa stessa non possa essere legittimamente esclusa dalla gara (C. S., IV, 30.10.2009, n. 6708);
- che, invero, l'incompleta o erronea dichiarazione del concorrente relativa all'esercizio della facoltà di subappalto è suscettibile di comportare l'esclusione dello stesso dalla gara nel solo caso in cui questi risulti sfornito in proprio della qualificazione per le lavorazioni che ha dichiarato di voler subappaltare, determinando negli altri casi effetti unicamente in fase esecutiva, sotto il profilo dell'impossibilità di ricorrere al subappalto come dichiarato;
- che tale soluzione appare in linea con il principio di tassatività delle ipotesi di esclusione, di recente ribadito dal legislatore (v. comma 1-bis dell’art. 46 del D.Lg.vo n. 163/2006) ... (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 27.01.2012 n. 81 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Edifici privi di collaudo, no al sequestro preventivo senza pericolo di crollo.
Secondo la Cassazione,
la mancanza del certificato di collaudo di un'opera in cemento armato è insufficiente a giustificare il sequestro preventivo in assenza di prova dell'instabilità dell'edificio.
Secondo la sentenza che può leggersi in calce,
la mancanza di certificato di collaudo, richiesta ai sensi dell'art. 67 D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (T.U. Edilizia) per tutte le opere in cemento armato o a struttura metallica, pur integrando la contravvenzione prevista all'art. 75 T.U.Ed., è insufficiente a giustificare il sequestro preventivo della costruzione se non v'è contestuale prova dell'instabilità dell'edificio, ossia prova concreta del pericolo per la pubblica incolumità.
Questa la vicenda oggetto del giudizio: circa nel 2001 vengono indagati quattro soggetti per l'avvio di lavori di edificazione immobiliare in assenza dei prescritti titoli abilitativi (art. 44, comma 1, lett. a), T.U.Ed.).
Nonostante durante le indagini preliminari per tale contravvenzione venissero apposti i sigilli all'immobile abusivo, i lavori edificatori venivano proseguiti ed ultimati dagli indagati che, successivamente, si trasferivano a vivere nella costruzione abusiva con le proprie famiglie, come accertato dalla P.G. nel 2009.
Poco dopo il sequestro preventivo dell'immobile abusivo, disposto nuovamente dal Giudice per le indagini preliminari a seguito degli accertamenti compiuti nel 2009, il pubblico ministero emetteva provvedimento di dissequestro, rilevando come la costruzione fosse stata ultimata in tempo tanto risalente da ritenere pienamente maturato il termine di prescrizione della contravvenzione prevista all'art. 44, comma 1, lett. a), T.U.Ed.
Tuttavia, poiché la costruzione veniva realizzata in cemento armato ed, essendo totalmente abusiva, non era mai stata sottoposta al collaudo statico prescritto dall'art. 67 T.U.Ed., il P.M. avviava le indagini per altro titolo di reato, ossia quello previsto all'art. 75 T.U.Ed., a norma del quale chi consente l'uso di costruzioni prima del rilascio del certificato di collaudo è punito con l'arresto fino ad un anno ovvero l'ammenda da 103 a 1032 €.
Il PM, quindi, chiedeva nuovamente il sequestro dell'immobile, ma la richiesta veniva rigettata tanto dal GIP quanto, in sede d'appello ex art. 322-bis c.p.p., dal Tribunale.
I Giudici di merito, infatti, hanno ritenuto insussistente il fumus boni iuris, poiché, qualificato il reato di cui all'art. 75 T.U.Ed. come reato a consumazione istantanea (ossia che viene commesso nel momento nel quale non viene presentata la richiesta di collaudo secondo il procedimento descritto all'art. 67 T.U.Ed.) e ad effetti permanenti (che si protraggono sino a quando il collaudo non venga effettivamente eseguito), l'ultimazione dei lavori in tempo risalente determinerebbe il decorso del termine di prescrizione. Rispetto al periculum in mora viene evidenziato, altresì, come il mero rischio sismico e vulcanico caratteristico della zona nella quale è stata realizzata la costruzione in cemento armato non collaudata, sia inidoneo a giustificare, in concreto, l'adozione della misura cautelare.
I Giudici di merito hanno, quindi, ritenuto necessaria la prova di un pericolo concreto per la pubblica incolumità per giustificare la misura, da desumere in base alle caratteristiche specifiche dell'immobile per il quale è richiesta l'adozione del provvedimento cautelare reale.
Presenta ricorso per Cassazione il Procuratore della Repubblica lamentando, essenzialmente, l'erronea applicazione della legge penale in ordine alla errata qualificazione giuridica del reato contestato, in particolare sottolineando come la contravvenzione prevista all'art. 75 T.U.Ed. sia un reato permanente tout court.
Condotta prevista e punita dalla norma incriminatrice, infatti, non è la mancata esecuzione del collaudo, bensì, il consentire l'utilizzo di un'opera in cemento armato prima del rilascio del prescritto certificato, ossia condotta ancora perdurante al momento della richiesta di di sequestro dell'immobile.
La Suprema Corte sposa, seppur in termini dubitativi (“anche se ci si muove nell'ottica interpretativa della Procura della Repubblica”), la qualificazione della contravvenzione quale reato permanente, rilevando come norma di analogo tenore letterale sia stata pacificamente ritenuta dalla giurisprudenza descrittiva di tale tipologia di reato. Il riferimento è all'abrogato art. 211 del R.D. 27.07.1934 (T.U. Leggi sanitarie) che, nella sua formulazione originaria (la norma è stata poi depenalizzata per effetto dell'art. 32 della l. 24.11.1989, n. 689), puniva il proprietario di un immobile che consentisse l'abitazione nello stesso in assenza dell'autorizzazione del podestà (poi certificato di abitabilità).
Tale norma incriminatrice, così come l'art. 75 T.U.Ed., descriverebbe, a dire della Suprema Corte, un reato permanente a condotta mista ovvero composta da un aspetto commissivo permanente, ossa l'utilizzazione dell'edificio, ed un aspetto ommissivo istantaneo, ossia il mancata richiesta dell'autorizzazione prescritta per legge (sul punto la sentenza richiama, tra le altre la Cass. Pen., Sez. III, 27.01.1998, n. 364, disponibile in DeJure).
Per l'effetto la prescrizione del reato contesta non decorrerebbe fintanto che l'edificio continui ad essere abitato pur in assenza dei certificati e/o delle autorizzazioni imperativamente richieste, dovendosi, quindi, attribuire valore dirimente, per la qualificazione giuridica del reato, all'aspetto commissivo permanente.
La Cassazione, tuttavia, non reputa tale aspetto sufficiente a superare la decisione adottata dai giudici di merito poiché, pur ritenendo potendosi ritenere sussistente il fumus boni iuris, una volta qualificato il reato contestato come permanente, la Procura avrebbe omesso di fornire elementi di prova idonei a dimostrare, nel caso di specie e non solo in astratto, il rischio per la pubblica incolumità connesso all'utilizzo dell'immobile abusivo in cemento armato non collaudato.
La mancanza di certificato di collaudo, richiesta ai sensi dell'art. 67 D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (T.U.Edilizia) per tutte le opere in cemento armato o a struttura metallica è, quindi, insufficiente a giustificare, in sé e per sé, il sequestro preventivo della costruzione realizzata, a meno che non venga contestualmente provata dell'instabilità dell'edificio, a dimostrazione della sussistenza di un concreto pericolo per la pubblica incolumità.
Il ricorso viene, quindi, rigettato (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione penale, sentenza 17.01.2012 n. 1411).

inizio home-page